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Biblioteca Universale Laterza

Norberto Bobbio
Dalla struttura alla funzione
Nuovi studi di teoria del diritto

Editori Laterza
© 2007, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: novembre 2015


www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858114193
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Sommario

Prefazione (di Mario G. Losano)


Note
Premessa
I. La funzione promozionale del diritto
1. Insufficienza delle tradizionali concezioni protettiva ìe repressiva del diritto
2. La teoria del diritto come insieme di norme negative
3. Relazione tra norme positive e negative da un lato, e sanzioni positive e sanzioni negative
dall’altro
4. La teoria del diritto come insieme di norme rafforzate da sanzioni negative
5. Norme di condotta e norme di organizzazione
6. Funzione promozionale dello stato assistenziale
7. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto ai fini
8. Segue: e rispetto ai mezzi
9. Differenza tra premio e facilitazione
10. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento promozionale rispetto alla struttura
11. Segue: e rispetto alla funzione
Note
II. Le sanzioni positive
1. Crescente importanza delle sanzioni positive
2. Varie specie di sanzioni positive e negative
3. Le sanzioni positive come sanzioni giuridiche
4. Sanzioni positive e facilitazioni
5. Misure dirette e misure indirette
Note
III. Diritto e scienze sociali
1. Il posto del diritto nelle società industriali avanzate
2. Due concezioni opposte della funzione del giurista secondo il diverso tipo di sistema
giuridico (chiuso o aperto), la diversa condizione della società (stabile o in movimento), la
diversa concezione del diritto (come sistema autonomo o dipendente)
3. Il diritto come sistema aperto, in una società in trasformazione, e come sistema autonomo
4. La funzione del giurista comparata a quella del sociologo
Note
IV. Verso una teoria funzionalistica del diritto
1. Prevalenza delle teorie strutturalistiche su quelle funzionalistiche nella teoria generale del
diritto
2. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen
3. La teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo
4. Le sanzioni positive nell’opera di Kelsen
5. Ragioni storiche dell’estensione delle sanzioni positive nello stato contemporaneo
6. Gl’incentivi e i premi come due forme dell’attività promozionale dello stato
7. Se la crescente importanza dell’azione promozionale dello stato metta in crisi la teoria
kelseniana del diritto come ordinamento coattivo
8. L’azione promozionale dello stato incide sul modo d’intendere il diritto non dal punto di
vista strutturale ma dal punto di vista funzionale
Note
V. L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi
I
1. Crescente importanza dell’analisi funzionale del diritto
2. Ragioni dello scarso interesse passato e del nascente interesse per l’analisi funzionale del
diritto
3. La perdita di funzione del diritto nella società industriale
4. Funzione positiva, funzione negativa, disfunzione del diritto
5. La funzione distributiva del diritto
6. La funzione promozionale del diritto
II
7. Difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto
8. Prima difficoltà: funzione rispetto a che cosa?
9. Seconda difficoltà: funzione a quale livello?
10. Terza difficoltà: quale diritto?
11. Conclusione
Note
VI. Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto
1. Norme di condotta e norme di organizzazione
2. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione non coincide né con la
distinzione fra norme positive e negative né con quella tra norme astratte e concrete
3. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione in base alla loro diversa
funzione
4. Comparazione fra le norme di condotta e di organizzazione, da un lato, e le norme
primarie e secondarie, dall’altro
5. La distinzione fra norme di condotta e norme di organizzazione messa in relazione con la
distinzione fra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come istituzione
6. Le «grandi dicotomie» e la loro importanza sistematica
7. La grande dicotomia fra norme di condotta e norme di organizzazione comparata alle
grandi dicotomie dei giusnaturalisti e dei sociologi positivisti
8. ... e alla grande dicotomia di Durkheim fra solidarietà meccanica e solidarietà organica
9. Dalla distinzione fra sanzioni repressive e sanzioni restitutive alla distinzione fra sanzioni
negative e sanzioni positive
Note
VII. La grande dicotomia
1. Caratteristiche delle grandi dicotomie
2. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico come grande dicotomia
3. Uso storiografico e uso assiologico della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico
4. Uso universalizzante
5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia una grande dicotomia
6. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo come dicotomia derivata
Note
VIII. Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano
1. La fortuna postuma della dottrina di Santi Romano
2. È necessario distinguere la teoria dell’istituzione dalla teoria della pluralità degli
ordinamenti giuridici
3. La teoria istituzionale è meno elaborata di quella pluralistica
4. La teoria pluralistica è indipendente da quella istituzionale
5. Il rapporto fra teoria e ideologia in generale, con particolare riguardo alla dottrina di
Romano
6. Critica di un’interpretazione ideologica della dottrina di Romano
7. Romano è teoricamente un pluralista ma ideologicamente un monista
8. Conclusione
Note
IX. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen
1. Significato dell’opera di Kelsen nella storia della teoria generale del diritto nell’ultimo
secolo
2. Fatti e valori nella teoria del diritto del Kelsen: l’ideale della scienza e la non scientificità
degli ideali
3. La teoria pura del diritto come teoria dell’ordinamento giuridico
4. Struttura e funzione nella teoria del diritto
Note
X. Tullio Ascarelli
1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera
2. L’interesse prevalente per il problema dell’interpretazione e della comparazione giuridica
nei primi scritti minori
3. La partecipazione alla lotta antifascista attraverso la collaborazione a «Studi politici» e a
«Quarto stato»
4. Breve rassegna degli scritti giuridici tra il 1926 e il 1946
5. Gli scritti di teoria generale dopo il 1946 e la critica del positivismo giuridico
6. Critica della teoria tradizionale delle fonti in una visione antiformalistica dei rapporti tra
diritto e società, tra diritto ed economia
7. Il problema dell’interpretazione
8. In particolare critica del logicismo e avvicinamento alla scuola della «nouvelle rhétorique»
di Perelman
9. Azione politica e interessi culturali dopo il ritorno dall’esilio sino alla morte
10. Giudizio complessivo sull’opera e sulla personalità di Tullio Ascarelli
Note
Prefazione (di Mario G. Losano)

«La storia degli intellettuali» è vista da Norberto Bobbio (1909-2004)


«come la storia della coscienza che i produttori e gli agitatori d’idee hanno
del proprio tempo»1: questo può essere l’angolo di visuale da cui esaminare
Dalla struttura alla funzione, l’opera di Bobbio pubblicata nel 1977 che
riassume e conclude il suo periplo della filosofia giuridica2.
Il suo viaggio attraverso il positivismo giuridico aveva trovato un saldo
ancoraggio nella teoria pura del diritto di Hans Kelsen (1881-1973), con la
quale l’attenzione dei giuristi si era spostata dalla norma giuridica
all’ordinamento, cioè al sistema giuridico. Al positivismo giuridico e alla
struttura dell’ordinamento in Kelsen Bobbio aveva dedicato vari studi fra il
1954 e il 1986, raccolti in volume nel 19923. La sua attenzione si era poi
rivolta ai rapporti del positivismo giuridico con la sua dottrina antagonista,
il giusnaturalismo, e i suoi saggi dedicati fra il 1956 e il 1964 a questo
confronto erano stati raccolti nel 1965 in un volume4, che Laterza sta per
ripubblicare in questa stessa collana. Infine aveva ampliato l’orizzonte del
positivismo giuridico e della concezione strutturale del diritto
aggregandovi l’analisi funzionale del diritto, cui dedicò nel 1977 il libro qui
ristampato5, che contiene saggi scritti fra il 1969 e il 1975.
Questa evoluzione è anche il riflesso degli eventi storici vissuti da
Bobbio in quei decenni. Nei vent’anni dopo la fine della seconda guerra
mondiale, il positivismo giuridico garantiva quella certezza del diritto che
era mancata nel precedente ventennio della dittatura. Finalmente
esistevano una costituzione democratica e una crescente legislazione che
rispondevano agli ideali della Resistenza contro il nazifascismo. Il nuovo
ordinamento giuridico aveva contribuito anche alla rinascita materiale
dell’Italia negli anni del «miracolo economico». Il rispetto dello Stato come
unica fonte del diritto e il rispetto delle singole norme come espressione di
un ordinamento democratico erano le comprensibili esigenze di chi
rifiutava un diritto applicato secondo principi ad esso esterni: positivismo
giuridico, dunque, e non giusnaturalismo, qualunque forma esso
assumesse.
Anche per Bobbio la rottura dell’equilibrio post-bellico è simboleggiata
dal 1968, con la contestazione studentesca, con l’instabilità dei governi
culminata nel tentativo di colpo di Stato di Valerio Borghese del 1970, con
l’inizio degli «anni di piombo» segnato dalla strage di Piazza Fontana del
1969, e così via. Il susseguirsi di questi eventi finì per provocare un
mutamento di prospettiva nell’ambito della sua visione del diritto.
Nella storia culturale italiana, e in particolare nella storia della cultura
giuridica, il 1969 segna fra l’altro l’inizio istituzionale della sociologia del
diritto e lo spostarsi dell’interesse di Bobbio dallo studio della struttura allo
studio della funzione del diritto: è del 1969, infatti, il suo articolo Sulla
funzione promozionale del diritto. La sociologia generale era giunta in Italia
sull’onda dell’entusiasmo post-bellico per gli Stati Uniti e nel 1951 era
stato pubblicato il primo numero dei «Quaderni di sociologia». La
sociologia del diritto veniva propugnata in Italia da Renato Treves (1907-
1992), il fraterno amico di Bobbio rientrato dall’esilio argentino. Essa
tuttavia si affermava con fatica nell’università: solo nel 1969, infatti,
l’Università di Milano affidava questa cattedra a Treves, che l’aveva
preparata con un’assidua attività6. In quegli anni, ricorda Bobbio, «si era
cominciato a discutere del ruolo del sociologo e di conseguenza della
funzione della scienza empirica della società e di tutte le tecniche di ricerca
che le sono proprie, nella politica di sviluppo di un paese in rapida
trasformazione»7.
L’impulso diretto a studiare la funzione assolta dal diritto in una società
in trasformazione era giunto a Bobbio da un articolo del filosofo argentino
Genaro Carrió, pubblicato nel 1966 in traduzione italiana8. Quest’articolo
si occupava di un tema teorico tipico della filosofia del diritto analitica
(l’obbligo giuridico), ma lo affrontava tenendo conto anche «dei
mutamenti straordinari avvenuti nel contesto sociale» dall’inizio del secolo
XX, tutti caratterizzati dal crescente intervento dello Stato nella vita
sociale: mutamenti di fronte ai quali la teoria generale del diritto doveva
rinnovarsi per non trasformarsi in «un gigantesco anacronismo»9. L’invito
di Carrió era pressante: «La teoria generale del diritto deve rivedere
urgentemente il proprio apparato concettuale e anche le sue pretese.
Invece di rinchiudersi in un recinto ermetico di pre-concetti (o di
pregiudizi), i teorici generali del diritto devono discendere nell’arena dove
i giuristi [...] sono giorno per giorno alle prese con i più difficili problemi
della nostra società. Si impone un nuovo compito di chiarificazione che
[...] ci mostri come i giuristi, incalzati dalle preoccupazioni e dalle necessità
del presente, sono andati introducendo modificazioni importanti, sebbene
non ancora sufficientemente percepite, nel loro apparato concettuale»10.
A questo invito al «nuovo compito» Bobbio rispondeva con i suoi studi
sulla funzione del diritto. Anche tutt’intorno a lui lo Stato si era
trasformato da guardiano notturno a imprenditore: non si limitava a
prendere atto delle richieste che gli giungevano dalla società, ma
pretendeva esso stesso di indirizzare la società; non reprimeva soltanto i
comportamenti riprovevoli, ma promuoveva anche quelli commendevoli;
quello che non poteva ottenere con il bastone della repressione cercava di
ottenerlo con la carota dell’incentivo; alla sanzione negativa affiancava
sempre più la sanzione positiva o, per usare un’espressione di Rudolf von
Jhering, alla sanzione penale associava anche la sanzione premiale11. All’aria
del tempo si aggiungeva per Bobbio anche la vicinanza intellettuale
dell’amico Treves e della sua campagna per l’affermazione della sociologia
del diritto: con l’arrivo degli anni Settanta, negli articoli di Bobbio sulla
concezione funzionale del diritto «si sente che la sociologia del diritto batte
alle porte»12.
Bobbio è scrittore di saggi, più che di libri: egli stesso ha detto che
l’invito a scrivere un manuale era stato per lui un «incubo», perché
coltivava la filosofia del diritto non con «un potente trattore», ma con «le
forbici da giardiniere»13. Anche il presente volume è quindi una raccolta di
accuratissimi saggi, scritti tra il 1969 e il 1975 e disposti secondo un ordine
in parte cronologico e in parte sistematico. I primi due capitoli ci portano
subito in medias res con la sanzione positiva quale elemento caratterizzante
della funzione promozionale del diritto; seguono poi cinque capitoli sulla
genesi della teoria funzionalistica del diritto e tre capitoli conclusivi
indirettamente legati alla teoria funzionale del diritto. La tematica del libro
si può quindi organizzare secondo tre cerchi concentrici: un nucleo
centrale in cui Bobbio analizza la teoria funzionale del diritto in un
costante confronto con la teoria strutturale o sistematica del diritto (che
egli però non abbandona, ma affianca alla sua nuova concezione: capp. III-
VII e IX); un’analisi approfondita dello strumento principe della funzione
promozionale del diritto, cioè la sanzione positiva (capp. I-II); infine, tre
saggi complementari al nucleo centrale (capp. VIII-X). In queste poche
pagine di presentazione del testo di Bobbio può essere chiarificatore partire
dal nucleo centrale e procedere verso gli anelli esterni.
Il tema dei rapporti fra diritto e scienze sociali è l’oggetto di un suo
scritto del 1971. Esso occupa il terzo posto in questo volume, perché
Bobbio ha ritenuto opportuno anteporvi un saggio sulla funzione
promozionale del diritto, scritto prima, e uno immediatamente successivo
sulle sanzioni positive. Ma conviene anticipare l’esame delle connessioni
tra diritto e scienze sociali perché esso facilita la comprensione del percorso
intellettuale di Bobbio.
Il punto di partenza del ragionamento di Bobbio è la mutata rilevanza
del diritto nelle società industriali avanzate: esso non è più al centro
dell’attenzione del filosofo, come in Kant o in Hegel, ma – dopo le critiche
di Saint-Simon, Comte e Marx – è visto come un fenomeno marginale,
utile soprattutto per il controllo sociale. Attraverso sottili dicotomie – il
giurista come conservatore o come innovatore di regole; il giurista che
opera in un sistema giuridico aperto o chiuso, stabile o instabile, autonomo
o integrato rispetto alla società – Bobbio constatava come la scienza
giuridica delle società industriali si interessasse sempre più alla funzione
creativa del giudice, alle fonti extrastatali del diritto e alla funzione
direttrice dello Stato. Giungeva così alla caratteristica dello Stato
assistenziale, i cui scopi «sono tali che per il loro raggiungimento occorre
una continua opera di stimolazione di comportamenti considerati
economicamente vantaggiosi»14.
Il diritto della società industriale si muoveva ormai fuori dai rigidi
confini del positivismo: al sistema chiuso, coerente e completo di norme
giuridiche bisognava aggiungere altre dimensioni, sintetizzate dalla
metafora della rete15. Questa metafora, resa oggi attuale dall’informatica, è
già anticipata da Bobbio: sorpreso per il disinteresse dei sociologi verso i
concetti giuridici che invece potrebbero arricchire l’analisi sociologica, egli
sostiene che il giurista sarebbe in grado di apportare alla sociologia
l’approfondita conoscenza proprio di «quei reticolati di regole entro cui si
muovono i membri di qualsiasi gruppo sociale»16.
A questo saggio sulle due discipline sociali – diritto e sociologia – che
corrono parallele senza quasi trovare punti di contatto, segue (tanto
logicamente, quanto nella struttura del presente volume) una descrizione
articolata di quello che differenzia una teoria funzionalistica del diritto dalla
tradizionale teoria strutturale o sistematica del diritto17. Questo saggio
riprende le mosse dalla concezione sistematica del diritto e in particolare da
Kelsen, cioè dal rappresentante più rigoroso del positivismo giuridico, cui
Bobbio aveva dedicato attente analisi in passato. Anche in Kelsen, constata
Bobbio, le norme premiali sono ritenute marginali, mentre in realtà lo
Stato opera sempre più anche con premi (per chi ha già compiuto
un’attività commendevole) e con incentivi (per chi compirà un’attività
commendevole). La tradizionale funzione repressiva viene esercitata
soprattutto attraverso l’uso della forza, mentre la funzione promozionale si
avvale soprattutto dell’economia: ed è proprio l’accresciuta presenza dello
Stato nell’economia ad offrirgli lo strumento per aumentare le sanzioni
positive.
Ma questa accresciuta attività promozionale provoca una
trasformazione all’interno dell’ordinamento giuridico, trasformazione che a
sua volta deve trovare un riflesso anche nella teoria giuridica: questo
riflesso è l’affiancarsi di una teoria funzionale del diritto a una teoria
sistematica del diritto. Per Bobbio, infatti, la visione funzionale è
complementare alla visione sistematica o strutturale del diritto. Le due
visioni del diritto sono per lui diverse ma interdipendenti, complementari
ma non coincidenti: infatti la stessa struttura del diritto può svolgere più
funzioni e, viceversa, la stessa funzione del diritto può essere svolta da
strutture normative diverse. Il teorico del diritto deve perciò studiare tanto
la struttura quanto la funzione del diritto.
Va sottolineato che Bobbio si occupa soltanto dell’aspetto teorico della
funzione promozionale dello Stato e delle sue norme di incentivazione.
Diverso problema è invece quello delle concrete funzioni o disfunzioni
delle norme promozionali. Per studiarle bisogna analizzare i modelli
politici che lo Stato vuole favorire, oppure esaminare l’efficacia concreta
delle norme di incentivo (implementation), oppure svolgere una critica
economica o politica all’uso abnorme che, in concreto, un ceto politico ne
ha fatto. Proprio in quegli stessi anni, per esempio, Ernesto Rossi tuonava
contro la privatizzazione del denaro pubblico attuata dallo Stato
incentivatore.
Questi aspetti sostanziali non vengono però presi in considerazione da
Bobbio, perché egli si propone di mettere a fuoco gli aspetti formali delle
norme di incentivo, sino ad allora trascurati. I suoi punti di riferimento
sono quindi i teorici del diritto, non i pratici dell’economia o della politica.
Il suo linguaggio è quello della filosofia del diritto, di cui egli sottolinea il
legame prevalente con la sanzione negativa e che egli cerca quindi di
adattare alla nuova situazione con una minuziosa analisi linguistica e con
sottili distinzioni teoriche.
Nella lettura del saggio scritto per Gioja verso il 1971, qualche
espressione può suscitare incertezze nel lettore. Quando Bobbio parla di
una «considerazione strumentale del diritto» in Kelsen18 può sorgere il
dubbio che – per omogeneità con precedenti asserzioni – si tratti in realtà
di una considerazione strutturale del diritto. In realtà, come si evince dal
contesto, Bobbio si riferisce alla concezione kelseniana del diritto come
mezzo e non come fine: per Kelsen il diritto è uno strumento di
organizzazione sociale indipendentemente dal fine che intende perseguire.
Le perplessità aumentano però quando si legge: «Mentre Kelsen non ha
mai abbandonato del tutto il punto di vista funzionale, anzi, l’unica
definizione del diritto che si trova in Kelsen è di tipo funzionale, Hart [...] ha
portato alle estreme conseguenze l’approccio strutturale»19. Questa
formulazione può sembrare in contrasto con quanto Bobbio stesso aveva
scritto all’inizio del medesimo saggio: «Nell’opera di Kelsen non solo
analisi funzionale e analisi strutturale sono dichiaratamente separate, ma
questa separazione è la base teorica su cui Kelsen fonda l’esclusione della
prima [l’analisi funzionale] a favore della seconda», cioè dell’analisi
strutturale20.
Rispetto a questi testi, e a dubbi simili che possono sorgere nella
lettura, è necessario risolvere in primo luogo un problema filologico e, in
secondo luogo, un problema analitico. La filologia impone anzitutto di
chiedersi se Bobbio abbia effettivamente scritto quelle parole; l’esame
analitico impone poi di verificare come quell’affermazione filologicamente
accertata si inserisca nella costruzione teorica di Bobbio. Il confronto con
la traduzione in spagnolo dello stesso Gioja conferma che il testo italiano
non contiene errori materiali. Per ragioni di spazio, invece, bisogna qui
omettere un esame analitico del testo di Bobbio: sarebbe infatti necessario
verificare se il suo testo presenta vere e proprie ambiguità, o invece
soltanto difficoltà di interpretazione. In entrambi i casi il discorso si farebbe
troppo lungo e complesso.
Nel 1975 Bobbio ritornò sul rapporto fra sistema e funzione nel diritto
con un articolo pubblicato nella rivista che intanto Renato Treves aveva
fondato: «Sociologia del diritto». Bobbio constatava quanto rapidamente si
fosse diffuso l’interesse scientifico per la funzione promozionale del diritto,
ma invitava anche a precisare i termini e i concetti di cui spesso si faceva un
uso indistinto. Infatti molti cultori di discipline diverse parlavano di
«funzione» e di «diritto», ma spesso si riferivano a cose diverse designandole
con lo stesso nome.
Alle precedenti considerazioni Bobbio aggiungeva perciò tre
precisazioni analitiche: sull’oggetto della funzione (il diritto può assolvere
la sua funzione rispetto all’intera società, ovvero rispetto ai singoli che la
compongono); sul livello della funzione (il diritto può avere funzioni fra
loro concatenate, ma di livello diverso: la sicurezza individuale, la
soluzione di conflitti, l’organizzazione del potere); e, infine, sul diritto
della cui funzione si parla: si parla della funzione del diritto repressivo,
conservatore, ovvero di quella del diritto distributivo, innovatore? Si parla
del diritto pubblico o di quello privato, delle norme primarie o di quelle
secondarie (Hart), delle norme di condotta o di quelle di organizzazione?
Quasi tutte le precisazioni che scaturiscono da questi tre ordini di
distinzioni non sono contrapposte, ma complementari; tuttavia, afferma
Bobbio, è opportuno chiarirle preliminarmente per evitare dispute fondate
non sulla diversità delle concezioni, ma su malintesi terminologici.
Nel precisare la nozione di diritto cui si riferisce l’analisi funzionale del
diritto, Bobbio richiama la «grande dicotomia» fra diritto pubblico e diritto
privato. In quegli stessi anni, infatti, egli aveva analizzato il tema delle
grandi dicotomie nel diritto in due saggi, che in questo volume
concludono perciò i capitoli dedicati ad individuare le caratteristiche
dell’analisi funzionale del diritto. In entrambi vengono riprese e
approfondite le distinzioni fra norme giuridiche, accennate poco sopra,
collocate però in un quadro teorico generale che le arricchisce di
riferimenti alle grandi dicotomie sociologiche e storico-filosofiche. Nel
primo saggio la dicotomia fra norme di condotta e norme di
organizzazione viene desunta dall’economista liberale Friedrich Hayek;
inoltre vengono esaminate le ricadute sulla concezione del diritto delle
classiche dicotomie di Tönnies fra comunità e società, di Spencer tra
società militari e società industriali e di Durkheim tra solidarietà meccanica
e solidarietà organica. A queste dicotomie si aggiunge, nel secondo saggio,
«la fatidica distinzione»21 fra diritto naturale e diritto positivo, che in
proteiformi sembianze si ripresenta in ogni teoria del diritto e che richiama
il tema centrale di un altro volume di Bobbio22.
Nell’ambito dei temi sin qui trattati Bobbio affronta la funzione
promozionale del diritto in due saggi: poiché il primo, del 1969, era stato
ripreso con alcuni ampliamenti nel 1971, entrambi possono essere
commentati qui congiuntamente, dal momento che lo stesso Bobbio aveva
incluso in questa raccolta soltanto le parti del secondo saggio che
integravano il primo. Il punto di partenza è la constatazione che lo Stato
assistenziale – a partire dal tentativo di mettere riparo alla crisi economica
mondiale del 1929 – non può usare soltanto la repressione per proteggere i
valori che ritiene positivi, ma deve promuoverli anche con
l’incentivazione. Bisogna quindi precisare e innovare la terminologia
giuridica tradizionale.
In primo luogo, la distinzione tra norme negative e positive (cioè fra
divieti e comandi) non coincide concettualmente con quella fra sanzioni
negative e positive (cioè fra premi e castighi), anche se di fatto si possono
verificare tutte e quattro le combinazioni possibili: comando assistito da
premio; comando assistito da castigo; divieto assistito da premio; divieto
assistito da castigo. Una ricerca empirica in vari ordinamenti giuridici
positivi potrebbe fornire esempi di queste quattro categorie analitiche.
Tradizionalmente ci si limita a identificare l’ordinamento giuridico come
un insieme di divieti accompagnati da castighi e, di conseguenza, il
termine «sanzione» è generalmente inteso come «sanzione negativa», cioè
pena o castigo. Anche se nel 1885 Rudolf von Jhering aveva inserito
armonicamente le sanzioni positive, cioè il diritto premiale, nella sua
architettura finalistica dell’ordinamento giuridico, questo tema era rimasto
ai margini della teoria giuridica fino alla metà del XX secolo.
Poiché lo Stato assistenziale interviene sempre più nel mondo
economico, è proprio un economista, il teorico austriaco del liberalismo
Friedrich Hayek, a richiamare l’attenzione sul fatto (per lui riprovevole)
che le norme di condotta vengono sempre più spesso sostituite da norme
di organizzazione: di organizzazione, cioè, dell’invadente apparato statale.
Partendo dall’analisi critica di Hayek, Bobbio costruisce un sistema di
tripartizioni che individuano l’azione dello Stato moderno: un
ordinamento repressivo mira a rendere impossibile, difficile o svantaggiosa
un’azione con misure dirette; un ordinamento promozionale mira invece a
renderla necessaria, agevole, vantaggiosa con misure indirette.
La materia delle leggi promozionali o d’incentivo viene così organizzata
da Bobbio in due dicotomie. Nella prima, egli distingue il tradizionale
ordinamento repressivo dal moderno ordinamento promozionale rispetto
ai fini (il primo reprime le azioni indesiderate; il secondo induce a quelle
desiderate) e rispetto ai mezzi (il primo ricorre allo scoraggiamento; il
secondo all’incentivo). Nella seconda, Bobbio distingue poi la struttura e la
funzione che sono proprie delle misure di scoraggiamento e di
incentivazione: qui i termini «struttura» e «funzione» non si riferiscono più
all’ordinamento nel suo insieme, ma alle sanzioni (positive o negative)
presenti nell’ordinamento stesso. La struttura della norma di
scoraggiamento è la minaccia, mentre la struttura della norma di
incentivazione è la promessa di un vantaggio. Ne risulta così ampliata la
visione tradizionale dell’ordinamento giuridico, che si concentrava quasi
esclusivamente sulla sanzione negativa.
Seguendo la sequenza indicata da Bobbio, il presente volume si
conclude con tre saggi su tre giuristi: il saggio su Kelsen è riconducibile
direttamente al nucleo del libro (e perciò è già stato analizzato poco sopra),
perché in esso l’analisi della natura sistematica o strutturale
dell’ordinamento giuridico fa costantemente da contrappunto alla teoria
funzionalistica, come del resto – negli altri saggi sulla funzione del diritto –
sono frequenti i riferimenti a Kelsen come massimo teorico della teoria
strutturale del diritto.
Il saggio su Santi Romano venne scritto nel 1975. È quindi il più tardo
fra quelli ripresi nel presente volume e ricostruisce il dualismo tra la teoria
del diritto come istituzione (che si contrappone alla teoria normativa, e
quindi al suo corifeo Hans Kelsen) e la teoria pluralistica degli ordinamenti
giuridici (che si contrappone alla dottrina monistica, per la quale l’unica
fonte del diritto è lo Stato). Anche questa seconda teoria oppone Romano
a Kelsen. Nella sua Introduzione, Bobbio menziona appena questo ampio
saggio su Romano, che, fra quelli raccolti, è solo indirettamente connesso
al tema della teoria funzionale del diritto così come la sviluppano gli altri
saggi.
Il saggio conclusivo è dedicato a Tullio Ascarelli, uno studioso di
diritto commerciale i cui interessi andavano ben oltre quelli della materia
che insegnava. Il suo contatto con un ramo del diritto in perenne
trasformazione, su cui lo Stato può intervenire soltanto in certa misura, fa
di lui uno dei primi giuristi italiani – se non addirittura il primo – ad aver
proposto una teoria funzionale del diritto. Essa, scrive nell’edizione
brasiliana Celso Lafer, «ha la sua origine nello studio del diritto
commerciale, nel contatto professionale di Ascarelli con i problemi della
società capitalista e nella chiarezza concettuale con cui percepiva la
funzione economica del diritto»23. Negli anni attuali, in cui è ormai
abituale considerare l’Italia in uno stato permanente di crisi, è istruttivo e
quasi emozionante scoprire, nelle lettere citate da Bobbio, l’entusiasmo
con cui Ascarelli parla dello sviluppo economico italiano nel dopoguerra.
Erano gli anni del miracolo italiano, in cui l’IRI, la Cassa del Mezzogiorno
e l’intervento statale – dal 1952 al 1962 – avevano contribuito a far crescere
del 47% il reddito pro capite degli italiani. In questo contesto, la funzione
promozionale del diritto nello Stato industriale non poteva certo sfuggire ai
giuristi più attenti.
Ma dall’ultimo decennio del XX secolo, con l’avvento della società
post-industriale, hanno ripreso vigore le teorie neoliberali, che chiedono
meno funzione promozionale dello Stato e più funzione selettiva del
mercato, secondo la formula «meno Stato e più mercato». Se la società è in
crisi, affermava Ronald Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il
problema».
D’altra parte, ai governi neoliberisti si rimprovera di ridurre
l’intervento statale nelle spese sociali, cioè nel sostegno ai deboli, e di
favorire invece il neodarwinismo sociale che avvantaggia soprattutto le
imprese senza bandiera tipiche dell’economia globalizzata. In realtà il
neoliberalismo, obiettano i suoi critici, vuole non già ridurre lo Stato, ma
ri-direzionare la sua spesa; non vuole meno Stato, ma un altro Stato. Infatti
la crisi fiscale dello Stato impone di scegliere a chi assegnare le risorse, cioè
di decidere non se lo Stato debba intervenire, ma come debba intervenire. In
altre parole, la politica deve scegliere quali libertà finanziare e quali no.
Si aprirebbe qui un dibattito cui non è possibile neppure accennare.
Basti ricordare però che proprio dalla Scuola di Chicago – quella che
propugnò l’analisi economica del diritto – viene un monito
sull’irrinunciabilità dell’intervento statale in ogni società evoluta: «Le
libertà dei singoli comportano costi a carico di tutti»24; però soltanto lo
Stato può realizzare il prelievo fiscale e decidere l’allocazione delle risorse.
Di conseguenza, anche in una società complessa come quella post-
industriale la ridistribuzione deve avvalersi delle norme di incentivo. In
questo nuovo contesto, la distinzione fra teorie strutturali e teorie
funzionali del diritto non perde la sua rilevanza pratica e conserva intatto il
suo valore teorico.
M.G.L.

