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Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costituzionale* .

L’insegnamento dell’esperienza italiana

di Massimo Donini

SOMMARIO: 1.0. L’idea che la Costituzione abbia valore di ‘fondamento’, anziché di ‘limite’, per il diritto penale.
Un percorso giuspositivistico. 2.0. Le due ragioni storiche (o contingenti) che hanno reso possibile l’affermarsi di tale
indirizzo in Italia. 3.0. I caratteri peculiari dell’esperienza italiana: un modello teorico-pratico, prima ancora che
metodologico, e un’esperienza collettiva. 4.0. Il diverso ‘stile’ dei penalisti orientati alla Costituzione nel passaggio
dagli anni Settanta agli anni Novanta. 5.0. Dal diritto penale delle categorie e delle regole a quello dei princìpi. 6.0.
Bilancio positivo dei risultati sino agli anni Ottanta. Avanguardia politica e arretratezza sistematica. 7.0. Lo scetticismo
e la tiepidezza degli ultimi dieci anni e l’esigenza di una fondazione positiva e teorica nuova all’approccio
costituzionalistico. 8.0. La meteora dell’art. 129 del progetto di revisione costituzionale del 1997. 9.0. L’esigenza di un
controllo istituzionale più forte sulla politica criminale legislativa, fra democrazia penale e ruolo di concretizzazione dei
princìpi attraverso la Corte costituzionale.

1.0. L’idea che la Costituzione abbia valore di ‘fondamento’, anziché di ‘limite’, per il diritto penale.
Un percorso giuspositivistico.

L’approccio costituzionalistico al diritto penale è cosa ben diversa dall’idea che il diritto penale non
debba contrastare con la Costituzione. Ogni legge ordinaria, evidentemente, non può violare la
legge fondamentale che le è sovraordinata. Se l’esperienza italiana relativa ai rapporti fra diritto
penale e Costituzione si limitasse a questo dato, non meriterebbe forse una menzione particolare. La
sua peculiare caratteristica, invece, è stata, a partire dagli anni Settanta del XX secolo, di porsi come
un approccio dove la Costituzione, anziché mero limite, era da intendersi quale fondamento della
pena e del diritto penale1.
Non ci si è chiesti più, semplicemente e in negativo, quali tipi di incriminazione fossero
illegittimi, quali beni giuridici fossero esclusi dall’intervento penale, quali tecniche di tutela non
potessero essere adottate in forma penalistica, quali tipi di sanzioni non avessero più diritto di
cittadinanza nel jus criminale2. Tutte queste domande hanno certo continuato a trovare una risposta,
e molti studiosi le hanno coltivate come era necessario che fosse. Tuttavia, si è profilato un
interrogativo molto più radicale: se non sia possibile e anzi doveroso trovare nella Carta
costituzionale una sorta di sintesi a priori 3, un modello di intervento penale che si impone per così
1
* Il testo riproduce quello dell’intervento tenuto all’Università di Salamanca, nell’ambito degli VIII Cursos de
Postgrado en Derecho, nel gennaio 2001.
?
BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss.Dig.It., Utet, Torino, 1973, passim; per un’ampia ricostruzione
della teoria del reato muovendo dai fini della pena (quelli, almeno, ritenuti desumibili dalla Costituzione italiana),
MOCCIA, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica , ESI, Napoli, 1992; per
una riflessione di metodo sull’approccio costituzionalistico italiano, DONINI, Teoria del reato. Una introduzione,
Cedam, Padova, 1996, 5 ss., 18 ss.; ID., voce Teoria del reato, in Dig.Disc.Pen., vol. XIV, Utet, Torino, 1999, 226 ss.;
ID., Dogmatica penale e politica criminale a orientamento costituzionalistico. Conoscenza e controllo critico delle
scelte di criminalizzazione, in Dei delitti e delle pene, n. 3/1998, 37 ss.
2
Suggerisce, ancora oggi, di limitarsi a questo tipo di approccio “negativo”, W. WOHLERS, Deliktstypen des
Präventionsstrafrechts- zur Dogmatik “moderner” Gafährdungsdelikte, Duncker & Humblot, Berlin, 2000, 262 ss.,
279, in un contributo di particolare interesse per l’attenzione mirata al collaudo delle teorie del bene giuridico rispetto ai
modelli del diritto penale “moderno”, “complementare”, ecc.
3
L’espressione in BRICOLA, voce Teoria, cit., 24
dire dall’esterno, o dall’alto, al Parlamento. Un programma (più o meno dettagliato) che vincoli il
legislatore sia quanto ai fini che quanto agli strumenti di tutela. Da tale programma, o modello, poi,
sarà possibile desumere anche i limiti negativi all’intervento penale: all’interno, quindi, di un
disegno.
Secondo questa prospettiva molto più impegnativa, la Costituzione sarebbe il fondamento di
tutto il diritto penale. Riprendendo alcuni tratti qualificanti della ricostruzione di Bricola, nella
Costituzione stessa sarebbe possibile rinvenire una tavola dei valori e una gerarchia di beni ai quali
il legislatore dovrebbe attingere per costruire gli interessi penalmente tutelabili.
Solo i beni di rilevanza costituzionale potrebbero comportare il sacrificio (necessario o
eventuale) della libertà personale che il diritto penale reca con sé 4. Beni giuridici di nuova
formazione, o di rilevanza costituzionale indiretta, sarebbero sì tutelabili, ma solo se presupposto
necessario per la tutela di beni di (primaria) rilevanza costituzionale. Bandite le presunzioni assolute
di pericolo e le fattispecie di pericolo astratto in genere, nonché le contravvenzioni, la Costituzione
(non semplicemente la civiltà del diritto) imporrebbe altresì, fra l’altro, una riserva assoluta di legge
e quindi l’esclusione di fonti secondarie (salva specifica approvazione parlamentare), il rispetto del
principio di tassatività delle norme penali, l’affermazione cogente del principio di colpevolezza, la
finalizzazione della pena, in una dimensione solidarista, a scopi di rieducazione/risocializzazione.
Sotto il profilo della costruzione delle norme incriminatrici, infine, tutti i reati dovrebbero essere
riscritti in modo che i rispettivi oggetti giuridici di tutela rispecchino il programma di protezione dei
beni di rilevanza costituzionale (per es. non la “fede pubblica” quale bene tutelato nei reati di falso,
ma la “certezza della prova”, non il “prestigio della pubblica amministrazione”, ma la sua
“imparzialità”, ovvero il “buon andamento” della sua attività, ecc.).
Secondo letture successive, più avanzate del principio di extrema ratio, inoltre, il legislatore
sarebbe vincolato a predisporre verifiche di tutela extrapenale, o comunque a saggiare l’inutilità o
l’impossibilità di tecniche di tutela extrapenali, prima di introdurre nuove incriminazioni: in tal
modo verrebbe assicurato il rispetto del principio di sussidiarietà, anch’esso di rilevanza
costituzionale5.
Questo tipo di programma, è subito il caso di dirlo, avrebbe, stando alle argomentazioni di
coloro che lo hanno (in tutto o in parte) elaborato, un fondamento strettamente giuspositivistico.
Dove manchi una Costituzione che consenta di giustificare positivamente questi vincoli, tale
programma resta affidato solo ad argomenti di razionalità culturale, senza la “forza di legge”
propria delle norme giuridiche, e di quelle costituzionali in particolare. Si capisce che è da quella
razionalità pregiuridica che il progetto trae la sua forza ideologica e la sua lungimiranza politica:
non dall’essere derivato da un qualche comma6. Ma la sua base epistemologica è stata presentata ed
«argomentata» (dai commi degli articoli della Costituzione) come strettamente positiva.
Il primo problema (in ordine cronologico) di questo programma, in effetti, è stato quello di
persuadere i giuristi che era un programma fondato sul diritto positivo, un programma realmente
imposto dalla Costituzione vigente (innanzitutto) in Italia, dove è stato elaborato e dove ha
conosciuto i maggiori successi.
Quando pure si sia superato questo primo scoglio, il secondo problema che un simile modello
presenta per uno straniero, è la sua difficile esportabilità: chi non possiede il medesimo testo
costituzionale, non può argomentare allo stesso modo, ed è attratto più facilmente da modelli di
razionalità giuridica elaborati fondandosi non su un testo scritto, ma su basi culturali, politico-
filosofiche, ecc..
Il terzo problema, infine, è quello probabilmente più decisivo di tutti: la persuasività intrinseca
di un modello di diritto penale a base costituzionale così “forte” e in qualche modo “chiuso”, la
4
BRICOLA, voce Teoria, cit., 14 ss.
5
BRICOLA, Carattere sussidiario del diritto penale e oggetto della tutela, in Studi Delitala, vol. I, Giuffrè, Milano,
1984, 107 ss., 117 s., 133; PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale: profili politico-criminali, in Studi
Nuvolone, vol. I, Giuffrè, Milano, 1991, 395 ss.
6
Per una “obiezione” di questo tipo cfr. DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Giuffrè, Milano,
1991, 162-168.

2
praticabilità del disegno ideologico di fondo, relativo alla selezione dei beni penalmente tutelabili e
all’individuazione di tecniche di tutela specificamente penalistiche (il pericolo concreto e la lesione)
e di tecniche sicuramente non penalistiche (il pericolo astratto, illeciti a struttura contravvenzionale,
ecc.).
Vediamo di articolare alcune riflessioni (anche se in diverso ordine di trattazione) su tutti e tre
questi aspetti.

