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Norberto Bobbio
Dalla struttura alla funzione
Nuovi studi di teoria del diritto
Editori Laterza
© 2007, Gius. Laterza & Figli
Note
1 N. Bobbio, Profilo ideologico del ’900, Garzanti, Milano 1990, p. 209.
2 Ho tentato di tracciare un portolano di questo periplo in Norberto Bobbio e il positivismo giuridico,
in Giornata Lincea in Ricordo di Norberto Bobbio, Atti dei Convegni Lincei n. 226, Bardi Editore,
Roma 2006, pp. 55-78. Esso è premesso (insieme con uno scritto di Celso Lafer) alla traduzione
brasiliana del volume qui presentato: O pensamento de Norberto Bobbio, do positivismo jurídico à função do
direito, in N. Bobbio, Da estrutura à função. Novos estudos de teoria do direito, Manole, Barueri (São
Paulo) 2007, pp. XIX-XLIX.
3 N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992.
4 N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
5 N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Edizioni di Comunità,
Milano 1977. Questi studi vengono presentati come «nuovi» in rapporto ai precedenti volumi di
Bobbio, Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955; Studi per una teoria generale del
diritto, Giappichelli, Torino 1970.
6 Per un maggiore approfondimento dei rapporti di Treves con Bobbio, Del Vecchio e Kelsen,
nonché per la storia del suo apporto alla sociologia giuridica italiana, cfr. M.G. Losano, Renato
Treves, sociologo tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, con il regesto di un archivio ignoto e la bibliografia di
Renato Treves, Unicopli, Milano 1998.
7 Bobbio, Profilo ideologico del ’900, cit., p. 232.
8 G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LXII, 1966, pp. 141-55. Il
fascicolo della rivista è intitolato Studi sull’obbligo giuridico e raccoglie i contributi presentati nel 1965
al convegno di Bellagio, promosso da Herbert Hart, autore della relazione di apertura, Alessandro
Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio che – nelle sue Considerazioni in margine (pp. 235-46) e
nonostante l’understatement di questo titolo – traccia le conclusioni del convegno, riassumendo le
varie concezioni dell’obbligo giuridico senza però anticipare la sua svolta ormai imminente verso la
teoria funzionale del diritto.
9 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 150 e 155.
10 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 154 sg.
11 R. Jhering, Der Zweck im Recht, Band I, Breitkopf und Härtel, Wiesbaden 1904, ristampa
anastatica: Georg Olms, Hildesheim-New York 1970, p. 141 (trad. it., Lo scopo nel diritto, Einaudi,
Torino 1972, p. 140); Jhering sottolinea che «il diritto premiale» (Lohnrecht) è un «concetto a noi
sconosciuto». Altre informazioni su questo tema sono nel mio già citato Norberto Bobbio e il
positivismo giuridico, pp. 71 sg.
12 Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit., Premessa, p. 9.
13 Bobbio, Prólogo a la edición española, in Contribución a la teoría del derecho, Edición a cargo de
Alfonso Ruiz Miguel, Debate, Madrid 1990, p. 11.
14 Bobbio, in questo volume, p. 41.
15 Sulla nozione di sistema rinvio ai miei tre volumi, Sistema e struttura nel diritto, Giuffrè, Milano
2002. Sul superamento della nozione di sistema e sulla nozione di «rete» cfr. F. Ost-M. van de
Kerchove, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, Facultés Universitaires Saint
Louis, Bruxelles 2002, e il mio scritto (e la letteratura ivi indicata) Diritto turbolento. Alla ricerca di
nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in «Rivista internazionale di
filosofia del diritto», 3, 2005, pp. 403-30 (ed. or., Turbulentes Recht: Herkömmliche Rechtsordnung,
überstaatliche Rechtssetzung und Ordnung stiftende Modelle, www.jura.uni-
hannover.de/jubilaeum/vortrag_losano.pdf).
16 Bobbio, in questo volume, p. 46; corsivo mio.
17 Questo saggio venne scritto nel 1970-71 per un volume in onore di Ambrosio L. Gioja
(1912-1971). A causa della morte prematura del filosofo argentino e del conseguente ritardo nella
pubblicazione del volume, Bobbio nel 1977 indicò ancora come inedito il saggio stesso. Esso venne
pubblicato in Derecho, filosofía y lenguaje. Homenaje a Ambrosio L. Gioja, Astrea, Buenos Aires 1976.
Ulteriori spiegazioni in Losano, Norberto Bobbio e il positivismo giuridico, cit., p. 69, nota 47.
18 Bobbio, in questo volume, p. 68; corsivo mio.
19 Bobbio, in questo volume, pp. 69 sg.; corsivo mio.
20 Bobbio, in questo volume, p. 49.
21 Bobbio, in questo volume, p. 138.
22 Cfr. il testo citato alla nota 4.
23 C. Lafer, Apresentação à edição brasileira, in Bobbio, Da estrutura à função, cit., p. LVI.
24 S. Holmes-C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Il Mulino,
Bologna 2000, p. 231 (ed. or., The Cost of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, Norton, New York
1999).
Premessa
Note
1 G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LVII, 1966, pp. 141-55. I
passi citati sono rispettivamente a pp. 149, 154, 151.
2 Com’è noto Christianus Thomasius pose a fondamento del iustum, per distinguerlo
dall’honestum e dal decorum, la massima «Quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris» (Fundamenta iuris
naturae et gentium, VI, 42. Cfr. anche §§ 62 e 63, in cui gli esempi addotti di precetti giuridici sono
tutti di divieti).
3 Méditation sur la notion commune de la justice, § 2. (Cito dalla traduzione italiana in G.W. Leibniz,
Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 1951, pp. 225 sgg.)
4 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 38 (vedi anche § 113).
5 Principles of Sociology, § 570. È estremamente interessante osservare che la tesi della funzione
prevalentemente negativa del diritto è stata riesumata da uno dei maggiori teorici del liberalismo
classico ai nostri giorni, F.A. Hayek, Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico»,
XXXIII, 1968, pp. 693-723, ove si legge: «In realtà troviamo che le regole di diritto privato e
penale, o almeno la maggior parte di esse... sono solo divieti che delimitano il campo della libera
azione e solo in casi eccezionali... giungono a prescrivere azioni determinate» (p. 703). Più
interessante ancora la nota 17, in cui osserva che, sebbene molti si siano accorti del carattere
prevalentemente negativo del diritto, «nessuno ha mai tratto da ciò tutte le conseguenze» (ibid.).
6 Ho illustrato questi due modi di considerare la forza in relazione al diritto nell’articolo Law and
Force, in «The Monist», XLIX, 1965, pp. 321-41. Pubblicato anche in «Rivista di diritto civile»,
XII, 1966, I, pp. 537-48. Ed ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli,
Torino 1970, pp. 117-38.
7 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it., Einaudi, Torino 1966, p. 46.
8 F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Foro Italiano, Roma 19462, pp. 24-25. Si veda anche T.
Perassi, Introduzione alle scienze giuridiche, Cedam, Padova 1953, p. 12 e soprattutto nota 1, ove si
accenna alle sanzioni positive.
9 F. Oppenheim, Dimensioni della libertà, trad. it., Feltrinelli, Milano 1964, soprattutto pp. 36-39.
Il passo citato si trova a p. 36.
10 J.P. Gibbs, Sanctions, in «Social Problems», XIV, 1968, pp. 147-59. Il passo citato si trova a p.
156. Traggo da questo articolo la nozione di comportamenti superconformi, sui quali mi soffermo
poco oltre. Nella letteratura sociologica, a differenza di quella giuridica, il termine «sanzione» viene
sempre riferito sia alle sanzioni positive sia a quelle negative. Cfr. per tutti T. Parsons, Il concetto di
potere politico, in «Il Politico», 1963, pp. 614-36.
11 Der Zweck im Recht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 18842, vol. I, p. 182. Di questa opera
importante di Jhering è uscita finalmente una traduzione italiana, curata egregiamente da M.G.
Losano: Lo scopo nel diritto, «Nuova Universale», n. 137, Einaudi, Torino 1972, ove il brano citato si
trova a p. 139.
12 F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI, 1966, pp. 601-18. Il
passo citato si trova a p. 609. Di questo articolo è apparsa una traduzione col titolo Il liberalismo di
Friedrich A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 11, pp. 28-55.
13 Sulle quali mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Ancora sulle norme primarie e secondarie,
in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53. Ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto,
cit., pp. 175-97.
14 Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, cit., p. 609.
15 Coglie esattamente questo fenomeno G. Lumia, Controllo sociale e sanzione giuridica, in Studi in
onore di Gioacchino Scaduto, Cedam, Padova 1967, pp. 12-13 (estratto). Dopo aver parlato di una
funzione promozionale e di una funzione deterrente della sanzione osserva che «un esame
dell’attuale stato della legislazione dei paesi più progrediti legittima... la previsione che la tecnica
sanzionatoria “promozionale” sia destinata ad estendersi sempre più rispetto a quella “deterrente”»
(p. 12).
16 Cito per tutti il libro di A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Edizioni di Comunità, Milano
1963, soprattutto pp. 204-13.
17 Cito per tutti G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in
«Atomo petrolio elettricità», 1961, n. 1, pp. 1-20.
II. Le sanzioni positive
Note
1 Siano almeno ricordate due opere celebri: Théorie des peines et des récompenses di Jeremy
Bentham, in Oeuvres, t. II, Bruxelles 1829, pp. 1-238; Del merito e delle ricompense di Melchiorre
Gioia, Milano 1818-1819, 2 voll. (nuova edizione corretta, Lugano 1848, 2 voll.)
2 Nella precedente edizione di questo scritto mi era completamente sfuggito l’articolo di A. De
Mattia, Merito e ricompensa, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XVII, 1937, pp. 608-
24, che è stato segnalato nella dissertazione di laurea, tuttora inedita, di Paola Mora, Sanzioni positive,
discussa presso l’Università statale di Milano, nell’anno accademico 1972-73, relatore il prof.
Renato Treves. Non ho potuto invece tener conto del libro di Serenella Armellini, Saggi sulla
premialità del diritto nell’età moderna, Bulzoni, Roma 1976, apparso quando questo libro era già in
bozze. Si tratta di una ricerca storica, unica sinora, se non m’inganno, nel suo genere, sulla teoria
delle ricompense in Hobbes, Spinoza, Cumberland e negli illuministi italiani.
3 Trovo questa definizione nella già citata opera del Gioia, vol. II, edizione di Lugano, p. 216:
«La ricompensa è un vantaggio concesso in vista di servigi qualunque, e calcolata in ragione di essi.
La ricompensa è un piacere tendente a distruggere il disgusto del servizio, come la pena è un dolore
tendente a distruggere il piacere del delitto».
4 La prima teoria proviene generalmente dai sociologi e dai giuristi-sociologi: su di essa H.
Kantorowicz, La definizione del diritto, Giappichelli, Torino 1962, pp. 124 sgg. La seconda
rappresenta uno dei cavalli di battaglia della teoria generale del diritto d’orientamento positivistico,
da Jhering a Kelsen. Ma non si dimentichi che è bene rappresentata anche da uno dei principali
filoni del giusnaturalismo, che va da Thomasius a Kant.
5 Ho tentato di presentare con maggiori dettagli una tipologia delle misure con cui un
ordinamento normativo tende a provocare i comportamenti desiderati e ad impedire i
comportamenti indesiderati nella voce «Sanzione», in Novissimo Digesto Italiano.
III. Diritto e scienze sociali
Note
1 Traggo queste due citazioni da G. Solari, Positivismo giuridico e politico di A. Comte, in Studi storici
di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1949, pp. 385-91.
2 K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito comunista, parte II: Proletari e comunisti (nell’ediz. a cura
di Emma Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1948, p. 139).
3 Sul tema rinvio al saggio Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo stesso
volume.
4 Traggo queste notizie dal libro di U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti,
Roma 1969, pp. 241 sgg. Ma cfr. anche M.G. Losano, Giuscibernetica, Einaudi, Torino 1969, pp.
120 sgg.
5 Nel saggio La funzione promozionale del diritto, in questo stesso volume.
6 La formazione extralegislativa del diritto nell’esperienza italiana, in «Foro Italiano», supplemento al n.
1 dell’anno XCV (1970). Le due citazioni si trovano rispettivamente a pp. 11 e 22.
7 [Mi riferisco alla ricerca, pubblicata nel frattempo, di V. Ferrari, Successione per testamento e
Note
1 L’insufficienza dell’approccio funzionalistico nelle più correnti teorie del diritto è rilevata da B.
Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement juridique. Actes du Congrès mondial de
philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3 settembre 1971, Nauwelaerts,
Louvain 1971, pp. 77-83. Ma non si capisce perché l’autore chiami l’approccio tradizionale una
forma di «scholasticism».
2 Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke, Wien 1934, p.