Note
1 N. Bobbio, Profilo ideologico del ’900, Garzanti, Milano 1990, p. 209.
2 Ho tentato di tracciare un portolano di questo periplo in Norberto Bobbio e il positivismo giuridico,
in Giornata Lincea in Ricordo di Norberto Bobbio, Atti dei Convegni Lincei n. 226, Bardi Editore,
Roma 2006, pp. 55-78. Esso è premesso (insieme con uno scritto di Celso Lafer) alla traduzione
brasiliana del volume qui presentato: O pensamento de Norberto Bobbio, do positivismo jurídico à função do
direito, in N. Bobbio, Da estrutura à função. Novos estudos de teoria do direito, Manole, Barueri (São
Paulo) 2007, pp. XIX-XLIX.
3 N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992.
4 N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965.
5 N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Edizioni di Comunità,
Milano 1977. Questi studi vengono presentati come «nuovi» in rapporto ai precedenti volumi di
Bobbio, Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1955; Studi per una teoria generale del
diritto, Giappichelli, Torino 1970.
6 Per un maggiore approfondimento dei rapporti di Treves con Bobbio, Del Vecchio e Kelsen,

nonché per la storia del suo apporto alla sociologia giuridica italiana, cfr. M.G. Losano, Renato
Treves, sociologo tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, con il regesto di un archivio ignoto e la bibliografia di
Renato Treves, Unicopli, Milano 1998.
7 Bobbio, Profilo ideologico del ’900, cit., p. 232.
8 G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LXII, 1966, pp. 141-55. Il
fascicolo della rivista è intitolato Studi sull’obbligo giuridico e raccoglie i contributi presentati nel 1965
al convegno di Bellagio, promosso da Herbert Hart, autore della relazione di apertura, Alessandro
Passerin d’Entrèves e Norberto Bobbio che – nelle sue Considerazioni in margine (pp. 235-46) e
nonostante l’understatement di questo titolo – traccia le conclusioni del convegno, riassumendo le
varie concezioni dell’obbligo giuridico senza però anticipare la sua svolta ormai imminente verso la
teoria funzionale del diritto.
9 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 150 e 155.
10 Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, cit., pp. 154 sg.
11 R. Jhering, Der Zweck im Recht, Band I, Breitkopf und Härtel, Wiesbaden 1904, ristampa
anastatica: Georg Olms, Hildesheim-New York 1970, p. 141 (trad. it., Lo scopo nel diritto, Einaudi,
Torino 1972, p. 140); Jhering sottolinea che «il diritto premiale» (Lohnrecht) è un «concetto a noi
sconosciuto». Altre informazioni su questo tema sono nel mio già citato Norberto Bobbio e il
positivismo giuridico, pp. 71 sg.
12 Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit., Premessa, p. 9.
13 Bobbio, Prólogo a la edición española, in Contribución a la teoría del derecho, Edición a cargo de
Alfonso Ruiz Miguel, Debate, Madrid 1990, p. 11.
14 Bobbio, in questo volume, p. 41.
15 Sulla nozione di sistema rinvio ai miei tre volumi, Sistema e struttura nel diritto, Giuffrè, Milano
2002. Sul superamento della nozione di sistema e sulla nozione di «rete» cfr. F. Ost-M. van de
Kerchove, De la pyramide au réseau. Pour une théorie dialectique du droit, Facultés Universitaires Saint
Louis, Bruxelles 2002, e il mio scritto (e la letteratura ivi indicata) Diritto turbolento. Alla ricerca di
nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in «Rivista internazionale di
filosofia del diritto», 3, 2005, pp. 403-30 (ed. or., Turbulentes Recht: Herkömmliche Rechtsordnung,
überstaatliche Rechtssetzung und Ordnung stiftende Modelle, www.jura.uni-
hannover.de/jubilaeum/vortrag_losano.pdf).
16 Bobbio, in questo volume, p. 46; corsivo mio.
17 Questo saggio venne scritto nel 1970-71 per un volume in onore di Ambrosio L. Gioja
(1912-1971). A causa della morte prematura del filosofo argentino e del conseguente ritardo nella
pubblicazione del volume, Bobbio nel 1977 indicò ancora come inedito il saggio stesso. Esso venne
pubblicato in Derecho, filosofía y lenguaje. Homenaje a Ambrosio L. Gioja, Astrea, Buenos Aires 1976.
Ulteriori spiegazioni in Losano, Norberto Bobbio e il positivismo giuridico, cit., p. 69, nota 47.
18 Bobbio, in questo volume, p. 68; corsivo mio.
19 Bobbio, in questo volume, pp. 69 sg.; corsivo mio.
20 Bobbio, in questo volume, p. 49.
21 Bobbio, in questo volume, p. 138.
22 Cfr. il testo citato alla nota 4.
23 C. Lafer, Apresentação à edição brasileira, in Bobbio, Da estrutura à função, cit., p. LVI.
24 S. Holmes-C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse, Il Mulino,
Bologna 2000, p. 231 (ed. or., The Cost of Rights. Why Liberty Depends on Taxes, Norton, New York
1999).
Premessa

Riunisco in questo volume la maggior parte degli scritti di teoria del


diritto composti dopo l’ultima raccolta analoga (Studi per una teoria generale
del diritto, Giappichelli, Torino 1970). Sono saggi sparsi e dispersi,
d’argomento disparato, su temi teorici e anche su persone. Non sono
riducibili ad un’unica ispirazione né sono ricomponibili in unità
sistematica. Quasi tutti nondimeno sono percorsi o toccati da un tema
dominante, che è quello della funzione «promozionale» del diritto – mi
scuso della brutta parola ma non ne ho trovate altre –, che dà il titolo al
primo saggio. Vi si connettono direttamente i due primi saggi, La funzione
promozionale del diritto e Le sanzioni positive, ma vi si riferiscono di scorcio, vi
accennano o lo sfiorano, quasi tutti gli altri. Si tratta di un tema il cui
rilevamento e la cui discussione io considero fondamentali per adeguare la
teoria generale del diritto alle trasformazioni della società contemporanea e
alla crescita dello stato sociale o amministrativo o di benessere o di giustizia
o di capitalismo monopolistico, come lo si voglia più o meno
benevolmente chiamare secondo i diversi punti di vista. Questo
adeguamento è diventato necessario per chi voglia comprendere e
descrivere esattamente il passaggio dallo stato «garantista» allo stato
«dirigista», e conseguentemente la metamorfosi del diritto da strumento di
«controllo sociale» nel senso stretto della parola in strumento di «direzione
sociale», insomma per colmare il divario fra la teoria generale del diritto
qual è e la stessa teoria quale dovrebbe essere in un universo sociale
continuamente in movimento. Intendo per «funzione promozionale»
l’azione che il diritto svolge attraverso lo strumento delle «sanzioni
positive», cioè attraverso meccanismi, genericamente compresi col nome
di «incentivi», i quali mirano, anziché a impedire atti socialmente
indesiderabili, ciò che è il fine precipuo di pene, multe, ammende,
riparazioni, restituzioni, risarcimenti, ecc., a «promuovere» il compimento
di atti socialmente desiderabili. Questa funzione non è nuova. Ma è nuova
l’estensione che essa ha avuto e continua ad avere nello stato
contemporaneo: un’estensione in continuo aumento tanto da far apparire
completamente inadeguata e a ogni modo lacunosa una teoria del diritto
che continui a considerare l’ordinamento giuridico dal punto di vista della
sua funzione tradizionale puramente protettiva (degli interessi giudicati
essenziali da coloro che fanno le leggi) e repressiva (delle azioni che vi si
oppongono).
La percezione di questo mutamento mi ha costretto a volgere lo
sguardo a un problema che era stato alquanto trascurato dalla teoria
tradizionale, cioè al problema della funzione del diritto, cui sono dedicati il
terzo, il quarto e il quinto saggio, e in parte anche il saggio su Kelsen. Il
predominio della teoria pura del diritto nel campo degli studi giuridici ha
avuto per effetto che gli studi di teoria generale del diritto sono stati
orientati per lungo tempo più verso l’analisi della struttura degli
ordinamenti giuridici che non verso l’analisi della loro funzione. Non ho
bisogno di dire quali importanti contributi siano stati dati in questi anni
all’allargamento e all’approfondimento dell’analisi strutturale, dal cui
grembo fecondo è nata addirittura una disciplina nuova e affascinante, la
logica deontica. Ma il diritto non è un sistema chiuso e indipendente,
anche se nulla osta a considerarlo tale quando ci si ponga dal punto di vista
delle sue strutture formali. Il diritto è, rispetto al sistema sociale
considerato nel suo complesso in tutte le sue articolazioni e in tutte le sue
interrelazioni, un sottosistema che sta accanto, e in parte si sovrappone e in
parte si contrappone, ad altri sottosistemi, quali l’economico, il culturale, il
politico. Ora, ciò che lo distingue come sottosistema dagli altri
sottosistemi, insieme ai quali costituisce il sistema sociale nel suo
complesso, è la funzione. Tanto è vero che un’analisi del sistema sociale
nel suo complesso non può prescindere dall’analisi funzionale delle sue
singole parti. Naturalmente l’orientamento della teoria del diritto verso
l’analisi funzionale, verso quella che ho chiamato una «teoria
funzionalistica del diritto», in aggiunta non in contrapposizione alla teoria
strutturalistica dominante, non è potuto avvenire senza un contributo
diretto della sociologia. Il passaggio dalla teoria strutturale alla teoria
funzionale è anche il passaggio da una teoria formale (o pura!) a una teoria
sociologica (impura?). Dico questo perché nella maggior parte degli articoli
qui raccolti – e questo è un altro tratto comune – si sente che la sociologia
del diritto batte alle porte.
I due articoli sulle «grandi dicotomie» sono un esercizio di «ars
combinatoria»: un’operazione per cui ho sempre avuto un certo gusto e
che ho sempre trovato eccitante. Sono in parte la continuazione e lo
sviluppo dell’articolo sulle norme primarie e secondarie con cui terminava
la raccolta precedente (nell’opera sopra citata alle pp. 175-97). Ma sono
anche un tentativo di capire come operano le categorie fondamentali
attraverso cui cerchiamo di captare e di dominare una determinata sfera di
esperienza, e quali relazioni corrono fra le categorie fondamentali di
diverse sfere di esperienze che si richiamano l’una con l’altra (società,
diritto, economia, morale, ecc.).
Dei tre articoli su giuristi, quello su Kelsen si ricollega ai temi principali
della funzione positiva del diritto e dell’analisi funzionale del sistema
giuridico, che caratterizzano la presente raccolta. Gli altri due, invece,
scritti per occasioni celebrative (anche se m’illudo di credere non siano
celebranti), sono estranei alla tematica principale del libro. Quello su
Tullio Ascarelli, che ho collocato qui perché è passato sinora inosservato,
sepolto com’è in quei cimiteri monumentali che sono gli studi in onore, e
anche perché contiene i primi riferimenti a una teoria funzionalistica del
diritto, è il più antico della presente raccolta (fu scritto nel 1964); quello su
Santi Romano, in parte inedito, è il più recente (1975).
N.B. Do qui di seguito l’elenco degli scritti raccolti in questo volume,
con l’avvertenza che nel ristamparli vi ho introdotto qualche lieve
correzione e aggiunto qualche nota di aggiornamento:
Sulla funzione promozionale del diritto, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile»,
XXIII, 1969, pp. 1312-29 (questo articolo è apparso anche in lingua inglese col titolo The
Promotion of Action in the Modern State, nel volume miscellaneo Law, Reason and Justice. Essays in
Legal Philosophy, edited by Graham Hughes, New York University Press, New York 1969, pp.
189-206);
Sulle sanzioni positive, in Studi dedicati ad Antonio Raselli, Giuffrè, Milano 1971, vol. I, pp. 229-
49 (di questo articolo sono state riprodotte nel presente volume soltanto le pagine nuove rispetto
all’articolo precedente);
Il diritto, in Le scienze umane in Italia, oggi, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 259-77 (ripubblicato
in questa raccolta col titolo Diritto e scienze sociali);
Verso una teoria funzionalistica del diritto, scritto originariamente per gli studi in memoria del
filosofo del diritto argentino Ambrosio Gioja (tuttora inedito);
Intorno all’analisi funzionale del diritto, in «Sociologia del diritto», II, 1975, pp. 1-25 (qui
ristampato col titolo L’analisi funzionale del diritto: tendenze e problemi);
Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in «Rivista internazionale di filosofia del
diritto», XLVII, 1970, pp. 187-204 (anche in Studi in onore di Giuseppe Grosso, Giappichelli,
Torino 1971, vol. IV, pp. 615-35);
La grande dicotomia, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Cedam, Padova 1974, pp. 2187-200;
Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, scritto originariamente per il Convegno «Le
dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano», promosso dall’ISAP, 25-26
ottobre 1975, pubblicato in «Amministrare. Rassegna internazionale di pubblica
amministrazione», I, 1975, pp. 447-66; quindi, in una nuova versione, che è quella qui accolta,
destinato agli studi in onore del filosofo del diritto in lingua spagnola, Luís Recaséns Siches
(tuttora inedito);
Hans Kelsen, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», L, 1973, pp. 426-49 (qui
accolto col titolo Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen);
L’itinerario di Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, Giuffrè, Milano 1969, vol. I,
pp. LXXXIX-CXL; primamente, se pur soltanto parzialmente, pubblicato, col titolo Tullio Ascarelli,
in «Belfagor», XIX, 1964, pp. 411-34; pp. 546-65.
I. La funzione promozionale del diritto

1. Insufficienza delle tradizionali concezioni protettiva ìe


repressiva del diritto
A proposito di una discussione sul concetto di obbligo – che sino a ora
è stato considerato come concetto-chiave della teoria generale del diritto –
Genaro R. Carrió ha osservato che gran parte della teoria generale del
diritto europea è prigioniera di un concetto di diritto che presuppone
«l’immagine semplicistica dello stato come organismo che stabilisce le
regole del gioco e istituisce un arbitro»1. La prevalenza data al concetto di
obbligo e alla spiegazione dell’obbligo in termini di sanzione e di coazione
sarebbe il principale e non più desiderabile effetto di quella immagine:
«quando si definisce “obbligo giuridico” e si attribuisce una funzione a
questo concetto, si presuppone come modello di sistema un tipo di
organizzazione sociale ormai perenta: lo stato gendarme che con tecniche
limitate perseguiva fini altrettanto limitati». In seguito alla profonda
trasformazione che ha dato ovunque origine al Welfare State, gli organi
pubblici perseguono i nuovi fini proposti all’azione dello stato mediante
nuove tecniche di controllo sociale, diverse da quelle tradizionali. «Non è
possibile – precisa il Carrió – che l’apparato concettuale, elaborato dalla
teoria generale del diritto, persista inalterato attraverso mutamenti tanto
radicali».
Prendendo lo spunto da questa osservazione, mi propongo di
esaminare uno degli aspetti più rilevanti, e ancor poco studiato proprio in
sede di teoria generale del diritto, delle nuove tecniche di controllo sociale,
che caratterizzano l’azione dello stato sociale dei nostri tempi e la
distinguono profondamente da quella dello stato liberale classico: l’impiego
sempre più diffuso delle tecniche di incoraggiamento in aggiunta a, o in
sostituzione di, quelle tradizionali di scoraggiamento. Non c’è dubbio che
questa innovazione mette in crisi alcune delle più note teorie tradizionali
del diritto che traggono origine da una immagine estremamente
semplificata del diritto. Mi riferisco in particolare alla teoria che considera
il diritto esclusivamente dal punto di vista della sua funzione protettiva e a
quella che lo considera esclusivamente dal punto di vista della sua funzione
repressiva. Superfluo aggiungere che le due teorie si trovano spesso
sovrapposte: il diritto svolge la funzione di protezione rispetto agli atti leciti
(che possono essere tanto atti permessi quanto atti obbligatori) mediante la
repressione degli atti illeciti. Un esempio classico della prima teoria è quella
che ha per capostipite Christianus Thomasius, secondo cui il diritto è
caratterizzato dal fatto di ottenere il proprio scopo (che è essenzialmente
protettivo) attraverso l’emanazione di comandi negativi (divieti); la seconda
teoria, comune a tutta la corrente del positivismo giuridico, da Austin a
Jhering a Kelsen, è quella secondo cui il diritto raggiunge il proprio scopo
(che è essenzialmente repressivo) attraverso l’organizzazione di sanzioni
negative (il diritto come apparato coattivo, o Zwangsordnung).

2. La teoria del diritto come insieme di norme negative


Com’è noto, Thomasius considerò il diritto come un insieme di
norme negative (che poi si riassumevano sostanzialmente nel precetto
neminem laedere) per offrire un criterio semplice e netto che servisse a
distinguere le norme giuridiche da altre norme, come quelle della morale
individuale e della morale sociale2.
Come tutte le teorie riduzionistiche (e quella thomasiana è
particolarmente semplicistica), la teoria che vede nel diritto un insieme di
norme di un solo tipo (in questo caso le norme negative) è manifestamente
falsa. Ma è troppo manifestamente falsa per non stimolare a guardare che
cosa c’era dietro. Quello che essa nascondeva era l’idea che al diritto si
dovesse ascrivere, appunto per distinguerlo dalla morale, una funzione
eminentemente protettiva. L’apparire del diritto come insieme di norme
negative segnava il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, cioè da
uno stato continuamente minacciato dalla guerra universale a uno stato di
pace. Il fine del diritto, diceva Thomasius, era quello di evitare il male
maggiore per l’umanità, la guerra, e di garantire il bene minore, la pace.
Ora per garantire la pace, bastano norme che impediscano ai diversi
membri del corpo sociale di farsi del male, cioè appunto norme negative.
Thomasius ebbe il torto di presentare come una teoria del diritto, come
una determinazione filosofica dell’essenza del diritto, quello che era in
realtà un ideale politico, oggi diremmo un’ideologia. Egli descrisse non ciò
che il diritto è ma quello che sarebbe dovuto essere per corrispondere
all’ideale di uno stato che ha per iscopo non già di rendere i propri sudditi
più felici ma di garantirne la reciproca libertà. Prova ne sia che la teoria del
Thomasius fu confutata, com’è noto, dal Leibniz secondo il quale il diritto
non può fare a meno di comandare oltre che di proibire3; ma appunto il
Leibniz aveva accettato l’ideale politico del dispotismo più o meno
illuminato per cui il sovrano deve preoccuparsi non solo della felicità ma
anche del benessere e dei buoni costumi dei propri sudditi. Nelle pieghe
della controversia apparentemente scolastica tra Thomasius e il suo critico
si nascondeva in realtà un contrasto ideologico.
Non sarebbe valsa la pena di riesumare la teoria di Thomasius, ormai
universalmente dimenticata, se non fosse che essa può essere sottintesa in
tutte le teorie che via via s’ispirarono all’ideale dello stato liberale classico,
dello stato inteso nella sua funzione di semplice custode dell’ordine
pubblico, a cominciare da quella di Kant, per finire con quella di Hegel (se
pur limitatamente al «diritto astratto», cioè al primo momento dello spirito
oggettivo, che comprende esclusivamente il diritto privato e il diritto
penale). Non sarà superfluo ricordare che per Hegel la necessità del diritto
«si limita, per ragione stessa della sua astrazione, al divieto: non ledere la
personalità, e ciò che ne deriva», con la conseguenza che ci sono soltanto
«divieti giuridici, e la forma positiva dei precetti giuridici, conformemente
al loro contenuto ultimo, deve porre a base il divieto»4. Nelle concezioni
in cui lo stato assume la funzione di custode dell’ordine pubblico, il diritto
si risolve a poco a poco nel diritto penale; e una delle caratteristiche del
diritto penale è appunto di essere composto prevalentemente di norme
negative. Una volta considerato l’intero fenomeno giuridico sotto
l’esclusivo angolo visuale del diritto penale, la teoria del diritto come
insieme di norme negative appare più plausibile, o per lo meno meno
eccentrica (anche se continua ad essere falsa). Tanto plausibile che essa fu
esplicitamente professata nel bel mezzo del secolo XIX da un accanito
fautore (e profeta) della diminuzione progressiva dei compiti dello stato
come Herbert Spencer. Nel contrapporre allo stato militare ormai in via di
esaurimento lo stato industriale in formazione, Spencer attribuì a
quest’ultimo tra le altre caratteristiche anche quella di servirsi, per esplicare
le sue funzioni ridotte al mantenimento dell’ordine, soltanto di norme
negative: «allo schiavo, al soldato, o ad ogni altro membro di una società
organizzata per la guerra – egli scrisse –, l’autorità dice: “Tu farai questo; tu
non farai quest’altro”. Ma al membro della società industriale dà soltanto
uno di questi ordini: “Tu non farai questo”»5. Non si può dire che lo
Spencer sia stato buon profeta: nelle società industriali moderne, via via
che avanza il processo di industrializzazione, i compiti dello stato
aumentano anziché diminuire, senza parlare delle società in cui il processo
di industrializzazione è avvenuto attraverso stati che hanno le
caratteristiche delle organizzazioni che Spencer chiamava militari. Ma qui
c’interessa non tanto la filosofia della storia di Spencer quanto la persistente
connessione di una certa immagine del diritto con una certa concezione
dello stato, anche se le due teorie, quella di Thomasius e quella di Spencer,
non si possano mettere in un solo fascio, perché ciò che in Thomasius
pretendeva di essere una definizione dell’essenza del diritto, in Spencer era
diventata la caratterizzazione di un tipo di ordinamento giuridico
storicamente determinato. Mentre Thomasius andava alla ricerca della
natura, sempre eguale, del diritto, al di fuori delle sue diverse attuazioni
storiche, Spencer cercava di tracciarne l’evoluzione storica. Resta il fatto
che questa evoluzione storica tendeva verso un ordinamento giuridico che
avrebbe dovuto avere le stesse caratteristiche che il giusnaturalista
attribuiva al diritto compreso nella sua essenza. Il che, se mai, è una
conferma della natura ideologica della teoria negativa del diritto, anche se
qui c’interessa non per l’ideale che esprime ma per l’immagine del diritto
che in essa si riflette.

3. Relazione tra norme positive e negative da un lato, e


sanzioni positive e sanzioni negative dall’altro
Per quanto la teoria del diritto come ordinamento repressivo sia
strettamente connessa a quella testé esaminata (nei vecchi manuali
Thomasius è considerato, se pure a torto, come iniziatore della teoria del
diritto come coazione), è bene non confondere, dal punto di vista
analitico, la distinzione tra norme positive e norme negative e quella tra
sanzioni positive e sanzioni negative. Con termini d’uso più comune, altro
è la distinzione tra comandi e divieti, altro quella tra premi e castighi. Le
due distinzioni non si sovrappongono. Anche se di fatto le norme negative
vengono rafforzate abitualmente con sanzioni negative, mentre le sanzioni
positive vengono predisposte e applicate prevalentemente per il
rafforzamento di norme positive, non vi è alcuna incompatibilità tra norme
positive e sanzioni negative, da un lato, e norme negative e sanzioni
positive dall’altro. In un sistema giuridico molte delle norme rafforzate da
sanzioni negative sono norme positive (comandi di dare o di fare). Le
tecniche d’incoraggiamento dello stato assistenziale contemporaneo si
applicano, se pur più raramente, anche a norme negative. In altre parole, si
può scoraggiare dal fare così come si può incoraggiare a non fare. Quindi
di fatto si possono dare quattro diverse situazioni: a) comandi rafforzati da
premi; b) comandi rafforzati da castighi; c) divieti rafforzati da premi; d)
divieti rafforzati da castighi.
Per quanto le due distinzioni tra comandi e divieti, e tra premi e
castighi, non si sovrappongano, di fatto i premi vengono connessi
generalmente a comandi, i castighi a divieti. Si tende a premiare o a punire
un’azione, piuttosto che un’omissione: ma un’azione o è il
comportamento conforme a un comando o il comportamento non
conforme a un divieto. In altre parole è più facile premiare un’azione che
un’omissione: ma allora ciò che si premia è un comportamento previsto da
una norma positiva. È più facile punire un’azione che un’omissione: ma
allora ciò che si punisce è un comportamento contrario a un divieto. Se si
vuole una prova del contrario, si consideri un’omissione: questa può essere
tanto un comportamento conforme a un divieto quanto un
comportamento contrario a un comando. Nel primo aspetto, è un
comportamento che si prolunga nel tempo ed è destinato a non suscitare
una reazione positiva determinata; nel secondo aspetto induce più a una
riparazione che a un castigo.