2.0 Le due ragioni storiche (o contingenti) che hanno reso possibile l’affermarsi di tale
indirizzo in Italia.

L’idea che la Costituzione debba rappresentare non il limite, ma il fondamento e il programma del
diritto penale ordinario, si è affermata storicamente in Italia (pur senza rappresentare mai
un’opinione incontrastata nella prassi e nell’ideologia istituzionale della magistratura) per due
ragioni principali.
La prima ragione è che quando quel programma è stato elaborato, il legislatore repubblicano
non aveva ancora provveduto a una riforma generale del codice Rocco del 1930, ed era già in forte
ritardo rispetto a tale programma. Ancora oggi, del resto, conosciamo in Italia solo riforme parziali
del Codice, interventi a macchia di leopardo7. Il codice del 1930, in larga misura, non è più quello
originario, e del resto ha vissuto la maggior parte della sua esistenza sotto la Repubblica, anziché
sotto il fascismo. Restano tuttavia, soprattutto nella parte speciale, esigenze impellenti di una
revisione complessiva di tutta la tavola dei valori del codice. Nella parte generale, poi, il sistema
sanzionatorio, insieme ad alcuni istituti riguardanti l’attuazione dei principi di legalità, tassatività,
riserva di legge, colpevolezza, funzione rieducativa della pena, non possono restare come sono stati
scritti e pensati nel 1930. Lo stesso aggiornamento linguistico e scientifico del codice è un compito
al quale il legislatore contemporaneo non può più sottrarsi. Ma attualmente proseguono, fra
l’intermittenza e la debolezza dei governi, solo nuove commissioni che elaborano sempre progetti di
riforma, parziali o totali, regolarmente bruciati dall’avvicendarsi delle stagioni politiche8.
In questa situazione, dunque, è logico che la scienza penale italiana abbia affidato le sue
speranze a un meccanismo istituzionale più forte di quello legislativo: il controllo di costituzionalità
delle leggi. La sfiducia nel Parlamento ha quindi sorretto il movimento di pensiero che ha puntato
sulla Costituzione e sulla Corte costituzionale per imporre al legislatore dall’alto le riforme
indispensabili.
La seconda ragione del successo di quel programma è strettamente collegata alla stessa
configurazione della Costituzione italiana: un testo di ottima fattura, che ha consentito di
argomentare in modo effettivamente giuspositivistico molte soluzioni altrimenti affidate ai principi
della civiltà del diritto, dotati di quella forza della ragione che non possiede ancora la ragione della
forza di legge.
Entrambe queste condizioni storiche non si sono affatto riprodotte in altri Paesi: o perché
altrove è intervenuta molto prima e per tempo la riforma codicistica, oppure perché non era
comunque facile rinvenire nei documenti costituzionali appigli argomentativi ed ermeneutici
sufficientemente stringenti, oppure perché, in ogni modo, la tradizione di pensiero alla quale ci si
richiamava era tradizionalmente meno legata a premesse strettamente giuspositivistiche.

7
VASSALLI, Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Prospettive di riforma del
codice penale e valori costituzionali, Giuffrè, Milano, 1996, 5 ss.; INSOLERA, Progetti di riforma del codice Rocco: il
volto attuale del sistema penale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, 2 ed., a cura di INSOLERA,
MAZZACUVA, PAVARINI, ZANOTTI, Giappichelli, Torino, 2000, 31 ss.
8
Sulle condizioni politiche e spirituali della ricodificazione in Italia, oggi, cfr. DONINI , La riforma della legislazione
penale complementare: il suo significato «costituente» per la riforma del codice, in ID., a cura di, La riforma della
legislazione penale complementare. Studi di diritto comparato, Cedam, Padova, 2000, 8 ss.

3
3.0. I caratteri peculiari dell’esperienza italiana: un modello teorico-pratico, prima ancora
che metodologico, e un’esperienza collettiva.

Una caratteristica saliente dell’esperienza italiana nell’approccio alla fondazione costituzionale del
diritto penale, è stata la prevalenza della prassi ermeneutica rispetto alla teorizzazione
metodologica.
Non si è passato molto tempo a interrogarsi intorno alla correttezza metodologica di certe
argomentazioni: le si è immediatamente adottate e sperimentate.
Come accade rispetto ad altri tipi di esperienze giuridiche, dove la prassi con poca teoria è
meglio di molta teoria senza prassi, questo atteggiamento ha avuto un sicuro punto a suo favore.
Dopo che aveva cominciato a funzionare la Corte costituzionale, nel 1956, non aveva più senso
continuare a interrogarsi se le norme costituzionali avessero valore immediatamente precettivo,
oppure meramente programmatico – un quesito che aveva tormentato il dibattito fra il 1947 e il
19569 – perché ormai era venuto il tempo di applicare la Costituzione mediante decisioni di un
organo che era legittimato a promuoverne l’attuazione. Il movimento per l’attuazione della
Costituzione, dunque, ha disegnato un modello per il legislatore, e si è in parte sostituito a
quest’ultimo, approfittando della sua lunga e colpevole latitanza.
Non si è trattato, peraltro, dell’iniziativa di pochi giuristi (anche se alcuni hanno avuto un
ruolo di leadership), e non ha visto polemiche sibilline prive di rilevanza pratica come quelle che
dividono i teorici su molte questioni di dogmatica.
L’approccio costituzionalistico si è interessato di questioni di sostanza ed è stato
un’esperienza collettiva, di più generazioni di giuristi10.
Senza poterne qui ricostruire la storia 11, è comunque possibile tracciare due fasi, o due stadi,
che corrispondono all’elaborazione di principi di carattere più formale (legalità, riserva di legge,
tassatività, ecc.) oppure di carattere più sostanziale (colpevolezza, offensività, sussidiarietà,
effettività, proporzione e ragionevolezza, ecc.).
La prima fase si è sviluppata soprattutto sino a tutti gli anni Sessanta (pur avendo avuto
contributi importanti anche dopo). Dagli anni Settanta in poi, invece, è cominciato un movimento
molto più impegnato di elaborazione di principi di natura sostanziale, riguardanti la stessa politica
criminale del legislatore, la determinazione dei criteri di legittimazione del contenuto positivo delle
incriminazioni e dei criteri di imputazione.
Questa seconda fase è ben lontana dall’essere conclusa e ha richiesto, come subito vedremo,
l’affinarsi di un diverso stile di pensiero e di argomentazione.

4.0. Il diverso ‘stile’ dei penalisti orientati alla Costituzione nel passaggio dagli anni
Settanta agli anni Novanta.

Con l’estendersi dell’attenzione dai principi di carattere più garantistico-formale ai principi di


natura prevalentemente sostanziale12, è mutato anche lo stile argomentativo dei penalisti.
9
In merito a questa letteratura e problematica ormai “storiche”, fra i tanti, AZZARITI, Problemi attuali di diritto
costituzionale, Giuffrè, Milano, 1951, 95 ss.; BALLADORE PALLIERI, La Costituzione italiana nel decorso
quinquennio, in Il Foro padano, 1954, 29 ss. (dell’estratto); CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di
principio, Giuffrè, Milano, 1952, 27 ss.; CALAMANDREI, La Costituzione e le leggi per attuarla (1955), Giuffrè,
Milano, 1999, 25 ss.
10
Su tali aspetti di quest’esperienza collettiva cfr. DONINI, voce Teoria del reato, cit., 227 ss.
11
Manca a tutt’oggi, un lavoro di ricostruzione storica dell’esperienza costituzionalistica italiana in materia penale. Una
lacuna che dovrebbe essere finalmente colmata in chiave storiografica, appunto, prima che dogmatica o ideologica.
12
La distinzione, si capisce, è relativa: il rispetto della legalità, del divieto di retroattività delle leggi incriminatrici, del
divieto di analogia, ecc., non assicura valori meramente formali, ma i diritti fondamentali dell’imputato. Tali principi,
peraltro, non riguardano se non indirettamente il “contenuto” delle leggi, ma pongono limiti ai poteri dello Stato diversi

4
Prevaleva negli anni Cinquanta e Sessanta un approccio più esegetico, una dogmatica
fondata sull’esegesi che, molto sperimentata sul testo del codice, era stata applicata anche al testo
della Costituzione13. Era uno stile del tutto confacente alle premesse giuspositivistiche del metodo a
quel tempo seguito, che non intendeva ancora “rompere” apertamente con la tradizione tecnico-
giuridica imperante. Ma il fatto di operare con un documento dove erano contenute norme-valore,
anziché solo regole tecniche contenenti discipline dettagliate, rischiava di compromettere la
possibilità di restare fedeli a uno stile tanto logico e tecnico.
In effetti, lo stile argomentativo dell’approccio costituzionalistico ha conosciuto una
trasformazione via via che l’attenzione degli interpreti si è spostata verso le tematiche del bene
giuridico, del criterio di proporzione fra i beni, della colpevolezza, della sussidiarietà e del controllo
di ragionevolezza, per finire con le verifiche sull’effettività e la razionalità delle scelte di
criminalizzazione.
Dalle argomentazioni a contrario, dai vincoli dell’interpretazione sistematica della
Costituzione sino alle stringenti deduzioni fra i commi di singole disposizioni, ci si è avviati verso
una più spiccata interpretazione mediante i valori e il loro bilanciamento e da ultimo l’attenzione
metodologica per una razionalità rispetto ai valori e allo scopo (Zweck- e Wert-rationalität) si è
modificata in varie letture più realisticamente orientate alle conseguenze (Folgenorientierung), e
quindi a criteri di output e di verifica empirica dei programmi legislativi. Non si è ancora ben
percepito, a mio avviso, quanto sia diversa una metodologia fondata sull’idea dello scopo e sui
valori da una metodologia orientata in senso pragmatico o empirico alle conseguenze, ai risultati,
alle verifiche statistiche, economiche, ecc.
Negli ultimi anni, come ancora si dirà, il movimento costituzionalistico ha anche vissuto un
periodo di appannamento, per non dire di crisi e di sfiducia, manifestatosi nella grande tiepidezza
con la quale sono state accolte alcune significative proposte di revisione della Costituzione in
materia penale, nel progetto del 1997 poi rimasto inattuato, e di cui ancora diremo (infra, § 8).
E’ d’altro canto sintomatico che, mentre gli Autori che hanno fondato o sviluppato
l’approccio costituzionalistico negli anni Sessanta e Settanta si sono inventati (mutuandolo dal
metodo tradizionale tecnico-giuridico) uno stile ermeneutico fondato sul testo della Costituzione, i
penalisti che nei tempi più recenti hanno cercato di riaffermare l’importanza dell’approccio
costituzionalistico al diritto penale, si sono affidati soprattutto alle sentenze della Corte 14, che hanno
spesso preso il posto di una Costituzione la quale, da sola, appare ormai poco loquace.
Anche l’opera più articolata e compiuta la quale, dopo i lavori di Bricola, ha avuto la
maggior risonanza, in favore del “minimalismo penale” a base (anche) costituzionale, vale a dire
quella di Luigi Ferrajoli15, segue percorsi di lettura non esegetico-giuspositivistici, ma di tipo più
spiccatamente filosofico, e le ragioni del suo successo sul piano, più che dei progetti reali, degli
slogan, risiedono nel fatto che la proposta di Ferrajoli, la quale non contiene un vero programma di
codice, ma solo alcune idee-guida generali, non sempre confrontate con la migliore dogmatica
penale degli anni Ottanta e Novanta (ma con quella che risale dagli anni Settanta all’indietro), di
fatto sembra conciliarsi con le uniche preoccupazioni effettive dei governanti italiani: adottare
misure che riducano il numero dei processi. Poiché, infatti, il minimalismo penale si presenta come
una ricetta di tipo sostanziale la quale, tuttavia, farebbe molto bene anche al processo di deflazione
processuale (pochi reati = pochi processi), è un programma generico che, a livello di immagine, ben
si concilia con quello scopo concreto. Ma sul piano delle scelte culturali di fondo, e della politica