II
11. Conclusione
Ho messo in evidenza alcune difficoltà cui va incontro l’analisi
funzionale del diritto, ovvero quali sono le insidie in cui rischia di cadere
chiunque si avventuri in questo campo troppo fiduciosamente e senza
guardarsi alle spalle, per cercar di spiegare il fatto che, nonostante
l’importanza assunta dall’analisi funzionale in seguito e in proporzione
all’aumento delle prestazioni delle varie macchine produttrici di norme
giuridiche, una teoria funzionale del diritto, ove s’intenda per teoria
funzionale del diritto una teoria generale che cerchi l’elemento
caratterizzante del diritto non nella specificità della struttura, com’era
avvenuto sino ad ora per opera dei maggiori giuristi teorici, ma nella
specificità della funzione, sia ancora di là da venire. I tentativi sinora fatti in
questa direzione sembrano piuttosto deludenti: perché, o finiscono per
mostrare proprio il contrario di quello che si proponevano, cioè che
attraverso il rilevamento della funzione non si arriva a mettere le mani sul
carattere specifico del diritto (come a me pare sia accaduto al Parsons e ai
suoi interpreti), oppure, quando vanno alla ricerca di una funzione
specifica diversa da quella o da quelle generalmente riconosciute, cadono
in una disorientante semplificazione, come a me sembra sia accaduto al più
raffinato (e complicato) teorico della funzione del diritto, Niklas
Luhmann, che attribuisce al diritto la funzione di congruente Generalisierung
di aspettative normative38. Per effetto della complessità del fenomeno
giuridico sta accadendo alle teorie funzionali ciò che è già accaduto alle
teorie strutturali, che quando erano troppo specifiche lasciavano fuori dai
loro confini qualche pezzo del territorio (per esempio il diritto
internazionale), quando volevano abbracciare tutti i campi
tradizionalmente occupati dal diritto, o di cui si sono occupati
storicamente i giuristi, finivano per essere troppo generiche. Non vorrei a
questo punto che qualcuno credesse che ci si possa trarre d’impaccio
unendo i connotati strutturali con quelli funzionali attraverso una
sedicente analisi struttural-funzionale: fra struttura (del diritto) e funzione
(del diritto) non c’è corrispondenza biunivoca, perché la stessa struttura,
per esempio il diritto considerato come combinazione di norme primarie e
secondarie, può avere le più diverse funzioni, così come la stessa funzione,
per esempio quella abitualmente attribuita al diritto di rendere possibili la
coesione e l’integrazione del gruppo, può essere svolta mediante diverse
strutture normative. (Il che non vuol dire che struttura e funzione siano
indipendenti: modificazioni della funzione possono incidere su
modificazioni strutturali e viceversa.) Dopodiché, se una considerazione
finale si vuol trarre, questa è che l’analisi strutturale, attenta alle
modificazioni della struttura, e l’analisi funzionale, attenta alle
modificazioni della funzione, debbono essere continuamente alimentate e
procedere di pari passo, senza che la prima, com’è accaduto in passato,
eclissi la seconda, o la seconda, come potrebbe accadere in un
rovesciamento delle prospettive cui gli andazzi, le mode, il piacere del
nuovo per il nuovo, sono particolarmente favorevoli, eclissi la prima.
Note
1 L’articolo, scritto originariamente per un volume in memoria del filosofo del diritto argentino
Ambrosio Gioja, viene pubblicato per la prima volta in questo volume.
2 Questi articoli sono: W. Maihofer, Die gesellschaftliche Funktion des Rechts, pp. 13-36; H.
Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, pp. 39-
89; E. Fechner, Funktionen des Rechts in der menschlichen Gesellschaft, pp. 92-105; R. Schott, Die
Funktionen des Rechts in primitiven Gesellschaften, pp. 109-74; N. Luhmann, Positivität des Rechts als
Voraussetzung einer modernen Gesellschaft, pp. 176-202; Id., Zur Funktion der subjektiven Rechts, pp.
322-30.
3 Devo alla cortesia del prof. Elias Diaz di essere venuto in possesso di fotocopie delle
comunicazioni attinenti al tema di questo mio saggio.
4 J. Raz, On the Functions of Law, in Oxford Essays in Jurisprudence, Blackwell, Oxford 1973, pp.
278-304; M. Rehbinder, Le funzioni sociali del diritto, in «Quaderni di sociologia», XXII, 1973, pp.
103-23; V. Aubert, The Social Function of Law (relazione al ciclostile presentata all’VIII Congresso
mondiale di sociologia tenutosi a Toronto nell’agosto 1974).
5 N. Luhmann, Rechtssoziologie, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1972, 2 voll.
6 In questo stesso senso B. Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement
juridique. Actes du Congrès mondial de philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3
settembre 1971, pubblicati come fascicolo del marzo-giugno 1971 di «Logique et Analyse»,
Nauwelaerts, Louvain 1971, pp. 77-83: «It is evident that, whatever its limitations, the Marxist
account of law is not merely formal. It addresses itself very specifically to questions of social
function, showing what law does for us and what it does to us» (p. 83).
7 R. Lukić, Théorie de l’état et du droit, trad. franc. di M. Gjidara, Dalloz, Paris 1974: «La fonction
de l’Etat et du droit est d’avoir un rôle dans la société, d’agir au sein de la société. Comme l’Etat et le
droit peuvent avoir plusieurs actions, seule correspondra à leur fonction, celle qui leur est essentielle
et spécifique, ce par quoi ils se distinguent des autres phénomènes sociaux» (p. 89). E qual è questa
funzione? «... l’Etat et le droit ont comme fonction le maintien du mode de production qui
convient à la classe dirigeante intéressée et dont ils sont les créations» (ibid.). Superfluo ricordare che
una delle più note opere di teoria marxista del diritto è intitolata La funzione rivoluzionaria del diritto.
8 Mi sono soffermato più a lungo su questo tema nell’articolo citato, Verso una teoria
funzionalistica del diritto. Ma mi permetto di rimandare anche al saggio su Kelsen, in questo stesso
volume.
9 H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke,
Wien 1934, p. 33 (trad. it., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 72).
10 Sui vari aspetti della teoria generale del Roguin, e anche sull’antiteleologismo, mi sono
soffermato in un articolo, Un dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore
Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978, vol. IV, pp. 43 sgg.
11 R. von Jhering, Lo scopo nel diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1972, p. 312.
12 Ivi, p. 313.
13 M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. I, pp. 53-54.
14 Per un maggiore sviluppo del parallelo fra Weber e Kelsen rinvio al saggio su Kelsen, in
questo stesso volume, specie alle pp. 167-72, 178-80.
15 Riprendo questo spunto dalla relazione su Il diritto, svolta al convegno bolognese sullo stato
delle scienze sociali, pubblicata nel volume Le scienze umane in Italia, oggi, Il Mulino, Bologna 1971,
pp. 259-77. Ora col titolo Diritto e scienze sociali, in questa stessa raccolta.
16 J.F. Glastra van Loon, Conclusions, in Norms and Actions. National Reports on Sociology of Law,
edited by R. Treves and J.F. Glastra van Loon, Nijhoff, L’Aia 1968, pp. 289-92. Dello stesso autore
cfr. Towards a Sociological Interpretation of Law, in collaborazione con E. Vercruijsse, in «Sociologia
Neerlandica», III, 2, 1966, pp. 18-31, che cito dal rendiconto fattone da R. Treves, Nuovi sviluppi
della sociologia del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1968, pp. 150-53.
17 Traggo questa citazione da Treves, Nuovi sviluppi della sociologia del diritto, cit., p. 152.
18 Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 11.
19 F. Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard Hurst. Storiografia e Jurisprudence, in Materiali per
una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, vol. II, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 521-86; in
modo particolare sulle funzioni del diritto, pp. 528-29. Le opere di Hurst da cui sono tratte le
notizie circa le funzioni del diritto sono Law and Social Process in United States History, The University
of Michigan Law School, Ann Arbor 1960, p. 5; Justice Holmes on Legal History, The Macmillan
Company, New York 1954, pp. 5-6; Law and the Condition of Freedom in the Nineteenth-Century
United States (1956), ma citata dall’ediz. di The University of Wisconsin Press, Madison 1967; Law
and Economic Growth. The Legal History of the Lumber Industry in Wisconsin 1836-1915, The Belknap
Press of Harvard University Press, Cambridge 1964, p. IX.
20 Hurst, Law and Social Process, cit., p. 5, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard
Hurst, cit., p. 528, nota 10.
21 Justice Holmes on Legal History, cit., p. 6, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard
Hurst, cit., p. 528, nota 10.
22 Il passo citato da Aubert (The Social Function of Law, cit., p. 11) è tratto dall’opera di Hurst,
Law and Social Process, cit., p. 99.
23 Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 12.
24 Su questo tema vedi F. Werner, Wandelt sich die Funktion des Rechts im sozialen Rechtsstaat?, in
Die moderne Demokratie und ihr Recht (Festschrift für Gerhard Leibholz zum 65. Geburtstag), Mohr,
Tübingen 1966, vol. II, pp. 153-66.
25 Sulla funzione promozionale del diritto, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile»,
XXIII, 1969, pp. 1312-29; Sulle sanzioni positive, in Studi dedicati ad Antonio Raselli, Giuffrè, Milano
1971, vol. I, pp. 229-49: entrambi presenti in questo stesso volume. Cfr. D. Pasini, Potere, stato e
funzioni del diritto, in «L’eloquenza», LXIII, 1973, pp. 517-30.
26 H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, p. 18
(trad. it., Teoria generale del diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 18).
27 E. García Maynez, Filosofia del derecho, Editorial Porrua, México, 1974, pp. 73 sgg.
28 Così. G. Spittler, Probleme bei der Durchsetzung sozialer Normen, in «Jahrbuch für
Rechtssoziologie und Rechtstheorie», vol. 1, 1970, pp. 205-25. Sul tema «premi e ricompense» in
generale e con considerazioni di carattere sociologico, vedi J. Galtung, On the Meaning of Non-
violence, in «Journal of Peace Research», 1965, 3, pp. 228-57, e dello stesso autore, Violence, Peace and
Peace Research, in «Journal of Peace Research», 1969, 3, pp. 167-91.
29 Riprendo il tema abbozzato nel mio intervento sui compiti della sociologia del diritto, Teoria
sociologica e teoria generale del diritto, in «Sociologia del diritto», I, 1974, pp. 9-15.
30 Ne indico alcuni: R.S. Summers, The Technique Element in Law, in «California Law Review»,
LIX, 1971, pp. 733-51, elenca le seguenti funzioni (lista che egli stesso non considera esaustiva): 1)
rafforzamento della famiglia; 2) promovimento della salute; 3) mantenimento della pace sociale; 4)
raddrizzamento dei torti; 5) agevolazione degli scambi; 6) riconoscimento e ordinamento della
proprietà privata; 7) garanzia delle libertà principali; 8) protezione della «privacy»; 9) controllo delle
attività giuridiche private e pubbliche. Rehbinder, nell’articolo Le funzioni sociali del diritto, cit.,
riprende l’elenco delle funzioni dato da K.L. Llewellyn, The Normative, the Legal and the Law-Jobs: the
Problem of the Juristic Method, in «Yale Law Journal», XLIX, pp. 1355-400, che è il seguente: 1)
composizione dei conflitti; 2) regolazione dei comportamenti; 3) organizzazione e legittimazione
del potere nella società; 4) strutturazione delle condizioni di vita nella società; 5) amministrazione
della giustizia. Nella comunicazione al congresso di Madrid (1973) L. Recaséns Siches distingue tre
funzioni: 1) certezza e sicurezza, e contemporaneamente anche possibilità di cambiamento; 2)
risoluzione dei conflitti d’interesse; 3) organizzazione, legittimazione e limitazione del potere
politico (Las funciones del derecho, dalla copia dattiloscritta distribuita al congresso, p. 1). Nell’articolo
di Aubert, The Social Function of Law, cit., si trovano le funzioni seguenti: 1) rafforzamento
autoritativo di regole di condotta promulgate al fine di ottenerne l’osservanza; 2) risoluzione dei
conflitti; 3) distribuzione di risorse. Maihofer, nell’articolo Die gesellschaftliche Funktion des Rechts,
cit., distingue le funzioni sociali da quelle antropologiche, e quindi suddistingue le prime in
funzioni regolative e integrative, le seconde in razionalizzatrici e anticipatrici. Nel libro Sociologia del
diritto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1970 (l’edizione originale americana presso la Random House di
New York è del 1968), E.M. Schur presenta una tavola di raffronto fra le funzioni del diritto
secondo Hart (Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, cap. V), secondo E.A. Hoebel (The Law of
Primitive Man, Harvard University Press, Cambridge 1954, cap. XI) e secondo Parsons (The Law and
Social Control, in Law and Sociology. Exploratory Essays, a cura di W.M. Evan, Free Press, New York
1962; vedi la tavola a p. 101 con relativi commenti).
31 Per un’interpretazione e uno sviluppo della teoria parsonsiana del diritto H.C. Bredemeier,
Law as an Integrative Mechanism, in Law and Sociology, cit., pp. 73-90. Sulla sociologia del diritto di
tendenza struttural-funzionalistica, in modo particolare su Parsons, si veda A. Giasanti, Sistema
sociale e sistema giuridico nella prospettiva strutturale-funzionalistica, in «Quaderni di sociologia», XXI,
1972, pp. 73-95. Si veda anche il saggio di Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und
personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, cit., pp. 51-57.
32 La distinzione tra funzioni sociali e funzioni antropologiche si trova tanto nel saggio di
Note
1 Questi due articoli sono: F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico»,
XXXI, 1966, pp. 601-18 (citato d’ora innanzi come I); Ordinamento giuridico e ordine sociale, in «Il
Politico», XXXIII, 1968, pp. 693-723 (citato d’ora innanzi come II). Del primo è apparsa una
traduzione italiana col titolo Il liberalismo di F.A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 1,
pp. 28-55, che tengo presente nelle citazioni. Chi voglia avere una conoscenza più ampia della
concezione giuridica di Hayek, legga il libro The Constitution of Liberty, University of Chicago Press,
Chicago 1960, tradotto recentemente in italiano col titolo La società libera, Vallecchi, Firenze 1969,
specie la parte seconda, intitolata La libertà e la legge (pp. 151-283).