4. La teoria del diritto come insieme di norme rafforzate da


sanzioni negative
Nella teoria generale del diritto contemporanea la concezione
repressiva del diritto è tuttora dominante. Sia che la forza venga
considerata come un mezzo per ottenere il massimo rispetto delle norme
(primarie) del sistema sia che venga considerata come il contenuto stesso
delle norme (secondarie)6, la concezione dominante è certamente quella
che considera il diritto come ordinamento coattivo, e stabilisce così un
nesso necessario e indissolubile tra diritto e coazione. Questa connessione
si traduce nel rilievo esclusivo dato alle sanzioni negative: la coazione viene
considerata o essa stessa una sanzione negativa oppure il mezzo estremo per
rendere efficaci le sanzioni (negative), predisposte dall’ordinamento stesso a
conservazione del proprio patrimonio normativo.
Nella letteratura filosofica e sociologica il termine «sanzione» viene
usato in senso largo per comprendervi non soltanto le conseguenze
spiacevoli dell’inosservanza delle norme, ma anche le conseguenze
piacevoli dell’osservanza, distinguendosi nel genus sanzione le due species
delle sanzioni positive e delle sanzioni negative. Sta di fatto, invece, che nel
linguaggio giuridico il termine «sanzione», se viene usato senza ulteriori
determinazioni, denota esclusivamente le sanzioni negative. Kelsen, pur
ammettendo che gli ordinamenti giuridici moderni contengano talvolta
anche norme premiali, avverte subito dopo che «hanno un’importanza
secondaria all’interno di questi sistemi che fungono da ordinamenti
coercitivi»7, dove si vede chiaramente che il concetto di ordinamento
coercitivo implica quello di sanzione negativa. Per Carnelutti, sebbene
«non vi sia alcun motivo di riservare al castigo il carattere della sanzione», il
valore pratico della ricompensa nel diritto «è così limitato da spiegare se
non proprio da giustificare l’abitudine teorica, la quale, trascurandola
affatto, risolve senz’altro la sanzione in un male inflitto a chi ha fatto del
male»8. Questa immagine del diritto è prevalente anche nella letteratura
non giuridica. Felix Oppenheim, dopo aver illustrato la tecnica dello
scoraggiamento, osserva che il miglior esempio di questo tipo di controllo
sociale è la legislazione, perché «è la tecnica sociale più frequentemente
usata da coloro che esercitano il potere di governo per influenzare il
comportamento dei governati»9. J.P. Gibbs, un sociologo, osserva che
«legal sanctions (at least in Anglo-American system) are exclusively
negative, and this is perhaps of significance in evaluating the role of law in
social order»10.
Da questo punto di vista è ancor oggi estremamente istruttiva l’opera di
Rudolf Jhering, Der Zweck im Recht, la quale è, com’è noto, una trattazione
delle leve che determinano il movimento sociale, in senso lato un trattato,
come quello pure classico del Bentham, sulle pene e sulle ricompense.
Jhering non disconosce affatto l’importanza delle ricompense come leve
del movimento sociale, ma da storico del diritto romano, quale egli era,
contrappone la società antica alla moderna in base al fatto che la prima
soleva attribuire grande importanza alle sanzioni positive, la seconda
riconosce soltanto le sanzioni negative. Non senza una certa esagerazione,
che peraltro è ai nostri fini molto significativa, giunge a dire che «il giurista
oggi non deve preoccuparsi che della pena. Nessuno, oggi, ha diritto a una
ricompensa per servizi eminenti e straordinari». «In Roma – precisa – al
diritto penale corrispondeva un diritto premiale. Oggi questa nozione ci è
estranea»11. Jhering, come Spencer, è perfettamente consapevole che la sua
immagine del diritto ha valore storico; ma, a differenza di Spencer,
considera l’immagine del diritto che egli trae dalla considerazione della
società contemporanea non come un’idea progressiva ma come un’idea
regressiva del diritto: si augura infatti che il diritto futuro conceda di nuovo
maggiore spazio, come già il diritto romano, al diritto premiale. Non si
può negare che lo sviluppo successivo degli ordinamenti giuridici moderni
abbia soddisfatto le aspirazioni di Jhering assai più di quel che non abbia
realizzato le previsioni di Spencer.
Per quel che riguarda la società del suo tempo, Jhering, pur
riconoscendo l’importanza della ricompensa, ne circoscrive l’efficacia alla
sfera dei rapporti del commercio privato, comprendente tanto i rapporti di
scambio quanto quelli associativi. In tal modo la sfera dell’attività
economica viene nettamente distinta dalla sfera dell’attività politica: e il
criterio di distinzione diventa il diverso impiego delle due leve
fondamentali del movimento sociale. La leva in base alla quale si muove la
società economica è la ricompensa; la leva in base alla quale si muove la
società politica è la pena. Con la distinzione tra una sfera di prevalente
applicazione delle ricompense e una sfera di prevalente applicazione delle
pene, Jhering riproduceva la distinzione hegeliana tra società civile e stato,
che rispecchia la scissione tra sfera degli interessi economici e sfera degli
interessi politici, tra condizione del borghese e condizione del cittadino,
caratteristica della incipiente società industriale. Anche la concezione
repressiva del diritto, come già la concezione protettiva, è un modello
teorico che permette di rappresentare con particolare precisione un
determinato tipo storico di società, quella società in cui l’attività
economica viene sottratta o si desidera venga sempre più sottratta
all’intervento del potere politico.

5. Norme di condotta e norme di organizzazione


Si capisce che là dove è avvenuto il processo inverso, cioè dove
l’intervento del potere politico nella sfera degli interessi economici è
andato aumentando anziché diminuendo, le due concezioni tradizionali
del diritto appaiano inadeguate, come vestiti diventati troppo stretti per un
corpo inaspettatamente cresciuto. Nella teoria del diritto si è verificata
quella «perdita dell’equilibrio concettuale» di cui parla Carrió nell’articolo
citato, riprendendo un’espressione di P.F. Strawson. Ma non credo che la
via migliore per ristabilire l’equilibrio perduto consista nel costruire
affrettatamente altri modelli ispirati, come i precedenti, al criterio di ridurre
gli elementi che contraddistinguono il diritto a un solo elemento
essenziale, cioè altri modelli affetti da riduzionismo. Ogni «riduzione»,
come abbiamo visto attraverso gli esempi precedenti, è una buona spia per
lasciar scorgere il carattere ideologico di una teoria; ma è in genere, da un
punto di vista analitico, un’aberrazione.
L’unico tentativo che io conosca di proporre un modello estremamente
semplificato dell’ordinamento giuridico dello stato assistenziale da
sostituire a quello spenceriano e a quello jheringhiano è stato fatto da F.A.
Hayek. Il quale ha interpretato il contrasto tra stato liberale e stato
assistenziale non percorrendo la via più facile, che sarebbe stata quella di
contrapporre a un sistema o di sole norme negative o di sole sanzioni
negative un sistema di norme anche positive, oppure di sanzioni anche
positive, ma facendo appello alla distinzione tra norme di condotta e
norme di organizzazione. Partendo dall’osservazione che «una delle
maniere principali con cui è stata compiuta la distruzione dell’ordine
liberale» consiste «nella progressiva sostituzione delle regole di condotta
con regole di organizzazione»12, egli vuol suggerire l’idea che mentre lo
stato liberale classico si rifletteva in un ordinamento giuridico composto
prevalentemente da norme di condotta (scil. norme primarie), lo stato
assistenziale contemporaneo ha il suo riflesso in un ordinamento giuridico
composto prevalentemente da norme di organizzazione (scil. norme
secondarie).
La teoria di F.A. Hayek coglie indubbiamente un aspetto rilevante del
mutamento. Ma se pretende di essere accolta come un nuovo modello
esaustivo, anch’essa allora, come tutte le teorie riduzionistiche, è
inadeguata. Che l’ordinamento giuridico dello stato assistenziale sia
caratterizzato da un forte aumento di norme d’organizzazione è vero; ma
non è meno vero che crescono continuamente anche le norme positive e
le sanzioni positive. L’aspetto che la teoria di Hayek coglie è quello che si
può definire attraverso la nozione di «azione diretta dello stato»: lo stato
assistenziale infatti non pretende soltanto di far fare (attraverso norme
positive o sanzioni positive), ma fa egli stesso. Le norme di organizzazione
sono appunto quelle attraverso cui lo stato regola l’azione dei propri
organi.
Contro questo modello si possono sollevare due facili obiezioni. Prima
di tutto, come non vi è ordinamento giuridico senza norme positive, così
non vi è ordinamento giuridico senza norme di organizzazione: proprio in
questi anni ha avuto larga diffusione una teoria secondo cui un
ordinamento giuridico si distingue da altri ordinamenti normativi proprio
per la presenza delle norme d’organizzazione (o norme secondarie)13;
d’altra parte, anche un ordinamento meramente coattivo, un ordinamento,
cioè, che attribuisce funzioni limitate ai pubblici poteri, non può fare a
meno di norme d’organizzazione, tanto è vero che lo spostamento
dell’interesse del giurista dalle norme di condotta rivolte ai cittadini alle
norme d’organizzazione rivolte ai funzionari è avvenuto, come tutti sanno,
con Jhering. In secondo luogo, anche la teoria di Hayek tradisce
chiaramente i giudizi di valore sottostanti, e quindi il suo intento
ideologico. Rispetto ai valori di uno scrittore così tenacemente avvinto ai
principi del liberalismo classico, come Hayek, le norme di organizzazione
rappresentano altrettante inutili reti tese allo scopo di vincolare la libertà
individuale, e pertanto debbono essere giudicate come portatrici di un
valore negativo. Il nostro autore giunge a dire con evidente esagerazione
che «la progressiva sostituzione delle norme di condotta di diritto privato e
penale con concetti derivanti dal diritto pubblico è il processo attraverso il
quale le società liberali esistenti si sono andate trasformando
progressivamente in società totalitarie»14. Il progresso che Spencer vedeva
nel passaggio dal diritto composto prevalentemente di comandi al diritto
composto prevalentemente di divieti, il nostro autore vede invece nel
passaggio da un diritto in cui i destinatari delle norme cessano di essere i
funzionari per diventare nuovamente i cittadini. Non c’è dubbio che il
fenomeno della crescita delle norme di organizzazione si presta molto più
che il fenomeno non meno evidente della crescita di norme positive e di
sanzioni positive a suggerire un giudizio di valore negativo sulle
trasformazioni dello stato contemporaneo per colui che si metta dal punto
di vista della dottrina liberale tradizionale.

6. Funzione promozionale dello stato assistenziale


Il rilievo dato al vertiginoso aumento delle norme di organizzazione
che caratterizza lo stato contemporaneo non mette necessariamente in crisi
l’immagine tradizionale del diritto come ordinamento protettivo-
repressivo. Mette in crisi questa immagine, invece, l’osservazione da cui ho
preso le mosse: nello stato contemporaneo diventa sempre più frequente
l’uso delle tecniche d’incoraggiamento. Non appena si cominci a tener
conto dell’uso di queste tecniche, si è costretti ad abbandonare l’immagine
tradizionale del diritto come ordinamento protettivo-repressivo. Accanto
ad essa prende forma una nuova immagine: quella dell’ordinamento
giuridico come ordinamento a funzione promozionale15.
Si consideri una qualsiasi delle costituzioni degli stati post-liberali,
come l’attuale costituzione italiana. Nelle costituzioni liberali classiche la
funzione principale dello stato appare essere quella di tutelare (o garantire);
nelle costituzioni post-liberali, accanto alla funzione della tutela o della
garanzia, appare sempre più frequentemente quella di promuovere. Secondo
la nostra costituzione la Repubblica «promuove le condizioni che rendono
effettivo» il diritto al lavoro (art. 4, comma 1°); «promuove le autonomie
locali» (art. 5); «promuove lo sviluppo della cultura» (art. 9, comma 1°);
«promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad
affermare e regolare i diritti del lavoro» (art. 35, comma 3°); «promuove e
favorisce l’incremento» della cooperazione (art. 45, comma 1°). Inoltre
«agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della
famiglia» (art. 31, comma 1°); «dispone provvedimenti a favore delle zone
montane» (art. 44, comma 2°); «incoraggia e tutela il risparmio» (art. 47,
comma 1°); «favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà ecc.»
(art. 47, comma 2°). La contrapposizione tra il vecchio e il nuovo modello
costituzionale emerge dal raffronto tra l’art. 2, in cui si dice che la
«Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», e l’art. 3
dove si dice che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli ecc.», cioè
tra l’affermazione di un compito meramente protettivo che si attua per lo
più mediante la tecnica delle misure negative e l’affermazione di un
compito promozionale che si attua per lo più attraverso misure positive. I
nostri studiosi di diritto costituzionale hanno ormai da tempo richiamato
l’attenzione sulla contrapposizione tra misure autoritative e coercitive e
misure di stimolo o d’incentivazione: questa contrapposizione coglie bene
il passaggio all’uso sempre più frequente delle tecniche d’incoraggiamento,
su cui intendiamo richiamare l’attenzione in queste pagine16.

7. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento


promozionale rispetto ai fini
In una prima approssimazione la differenza tra ordinamento a funzione
protettiva-repressiva e ordinamento a funzione promozionale si può
descrivere in questo modo.
Con riferimento ad un sistema normativo gli atti umani possono
distinguersi in atti conformi e atti devianti. Ebbene, rispetto agli atti
conformi, la tecnica dello scoraggiamento mira a proteggerne l’esercizio
tutelando la possibilità di fare o non fare se si tratta di atti permessi, la
possibilità di fare se si tratta di atti obbligatori, la possibilità di non fare se si
tratta di atti proibiti. Rispetto agli atti devianti, la tecnica dello
scoraggiamento prende di mira, attribuendovi determinate conseguenze,
soltanto gli atti devianti per difetto, gli atti propriamente non-conformi, e
si limita a tollerare, non attribuendovi alcun effetto giuridico, gli atti
devianti per eccesso, cioè gli atti superconformi (le cosiddette azioni
supererogatorie).
Al contrario, la tecnica dell’incoraggiamento mira non soltanto a
tutelare ma anche a provocare l’esercizio degli atti conformi, spareggiando
nel caso di atti permessi la possibilità di fare con quella di non fare,
rendendo particolarmente allettanti gli atti obbligatori e particolarmente
ripugnanti quelli proibiti. Quanto agli atti devianti, essa prende in
considerazione, attribuendovi determinate conseguenze, gli atti devianti
per eccesso, cioè gli atti superconformi, mentre diventa sempre più
tollerante verso certi atti devianti per difetto. L’introduzione della tecnica
dell’incoraggiamento riflette un vero e proprio mutamento nella funzione
del sistema normativo nel suo complesso, nel modo di attuare il controllo
sociale; segna il passaggio da un controllo passivo, che si preoccupa più di
sfavorire le azioni nocive che di favorire le azioni vantaggiose, a un
controllo attivo, che si preoccupa di favorire le azioni vantaggiose più che
di sfavorire le azioni nocive.
Col minimo di parole si può utilmente distinguere un ordinamento
protettivo-repressivo da un ordinamento promozionale, dicendo che al
primo interessano soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati,
onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto più è possibile il
compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti
socialmente desiderati, onde il suo fine è di provocarne il compimento
anche nei confronti dei recalcitranti.

8. Segue: e rispetto ai mezzi


Per raggiungere il proprio fine un ordinamento repressivo compie
operazioni di tre tipi e gradi in quanto vi sono tre modi tipici di impedire
un’azione non voluta: renderla impossibile, renderla difficile, renderla
svantaggiosa. Simmetricamente si può dire che un ordinamento
promozionale cerca di raggiungere il proprio fine attraverso le tre
operazioni contrarie, cioè cercando di rendere necessaria, agevole, vantaggiosa
l’azione voluta.
Il primo tipo di operazione, consistente nel far sì che il destinatario
della norma sia messo in condizione o di non poterla (materialmente)
violare o di non potersi (materialmente) sottrarre alla sua esecuzione,
rientra nel novero delle misure dirette, cioè delle misure che l’ordinamento
adotta per ottenere la conformità alle norme, o impedendo
preventivamente la violazione o forzando preventivamente l’esecuzione.
Sono misure dirette le varie forme di vigilanza (che può essere passiva o
attiva) e il ricorso all’uso della forza (che può essere impeditiva o
costrittiva).
Si distinguono dalle misure dirette le operazioni del secondo e del terzo
tipo, perché mirano a ottenere lo scopo (tanto quello proprio della
funzione repressiva quanto quello proprio della funzione promozionale)
non agendo direttamente sul comportamento non voluto o voluto, ma
cercando di influenzare con mezzi psichici l’agente da cui non si vuole o si
vuole un determinato comportamento. Si possono chiamare misure
indirette. Sono indirette per il fatto che il comportamento non voluto è pur
sempre possibile, ma viene reso o più difficile o più facile, oppure, una
volta compiuto, produce certe conseguenze, spiacevoli o piacevoli secondo
i casi.
In un ordinamento repressivo la tecnica tipica attraverso cui si attuano
le misure indirette è lo scoraggiamento; in un ordinamento promozionale,
la tecnica tipica delle misure indirette è l’incoraggiamento. A questo punto
siamo in grado di definire «scoraggiamento» quella operazione con cui A
cerca di influenzare il comportamento non voluto (non importa se
commissivo o omissivo) di B, o ostacolandolo o attribuendogli
conseguenze spiacevoli; simmetricamente, «incoraggiamento»
quell’operazione con cui A cerca di influenzare il comportamento voluto
(non importa se commissivo o omissivo) di B, o facilitandolo o
attribuendogli conseguenze piacevoli.

9. Differenza tra premio e facilitazione


Mi preme richiamare l’attenzione sul fatto che questa definizione di
scoraggiamento e d’incoraggiamento, dal momento che comprende
entrambe le forme tipiche di misure indirette, tanto l’ostacolamento e la
facilitazione, quanto la punizione e la premiazione, è più ampia di quella
che viene data di solito, la quale comprende solo la terza forma, ovvero la
sanzione propriamente detta, nelle due species della sanzione negativa
(pena) e della sanzione positiva (premio). Ritengo che la considerazione
esclusiva della terza forma dipenda dal fatto che i giuristi, prendendo in
considerazione esclusivamente la tecnica dello scoraggiamento, sono
portati a vedere di questa l’espressione di gran lunga più diffusa ed efficace
negli ordinamenti giuridici tradizionali, per l’appunto la sanzione negativa.
Quando ci si ponga anche dal punto di vista della tecnica
dell’incoraggiamento, non può sfuggire che essa agisce attraverso due
espedienti diversi, cioè sia attraverso la risposta favorevole al
comportamento una volta compiuto, in che consiste appunto la sanzione
positiva, sia attraverso il favoreggiamento del comportamento quando è
ancora da compiere. Questo rilievo dato all’espediente della facilitazione
serve a rilevare, in negativo, l’espediente dell’ostacolamento che viene
passato di solito sotto silenzio: si può scoraggiare un comportamento non
voluto tanto minacciando una pena (espediente della sanzione), qualora il
comportamento venga compiuto, quanto rendendo il comportamento
stesso più penoso.
Con particolare riguardo alle tecniche d’incoraggiamento, si noti la
differenza tra le due operazioni: la sanzione propriamente detta, sotto
forma di ricompensa, viene dopo, a comportamento compiuto; la
facilitazione precede o accompagna il comportamento che si intende
incoraggiare. In altre parole, si può incoraggiare sia intervenendo sulle
conseguenze del comportamento, sia intervenendo sulle modalità, sulle
forme, sulle condizioni dello stesso comportamento. Per fare un esempio
tratto dalla vita comune: se voglio che mio figlio faccia una difficile
traduzione dal latino, posso promettergli, se la farà, di andare al
cinematografo; oppure posso permettergli di usare una traduzione
interlineare.
Da qualche tempo i giuristi hanno richiamato l’attenzione sul fatto che
uno dei caratteri più salienti del sistema giuridico di uno stato assistenziale
è l’aumento delle cosiddette leggi d’incentivazione o leggi-incentivo17.
L’elemento di novità delle leggi d’incentivazione, tale da giustificare il loro
raggruppamento in una unica categoria, è precisamente che esse, a
differenza della maggior parte delle norme di un ordinamento giuridico
dette sanzionatorie (con riferimento al fatto che prevedono o comminano
una sanzione negativa), impiegano la tecnica dell’incoraggiamento,
consistente nel promuovere i comportamenti voluti, anziché quella dello
scoraggiamento, consistente nel reprimere i comportamenti non voluti.
Nell’ambito di questa categoria generale si possono discernere i due
espedienti: l’espediente della facilitazione, ad esempio, nel caso di una
sovvenzione, di un aiuto o di un contributo finanziario, oppure di una
agevolazione creditizia; l’espediente della sanzione positiva, come nel caso
di un’assegnazione di un premio a un comportamento superconforme o di
un’esenzione fiscale. Col primo espediente si vuole rendere meno gravoso
il costo dell’operazione desiderata, ora accrescendo i mezzi necessari al
compimento dell’operazione ora diminuendone l’onere; col secondo
espediente si tende a rendere l’operazione allettante assicurando a chi la
compie il verificarsi di un vantaggio oppure il venir meno di uno
svantaggio, una volta che il comportamento sia compiuto.

10. Differenza tra ordinamento repressivo e ordinamento


promozionale rispetto alla struttura
Per approfondire la distinzione tra misure di scoraggiamento e misure
d’incoraggiamento può essere utile, infine, considerarle sia dal punto di
vista della loro rispettiva struttura sia dal punto di vista della loro rispettiva
funzione.
Il momento iniziale di una misura di scoraggiamento è una minaccia; di
una misura d’incoraggiamento una promessa. Mentre la minaccia
dell’autorità legittima fa sorgere, nel destinatario, l’obbligo di comportarsi
in un certo modo, la promessa implica da parte del promittente l’obbligo di
mantenerla. D’altra parte, mentre l’inadempimento di un comportamento
scoraggiato da una minaccia fa sorgere nel minacciante il diritto di
eseguirla, l’adempimento di un comportamento incoraggiato da una
promessa fa sorgere nell’adempiente il diritto a che la promessa sia
mantenuta. Sanzione negativa e sanzione positiva danno origine a due
diversi rapporti in cui la figura del soggetto attivo (il titolare del diritto) e
quella del soggetto passivo (il titolare del dovere) sono invertite: nel primo
caso il rapporto diritto-dovere corre dal sanzionante al sanzionato, nel
secondo lo stesso rapporto corre dal sanzionato al sanzionante. Volendo
esprimere la situazione del destinatario in entrambi i casi mediante la
formula della norma condizionata (da non confondere con la norma
tecnica che vedremo tra poco), nel primo caso la formula è: «Se fai a, devi
b», cioè hai l’obbligo di sottostare al male della pena; nel secondo caso: «Se
fai a, puoi b», cioè hai il diritto di ottenere il bene del premio.
Se si considera il compimento o non compimento di un’azione
condizionato alla credibilità del verificarsi di una misura di scoraggiamento
o di incoraggiamento, ogni norma può essere espressa nella formula di una
norma tecnica, cioè di una norma che prescrive un mezzo adeguato (la
condotta prevista dalla norma primaria) per raggiungere un dato fine, che
può essere tanto lo sfuggire allo svantaggio minacciato quanto il conseguire
il vantaggio promesso dalla norma secondaria. Orbene, la tecnica dello
scoraggiamento opera attraverso norme tecniche di questo tipo: «Se non
vuoi a, devi b»; la tecnica dell’incoraggiamento attraverso norme di
quest’altro tipo: «Se vuoi a, devi b».

11. Segue: e rispetto alla funzione


È noto quale importanza abbiano per un’analisi funzionale della società
le due categorie della conservazione e del mutamento. Considerando ora le
misure di scoraggiamento e quelle d’incoraggiamento da un punto di vista
funzionale, il punto essenziale da rilevare è che le prime sono adoperate
prevalentemente allo scopo della conservazione sociale, le seconde
prevalentemente allo scopo del mutamento. Si possono ipotizzare due
situazioni-limite: quella in cui venga attribuito valore all’inerzia, cioè al
fatto che le cose continuino a restare come sono, e quella in cui venga
attribuito valore positivo al cambiamento, cioè al fatto che la situazione
successiva sia diversa da quella precedente. Nell’ambito poi delle due
situazioni di inerzia e di cambiamento si possono ipotizzare due punti di
partenza diversi, quello in cui il comportamento sia permesso e quello in
cui il comportamento sia obbligatorio.
Nel caso in cui si tratti di un comportamento permesso, l’agente è
libero di fare o di non fare alcunché, cioè è libero di valersi della propria
libertà per conservare o per innovare. Se l’ordinamento giuridico giudica
positivamente il fatto che l’agente si valga il meno possibile della sua libertà
cercherà di scoraggiarlo dal fare ciò che gli è lecito: come si vede la tecnica
dello scoraggiamento ha una funzione conservatrice. Se al contrario lo
stesso ordinamento giuridico giudica positivamente il fatto che l’agente si
serva il più possibile della sua libertà, cercherà di incoraggiarlo a valersene
per mutare la situazione esistente: la tecnica dell’incoraggiamento ha una
funzione modificatrice o innovatrice. L’esempio più interessante che si
possa fare oggi in riferimento agli ordinamenti giuridici di stati dirigisti o
pianificatori è quello delle cosiddette leggi d’incentivazione, cui
corrispondono sul versante delle misure negative le leggi di
disincentivazione. Partendo da una situazione giuridica in cui l’attività
imprenditoriale è qualificata come attività lecita, l’incentivazione tende a
indurre certi imprenditori a mutare la situazione esistente, la
disincentivazione tende a indurre certi altri imprenditori all’inerzia.
Prendiamo ora la situazione in cui si dia un comportamento
obbligatorio. In questa situazione ciò che serve alla funzione di
conservazione è il comportamento conforme all’obbligo (si tratti di obbligo
positivo o negativo); ciò che serve alla funzione di mutamento e di
innovazione è il comportamento superconforme. Ora non c’è dubbio che
nel primo caso entra in azione la tecnica dello scoraggiamento attraverso
l’impiego delle sanzioni negative, nel secondo caso entra in funzione la
tecnica dell’incoraggiamento attraverso l’impiego delle sanzioni positive.
Anche qui il migliore esempio che si possa fare è quello tratto da
ordinamenti giuridici di stati ispirati al principio dell’interventismo
economico: il premio attribuito al produttore o al lavoratore che supera la
norma è un tipico atto di incoraggiamento di un comportamento
superconforme, e ha la funzione di promuovere una innovazione, mentre
ogni misura destinata semplicemente a scoraggiare la trasgressione di una
norma data serve a mantenere lo status quo.