dal potere legislativo. La distinzione è fatta propria, per es., anche da PALAZZO, Introduzione ai princìpi del diritto
penale, Giappichelli, Torino, 1999, 120.
13
Su questo stile ermeneutico cfr. quanto osservato in DONINI, Dogmatica penale e politica criminale, cit., 60-63; ID.,
voce Teoria del reato, cit., 226-230.
14
Esemplari MARINUCCI/DOLCINI, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Riv.it.dir.proc.pen., 1994, 333 ss.
15
In numerosissimi scritti, a partire da FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari,
1989. Per una rassegna di tali scritti successivi dell’A. sul tema, cfr. lo stesso FERRAJOLI, Sul diritto penale minimo
(risposta a Giorgio Marinucci e a Emilio Dolcini), in Foro it., 2000, V, 125 s., nota 5

5
criminale effettiva, ci sono degli abissi fra i progetti che vengono elaborati al Ministero della
Giustizia, rispetto alle impostazioni del minimalismo penale.

5.0. Dal diritto penale delle categorie e delle regole a quello dei princìpi.

Una consapevolezza ermeneutica più avanzata del testo costituzionale si fonda su una adeguata
valorizzazione, anche in campo penale, della differenza fra categorie, princìpi e regole.
Il diritto penale tradizionale, noto dall’età romanistica e quindi medievale in poi, è un diritto
penale delle categorie, vale a dire incentrato sulle nozioni (di parte generale) di pena, reo, azione,
dolo, colpa, danno, torto (offesa/iniuria), imputabilità e imputazione, delitti aggravati dall’evento,
circostanze (e gradi), tentativo, crimine, delitto, mala in se, mala quia prohibita, ecc.
A questo diritto penale che, si noti bene, rimane insostituibile in quanto offre le nozioni
linguistiche basilari del linguaggio e della scienza penale, manca ancora una adeguata dimensione
critica e programmatica, quale verrà acquisita solo dopo l’Illuminismo. Con l’età illuministica
l’intervento penale non si giustifica più da sé e ha ormai bisogno di verifiche riguardanti la sua
stessa legittimazione. Nasce da ciò il diritto penale dei princìpi, vale a dire la costruzione politico-
razionale prima, e giuridico-costituzionale poi, di una serie di valori e di norme-garanzia che
sottopongono il diritto penale a un controllo critico di legittimità.
Il diritto penale dei principi, tuttavia, è solo in parte un diritto fatto di regole in senso
tecnico. Varie norme costituzionali o recepite in Carte internazionali dei diritti, disciplinano in
modo abbastanza preciso procedure, limiti, divieti e obblighi, dello Stato e dei cittadini. Ma varie
altre disposizioni, in quanto recepite in quelle Carte, anche se sono “norme” giuridiche anch’esse, e
non meri valori culturali o politici, tuttavia non disciplinano fattispecie determinate in esse
sussumibili: restano indicazioni di valore che pongono obblighi “di massima” per la costruzione
delle regole, molto dipendenti da scelte valutative, che tuttavia non possono essere attuate senza le
regole stesse. Sono norme-principio che possono venire attuate (a livello legislativo) in modo assai
vario: sì che non pare possibile, se non a una mente autoritaria, «dedurre» da quelle norme un
articolato, un codice, richiedendosi invece molte mediazioni (rispetto ad altri principi contrapposti e
da bilanciare fra loro) dentro alle quali opera il pluralismo politico-istituzionale16.
Mentre quindi le regole sono molto più determinate e tassative, circoscritte a fattispecie
particolari, i principi conoscono registri più flessibili, e si possono attuare in modo massimalista o
minimalista. Di qui la possibilità che si evolvano storicamente più delle regole e che una legge,
attuando solo in parte il programma contenuto nel principio, non sia ancora in contrasto con esso,
ma solo con una lettura “massimalista” del principio stesso, la quale non si è peraltro ancora
storicamente affermata.
Ecco, la stagione costituzionalistica italiana, dagli anni Settanta in poi, non ha sempre
tenuto presente la distinzione fra principi e regole, e ha considerato le norme-principio come se
fossero disposizioni tassative e determinate implicanti soluzioni legislative univoche e indiscutibili.
Anche all’interno delle stesse norme-principio, poi, ha mancato del tutto di distinguere fra principi
di politica criminale che presentano un carattere argomentativo o di indirizzo (per es. extrema ratio
o sussidiarietà) e principi aventi una ‘forza di legge’ più dimostrativa (per es. principio di riserva di
legge, di colpevolezza, di tassatività, ecc.), tali da poter essere utilizzati autonomamente dalla Corte
costituzionale, da soli e senza l’ausilio di altre norme della Costituzione per caducare le leggi con
essi contrastanti17.
16
Il tema meriterebbe un approfondimento che non posso affrontare in questa sede, e che non è stato peraltro
adeguatamente tematizzato dai penalisti. Sia comunque consentito rinviare a una mia monografia in corso di
ultimazione: DONINI, Democrazia penale. L’impatto del pluralismo su una cultura aristocratica, di prossima
pubblicazione.
17
Per la distinzione fra principi aventi una forza di legge dimostrativa, da quelli aventi carattere più argomentativo o di
indirizzo politico (pur essendo in entrambi i casi riconducibili a norme costituzionali, e quindi principi giuridici, non
meramente politico-filosofici), cfr. VASSALLI, I principii generali di diritto nell’esperienza penalistica, in

6
Ma se si prescinde da questi limiti o eccessi solo oggi più evidenti, la spinta riformista insita in
quel movimento ha prodotto grandi risultati, in parte tradotti appunto in “regole” (leggi ordinarie),
in parte ancora solo culturali o politici e bisognosi di un’attuazione legislativa, quando non anche di
una riforma della stessa Costituzione.

6.0. Bilancio positivo dei risultati sino agli anni Ottanta. Avanguardia politica e arretratezza
sistematica.

Devo quindi ribadire quanto già affermato in altra sede, e cioè che il bilancio dell’approccio
costituzionalistico mi pare largamente positivo rispetto ad alcuni eccessi e limiti culturali o politici
della sua storia meno recente18.
Fra questi risultati si possono annoverare sia l’elaborazione di principi di garanzia di
carattere dimostrativo (e non di mero indirizzo politico) e sia anche l’effettivo stimolo all’attuazione
di questi principi attraverso una copiosa rilettura critica di leggi ordinarie che ha trovato sviluppo
autonomo in una giurisprudenza molto ricca della Corte costituzionale. Nell’ambito dell’attuazione
dei predetti principi, si può menzionare:
1) l’aver assicurato che, dentro la previsione costituzionale del principio di legalità e del divieto di
retroattività delle norme penali incriminatrici (art. 25 cpv. Cost. it.), siano ricompresi anche il
principio di riserva (tendenzialmente assoluta) di legge e il principio di tassatività o sufficiente
determinatezza;
2) l’aver costruito, accanto al principio di responsabilità per fatto proprio, anche il principio di
responsabilità per fatto proprio colpevole, o principio di colpevolezza (art. 27, comma 1, Cost.);
3) l’aver elaborato anche in materia penale il principio costituzionale di ragionevolezza e, come
corollario del principio di eguaglianza, quello di proporzione (art. 3, comma 1, Cost.);
4) l’aver arricchito il principio (espressamente previsto dalla Costituzione) della tendenza
rieducativa della pena, mediante il richiamo all’art. 3 cpv. Cost. (eguaglianza sostanziale), sì da
riempirlo di istanze di solidarietà sociale che lo strutturano come principio di risocializzazione;
5) l’aver costruito il principio di offensività, o di necessaria lesività del reato, come principio di
rango costituzionale, avente (attualmente) una dimensione che si colloca a metà fra i principi
argomentativi e quelli dimostrativi, rendendolo quindi suscettibile di un’evoluzione futura tale
da assicurare alla Corte uno strumento tecnico più forte e utile per realizzare un controllo di
legittimità sostanziale sulla politica criminale del Parlamento.
Di tutti questi principi è possibile trovare una trattazione, talora anche molto ampia, nella principale
manualistica19, e non è superfluo sottolineare il carattere giuridico-costituzionale di tali principi: la
loro attuazione ha condotto varie volte la Corte a dichiarare l’illegittimità di leggi ordinarie con essi
contrastanti (salvo il caso del principio di offensività, che è stato sempre valorizzato sotto il diverso
punto di vista del principio di ragionevolezza)20.
A essi si affiancano altri principi politico-costituzionali , talora definiti criteri informatori o
di indirizzo, e in certi casi “caratteri” del sistema penale (sussidiarietà, frammentarietà, laicità,
effettività, materialità, ecc.), il cui significato politico-criminale appare più accentuato rispetto al
vincolo giuridico-costituzionale: nel senso che il Parlamento appare vincolato più in termini di