2 I, p. 609. Il corsivo è mio.
3 II, pp. 717-18. Il corsivo è mio.
4 II, p. 705.
5 Vedine un accenno in II, p. 718 alla fine.
6 H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, p. 35. Sull’argomento cfr. G. Gavazzi,
Norme primarie e norme secondarie, Giappichelli, Torino 1966, e anche il mio articolo Ancora delle norme
primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53, quindi col titolo Norme primarie e
norme secondarie, in Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 175-97.
7 Cfr. Teoria generale del diritto e teoria del rapporto giuridico, in Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 53-58, e anche Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958,
pp. 10 sgg.
8 Teoria della norma giuridica, cit., pp. 17-23 e 30-34.
9 Si veda per tutti l’opera di G. Renard, La théorie de l’institution, Sirey, Paris 1930, dove, com’è
noto, la teoria dell’istituzione è costruita come contraltare alla teoria contrattualistica, non alla teoria
normativa, del diritto.
10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 68; Teoria generale del
diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 18-19; La dottrina pura del diritto, Einaudi,
Torino 1966, pp. 45-46.
11 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, in particolare p. 421
(per la teoria del rapporto), p. 407 (per la teoria del diritto come regola della coesistenza), pp. 225 e
268 (per la critica dello stato paternalistico), p. 406 (per la teoria del diritto come forma). Di tutto
questo ho parlato più distesamente in Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli,
Torino 1969.
12 «Il diritto non consacra solo il principio della coesistenza degli individui, ma si propone
soprattutto di vincere la debolezza e la limitazione delle loro forze, di sorpassare la loro caducità, di
perpetuare certi fini al di là della loro vita naturale, creando degli enti sociali più poderosi e più
duraturi dei singoli» (S. Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 1945, pp. 35-36).
13 A questo punto riprendo il discorso iniziato nell’articolo Sulla nozione di società civile, in «De
Homine», 1968, n. 24-25, pp. 19-36.
14 F. Tönnies, Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1963.
15 Ivi, p. 224.
16 Ivi, p. 241.
17 H. Spencer, Principles of Sociology, Section 570 (vedi trad. it., Principi di sociologia, a cura di F.
4. Uso universalizzante
Resta infine da verificare la fondatezza dell’ultima caratteristica che ho
attribuito alle grandi dicotomie: quella per cui entrambe le sottoclassi
hanno la tendenza a trasformarsi in classe universale respingendo l’altra
fuori dell’universo e facendone così una classe vuota. Qui vale il
riferimento alla contrapposizione tra una concezione privatistica e una
concezione pubblicistica del diritto. Si richiami alla mente per un
momento l’espediente, cui di solito si ricorre per compiere questa
operazione: l’opposizione tra ciò che è reale e ciò che è apparente. Ebbene:
concezione privatistica del diritto è quella per cui solo il diritto privato è
vero diritto; concezione pubblicistica quella per cui è vero diritto solo il
diritto pubblico. Il diritto pubblico per la prima, il diritto privato per la
seconda, sono diritto apparente, diritto impropriamente detto, in una
parola non-diritto. Il che è qualcosa di diverso dal dire che è diritto
destinato a scomparire, secondo quel che argomenta chi fa della grande
dicotomia un uso storiografico, o che è cattivo diritto, secondo quel che
insinua chi ne fa un uso assiologico. Nel linguaggio giuridico uno dei modi
più comuni per espellere dalla sfera del diritto tutto ciò che si ritiene non
debba appartenervi è quello di assegnarlo alla sfera del fatto. Per chi intende
«diritto» come un insieme di norme, cioè di proposizioni espresse o
inespresse che permettono di qualificare comportamenti umani come leciti
o illeciti, viene ad appartenere alla sfera del fatto ogni evento non
qualificato né qualificabile da quelle norme. Orbene il processo di
universalizzazione di una delle due parti della grande dicotomia avviene
abitualmente attraverso la degradazione dell’altra parte a mero fatto. In una
concezione privatistica del diritto i rapporti di diritto pubblico vengono
espulsi dalla sfera giuridica come rapporti di potere o di forza, che si
sottraggono in quanto tali alle regole valide per i rapporti di diritto privato;
in una concezione pubblicistica, i rapporti di diritto privato vengono
estromessi come rapporti di mera convenienza o di opportunità, come
rapporti sociali generici non protetti dal sistema normativo statale. Nella
prima concezione il diritto pubblico viene sospinto nella sfera dell’extra-
giuridico; nella seconda, il diritto privato viene relegato nella sfera del pre-
giuridico. Nell’uno e nell’altro caso il vero diritto è uno solo.
La scienza del diritto è stata dominata per secoli dalla concezione
privatistica del diritto, per la quale sono diritto in senso proprio solo gli
istituti tradizionali del diritto privato. Di questa concezione uno dei
momenti culminanti è stata la dottrina del contratto sociale. Il
contrattualismo, come aveva ben visto Hegel nel criticarne la legittimità12,
si può considerare come l’estrema conseguenza della tendenza prevalente a
pensare tutto il diritto, e quindi anche il diritto pubblico, attraverso una
delle categorie fondamentali del diritto privato, come il supremo tentativo,
mi si permetta l’espressione, di privatizzare lo stato. Via via che si
affermano, invece, le teorie statualistiche ed imperativistiche, per cui il
diritto è comando del sovrano, cioè di colui che detiene il monopolio della
forza in una determinata società, il diritto privato viene ad essere
considerato diritto solo in quanto è diritto pubblico, il che val quanto dire
che tutto il diritto è pubblico, e la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico è soltanto una distinzione di comodo che in realtà non distingue
nulla. Ciò che i giuristi continuano a chiamare diritto privato non sarebbe
altro che una branca del diritto pubblico. Anziché privatizzare lo stato, si
pubblicizza l’individuo. Anziché guardare allo stato dal punto di vista
dell’autonomia degl’individui, si guarda all’individuo dal punto di vista
dell’autorità dello stato. Un esempio ancor più calzante dell’influenza che
ha esercitato nella teoria del diritto la prevalenza dell’immagine privatistica
o di quella pubblicistica del diritto, è il contrasto tra teoria del diritto come
rapporto e teoria del diritto come istituzione. Com’è noto, la teoria
istituzionale è nata, tanto in Francia quanto in Italia, da giuristi provenienti
dal campo del diritto pubblico per i quali il diritto si presentava, più che
come insieme di regole per lo stabilimento di rapporti di convivenza, come
insieme di regole per il coordinamento di azioni convergenti al
raggiungimento di un fine, cioè come strumento di organizzazione in vista
di uno scopo comune13. La teoria del diritto come rapporto tra due
soggetti aveva tenuto il campo sino a che la teoria generale del diritto era
stata modellata sul diritto privato: la teoria dello stato come persona
giuridica, che aveva permesso l’applicazione del concetto di rapporto
giuridico al rapporto tra individui e stato, era stata un tentativo di costruire
la dogmatica del diritto pubblico a immagine e somiglianza di quella del
diritto privato. Quando entrarono in lizza i pubblicisti, sempre più
insofferenti dell’antico giogo, l’immagine del diritto come rapporto
intersoggettivo fu rapidamente offuscata e sostituita da quella
dell’istituzione: per chi aveva a che fare con la realtà dello stato il fenomeno
più imponente di cui si doveva tener conto era l’apparato organizzativo, un
insieme di regole la cui funzione non era tanto quella di dividere parte da
parte, ma di mettere in relazione le varie parti col tutto. Oggi sappiamo
benissimo che sia la teoria del rapporto sia quella dell’istituzione sono
teorie riduzionistiche. Qui si è voluto soltanto mostrare la relazione tra
questa operazione riduzionistica e la presenza sempre incombente della
grande dicotomia.
Non si insisterà mai abbastanza, infatti, che la sfera del diritto privato e
la sfera del diritto pubblico sono dominate da due immagini diverse di
diritto. Per i privatisti il diritto è una specie di arbitro che è chiamato a
dirimere conflitti; per i pubblicisti, il diritto assume piuttosto la figura del
comandante che coordina gli sforzi della sua truppa per vincere la battaglia.
Fuor di metafora, per gli uni, il diritto è un insieme di regole di
convivenza, per gli altri, un insieme di regole per indirizzare azioni
altrimenti disperse verso uno scopo comune. Il contrasto tra queste due
immagini del diritto spiega perché la ricerca di un criterio di distinzione tra
diritto privato e diritto pubblico sia sempre così difficile tanto da sembrare
disperata. Non ci si accorge che nella distinzione si scontrano non due
specie di un unico genere ma due modi diversi di concepire lo stesso
oggetto, o, se si vuole, due punti di vista diversi. Tanto è vero che a chi si
mette dal punto di vista del diritto come regola di convivenza riesce
estremamente ostico assegnare il diritto penale al diritto pubblico, così
come diventa impossibile, per chi si mette dal punto di vista del diritto
come organizzazione, collocare il diritto di famiglia nel diritto privato.
5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia
una grande dicotomia
Ho detto all’inizio che in un universo di discorso può esistere più di
una grande dicotomia. Non appartiene alle caratteristiche di una grande
dicotomia di essere l’unica possibile in un determinato universo. Esistono
altre grandi dicotomie nell’universo del discorso giuridico? Quel che è
stato detto sin qui a proposito della distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico dovrebbe servire, se non m’inganno, a dare una risposta a questa
domanda. Si tratta infatti di sottoporre altre distinzioni alla stessa prova cui
abbiamo sottoposto la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Se
la prova dà gli stessi risultati, si può annoverarla tra le grandi dicotomie.
Come ho già accennato, credo che almeno un’altra distinzione potrebbe
superare la prova: quella tra diritto consuetudinario e diritto statuito. Si
pensi alla divisione della storia del diritto in epoche di diritto
consuetudinario e diritto statuito, all’evoluzione degli ordinamenti
giuridici giudicata in base al parametro della graduale estinzione del diritto
consuetudinario e al graduale predominio del diritto statuito (ciò che ho
chiamato «uso storiografico» della grande dicotomia). Si pensi anche alle
annose e ricorrenti dispute giunte sino a noi intorno alla superiorità della
consuetudine sulla legge come modo di regolare i rapporti sociali (quello
che ho chiamato «uso assiologico»), e il conseguente miraggio che la fine
dello stato coincida con la scomparsa non tanto del diritto quanto del
diritto legislativo e con la sostituzione del diritto posto dall’autorità
pubblica con un insieme di regole osservate, come quelle consuetudinarie,
spontaneamente14. A questo punto ecco che si è verificato anche per questa
distinzione quel processo di universalizzazione di una delle due sottoclassi
in cui ho visto l’ultimo e più rilevante carattere delle grandi dicotomie: il
diritto consuetudinario non è più una parte dell’universo giuridico ma
finisce per identificarsi col diritto stesso, con l’unico diritto possibile in una
società giunta alla compiutezza del suo svolgimento. Infine, questa
distinzione è – insieme con la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico – una delle matrici della distinzione tra diritto naturale e diritto
positivo.
Che della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo non si sia
sinora parlato, può sembrare strano. Ma ciò dipende dal fatto che i due
termini della distinzione – e soprattutto il primo – sono piuttosto ambigui
e non sono immediatamente evidenti come i termini delle distinzioni di
cui si è sin qui discorso. Io ritengo anzi che uno dei modi per scioglierne
l’ambiguità sia proprio quello di servirsi di queste, di trarre giovamento
dalla loro maggiore perspicuità. La mia tesi è che la distinzione tra diritto
naturale e diritto positivo, quando è usata in senso ontologico e non
deontologico, cioè per distinguere due specie di diritto e non il diritto
ideale dal diritto reale, sia quasi sempre un’interpretazione irrigidita e
quindi quasi una duplicazione, ora, della distinzione tra diritto privato e
diritto pubblico, ora, della distinzione tra diritto consuetudinario e diritto
statuito.
Che in molti contesti, anche fra i più noti, diritto naturale e diritto
consuetudinario mal si distinguano e appaiano reversibili l’uno nell’altro,
oppure il diritto naturale, nella contrapposizione al diritto positivo, faccia
per così dire le veci, o abbia la stessa funzione, del diritto consuetudinario,
è questione che meriterebbe più lungo discorso. Ma è già sufficientemente
illuminante un celebre testo di Pascal: «J’ai grand peur que cette nature ne
soit elle-même qu’une première coutume, comme la coutume est une
seconde nature»15. Quando Antigone invocava «le leggi non scritte», si
appellava al diritto naturale, come sulla scorta di Aristotele interpretarono
abitualmente i giusnaturalisti, oppure al diritto tramandato, come intese
Hegel?16 Tanto il diritto romano nella tradizione del diritto comune
quanto la common law inglese furono accolti e giustificati dai giuristi come
diritto la cui validità dipende tanto dalla autorità della tradizione quanto
dall’essere diritto della ragione. Lo scambio dei due argomenti, quello della
legittimità tradizionale e quello della legittimità razionale, è frequentissimo
e, si direbbe, innocuo. Il diritto romano è un diritto tramandato la cui
validità riposa sulla sua razionalità allo stesso modo che la common law è un
diritto della ragione la cui validità riposa sulla tradizione. Le parti si
potrebbero invertire. Nel diritto internazionale, diritto naturale e diritto
consuetudinario si sono scambiati, secondo i tempi e gli autori, il ruolo di
fonte primaria delle norme generali dell’ordinamento. E ancora
recentemente la polemica contro il diritto positivo è stata portata innanzi
in nome del diritto spontaneo, cioè in nome di un attributo del diritto, la
«spontaneità», che sin dall’apparire della distinzione tra diritto secondo
natura e diritto secondo convenzione era stato considerato come un
carattere del primo17.