Note
1 G.R. Carrió, Sul concetto di obbligo giuridico, in «Rivista di filosofia», LVII, 1966, pp. 141-55. I
passi citati sono rispettivamente a pp. 149, 154, 151.
2 Com’è noto Christianus Thomasius pose a fondamento del iustum, per distinguerlo

dall’honestum e dal decorum, la massima «Quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris» (Fundamenta iuris
naturae et gentium, VI, 42. Cfr. anche §§ 62 e 63, in cui gli esempi addotti di precetti giuridici sono
tutti di divieti).
3 Méditation sur la notion commune de la justice, § 2. (Cito dalla traduzione italiana in G.W. Leibniz,
Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 1951, pp. 225 sgg.)
4 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 38 (vedi anche § 113).
5 Principles of Sociology, § 570. È estremamente interessante osservare che la tesi della funzione
prevalentemente negativa del diritto è stata riesumata da uno dei maggiori teorici del liberalismo
classico ai nostri giorni, F.A. Hayek, Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico»,
XXXIII, 1968, pp. 693-723, ove si legge: «In realtà troviamo che le regole di diritto privato e
penale, o almeno la maggior parte di esse... sono solo divieti che delimitano il campo della libera
azione e solo in casi eccezionali... giungono a prescrivere azioni determinate» (p. 703). Più
interessante ancora la nota 17, in cui osserva che, sebbene molti si siano accorti del carattere
prevalentemente negativo del diritto, «nessuno ha mai tratto da ciò tutte le conseguenze» (ibid.).
6 Ho illustrato questi due modi di considerare la forza in relazione al diritto nell’articolo Law and
Force, in «The Monist», XLIX, 1965, pp. 321-41. Pubblicato anche in «Rivista di diritto civile»,
XII, 1966, I, pp. 537-48. Ed ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli,
Torino 1970, pp. 117-38.
7 H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it., Einaudi, Torino 1966, p. 46.
8 F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Foro Italiano, Roma 19462, pp. 24-25. Si veda anche T.
Perassi, Introduzione alle scienze giuridiche, Cedam, Padova 1953, p. 12 e soprattutto nota 1, ove si
accenna alle sanzioni positive.
9 F. Oppenheim, Dimensioni della libertà, trad. it., Feltrinelli, Milano 1964, soprattutto pp. 36-39.
Il passo citato si trova a p. 36.
10 J.P. Gibbs, Sanctions, in «Social Problems», XIV, 1968, pp. 147-59. Il passo citato si trova a p.
156. Traggo da questo articolo la nozione di comportamenti superconformi, sui quali mi soffermo
poco oltre. Nella letteratura sociologica, a differenza di quella giuridica, il termine «sanzione» viene
sempre riferito sia alle sanzioni positive sia a quelle negative. Cfr. per tutti T. Parsons, Il concetto di
potere politico, in «Il Politico», 1963, pp. 614-36.
11 Der Zweck im Recht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 18842, vol. I, p. 182. Di questa opera
importante di Jhering è uscita finalmente una traduzione italiana, curata egregiamente da M.G.
Losano: Lo scopo nel diritto, «Nuova Universale», n. 137, Einaudi, Torino 1972, ove il brano citato si
trova a p. 139.
12 F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI, 1966, pp. 601-18. Il
passo citato si trova a p. 609. Di questo articolo è apparsa una traduzione col titolo Il liberalismo di
Friedrich A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 11, pp. 28-55.
13 Sulle quali mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Ancora sulle norme primarie e secondarie,
in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53. Ora nel volume Studi per una teoria generale del diritto,
cit., pp. 175-97.
14 Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, cit., p. 609.
15 Coglie esattamente questo fenomeno G. Lumia, Controllo sociale e sanzione giuridica, in Studi in
onore di Gioacchino Scaduto, Cedam, Padova 1967, pp. 12-13 (estratto). Dopo aver parlato di una
funzione promozionale e di una funzione deterrente della sanzione osserva che «un esame
dell’attuale stato della legislazione dei paesi più progrediti legittima... la previsione che la tecnica
sanzionatoria “promozionale” sia destinata ad estendersi sempre più rispetto a quella “deterrente”»
(p. 12).
16 Cito per tutti il libro di A. Predieri, Pianificazione e costituzione, Edizioni di Comunità, Milano
1963, soprattutto pp. 204-13.
17 Cito per tutti G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in
«Atomo petrolio elettricità», 1961, n. 1, pp. 1-20.
II. Le sanzioni positive

1. Crescente importanza delle sanzioni positive


Ho osservato nel saggio precedente che l’innovazione più importante
nel sistema del controllo giuridico non è tanto l’accrescimento dei
comandi o norme positive quanto l’introduzione sempre più diffusa di
stimoli all’esecuzione o alla super-esecuzione di comandi (ma anche di
divieti), cioè di sanzioni positive, o, più in generale, l’uso sempre più largo
delle tecniche d’incoraggiamento.
Per il suo scarso rilievo pratico il tema delle sanzioni positive è sempre
stato trascurato dai giuristi. Mentre è comune tra i filosofi e sociologi
l’estensione del significato di «sanzione» sino a comprendervi i premi e le
ricompense1, è sempre stata presente tra i giuristi una corrente,
richiamantesi ad Austin, secondo cui si può parlare propriamente di
«sanzioni» solo con riferimento alle sanzioni negative2. Effettivamente il
ruolo del diritto nella società viene di solito considerato dal punto di vista
della sua funzione prevalente che è sempre stata quella, più passiva che
attiva, di proteggere determinati interessi mediante la repressione degli atti
devianti. Non c’è dubbio che per svolgere questa funzione, che è insieme
protettiva rispetto agli atti conformi e repressiva rispetto agli atti devianti,
la tecnica più idonea sia quella delle sanzioni negative. Ma dal momento
che per le esigenze dello stato assistenziale contemporaneo il diritto non si
limita più a tutelare atti conformi alle proprie norme ma tende a stimolare
atti innovativi, e pertanto la sua funzione non è più soltanto protettiva ma
anche promozionale, all’impiego quasi esclusivo di sanzioni negative, che
costituiscono la tecnica specifica della repressione, si affianca un impiego,
non importa se ancora limitato, di sanzioni positive, che danno vita a una
tecnica di stimolazione e di propulsione di atti considerati socialmente
utili, anziché alla repressione di atti considerati socialmente nocivi.
2. Varie specie di sanzioni positive e negative
La nozione di sanzione positiva si ricava e contrario da quella ben più
elaborata di sanzione negativa. Mentre il castigo è una reazione a un’azione
cattiva, il premio è una reazione a un’azione buona. Nel primo caso la
reazione consiste nel rendere male per male; nel secondo, bene per bene.
Rispetto all’agente, si è detto, se pure con una certa forzatura, che il castigo
retribuisce con un dolore un piacere (il piacere del delitto) mentre il
premio retribuisce con un piacere un dolore (lo sforzo per il servizio reso)3.
Con una certa forzatura, dico, perché non è detto che sempre il delitto
rechi piacere a chi lo compie e sempre l’opera meritoria sia compiuta con
sacrificio.
Come il male del castigo può consistere tanto nell’attribuzione di uno
svantaggio quanto nella privazione di un vantaggio, così il bene del premio
può consistere tanto nell’attribuzione di un vantaggio quanto nella
privazione di uno svantaggio. Da questo punto di vista tanto le sanzioni
negative quanto le positive possono essere o attributive o privative. Il male
del castigo può essere, secondo una classificazione tradizionale, materiale
(per esempio, la confisca del patrimonio), immateriale (per esempio, un
pubblico biasimo), o misto (per esempio, la perdita di un diritto che è
mezzo per acquistare e procurarsi vantaggi materiali e immateriali). Così
possono essere materiali, immateriali o misti i beni del premio. Oppure,
con altra distinzione, il castigo può consistere in un male economico (una
multa), o sociale (messa al bando), o morale (disonore), o giuridico (perdita
della capacità di fare testamento), o fisico (dalle percosse alla
decapitazione). Così vi sono premi che consistono in un bene economico
(un compenso in denaro, l’assegnazione di una terra al combattente
valoroso), altri in un bene sociale (il passaggio ad uno status superiore), altri
in un bene morale (onorificenze), altri in un bene giuridico (i cosiddetti
privilegi). Più difficile configurare un premio consistente in un bene fisico:
vi si possono comprendere speciali concessioni (o rimozioni di limiti) a
piaceri del palato o del sesso. Questa difficoltà dipende dal fatto che mentre
i beni economici, sociali, morali, giuridici, sono beni culturali e quindi più
facilmente modificabili, i beni fisici in quanto beni naturali non sono
dilatabili a piacere (per esempio, la salute, il vigore, la bellezza). Sono
invece facilmente limitabili: di qua la ragione per cui non offre alcuna
difficoltà l’istituzione di sanzioni negative che colpiscano un bene fisico.
Sinora si è parlato di sanzioni positive e negative in modo generico. Ma
com’è noto, le sanzioni negative si distinguono abitualmente in misure
retributive, o pene propriamente dette, e in misure riparative, come il
risarcimento del danno: le prime colpiscono l’azione non conforme in se
stessa, le seconde cercano di porre rimedio alle conseguenze dell’azione
non conforme. Questa distinzione può essere applicata anche alle sanzioni
positive. Vi sono sanzioni positive, come i premi, che hanno funzione
esclusivamente retributiva: sono una reazione favorevole a un
comportamento vantaggioso alla società. Ma vi possono essere anche
sanzioni positive che mirano a compensare l’agente degli sforzi e delle
fatiche fatte o delle spese subite per procurare alla società un vantaggio;
queste sanzioni hanno valore non di mero riconoscimento ma (anche) di
compenso. Si possono chiamare, meglio che premi, indennità.
Un’altra distinzione che si può trasportare dalle sanzioni negative alle
sanzioni positive è quella tra misure preventive e successive. Preventive
sono quelle misure che tendono a promuovere il comportamento
desiderato suscitando una speranza o a impedire il comportamento non
desiderato provocando un timore; successive quelle che seguono al
comportamento con una reazione favorevole, quando il comportamento è
quello desiderato, sfavorevole, quando il comportamento è quello
indesiderato. Colui che si vendica dell’offesa ricevuta agisce quando il fatto
cui reagisce è già compiuto: la vendetta è una misura successiva (anche se il
timore della vendetta può esercitare in alcuni casi un’azione preventiva).
Quando una giuria di un premio letterario premia il miglior romanzo,
riconosce un evento ormai avvenuto: è difficile attribuire a un premio
letterario la funzione di incoraggiare scrittori a scrivere bei romanzi.
Volendo fare esempi attinenti al diritto, quando lo stato stabilisce
un’esenzione fiscale per chi compie un’azione economica giudicata
vantaggiosa alla collettività, istituisce una misura preventiva che ha
manifestamente lo scopo di indurre a compiere un’azione desiderata;
quando assegna pensioni di guerra, istituisce una misura successiva, non
essendo verosimile che tra i motivi che inducono un cittadino ad andare in
guerra ci sia anche quello di ricevere una pensione.
3. Le sanzioni positive come sanzioni giuridiche
Ciò di cui stiamo parlando è della crescente importanza delle sanzioni
positive nel diritto. Ma proprio a causa dello scarso rilievo dei premi
rispetto alle pene nei sistemi giuridici tradizionali, assai più che il tema
delle pene, il tema dei premi è stato trattato con riguardo alle sanzioni
sociali in genere e non alle sanzioni giuridiche in ispecie. A questo punto
però non si può sfuggire alla domanda che nella teoria generale del diritto
viene di solito posta a proposito delle sanzioni negative: come si
distinguono le sanzioni giuridiche dalle sanzioni non-giuridiche? In
particolare: che cosa significa parlare di premi o ricompense come sanzioni
giuridiche? Dare una risposta a questa domanda può servire anche per
collaudare la validità delle teorie che sono state generalmente sostenute
sulla sanzione giuridica avendo presenti esclusivamente le sanzioni
negative.
Vi sono sostanzialmente due teorie prevalenti sulla sanzione giuridica:
quella che mette in particolare rilievo l’aspetto della istituzionalizzazione,
cioè il fatto che la risposta alla violazione di norme del sistema, nel caso del
sistema giuridico, è essa stessa regolata da norme del sistema, che hanno la
funzione di rendere questa risposta quanto più è possibile costante,
proporzionata al delitto, imparziale e certa; e quella che, accentuando il
momento dell’esercizio della forza da parte del potere costituito, identifica
la sanzione giuridica con la coazione, cioè con quel particolare modo di
infliggere un male che è l’esercizio della forza fisica4. Queste due teorie
non sono affatto incompatibili, anzi sono andate nelle teorie del diritto più
recenti avvicinandosi fino a integrarsi vicendevolmente. Questa
integrazione è avvenuta nella teoria, condivisa da un normativista
impenitente come Kelsen e dai realisti scandinavi come Olivecrona e Ross,
secondo cui ciò che contraddistingue un ordinamento giuridico da un
qualsiasi altro ordinamento normativo è la regolamentazione dell’esercizio
della forza, cioè la coazione istituzionalizzata.
Riferita alle sanzioni positive, la prima teoria, cioè quella della sanzione
giuridica come sanzione istituzionalizzata, si rivela insufficiente. Un
premio letterario è generalmente regolato sin nei più minuti particolari:
regole relative ai candidati, regole di procedura, regole sulla composizione
della giuria e la sua competenza, ecc. Non ha niente a che vedere con le
reazioni diffuse e informali del gruppo sociale in cui consistono appunto le
sanzioni non istituzionalizzate. Ma nessuno chiamerebbe sanzione
giuridica un premio letterario. Rispetto alla seconda teoria, a quella della
coazione, il riferimento alle sanzioni positive ha invece un salutare effetto
correttivo. Chi infatti intende, come Kelsen, che la caratteristica della
sanzione giuridica consiste nell’uso della forza fisica, onde sanzioni
giuridiche sono soltanto la pena e l’esecuzione forzata, è costretto, anche se
non se ne rende perfettamente conto, a escludere dal novero delle sanzioni
giuridiche le sanzioni positive. Non c’è dubbio che la forza fisica viene
usata o per infliggere una pena o per riparare le conseguenze di un’azione
dannosa alla società, in entrambi i casi per porre in atto una sanzione
negativa. Ma vi è un altro modo, a mio parere più corretto, di interpretare
la sanzione giuridica in termini di coazione: la sanzione giuridica non
consiste, a differenza delle sanzioni sociali, nell’uso della forza, cioè
nell’insieme dei mezzi che vengono impiegati per costringere con la forza,
cioè per «forzare» il recalcitrante, bensì in una reazione alla violazione,
qualunque essa sia, anche economica o sociale o morale, che viene
garantita in ultima istanza dall’uso della forza. Il risarcimento di un danno,
il pagamento di una multa, l’abbattimento di un muro abusivo, non hanno
niente a che vedere con l’uso della forza: sono puramente e semplicemente
adempimenti di obblighi secondari. Il collegamento di questi obblighi
secondari, in cui consiste la sanzione giuridica, con la forza sta nel fatto che
il loro adempimento è garantito dalla minaccia di mettere in moto, prima,
e dalla messa in moto, poi, di un apparato esecutivo dotato di mezzi
coattivi che sono o tendono a essere irresistibili, allo scopo di ottenere con
la forza l’adempimento dell’obbligo secondario oppure un adempimento
alternativo o sostitutivo.
Mentre la riduzione pura e semplice della sanzione giuridica a coazione
impedisce di annoverare tra le sanzioni giuridiche le sanzioni positive, la
considerazione della coazione come garanzia dell’adempimento della
sanzione permette di considerare sanzioni giuridiche anche sanzioni
positive: sono giuridiche, secondo questa interpretazione del rapporto tra
sanzione e coazione, quelle sanzioni positive che creano nel destinatario
del premio una pretesa, protetta anche mediante il ricorso alla forza
organizzata dei pubblici poteri, all’adempimento. Non diversamente da
una sanzione negativa, una sanzione positiva si risolve nel venire ad
esistenza di un obbligo secondario, là in caso di violazione, qua in caso di
superadempimento di un obbligo primario. Ciò significa che si può parlare
di sanzione positiva giuridica quando l’obbligo secondario della sua
prestazione è un obbligo giuridico, cioè è un obbligo per l’adempimento
del quale esiste da parte dell’interessato all’adempimento una pretesa
all’esecuzione mediante coazione.

4. Sanzioni positive e facilitazioni


Abbiamo parlato sinora della funzione di scoraggiamento (e
d’incoraggiamento) con esclusivo riguardo alla tecnica della sanzione
negativa (o positiva), cioè alla istituzione di una conseguenza spiacevole
attribuita ad un comportamento giudicato cattivo (o di una conseguenza
piacevole attribuita ad un comportamento giudicato buono). Per quanto
l’uso del termine «sanzione» sia molto vario e l’estensione del concetto
abbia confini molto incerti – si pensi alla discussione se la nullità sia o no
una sanzione –, si può dire che esista un certo consenso nell’intendere per
«sanzione» la risposta o la reazione che il gruppo sociale esprime in
occasione di un comportamento in qualche modo rilevante di un membro
del gruppo (rilevante in senso negativo o in senso positivo, non importa)
allo scopo di esercitare un controllo sull’insieme dei comportamenti di
gruppo e di indirizzarli verso certi obbiettivi piuttosto che verso certi altri.
Intesa in questo modo, però, la sanzione non può più essere considerata
come la sola tecnica che possa essere impiegata per adempiere alla funzione
dello scoraggiamento (o dell’incoraggiamento). Proprio lo studio della
funzione di incoraggiamento su cui abbiamo voluto richiamare
l’attenzione in queste pagine serve a mettere in risalto una tecnica diversa
che si ritrova, a ben guardare, anche se in modo meno appariscente,
nell’esercizio della funzione di scoraggiamento. Si può arrischiare l’ipotesi
che nello studio della funzione di scoraggiamento cui i giuristi hanno
dedicato quasi esclusivamente la loro attenzione, la preminenza della
tecnica della sanzione, cioè della risposta alla violazione, sia così evidente
da aver messo in ombra altri espedienti che pur mirano allo stesso scopo.
Intendo parlare della tecnica della «facilitazione» cui corrisponde, dalla
parte dello scoraggiamento, la tecnica dell’«ostacolamento». Per tecnica
della facilitazione intendo l’insieme di quegli espedienti coi quali un
gruppo sociale organizzato esercita un determinato tipo di controllo sui
comportamenti dei suoi membri (in questo caso si tratta del controllo
consistente nel promuoverne l’attività nella direzione voluta), non già
assegnando una ricompensa all’azione desiderata, dopo che essa è stata
compiuta, ma facendo in modo che il suo compimento sia reso più facile o
meno difficile. Si noti la differenza: la ricompensa viene dopo, la
facilitazione precede o accompagna l’azione che si intende incoraggiare. In
altre parole si può incoraggiare, sia intervenendo non sull’azione che si
vuole incoraggiare ma sulle sue conseguenze, sia intervenendo
direttamente sulle modalità, sulle forme, sulle condizioni della stessa
azione. Voglio che mio figlio faccia una difficile traduzione dal latino.
Posso promettergli, se la farà, di lasciarlo andare al cinematografo; oppure
posso permettergli di usare una traduzione interlineare. Alla tecnica della
facilitazione corrisponde, in negativo, come si diceva poc’anzi, la tecnica
dell’ostacolamento: si può scoraggiare un’azione non desiderata tanto
minacciando una pena qualora l’azione venga compiuta quanto rendendo
l’azione stessa più penosa.

5. Misure dirette e misure indirette


Tanto la sanzione quanto la facilitazione appartengono allo stesso genus
delle misure indirette: in quanto tali, pur distinguendosi fra loro, possono
essere trattate insieme. Nell’ambito vastissimo delle misure di controllo
sociale, delle quali sarebbe fuori luogo tentare qui una tipologia, alcune
sono dirette altre indirette5. Sono misure dirette quelle che cercano di
ottenere il comportamento desiderato o di impedire il comportamento
indesiderato agendo sul comportamento medesimo, come è il caso della
forza fisica impiegata da una squadra di polizia per impedire che la folla
rompa i cordoni. Rientrano in questo tipo di misure le cosiddette misure
di controllo (in senso stretto) o di vigilanza, le quali vengono impiegate
allo scopo di impedire che il comportamento non desiderato venga
compiuto (le misure dirette sono prevalentemente negative). Se io
raccomando o comando a mio figlio di andare a scuola esercito una
pressione indiretta; ma se lo accompagno per evitare che scantoni al primo
angolo della strada, il controllo è diretto. In ogni ordinamento giuridico
l’osservanza delle norme del sistema non è sempre soltanto affidata al
rispetto per l’autorità che le ha emanate o al timore per le conseguenze
sgradevoli dell’inosservanza o alle misure introdotte per ostacolare il
comportamento non desiderato, ma anche all’istituzione di corpi
specializzati di vigilanza, come guardie daziarie, doganieri, guardie forestali
e campestri, guardiacaccia, guardie del traffico, ecc., le quali hanno, sì, il
compito di infliggere pene di vario genere per le infrazioni (misura
indiretta) ma sono incaricate prima di tutto di impedire che le infrazioni
avvengano (misura diretta). Le misure dirette mirano a rendere un
determinato comportamento impossibile, se si tratta di misure negative, o
necessitato, se si tratta di misure positive. Nei confronti delle misure
indirette, invece, il comportamento non desiderato o desiderato è sempre
possibile, ma viene reso o più difficile o più facile, oppure viene, una volta
compiuto, seguito da altri comportamenti che tendono alla retribuzione o
alla riparazione.
Sia ben chiaro che le varie misure di controllo sociale costituiscono un
continuum e che pertanto non si possono stabilire tagli netti tra un tipo e
l’altro: una misura di vigilanza può essere stata istituita per impedire una
certa condotta ma di fatto serve per lo più a renderla più difficile. Anche se
ognuno di noi conosce astrattamente la differenza tra ostacolare e impedire
o precludere è estremamente difficile dire dove finisce l’ostacolo e
comincia il vero e proprio impedimento. Un guardiacaccia impedisce la
caccia di frodo o la rende semplicemente difficile? Solo per comodità si
possono distinguere questi tre gradi: misure di costrizione o di preclusione,
che mirano a far nascere il comportamento desiderato, o a impedire il
comportamento non desiderato; misure di facilitazione o di ostacolamento,
che cercano di favorire l’attuazione di una condotta desiderata o di
sfavorire l’attuazione di una condotta indesiderata; misure di retribuzione o
di riparazione, che intervengono quando il comportamento è già stato
compiuto e mirano ad attribuire conseguenze gradevoli al comportamento
desiderato, sgradevoli al comportamento indesiderato, oppure a riparare
l’ordine turbato dall’uno o dall’altro. Solo queste ultime sono le sanzioni
propriamente dette. Per quanto si tenda a confondere misure di controllo
sociale con sanzioni, ad un esame più analitico la categoria delle misure di
controllo sociale appare molto più ampia. Se per «sanzione» s’intende,
come si fa di solito, la risposta del gruppo ad un comportamento rilevante
alla vita del gruppo medesimo, sfuggono al suo concetto non soltanto le
misure di controllo diretto ma anche quelle misure di controllo indiretto
che abbiamo chiamato di facilitazione o di ostacolamento.
Poiché qui si è voluto richiamare l’attenzione su queste ultime, si può
dire, per chiudere questa breve analisi tipologica, che queste occupano un
campo intermedio tra le misure dirette e le sanzioni propriamente dette, e
hanno in comune con le prime l’azione sullo stesso comportamento
desiderato o indesiderato, con le seconde la natura di misure indirette, in
quanto cercano di conseguire lo scopo con una pressione che è pur sempre
soltanto psicologica e non fisica, del genere «influenza» e non del genere
«coazione».

Note
1 Siano almeno ricordate due opere celebri: Théorie des peines et des récompenses di Jeremy
Bentham, in Oeuvres, t. II, Bruxelles 1829, pp. 1-238; Del merito e delle ricompense di Melchiorre
Gioia, Milano 1818-1819, 2 voll. (nuova edizione corretta, Lugano 1848, 2 voll.)
2 Nella precedente edizione di questo scritto mi era completamente sfuggito l’articolo di A. De
Mattia, Merito e ricompensa, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XVII, 1937, pp. 608-
24, che è stato segnalato nella dissertazione di laurea, tuttora inedita, di Paola Mora, Sanzioni positive,
discussa presso l’Università statale di Milano, nell’anno accademico 1972-73, relatore il prof.
Renato Treves. Non ho potuto invece tener conto del libro di Serenella Armellini, Saggi sulla
premialità del diritto nell’età moderna, Bulzoni, Roma 1976, apparso quando questo libro era già in
bozze. Si tratta di una ricerca storica, unica sinora, se non m’inganno, nel suo genere, sulla teoria
delle ricompense in Hobbes, Spinoza, Cumberland e negli illuministi italiani.
3 Trovo questa definizione nella già citata opera del Gioia, vol. II, edizione di Lugano, p. 216:
«La ricompensa è un vantaggio concesso in vista di servigi qualunque, e calcolata in ragione di essi.
La ricompensa è un piacere tendente a distruggere il disgusto del servizio, come la pena è un dolore
tendente a distruggere il piacere del delitto».
4 La prima teoria proviene generalmente dai sociologi e dai giuristi-sociologi: su di essa H.
Kantorowicz, La definizione del diritto, Giappichelli, Torino 1962, pp. 124 sgg. La seconda
rappresenta uno dei cavalli di battaglia della teoria generale del diritto d’orientamento positivistico,
da Jhering a Kelsen. Ma non si dimentichi che è bene rappresentata anche da uno dei principali
filoni del giusnaturalismo, che va da Thomasius a Kant.
5 Ho tentato di presentare con maggiori dettagli una tipologia delle misure con cui un
ordinamento normativo tende a provocare i comportamenti desiderati e ad impedire i
comportamenti indesiderati nella voce «Sanzione», in Novissimo Digesto Italiano.
III. Diritto e scienze sociali