Riv.it.dir.proc.pen., 1991, 699 ss., 704 ss.; DONINI, Teoria del reato, cit., 25 ss.; ID., voce Teoria, cit., 234-236, via via
con altri ragguagli.
18
Sul punto v. anche PALAZZO, Introduzione ai princìpi, cit., 142-145.
19
Particolarmente sviluppati questi profili nei manuali di F. MANTOVANI, FIANDACA/MUSCO,
MARINUCCI/DOLCINI; pressoché dedicato all’approfondimento dei principi costituzionali in materia penale il primo
volume di AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, a cura di INSOLERA, MAZZACUVA, PAVARINI,
ZANOTTI, cit.
20
Una panoramica interessante la si può leggere nel Codice penale costituzionale, a cura di P. LONGO, Cedam,
Padova, 1998.

7
lealtà politica a un programma costituzionale da essi ispirato, che non a limiti precisi posti da quei
principi, sì che i margini di discrezionalità politica sono così ampi da risultare normalmente non
sindacabili da parte della Corte costituzionale.
Al riguardo, peraltro, è doveroso ricordare che la Corte costituzionale italiana ha
chiaramente formulato, nella sent. n. 409/1989, l’assunto secondo il quale «il legislatore non è
sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici, ma deve, oltre che ancorare ogni
previsione di reato ad una reale dannosità sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto
del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale, l’ambito del penalmente
rilevante»21.
Ha quindi precisato la Corte, ben evidenziando gli ampi margini di discrezionalità politica
nella valutazione di quei principi, che «la non applicazione, da parte del legislatore ordinario, dei
criteri informatori di politica criminale (quale quello di «sussidiarietà» del diritto penale)
costituzionalmente sanciti, possono, infatti, essere censurati da questa Corte solo per violazione del
criterio di ragionevolezza e per indebita compressione del diritto fondamentale di libertà
costituzionalmente riconosciuta»22.
Poiché la Corte, nello stesso tempo, ha affermato la legittimità anche dei reati di pericolo
astratto-presunto, sempre salvo il limite della ragionevolezza 23, su questi binari è tracciato il futuro
degli spazi di controllo sulle scelte di criminalizzazione: le irrazionalità della politica criminale
sembrerebbero poter essere censurate solo nei limiti, appunto…della irragionevolezza.
Perché tutto non si riduca a una formula vuota e in certo senso tautologica, l’esigenza di
“riempire” di contenuto operativo il parametro della ragionevolezza, a questo punto, non è più
procrastinabile, se di vuole rendere operativo quello strumento giuridico di controllo che è il
sindacato di legittimità costituzionale.
Ogni discorso futuro riguardante l’approccio costituzionalistico relativo ai controlli di tipo
“sostanziale”, non può che (ri)cominciare di qui.
Nello stesso tempo, si deve comunque riconoscere che i risultati già così acquisiti sembrano
molto importanti, e sono ben più di un semplice punto di partenza. Vediamo di riprendere le fila di
questo discorso nei paragrafi che seguono.
C’è peraltro un altro ‘versante’ tradizionale del diritto penale come scienza, ed è
l’elaborazione dogmatica.
Al riguardo va riconosciuto che l’avanguardia politica e la sensibilità al diritto penale dei
principi non si sono sempre accompagnate, in Italia, a un corrispondente aggiornamento sul terreno
dogmatico e sistematico. Anzi, si potrebbe affermare che l’accentuazione del primo aspetto ha
recato con sé una frequente sottovalutazione dei profili dogmatico-sistematici, ritenendoli spesso
secondari.
Tutto al contrario dell’esperienza tedesca, dove gli splendori della dogmatica hanno spesso
fatto ombra alle questioni di sostanza, anche se dopo Roxin si è nuovamente riallacciato il dialogo
fra categorie sistematiche e scopi politico-criminali, il mos italicus si è caratterizzato per un
approccio molto tradizionalista in termini dogmatici, molto poco propenso a rinnovarsi sul terreno
delle categorie dell’analisi del reato. Si spiega così, per es., che la dogmatica prevalente sia sì in
pratica “presa in prestito” dall’elaborazione di lingua tedesca, ma senza un dialogo costante e molto
informato – come avviene, viceversa, in Spagna – perché accade che uno studioso si formi sugli
autori tedeschi da giovane, e dopo la prima o al massimo la seconda monografia non tenga più i
contatti, i quali sono poi via via sempre più allentati presso coloro che scrivono manuali o opere di
carattere generale. “Funzionano” in pratica i dialoghi parziali, relativi a opere circoscritte, mentre
quando si passa alle questioni più generali di impianto sistematico-dogmatico, ci si accontenta
sempre del sistema di Giacomo Delitala e Giuseppe Bettiol (un po’ aggiornato) o, per i bipartiti,

21
C. cost., 6 luglio-18 luglio 1989, n. 409, in Giur. Cost., 1989, 1916
22
Ibidem.
23
Per tutte C. cost., 10-11 luglio 1991, n. 333, in Giur. Cost., 1991, 2646 ss., spec. 2658-2661.

8
delle impostazioni elaborate da Francesco Antolisei, Pietro Nuvolone e Marcello Gallo fra gli anni
Quaranta e Cinquanta.
Presso vari studiosi è radicata, anche se non espressa pubblicamente, l’idea che la
sistematica e la dogmatica servano soprattutto per andare in cattedra, per scrivere opere giovanili di
ricerca o per aggiornare l’impianto estetico (non i profili più qualificanti) di un manuale. Per il
resto, avrebbero già “detto tutto” (o quasi) gli autori sopra nominati (e prima ancora, Manzini,
Rocco, Pessina, Carrara, ecc.), mentre le soluzioni concrete troverebbero al più presto migliore
attuazione utilizzando l’ermeneutica (esegesi, interpretazione logico-sistematica, storica,
teleologica, ecc.), i principi costituzionali o politico-criminali sopra ricordati, soprattutto se tradotti
in regole precise, anziché in categorie dogmatiche o in “schemi logico-sistematici” quali la tipicità o
l’antigiuridicità, l’imputazione oggettiva dell’evento o le scusanti.
E’ un atteggiamento che si colloca a metà strada tra il furore sistematico di matrice
germanica e il pragmatismo francese, prendendo contemporaneamente le distanze da entrambi
quegli “eccessi”.
Si spiega così, anche se non si giustifica, perché si sia praticamente interrotto, nelle opere
sistematiche di carattere generale, un vero dialogo della scienza penale italiana con la scienza
penale tedesca, ma anche spagnola di riflesso, da Welzel in poi.
La cultura penalistica tedesca, si noti bene, ha ufficialmente la più alta considerazione
dogmatica in Italia (ma ha anche vari detrattori “in privato”), e viene continuamente citata e anche
copiata sì da riconoscere (almeno) implicitamente che si tratta di un modello caratterizzato da una
leadership culturale24.
E’ un fatto però che la produzione germanica è almeno quintupla di quella italiana, sì che
per molti, almeno in passato allorché ci si poteva illudere (ma anche allora era appunto una
illusione) di leggere o farsi tradurre qualche singola opera senza conoscere il contesto culturale
complessivo, è stato molto comodo “abbreviare i tempi” di una ricerca su un singolo argomento
aggiornandosi sullo “stato della letteratura” attraverso un recentissimo e diligente studio in lingua
tedesca, così risparmiando molta fatica.
Ma rispetto agli impianti generali del sistema questa operazione-scorciatoia è divenuta
presto impraticabile, richiedendo sforzi veramente notevoli di aggiornamento continuo di carattere
sistematico generale che solo pochissimi studiosi, prima delle ultime generazioni, si sono
sobbarcati. Chi tuttavia, sotto quest’ultimo aspetto, ha cercato di riprendere quel dialogo, o ha fatto
successivamente marcia indietro ritornando a posizioni prewelzeliane (per es. Marinucci25), o ha
dialogato in modo parziale sul piano dogmatico-sistematico con il dibattito postwelzeliano che pure
ha recepito (per es. Fiandaca e Musco26 ,oppure M. Romano27 o Padovani28), salvo singoli indirizzi,
24
Per ciò che attiene, soprattutto, alle questioni dogmatico-sistematiche: v. quanto osservato più ampiamente in
DONINI, voce Teoria del reato, cit., 238 s. (e nota 83, ivi).
25
Così per es. il ‘passaggio’ dell’A. da Il reato come ‘azione’. Critica di un dogma, Giuffrè, Milano, 1971, a ID., Fatto
e scriminanti. Note dommatiche e politico-criminali, in Riv.it.dir.proc.pen., 1983, 1190 ss.
26
Il cui manuale realizza oggi una sorta di coniugio (metodologicamente aggiornato a una ermeneutica
costituzionalmente orientata e attenta ai casi e al diritto giurisprudenziale) tra il sistema di Delitala (E. Musco è allievo
di Stella, a sua volta allievo di Delitala) e l’idea postwelzeliana di una costruzione separata della condotta colposa e
dolosa, già presente in Pagliaro (maestro di Fiandaca): v. soprattutto la 3 ed. di FIANDACA/MUSCO, Diritto penale,
parte gen., Zanichelli, Bologna, 1995, dove è meglio sviluppata (rispetto alle edizioni precedenti) la teoria della doppia
posizione di dolo e colpa, nonché delle cause di esclusione della colpevolezza. Non ha trovato ulteriore sviluppo,
peraltro, il dialogo rispetto alle teorie del rischio penalmente rilevante e dell’imputazione oggettiva dell’evento
(problematicamente riportata sin dalla prima edizione), restando l’impostazione fedele a una costruzione rigidamente
“separata” delle condotte, senza il tentativo di individuare qualcosa di unitario nella trattazione del reato, qualcosa cioè
da anteporre all’analisi del fatto doloso e di quello colposo e omissivo.
27
Commentario sistematico del codice penale, vol. I, 2 ed., Giuffrè, Milano, 1995. Mario Romano è tra i più profondi
conoscitori della letteratura tedesca in Italia, dal cui influsso ha recepito le teorie dell’imputazione oggettiva
dell’evento, ma la sua concezione della colpevolezza, in relazione al fatto tipico, è sostanzialmente un aggiornamento di
quella di Delitala.
28
PADOVANI, Diritto penale, parte gen., 5 ed., Giuffrè, Milano, 1999, il cui ‘sistema’, con riferimento a quanto qui
interessa, è molto simile a quello di Romano, salvo che per una più accentuata individuazione delle cause di esclusione