Analoghe considerazioni si possono fare per quel che riguarda la
sovrapposizione della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo alla
distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Anche in questo caso il
materiale storico è così abbondante che l’argomento meriterebbe una
trattazione a parte. Una delle raffigurazioni più costanti del diritto naturale
è quella che ce lo rappresenta come il diritto che regola i rapporti tra gli
individui singoli e isolati l’uno rispetto all’altro nello stato di natura, cioè
nello stato in cui non esiste ancora un diritto pubblico. Gli istituti tipici
dello stato di natura sono la proprietà, il contratto e in genere anche la
famiglia: sono gli istituti del diritto privato. Il passaggio dallo stato di natura
allo stato civile avviene con l’istituzione degli organi del potere pubblico,
incaricati di far rispettare, ricorrendo in ultima istanza alla forza, gli
obblighi assunti dagl’individui nella società prestatuale. Il diritto positivo
per eccellenza è il diritto pubblico, tanto che non si riuscirebbe a
distinguere nella teoria giusnaturalistica tradizionale il processo di
positivizzazione del diritto da quello della sua statualizzazione. La
riduzione del diritto naturale a diritto privato e rispettivamente del diritto
positivo a diritto pubblico è espressamente formulata da Kant: «La
divisione del diritto naturale non risiede... nella distinzione di diritto
naturale e di diritto sociale, ma in quella di diritto naturale e di diritto civile,
di cui il primo è chiamato diritto privato, il secondo diritto pubblico»18. Nel
processo di monopolizzazione del diritto positivo da parte dello stato tutto
il diritto positivo è diritto pubblico, anzi il diritto è vero diritto, cioè ius
perfectum, solo in quanto è pubblico. Che poi questo diritto, che è positivo
in quanto pubblico, regoli anche rapporti tra privati non toglie nulla al suo
carattere di diritto pubblico, dal momento che quei rapporti tra privati
diventano rapporti veramente giuridici solo in quanto ricevono protezione
attraverso gli organi dello stato. Nella teoria generale del diritto questo
processo di eliminazione del diritto privato come diritto prestatuale è
avvenuto attraverso l’espulsione delle norme primarie dall’ordinamento
giuridico. Compiuto questo processo, il recupero del diritto privato come
diritto prestatuale o naturale non poteva avvenire se non attraverso la
riscoperta del «diritto dei privati»19. La contrapposizione del diritto dei
privati al diritto pubblico (che include anche il diritto privato) è una delle
tante forme in cui è stata espressa nei secoli la contrapposizione tra diritto
naturale e diritto positivo.
Note
1 Mi riferisco all’articolo precedente Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo
stesso volume. Ma vedi anche Sulla nozione di società civile, in «De Homine», 1968, n. 24-25, pp. 19-
36.
2 Richiama l’attenzione, sulle grandi dicotomie del pensiero sociologico, P. Farneti, Theodor
Geiger e la coscienza della società industriale, Giappichelli, Torino 1966, pp. 230 sgg.
3 Per chi ne voglia sapere di più rinvio a P.F. Lazarsfeld, L’algebra dei sistemi dicotomici, in R.
Boudon-P.F. Lazarsfeld, L’analisi empirica nelle scienze sociali, vol. II, Il Mulino, Bologna 1969, pp.
353-84.
4 Ho illustrato questa matrice moschiana nel saggio Mosca e la teoria della scienza politica, ora in
Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari 1969, p. 209.
5 Alla quale è dedicata una delle sue opere maggiori, De la division du travail social (1893), che si
può leggere in traduzione italiana, La divisione del lavoro sociale, a cura di A. Pizzorno, Edizioni di
Comunità, Milano 1962.
6 Ch. Perelman-L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, vol. II, PUF, Paris 1958, pp. 556-
61 (trad. it., Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino 1966, pp. 437-41).
7 Sulla quale mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria
del diritto, già citato.
8 Per Hayek si vedano i due articoli The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI,
1966, pp. 601-18, e Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico», XXIII, 1968, pp. 693-
723.
9 Particolarmente interessante a questo proposito P.I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e
dello stato, a cura di U. Cerroni, Einaudi, Torino 1967, pp. 229 sgg. e 246 sgg. Cfr. sul tema U.
Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969.
10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952 ma 1967, pp. 134-36; La
dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. 313-16.
11 La dottrina pura del diritto, cit., p. 314.
12 Sin dall’opera giovanile Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, ed. Lasson,
vol. VII, p. 405 (trad. it., Scritti di filosofia del diritto, a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1962, p. 110).
Per ulteriori particolari rinvio al mio articolo Hegel e il giusnaturalismo, in «Rivista di filosofia»,
XLVII, 1966, pp. 387-89.
13 Questa prospettiva è evidente nell’ormai famoso saggio di Santi Romano, L’ordinamento
8. Conclusione
Teoricamente pluralista, ideologicamente monista. Non sembri una
contraddizione. Questa affermazione, se mai, conferma la complessità del
rapporto fra teoria e ideologia. Del resto, non è difficile darne una
spiegazione. In quanto teoria il pluralismo, ridotto al suo nucleo centrale, è
imperniato sulla convinzione che un maggior rilievo dato alla molteplicità
dei gruppi che agiscono in un sistema sociale offra un modello per la
comprensione della realtà sociale più adeguato del modello ottocentesco
incardinato sui due poli opposti dell’individuo e dello stato. Ma una volta
constatata l’articolazione del sistema sociale in gruppi, anche le dottrine
pluralistiche sono attraversate e quindi influenzate dalla «grande divisione»
fra teorie conflittualistiche e teorie integrazionistiche. Da un lato, si può
interpretare la società divisa in gruppi come un sistema in equilibrio
dinamico, in cui i vari gruppi occupano un posto di potenziale parità e
sono continuamente in concorrenza fra loro, oppure come un sistema
organico in cui i vari gruppi sono funzionali al tutto in modo diseguale,
essendo alcuni subordinati, altri sopraordinati42. La prova del fuoco per la
classificazione di una dottrina pluralistica nella prima o nell’altra categoria è
la posizione dello stato rispetto a tutti gli altri gruppi. Per il pluralismo
eversivo lo stato è un’istituzione come tutte le altre, tanto che può persino
rendersi superfluo. Per il pluralismo moderato, lo stato è pur sempre
un’istituzione diversa da tutte le altre, irriducibile alle altre, superiore alle
altre, è in un certo senso l’istituzione che rende possibile l’esistenza stessa
di tutte le altre istituzioni, e non può essere eliminato perché è il
coronamento e la sintesi necessaria di ogni sistema sociale. Con
un’espressione significativa Romano chiama lo stato «istituzione delle
istituzioni», e non pensa mai neppure lontanamente essere possibile o
desiderabile che venga disaggregato nelle sue parti. Dal punto di vista
ideologico c’è pluralismo e pluralismo, così come c’è monismo e
monismo. Al tempo in cui Romano scriveva il saggio sulla crisi dello stato,
il monismo dei nazionalisti era un monismo assoluto che sarebbe sfociato
nella formula mussoliniana di «tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato,
nulla contro lo stato». Il monismo di Romano era un monismo relativo,
perché, per quanto ponesse lo stato al vertice della scala degli ordinamenti,
come ordinamento sovraordinato agli ordinamenti sociali, non lo
considerava un ordinamento esclusivo43. Riconosceva che lo stato aveva
una tendenza irresistibile ad assorbire gli altri ordinamenti ma riconosceva
nello stesso tempo che al di là dello stato vi era una tendenza altrettanto
irresistibile della società a generare sempre nuovi ordinamenti, onde
restava pur sempre al di fuori dello stato un margine più o meno ampio di
socialità non controllata dallo stato e quindi sotto certi aspetti prestatale e
sotto certi altri addirittura antistatale.
Pluralismo moderato e monismo relativo sono formule cui non voglio
attribuire maggior valore di quello che hanno tutte le formule. Però mi
pare che entrambe esprimano abbastanza bene lo spirito con cui Romano
affrontò il problema del rapporto fra società e stato in un periodo di
profonde trasformazioni, nonché la concezione che egli aveva del giurista,
su cui scrisse alcune delle sue più belle pagine in un frammento dove, dopo
aver paragonato le diverse specie di giuristi alle diverse specie di perle, vere,
false o coltivate, conclude che «giurista e, tanto meno grande giurista, non
è... chi non ha mente molto equilibrata e prudente»44. Non è arrischiato
presumere che scrivendo quelle pagine pensasse anche a se stesso45.
Note
1 S. Romano, L’ordre juridique, traduction française de la 2e édition de L’ordinamento giuridico, par
L. François et P. Gothot, introduction de Ph. Franceskakis, Dalloz, Paris 1975; Id., Die
Rechtsordnung, mit einem Vorwort, biographischen und bibliographischen Notizen, herausgegeben
von Roman Schnur, Duncker & Humblot, Berlin 1975. Per quel che riguarda la scienza giuridica
tedesca, non è da dimenticare l’elogio dell’opera di Romano fatto da J. Esser, Grundsatz und Norm in
der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Mohr, Tübingen 19642, p. 292, che considera L’ordinamento
giuridico un’opera di pioniere della teoria pluralistica in Europa e la ritiene, non del tutto
esattamente, la base di ogni ulteriore ricerca di Renard, Delos, Gurvitch, Desqueyrat, ecc.,
insomma di tutta la dottrina istituzionalistica francese. Dico «non del tutto esattamente», perché in
realtà la dottrina istituzionalistica francese ha seguito le orme di Hauriou, del quale lo stesso
Romano si considera, se pure solo in parte, debitore. Giusta, invece, l’osservazione di Esser,
secondo cui specie la seconda parte dell’Ordinamento giuridico, che anche a mio parere è la più
importante (ma su ciò vedi oltre), offre un materiale convincente per mostrare la falsità storica e
attuale della tesi del monopolio delle fonti del diritto da parte del diritto dello stato.
2 S. Romano, El Ordinamiento Jurídico, con Introduzione di S. Martín-Retortillo, intitolata La
doctrina del ordinamiento jurídico de Santi Romano y algunas de sus aplicaciones en el campo del derecho
administrativo, pp. 9-77, Instituto de Estudios politicos, Madrid 1963.
3 J. Stone, Social Dimensions of Law and Justice, Stevens and Sons limited, London 1966, pp. 516-
45. Tanto il saggio di Martín-Retortillo quanto quello di Stone, tradotti in tedesco, sono compresi
nel volume antologico Institution und Recht, herausgegeben von Roman Schnur, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, rispettivamente, pp. 370-420 e 312-69.
4 C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt,
Hamburg 1934, p. 24 (trad. it., nella raccolta di saggi schmittiani, Le categorie del politico, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 260).
5 Vedi per tutti A. Desqueyrat, L’institution, le droit objectif et la technique positive. Essai historique et
doctrinal, Recueil Sirey, Paris 1933; dello stesso autore, L’institution. Sa nature, ses espèces, les problèmes
au’elle pose, in «Archives de philosophie», XII, 1936, pp. 65-115. Ancora più sorprendente che non
vi sia traccia della teoria del Romano nel recente volume, Le pluralisme juridique. Etudes publiées sous la
direction de John Gilissen, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1972, che contiene scritti di
vari autori, e fra questi un saggio di L. Ingber, Le pluralisme juridique dans l’oeuvre des philosophes du
droit, pp. 57-84.
6 Cfr. J. Delos, La théorie de l’institution, in «Archives de philosophie du droit et de sociologie
juridique», I, n. 1, 1931, pp. 97-143; G. Gurvitch, Les idées-maîtresses de Maurice Hauriou, ivi, pp.
155-94.
7 W. Ivor Jennings, The Institutional Theory, in Modern Theories of Law, Oxford University Press,
London 1933, pp. 68-85. Anche Jennings mette in relazione la teoria istituzionale con la
trasformazione dello stato moderno, come avevano fatto i suoi fondatori, con quella trasformazione
per cui non c’è più lo stato da una parte e gl’individui dall’altra, ma lo stato è diventato sempre più
«un aggregato d’istituzioni».
8 G. Bottai, Santi Romano, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Cedam, Padova 1940, vol. I,
p. XVIII. Sull’opera politica e culturale di Bottai vedi S. Cassese, Un programmatore degli anni trenta:
Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», a. I, n. 3, 1970, pp. 404-47.
9 S. Panunzio, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’unità dello stato, in Studi filosofico-giuridici
dedicati a G. Del Vecchio nel XXV anno di insegnamento (1904-1929), Società tipografica modenese,
Modena 1931, vol. II, pp. 179-227.
10 G. Capograssi, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici (1936, 19392), ora in Opere,
Giuffrè, Milano 1959, vol. IV, pp. 183-221. Dello stesso autore vedi anche L’ultimo libro di Santi
Romano (1951), ora in Opere, vol. V, pp. 223-54, a proposito dei Frammenti di un dizionario giuridico.
11 Si tratta delle seguenti opere: Saggio sullo stato (1918), Riflessioni sulla autorità e la sua crisi (1921)
e La nuova democrazia diretta (1922), in Opere, vol. I, rispettivamente pp. 5-147, 153-402, 407-573.