1. Il posto del diritto nelle società industriali avanzate


Mai come oggi la scienza giuridica ha sentito il bisogno di stabilire
nuovi e più stretti contatti con le scienze sociali. Non è la prima volta che
ciò accade; ma quando ciò accade è segno che la società attraversa un
periodo di profonda trasformazione. Mi riferisco, per esempio, al
movimento del diritto libero e alla scoperta della sociologia giuridica in
Germania alla fine del secolo scorso. Ciò che caratterizza il momento
attuale dello studio sul diritto è il fatto che i giuristi stanno uscendo dal
loro splendido isolamento: basta leggere gli scritti più significativi degli
studiosi della giovane generazione, soprattutto di coloro che coltivano
discipline meno tradizionali, come il diritto del lavoro, il diritto
commerciale o industriale, per accorgersene.
Questa necessità di aprire i propri orizzonti va di pari passo con la
oscura consapevolezza che il diritto non occupa più quel posto privilegiato
nel sistema globale della società che gli era stato per lunga tradizione
assegnato. I primi a scalzare il primato del diritto – quel primato di cui
godeva ancora presso i grandi riformatori illuministi, e che aveva ispirato a
Kant l’idea di uno stato secondo il diritto e di una società giuridica
universale come meta ideale della storia umana – furono, com’è ben noto,
coloro cui si fa risalire la nascita della sociologia moderna: non è il caso di
ricordare ancora una volta la sferzante polemica di Saint-Simon contro i
legisti e la sua predizione dell’avvento di una società governata da scienziati
e industriali contro quella arcaica che stava morendo governata da legisti e
metafisici: né occorre ancora ripetere che proprio a Comte occorre rifarsi
per trovare una condanna del «feticismo della legge» che è diventato
d’allora il grido di battaglia dei giuristi sociologizzanti, e l’affermazione che
«nello stato positivo scompare irrevocabilmente l’idea del diritto»1. Non
diversamente è accaduto nell’altro grande filone della «scienza della società»
che è il pensiero marxista: Hegel, maestro di Marx, aveva ancora scritto, in
uno dei primi paragrafi della Filosofia del diritto, che «il diritto è qualcosa di
sacro in generale» (§ 30), mentre Marx lo riduce a momento meramente
sovrastrutturale della società, o per riprendere una celebre frase del
Manifesto: «... il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata
a legge»2. Per dire tutto questo in una formula sintetica, ancorché un po’
semplicistica, mentre gli scrittori illuministici mettevano il diritto al centro
dello studio delle diverse civiltà e andavano a cercare la natura e le linee di
sviluppo di un popolo nello «spirito delle leggi», e credevano che per
mutare la società bastasse mutare il diritto, a poco a poco nell’Ottocento,
via via che si veniva prendendo coscienza del grande mutamento storico
prodotto dall’avvento della società industriale nella «società civile» prima
ancora che nella società politica, il diritto fu sempre più considerato come
un epifenomeno, come un momento secondario dello sviluppo storico, e
guardato con sempre maggiore diffidenza come strumento di mutamento
sociale.
Oggi, a ben guardare, la crisi del primato del diritto è ancora più ampia:
non si tratta soltanto di mettere in dubbio la sua capacità d’influire sul
mutamento sociale, ma anche di metterne in rilievo i limiti in quella che è
la sua funzione specifica, cioè come strumento di controllo sociale (nel senso
più stretto della parola).
Nelle società industriali avanzate si possono intravedere due tendenze
che vanno nel senso di una riduzione della funzione specifica del diritto
come strumento di controllo sociale:
a) ciò che caratterizza il diritto come strumento di controllo sociale è
per un verso l’uso di mezzi coercitivi (la cosiddetta «coazione» come
elemento distintivo dell’ordinamento giuridico rispetto ad altri
ordinamenti normativi) e per l’altro verso l’uso dei mezzi coercitivi in
funzione repressiva (intendendo per «repressione» l’opposto di
«prevenzione»). Orbene, aumentando la dimensione e l’uso dei mezzi di
comunicazione di massa (di cui peraltro non intendo esagerare
catastroficamente l’importanza), aumenta nella società contemporanea un
controllo sociale di tipo diverso da quello tradizionalmente rappresentato
dal diritto, un controllo non di tipo coattivo ma persuasivo, la cui efficacia
è affidata non in ultima istanza, come accade in ogni ordinamento
giuridico, alla forza fisica, ma al condizionamento psicologico. Al limite si
può ipotizzare un tipo di società in cui il condizionamento psicologico
degli individui sia tanto esteso ed efficace da rendere superflua quella forma
considerata generalmente più intensa di controllo che è appunto il
controllo mediante l’uso di mezzi coattivi, cioè il diritto. Una società senza
diritto non è soltanto la società libera ipotizzata da Marx, ma anche quella
conformista ipotizzata da Orwell: il diritto è necessario dove gli uomini
sono, come accade nelle società storiche, né tutti liberi né tutti
conformisti, in una società cioè dove gli uomini hanno bisogno di norme
(e quindi non sono liberi) e non riescono sempre ad osservarle (e quindi
non sono conformisti);
b) oltre al formarsi e al prevalere di un controllo sociale di tipo diverso,
è in corso di formazione (se pure non ancora prevalente), in una società
tecnologicamente avanzata, un altro fenomeno di vaste proporzioni
destinato, a mio parere, a ridurre lo spazio del controllo giuridico, nella
forma almeno in cui è stato esercitato generalmente sino ad ora: mi
riferisco al fenomeno che chiamo, in mancanza di altre espressioni, del
controllo anticipato, ovvero dello spostamento della reazione sociale dal
momento successivo al momento precedente al comportamento o
all’evento non desiderato, dall’intervento che ha la figura del rimedio
all’intervento che viene assumendo la figura della premunizione, in una
parola dalla repressione alla prevenzione. Non già che il diritto non abbia,
pur nella sua prevalente funzione repressiva, anche una funzione
preventiva, come ben sanno i giuristi, a causa del valore intimidatorio e
non soltanto punitivo della sanzione. Ma quando qui parlo di un probabile
spostamento della politica sociale delle società tecnologicamente avanzate
dalla repressione alla prevenzione, mi riferisco a un fenomeno ben
altrimenti più complesso e più rilevante, cioè alla tendenza a utilizzare le
conoscenze sempre più adeguate che le scienze sociali sono in grado di
fornirci sulle motivazioni del comportamento deviante e sulle condizioni
che lo rendono possibile, allo scopo non già di correre ai ripari quando esso
è stato compiuto ma di impedire che avvenga. La scienza oggi può venire
incontro come non mai prima d’ora alla saggezza popolare, la quale insegna
che bisogna chiudere la stalla prima che i buoi siano scappati. Si pensi alla
discussione in corso sulle enormi possibilità e sugli immensi vantaggi,
anche economici, di una medicina preventiva: perché curare la malattia
quando nella stragrande maggioranza dei casi si può evitare che si produca?
Così, nel campo di quella malattia sociale che è il comportamento
deviante: perché predisporre un gigantesco apparato per individuare prima,
per giudicare poi e infine per punire un comportamento deviante, quando
si possono modificare le condizioni sociali in modo tale da influire sulle
stesse cause che determinano il comportamento deviante? Anche in questo
caso, se pur in un senso diverso dal caso precedente della società
conformista, una società in cui al limite ogni forma di deviazione sia stata
sconfitta prima che possa esplicarsi è una società senza diritto, o almeno
senza quell’apparato giudicante e repressivo in cui facciamo consistere per
lunga tradizione l’essenza stessa del diritto.

2. Due concezioni opposte della funzione del giurista secondo


il diverso tipo di sistema giuridico (chiuso o aperto), la
diversa condizione della società (stabile o in movimento), la
diversa concezione del diritto (come sistema autonomo o
dipendente)
Queste considerazioni generali e, non esito a riconoscerlo, ancora
approssimative sulle trasformazioni non tanto di un determinato diritto
positivo (il che non sarebbe argomento molto peregrino) quanto del posto
e della funzione del diritto nella società costituiscono già di per se stesse
una introduzione al tema di discussione, e ci consentono qualche primo
elemento di giudizio sulle ragioni che rendono indifferibile un maggior
contatto tra giuristi e scienziati sociali. È chiaro che il problema del posto e
della funzione del diritto nella società non può essere affrontato se non dal
giurista che esca dal proprio guscio.
Ma altre ragioni, e ancora più impellenti, per questo incontro, si
possono cogliere all’interno stesso dell’opera del giurista. Parto da una
premessa che non sempre viene tenuta presente: non esiste una sola scienza
giuridica (ci si permetta di chiamare per brevità «scienza giuridica», anche
se l’espressione è equivoca, l’attività del giurista), ma esistono tante
«scienze giuridiche» quante sono le immagini che il giurista ha di se stesso e
della propria funzione nella società. In ciò il giurista non differisce dagli
altri scienziati sociali: anche della sociologia si può dire che muta secondo
l’immagine che il sociologo ha della sua funzione nella società, come tutti i
sociologi sanno. Non ho bisogno di ricordare che la cosiddetta crisi della
sociologia di cui oggi tanto si parla dipende dal diverso ruolo che il
sociologo ha, o pretende di avere, nella società di cui è insieme spettatore e
attore.
Per quel che riguarda la scienza giuridica mi pare si possano distinguere
due immagini tipico-ideali della funzione del giurista che influiscono sul
diverso modo di concepire la scienza giuridica stessa: il giurista come
conservatore e trasmettitore di un corpo di regole già date, di cui è il
depositario e il custode; il giurista come creatore esso stesso di regole che
trasformano, integrandolo e innovandolo, il sistema dato, di cui è non più
soltanto ricevitore ma anche collaboratore attivo e, quando occorra,
critico. L’attività principale attraverso cui viene adempiuta la prima
funzione è l’interpretazione del diritto; l’attività principale attraverso cui si
esplica la seconda è la ricerca del diritto.
Queste due immagini della funzione del giurista nella società possono
dipendere: a) dal diverso tipo di sistema giuridico entro cui il giurista si
trova a operare (variabile istituzionale); b) dalla diversa situazione sociale
nella quale il giurista svolge la propria opera (variabile sociale); c) dalla
diversa concezione del diritto e del rapporto diritto-società che entra a
formare l’ideologia del giurista in un dato momento storico (variabile
culturale).
Sub a viene in considerazione la distinzione tra sistema chiuso e sistema
aperto: sistema chiuso è quello in cui il diritto è stato solidificato in un
corpo sistematico di regole che pretendono alla completezza almeno
potenziale, le fonti formali del diritto sono rigidamente predeterminate, e
fra esse non è compresa l’opera del giurista (la jurisprudentia nel senso
classico della parola si risolve in un commentario alle regole del sistema);
sistema aperto è quello in cui la maggior parte delle regole sono o vengono
considerate allo stato fluido, e in continua trasformazione, non viene posta
una netta linea di demarcazione tra fonti materiali e fonti formali, e al
giurista viene attribuito il compito di collaborare insieme con il legislatore
e col giudice all’opera di creazione del nuovo diritto.
Sub b con «diversa situazione sociale» s’intende riferirsi alla distinzione
tra una società stabile e una società in trasformazione, tra società che tende
a perpetuare i propri modelli culturali e società in cui erompono fattori di
cambiamento che rendono rapidamente inadeguati i modelli culturali
tradizionali, tra i quali l’insieme delle regole giuridiche tramandate.
Sub c si richiama l’attenzione sulla distinzione tra il concepire il diritto
come sistema autonomo o autosufficiente rispetto al sistema sociale, onde
l’opera del giurista si svolge tutta quanta all’interno di esso, e il concepirlo
come sottosistema di un sistema globale, oppure (secondo la versione
marxista del rapporto diritto-società) come sovrastruttura di una struttura
sociale, onde spetta al giurista il compito di adattare il diritto vigente alla
realtà sociale circo-stante o sotto-stante.
A queste tre coppie di variabili, che possono essere considerate
rispettivamente indipendenti o tra loro variamente dipendenti secondo vari
punti di vista, corrispondono tre modelli antitetici di scienza del diritto:
vincolata-libera, conservatrice-innovatrice, formalistica-realistica. Nel caso
estremo – puramente ipotetico – di un diritto in un sistema chiuso, in una
società stabile, con una ideologia dell’autonomia del diritto rispetto alla
società, la giurisprudenza dovrebbe essere vincolata, conservatrice e
formalistica. Nel caso estremo opposto di un diritto in un sistema aperto,
in una società in trasformazione, con una ideologia del diritto come riflesso
della società, dovrebbe svilupparsi il modello opposto di una scienza del
diritto libera, innovatrice e realistica.
L’opposizione tra queste due diverse concezioni della funzione del
giurista si ripercuote sul diverso modo di identificare e di delimitare
l’oggetto della scienza giuridica.
Secondo la prima concezione, oggetto della scienza giuridica è
l’insieme delle regole poste e tramandate che in un determinato momento
storico sono applicabili dal giudice, intese, queste regole, come
proposizioni di cui occorre stabilire con la massima precisione il
significato. Come si vede, il compito del giurista in questa situazione non è
quello di porre in esistenza regole nuove ma d’indicare quali sono le regole
esistenti e di interpretarle. In questa situazione si capisce come assuma
rilievo particolare e preliminare la determinazione da parte del giurista
delle fonti del diritto, cioè dei criteri in base ai quali si possono distinguere
le regole appartenenti al sistema (o valide), e quindi applicabili dal giudice,
e quelle che non vi appartengono. Attraverso la determinazione delle fonti
del diritto, il giurista stabilisce anche l’ambito della propria ricerca, cioè
delimita il proprio oggetto. Una volta delimitato l’oggetto, la ricerca
consiste in una serie di operazioni intellettuali che vengono chiamate con il
nome classico d’interpretazione: con questo termine anche nel suo senso
più ampio s’intende pur sempre denotare un’attività meramente
riconoscitiva delle regole date e non anche creativa o critica. Rientrano
nell’attività riconoscitiva del sistema dato le quattro attività seguenti: a)
determinazione del significato delle regole (interpretazione in senso
stretto); b) conciliazione delle regole apparentemente incompatibili; c)
integrazione delle lacune (s’intende delle lacune tecniche e non di quelle
ideologiche); d) elaborazione sistematica del contenuto delle regole, così
interpretate, conciliate, integrate.
Poiché in base alla seconda concezione della funzione del giurista il
diritto non è un sistema di regole già poste e tramandate ma un insieme di
regole in movimento, da porre e da riproporre continuamente, oggetto della
scienza giuridica debbono essere non tanto le regole, cioè le valutazioni dei
fatti sociali in cui consistono le regole, ma gli stessi fatti sociali di cui le
regole giuridiche sono valutazioni. «Oggetto dell’indagine e
dell’esposizione del giurista – scriveva Rumpf nel 1922 – non sono le
norme, ma la vita sociale in quanto soggetta alle norme». Per «fatti sociali»
s’intende, nel senso più generale, sia i fatti di relazione interindividuale o
rapporti sociali (in ispecie economici), che costituiscono la materia delle
regole giuridiche, sia gli interessi di individui o gruppi contrapposti di cui
la regola giuridica ha il compito di dare una valutazione al fine di risolvere i
possibili conflitti, sia i fatti culturali, come i valori sociali dominanti o dei
gruppi dominanti, le opinioni morali diffuse (morale positiva o sociale), i
principi di giustizia, più in generale le ideologie politiche di cui le regole
giuridiche, in quanto contengono una determinata valutazione degli
interessi in gioco, sono l’espressione. In questa prospettiva l’attività
principale del giurista non è più l’interpretazione di un diritto già fatto ma
la ricerca di un diritto da fare, in fieri, non tanto la convalida in base ad
un’analisi delle fonti formali del diritto che è, quanto la legittimazione, in
base a principi materiali di giustizia, del diritto che deve essere. Di questa
ricerca le operazioni successive sono: a) l’analisi della situazione, di cui si
vuole trovare la regola o le regole confacenti, mediante le tecniche di
ricerca elaborate e praticate dalle scienze sociali; b) l’analisi e il confronto
dei diversi criteri di valutazione in base ai quali la situazione può essere
regolata (beninteso, tra questi criteri di valutazione vi sono anche le regole
poste o tramandate); c) la scelta della valutazione e la formulazione della
regola.

3. Il diritto come sistema aperto, in una società in


trasformazione, e come sistema autonomo
Delle due immagini della funzione del giurista sopra delineate, quella
prevalente, almeno nel mondo dei paesi a struttura economico-capitalistica
e a prevalente regime liberale-democratico, è la seconda. Riferendoci alle
tre coppie di variabili sopra indicate, si possono fare le seguenti
osservazioni.
Sistema chiuso o aperto? Non c’è dubbio che uno degli aspetti più
interessanti della discussione intorno al diritto in questi anni è la messa in
questione delle fonti tradizionali delle norme giuridiche, anche nei paesi
continentali. Questa messa in questione va di pari passo con il rilievo
sempre maggiore dato alle cosiddette fonti extralegislative (o addirittura
extrastatuali). Che la fonte principale di diritto fosse nello stato moderno la
legge, cioè la norma tendenzialmente generale e astratta posta da un organo
a ciò specificamente e in modo esclusivo delegato dalla costituzione, è stato
uno dei dogmi del positivismo giuridico in senso stretto: uno degli aspetti
attraverso cui si manifesta la crisi del positivismo giuridico è la crescente
consapevolezza dell’emergere di altre fonti del diritto che minano il
monopolio della produzione giuridica detenuto dalla legge in una società
in rapida trasformazione e intensamente conflittuale, com’è la società
capitalistica nell’attuale fase di sviluppo. Le regioni in cui il fenomeno della
produzione giuridica extralegislativa si manifesta con maggiore evidenza
sono appunto quelle che caratterizzano la società industriale, cioè il diritto
dell’impresa e il diritto del lavoro e sindacale. Del resto, nulla di nuovo
sotto il sole: mezzo secolo fa, si sarebbe parlato della rivolta dei fatti contro
le leggi, dell’emergere di un «diritto sociale» contro il diritto dello stato.
Non ho bisogno di ricordare che, in sede non solo di politica del diritto
ma anche di riflessione sul diritto stabilito, c’è stato in questi anni un
risveglio d’interesse per l’attività creatrice del giudice attraverso la
distinzione tra quello che il giudice dice o crede di fare e quello che fa
effettivamente, con l’affermazione dell’esigenza di un maggiore impegno
del giudice nell’opera di adattamento del diritto al mutamento sociale. Ma
quel che è più, è stata richiamata l’attenzione sulla funzione non soltanto
ricostruttiva ma anche normativa dell’opera dei giuristi, che secondo
l’immagine tramandata dalla scuola del positivismo giuridico non
avrebbero mai dovuto alzare gli occhi al di sopra dell’orizzonte del jus
conditum: ora in certe materie, dove si è verificata una prolungata vacanza
del legislatore, come nel diritto sindacale, i giuristi non solo hanno osato
guardare in faccia il jus condendum, ma sono stati essi stessi i conditores del
nuovo jus. Ancora: nella gerarchia delle fonti del diritto il contratto
occupa, nell’ordinamento statale, l’infimo posto, come quello che
disciplina l’azione di un numero estremamente ristretto di soggetti
nell’ambito di interessi particolaristici. Le cose cambiano quando la stessa
forma di produzione normativa attraverso accordo avviene non più tra
individui ma tra grandi e potenti associazioni, come sono i sindacati, e
l’ambito della materia regolata comprende interessi fondamentali e vitali
come quello dei modi, tempi, condizioni del lavoro. In una società
industriale di tipo conflittualistico, il contratto collettivo diventa per
un’enorme massa di persone una fonte di regole d’importanza assai più
vitale che non la maggior parte delle leggi e leggine emanate dagli organi
legislativi. Infine, non si dimentichi la consuetudine, anche se ciò cui si
guarda oggi con sempre maggiore attenzione non è tanto la consuetudine
di cui si parla nei manuali, quanto ogni forma di produzione spontanea,
cioè non autoritativamente posta, di regole che l’uso e il consenso per lo
più tacito degli utenti rendono efficaci assai più che non tante leggi formali
o nate morte o morte di consunzione o di senescenza o cadute in un
letargo che prelude alla morte. Il giurista diventa sempre più sensibile al
fenomeno della «prassi», ovunque essa si manifesti, sia nel mondo
aziendale, sia in quello sindacale, o giudiziario, o amministrativo, vale a
dire a tutti quei comportamenti effettivi e reiterati in margine o in aggiunta
o in contrasto con norme formali, che costituiscono il tessuto connettivo
di un’istituzione e permettono a coloro che ne partecipano o ne fruiscono
di prevederne la crescita e quindi di agire avvedutamente.
Anche sulla seconda alternativa – società stabile o società in
trasformazione – la risposta non può essere dubbia: più difficile, se mai,
cogliere le linee di tendenza delle trasformazioni del diritto, cioè quali
siano le ripercussioni del mutamento sociale sul mutamento giuridico. Tra
queste linee di tendenza mi limito a indicarne tre che mi paiono
particolarmente rilevanti e sulle quali la discussione è già stata aperta in
questi ultimi tempi. La prima è quella su cui ha richiamato ripetutamente
l’attenzione l’economista F.A. Hayek, là dove per caratterizzare il passaggio
dallo stato liberale classico allo stato assistenziale ha fatto ricorso alla
distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione, affermando
che questo passaggio è consistito, dal punto di vista strutturale, in un
progressivo aumento delle norme di organizzazione rispetto alle norme di
condotta3. Questa tesi può sembrare nient’altro che una diversa
formulazione della tesi ben nota e non più nuova della progressiva
pubblicizzazione del diritto; ma anche se lo stesso Hayek tende a
confondere l’una con l’altra, mi pare siano diverse e la prima sia più
corretta. Il fenomeno della pubblicizzazione del diritto si riferisce alla
continua crescita delle funzioni dello stato rispetto allo stato agnostico o
neutrale del secolo scorso; il fenomeno dell’aumento delle norme di
organizzazione si riferisce alla formazione delle grandi organizzazioni
nell’ambito tanto dello stato quanto della società civile, cioè alle grandi
concentrazioni di potere nella società moderna, di cui lo stato, nel senso
specifico e ristretto della parola, non è che una manifestazione. La
differenza tra norme di condotta e norme di organizzazione sta ad indicare
non tanto una differenza tra due tipi di stato quanto una differenza tra due
diverse funzioni del diritto: quella di rendere possibile la convivenza di
individui (o gruppi) perseguenti ciascuno fini singoli, e quella di rendere
possibile la cooperazione di individui (o gruppi) perseguenti un fine comune.
Per rappresentare, dal punto di vista del mutamento giuridico, il
passaggio dallo stato liberale classico allo stato assistenziale, sembra più utile
l’individuazione della seconda linea di tendenza (e, come vedremo tra
poco, anche la terza). Si tratta questa volta del passaggio da un controllo
sociale fondato prevalentemente su norme provviste di sanzione («Se fai, o
non fai, x, ti sarà imputata la conseguenza y»), al controllo sociale affidato
vie più a norme tecniche la cui forza deriva dal collegamento mezzo-fine,
cioè dal fatto che il compiere o non compiere certe azioni non permette di
raggiungere il fine voluto o imposto. Di queste norme tecniche si possono
dare due specie, secondoché la norma preveda un determinato mezzo
necessario per raggiungere un fine (o norme strumentali) oppure indichi il
fine da raggiungere col mezzo più opportuno (o norme finali, o, più
semplicemente, direttive). L’entrata in campo sempre più massiccia di
norme meramente tecniche è strettamente legata alla programmazione e
alla pianificazione economica, ed è per questo che l’individuazione di
questa linea di tendenza serve meglio della precedente a cogliere l’aspetto
saliente dello stato contemporaneo. Questa differenza inoltre è tanto
importante rispetto alla stessa funzione del diritto che il giorno in cui si
estendesse il campo riservato alle norme tecniche e diventasse sempre più
marginale quello delle norme penali (in senso largo), non si dovrebbe più
parlare del diritto come di uno strumento di controllo sociale, ma sarebbe
più appropriato parlare di «direzione sociale». Già, infatti, nei paesi
socialisti, dove la pianificazione economica e sociale è determinante del
tipo di sistema politico e di ordinamento giuridico ivi attuato, si sta
aprendo la strada la tendenza a comprendere la scienza giuridica in un
ambito più vasto che è quello della «scienza della direzione sociale»4.
La terza linea di tendenza è quella relativa al passaggio dalla funzione
tradizionalmente repressiva del diritto alla funzione promozionale: è chiaro
che lo stato assume una diversa configurazione secondoché si ponga scopi
che possono essere raggiunti semplicemente scoraggiando i comportamenti
non voluti (in cui consiste appunto la repressione) oppure anche
incoraggiando i comportamenti voluti (in cui consiste la promozione).
Non c’è dubbio che gli scopi dello stato assistenziale sono tali che per il
loro raggiungimento occorre una continua opera di stimolazione di
comportamenti considerati economicamente vantaggiosi. La differenza tra
repressione e promozione passa attraverso l’uso di due diverse tecniche
sanzionatorie, ovvero attraverso la tecnica della sanzione negativa, nel
primo caso («Se fai, o non fai, x, ti accadrà qualche cosa di spiacevole»),
quella della sanzione positiva, nel secondo («Se fai, o non fai, x, ti accadrà
qualche cosa di piacevole»). L’uso ognor più frequente delle cosiddette
leggi d’incentivazione sta a mostrare meglio che ogni altra osservazione
l’attualità di questa tendenza. Ho già avuto occasione altrove di far notare5
che nella nostra costituzione vi sono almeno una dozzina di articoli in cui
s’impiega il termine «promuovere» o simili, a differenza delle costituzioni
più antiche in cui il termine-chiave era «garantire» (e per garantire bisogna
reprimere).
Per dare una risposta alla terza alternativa – il diritto come sistema
autonomo o come sottosistema del sistema globale della società – basterà
osservare quanto sia in crisi oggi un’altra delle tesi fondamentali della teoria
del positivismo, secondo cui il diritto positivo, il diritto cioè con cui deve
unicamente fare i conti il giurista, è un sistema unitario, coerente e
completo di norme dalle quali è possibile (e anche doveroso) trarre la
soluzione di ogni controversia (tesi della cosiddetta autosufficienza del
sistema normativo), e al contrario quanto si diffondano, anche nei paesi di
diritto codificato, teorie realistiche che rivolgono la loro attenzione più
all’effettività che non alla validità formale delle norme giuridiche, e
pongono l’accento, più che sull’autosufficienza del sistema giuridico, sulle
interrelazioni tra sistema giuridico e sistema economico, tra sistema
giuridico e sistema politico, tra sistema giuridico e sistema sociale nel suo
complesso. Ciò che contraddistingue la situazione presente sono per
l’appunto quelle condizioni che abbiamo considerate come
particolarmente favorevoli al formarsi di una scienza del diritto anti-
tradizionalistica, che cerca il proprio oggetto in ultima istanza non tanto
nelle regole del sistema dato quanto nell’analisi dei rapporti e dei valori
sociali da cui si estraggono le regole del sistema; e che, lungi dal ritenersi,
come per molto tempo si è ritenuta, una scienza autonoma e pura, cerca
sempre più l’alleanza con le scienze sociali sino a considerarsi come una
branca della scienza generale della società.