9
individuali o di scuola, abbastanza minoritari nel panorama generale 29. E’ solo nell’ultimo decennio
che si notano i segnali, presso generazioni più giovani di studiosi, dell’esigenza di colmare la
frattura storica che si è creata: perché non si possono utilizzare le medesime categorie nominali,
passando da von Liszt a Jakobs, senza avere fatto realmente i conti con quanto è accaduto nel
frattempo30.
In Italia, per es., si utilizza molto il concetto di “fatto tipico” (accanto a quelli di elemento
oggettivo e soggettivo), ma in un’accezione spesso ancora belinghiana o mezgeriana; il dolo è per
molti solo colpevolezza, per alcuni sia tipicità e sia colpevolezza; la colpa è sia tipicità che
colpevolezza, ma questa duplice valenza sembra rappresentare una sorta di problema sistematico “a
sé”, nel senso che molti Autori si pongono il problema di una doppia misura della colpa, ma non
altrettanto il problema di una doppia posizione del dolo (che è visto come sola colpevolezza,
appunto); l’errore sul precetto penale si discute da molti se sia una scusante oppure una mera causa
di non punibilità, praticamente impersonale e oggettivizzata, e nella prassi, in effetti, suo processo
di oggettivizzazione è oggi estremo; le cause di giustificazione non conoscono (secondo la dottrina
prevalente) elementi soggettivi; l’errore sulle cause di giustificazione è solo una causa di esclusione
del dolo (non della colpevolezza dolosa), esattamente come l’errore sul fatto (posizione che si
comprenderebbe meglio in un’ottica bipartita tradizionale); la stessa colpevolezza è soprattutto una
colpevolezza impersonale per il fatto, con poco spazio per ipotesi scusanti personalizzate, nel senso
che ogni discorso sull’autore riguarda o l’imputabilità (che tuttavia non è inquadrata nell’ambito
della colpevolezza, ma nell’ambito di una distinta “teoria del reo”), oppure la commisurazione della
pena (che nella prassi segue percorsi di pene-tariffa, normalmente commisurate solo al fatto
impersonalmente inteso, e all’elemento soggettivo ‘fattuale’, sempre impersonalmente inteso: una
vera cultura della commisurazione della pena, per ragioni dipendenti soprattutto dai minimi edittali
troppo alti, non esiste in Italia, se non nei libri di qualche accademico, le cui elaborazioni sono del
tutto ignorate dalla prassi). Anche le ‘nuove’ categorie dell’illecito e della colpevolezza (in una
sistematica postwelzeliana) circolano soltanto come figure esoteriche, presso qualche studioso
allampanato, imbevuto di cultura tedesca.
Se si teme un eccesso di sottigliezze teoriche, o di precisione quale risultato di un dialogo
aggiornato con le elaborazioni tedesche e oggi anche spagnole contemporanee, se dunque si vuole
optare per un maggior pragmatismo, “fermando la storia dogmatica a Delitala”, devo confessare che
al posto di una “vecchia tripartizione” viene voglia di ritornare alle vecchie “bipartizioni” (elemento
oggettivo/elemento soggettivo), soprattutto quelle seguite da Marcello Gallo in Italia o da Arthur
Kaufmann in Germania, molto più vicine alla prassi, ai paesi di lingua inglese e francese e a uno
stile didattico semplificato, anziché complicato.
Non è questo, tuttavia, il mio orientamento personale (più vicino a tripartizioni
postwelzeliane, sia pur rivedute e corrette, dove l’illecito è categoria impersonale ma
soggettivamente qualificata, e dove dolo e colpa hanno una duplice dimensione, di tipicità e di
colpevolezza): ma devo confessare che se si dovesse tentare di (es)portare “in Europa” il meglio

della colpevolezza.
29
Ricordo in particolare gli orientamenti della scuola napoletana (da Santamaria a Fiore, Patalano, Stile, G.V. De
Francesco, Moccia, ecc.), oppure gli studi di Latagliata, nonché, nel quadro di impostazioni più soggettivistiche,
Morselli. Ricordo anche (v. quanto detto a proposito di Fiandaca e Musco nel testo) la posizione originalissima di
Antonio Pagliaro.
30
E’ un’esigenza di fondo che ho cercato di soddisfare nelle opere principali che ho dedicato a questioni di parte
generale e di sistematica. Ricordo fra le altre DONINI, Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, cit.; ID., Il
delitto contravvenzionale. ‘Culpa iuris’ e oggetto del dolo nei reati a condotta neutra, Giuffrè, Milano, 1993; ID.,
Teoria del reato. cit.; ID., voce Teoria del reato, cit., 221-298. In queste opere ho cercato esattamente di riallacciare il
dialogo con la Germania a livello di sistematica generale, sia pur mantenendo fermo, e allargando nel tempo, un
approccio comparato più largo, non attestato a senso unico sulle scelte culturali di matrice tedesca, e solo negli
ultimissimi anni vedo in Italia segnali di una ripresa della discussione nei termini dogmatici (postwelzeliani) più
moderni.

10
dell’Italia penalistica del secondo Novecento, esso andrebbe cercato nel diritto penale dei principi,
non in quello delle categorie sistematiche31.

7.0. Lo scetticismo e la tiepidezza degli ultimi dieci anni e l’esigenza di una fondazione positiva
e teorica nuova all’approccio costituzionalistico.

Nonostante si possa dire (§ prec.) che l’apporto della scienza penale italiana sia più spiccato nel
campo del diritto penale dei principi e quindi all’interno dell’approccio costituzionalistico, si deve
segnalare che, nell’ultimo decennio, sono cresciuti al riguardo gli atteggiamenti scettici, ormai
largamente dominanti.
Questi atteggiamenti, beninteso, ci sono sempre stati, e hanno riguardato l’idea che la
Costituzione possa o debba avere un valore “fondante” per il diritto penale, anziché rappresentarne
un mero “limite” negativo. Negli anni Settanta (e Ottanta), peraltro, le critiche alla tesi fondazionale
della Costituzione si incentravano in primo luogo su argomenti di diritto positivo: si contestava che
nella Carta costituzionale italiana del 1947 si potessero rinvenire norme positive sulle quali radicare
le tesi in oggetto. In particolare, si contestava che la Costituzione contenesse una base per ritenere il
legislatore vincolato alla tutela di una sorta di numerus clausus di beni giuridici32; si contestava che
dal fatto che la pena sacrifica la libertà si potesse argomentare contro l’incriminazione di condotte
di pericolo astratto, con lesione solo potenziale di beni di rilevanza non comparabile con quello
della libertà; si contestava perfino che esistesse un principio di offensività (dimostrativo o
argomentativo, non importa: in quegli anni la differenza non era avvertita) di rilevanza
costituzionale e che fossero (o potessero essere) illegittime le presunzioni assolute di offesa o di
pericolo da parte del legislatore ordinario.
Senonché, tutti hanno presto compreso che il problema maggiore non era quello del
fondamento positivo di quelle tesi, ma quello della loro fondazione razionale e politica (se si
concordava su quest’ultima, un consenso circa il fondamento positivo lo si sarebbe sempre potuto
trovare). Erano tesi politicamente accettabili, oppure no? Erano tesi tecnicamente percorribili,
oppure no? E in che misura? Questa la domanda decisiva.
Ecco, volendo fotografare l’attualità delle posizioni si può dire che la maggioranza dei
penalisti ritiene oggi che non sia possibile ancorare la tutela penale ai soli beni di rilevanza
costituzionale espressa, perché il catalogo dei beni presenti nella Costituzione del 1947 è
incompleto. Per quanto riguarda, invece, i beni di rilevanza costituzionale implicita, cioè quelli che
siano presupposto necessario per la tutela di beni di rilevanza costituzionale, si ritiene che troppi
interessi, anche molto secondari, potrebbero rientrare così nel novero di quelli legittimi, sì da
vanificare il significato selettivo della soluzione proposta.
Non solo. L’opinione prevalente, pur ritenendo le presunzioni assolute di pericolo
sindacabili sul piano della ragionevolezza, tuttavia conviene che i reati di pericolo astratto (salvo
verifiche caso per caso) siano legittimi e anzi in parte almeno opportuni, se relativi a situazioni dove
sono in gioco beni collettivi, superindividuali, oppure anche personali “rilevanti” 33, ammettendo
altresì che esistono molti reati di pericolo astratto più seri e gravi di quanto non siano certi reati di
evento (o di pericolo concreto), relativi a beni più secondari.
Soprattutto si ritiene che un sindacato sulla politica criminale del legislatore debba essere
politico, e non affidato alla Corte costituzionale: trattandosi di un tipo di sindacato necessariamente
31
Ho espresso lo stesso giudizio, in una forma per così dire più impegnata (e se si vuole meno diretta), in DONINI, voce
Teoria del reato, spec. 238-247.
32
In effetti, l’idea di un numero veramente «chiuso» di interessi penalmente tutelabili appare politicamente
insopportabile, non solo per una concezione democratica dello Stato.
33
Per es., sia pur con diversità di accenti, M ROMANO, Commentario sistematico2, vol. I, cit., Pre-Art. 39/115-117;
FIANDACA/MUSCO, Diritto penale3, parte gen., cit., 176 s.; PADOVANI, Diritto penale5, cit., 179; PAGLIARO,
Principi di diritto penale 7, parte gen., Giuffrè, Milano, 2000, 242; MARINUCCI/DOLCINI, Corso di diritto penale 2 ,
parte gen., Giuffrè, Milano, 1999, 420 ss.; PALAZZO, Introduzione ai princìpi, cit., 156 s.