12 Mi riferisco in modo particolare all’Ordinamento giuridico, apparso primamente in due fascicoli
degli «Annali delle università toscane», n.s., vol. II, n. 5, e vol. III, n. 1, 1917-1918, e quindi in
volume presso l’editore Spoerri di Pisa, nel 1918. Ripubblicato immutato con aggiornamenti
bibliografici e con l’aggiunta di varie risposte ai critici nonché di un indice analitico e dei nomi,
presso l’editore Sansoni di Firenze, come n. 1 della collana «I classici del diritto», s.d., ma la
Prefazione dell’autore reca la data «novembre 1945», ristampato nel 1962. D’ora innanzi citato dalla
seconda edizione come OG. L’altra opera di Romano di cui ho tenuto largo conto sono i Frammenti
di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano 1951, citati d’ora innanzi come FDG. Per quel che riguarda
la bibliografia sull’opera di Santi Romano, rinvio il lettore all’eccellente saggio di S. Cassese, Ipotesi
sulla formazione de «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, in «Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno», a. I, 1972, pp. 244-83. Dello stesso autore, Cultura e politica nel diritto
amministrativo, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 44 sgg., e Guido Zanobini e il sistema del diritto
amministrativo degli anni trenta, in «Politica del diritto», a. V, n. 6, 1974, pp. 699-710.
13 Romano, nel formulare la propria teoria dell’istituzione, prende le mosse da Hauriou, cui
ascrive «il merito principale... di aver posto avanti l’idea di sussumere nel mondo giuridico il
concetto di istituzione ampiamente inteso, di cui finora non si avevano che tracce, anch’esse del
resto lievi, nella terminologia, più che nella speculazione, politica e sociologica» (OG, p. 26). Si
tenga presente che Romano scrive quando Hauriou non ha ancora pubblicato il saggio cui di solito
gli studiosi si riferiscono per esporre la teoria dell’istituzione, vale a dire la Théorie de l’institution et de
la fondation, apparso primamente nei «Cahiers de la nouvelle journée», n. 4, 1925, e quindi nel
volume Aux sources du droit: le Pouvoir, l’Ordre et la Liberté, Librairie Bloud & Gay, Paris 1933,
tradotto in italiano in un volume che raccoglie parecchi saggi del giurista francese col titolo Teoria
della istituzione e della fondazione, a cura di W. Cesarini Sforza e presentazione di A. Baratta, nella
collana «Civiltà del diritto», n. 16, Giuffrè, Milano 1967. L’opera di Hauriou cui Romano si
riferisce sono i Principes de droit public, che cita dalla seconda edizione, Sirey, Paris 1916.
14 Anche per lunghezza le due parti sono diseguali: la prima, dedicata all’istituzione, è di 80
pagine; la seconda, dedicata alla pluralità degli ordinamenti e dei loro rapporti, è di 100 pagine.
15 Proprio all’inizio dell’opera, Romano cita come rappresentante del normativismo esasperato,
oltre a Kelsen, Duguit, nei «singolari lavori» del quale, egli nota, «ogni altro momento del fenomeno
giuridico è risolto e quasi annullato in quello della “règle de droit”» (p. 4).
16 Di questi due autori mi sono occupato in un saggio ormai remoto nel tempo e nella memoria,
intitolato Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in «Rivista internazionale di filosofia del
diritto», XVI, 1936, pp. 385-418. Lo stesso saggio conteneva in nota un accenno anche alla teoria di
Romano, cui Romano stesso rispose nelle repliche della seconda edizione (in particolare vedi p. 34).
17 Ho già sviluppato questo concetto nel saggio Ancora sulle norme primarie e norme secondarie
(1968), ora nel volume, Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 196-97.
18 Mi riferisco in modo particolare ai paragrafi dedicati all’esemplare e originale trattazione dei
diversi modi con cui i diversi ordinamenti possono venire in rapporto fra di loro (che, è bene
ricordarlo, occupa più di un terzo dell’intero libro, pp. 112-80).
19 OG, pp. 22, 35.
20 OG, pp. 22, 43.
21 OG, p. 35.
22 Vedi OG, rispettivamente pp. 22 e 35.
23 Sarà bene dire una volta per sempre che nella mente del Romano la contrapposizione fra
normativismo e istituzionalismo non corrisponde affatto, come si sarebbe tentati di credere, e come
è stato più volte sostenuto, alla contrapposizione fra formalismo e realismo giuridico. La dottrina di
Romano non ha e non vuole avere niente a che vedere con la dottrina realistica né con la sociologia
giuridica. Romano è, nel senso proprio della parola, un «formalista», perché considera il diritto
come la forma dei rapporti sociali che, in quanto tale, può e deve essere studiato indipendentemente
dai suoi rapporti con la sottostante società. Fra i molti brani che si potrebbero citare, mi pare
oltremodo significativo il seguente: «Noi tale ente [l’istituzione] abbiamo considerato, non dal
punto di vista delle forze materiali che lo producono e lo reggono, non in rapporto all’ambiente in
cui si sviluppa e vive come fenomeno interdipendente con altri, non in riguardo ai nessi di cause ed
effetti che vi si ricollegano, e quindi non sociologicamente, ma in sé e per sé, in quanto risulta da un
ordinamento giuridico, anzi è un sistema di diritto obiettivo. Ci siamo, naturalmente, dovuti spingere
sino alle ultime regioni, in cui è dato respirare l’atmosfera giuridica, ma non le abbiamo mai oltrepassate»
(OG, p. 79, il corsivo è mio). Sulla considerazione formale del diritto, cfr. anche OG, p. 37.
Conferma il proprio orientamento formalistico, ogni qual volta rifiuta le interpretazioni teleologiche
del diritto e dello stato. A proposito della concezione dello stato come «unità teleologica» scrive:
«Ciò non è inesatto, ma pel giurista è non meno, anzi forse più importante la natura strutturale di
quell’unità...» (FDG, p. 209, corsivo mio).
24 Hauriou si preoccupa dei rapporti fra il giuridico e il pregiuridico, fra il diritto e il potere, fra
il diritto e la società, più di quel che se ne preoccupi Romano, che tiene lontane dai suoi confini
tanto la filosofia quanto la sociologia e la politica come se ne temesse la contaminazione. Un
sottotitolo come quello che Hauriou diede alla sua Teoria dell’istituzione e della fondazione, «saggio di
vitalismo giuridico», sarebbe per Romano inimmaginabile. Si veda l’importanza che ha il concetto
di «potere», fondamentale per la scienza politica, nella tematica di Hauriou, Teoria dell’istituzione, cit.,
pp. 13 sgg. e 105 sgg.
25 OG, p. 91.
26 OG, p. 88.
27 OG, p. 89.
28 OG, p. 93.
29 Il frammento sulla rivoluzione, scritto nel settembre 1944, comincia così: «La storia così
tragica di questi ultimi anni, come, del resto, tutta la storia dell’umanità...». Ma questa constatazione
serve soltanto di premessa alla introduzione di una nuova categoria giuridica: il diritto delle
rivoluzioni (FDG, p. 220).
30 Ma non sempre: si leggano almeno le ultime righe dei Frammenti che lasciano intravedere le
sue simpatie politiche: «... sarebbe da augurarsi che l’uomo “popolare” non diventi uomo “volgare”;
che “l’uomo qualunque” non si atteggi a uomo sapiente e pretenda di comandare lui quando si
dovrebbe ubbidire; che insomma il tranquillo e bonario “uomo della strada” non assuma
l’atteggiamento dello schiamazzante “uomo della piazza”, determinando la facile degenerazione
della democrazia in oclocrazia» (p. 235). Il frammento reca la data del luglio 1945.
31 Specie nei riguardi dei filosofi Romano si preoccupa di stabilire una precisa delimitazione di
confini, lasciando intendere che quel che dicono i filosofi sul diritto sarà pure importante ma non ha
alcun interesse per un teorico generale del diritto che deriva le sue costruzioni esclusivamente
dall’esperienza. Nella Prefazione alla seconda edizione reagisce bruscamente anche alle critiche dei
politici che «dimostrano un’assoluta incomprensione dei problemi fondamentali della teoria
generale del diritto» (OG, p. 1). A p. 39: «... un’indagine di teoria generale del diritto, quale è la
nostra».
32 S. Romano, Gaetano Mosca (1942), in Scritti minori, a cura di G. Zanobini, Giuffrè, Milano
1950, vol. I, pp. 381-85.
33 Questa è la tesi sostenuta, con la solita bravura e un pizzico di sostanza caustica (che brucia
più di quel che guarisca), da G. Tarello, Prospetto per la voce «Ordinamento giuridico» di un’enciclopedia, in
«Politica del diritto», a. VI, n. 1, 1975, pp. 73-102.
34 S. Romano, Lo stato moderno e la sua crisi (1910), in Scritti minori, cit., pp. 310-25. Ancora
recentemente il rapporto fra la prolusione pisana e L’ordinamento giuridico è stato ribadito da S.
D’Albergo, Riflessioni sulla storicità degli ordinamenti giuridici, in «Rivista trimestrale di diritto
pubblico», XXIV, 1974, pp. 451-82, e ripreso dallo stesso autore nella breve nota, L’ordinamento
giuridico, in «Rinascita», XXXII, n. 35, 5 settembre 1975, p. 38, segno evidente dell’interesse attuale
per il nostro tema. La constatazione del nesso fra la consapevolezza della crisi dello stato liberale e la
dottrina della pluralità risale ai primi interpreti della dottrina romaniana. Per non parlare di
Panunzio che denuncia non la crisi dello stato ma al contrario la crisi della teoria pluralistica sulla
base del riconosciuto superamento della crisi dello stato, si veda A.E. Cammarata, Contributi ad una
critica gnoseologica della giurisprudenza (1925), in Formalismo e sapere giuridico, a cura della Università di
Trieste, 1962, pp. 30-31: «Recentemente... questa concezione sociale del diritto ha ricevuto
ulteriori spinte, se così è lecito esprimersi, dalla cosiddetta “crisi dello stato moderno”: crisi che si è
creduto di scorgere nel moltiplicarsi, in seno allo stato moderno, di associazioni ed organizzazioni...
tendenti a riunire gl’individui secondo il criterio delle loro “professioni”, o, meglio, del loro
interesse economico». Il richiamo al precedente saggio sulla crisi dello stato moderno è fatto del
resto dallo stesso Romano nell’Ordinamento giuridico, p. 93.
35 F. Tessitore, Crisi e trasformazioni dello stato. Ricerche sul pensiero giuspubblicistico italiano tra Otto e
di Santi Romano, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXVI, 1976, pp. 661-74, che,
attraverso un’accurata analisi di alcuni scritti composti fra il 1907 e il 1917, mette in evidenza tutti
gli elementi che mostrano l’ideologia conservatrice di Santi Romano.
IX. Struttura e funzione nella teoria del
diritto di Kelsen
Note
1 Il titolo intero è Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, Mohr,
Tübingen 1910. La seconda edizione è una riproduzione foto-meccanica della prima, con l’aggiunta
di un’importante Introduzione (pp. V-XXIII), che fa il punto sullo sviluppo della teoria pura del
diritto negli ultimi dieci anni. La più ampia bibliografia delle opere di Kelsen e su Kelsen si trova in
appendice a R.A. Metall, Hans Kelsen. Leben und Werk, F. Deuticke, Wien 1969, pp. 124-216.
Aggiornata sino al 1965 è la bibliografia delle opere di Kelsen che si trova in appendice al Saggio
introduttivo di M.G. Losano, premesso alla edizione italiana della seconda edizione della Reine
Rechtslehre; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. LXII-XC.
2 Anche questa espressione «giurisprudenza teorica» (theoretical jurisprudence) si trova in Kelsen,
per esempio in General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1945
(d’ora innanzi citato come GTLS), p. 141 (trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 143).
3 Mi limito a ricordare, dopo la bibliografia di Metall, citata, la monografia, a dire il vero
alquanto scolastica, di R. Hauser, Norm, Recht und Staat. Überlegungen zu Hans Kelsens Theorie der
reinen Rechtslehre, Springer Verlag, Wien 1968.
4 «Rechtstheorie. Zeitschrift für Logik, Methodenlehre, Kybemetik und Soziologie des
Rechts», Duncker & Humblot, Berlin 1970.
5 R. Walter, Der gegenwärtige Stand der reinen Rechtslehre, in «Rechtstheorie», I, 1970, pp. 69-95.
6 J. Piaget, Les deux problèmes principaux de l’épistémologie des sciences de l’homme, in Logique et
connaissance scientifique, vol. XXII dell’«Encyclopédie de la Pléiade», Paris 1967, p. 1117. Sul rapporto
Piaget-Kelsen, cfr. G. Cellerier, Incidenza dell’epistemologia genetica sulla teoria dei fondamenti del diritto,
in AA.VV., Jean Piaget e le scienze sociali, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 71-113.
7 H. Kelsen, Pure Theory of Law and Analytical Jurisprudence, in «Harvard Law Review», LV, 1941,
pp. 44-70 (trad. it. in Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1967,
pp. 173-206).
8 Una lunga discussione con Kant si trova nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, F.
Deuticke, Wien 1960 (citata d’ora innanzi come RRL2), pp. 102-5 (trad. it., Einaudi, Torino 1966,
pp. 119-20). Per i rapporti tra Kelsen e il neo-kantismo è ancora fondamentale R. Treves, Il
fondamento filosofico della dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, in «Atti della R. Acc. delle Scienze di
Torino», LXIX, 1934 (p. 43, estratto).