4. La funzione del giurista comparata a quella del sociologo


Da tutto questo discorso emerge chiaramente perché, come si diceva
all’inizio, i rapporti tra scienza giuridica e scienze sociali siano diventati in
questi ultimi anni sempre più stretti. Per riprendere la metafora dello
«splendido isolamento» la scienza giuridica non è più un’isola ma una
regione tra le altre di un vasto continente. Che il giurista debba stabilire
nuovi e più profondi contatti con psicologi, sociologi, antropologi,
politologi, è diventata, specie tra i giuristi della giovane generazione, una
communis opinio così diffusa che a voler dare indicazioni bibliografiche
precise non si saprebbe da che parte cominciare. Come punto di
riferimento possiamo prendere la discussione avvenuta due anni or sono ad
Ancona sul tema della formazione extralegislativa del diritto: nel discorso
di apertura Giorgio Ghezzi adduceva a giustificazione del fatto che si
fossero prese le mosse dal diritto del lavoro la considerazione che tale
diritto è «uno dei più favorevoli punti di osservazione per rendersi conto
dei risultati cui può condurre una ricerca non aprioristicamente ostile
anche all’esame dell’aspetto empirico del fenomeno giuridico ed alla
dimensione d’una possibile collaborazione interdisciplinare»; Giuseppe
Pera parlava di «feconda apertura alla ricerca sociologica»6. Ci troviamo
nella situazione in cui ognuna delle branche tradizionali del diritto è
venuta scoprendo al proprio fianco una qualche disciplina del
comportamento umano che la segue come la propria ombra: il diritto
costituzionale, la scienza politica (o la sociologia politica); il diritto
amministrativo, la scienza dell’amministrazione e ancor più in generale la
sociologia dell’organizzazione; il diritto penale, la sociologia del
comportamento deviante, l’antropologia criminale, ecc.; il diritto
dell’impresa e il diritto del lavoro, oltre che le varie discipline economiche,
la sociologia industriale e del lavoro; il diritto internazionale, quell’insieme
di studi ormai etichettati col nome di «relazioni internazionali». I civilisti
che pur sono stati in altri tempi i maggiori fautori dell’autonomia della
scienza giuridica, i creatori del tecnicismo giuridico che poi è stato
travasato nelle altre discipline giuridiche, si muovono nella stessa direzione
(e talora sembra che siano alla testa del movimento); una delle poche
ricerche di sociologia giuridica che si stanno conducendo ora in Italia
riguarda i testamenti7. Nessuno può aver dubbi sull’importanza che studi
empirici sul matrimonio in Italia, se ci fossero stati, avrebbero avuto nella
fase attuale della lotta pro e contro il divorzio.
Ciò detto, nell’odierna tendenza sociologizzante della scienza giuridica
quel che a mio parere occorre ribadire è, se mai, la differenza tra l’opera del
giurista e quella dello scienziato sociale. C’è rischio infatti che il giurista
uscito dalla propria isola affoghi nel vasto oceano di una indiscriminata
scienza della società. Avvicinamento non vuol dire confusione.
L’interdisciplinarità presuppone pur sempre una differenza tra diversi
approcci. È incredibile come si passi facilmente da un estremo all’altro
secondo che tira il vento: dal tecnicismo giuridico al sociologismo. Eppure,
nonostante tutto l’aiuto che il giurista può e deve trarre dal sociologo,
giurista e sociologo fanno due mestieri diversi. Non bisogna confondere i
materiali di cui l’uno e l’altro possono disporre con il modo con cui questi
stessi materiali vengono utilizzati. Si può dire, se pure con una certa
approssimazione, che il giurista sta al sociologo, e in genere allo scienziato
sociale, come il grammatico sta al linguista. Si faccia ricorso alla notissima
distinzione kelseniana tra scienza giuridica come scienza normativa e
sociologia come scienza esplicativa, o alla distinzione proposta più
recentemente da Hart tra punto di vista interno, che è quello proprio del
giurista, e punto di vista esterno, che è quello del sociologo: la differenza,
anche se non sempre percepita e continuamente rimessa in questione per
mancanza di chiarezza o per desiderio di originalità a buon mercato, è
nettissima.
Il problema che il sociologo e il giurista hanno in comune è quello del
rapporto tra regola e comportamento. Ebbene, il sociologo usa le regole di
comportamento che trova sulla propria strada per spiegare perché certi
individui si comportano in un certo modo, adopera cioè le regole come
una delle variabili del procedimento esplicativo ed eventualmente
predittivo cui mira; il giurista usa le stesse regole per qualificare i
comportamenti come leciti o illeciti, cioè per stabilire perché ci si debba
comportare in un modo piuttosto che in un altro. Sociologo e giurista
rispetto al rapporto tra regola e comportamento fanno un cammino
inverso: il sociologo parte generalmente dal comportamento per arrivare
alla regola che eventualmente lo possa spiegare; il giurista parte dalla regola
per arrivare al comportamento che sia di quella regola l’attuazione. Per
servirsi di una regola come criterio di spiegazione e di previsione basta al
sociologo che sia efficace; per servirsi di una regola allo scopo di qualificare
un comportamento e quindi a scopo prescrittivo, è necessario al giurista
che sia anche valida. Dal sociologo il comportamento previsto da una
regola viene preso in considerazione per osservare l’effetto della regola sul
comportamento; dal giurista per giudicarlo. Per il sociologo una regola è
rispetto al comportamento rilevante o irrilevante; per un giurista, un
comportamento è rispetto a una regola lecito o illecito. Si potrebbe
continuare.
S’intende che, essendo diversa la prospettiva e conseguentemente
anche il fine – il fine del sociologo è di descrivere come vanno le cose, il
fine del giurista è di descrivere come debbono andare –, diverso è il tipo di
operazioni intellettuali che l’uno e l’altro compiono sulla stessa realtà, e che
quindi li caratterizzano. Nel sociologo l’osservazione dei comportamenti
prevale sull’interpretazione delle regole; nel giurista l’interpretazione
prevale sull’osservazione. E così via. Proprio perché scienza giuridica e
scienze sociali si distinguono come prospettive diverse pur nella identità
della materia, si spiega il fenomeno testé menzionato della duplicazione,
per cui ogni disciplina giuridica ha una specie di controfigura in una
disciplina sociologica e viceversa, tanto che, volendo continuare la
metafora geografica, piuttosto che di regioni diverse dello stesso continente
si dovrebbe parlare di mappe diverse, che s’integrano tra loro, della stessa
regione.
Sin qui ho considerato la mappa del sociologo come necessaria
integrazione di quella del giurista. Vorrei, per concludere, spezzare una
lancia in favore di una possibile integrazione in senso inverso, formulando
alla buona questa domanda: «Che cosa può attendersi lo scienziato sociale
dal giurista?». Il mestiere del giurista è sempre stato quello di «trattare»
regole, e intendo per «trattare», nel senso più largo, l’identificazione, la
interpretazione, la manipolazione, la conciliazione, l’ordinamento
sistematico, la deduzione sino alla vera e propria invenzione delle regole di
un sistema. La scienza giuridica ha accumulato nei secoli un patrimonio
immenso e prezioso di osservazioni sui modi con cui le regole di un
sistema nascono, vivono e muoiono, e ha formulato una massa enorme di
concetti tecnici utili a comprendere come funziona un sistema normativo
(se pur entro i limiti di una considerazione del sistema giuridico come
sistema normativo per eccellenza), e a definire e a classificare i
comportamenti normativi. Chiunque abbia una certa familiarità con la
letteratura sociologica contemporanea ha l’impressione che questo
patrimonio sia poco o punto utilizzato. Ciò appare tanto più sorprendente
in quanto la situazione era ben diversa al tempo dei fondatori della
sociologia odierna: non ho bisogno di sottolineare quale sia stato il
contributo dato dalla teoria giuridica alla formazione di opere fondamentali
quali quelle di Tönnies, Durkheim, Max Weber (però non di quella di
Pareto). Forse per effetto del trapianto della sociologia negli Stati Uniti,
cioè in un paese a cultura giuridica meno avanzata e meno preminente, i
sociologi hanno finito per ignorare sempre più i giuristi: la sociologia è
stata sempre più – scusate la brutta espressione – «degiuridificata». In
un’opera come quella del Parsons, che pur concede tanto spazio al
problema del controllo sociale, manca qualsiasi riferimento al diritto, e non
si vede traccia, nonostante le molte occasioni, di un qualche prestito dalla
scienza giuridica. The Structure of Social Action (1937) è apparsa tre anni
dopo la Reine Rechtslehre di Kelsen; The Social System (1951) è di pochi anni
successivo alla kelseniana General Theory of Law and State: eppure Parsons
non mostra di avere il minimo sentore di Kelsen, di un autore tra l’altro
che avrebbe dovuto essergli congeniale, mentre né Tönnies, né Durkheim,
né Max Weber ignoravano quella che era certamente l’opera maggiore di
teoria generale del diritto del loro tempo, cioè Der Zweck im Recht di
Jhering.
Ciò che lo scienziato sociale può attendersi dal giurista è una
sollecitazione a guardare con maggiore attenzione a quei reticolati di regole
entro cui si muovono i membri di qualsiasi gruppo sociale, ad analizzare il
fenomeno normativo con quegli strumenti di precisione che gli può
fornire il giurista. Qualsiasi sistema sociale è in parte costituito, almeno per
quello che riguarda il fenomeno dell’istituzionalizzazione delle relazioni
sociali, da un insieme di sistemi normativi, di cui quello più significativo e
anche più studiato, per opera addirittura di un ceto professionale di
specialisti, è proprio il sistema giuridico. È sorprendente constatare quanti
concetti-base della teoria generale della società, come status, ruolo,
aspettativa, sfera di permissività e di obbligatorietà, sanzione (positiva e
negativa), istituzione, istituzionalizzazione, ecc. (sono concetti-base, come
ognuno vede, tratti dal sistema parsonsiano) siano anche concetti-base della
teoria generale del diritto; e sono tali, si badi, perché sono concetti
fondamentali per descrivere un sistema normativo. Ma è altrettanto
sorprendente quanto poco i sociologi abbiano tenuto conto del lavoro fatto
dai giuristi intorno agli stessi concetti. Non c’è dunque ragione perché, nel
momento in cui il giurista si sta avvicinando con una nuova e grande
curiosità al sociologo, questi continui a considerare lo studio del diritto
estraneo al proprio interesse, sia al livello più alto che è quello della
elaborazione di una teoria generale della società sia ai livelli più bassi della
ricostruzione dei singoli istituti. Penso che uno dei compiti della sociologia
del diritto, che si sta ora sviluppando in Italia soprattutto per opera di
Renato Treves e della sua scuola, sia anche quello di contribuire a una
migliore conoscenza reciproca tra sociologi e giuristi.

Note
1 Traggo queste due citazioni da G. Solari, Positivismo giuridico e politico di A. Comte, in Studi storici
di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1949, pp. 385-91.
2 K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito comunista, parte II: Proletari e comunisti (nell’ediz. a cura
di Emma Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1948, p. 139).
3 Sul tema rinvio al saggio Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo stesso
volume.
4 Traggo queste notizie dal libro di U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti,
Roma 1969, pp. 241 sgg. Ma cfr. anche M.G. Losano, Giuscibernetica, Einaudi, Torino 1969, pp.
120 sgg.
5 Nel saggio La funzione promozionale del diritto, in questo stesso volume.
6 La formazione extralegislativa del diritto nell’esperienza italiana, in «Foro Italiano», supplemento al n.
1 dell’anno XCV (1970). Le due citazioni si trovano rispettivamente a pp. 11 e 22.
7 [Mi riferisco alla ricerca, pubblicata nel frattempo, di V. Ferrari, Successione per testamento e

trasformazioni sociali, Edizioni di Comunità, Milano 1972.]


IV. Verso una teoria funzionalistica del diritto

1. Prevalenza delle teorie strutturalistiche su quelle


funzionalistiche nella teoria generale del diritto
Se si applica alla teoria del diritto la distinzione tra approccio
strutturalistico e approccio funzionalistico, di cui fanno grande uso gli
scienziati sociali per differenziare e classificare le loro teorie, non sembra
dubbio che nello studio del diritto in generale (di cui si occupa la teoria
generale del diritto) abbia prevalso in questi ultimi cinquant’anni il primo
sul secondo1. Senza indulgere alle etichette, sempre pericolose per quanto
utili, credo si possa dire con una certa tranquillità che nel suo sviluppo
dopo la svolta kelseniana la teoria del diritto abbia ubbidito assai più a
suggestioni strutturalistiche che non a suggestioni funzionalistiche. In
parole povere, coloro che si sono dedicati alla teoria generale del diritto si
sono preoccupati molto di più di sapere «come il diritto sia fatto» che «a
che cosa serva». La conseguenza è stata che l’analisi strutturale è stata
condotta molto più a fondo dell’analisi funzionale. Herbert L.A. Hart,
autore dell’opera di teoria del diritto che ha avuto in questi anni i maggiori
consensi al di qua e al di là dell’Oceano Atlantico, parte da un’analisi delle
carenze funzionali degli ordinamenti primitivi per approdare a una
determinazione del concetto di diritto – l’ordinamento giuridico è un
composto di norme primarie e secondarie – in cui lo strutturalismo celebra
i propri trionfi. È vero che in Hart analisi funzionale e analisi strutturale
sono strettamente congiunte: l’ordinamento giuridico è fatto così, cioè ha
quella determinata struttura, perché, solo in quanto è fatto così, elimina le
carenze funzionali degli ordinamenti primitivi. La struttura specifica
dell’ordinamento giuridico adempie una funzione specifica che è quella di
assicurare certezza, mobilità ed efficacia al sistema normativo. Resta il fatto
però che ciò che caratterizza quegli ordinamenti normativi che
abitualmente chiamiamo giuridici è proprio il modo con cui sono
«strutturati».
Nell’opera di Kelsen non solo analisi funzionale e analisi strutturale
sono dichiaratamente separate, ma questa separazione è la base teorica su
cui Kelsen fonda l’esclusione della prima a favore della seconda. Com’è
ben noto, per il fondatore della teoria pura del diritto, una teoria scientifica
del diritto non deve occuparsi della funzione del diritto, ma soltanto dei
suoi elementi strutturali. L’analisi funzionale è affidata ai sociologi e magari
ai filosofi. Il movimento verso lo studio della struttura dell’ordinamento
giuridico è stato favorito da una rigida divisione del lavoro tra giuristi (che
guardano il diritto dall’interno) e sociologi (che lo guardano dall’esterno).
La distinzione hartiana tra punto di vista esterno e punto di vista interno,
che dà tanto filo da torcere ai suoi interpreti, può essere considerata come
una giustificazione di quella divisione del lavoro tra sociologi e giuristi che
da Kelsen invece era stata fondata sul dualismo tra sfera dell’essere e sfera
del dover essere, tra leggi naturali e norme giuridiche, tra rapporto di
causalità e rapporto di imputazione. Che la teoria pura del diritto si occupi
della struttura e non della funzione del diritto, Kelsen lo dichiara
esplicitamente in più luoghi. In polemica coi teorici del diritto sovietici
che, definendo il diritto in funzione degli interessi della classe dominante
ne danno una definizione funzionale, Kelsen ribadisce energicamente il
suo punto di vista: «Questa dottrina [la dottrina pura del diritto] non
considera [...] lo scopo che viene perseguito e raggiunto dall’ordinamento
giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico stesso; e
considera questo ordinamento nell’autonomia normativa propria della sua
struttura e non già relativamente a questo suo scopo»2. Chiunque del resto
abbia una certa familiarità con le opere del Kelsen sa che non c’è posto in
esse (o non dovrebbe esserci) per le definizioni teleologiche dei concetti
chiave della teoria del diritto, e che lo sforzo compiuto da lui per dare
finalmente ai giuristi una teoria scientifica del diritto consiste proprio nel
fornire definizioni formali di questi concetti, a cominciare da quello di
norma giuridica, per finire con quello di ordinamento giuridico.
Oggi possiamo guardare con una certa insofferenza al furore
antiteleologico di Kelsen e dei kelseniani. Ma non dobbiamo dimenticare
che la ricerca dello scopo o degli scopi del diritto era la breccia attraverso
cui entravano nella teoria del diritto le più contrastanti ideologie. Il
circoscrivere il compito di una teoria del diritto all’analisi strutturale era un
modo di salvaguardare la ricerca teorica dall’intrusione dei giudizi di valore
e di evitare la confusione tra il diritto positivo, il solo possibile oggetto di
una teoria scientifica del diritto, e il diritto ideale; era nelle intenzioni di
Kelsen la condicio sine qua non per la fondazione di una teoria scientifica del
diritto. «Come scienza [si badi, come scienza], la dottrina pura del diritto –
scrive il Kelsen – si ritiene obbligata soltanto a comprendere il diritto
positivo nella sua essenza e d’intenderlo mediante un’analisi della sua
struttura»3. Nell’opera del Kelsen la costruzione della teoria pura del
diritto, volta esclusivamente all’analisi degli elementi strutturali
dell’universo giuridico, va di pari passo, com’è ben noto (eppure è così
spesso dimenticato), con la critica ideologica delle teorie altrui. L’analisi
strutturale non serve soltanto a salvaguardare la teoria del diritto da
contaminazioni ideologiche, ma permette di smascherare prese di
posizione politiche che si annidano nei concetti tradizionali
apparentemente neutrali della scienza del diritto.

2. Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen


Kelsen non cadde nell’errore di Stammler, che provocò una critica
piuttosto severa di Max Weber, di confondere l’analisi formale del diritto
come premessa per una teoria scientifica e compiutamente de-
ideologizzata del diritto, con la concezione del diritto come forma di
rapporti sociali, in particolare dei rapporti economici. Bisogna pur
riconoscere che altro è dire che il diritto come ordinamento normativo ha
una sua struttura, che è compito della teoria generale del diritto
d’individuare e descrivere, altro è dire che il diritto è e non è altro che una
struttura dei rapporti sociali. La prima concezione si limita a separare
l’analisi strutturale da quella funzionale considerando soltanto la prima
come oggetto di una teoria pura del diritto. La seconda non può concepire
un’analisi funzionale distinta da quella strutturale per il semplice fatto che
confonde la struttura con la funzione, e sostiene che il diritto ha una
funzione in quanto è una struttura dei rapporti sociali.
Se è vero che Kelsen, intento alla costruzione della teoria pura, non si è
mai curato, se non marginalmente, dei problemi relativi all’aspetto
funzionale del diritto, non significa che non se ne sia curato affatto. Dal
punto di vista funzionale il diritto è per Kelsen, com’è ben noto, «una
tecnica specifica dell’organizzazione sociale»: la cui specificità consiste
nell’uso dei mezzi coercitivi per indurre i membri del gruppo sociale a fare
o non fare alcunché. Il diritto è un «ordinamento coattivo». Ciò che è
comune a tutti gli ordinamenti sociali che chiamiamo abitualmente
giuridici è la presenza di un’organizzazione più o meno accentrata per
ottenere dai consociati determinati comportamenti ricorrendo in ultima
istanza alla forza. Con la terminologia propria dei sociologi, che peraltro
Kelsen non usa, il diritto è una delle forme possibili di controllo sociale,
specificamente è quella forma di controllo che si fonda sull’uso della forza.
Ciò che contraddistingue questa teoria funzionale del diritto da altre è
che essa esprime una concezione meramente strumentale del diritto. La
funzione del diritto nella società non è già quella di servire a un
determinato fine (onde l’approccio funzionalistico al diritto si risolve
generalmente nell’individuare quale sia il fine specifico del diritto), ma di
essere uno strumento utile a raggiungere i fini più svariati. Kelsen non si
stanca di ripetere che il diritto non è un fine ma un mezzo. Proprio in
quanto mezzo esso ha la sua funzione: ha la funzione di permettere il
raggiungimento di quei fini che non possono essere raggiunti attraverso
altre forme di controllo sociale. Quali poi siano questi fini, varia da società
a società: è un problema storico che come tale non interessa alla teoria del
diritto. Una volta stabilito lo scopo o gli scopi ultimi che un gruppo sociale
si propone, il diritto esplica ed esaurisce la sua funzione nell’organizzare un
mezzo specifico (la coazione) per ottenere l’adempimento.
Che poi Kelsen sia rimasto sempre fedele a questa concezione
strumentale del diritto, è un altro discorso. Sembra difficile sottrarre il
diritto, inteso come grande macchina per l’esercizio della coazione, a ogni
interpretazione teleologica, se non altro perché tra tutti i fini possibili di un
gruppo sociale ve n’è uno minimo o comune, per il raggiungimento del
quale quella tecnica sociale specifica che è il diritto si presenta non soltanto
come preferibile ma addirittura come necessaria: l’ordine o la pace sociale.
Se si ammette che il diritto possa servire a raggiungere i fini più diversi, ma
nello stesso tempo si ammette che il fine dell’ordine non può essere
raggiunto che attraverso il diritto, il diritto non è soltanto un mezzo, ma ha
un fine, o meglio è un mezzo specifico per un fine specifico. Nonostante
tutte le pregiudiziali antiteleologiche, nonostante le ripetute dichiarazioni
di principio che il diritto è un mezzo e non un fine, Kelsen si lascia
sfuggire in un passo della General Theory of Law and State l’affermazione che
«il diritto è indubbiamente un ordinamento per la promozione della
pace»4. A questa interpretazione teleologica del diritto egli arriva attraverso
un ragionamento di questo genere. Per agire come ordinamento coattivo il
diritto ha bisogno di organizzare il monopolio della forza. Il monopolio
della forza serve a evitare l’uso indiscriminato della forza, cioè a distinguere
chi è autorizzato e chi non è autorizzato a usare la forza. Se si definisce la
pace come quella situazione in cui la forza non viene usata o viene usata il
minimo indispensabile, si deve concludere che «il diritto assicura la pace
della comunità»5. Sebbene si fosse affrettato a precisare che la pace
assicurata dal diritto è una pace relativa e non assoluta, in quanto priva gli
individui singoli e non l’intera comunità o coloro che la rappresentano del
potere di usare la forza, non aveva potuto fare a meno di concludere che
«lo stato di diritto [...] è essenzialmente uno stato di pace»6.
Che questo paragrafo dell’opera americana potesse essere sembrato al
Kelsen una concessione forse eccessiva a un’interpretazione teleologica del
diritto, sembra provato dal fatto che nella seconda edizione della Reine
Rechtslehre, di quindici anni posteriore, a questo stesso punto della
trattazione, egli avverte in una nota di aver introdotto una modificazione
«non lieve»7 nella sua concezione dei rapporti tra diritto e pace. La
modificazione consiste nel sostituire al concetto di pace quello di
«sicurezza collettiva». Concetto questo che Kelsen deriva dallo studio di un
ordinamento, come quello internazionale, che, pur essendo un
ordinamento giuridico, è rispetto all’ordinamento statuale meno
organizzato. Volendo fare rientrare nella categoria degli ordinamenti
giuridici anche un ordinamento primitivo come quello internazionale, il
concetto di pace sembra troppo specifico. Negli ordinamenti giuridici
primitivi fondati sul principio dell’auto-tutela, Kelsen ritiene non si possa
«parlare seriamente di una pacificazione, anche soltanto relativa, della
comunità giuridica», ma soltanto di quello stato che «mira alla pace» senza
peraltro raggiungerla, che è lo stato di sicurezza collettiva. Si può parlare di
pace come fine del diritto soltanto a proposito di ordinamenti fortemente
accentrati, com’è quello dello stato moderno. In conclusione: «Non si può
con ragione ritenere che lo stato di diritto sia necessariamente uno stato di
pace [come era stato affermato nell’opera precedente] e che l’assicurare la
pace sia una funzione essenziale del diritto. Si può ritenere soltanto che lo
sviluppo del diritto abbia questa tendenza»8.
La sostituzione del concetto di sicurezza collettiva a quello di pace fa
retrocedere di un passo il fine minimo del diritto ma non lo elimina; lo
rende più vago, meno specifico, ma non lo sopprime. Rispetto alla pace la
sicurezza collettiva è un mezzo («mira alla pace»), ma rispetto al diritto
definito come ordinamento della forza è un fine. Come la sicurezza
collettiva mira alla pace, il diritto come ordinamento coattivo mira alla
sicurezza collettiva. Nel momento stesso in cui si dice che il diritto
garantisce per lo meno la sicurezza collettiva, se non la pace, il fine, un
certo fine, diventa un elemento della definizione funzionale del diritto.
Ancora una volta il diritto non soltanto è un mezzo buono per qualsiasi
fine, ma ha esso stesso un fine proprio e specifico.

3. La teoria kelseniana del diritto come ordinamento coattivo


Si può lasciare impregiudicata la questione quali siano i fini del diritto e
se il diritto abbia un fine specifico. Dal punto di vista funzionale, la tesi
principale di Kelsen è che il diritto è una tecnica specifica
dell’organizzazione sociale e questa tecnica specifica si risolve
nell’organizzazione dell’apparato coattivo. Ma questa tesi, se pure esposta
con quel rigore e quella chiarezza concettuale che sono propri di tutta
l’opera kelseniana, non è affatto originale: è la tesi dominante della teoria
positivistica del diritto, di cui del resto Kelsen si professa seguace. Nella
Reine Rechtslehre, introducendo il discorso sulla coazione, non esita ad
avvertire che «in questo punto la dottrina pura del diritto continua la
tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX»9. Che la
coazione fosse la forma d’azione specifica del diritto nella società, era stato
uno dei temi principali della grande opera di Rudolf Jhering, Der Zweck im
Recht. Pare di sentire un’eco della lettura dell’opera di Jhering nel passo in
cui Kelsen, distinguendo le pene dalle ricompense, aggiunge che «la
tecnica della ricompensa svolge una parte significativa soltanto nelle
relazioni private degli individui»10.
Quando dicevo all’inizio che l’analisi strutturale del diritto ha fatto più
progressi, dopo Kelsen e anche per opera di Kelsen, dell’analisi funzionale,
mi riferivo precisamente al fatto che, mentre l’analisi strutturale ha
introdotto ed elaborato un concetto come quello di ordinamento
dinamico, di cui nessuna teoria del diritto, borghese o proletaria, può fare a
meno, l’analisi funzionale è rimasta ferma al concetto di ordinamento
coattivo, cioè a un concetto del diritto che non sembra del tutto adatto a
rappresentare la complessità e la multidirezionalità del diritto in una società
moderna, e non sembra tener conto delle grandi trasformazioni che una
società industriale importa anche nelle varie forme di controllo sociale. Il
problema è molto grave e non pretendo di risolverlo. Ho già richiamato
l’attenzione in saggi precedenti su quel fenomeno che ho chiamato la
«funzione promozionale» del diritto nella società contemporanea11. Qui
riprendo il tema mettendolo in rapporto con la teoria kelseniana
dell’ordinamento giuridico come ordinamento coattivo.
Com’è ben noto, la teoria kelseniana del diritto come ordinamento
coattivo si regge principalmente sull’affermazione che il diritto è composto
di norme e che la caratteristica di queste norme non è già quella di
prescrivere comportamenti (e tanto meno di autorizzarli), bensì quella di
stabilire un nesso d’imputazione tra l’illecito e la sanzione. Assai più che sul
concetto di obbligo, sul cui primato Kelsen insiste soprattutto
polemicamente contro le teorie del primato del diritto soggettivo, la teoria
del diritto come ordinamento coattivo è incardinata sul concetto di
sanzione: rispetto al concetto di sanzione il concetto di obbligo è un
concetto derivato. È anzi abbastanza significativo che mentre del concetto
di obbligo Kelsen riesce a dare una definizione rigorosamente formale,
affermando che un comportamento può dirsi obbligatorio «soltanto se una
norma giuridica ricollega un atto coercitivo come sanzione al
comportamento opposto»12, del concetto di sanzione non può evitare di
dare una definizione funzionale. Quando egli dice che «le sanzioni sono
disposte dall’ordinamento giuridico per ottenere un dato comportamento
umano che il legislatore considera desiderabile»13, ci fa sapere non già quale
sia la struttura normativa della sanzione ma a che cosa la sanzione serve.
Naturalmente le sanzioni di cui si vale un ordinamento coattivo, un
ordinamento cioè che tende a raggiungere il proprio scopo ricorrendo
anche alla forza per indurre i consociati a fare o non fare certe cose, sono, e
non possono essere che, le sanzioni negative. Nell’opera kelseniana, il
nesso tra coattività del diritto e uso delle sanzioni negative è strettissimo.
L’espressione più frequente con cui Kelsen indica le sanzioni giuridiche è
«atti coercitivi»: un atto coercitivo in quanto sanzione (vi sono anche atti
coercitivi che non sono sanzioni) è, e può essere soltanto, una sanzione
negativa. Sanzioni negative tipiche del diritto sono, per Kelsen, i due atti
coercitivi della pena e dell’esecuzione forzata. Insomma il carattere,
proprio del diritto, di ordinamento coattivo dipende dal fatto che le
sanzioni cui ricorre sono sanzioni negative: «Un ordinamento sociale che
cerca di ottenere da parte degli individui il comportamento desiderato
mediante l’emanazione di tali misure di coercizione [quali sono appunto le
sanzioni negative] viene definito un ordinamento coercitivo»14.
Proprio in quanto ordinamento coattivo, che ricorre a sanzioni
negative per condizionare i comportamenti degli individui, l’ordinamento
giuridico si distingue, secondo Kelsen, sia dagli ordinamenti che non
contano sulla sanzione ma sull’obbedienza volontaria, sia dagli ordinamenti
che si valgono di sanzioni positive. Dunque Kelsen riconosce la differenza
tra sanzioni negative e sanzioni positive, ma afferma esplicitamente che il
diritto si vale delle prime e non delle seconde, e che anzi quest’uso è uno
dei suoi tratti distintivi. Quali siano gli ordinamenti fondati esclusivamente
su sanzioni positive, e se ne esistano o ne siano esistiti, Kelsen a dire il vero
non dice. Si limita ad osservare genericamente che «l’ordinamento può
annettere alcuni vantaggi alla sua osservanza e alcuni svantaggi alla sua non
osservanza, e fare quindi del desiderio del vantaggio promesso e del timore
dello svantaggio minacciato un motivo di comportamento»15, cioè a
mettere sullo stesso piano, ma soltanto concettualmente, in quanto si tratta
di due manifestazioni dello stesso principio di retribuzione, il principio
della ricompensa e il principio della pena. Ciò che invece Kelsen dice
molto chiaramente, e senza alcun sospetto che si possa anche sostenere il
contrario, è che dei due principi, in pratica, quello della pena è di gran
lunga più applicato di quello della ricompensa. «È ben degno di nota – egli
osserva – che delle due sanzioni qui presentate come tipiche – lo
svantaggio minacciato in caso di disobbedienza (punizione nel senso più
largo del termine) e il vantaggio promesso in caso di obbedienza (la
ricompensa) – la prima assolve nella realtà sociale una parte assai più
importante della seconda»16. Dei due ordinamenti sociali che egli prende in
considerazione, quello fondato su sanzioni trascendenti e quello fondato su
sanzioni immanenti, nessuno fa un uso determinante delle sanzioni
positive. Anzi l’idea che le sanzioni negative siano più importanti delle
positive «non si manifesta solo nel fatto che l’ordinamento sociale di gran
lunga più importante, il diritto, usa essenzialmente questa sanzione [quella
negativa], ma appare anche con particolare evidenza là dove l’ordinamento
sociale ha ancora un carattere puramente religioso, cioè garantito da
sanzioni trascendenti»17. Da questa osservazione storica è quindi indotto ad
affermare che «premio e pena possono essere compresi nel concetto di
sanzione, però comunemente si designa come sanzione non il premio,
bensì la pena, cioè un male [...] inflitto come conseguenza di un certo
comportamento»18. Conviene aggiungere che di questa idea Kelsen aveva
creduto di poter trarre conferma nell’ampia e documentatissima ricerca
condotta in quegli stessi anni sui sistemi normativi primitivi, dove, pur
riconoscendo che concettualmente il principio di retribuzione presiede
tanto allo scambio del bene col bene quanto allo scambio del male col
male, tanto al premio, quanto alla pena, aveva ritenuto di poter affermare,
sulla base dei reperimenti etnologici, che «delle due funzioni del principio
di retribuzione – la punizione e la ricompensa – l’ultima comincia ad
acquistare importanza solo a poco a poco»19. E infatti il materiale
etnografico di cui il libro è composto riguarda quasi esclusivamente casi di
retribuzione negativa.