11
politico, non sarebbe consentito attribuirlo a un organo, come la Corte costituzionale, privo di
legittimazione politica. In ogni caso, si rigetta l’idea che un testo scritto cinquant’anni fa possa
contenere una griglia e una gerarchia di valori vincolanti l’attualità, una sorta di blocco della storia
spirituale e politica, una teologia civile ostile a una democrazia e a una Costituzione “aperte”.
Queste considerazioni critiche contengono – si noti bene – molti spunti esatti; tuttavia, esse
hanno condotto a esiti assai più scettici, che purtroppo coinvolgono tutto l’approccio
costituzionalistico unitamente alla teoria del bene giuridico, la quale vive anch’essa oggi, in
contesto internazionale, una stagione alquanto incerta.
Il fatto che presso la Corte costituzionale non si sia riusciti a far ‘passare’ varie
interpretazioni più avanzate sul controllo delle scelte di criminalizzazione del legislatore (i c.d. beni
di rilevanza costituzionale) ha bruciato molte speranze.
Da un lato sembra non esserci un criterio operativo, utile (diverso da quello della
ragionevolezza), per sindacare la legittimità dei reati di pericolo astratto-presunto; dall’altro,
rispetto ai reati di lesione (e non di pericolo), manca un criterio per sindacare quali beni possano
essere legittimamente tutelati penalmente, salvo sempre il limite estremo della manifesta
sproporzione e dell’irragionevolezza della tutela. Se non c’è un criterio assiologico operativo, il
legislatore potrà sempre dire che un certo fatto, a suo modo di vedere, “offende” in termini di
lesione, anziché di mero pericolo, un certo bene artificiale (un bene strumentale, un bene
istituzionale, un bene-funzione, ecc.). Come controllare le possibili irrazionalità della politica
criminale che si annidano in quella libertà legislativa?
Tutto ciò conduce a depotenziare enormemente l’idea che nella Costituzione si possa
rinvenire il fondamento, il codice genetico, del sistema penale dello Stato.
Si profila storicamente, a questo punto, una svolta necessaria: o si rinnova il metodo
dell’approccio costituzionalistico, e con esso eventualmente la stessa fonte positiva a cui esso
ritiene di attingere (il testo della Costituzione), oppure si ritorna alle impostazioni ovvie e scontate
della Costituzione come mero limite dell’intervento penale.
E’ questa l’alternativa di fronte alla quale si trova oggi la scienza penalistica italiana.

8.0. La meteora dell’art. 129 del progetto di revisione costituzionale del 1997.

Posto di fronte all’esigenza di aggiornare are il proprio metodo, l’approccio


costituzionalistico non era affatto preparato a un rinnovamento addirittura giuspositivistico, alla
scelta cioè di proporre un nuovo testo costituzionale in materia. E’ stato infatti un “colpo di mano”
giacobino, effettuato da una ristretta cerchia di giuristi “di sinistra”, a tentare di introdurre principi
nuovi vincolanti la politica criminale, nel più generale progetto di revisione dell’intera Costituzione
(dal quale restava formalmente esclusa solo la “prima parte” della Costituzione relativa ai principi
fondamentali) a suo tempo elaborato e provvisoriamente approvato nel 1997, e tuttavia presto
abbandonato in un contesto di divisioni politiche di fondo nel Parlamento italiano.
L’articolo nel quale si erano concentrate le opzioni di riforma penale sostanziale era il 129, il
quale, singolarmente (e certo in buona misura impropriamente) inserito nella sezione delle “norme
sulla giurisdizione”, disponeva: «Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale./Non è
punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato
una concreta offensività./Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o
estensivo./Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se
contenute in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono».
Diciamo subito, senza poter adesso riprendere considerazioni ampiamente svolte altrove 34,
che, a parte il divieto costituzionale di interpretazione estensiva, che rappresentava un eccesso dai

34
Per un ampio commento sia consentito il rinvio al mio saggio DONINI, L’art. 129 del progetto di revisione
costituzionale approvato il 4 novembre 1997. Un contributo alla progressione «legale», prima che
«giurisprudenziale», dei principi di offensività e di sussidiarietà, in Critica del diritto, 1998, 95 ss.

12
più riconosciuto, il primo comma intendeva tradurre in forma di norma costituzionale l’idea che
aveva qualificato il programma politico-criminale di Franco Bricola: “Le norme penali tutelano
beni di rilevanza costituzionale”.
Il secondo comma, poi, prescrivendo il requisito della concreta offensività del fatto punibile,
sembrava ancorare la responsabilità penale quantomeno a ipotesi di pericolo concreto: salvo
decidere, di volta in volta, rispetto a quale bene protetto un certo fatto tipico sia di pericolo concreto
se non addirittura (“cambiando il bene” a parità di descrizione legale del fatto) di lesione.
In entrambe quelle prescrizioni erano presenti idee forti, ma dalla difficile gestione
legislativa ed ermeneutica. Non sarebbe stato possibile renderle vigenti senza una contestuale,
importante riforma di tutto l’ordinamento penale. Né sarebbe stato possibile evitare il rischio che
molti reati di pericolo astratto, diventando a quel punto incostituzionali, anziché essere riscritti e
riconvertiti in fattispecie di pericolo concreto, venissero interpretati ex novo, dalla giurisprudenza,
come reati di lesione (non più di pericolo, quindi), sostituendo al vecchio bene un nuovo interesse
più istituzionale, formale, un bene-funzione, in campo anticipato. Ciò che è reso possibile dal fatto
che le norme, di regola, non indicano il bene che proteggono, ma solo una forma di offesa dalla
quale l’interprete ricostruisce il bene.
Per es. in Italia non è punito lo scarico non autorizzato di certe sostanze che residuano dalla
produzione industriale solo quando ciò abbia cagionato una situazione che possa «prejudicar
gravemente el equilibrio de los sistemas naturales» (così, invece, l’art. 325 del código penal español
del 1995), ma è punita (con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda) l’effettuazione di
scarichi di acque industriali senza autorizzazione (art. 59, comma 1, d. lgs. 11 maggio 1999, n.
152); è poi punita più gravemente (con l’arresto e l’ammenda) l’effettuazione di scarichi di acque
allorché contengano certe sostanze previste in tabelle allegate alla legge (art. 59, comma 1, d. lgs.
cit.). E’ quindi punita in modo autonomo la condotta di chi scarichi acque industriali che in concreto
superino i valori-limite fissati per ciascuna sostanza in una tabella ministeriale allegata alla legge
(art. 59, comma 5, d. lgs. cit.). E’ questa una tecnica legislativa molto dettagliata e molto frequente
in Italia, dove si puniscono condotte che, contravvenendo a discipline amministrative, sono di
pericolo astratto-presunto (oppure offendono l’interesse amministrativo a un controllo preventivo in
settori ad alto rischio generico), poi si puniscono le medesime condotte, qualora abbiano alcune
caratteristiche di pericolosità astratta più specifica; quindi – a prescindere dalla violazione di un
provvedimento amministrativo di autorizzazione – si puniscono le condotte che comunque superino
certe “soglie” di pericolosità che restano, tuttavia, parametri di pericolo ancora molto astratto
rispetto a un pregiudizio effettivo del «medio ambiente».
Orbene, tutte queste ipotesi, si noti bene, potrebbero essere ritenute di lesione, anziché di
pericolo: basta “decidere” che il bene protetto, in un caso, è la funzione amministrativa di controllo,
oppure che, nell’altro caso, è già offesa di danno (anziché di pericolo) il superamento di un qualche
limite tabellare, perché – per presunzione legislativa – quel superamento «pregiudica», e quindi
deteriora, danneggia, l’equilibrio del sistema naturale, è un “risultato di inquinamento”, un evento
lesivo che prepara altri e più gravi eventi lesivi (a offesa cumulativa)35.
Per ovviare ai rischi insiti in questa “riconversione ermeneutica” dei beni giuridici si sarebbe
potuto, allora, valorizzare molto il primo comma dell’art. 129, sostenendo, per es., che le “funzioni
di controllo” della pubblica amministrazione su determinate attività, non sarebbero “beni di
rilevanza costituzionale”. Una tesi peraltro molto problematica che non si può scrivere nella
Costituzione, e che sarebbe stata da affidare completamente, a questo punto, all’ermeneutica della
35
Ognuno coglie quali problemi siano sottesi a una legislazione che ha moltissime norme dettagliate e specifiche, che
prevedono situazioni tipizzate di pericolo in campo anticipato. Se ci si accontenta del pericolo astratto, la previsione è
molto più tassativa di una clausola generale che richieda un genericissimo pregiudizio grave per l’equilibrio del sistema
naturale. La tecnica legislativa seguita in Italia, dunque, conduce a un numero molto elevato di incriminazioni. Quella
adottata in Spagna, invece, riduce moltissimo il numero dei reati, ma al prezzo dell’impiego di clausole generali non
sempre determinate, che “delegano” molto alla giurisprudenza, oltre all’uso ampio di norme penali in bianco ed
elementi normativi. Sul punto v. quanto osservato, con riferimento all’esempio spagnolo, in DONINI, La riforma della
legislazione penale complementare, cit., 33-37.