9 Cfr. il paragrafo intitolato Die Libido als Kriterium der sozialen Verbindung, nel libro Der
soziologische und der juristische Staatsbegriff, Mohr, Tübingen 1922, pp. 19-33. Un accenno alla
psicoanalisi anche in Das Verhältnis von Staat und Recht im Lichte der Erkenntniskritik, in «Zeischrift für
öffentliches Recht», II, 1921, p. 506.
10 H. Kelsen, Die Entstehung der Kausalgesetzes aus dem Vergeltungsprinzip, in «The Journal of
Unified Science», VIII, 1939, pp. 69-130; Causality and Retribution, ivi, pp. 234-40.
11 Per queste notizie rinvio Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 67 e 110. Cfr. anche F. Barone, Il neo-
positivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino 1953, p. 247.
12 In una nota di Vom Wesen der Demokratie, Mohr, Tübingen 1920 (che cito dalla trad. it.,
Essenza e valore della democrazia, in H. Kelsen, Democrazia e cultura, Il Mulino, Bologna 1955), Kelsen
discute l’affermazione di Roberto Michels, secondo cui il fascismo nella sua tendenza
antiparlamentare si era appoggiato a Pareto, e la rifiuta ritenendo che l’atteggiamento di Pareto nei
riguardi del parlamento fosse quello di un liberale (pp. 46-47). Il giudizio di Michels si fondava sul
saggio paretiano Pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale, che egli stesso aveva pubblicato
subito dopo la morte di Pareto in «La vita italiana», settembre-ottobre 1923, pp. 165-69,
presentandolo come «il testamento politico del più grande sociologo e pensatore dell’epoca presente
lasciato a tutti gli italiani giovani senza distinzione di partito» (ora in V. Pareto, Scritti politici, a cura
di G. Busino, Utet, Torino 1974, vol. II, pp. 795-800). Lo stesso riferimento a Pareto si trova anche
in un saggio posteriore del Kelsen, Das Problem des Parlamentarismus, W. Braumüller, Wien-Leipzig
1924, come viene rilevato da P. Tommissen, La conception parétienne de la démocratie, in «Res publica»
(Revue de l’Institut belge de science politique), XVII, 1975, pp. 5-30, che cita a p. 23 il saggio
kelseniano dalla seconda edizione del 1968 (dove il passo commentato si trova a pp. 42-44). Di
questo scritto kelseniano esiste anche una vecchia traduzione italiana in «Nuovi studi di diritto,
economia e politica», II, 1929, pp. 182-204. Come ognun può vedere da queste citazioni, l’incontro
di Kelsen con Pareto fu occasionale, e non riguardò né la teoria del diritto del primo né la teoria
sociologica del secondo.
13 Nella Prefazione della prima opera, intitolata La règle de droit, F. Rouge, Lousanne 1889,
Roguin scriveva: «noi studiamo il diritto, dal punto di vista analitico e sintetico, come il chimico
studia i corpi che egli scompone e classifica... Per la loro stessa natura, le nostre conclusioni sono,
salvo errore, altrettanto rigorose che quelle della scienza dei corpi materiali» (p. VI). Nella Prefazione
della seconda opera, La science juridique pure, F. Rouge, Lousanne 1923, cita come precedente
Austin, non menziona Kelsen e ribadisce che le verità dimostrate nel suo sistema «non implicano in
se stesse alcun giudizio di valore riguardo al merito o al demerito delle soluzioni e delle istituzioni
giuridiche» (p. XX). Sui rapporti tra Pareto e Roguin ha richiamato l’attenzione G. Busino, Ernest
Roguin e Vilfredo Pareto, in «Cahiers Vilfredo Pareto», 1964, n. 4, pp. 189-210. Sui rapporti fra
Kelsen e Roguin, F. Guisan, La science juridique pure. Roguin e Kelsen, in «Zeischrift für
schweizerisches Recht», LIX, 1940, pp. 207-38. Su Roguin ho scritto io stesso un saggio: Un
dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978,
vol. IV, pp. 43 sgg.
14 Cfr. il paragrafo Der Staat als Rechtsordnung in den Kategorien der «verstehenden» Soziologie, in Der
soziologische und der juristische Staatsbegriff, cit., pp. 156-70. Sul soggiorno di Kelsen ad Heidelberg cfr.
Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 10 sgg.
15 Reine Rechtslehere, F. Deuticke, Leipzig-Wien 1934, Prefazione (citato d’ora innanzi come
RRL1).
16 GTLS, p. XIV (trad. it., p. IX).
17 Hauptprobleme, cit., p. XXIII.
18 Metall racconta che Kelsen non si iscrisse mai ad alcun partito politico, perché riteneva che
l’appartenenza ad un partito mettesse a repentaglio o limitasse l’indipendenza scientifica (Hans
Kelsen, cit., p. 33).
19 RRL1, § 8.
20 RRL1, § 8.
21 GTLS, p. 7 (trad. it., p. 7).
22 GTLS, p. 6 (trad. it., p. 6).
23 RRL2, § 12.
24 GTLS, p. 8 (trad. it., p. 8). E ancora: «Uno studio più approfondito delle fonti rivelerebbe
che queste tesi, cioè le tesi dei giusnaturalisti sul diritto naturale come fondamento del diritto
positivo, erano assolutamente irrilevanti per la validità del diritto positivo: il carattere della dottrina
giusnaturalistica in generale, e della sua corrente principale, era strettamente conservatore. Il diritto
naturale, quale era affermato dalla teoria, era essenzialmente una ideologia, che serviva a sostenere,
giustificare, e rendere assoluto il diritto positivo, o, ciò che è la stessa cosa, l’autorità dello stato» (p.
416, trad. it., p. 423).
25 H. Kelsen, Aussätze zur Ideologiekritik, con un’Introduzione e a cura di E. Topitsch, Hermann
Luchterhand Verlag, Neuwied am Rhein 1964.
26 RRL1, § 50 i.
27 RRL2, § 6 c.
28 RRL1, § 26. Cfr. anche RRL2, § 33 g.
29 A. Merkl, Die Lehre von der Rechtskraft entwickelt aus dem Rechtsbegriff, F. Deuticke, Leipzig-
Wien 1923, p. 223.
30 GTLS, p. 3 (trad. it., p. 3).
31 Sulle varie nozioni di sistema giuridico cfr. G. Lazzaro, L’interpretazione sistematica della legge,
Giappichelli, Torino 1965, specie il cap. I; per una storia dell’idea di sistema, con particolare
riguardo alla scienza giuridica e al diritto, cfr. M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, vol. I,
Giappichelli, Torino 1968. Alcune considerazioni sul tema ho svolto anche nel saggio Per un lessico
di teoria generale del diritto, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova 1975, pp. 135-46.
32 RRL1, § 9.
33 RRL1, § 14 c. R. Treves traduce Sinngehalt con «struttura» (trad. it., ed. 1952, p. 48). Il
traduttore italiano della seconda edizione, M.G. Losano, traduce la tipica espressione kelseniana
Stufenbau (costruzione a gradi) con «struttura gerarchica» adducendo alcuni passi in cui lo stesso
Kelsen usa il termine Struktur con riferimento appunto alla costruzione a gradi dell’ordinamento
giuridico (La dottrina pura del diritto, cit., p. XCIX).
34 Ibid.
35 H. Kelsen, Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und des Rechtspositivismus (1929),
che cito dalla trad. it. in appendice a GTLS, p. 407. Cfr. anche RRL2, § 34 b.
36 Oltre l’articolo di R. Walter, già citato, cfr. B. Akzin, Analysis of State and Law Structure, in
Law, State and International Legal Order. Essays in Honor of Hans Kelsen, edited by E. Engel and R.A.
Metall, The University of Tennessee Press, Knoxville 1964, pp. 2-20.
37 Non mi pare colgano e approfondiscano questo aspetto del problema dell’ordinamento
giuridico i due libri recenti sull’argomento, per altri versi importanti e meritevoli della massima
considerazione: J. Raz, The Concept of a Legal System, Clarendon Press, Oxford 1970; C.E.
Alchourrón-E. Bulygin, Normative Systems, Springer, Wien 1971.
38 Metall, Hans Kelsen, cit., p. 36.
39 RRL2, § 41 a.
40 RRL1, § 48 c; RRL2, § 41 b.
41 Un richiamo a Kelsen, ma solo per quel che riguarda il Wertrelativismus, si trova nel saggio sul
pensiero giuridico weberiano di K. Engisch, Max Weber als Rechtsphilosoph und Rechtssoziologe, in
Max Weber. Gedächtnisschrift der Ludwig-Maximilians-Universität München zum 100. Wiederkehr seines
Geburtstages 1964, Duncker & Humblot, Berlin 1966, pp. 67-88. Per la stessa ragione Weber e
Kelsen sono accomunati nella critica da G. Lukács: Die Zerstörung der Vernunft (1954), di cui cito la
trad. it., La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 617.
42 RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51).
43 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21).
44 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21).
45 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50).
46 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50).
47 RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51).
48 RRL1, § 12.
X. Tullio Ascarelli
7. Il problema dell’interpretazione
Il problema dell’interpretazione fu al centro dei suoi interessi teorici
negli ultimi studi e costituì nello stesso tempo un ritorno alle origini (aveva
esordito, come abbiamo visto, nel 1925, con un ampio saggio sul problema
delle lacune). Nel porsi ripetutamente il problema dell’interpretazione egli
si propose di intervenire autorevolmente nella famosa battaglia dei metodi
che aveva diviso e ancor divide i giuristi in due opposte schiere; ma
concepì il suo intervento più come il giudizio di un arbitro che come la
difesa dell’una o dell’altra parte o la proposta di un metodo nuovo.
Anzitutto ripeté in più luoghi che il suo compito non era prescrittivo, ma
semplicemente storico e descrittivo71: il suo scopo non era quello di
insegnare qual fosse il modo migliore di fare l’interprete, bensì quello di
osservare e spiegare come di fatto agivano ed avevano sempre agito gli
interpreti, anche senza saperlo o credendo di fare cose diverse da quelle che
facevano in realtà. La sua teoria dell’interpretazione non era una
precettistica, ma uno studio storico-critico. Proprio per questo si
distingueva essenzialmente dalle solite teorie dell’interpretazione che erano
ideologie mascherate. Sosteneva, infatti, in secondo luogo, che i cosiddetti
metodi dell’interpretazione erano il riflesso di atteggiamenti etico-politici,
e pertanto non esisteva il «buon metodo», cioè il metodo per eccellenza, di
cui si potesse dimostrare l’assoluta validità in ogni tempo e in ogni luogo,
ma esistevano metodi buoni per raggiungere un certo fine politico e
metodi buoni per raggiungere un altro fine, e quindi ogni tempo e luogo
avevano il proprio metodo migliore72. La famosa disputa metodologica tra
concettualismo e giurisprudenza degli interessi celava un contrasto tra una
giurisprudenza conservatrice e una giurisprudenza innovatrice. Perciò
quando egli diceva di porsi di fronte al problema dell’interpretazione come
storico voleva far intendere che non aveva alcun metodo nuovo da
annunciare, ma si proponeva di capire storicamente in che cosa consistesse,
di fatto, la tecnica dell’interpretazione, quale che fosse il metodo
perseguito (o, che era lo stesso, l’ideologia sottintesa).
Le riflessioni di Ascarelli intorno al problema dell’interpretazione si
possono raggruppare attorno a due grandi temi: la natura e la funzione
dell’interpretazione. Per quel che riguarda la natura, l’interpretazione è per
Ascarelli non dichiarativa ma creativa. Questo è sempre stato uno dei punti
fermi della sua visione realistica e dinamica del diritto. Rigettando le
consuete metafore dell’interpretazione come copia fotografica o come
rispecchiamento del diritto già posto, egli adottò quella del seme e della
pianta, onde l’ordinamento giuridico cresce su se stesso e si sviluppa
attraverso l’opera dell’interprete, di cui la legge data è il germe
fecondatore73. Fuori di metafora, l’interpretazione, checché pensi il giurista
della sua opera, non è mai soltanto sviluppo logico di premesse, cioè mera
esplicitazione dell’implicito, ma anche sempre accrescimento,
adattamento, integrazione, insomma opera continua di riformulazione e
quindi di rinnovamento del corpus iuris74: il giurista non è un logico che
manipola soltanto delle regole, ma un ingegnere, che si serve di regole per
costruire nuove case, nuove fabbriche, nuove macchine. Quando Ascarelli
vuol parlare dell’opera creatrice dell’interpretazione introduce un termine
che avrebbe forse dovuto essere meglio definito: «valutazione». Non vi è
legge che non abbia bisogno, per essere applicata, di venire interpretata,
onde l’interpretazione è un’operazione non sussidiaria, ma necessaria; non
vi è interpretazione che non costringa l’interprete a prendere posizione di
fronte a questa o a quella alternativa, e quindi ad esprimere una valutazione
personale. Per «valutazione» Ascarelli intende l’enunciazione di una
soluzione non desunta logicamente o tautologicamente dalle premesse
poste dal legislatore, ma ricavata da una preferenza che rivela un
orientamento personale.
Per dimostrare il carattere valutativo dell’interpretazione, Ascarelli
soleva riferirsi soprattutto a tre aspetti caratteristici della tecnica
interpretativa, nei quali l’interprete non può trovare una soluzione nel
sistema, ché anzi la sua operazione rende possibile l’applicazione e in
definitiva l’efficacia del sistema: 1) la ricostruzione sistematica
dell’ordinamento, la quale non è mai in alcun momento presupposta ma è
sempre il prodotto provvisorio e mutevole della ricostruzione
interpretativa; 2) la ricerca della ratio legis, che permette talvolta
all’interprete di colmare il divario tra struttura normativa e funzione
economica, e comunque è uno dei mezzi più efficaci per adattare vecchie
norme a realtà nuove; 3) la ricostruzione tipologica della realtà sociale.