4. Le sanzioni positive nell’opera di Kelsen


I soli due riferimenti un po’ più specifici che Kelsen fa all’uso di
sanzioni positive mostrano che egli ha un’idea ben radicata (accolta dalla
tradizione) della loro irrilevanza nel diritto.
Il primo riferimento è nel passo, d’ispirazione probabilmente
jheringhiana, già ricordato, in cui Kelsen dice che «la tecnica della
ricompensa svolge una parte significativa soltanto nelle relazioni private
degli individui»20. Com’è noto, Jhering aveva distinto due leve
fondamentali del comportamento sociale egoistico, la ricompensa e la
coazione, e aveva assegnato la prima alla sfera dei rapporti economici
(Verkehr), la seconda a quella del diritto e dello stato. Non è molto difficile
scoprire le ragioni storiche, e di riflesso ideologiche, di questa distinzione.
L’idea che il compito dello stato (e correlativamente del diritto, dal
momento che stato e diritto erano considerati fenomeni interdipendenti)
fosse esclusivamente quello di organizzare l’apparato della coazione era
connessa a quella concezione limitativa o addirittura, come si diceva,
negativa, dello stato che fu propria delle varie correnti del liberalismo
classico, e di cui la sottrazione dell’attività economica all’ingerenza dello
stato, la «privatizzazione» dell’economia («le relazioni private degli
individui», richiamate dal Kelsen), era uno degli aspetti essenziali. Su
questa idea limitativa dello stato come apparato coattivo si era venuta
formando l’ideologia dello stato di diritto, intendendosi per stato di diritto
non soltanto lo stato limitato dal diritto, ma anche lo stato limitato al
diritto, e intendendosi per «diritto» in questa seconda accezione di «stato di
diritto» un ordinamento normativo coattivo volto finalisticamente alla
tutela delle libertà fondamentali, in primis di quella economica. Nella
distinzione jheringhiana tra organizzazione dei rapporti economici, cui
presiede la molla del guadagno, e organizzazione dei rapporti giuridici, cui
presiede la molla della coazione, traspariva chiaramente la distinzione tra
una sfera di rapporti naturali, che dovevano essere lasciati espandere sino a
che non diventassero socialmente nocivi, e una sfera di rapporti regolati
coattivamente dall’autorità politica dominante, e quindi in un certo senso
artificiali o convenzionali. Dopo aver definito la sfera economica (Verkehr)
come «l’organizzazione che tende ad assicurare la soddisfazione dei bisogni
umani servendosi della leva del guadagno», Jhering aveva aggiunto che
«questa organizzazione è, come forse nessun altro frammento del mondo
umano, il prodotto naturale del libero sviluppo degli scopi»21.
Kelsen, si badi, non accetta questo modo d’intendere lo stato di diritto
(per lui ogni stato è, per il solo fatto di essere uno stato, cioè un
ordinamento coattivo, stato di diritto), anzi ne mostra a più riprese la
natura ideologica. Inoltre, studiando la realtà dello stato contemporaneo, si
rende perfettamente conto, come vedremo meglio tra poco, dell’enorme
importanza che ha assunto nelle società sulla via dell’industrializzazione
l’attività economica diretta dello stato. Ma non giunge a mettere in dubbio
che lo stato svolga la propria funzione di condizionare il comportamento
altrui per ottenere certi effetti desiderati o per impedire certi effetti
indesiderati soltanto attraverso il meccanismo delle sanzioni negative:
l’aver relegato il fenomeno delle ricompense nella sfera delle relazioni
private ne è una prova.
Ancor più significativo è l’altro riferimento. Nella seconda edizione
della Reine Rechtslehre prende atto che «gli ordinamenti giuridici moderni
contengono talvolta norme che, per certi meriti, prevedono premi». Ma
quando poi deve farci sapere in che cosa consistono queste norme, fa il
solito esempio di scuola dei «titoli» e delle «medaglie»22. Anche Jhering,
che pur aveva considerato la ricompensa come una delle due leve della
meccanica sociale, giunto a parlare delle sanzioni positive del diritto, aveva
circoscritto il discorso alle onorificenze, cioè a quel tipo di ricompensa che,
per distinguerla dalla ricompensa economica o reale, aveva chiamato
«ideale», ribadendo quindi la tesi che, se di sanzioni positive era lecito
parlare nel diritto, queste erano soltanto quelle che avevano riguardo non
all’interesse economico ma alla reputazione. Jhering peraltro aveva
aggiunto che, mentre era possibile riscontrare sanzioni positive giuridiche
(cioè producenti un vero e proprio diritto soggettivo, suscettibile di essere
fatto valere con una azione processuale) nel diritto romano, nel diritto
moderno le varie forme di ricompense al merito non avevano alcun valore
giuridico. «Esse sono – precisò – non cose del diritto, ma della grazia
sovrana»23. Certamente, se non vi sono altre sanzioni positive che i titoli e
le medaglie, se il diritto ricorre alla tecnica delle ricompense soltanto
quando si tratta di dare un riconoscimento meramente onorifico al
funzionario dopo cinquant’anni di onorata carriera, o al cittadino che ha
salvato una donna dall’incendio, Kelsen ha perfettamente ragione nel dire
che le sanzioni positive «hanno un’importanza secondaria all’interno di
questi sistemi che fungono da ordinamenti coercitivi»24.
Lungi da me l’idea di invertire la tesi tradizionale e di sostenere che le
sanzioni positive sono altrettanto importanti di quelle negative. Ma è
proprio vero che nell’ordinamento statale, specie nell’ordinamento dello
stato moderno, sanzioni positive sono soltanto i titoli e le medaglie? Titoli
e medaglie toccano la sfera della reputazione, e vi corrispondono, sul
versante opposto delle sanzioni negative, i marchi d’infamia, le
degradazioni, le iscrizioni sul certificato penale di una sentenza di
condanna, ecc. La reputazione, certo, è un bene dell’uomo sociale, ma
nell’opinione dei più (e per l’effetto d’intimidazione o di stimolazione che
una sanzione deve avere l’opinione è importante) non è un bene altrettanto
grande della proprietà, della libertà o della vita che l’ordinamento giuridico
prende particolarmente in considerazione quando vuole condizionare
fortemente il comportamento degli individui. Dal punto di vista del bene
sociale cui fanno riferimento, titoli e medaglie corrispondono a quelle
forme più blande di sanzione, come sono appunto l’approvazione o la
disapprovazione sociale, che si sogliono considerare proprie di ordinamenti
meno rigidi e meno organizzati di quello giuridico. Forse si può dire che
titoli e medaglie sono una forma istituzionalizzata dell’approvazione
sociale. Come tali si distinguono dalle sanzioni negative del diritto, una
volta ammesso che le sanzioni negative giuridiche colpiscono beni
essenziali, come la proprietà, la libertà e la vita, non tanto perché siano
positive ma perché possiedono un grado minore d’intensità e comunque,
poiché l’intensità è difficile da misurare, coinvolgono un ordine
completamente diverso di motivazioni.
Ponendoci la domanda se sanzioni giuridiche positive siano soltanto i
titoli e le medaglie, ci poniamo il problema se per avventura vi siano o vi
possano essere negli ordinamenti giuridici attuali sanzioni positive che
fanno leva sull’attrazione che hanno generalmente sugli individui beni
diversi dalla reputazione, come sono, per esempio, i beni economici.

5. Ragioni storiche dell’estensione delle sanzioni positive


nello stato contemporaneo
Prendo le mosse dalla distinzione jheringhiana, riecheggiata da Kelsen,
tra la sfera dei rapporti economici, in cui la leva prevalente e caratterizzante
della condotta è la ricompensa, e la sfera dei rapporti politico-giuridici in
cui la leva prevalente e caratterizzante è la coazione. Questa distinzione è
connessa con l’immagine di una società in cui l’attività economica
primaria, l’attività della produzione dei beni, spetta prevalentemente ai
privati, mentre allo stato compete essenzialmente l’organizzazione della
forza, cioè la produzione di un servizio indispensabile alla coesistenza, alla
coesione, all’integrazione del gruppo sociale. Questa immagine non ha mai
corrisposto alla realtà, neppure nei momenti di maggiore espansione
economica della società civile o borghese (che è insieme anche la società
privata o dei rapporti privati). Ma da quando lo stato ha esteso la propria
attività alla produzione di altri servizi, oltre quello dell’organizzazione della
coazione, e provvede direttamente o indirettamente anche alla produzione
di beni, quell’immagine è certamente falsa. Se questa immagine è falsa,
sorge il sospetto che anche la distinzione tra le ricompense e le pene in due
campi separati, che si riconnette a quell’immagine, sia da rivedere. Se è
vero infatti che la ricompensa è il mezzo che viene usato per determinare il
comportamento altrui da coloro che dispongono delle riserve economiche,
ne segue che lo stato, via via che dispone di risorse economiche sempre più
vaste, si viene a trovare in condizione di determinare il comportamento
degli individui, oltre che con l’esercizio della coazione, anche con vantaggi
d’ordine economico, cioè di svolgere una funzione non solo deterrente ma
anche, come ho già detto, promozionale. Per dirla in breve, questa
funzione si esplica nel promettere un vantaggio (di natura economica) per
un’azione desiderata anziché nel minacciare un male per un’azione
indesiderata: si esplica cioè nell’uso, che diventa sempre più frequente,
dell’espediente delle sanzioni positive.
Quando si occupa dell’amministrazione dello stato, Kelsen ha cura di
distinguere l’amministrazione indiretta da quella diretta. Ma né l’una né
l’altra coprono il fenomeno del diritto promozionale. L’amministrazione
indiretta è riconducibile all’attività giurisdizionale nel senso che «dal punto
di vista tecnico lo scopo dello stato viene perseguito dall’apparato
amministrativo nello stesso modo di quello dei tribunali, in quanto si cerca
di raggiungere lo stato socialmente desiderato, cioè ritenuto tale dal
legislatore, col reagire contro il suo opposto per mezzo di un atto coattivo
imposto da organi statuali»25. L’attività diretta è riconducibile all’attività
economica dei privati con la sola differenza che i destinatari degli obblighi
derivanti dalle norme secondarie sono non individui privati ma pubblici
funzionari. Si capisce che entrambe le forme di attività statale sono
descrivibili dal punto di vista del diritto come ordinamento coattivo, la
prima perché è essa stessa, come l’attività giurisdizionale, parte di questo
apparato, la seconda perché, come l’attività dei privati, è regolata da norme,
la cui violazione è la condizione perché entri in funzione l’apparato della
coazione. Per chiarire la differenza tra queste due forme
dell’amministrazione statale, Kelsen fa l’esempio della pubblica strada, il
cui mantenimento può essere affidato agli utenti o a pubblici funzionari26.
La differenza consiste nel fatto che nel primo caso i destinatari dell’obbligo
sono i cittadini, nel secondo i pubblici funzionari; ma in entrambi i casi si
può parlare di obbligo giuridico, se questo è raffigurato come quel
comportamento il cui opposto è la condizione per l’imputazione di una
sanzione. Questo esempio è interessante, perché mostra benissimo che là
dove Kelsen registra il fenomeno della produzione, da parte dello stato,
oltre che di norme giuridiche, anche di altre attività, genericamente sociali
o più specificamente economiche, si limita a osservare il fenomeno dello
stato produttore in proprio, non quello, rilevante per lo studio delle
sanzioni positive, dello stato che provoca o promuove o sollecita la
produzione altrui con mezzi diversi dalle sanzioni negative. Stando
all’esempio si direbbe che in ordine alla produzione di beni e di servizi, lo
stato abbia, oltre, s’intende, il compito di lasciar fare, che qui per il
momento non viene in questione, soltanto queste due alternative: o far fare
mediante imposizione di sanzioni negative o fare egli stesso (che è poi un
far fare ai propri funzionari). Ciò che sfugge a queste due alternative è la
situazione sempre più frequente in cui lo stato fa fare non minacciando ma
promettendo, non scoraggiando ma incoraggiando. È la situazione,
appunto, in cui lo stato non esercita una funzione repressiva ma
promozionale.
Rispetto al rapporto che lo stato può avere con l’attività economica,
l’altra grande distinzione elaborata dai giuristi e anche da Kelsen in più
luoghi è quella tra stato liberale e stato socialista: dal punto di vista
strettamente giuridico, dal punto di vista di una teoria strutturale del
diritto come la teoria pura, i due tipi di stato sono diversi riguardo alle
diverse forme o meglio ai diversi gradi specifici della produzione giuridica.
Lo stato liberale è caratterizzato da una sfera molto ampia di autonomia
privata, cioè da una sfera di comportamenti che sono regolati da quella
forma specifica di produzione normativa che è il negozio giuridico, in
particolare il contratto. Via via che si passa dallo stato liberale allo stato
sociale e poi socialista, al negozio giuridico come forma di produzione
normativa si sostituisce l’atto amministrativo. Kelsen riconosce
apertamente che «ciò che noi chiamiamo diritto privato è, dal punto di
vista della funzione [...], solo la forma giuridica particolare della
produzione economica e della distribuzione dei prodotti che corrisponde
all’ordinamento economico capitalistico»; quindi precisa che «a un
ordinamento economico socialistico sarebbe adeguata un’altra forma
giuridica, una forma giuridica eteronoma-autocratica, più vicina al nostro
diritto amministrativo»27. Per esprimerci ancora una volta con formule
sintetiche, questa distinzione corrisponde non più alla differenza tra fare
(dello stato) e far fare (agli individui), ma tra fare e lasciar fare. Ancor più
chiaramente della precedente distinzione tra amministrazione diretta e
amministrazione indiretta, questa distinzione lascia completamente fuori il
campo del diritto promozionale che, come abbiamo visto, rientra nella
categoria di quei rapporti tra stato ed economia in cui lo stato né
abbandona completamente lo svolgimento dell’attività economica agli
individui, né se l’assume in proprio, ma interviene con varie forme
d’incoraggiamento dirette agli individui. Se si vuole individuare e ben
delimitare lo spazio occupato dal diritto promozionale, occorre tener
presente non tanto la distinzione tra fare e far fare, non tanto quella tra fare
e lasciar fare, quanto quella tra lasciar fare e far fare. Vi sono due vie
attraverso cui lo stato può limitare la sfera del lasciar fare: quella
dell’obbligare a fare (o non fare) azioni che altrimenti sarebbero permesse,
ed è la via della restrizione coattiva della libertà di agire, oppure quella
dello stimolare a fare (o a non fare) azioni che nonostante ciò continuano a
essere permesse, che è il modo con cui si esplica la funzione promozionale.

6. Gl’incentivi e i premi come due forme dell’attività


promozionale dello stato
Il fenomeno del diritto promozionale rivela il passaggio dallo stato che,
quando interviene nella sfera economica, si limita a proteggere questa o
quell’attività produttiva allo stato che si propone anche di dirigere l’attività
economica di un paese nel suo complesso verso questo o quell’obbiettivo,
il passaggio dallo stato soltanto protezionista allo stato programmatore. Si
tratta di un fenomeno tutt’altro che compiuto e che comincia soltanto
adesso a essere esplorato. Per parlarne con maggior conoscenza di causa
occorrerebbe un’ampia registrazione, per lo meno nell’ambito di un
sistema positivo, delle norme che possono essere fatte rientrare nella
categoria.
Se pure con una prima approssimazione, si può dire che la funzione
promozionale del diritto può essere esercitata con due tipi diversi di
espedienti: gl’incentivi e i premi. Intendo per «incentivi» misure che
servono a facilitare l’esercizio di una determinata attività economica, per
«premi», invece, misure che mirano a dare una soddisfazione a coloro che
abbiano già compiuto una determinata attività. L’incentivo accompagna
l’attività nel suo formarsi; il premio la segue, cioè viene assegnato quando
l’attività è già stata svolta. Per quanto non sia sempre facile distinguere nel
caso concreto un premio da un incentivo, la distinzione è concettualmente
significativa, perché soltanto i premi rientrano a rigore nella categoria delle
sanzioni positive (qualora non si voglia allargare troppo il concetto di
sanzione e si tenga presente, per definire «sanzione positiva», l’estensione e
l’intensione del concetto, ben più elaborato, di sanzione negativa). Il
contrario di premio è pena, cioè è il caso più tipico di sanzione negativa. Il
contrario d’incentivo è disincentivo, che in nessun modo può essere fatto
rientrare nel concetto, per quanto lo si estenda, di sanzione negativa. La
sanzione (positiva o negativa) presuppone l’esistenza di una norma primaria
nel senso hartiano, cioè di una norma di condotta che impone un obbligo,
ed è la reazione, più o meno istituzionalizzata, del gruppo sociale
rispettivamente all’osservanza o alla trasgressione della suddetta norma.
L’incoraggiamento o lo scoraggiamento sono un effetto derivato. Nel caso
dell’incentivo e del disincentivo, l’incoraggiamento o lo scoraggiamento
sono l’intenzione principale: né l’uno né l’altro presuppongono una norma
primaria. Cercando di esprimere lo stesso concetto con altre parole, il
premio è una risposta a un’azione buona; l’incentivo è un espediente per
ottenere un’azione buona. Così la pena è una risposta a un’azione cattiva; il
disincentivo è un espediente per impedire un’azione cattiva. Partendo dalla
definizione più comune di sanzione come risposta o reazione a un’azione
normativa (cioè ad un’azione o conforme o contraria a una norma),
soltanto il premio e la pena, in quanto risposte susseguenti ad un’azione
normativa precedente, appartengono propriamente alla categoria delle
sanzioni.
Mentre premio e pena, da un lato, e incentivo e disincentivo, dall’altro,
appartengono alla stessa categoria, se considerati dal punto di vista della
distinzione tra sanzione e non sanzione, appartengono alla stessa categoria
premio e incentivo, da un lato, pena e disincentivo, dall’altro, se
considerati dal punto di vista della distinzione tra le due funzioni
dell’incoraggiamento e dello scoraggiamento. In questo senso premio e
incentivo sono, come dicevo poc’anzi, le due forme tipiche attraverso cui
si manifesta la funzione promozionale del diritto. Soltanto una più attenta
rilevazione della loro frequenza e del loro modo di operare può far
avanzare l’analisi funzionale del diritto e promuovere quell’adeguamento
della teoria del diritto alle trasformazioni in corso negli ordinamenti
giuridici delle società economicamente più avanzate, che è da più parti
auspicato.

7. Se la crescente importanza dell’azione promozionale dello


stato metta in crisi la teoria kelseniana del diritto come
ordinamento coattivo
Non mi propongo in questa sede di svolgere ulteriormente il tema della
funzione promozionale del diritto nello stato contemporaneo. Il mio
interesse è per ora più limitato. Avendo preso le mosse dalla concezione
che Kelsen ha della funzione del diritto, cioè dalla teoria del diritto come
ordinamento coattivo, mi preme mostrare se e in quale misura questa
teoria venga messa in crisi dalla scoperta della funzione promozionale del
diritto.
Certamente, per chi sostiene, come sembra sostenere Kelsen, che la
tecnica specifica del diritto consiste nell’uso di sanzioni negative, il rilievo
che sempre più acquistano le sanzioni positive può costituire una smentita
molto seria. Si può peraltro controbattere che il riconoscimento
dell’importanza delle sanzioni positive, molto maggiore di quella che venga
ad esse attribuita dalle teorie tradizionali in generale e dalla teoria
kelseniana in ispecie, non toglie che le sanzioni ultime, cioè quelle che
entrano in funzione in ultima istanza, siano sempre e soltanto le sanzioni
negative. Effettivamente, mentre è concepibile un ordinamento che si
regga soltanto su sanzioni negative, sembra inconcepibile un ordinamento,
specie un ordinamento complesso com’è l’ordinamento di uno stato
moderno, che si regga soltanto su sanzioni positive. Consideriamo il caso
più semplice: consideriamo una norma secondaria (cioè rivolta ai pubblici
funzionari) che abbia la forma della norma giuridica kelseniana: «Se è A,
deve essere B», dove A non sia un illecito, cioè un comportamento non
desiderato, ma un atto dovuto, cioè un comportamento desiderato, e B
una sanzione positiva. Una norma di questo genere, in quanto norma
giuridica, crea nel destinatario della norma primaria una pretesa (diritto
soggettivo o interesse legittimo poco importa) verso la pubblica
amministrazione, e nella pubblica amministrazione, reciprocamente,
l’obbligo di consegnare il premio qualora la condizione prevista dalla
norma secondaria si sia verificata. È concepibile che quest’obbligo sia
rafforzato a sua volta non da una sanzione negativa, come potrebbe essere
una pena disciplinare per il funzionario o un risarcimento di danni da parte
della pubblica amministrazione, ma da una sanzione positiva? Volendo
lasciare sbrigliare la fantasia, si potrebbe anche immaginare una norma
terziaria che attribuisca un premio al funzionario che ha adempiuto al suo
obbligo di consegnare il premio: si tratterebbe di un ordinamento che
conta così poco sullo zelo dei suoi funzionari da provocare con ricompense
l’adempimento delle loro funzioni. Ma è sin troppo evidente che una
sanzione di questo genere, qualora fosse introdotta, sarebbe pur sempre
aggiuntiva e non certo sostitutiva di una sanzione negativa. È altrettanto
chiaro peraltro che ammettere la funzione primaria delle sanzioni negative,
pur nell’accrescersi delle sanzioni positive, non serve affatto a salvare la
specificità del diritto come tecnica sociale. Le sanzioni negative, come del
resto lo stesso Kelsen ammette, sono comuni ad altri ordinamenti sociali,
come quello religioso.
In realtà la soluzione che Kelsen dà al problema della specificità del
diritto dal punto di vista funzionale è più complessa: ciò che
contraddistingue il diritto come tecnica sociale non è tanto l’uso di
sanzioni negative quanto il fatto che queste sanzioni siano fatte valere di
fronte al recalcitrante anche ricorrendo alla forza, il che l’ordinamento
giuridico può fare, ed esso solo può fare (e proprio in questo sta il suo
carattere specifico), in quanto è l’organizzazione della forza, o più
precisamente l’insieme delle regole per l’uso delle risorse della forza
esistenti in una determinata società. Se si vuole mostrare l’insufficienza
dell’analisi funzionale kelseniana, occorre mettere in discussione
soprattutto questa tesi, e non quella relativa alla preminenza delle sanzioni
negative. Ora a me pare che proprio questa tesi venga messa in crisi dallo
spazio sempre maggiore che viene ad occupare in un certo tipo di stato
contemporaneo il diritto promozionale.
Non c’è bisogno di spendere molte parole per fare osservare che la
concezione del diritto come organizzazione della forza nasce dalla
riflessione sulla formazione dello stato moderno, tanto più poi quando si
aggiunga, come Kelsen aggiunge, che la forza di cui si tratta è la forza
monopolizzata. Attraverso questa concezione il diritto viene sempre più
identificato con l’ordinamento normativo statale, salvo poi a ritrovare
tracce di questo tipo di ordinamento anche in altri ordinamenti sociali,
come quello internazionale che viene assimilato a un ordinamento
giuridico nella misura in cui assomiglia o tende ad assomigliare
all’ordinamento statale. Ma oggi è ancora accettabile questa concezione
dello stato esclusivamente come organizzazione della forza? Con
l’estendersi degl’interventi dello stato nella sfera economica non è diventata
questa concezione insufficiente, non è una concezione minima o limitata
dello stato?
La forza è un mezzo per l’esercizio del potere, ma non è l’unico mezzo.
Gli altri due mezzi principali sono, in ogni società, grande o piccola, antica
o moderna, primitiva o evoluta, il possesso degli strumenti di produzione
(che dà origine al potere economico) e il possesso degli strumenti di
formazione delle idee (che dà origine al potere ideologico). Tralasciando il
potere ideologico che lo stato moderno ha per lungo tempo affidato alle
chiese (ma anche in questa sfera avanza a grandi passi un processo di
monopolizzazione, già giunto a compimento negli stati totalitari), e che
può avere un’influenza sul diritto non nel senso di mutarne la funzione
ma, al limite, di renderlo superfluo, e concentrando per ora la nostra
attenzione sul potere economico, appare sempre più evidente che lo stato
contemporaneo aumenta continuamente le risorse di cui può disporre per
esercitare questo tipo di potere (anche qui sino al limite della
monopolizzazione dei mezzi di produzione negli stati collettivisti). Le
risorse economiche non valgono meno delle risorse della forza per
condizionare i comportamenti degli individui, per ottenere quegli effetti
desiderati o per impedire quegli effetti indesiderati in cui si dice consista la
funzione del diritto. E lo stato contemporaneo se ne serve largamente,
tanto che una teoria che definisce il diritto come organizzazione del potere
economico avrebbe altrettanto diritto a essere presa in considerazione
quanto la teoria corrente che lo definisce come organizzazione del potere
coattivo, con l’unica riserva che, tranne che negli stati collettivisti,
l’organizzazione del potere economico è sinora meno accentrata
dell’organizzazione del potere coattivo (prendendo i termini di
accentramento e decentramento nel senso kelseniano).
Non intendo per ora spingermi tanto oltre su questa strada.
Nell’ambito di un’analisi come la presente, che vuol fare i conti con la
concezione funzionalistica del diritto nell’opera di Kelsen, importa
osservare che, mentre il potere coattivo viene abitualmente adoperato in
funzione repressiva, il potere economico può essere adoperato anche in
funzione promozionale, ovvero non per punire, ma per gratificare, per
contraccambiare non male per male, ma bene per bene. Da questo punto
di vista mi pare che chi si pone a rilevare la tendenza verso un
accrescimento del diritto promozionale si collochi in un osservatorio che
gli permette di cogliere un aspetto fondamentale della trasformazione
funzionale del diritto, e di percepire l’insufficienza della teoria tradizionale
la quale, essendosi lasciata attrarre dal fenomeno certamente più
macroscopico dell’organizzazione della forza, e non avendo posto
sufficiente attenzione a quello, non ancora così macroscopico,
dell’accresciuta organizzazione pubblica dell’economia, continua a vedere
il diritto nella sua funzione essenzialmente repressiva.