13
Corte costituzionale. Quest’ultimo organo, soprattutto, avrebbe visto accentuate in misura forse
insostenibile (salve modifiche giurisdizionali e di ordinamento della Corte) le proprie funzioni di
controllo della politica criminale del Parlamento: una supervisione politica, piuttosto che giuridica,
della legge penale, affidata a un consesso di pochi tecnici privi di rappresentatività e di
responsabilità politiche36.
Non sono state queste, tuttavia, le ragioni per le quali è fallito l’intero progetto di revisione
della Costituzione, bloccato da ostacoli di natura politica più generale. Occorre dire, tuttavia, che la
scienza penale accolse con grande tiepidezza quelle proposte, con critiche abbastanza negative e
senza nessun apporto costruttivo per diverse formulazioni. Per quanto non manchino anche oggi
posizioni che vedono con favore una normazione costituzionale come quella che si commenta 37, si
tratta di orientamenti isolati: l’idea che domina oggi in Italia è che si debba puntare tutto sulla
riforma ordinaria, senza attendersi troppo adesso da superiori garanzie costituzionali o da controlli
della Corte38.
La caratteristica saliente dell’approccio costituzionalistico italiano degli anni Settanta, in
questo modo, risulta attualmente compromessa. Ma non si tratta di un addio, io penso e mi auguro,
quanto di un rinvio tecnico: prima di rinnovare le possibilità operative dei controlli di legittimità
costituzionale, è necessario che la legislazione ordinaria sia stata riscritta, e perciò, in partenza,
abbia un volto più conforme alle istanze di garanzia, di offensività, di sussidiarietà la cui tutela si
vuole affidare alla Corte. Dopo questa prima attuazione, sarà possibile anteporre alla legislazione
ordinaria una nuova carta costituzionale che non sia troppo distante dall’esistente normativo,
esattamente perché quest’ultimo è già stato ripensato secondo criteri più vicini agli ideali da inserire
nella Costituzione.
Proprio l’aver attuato una legislazione ordinaria più conforme a quei principi, dovrebbe
offrire alla Corte di domani gli strumenti tecnici per meglio valorizzare le caratteristiche del
pericolo concreto o astratto-concreto compatibili con i nuovi standard costituzionali. E via
discorrendo.
Vediamo di comprendere meglio il senso di questa prospettiva futura.

9.0. L’esigenza di un controllo istituzionale più forte sulla politica criminale legislativa, fra
democrazia penale e ruolo di concretizzazione dei princìpi attraverso la Corte costituzionale

36
Cfr. per es. le critiche di FIANDACA, Intervento al dibattito su “Giustizia penale e riforma costituzionale nel testo
approvato dalla Commissione bicamerale”, in Critica del dir., 1998, 143-145, e di PALAZZO, Le riforme
costituzionali proposte dalla Commissione bicamerale, B) diritto penale sostanziale, in Diritto penale e processo, 1998,
41.
37
Ricordo in particolare MAZZACUVA, Intervento al dibattito su “Giustizia penale e riforma costituzionale nel testo
approvato dalla Commissione bicamerale”, in Critica del dir., 1998, 155 ss.; CASTALDO, Welches Strafrecht für das
neue Jahrtausend?, di prossima pubblicazione in Fest. Roxin, 11 ss. (del dattiloscritto). V. anche il mio già citato
contributo, DONINI, L’art. 129, cit.
38
Emblematica da ultimo la Relazione sull’articolato redatta dalla «Commissione Ministeriale per la riforma del codice
penale istituita con d.m. 1 ottobre 1998» (c.d. Commissione Grosso) sub B.1.3, a proposito dell’art. 3, comma 2 del
Progetto, che prevede a livello di legislazione ordinaria quanto già progettato dalla Commissione bicamerale (art. 129,
comma4, a livello di revisione costituzionale) e la Relazione sempre della Commissione Grosso del 1999 (prima che
formulasse un articolato), pubblicata nei Quaderni de L’Indice penale: Per un nuovo codice penale, II, Relazione della
Commissione Grosso (1999), a cura di C.F. Grosso, Cedam, Padova, 2000, sul principio di offensività, a p. 3-5. Il
principio è ora accolto dall’articolato predisposto dalla Commissione nell’art. 2, comma 2: «le norme incriminatrici non
si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico». L’articolato, insieme alla relazione
sull’articolato, è stata divulgata dal settembre 2000, in INTERNET, all’indirizzo:
www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2_art.htm.
Per alcune significative riserve sulla percorribilità della revisione costituzionale (e in linea con vari altri suoi
interventi sul tema), v. ancora FIANDACA, Intervento al dibattito su “Giustizia penale e riforma costituzionale nel
testo approvato dalla Commissione bicamerale”, cit., spec. 142-147; ID., La legalità penale negli equilibri del sistema
politico-costituzionale, in Foro it., 2000, V, 137 ss., 141 s.

14
E’ chiaro a ognuno che il controllo della Corte sulla politica criminale del legislatore, non
passa solo attraverso l’applicazione di singole “regole” costituzionali, ma richiede sia strumenti di
conoscenza empirica più ampi e sia – qui sta il problema maggiore – poteri di intervento più
significativi rispetto a quelli che le sono stati assegnati finora.
Il sindacato sul rispetto del vincolo dell’extrema ratio, del principio di offensività e della
legittimità delle previsioni di reati di pericolo astratto “passa”, secondo la giurisprudenza fino a
oggi consolidata Corte costituzionale italiana – quella che si basa sul testo della Costituzione del
1947 – attraverso valutazioni molto limitate, che si compendiano nel controllo di ragionevolezza39.
In realtà, questo approccio è legato a un’impostazione teleologica di razionalità rispetto ai
valori e allo scopo, ma non è ancora aperto a una cultura più sperimentale come quella che guarda
alle conseguenze. E’ un’impostazione, inoltre, che non è stata capace, sino a oggi, di arginare le
continue irrazionalità della politica criminale.
La politica criminale reale non è certo quella di cui discutono i penalisti nelle loro opere
dogmatiche riguardanti gli “scopi di politica criminale” da attribuire alle categorie del sistema.
Mentre gli studiosi “orientati allo scopo” controllano solo le loro categorie, la politica criminale
reale è oggi priva di adeguati controlli di razionalità, e lo dimostra quotidianamente.
Non basta dunque la migliore scienza della legislazione del mondo, se poi qualunque
Parlamento è libero di non considerarla, di ignorarne persino l’esistenza. Occorre un rimedio o un
controllo di tipo istituzionale.
Se si vuole che il sindacato della Corte diventi davvero un sindacato sull’extrema ratio,
sull’offensività, ecc., occorre affidare alla Corte: 1) il potere di definire storicamente una gerarchia
fra i beni costituzionali, o comunque “di rilevanza costituzionale”, e i “sistemi di tutela” con essi
compatibili, in modo da poterne escludere alcuni dall’area del penalmente rilevante (perché
“incomparabili” o “incommensurabili” per es. con il bene della libertà personale): potere che
tuttavia si traduce, come subito si vedrà, in una più pregnante declinazione del principio di
proporzione; 2) il potere di svolgere indagini empiriche, o comunque di valutare la presentazione
alla Corte stessa di indagini empiriche sull’effettività e l’efficacia delle sanzioni alternative a quella
penale.
In assenza di questi nuovi poteri, effettivamente, anche l’aver scritto in Costituzione che “le
norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale” potrebbe sortire effetti modesti a fronte di un
perdurante self-restraint della Corte40.
D’altro canto, come anticipato, il criterio di miglior concretizzazione di quel principio, di ciò
che esso esprime nella sua essenza operativa, non risiede in una elencazione tassativa di un numerus
clausus di beni, ma risiede in una duplice declinazione del principio di proporzione, che ne metta in
risalto: a) un momento assiologico; b) un reale potere di filtro delle politiche criminali.

39
Per una sintesi efficace dei problemi posti dal controllo di ragionevolezza in diritto penale sostanziale, cfr. nella più
recente letteratura italiana INSOLERA, Principio di eguaglianza e controllo di ragionevolezza sulle norme penali, in
AA.VV., Introduzione al sistema penale, vol. I, cit., 264 ss., 271 ss. (2 ed. riveduta, Giappichelli, Torino, 2000, in corso
di stampa); PALAZZO, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in
Riv.it.dir.proc.pen., 1998, 350 ss.; MAUGERI, I reati di sospetto dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 370
del 1996: alcuni spunti di riflessione sul principio di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività (parte I), in
Riv.it.dir.proc.pen., 1999, 434 ss.
40
In tal senso la replica di MAZZACUVA, Intervento, cit., 159 s., là dove osserva – di fronte a talune mie perplessità
relative all’assenza di limiti rassicuranti a futuri controlli di costituzionalità riguardanti scelte molto politiche del
legislatore – che non si deve temere un eccessivo interventismo politico della Corte, perché questa ha già dimostrato,
in passato, molto autocontrollo e perché, in ogni caso, un maggiore interventismo farebbe solo bene al diritto penale
(già, ma non è detto affatto che esso debba avvenire a favore delle posizioni liberali di garanzia, potendo invece
privilegiare le istanze di difesa sociale). Il rilievo che mi oppone Mazzacuva, peraltro, non tiene conto che le perplessità
che manifestavo non riguardavano l’operato della Corte per come essa ha agito fino a oggi, ma lo stesso nuovo modello
di Corte prefigurato dal progetto della Bicamerale. Si trattava, comunque, di perplessità che ritenevo di poter superare,
ma solo attendendo e richiedendo nuove precisazioni normative dei poteri della Corte (v. infra nel testo).