Quest’ultimo punto, su cui Ascarelli ritorna più volte negli ultimi scritti75,
merita un’illustrazione particolare per la sua novità, almeno nella dottrina
italiana. Tra i concetti di cui si serve il giurista occorre distinguere,
secondo Ascarelli, quelli attinenti all’ordinamento tipologico della realtà
sociale, come dolo, errore, colpa, vizio redibitorio, e quelli che esprimono
o riassumono una disciplina normativa, come nullità, decadenza,
annullabilità. Questi secondi hanno un significato fisso, i primi variabile,
nel senso che si riempiono di nuovi contenuti col variare della società e dei
rapporti sociali. Quale sia il contenuto variabile di questi concetti
l’interprete è chiamato a stabilire di volta in volta, quando la norma
astratta, che contiene uno di questi termini, deve essere applicata; e deve
stabilirlo osservando la realtà. Perciò in questa operazione l’interprete è per
così dire abbandonato a se stesso, o più esattamente attinge la soluzione a
orientamenti generali etico-politici cui aderisce (anche se crede di essere
assolutamente neutrale). Per esprimere il radicalismo della sua posizione,
Ascarelli afferma che anche il più semplice dei testi: «Apri la porta» importa
una ricostruzione tipologica della realtà, per lo meno una indagine su ciò
che si debba intendere, nel caso specifico, per «aprire» e per «porta». Aprire
include anche il socchiudere e lo spalancare? Porta è un’apertura di foggia
determinata e quale? In ultima analisi, l’interprete, che può essere in una
norma così semplice lo stesso destinatario della norma, per quanto ricorra
al sistema o alla ratio del legislatore, si troverà sempre di fronte ad
alternative tra le quali dovrà decidere: e ogni decisione presuppone una
valutazione. Una situazione giuridica non è mai compiuta e finita perché le
norme contengono riferimenti a una tipologia di cose, atti, eventi, che
mutano nel tempo: la determinazione dei tipi variabili spetta all’interprete.
Se non ci fosse l’interprete, la norma non potrebbe neppure essere
applicata per mancanza di un riferimento specifico alla realtà che deve
essere regolata.
Quale sia per Ascarelli la funzione dell’interpretazione risulta ormai
abbastanza chiaro da quel che si è detto circa la sua natura: l’interpretazione
costituisce «il ponte necessario tra il corpus iuris e la mutevole realtà»76. Di
qua derivano due caratteri, spesso disconosciuti: anzitutto è necessaria, nel
senso che una norma esiste, cioè è efficace, solo in quanto è interpretata; in
secondo luogo fa corpo col sistema, sì che norme e interpretazioni delle
norme costituiscono un unico sistema attuantesi nel tempo. Un sistema
giuridico, in altre parole, è l’insieme delle norme date e in più l’insieme
delle interpretazioni che di volta in volta hanno reso possibile
l’applicazione, e perciò l’efficacia, delle norme date. Un sistema giuridico
non è un dato ma un processo continuato nel tempo: se si vuole, la sua
unità non è un presupposto ma un risultato. Una concezione siffatta
dell’ordinamento giuridico si può chiamare concezione dinamica
dell’ordinamento; ma bisogna badare a distinguerla dalla teoria dinamica
dell’ordinamento di Kelsen: se ne distingue, peraltro, non per escluderla
ma per integrarla. Tutte e due hanno in comune, anche se né il Kelsen né
l’Ascarelli lo riconoscono espressamente, l’attribuzione all’ordinamento
giuridico di una dimensione temporale, oltre a quella spaziale che ha
raggiunto la sua più compiuta formulazione nella raffigurazione
dell’ordinamento come di una piramide77. L’ordinamento giuridico, in
altre parole, è un processo, un sistema in divenire, un tutto mobile e
moventesi nel tempo, una specie di corrente di fiume che s’ingrossa per via
ma è sempre lo stesso fiume. In questo processo l’interpretazione è come
l’affluente che contribuisce alla crescita della massa d’acqua; ma una volta
confluito nella corrente, non se ne distingue più.
L’interpretazione adempie la propria funzione mantenendo la
continuità del sistema. Il discorso di Ascarelli sull’interpretazione si muove
sempre tra i due poli della creatività e della continuità. Purtroppo, questo
concetto di continuità, nonostante la parte importante che assume nella
teoria, non è mai stato svolto analiticamente. Si capisce a che cosa serve (a
evitare il facile abbandono alle correnti del diritto libero, cioè della
creazione continua); ma non si capisce bene come debba essere inteso.
Continuità rispetto a che cosa? Ai principi generali del sistema? Ai principi
dei singoli istituti? Ai precedenti giurisprudenziali? Questa continuità è
un’esigenza cui il giurista deve restar fedele sino ai limiti del possibile? O è
un fatto che lo storico constata studiando l’opera dei giuristi in differenti
sistemi? Ma se è un fatto, come si inseriscono in questo fatto le cosiddette
innovazioni giurisprudenziali, di cui lo stesso Ascarelli porta spesso esempi
assai noti? Quale rapporto si può stabilire tra innovazione e continuità?
Che le tecniche interpretative siano tecniche miranti a ricondurre i casi
nuovi all’unità del sistema, dalle finzioni all’analogia, è certo: ma
accettando le tecniche per quel che presumono di essere non si rischia di
confondere ancora una volta quel che i giuristi dicono di fare con quel che
fanno realmente? Ora l’interesse delle riflessioni di Ascarelli sta nella
demolizione del vecchio pregiudizio legalistico secondo cui
l’interpretazione era prevalentemente un’operazione logica, mentre di fatto
non è mai tale. Ma la continuità non è anch’essa un pregiudizio? Siamo
proprio sicuri che l’interpretazione si presenti come continuazione, ma di
fatto non sia talora innovazione e rottura? Il mancato approfondimento di
questo punto si può spiegare, a mio giudizio, col fatto che su questo punto
Ascarelli abbandona senza parere il terreno della constatazione storica sul
quale dichiara a più riprese di essersi posto, e lascia apparire le proprie
preferenze pratiche: la continuità non è un fatto constatato, ma un valore
cui il buon giurista dovrebbe attenersi. È un’esigenza cui non può
rinunciare chi si muove, come l’Ascarelli, tra le due ideologie opposte del
concettualismo radicale e del radicale realismo in una posizione che ho
chiamato poc’anzi di antiformalismo moderato78.
Note
1 Th. Hobbes, A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Law of England; G.W.
Leibniz, Specimen quaestionum philosophicarum ex iure collectarum. De casibus perplexis. Doctrina
conditionum. De legum interpretatione, con uno studio introduttivo di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano
1960. Cfr. la recensione di F. Brunetti, in «Belfagor», XVI, 1962, pp. 252-55.
2 G.W. Leibniz, Specimen quaestionum, cit., Introduzione, p. 7.
3 Ivi, p. 8, in nota.
4 Nell’edizione curata da Ascarelli, a p. 75; nella traduzione italiana da me curata, Th. Hobbes,
Opere politiche, vol. I, Utet, Torino 1959, p. 397.
5 Leviathan, a cura di M. Oakeshott, Blackwell, Oxford, s.d., p. 211.
6 F. Messineo, Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano 1969, vol. I, p.
LV.
7
Conversazioni critiche, serie prima, Laterza, Bari 19504, p. 246.
8 M. Ascoli, La interpretazione della legge. Saggio di filosofia del diritto, Athenaeum, Roma 1928.
9 Ascarelli pubblicò il primo saggio giuridico a vent’anni: I debiti di moneta estera e l’art. 39 cod. di
comm., in «Rivista del diritto commerciale», XXI, 1923, I, pp. 444-69.
10 Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. cod. civ. nel diritto privato, in «Archivio giuridico»,
XCIV, 1925, pp. 235-79; ora in Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Giuffrè, Milano
1952, pp. 209-43.
11 Ascoli, La interpretazione, cit., p. 52, nota 1.
12 Il problema delle lacune, cit., p. 221.
13 In «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, p. 652 (recensione a Marcel de
Gallaik, La réforme du code civil autrichien. Textes et commentaires, Paris 1925).
14 Cfr. in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, pp. 651-52, pp. 652-54, pp.
654-56; ivi, VI, 1926, p. 329; ivi, VIII, 1928, p. 268; ivi, IX, 1929, pp. 172-73, pp. 173-74, pp.
356-57, p. 357, pp. 357-58.
15 La dottrina commercialista italiana e Francesco Carnelutti, in Problemi giuridici, vol. II, Giuffrè,
Milano 1959, pp. 983-99.
16 In «Rivista del diritto commerciale», XXII, 1924, I, pp. 419-66.
17 Indi pubblicato in Studi di diritto commerciale in onore di C. Vivante, I, Foro italiano, Roma 1931,
pp. 25-98.
18 «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VI, 1926, pp. 168-69.
19 Due rivoluzioni mancate. Dati, sviluppo e scioglimento della crisi politica italiana, Campitelli, Foligno
1923. Ne ho sott’occhio la copia che appartenne a Piero Gobetti con dedica dell’autore: «A Piero
Gobetti – con stima e comprensione – Alberto Cappa – maggio 1923». In una annotazione scritta a
matita sull’ultima pagina Gobetti commenta: «Cappa concepisce la storia del dopoguerra come lotta
dei ceti medi contro gli altri. Invece è una lotta tra medi ceti: gli uni nazionalisti, gli altri socialisti...».
Le due rivoluzioni mancate di cui parla il Cappa sono quella socialista e quella fascista, entrambe
assorbite nella continuità dello stato monarchico accentratore.
20 Anche di questo libro del Cappa, Ascarelli aveva scritto una recensione, tre anni prima, nella
rivista «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96 (cfr. nota 26), ove aveva già espresso analogo
giudizio sul Pareto: «... nonostante l’ammirazione che oggi si vuole imporre per il dimenticato di
ieri, [il Trattato di sociologia generale] non mi sembra costituire un nuovo titolo di gloria, ma un segno
di decadenza di quegli che rimarrà come l’autore del Cours d’économie politique» (p. 94).
21 La lotta delle generazioni, in «La rivoluzione liberale», II, n. 28, 25 settembre 1923, p. 113,
siglato p.g., ora in Scritti politici, Einaudi, Torino 1960, p. 523.
22 L. Basso, Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Feltrinelli,
Milano 1961, pp. LXXVII-LXXIX.
23 Ai dieci numeri apparsi collaborarono P. Bonfante, E. Buonaiuti, R. Mondolfo, G.
Vescovini, A. Cammarano, A. Pincherle, T. Ascarelli, S. Diambrini Palazzi, A. Tilgher, L.
Salvatorelli, V. Giusti, E. Sereni, C. Treves, P. Flores, E. Leone, F. Battaglia, M. Coppini, P.
Gobetti, M. Ascoli, C. Berneri, G. Ferrero, L. Limentani, A. Graziadei, N.M. Fovel, L. Fabbri, R.
Rolland, E. Nasalli-Rocca, E. Fodale. Inoltre apparvero articoli e note con le seguenti sigle: T.A.
(Tullio Ascarelli), P.F. (Paolo Flores), g.v. (Giuseppe Vescovini), G.B. (Giorgio Bandini), E.S.
(Enzo Sereni), A.P. (Alberto Pincherle), T.L. (Tullio Liebmann), B.L. (?), C.B. (?), U.F. (?). Ogni
numero conteneva un brano di autori noti la cui lettura veniva riproposta come particolarmente
istruttiva. L’elenco degli autori è poco illuminante: Oriani, Chesterton, Savonarola, De Maistre,
Max Weber, Stefano Jacini, Marx e Sorel.
24 Rathenau, in «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, pp. 43-50; Urbano Rattazzi, in «Studi
politici», I, n. 910, settembre-ottobre 1923, pp. 255-59.
25 I competenti, in «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, p. 24, firmato t. a. (questo articolo fu
pubblicato anche in «La rivoluzione liberale», II, n. 12, 1° maggio 1923); Italia e piccola intesa, in
«Studi politici», II, n. 4-5, aprile-maggio 1923, pp. 142-43, firmato T.A.; Gli avvocati e la politica, in
«Studi politici», I, n. 6-7, giugno-luglio 1923, pp. 186-87, firmato T.A.; Punti interrogativi sulla
questione italo-greca, in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 225-26, firmato T.A. In più una
risposta in corsivo, firmata T.A., ad una nota di E. Nasalli-Rocca, Borghesi e liberali, n. 9-10,
settembre-ottobre 1924, pp. 246-47.
26 In «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, pp. 26-28, firmata T.A. (recensione a U.
Formentini, Collaborazionismo, ed. di «La rivoluzione liberale», Torino 1922); ivi, pp. 28-30, firmata
t.a. (recensione a S. Perozzi, Critica politica, Zanichelli, Bologna 1922); in «Studi politici», I, n. 2,
febbraio 1923, pp. 63-64, firmata T.A. (recensione a G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove
nel movimento operaio italiano, Cappelli, Bologna 1922); ivi, p. 64, firmata T.A. (recensione a M.
Brinkmeyer, Hugo Stinnes, Documents traduits et commentés par V. Marcano, préface de Georges
Blondel, Plon, Paris 1922); in «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96, firmata t.a.