15
Sotto il primo profilo, il principio di proporzione, in sé considerato, potrebbe anche
legittimare l’incriminazione del divieto di sosta, purché l’inosservanza fosse sanzionata con pena
pecuniaria non convertibile in pena limitativa della libertà. Potrebbe in teoria essere di fatto un
illecito amministrativo (come è oggi), ma venire qualificato come illecito formalmente penale dalla
legge: la proporzione sarebbe rispettata limitatamente al tipo di sanzione. Senonché, a una
valutazione di tipo assiologico ripugna che nel “penale-criminale” possano confluire illeciti di quel
genere. Non si tratta, pertanto, di rispettare una proporzione di tipo agnostico e relativistico, ma di
conferire al penale una soglia più significativa di gravità e serietà degli illeciti senza le quali non
avrebbe più ragione di esistere.
Sotto il secondo profilo, se è vero comunque che – superata una certa ‘soglia’ di
sbarramento assiologico – molti beni di rilevanza non costituzionale appaiono penalmente tutelabili
qualora il diritto penale si concentri su pene pecuniarie in pratica non convertite (anche se in teoria
convertibili) in pene limitative o privative della libertà o in prestazioni lavorative, riparatorie, ecc.,
d’altro canto anche molti beni di rilevanza costituzionale risultano non tutelabili penalmente in
quanto tali, ma solo a fronte di particolari modalità di lesione41.
L’ordine assiologico dei beni in sé considerati, pertanto, non è mai sufficiente. Alla sua
stregua, per es., non si dovrebbe mai perdere la libertà per lesioni meramente patrimoniali: ciò che
esigenze di prevenzione generale (non sempre fondate, ma in parte certamente sì) non consentono o
non hanno consentito di fare, sino a oggi, in nessun paese al mondo42.
E’ vero peraltro che affidare alla Corte costituzionale compiti potenzialmente così ampi,
significa assegnarle un ruolo più politico. Occorre quindi precisare meglio, disciplinare con legge
costituzionale, un nuovo modello di Corte, la relativa composizione e gli annessi poteri istruttori.
Ma occorre anche rendere operative e più ‘tecniche’, quindi necessariamente meno politiche, le
chiavi di lettura e di attuazione di quei principi (sussidiarietà, proporzione, offensività). Al contrario
dei principi di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege), di materialità (nullum crimen sine
actione), di colpevolezza (nullum crimen sine culpa), di dannosità (nullum crimen sine iniuria), che
vantano un retroterra di elaborazione storica a volte millenaria e comunque assai più antica, i
principi di sussidiarietà/proporzione/offensività, letti contestualmente insieme in una cultura
orientata anche all’empiria e alle conseguenze (non solo ai valori e agli scopi) e come limiti
costituzionali al potere legislativo, sono molto più giovani.
E’ quindi del tutto logico che l’elaborazione dei parametri di razionalità giuridica che li
possano rendere operativi nell’ambito del controllo delle Corti costituzionali, appaia e sia ancora
arretrata e insufficiente. Ma questa non è una buona ragione per sprofondare nello scetticismo
costituzionale, e rappresenta anzi una sfida per le future generazioni. Sia nei contesti nazionali che
in quelli di future Corti costituzionali sovranazionali (per es. dell’Unione Europea), l’approccio
costituzionalistico al diritto penale ha, a mio avviso, un futuro.
Rimane dunque valido il progetto di una revisione costituzionale dedicata anche alla materia
penale, che possa perfezionare e rinnovare il fondamento (anche) giuspositivistico
dell’argomentazione costituzionale. Meglio sarebbe, in effetti, se essa fosse preceduta e non solo
accompagnata o seguita, in Italia, da una grande riscrittura del sistema penale, che dalle attuali

41
Sul punto già ANGIONI, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Giuffrè, Milano, 1983, 205 ss., 212 ss.
In senso analogo, v. anche i rilievi di PALAZZO, Introduzione ai princìpi, cit., 143. Nella più recente letteratura
tedesca, cfr. altresì, sui rapporti tra Costituzione e diritto penale, anche con riferimento al principio di proporzione,
LAGODNY, Strafrecht vor den Schranken der Grundrechte, Mohr, Tübingen, 1996, spec. 216 ss.; APPEL, Verfassung
und Strafe. Zu den verfassungsrechtlichen Grenzen staatlichen Strafens, Duncker & Humblot, Berlin, 1998;
STÄCHELIN, Strafgesetzgebung in Verfassungsstaat, Duncker & Humblot, Berlin, 1998; WOHLERS, Deliktstypen
des Präventionsstrafrechts – zur Dogmatik “moderner” Gefährdungsdelikte, Duncker & Humblot, Berlin, 2000;
WEIGEND, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit als Grenze staatlicher Staatsgewalt, in Fest. Hirsch, W. De
Gruyter, Berlin-New York, 1999, 917 ss.
42
Sul principio di proporzione v. ora l’istruttivo libro di AGUADO CORREA, El principio de proporcionalidad en
derecho penal, Edersa, 1999, che contiene anche una significativa comparazione con la letteratura italiana relativa
all’approccio costituzionalistico al diritto penale in genere (ivi, spec. 178 ss., 283 ss.).

16
9.000/10.000 fattispecie, si riducesse di 8 o 9/10 43. In questa riforma l’assetto dei valori del codice
dovrebbe interpretare e rispecchiare quello del patto costituzionale, al quale, in definitiva,
dovrebbero essere circoscritti gli oggetti di tutela penale, i beni reali che si intendono tutelare, così
come le leggi penali complementari, sia pur ridotte drasticamente di numero, dovrebbero inserirsi
nel quadro assiologico dei valori del codice e quindi, con esso, della Costituzione storicizzata nelle
leggi ordinarie.
E’ vero anche che se alcuni principi di rilevanza costituzionale hanno una dimensione
sostanziale e un ruolo ‘fondante’ (e non di mero limite) per il sistema penale, tuttavia la gestione
ermeneutica di quei principi non può operare con stili di aristocrazia penale, non può contare sulla
competenza indiscussa e indiscutibile di una oligarchia di meri “esperti di valori” eletti ogni tanto
dal Parlamento o nominati dal Presidente della Repubblica.
Poiché nello stesso tempo un testo fatto di molte norme-principio implica un largo
affidamento alla concretizzazione giurisprudenziale da parte di organi che non hanno e non possono
avere responsabilità politica, il metodo che le Corti costituzionali devono osservare va allineato con
il metodo della democrazia: inteso non come regola delle decisioni a maggioranza – posto che i
principi costituzionali, anche se si possono concretizzare in modo variabile nelle leggi ordinarie
mediante decisioni a maggioranza, presentano profili di resistenza a quelle regole procedurali e
costituiscono sicuri limiti alle maggioranze democratiche –, ma come metodo fondato su decisioni
controllabili e informate. La giurisprudenza costituzionale, pertanto, deve essere una giurisprudenza
fondata sì sui valori, ma anche su una logica discorsiva e su criteri di verificabilità empirica 44. In
questa direzione vanno dunque concentrati gli sforzi della scienza penale, senza abbandonarsi allo
scetticismo destinato a rincorrere i flussi della storia e a dissolvere ogni testo costituzionale in un
programma riscritto integralmente dai modelli di società che storicamente si affermano: quei
modelli, invece, devono attuarsi entro binari, procedure, ma anche garanzie e valori precostituiti, o
meglio devono svolgersi storicamente pensando se stessi come vincolati da limiti superiori, anche
se gran parte del contenuto vero di quei limiti (le garanzie costituzionali o di diritto internazionale)
non è atemporale, ma necessita anch’esso di una concretizzazione storico-politica, il cui livello di
razionalità giuridica è comunque normalmente ben superiore al livello della legislazione ordinaria.
I limiti evidenti di concretezza e precisione che presenta un approccio costituzionalistico di
tipo ‘fondazionale’, dunque, sono meno insopportabili dell’assenza di limiti alla libera gestione
della politica criminale da parte dei partiti politici45.

43
Sul punto rinvio a DONINI, Per un codice penale di mille incriminazioni. Progetto realistico di depenalizzazione
all’interno di un quadro del ‘sistema’ , in Diritto penale e processo, 2000, 1652 ss.
44
Più ampiamente, al riguardo, cfr. DONINI, Democrazia penale. L’impatto del pluralismo su una cultura
aristocratica, cit. (di prossima di pubblicazione).
45
Incomprensibile dal punto di vista qui adottato l’aggressione al diritto penale a fondamento costituzionale portata
avanti da NAUCKE, Die Legitimation strafrechtlicher Normen – durch Verfassung oder durch überpositive Quellen? in
LÜDERSSEN, Aufgeklärte Kriminalpolitik oder Kampf gegen das Böse? Bd. I, Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-
Baden, 1998, 156 ss. L’esito di una equiparazione fra diritto penale costituzionale e giusnaturalismo è la rassegnazione
alla politicizzazione del diritto penale che, non più controllato mediante verifiche di costituzionalità, rimane solo quello
della legge ordinaria: una politicizzazione in senso negativo, peraltro, contro la quale lo stesso Naucke si pronuncia
costantemente in tutta la sua copiosa produzione scientifica.

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