(recensione a A. Cappa, Due rivoluzioni mancate; Campitelli, Foligno 1923); ivi, p. 96, firmata T.A.
(recensione a P. Pascal, Die ethischen Ergebnisse der russischen Sovjetmacht, Malik Verlag, Berlin 1922);
in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, pp. 192-94, firmata T.A. (recensione a F. Burzio,
Politica demiurgica, Laterza, Bari 1923); ivi, p. 194 (recensione a L.M. Hartmann, Il Risorgimento. Le
basi dell’Italia moderna, Vallecchi, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p.
194, firmata T.A. (recensione a L. Sturzo, Riforme sociali e indirizzi politici, Vallecchi, Firenze 1922);
in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 227-28, firmata T.A. (recensione a R. Mondolfo,
Significato e insegnamento della rivoluzione russa, Bemporad, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 9-
10, settembre-ottobre 1923, pp. 269-70, firmata T.A. (recensione a A. Graziadei, Prezzo e
sovraprezzo nell’economia capitalistica. Critica alla teoria del valore di Carlo Marx, Soc. ed. Avanti!, Milano
1923).
27 Su questo argomento cfr. A. Acquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e
Sud», XI, aprile 1964, n. 52, pp. 109-28.
28 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 193 (recensione a Burzio, cit.).
29 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.).
30 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194. Riporto tutto il brano: «Uscendo
dall’empirismo giolittiano, come da quello fascista abbiamo da formare una nuova classe dirigente
con una nuova coscienza politica che abbia più vivo il senso dell’insopprimibile drammaticità della
vita e della lotta politica, della necessaria insufficienza di ogni compromesso che equivale non già al
superamento dei termini antitetici nella unità della vita politica, ma a una soluzione mancata, come
del disperato relativismo di ogni nostra azione. Certo ciò non potrà essere se non da un lato
coll’entrata nella vita italiana di un proletariato coscientemente rivoluzionario e perciò apportatore
di nuovi valori, nel constatato esaurimento della piccola borghesia nel fascismo da un lato,
nell’impossibilità di un ampio fiorire di grande borghesia industriale dall’altro, proletariato
concretamente nazionale nella sua coscienza di classe, dall’altro con la risoluzione del problema
unitario, risoluzione che per essere tale deve importare soluzione dell’attuale crisi politica italiana:
opera complessa che non potrà compiersi se non con una completa e profonda rivalutazione di tutti
i nostri elementi culturali prima di poter entrare nel campo della formulazione tecnico-giuridica» (p.
194).
31 In «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, p. 64 (recensione a Salvemini, cit.).
32 In «Studi politici», I, n. 9-10, settembre-ottobre 1923 (recensione a Graziadei, cit.).
33 In «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, p. 228 (recensione a Mondolfo, cit.). Cfr. anche I, n.
3, marzo 1923, p. 96 (recensione a Pascal, cit.).
34 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194 (recensione a Sturzo, cit.).
35 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.).
36 Questa lettera è custodita nell’Archivio del Centro Studi Piero Gobetti (via Fabro 6, Torino).
Vi sono altre due lettere di Ascarelli a Gobetti: una del 21 marzo 1924 (su carta intestata del
Ministero delle Finanze. Direzione generale delle pensioni di guerra), con la quale Ascarelli invia la
propria quota di sottoscrizione a «La Rivoluzione Liberale»; una del 31 giugno 1925 (su carta
intestata avv. Tullio Ascarelli, via Cesalpino 26, Roma) in cui raccomanda un amico Fortini (?) che
vorrebbe tradurre Marshall (l’economista) e assicura che il prof. Ricci avrebbe promesso di scrivere
la prefazione.
37 Archivio del Centro Studi Piero Gobetti. L’ordine del giorno, approvato dal Gruppo romano,
è il seguente: «Il gruppo romano di Rivoluzione Liberale, affermando la necessità di un governo che
sia espressione della volontà del paese, liberamente manifestata, conferma la propria sfiducia in ogni
soluzione che limitandosi ad un’astratta rivendicazione delle libertà statutarie non superi i
presupposti politici ed economici del fascismo, e denuncia l’equivoco delle tardive resipiscenze di
elementi fiancheggiatori corresponsabili nella situazione attuale».
38 Cfr. E. Bassi, Contributo alla storia di Quarto Stato, in «Critica sociale», 20 agosto-5 settembre
1960; e, per ulteriori annotazioni e una diversa interpretazione dell’indirizzo politico della rivista, S.
Merli, Il Quarto stato di Rosselli e Nenni e la polemica sul rinnovamento socialista nel 1926, in «Rivista
storica del socialismo», III, 1960, n. 11, pp. 819-28.
39 Il diritto di libertà, 3 aprile 1926, firmato Tullio Ascarelli; Socialismi e nazione (A proposito di un
libro di Otto Bauer), 26 giugno 1926, firmato Guido da Ferrara; Il programma agrario della
socialdemocrazia austriaca, 24 luglio 1926, firmato Guido da Ferrara; Il valore del socialismo, 7 luglio
1926, firmato Guido da Ferrara; Un carattere: Giustino Fortunato, 21 luglio 1926, firmato Tullio
Ascarelli; Unità socialista e pregiudiziale repubblicana, 4 settembre 1926, firmato Guido da Ferrara.
40 Il valore del socialismo, cit.
41 Cfr. A. Garosci, Storia dei fuoriusciti, Laterza, Bari 1953, pp. 180-86.
42 p.v. [Paolo Vittorelli], Tullio Ascarelli un grande cittadino, in «Il Punto», 28 novembre 1959.
43 In Studi in memoria di U. Ratti, a cura e con Prefazione di E. Albertario, Giuffrè, Milano 1934,
pp. 451-95.
44 Negli Appunti di diritto commerciale, Foro Italiano, Roma 19363, affermava esplicitamente che
poteva ormai dirsi acquisita alla nostra coscienza giuridica «la funzione creativa storicamente assolta
dalla interpretazione nello sviluppo del diritto» (vol. I, p. 36).
45 La stessa tesi è riaffermata in Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 36.
46 Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 35.
47 Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè, Milano
1955, pp. 505 sgg.
48 Questo articolo fu primamente pubblicato nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito
comparado, Saraiva, São Paulo 1945. Quindi in edizione italiana nel volume Saggi giuridici, Giuffrè,
Milano 1949, pp. 3-40. La citazione nel testo è a pp. 10-11.
49 Apparso primamente nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito comparado, cit.; ora in
Saggi giuridici, cit., pp. 41-81; nonché in Studi di diritto comparato e in tema d’interpretazione, Giuffrè,
Milano 1952, pp. 165-204.
50 In Saggi giuridici, cit., pp. 83-107; nonché in Studi di diritto comparato, cit., pp. 55-78.
51 Ed. cit., pp. IX-LIII.
52 In «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», VIII, 1953, pp. 115-23; ora in Saggi di
diritto commerciale, cit., pp. 467-79.
53 In «Rivista del diritto commerciale», LII, 1954, I, pp. 157-84; ora in Saggi di diritto commerciale,
cit., pp. 481-519.
54 In «Il diritto dell’economia», I, 1955, pp. 1179-203; ora in Problemi giuridici, vol. I, Giuffrè,
26.
69Ordinamento giuridico e processo economico, cit., p. 47.
70Da una lettera inedita alla moglie del 19 settembre 1957.
71 Apertamente nella Premessa ai due volumi di Problemi giuridici, cit., vol. I, p. X.
72 Cfr. in particolare Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, in Saggi di diritto commerciale, cit.,
pp. 467-79.
73 Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 14.
74 Per una sintetica e chiara esposizione di questa tesi si legga il n. 3 del saggio Norma giuridica e
realtà sociale, cit., vol. I, pp. 71-75.
75 Sul concetto di titolo di credito (1954), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 573-77; Considerazioni
in tema di società e personalità giuridica (1954), ivi, pp. 129-217, in particolare n. 22; Norma giuridica e
realtà sociale, cit., n. 4; Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, cit., n. 4.
76 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 73.
77 A.G. Conte, «Ordinamento giuridico», in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII.
78 Per una critica serrata della teoria ascarelliana dell’interpretazione cfr. G. Tedeschi, Insufficiency
of the Legal Norm and Loyalty of the Interpreter, in The Israel Academy of Sciences and Humanities.
Proceedings, I, n. 3, Jerusalem 1963, pp. 1-22 (estratto).
79 Per la critica degli studi del Magni cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXIX-
XXXI, nota 21; del Klug, Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, cit., pp. 473 sgg. Osservazioni
sull’uso della logistica con riferimento a I. Tammelo, in Il problema preliminare dei titoli di credito e la
logica giuridica (1956), in Problemi giuridici, cit., I, p. 180, in nota.
80 Sul neo-positivismo cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXVI- XXVII, nota 19;
con allusione, suppongo, agli studi dello Scarpelli: «I tentativi neopositivisti, pur recentemente
elaborati con fine acutezza, cadono comunque di fronte all’impossibilità di qualunque controllo
sperimentale del diritto, che si pone come struttura d’azione» (Certezza del diritto e autonomia delle
parti, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 124, nota 11); Il problema preliminare dei titoli di credito e la logica
giuridica, ivi, p. 179, nota 11.
81 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 91.
82 In Problemi giuridici, cit., vol. I, p. XI.
83 Norma giuridica e realtà sociale, cit., pp. 91-101.
84 Premessa a Problemi giuridici, cit., p. XI.
85 Tipologia della realtà, disciplina normativa e titoli di credito (1957), in Problemi giuridici, cit., vol. I, p.
188. Sul problema della costruzione, più particolarmente cfr. L’idea di codice nel diritto privato e la
funzione dell’interpretazione (1943), in Saggi giuridici, cit., pp. 72-77.
86 Alcune tesi sulla scienza giuridica furono esposte da Ascarelli in una nota del saggio Norma
giuridica e realtà sociale, cit., pp. 88-89, nota 20.
87 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 82.
88 Sguardo sul Brasile, Giuffrè, Milano 1949. Ma non era sfuggito ad un lettore attento e curioso
come Capograssi che ne cita le considerazioni finali sulla differenza tra società americana e società
europea: L’ambiguità del diritto contemporaneo (1953), ora in Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, p.
393.
89 Da due lettere alla moglie, scritte da Roma il 17 e il 19 novembre 1946.
90 Da una lettera alla moglie, scritta da Parigi il 20 novembre 1946.
91 Da appunti di diario inediti, datati febbraio 1948.
92 In «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 1, Roma, 20 febbraio 1954, p. 7.
93 Fisco e società, in «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 22-23, Roma, 17-24 luglio 1954,
pp. 5-6. Nel n. 44 del 26 marzo 1955 è pubblicato uno stralcio della relazione di Ascarelli al
«Convegno per la lotta contro i monopoli» (pp. 8-9) sul quale vedi più oltre.
94 Cfr. E. Rossi, La pentolaccia dei monopoli, in «Il Mondo», XI, n. 49, 8 dicembre 1956.
95 Con tre articoli: L’emigrante liberista, II, n. 25, 24 giugno 1954; Giustizia migliore, II, n. 51, 23
dicembre 1950; Un colpo gobbo, VIII, n. 52, 25 dicembre 1956.
96 Gli atti dei due Convegni sono stati pubblicati nella collana laterziana dei «Libri del tempo»:
La lotta contro i monopoli, a cura e con una Introduzione di E. Scalfari, Bari 1955 (la relazione di
Ascarelli è a pp. 105-35); Atomo ed elettricità, a cura e con un’Introduzione di E. Scalfari, Bari 1957
(la relazione di Ascarelli è a pp. 105-38): è incredibile, ma da tutto il volume degli atti non risulta la
data del convegno. Le due relazioni di Ascarelli si possono leggere anche in Problemi giuridici, cit.,
vol. II, pp. 879-931 e pp. 945-64; la prima arricchita di molte note (già pubblicata anche in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», IX, 1955, pp. 273-317). Ascarelli partecipò anche ad altri
convegni degli Amici del «Mondo»: Dibattito sulla scuola, Laterza, Bari 1956, pp. 144-47; Verso il
regime, Laterza, Bari 1960, pp. 203-8. Il contributo dato da Ascarelli a questi convegni è stato
ricordato da Nicolò Carandini in apertura del Convegno sulla nazionalizzazione dell’energia
elettrica (1960): cfr. Le baronie elettriche, Laterza, Bari 1960, p. 26.
97 Il testo corretto dei due schemi in Problemi giuridici, cit., vol. II, pp. 933-34 e pp. 971-81.
98 In Problemi giuridici, cit., vol. II, p. 959.
99 Obbligazioni pecuniarie, nel Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca,
Zanichelli, Bologna 1959.
100 Il quale scrisse su Ascarelli uno dei saggi più penetranti: Nell’anniversario della morte di Tullio
Ascarelli, in «Rivista delle società», V, 1960, pp. 977-1012.
101 N. Bobbio, Ricordo di Piero Calamandrei, in «Belfagor», XIII, 1958, p. 592.
102 Inedito, di cui ho preso visione per gentile concessione della famiglia. Da questo diario sono
state tratte tutte le citazioni che seguono. Colgo l’occasione per ringraziare in modo particolare la
vedova, signora Marcella Ascarelli Ziffer, per il prezioso costante aiuto prestatomi durante il lavoro.
103 Coglie bene questo aspetto della personalità di Ascarelli, G. Auletta, Tullio Ascarelli, in
«Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XIII, 1959, pp. 1209-18.