8. L’azione promozionale dello stato incide sul modo


d’intendere il diritto non dal punto di vista strutturale ma
dal punto di vista funzionale
Detto questo, occorre subito aggiungere che il riconoscimento
dell’importanza del diritto promozionale non è affatto incompatibile con la
considerazione strumentale del diritto, propria della teoria kelseniana: l’uso
di sanzioni positive, o comunque d’incentivi economici, altro non è che
una tecnica specifica di organizzazione sociale. Anche dopo aver rilevato
che il diritto non si limita a reprimere ma stimola o promuove, si può
continuare a dire, come dice Kelsen, che il diritto è un mezzo e non un
fine. Quand’anche si giunga a sostenere che il diritto è l’organizzazione
non soltanto del potere coattivo ma anche del potere economico, non si
esce fuori da un certo modo d’intendere la specificità del diritto, che
consiste appunto nel considerarlo una forma di «organizzazione sociale».
Ma a questo punto eccoci ricondotti di nuovo dall’analisi funzionale
all’analisi strutturale.
Si osservi bene: tutto quello che è stato detto sin qui sulla funzione
promozionale del diritto non inficia per nulla i risultati dell’analisi
strutturale kelseniana. Voglio dire che l’analisi strutturale dell’ordinamento
giuridico è in grado di assorbire senza troppo scompiglio i mutamenti
introdotti dall’analisi funzionale. Dal punto di vista strutturale le due teorie
principali del Kelsen sono, nella nomostatica, la teoria della norma
giuridica come giudizio ipotetico che collega condizione e conseguenza
mediante il nesso d’imputazione, nella nomodinamica, la teoria della
costruzione a gradi dell’ordinamento.
Orbene: si è già visto nel paragrafo precedente che la formula «Se è A,
deve essere B», vale tanto per le sanzioni negative quanto per le positive. E
del resto lo stesso Kelsen, quando esamina storicamente e
sociologicamente, come fa nell’opera Society and Nature, il principio della
retribuzione, non fa alcuna distinzione concettuale, come si è detto, tra il
contraccambio positivo (bene per bene) e il contraccambio negativo (male
per male). Dal punto di vista formale le due applicazioni del principio non
si distinguono tra loro. Quanto alla teoria della costruzione a gradi, per il
fatto stesso che considera il sistema normativo del diritto come un sistema
dinamico e non come un sistema statico, non è minimamente toccata da
rilevazioni che riguardino il contenuto o il fine del diritto. Per essa una
norma è giuridica quando sia stata prodotta nelle forme previste
dall’ordinamento, cioè da altre norme dell’ordinamento, in particolare da
quelle norme che regolano il modo con cui si producono le norme. Che
una norma miri a reprimere o a promuovere non ha, rispetto alla struttura
dell’ordinamento, alcuna rilevanza. Questo è un punto, a mio parere,
molto importante.
Ho parlato nelle prime righe di una svolta della teoria del diritto
derivata da Kelsen: questa svolta è consistita per l’appunto nella ricerca del
carattere specifico del diritto, non nella funzione né nel contenuto ma
nella struttura dell’ordinamento. Se pure con molta cautela, a causa
dell’uso e abuso del concetto di struttura nelle scienze umane di questi
ultimi anni, si può parlare di una svolta strutturalistica. Questa svolta non
ha cessato di produrre i suoi effetti. Mentre Kelsen non ha mai
abbandonato del tutto il punto di vista funzionale, anzi l’unica definizione
del diritto che si trova in Kelsen è di tipo funzionale, Hart, come abbiamo
visto, ha portato alle estreme conseguenze l’approccio strutturale,
giungendo a definire il diritto non come una tecnica specifica ma come
una struttura specifica. Questo modo d’intendere il diritto è una risposta
non alla domanda: «Qual è la funzione del diritto?», ma a quest’altra: «Che
tipo di organizzazione è?».
Se il riconoscimento dell’importanza del diritto promozionale può
avere qualche effetto, non è tanto rispetto all’approccio strutturale del
diritto quanto piuttosto all’approccio funzionale. Mentre dal punto di vista
strutturale il diritto può continuare a essere definito, anche dopo la
rilevazione del diritto promozionale, come norma ipotetica (sul piano della
nomostatica) e come ordinamento a gradi (sul piano della nomodinamica),
dal punto di vista funzionale, una volta individuata la categoria del diritto
promozionale, non può essere più definito come una forma di controllo
sociale. Il concetto di controllo è perfettamente adeguato se si continua a
considerare il diritto nella sua funzione tradizionale di protezione-
repressione. Diventa, a mio parere, meno adeguato se si tiene conto anche
della funzione promozionale. La funzione di un ordinamento giuridico
non è solo quella di controllare i comportamenti degli individui, il che può
essere ottenuto attraverso la tecnica delle sanzioni negative, ma anche
quella di dirigere i comportamenti verso certi obiettivi prestabiliti. Il che
può essere ottenuto preferibilmente attraverso la tecnica delle sanzioni
positive e degli incentivi. La concezione tradizionale del diritto come
ordinamento coattivo si dice sia fondata sul presupposto dell’uomo
malvagio, le cui tendenze antisociali debbono appunto essere controllate.
Si può dire che la considerazione del diritto come ordinamento direttivo
parta dal presupposto dell’uomo inerte, passivo, indifferente, che deve
essere stimolato, provocato, sollecitato. Credo quindi che oggi sia più
corretto definire il diritto, dal punto di vista funzionale, come forma di
controllo e di direzione sociale28.

Note
1 L’insufficienza dell’approccio funzionalistico nelle più correnti teorie del diritto è rilevata da B.
Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement juridique. Actes du Congrès mondial de
philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3 settembre 1971, Nauwelaerts,
Louvain 1971, pp. 77-83. Ma non si capisce perché l’autore chiami l’approccio tradizionale una
forma di «scholasticism».
2 Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke, Wien 1934, p.

33. Citato d’ora innanzi come RRL1.


3 RRL1, p. 17.
4 General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, p. 21. Citato d’ora
innanzi come GTLS.
5 GTLS, p. 21.
6 GTLS, p. 23.
7 Reine Rechtslehre, F. Deuticke, Wien 1960, p. 40. Citato d’ora innanzi come RRL2.
8 RRL2, p. 40.
9 RRL1, p. 25.
10 GTLS, p. 18.
11 In questo stesso volume, pp. 3-20, 21-30.
12 RRL2, p. 120.
13 GTLS, p. 50.
14 GTLS, p. 18.
15 GTLS, p. 15.
16 GTLS, p. 17. Cfr. anche RRL2, p. 31.
17 RRL2, p. 31.
18 RRL2, p. 26.
19 Society and Nature. A Sociological Inquiry, Kegan Paul, London 1946, p. 60.
20 GTLS, p. 18.
21 R. von Jhering, Der Zweck im Recht, Breitkopf und Härtel, Leipzig 18842, p. 97. Il corsivo è
mio. Per il rapporto tra sfera economica e intervento legislativo cfr. pp. 136 sgg. Nella già citata trad.
it., il brano citato nel testo si trova a p. 82.
22 RRL2, p. 35.
23 Der Zweck im Recht, cit., p. 183. Nella trad. it., p. 141.
24 RRL2, p. 35.
25 RRL1, p. 80. Cfr. anche RRL2, p. 268.
26 GTLS, p. 279.
27 RRL1, p. 114. Cfr. anche RRL2, p. 287.
28 Mi pare molto significativo che nelle nuove tendenze della teoria giuridica sovietica il diritto
venga compreso nel più vasto ambito della «scienza della direzione sociale», e che questa
considerazione del diritto come strumento di direzione sociale vada di pari passo con la critica, o per
lo meno con la sottovalutazione, della sua funzione coattiva. Cfr. U. Cerroni, Il pensiero giuridico
sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 241 sgg. Sulla scienza della direzione sociale cfr. anche
M.G. Losano, Giuscibernetica, Einaudi, Torino 1969, pp. 119 sgg.
V. L’analisi funzionale del diritto: tendenze e
problemi

1. Crescente importanza dell’analisi funzionale del diritto


Quando nel 1971 scrissi l’articolo intitolato Verso una teoria
funzionalistica del diritto1 per dimostrare quanto fosse prevalso sino allora
nella teoria generale del diritto il punto di vista strutturale su quello
funzionale e per indicare una linea di tendenza contraria, ormai evidente,
dallo strutturalismo al funzionalismo, non immaginavo la rapidità e
l’intensità con cui questa tendenza si sarebbe sviluppata. Nel 1970 era
uscito (ma quando scrissi l’articolo lo ignoravo) il primo volume dello
«Jahrbuch für Rechtssoziologie und Rechtstheorie», a cura di Werner
Maihofer e Helmut Schelsky, dedicato tutto intero significativamente a
Die Funktion des Rechts in der modernen Gesellschaft, con alcuni articoli
fondamentali sul tema2. Nel 1973 il Congresso internazionale di filosofia
del diritto svoltosi a Madrid fu interamente rivolto alla discussione del
tema «La funzione del diritto», su cui furono lette circa un centinaio di
relazioni e comunicazioni3. In questi anni sono apparsi numerosi articoli
sul tema nelle più diverse riviste4. Nel 1972 è uscita la Rechtssoziologie di
Niklas Luhmann, opera in cui la natura specifica del diritto viene cercata
attraverso la determinazione della sua funzione sociale5.
Sembra fuori di ogni dubbio che l’interesse per il problema della
funzione del diritto sia da collegarsi all’espandersi della sociologia del
diritto anche nelle roccaforti del formalismo quali sono sempre state le
facoltà di giurisprudenza in quasi tutti i paesi del continente europeo. Non
è un caso se la «funzione del diritto nella società moderna» sia stato il tema
scelto dallo «Jahrbuch» citato per il suo primo volume. Non credo vi sia
bisogno d’insistere sul nesso strettissimo fra teoria strutturale del diritto e
punto di vista giuridico, da un lato, e teoria funzionale del diritto e punto
di vista sociologico, dall’altro: basti pensare all’espulsione del punto di vista
sociologico nella teoria pura del diritto di Kelsen, che è la quintessenza del
formalismo giuridico, e all’importanza che hanno avuto le ricerche
antropologiche, in quanto ricerche globali su società meno complesse delle
società moderne, per rimettere in onore il problema della funzione o delle
funzioni del diritto. Con questo non voglio affatto dire che una teoria
sociologica del diritto si risolva tutta quanta nello studio della funzione del
diritto. Chi è tanto avanti negli anni da aver assistito a un precedente
scontro fra teoria sociologica o istituzionale, come si diceva allora, del
diritto e teoria normativa, accolta per lo più dai giuristi, ed è quindi
immunizzato dalla presunzione del nuovo che scaccia il vecchio, perché sa
che il nuovo diventerà presto vecchio e il vecchio ridiventerà nuovo,
ricorda che la ragione del contendere non era allora tanto il contrasto fra
strutturalismo e funzionalismo quanto fra monismo e pluralismo. Per
teoria sociologica del diritto s’intendeva allora una teoria che vedeva nel
diritto una produzione della società in tutte le sue forme e non soltanto
dello stato, e che quindi aveva una diretta incidenza sul problema delle
fonti. Teoria sociologica del diritto era sinonimo, almeno in Italia (ma
anche in Francia, se si pensa alla teoria dell’istituzione di Renard, alla teoria
del diritto sociale di Gurvitch, che poi doveva diventare uno dei maggiori
rappresentanti della rinascita della sociologia giuridica), di teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici. Mentre il bersaglio delle teorie
sociologiche del diritto oggi è il formalismo, il bersaglio delle teorie
sociologiche di ieri era lo statalismo. Storicamente il pluralismo giuridico,
di cui il Gurvitch fu il più fervido fautore, era stato una delle tante
manifestazioni della falsa credenza, comune tanto ai liberali radicali quanto
ai socialisti libertari, che lo sviluppo della società industriale avrebbe avuto
per effetto una diminuzione delle funzioni dello stato, una sorta di
riassorbimento dello stato nella società civile. Ciò che è avvenuto è invece
proprio il contrario. Per chi voglia considerare il diritto come fenomeno
sociale, il problema del pluralismo ha perduto gran parte del suo interesse.
Essendo enormemente aumentate le funzioni dello stato nel passaggio
dallo stato liberale allo stato sociale, il problema fondamentale per una
teoria sociologica del diritto, cioè per una teoria che consideri il diritto
come un sotto-sistema del sistema sociale generale, è il problema di
verificare se non siano aumentate e mutate parallelamente le funzioni del
diritto, e s’intende del diritto statale, il che spiega l’improvvisa emergenza e
la rapida diffusione della prospettiva funzionalistica.
Oltre che allo sviluppo dell’antropologia e della sociologia del diritto, la
prospettiva funzionalistica del diritto deve una parte della sua attuale
fortuna al peso sempre maggiore del marxismo, dei vari marxismi, nelle
scienze sociali. Non confondo il marxismo col funzionalismo6.
Semplicemente richiamo l’attenzione sul fatto che ciò che Marx ed Engels
avevano aggiunto alla definizione tradizionale del diritto come
ordinamento coattivo era la determinazione della sua funzione, il dominio
di classe. Fra le teorie generali del diritto oggi correnti quelle più insistenti
sulla «funzione sociale» del diritto sono le teorie sovietiche e dei giuristi dei
paesi socialisti. Nella sua Théorie de l’état et du droit, che si può considerare
come una delle maggiori summae della concezione marxista del diritto e
dello stato oggi disponibili in una lingua più accessibile, Radomir Lukić
inizia la trattazione della parte generale con un capitolo intitolato La
fonction sociale de l’état et du droit, dove si legge che il diritto, in quanto
ordinamento del monopolio della forza, trova il suo carattere specifico nel
fatto che esso adempie alla funzione sociale di proteggere espressamente
l’interesse della classe dominante attraverso il mantenimento coatto di un
certo modo di produzione7. La differenza fra la definizione del diritto di
Kelsen e quella di Lukić salta agli occhi: anche per Kelsen il diritto è
ordinamento coattivo, ma è non altro che ordinamento coattivo. Quale sia
la «funzione sociale» di questo ordinamento coattivo al Kelsen non
interessa, perché al di là dell’obiettivo generico della pace o dell’ordine o,
nei rapporti internazionali, della sicurezza collettiva, attraverso questo
particolare strumento che è il diritto, attraverso questa «tecnica
dell’organizzazione sociale», possono essere perseguiti e conseguiti gli
obiettivi più diversi. Il diritto per Kelsen è uno strumento specifico che
non ha una funzione specifica, nel senso che la sua specificità consiste non
nella funzione ma nell’essere uno strumento disponibile per le più diverse
funzioni8. Al contrario per Lukić, e in genere per i giuristi marxisti, e in
particolare per quella folta se non compatta schiera di giuristi marxisti che
sono i giuristi sovietici, la specificità del diritto sta non nell’essere un
ordinamento coattivo ma nella funzione specifica che ha questo
ordinamento coattivo e che solo l’ordinamento coattivo può avere, in
quanto solo l’ordinamento della forza monopolizzata, in cui consiste lo
strumento «diritto», è in grado di assicurare alla classe dominante il suo
dominio.

2. Ragioni dello scarso interesse passato e del nascente


interesse per l’analisi funzionale del diritto
Ho ragione di ritenere che lo scarso interesse per il problema della
funzione sociale del diritto nella teoria generale del diritto dominante sino
ai giorni nostri sia da collegarsi proprio al rilievo che i grandi teorici del
diritto da Jhering a Kelsen hanno dato al diritto come strumento specifico,
la cui specificità non deriva dai fini cui serve ma dal modo con cui i fini,
quali che siano, vengono perseguiti e raggiunti. È ben noto che una delle
affermazioni ricorrenti, sino a diventar tipiche, di Kelsen è che la dottrina
pura del diritto «non considera lo scopo che viene perseguito e raggiunto
dall’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico;
e considera questo ordinamento nell’autonomia della sua struttura e non
già relativamente a questo suo scopo»9. Kelsen poteva fare questa
affermazione perché riteneva di aver trovato l’elemento caratteristico del
diritto nella struttura dell’ordinamento giuridico in quanto sistema
dinamico, e non aveva bisogno dello scopo per la sua definizione. Meno
noto che negli stessi anni un altro appassionato ma sfortunato autore della
«science juridique pure», Ernest Roguin, diceva con accanimento su per
giù le stesse cose10. Risalendo più indietro, anche Jhering, nonostante il
titolo della sua grande opera, Lo scopo nel diritto, concentrava tutta
l’attenzione non sul fine ma sullo strumento, cioè sulla coazione e sulla
organizzazione di essa. Postosi di fronte alla domanda quale fosse lo scopo
nel diritto dava una risposta generica, e cioè che il diritto serviva a garantire
«le condizioni di esistenza della società»11, le quali condizioni di esistenza
erano poi tutto e niente, comprendendo non solo le condizioni
dell’esistenza fisica, ma «anche tutti quegli altri beni e godimenti che...
attribuiscono alla vita il suo vero valore»12. Che una risposta così generica e
per di più scontata non potesse dare alcun aiuto alla determinazione della
nota specifica del diritto, ci sembra del tutto evidente. Non diverso è
sempre stato l’atteggiamento dei teorici dello stato di fronte al problema
della definizione dello stato: i quali non hanno mai ammesso i fini che lo
stato persegue tra i cosiddetti elementi costitutivi dello stato, essendo loro
sufficienti per caratterizzare questa massima organizzazione della
convivenza umana alcuni caratteri materiali e formali. Basti ricordare Max
Weber. Dopo aver definito lo stato attraverso il «mezzo» che esso impiega
per ottenere i propri fini, l’uso della forza, afferma: «Non è possibile
definire un gruppo politico – e neppure uno stato – indicando lo scopo del
suo agire di gruppo. Non c’è nessuno scopo che gruppi politici non si
siano talvolta proposti, dallo sforzo di provvedere il sostentamento alla
protezione dell’arte; e non c’è nessuno che tutti abbiano perseguito, dalla
garanzia della sicurezza personale alla determinazione del diritto»13. Questo
parallelismo fra teoria del diritto e teoria dello stato con il pertinente
richiamo a Max Weber, che non era un giurista puro bensì prima di tutto
un sociologo e uno storico, può servire per offrire una spiegazione del
diffuso e persistente antiteleologismo nella teoria del diritto, comune ai
giuristi e ai sociologi. Via via che lo stato moderno assumeva il monopolio
della produzione giuridica e di conseguenza stato e diritto venivano
vieppiù considerati come due facce della stessa medaglia, il fenomeno
storicamente rilevante per comprendere il diritto diventava la sua
trasformazione in strumento del potere statale attraverso la formazione
dello stato-apparato (il potere legale-razionale di Max Weber), ed era un
fenomeno che induceva a concentrare l’attenzione sui problemi
dell’organizzazione complessa dello strumento piuttosto che su problemi
di ordine assiologico o sociologico, considerati gli uni disturbanti (e forse
anche irrilevanti), gli altri irrilevanti (e forse anche disturbanti). Non
bisogna dimenticare che dalla considerazione dello stato moderno come
grande organizzazione è nata la teoria del diritto come insieme ordinato o
organizzato di norme, la teoria del diritto come ordinamento, che si
ritrova, se pur sotto diverse spoglie, ma facilmente riconoscibili, tanto in
Max Weber quanto in Kelsen14.
Mi sembra che una delle ragioni del disinteresse dei teorici del diritto
per il problema della funzione stesse proprio nella sua presunta irrilevanza.
Alla considerazione che il diritto fosse caratterizzato dall’essere uno
strumento specifico che doveva servire allo svolgimento di più funzioni, si
aggiungeva anche la considerazione che le stesse funzioni erano svolte in
diverse società, ma anche nella stessa società, con altri mezzi, e che
pertanto, mentre era legittimo parlare rispetto al diritto di alternative
funzionali, non sarebbe stato altrettanto legittimo parlare di alternative
strumentali. In sostanza il rapporto fra lo strumento e i suoi possibili usi
non era univoco: lo stesso strumento poteva essere usato per fini diversi,
così come ciascuno di questi fini poteva essere ottenuto ricorrendo anche a
strumenti diversi dal diritto (cioè dal ricorso all’ordinamento della forza
monopolizzata). Questa irrilevanza del problema della funzione faceva sì
che si desse per ammesso: a) che il diritto avesse una o più funzioni; b) che
avesse una funzione positiva (una eu-funzione); c) quale o quali funzioni
avesse; d) come l’esercitasse. Chi voglia ora darsi una ragione dell’interesse
attuale della teoria giuridica per lo studio della funzione o delle funzioni
del diritto ritengo debba andare a cercarla proprio nel fatto che tutte e
quattro quelle verità tramandate, consolidate e accettate come indiscutibili
o non degne di discussione sono al centro di un ampio e tutt’altro che
esaurito dibattito.

3. La perdita di funzione del diritto nella società industriale


Sub a: si tratta soltanto di avvisaglie. Ma è un fatto che una delle
caratteristiche della società tecnocratica, quale si viene ipotizzando come
sviluppo fatale anche se deprecato della società industriale, dovrebbe essere
la perdita di funzione del diritto, il realizzarsi di un processo, mi sia
permessa questa barbara ma sbrigativa parola, di degiuridificazione. Questa
ipotesi, almeno a livello teorico, non è nemmeno senza precedenti: non ho
bisogno di ricordare la polemica di Saint-Simon, uno dei pensatori più
«rivisitati» in questi anni, perché ad esso si fa risalire la prima teoria della
società tecnocratica, contro i legisti15. Non è invece inutile ricordare
quanti aspetti di società tecnocratica vi siano in certe immagini della
società senza diritto (e senza stato) che dovrebbe seguire secondo il
marxismo alla dittatura del proletariato: l’amministrazione delle cose
sostituita all’amministrazione degli uomini, secondo il detto di Engels,
implica che una società di uomini possa funzionare senza bisogno di regole
giuridiche ma col solo sussidio di regole tecniche, che sono, com’è noto, a
differenza delle regole giuridiche, regole senza sanzione, perché la
sanzione, se ancora si può chiamare così, cioè la conseguenza spiacevole
che induce all’osservanza, deriva dalla stessa inosservanza, e quindi non
richiede quell’apparato di norme secondarie rivolte al giudice per
l’applicazione delle norme primarie in cui consiste una delle caratteristiche
considerate per communis opinio fondamentali del diritto come «strumento».
Tralasciando queste ipotesi, che ci fanno vagare e smarrire nei regni del
futuribile, sono da notare nelle società tecnicamente avanzate almeno due
tendenze che possono suscitare qualche non inutile riflessione sulla perdita
di funzione del diritto, e intendo del diritto in quella delle sue funzioni che
gli è sempre stata attribuita tanto da essere spesso considerata come l’unica
ed esclusiva, la funzione repressiva. Queste due tendenze sono:
l’accresciuta potenza dei mezzi di socializzazione, e in genere di
condizionamento del comportamento collettivo attraverso le
comunicazioni di massa, e il prevedibile aumento dei mezzi di prevenzione
sociale rispetto a quelli tradizionali di repressione. L’integrazione sociale
conta soprattutto su due strumenti di controllo (che si sogliono riferire a
due forme più o meno istituzionalizzate di potere esistenti in ogni società,
il potere ideologico e il potere politico): la socializzazione, cioè il
procacciamento dell’adesione a valori stabiliti e comuni, e l’imposizione di
comportamenti considerati rilevanti per l’unità sociale con la conseguente
repressione di quelli devianti, che sono poi il consenso e la forza di tutte le
teorie politiche tradizionali. Si può fare l’ipotesi che via via si accresca la
potenza dei mezzi di condizionamento psicologico, dei mezzi del consenso
(non importa se manipolato), diminuisca il fabbisogno dei mezzi coercitivi,
cioè del diritto. Al limite una società senza diritto non è soltanto il regno
della libertà ipotizzato da Marx ma anche quella in cui tutti i suoi membri
sono condizionati dalla manipolazione ideologica, ipotizzata da Orwell. Il
diritto è necessario dove gli uomini sono, come accade nelle società
storiche, né tutti liberi né tutti conformisti, in una società cioè dove gli
uomini hanno bisogno di norme e pertanto non sono liberi e non riescono
sempre ad osservarle e pertanto non sono conformisti. Non occorre
neppure inseguire questa ipotesi per rendersi conto che socializzazione e
controllo dei comportamenti sono due mezzi alternativi e che là dove si
estende il primo tende a restringersi il secondo: da un punto di vista di
un’analisi funzionale ciò significa che l’aumento dei mezzi di
socializzazione e di condizionamento psicologico, e della loro efficacia, va a
scapito della funzione tradizionalmente esercitata dai mezzi di coazione.
L’altro fenomeno che potrebbe avere una influenza sulla estenuazione e, al
limite, sul deperimento del diritto è quello che si esprime nella tendenza,
anch’essa propria di una società tecnicamente avanzata, dalla repressione
alla prevenzione. Al pari della medicina, almeno così com’è stata intesa
sinora, il diritto non ha la funzione di prevenire le malattie sociali bensì
quella di curarle (non sempre di guarirle) quando sono scoppiate. Fra le
funzioni che vengono più frequentemente attribuite al diritto vi sono
quella della repressione dei comportamenti devianti (diritto penale) e
quella della risoluzione dei conflitti d’interesse (diritto civile). Entrambe
sono manifestamente funzioni terapeutiche. Il confronto con la medicina è
interessante perché oggi lo sviluppo di questa è tutto rivolto nel senso di
impedire che le malattie avvengano piuttosto che nel senso di curarle
quando sono avvenute. Al limite (s’intende che si tratta di un limite ideale,
che serve solo a indicare una linea di tendenza) una società in cui la scienza
medica abbia sviluppato tutte le sue potenzialità nel rimuovere le cause
delle malattie è una società senza ospedali così come una società in cui le
scienze sociali, dalla psicologia alla pedagogia, siano riuscite a rimuovere le
cause dei conflitti sarebbe una società senza prigioni. Lungo questa linea di
tendenza, senza bisogno di condurla sino al limite estremo, il diritto
verrebbe a perdere la funzione che gli è sempre stata riconosciuta come
caratterizzante, che è la funzione repressiva: beninteso, siccome gli
organismi sociali che dovrebbero svolgere la funzione sostitutiva sarebbero
anch’essi regolati dal diritto, sarebbe più proprio in questo caso parlare di
perdita non del diritto tout court, ma del diritto nella sua funzione
repressiva, che non è l’unica anche se è quella considerata a torto esclusiva,
attraverso il passaggio del resto già in atto da un diritto composto
principalmente di norme di condotta a un diritto composto quasi
esclusivamente di norme di organizzazione.
L’importanza dell’emergere di queste tendenze verso una perdita di
funzione del diritto, o per lo meno dell’immagine tradizionale del diritto,
sta anche nel fatto che esse vanno all’incontro di una tradizione secolare,
che ha consacrato il diritto (ancora in Hegel il diritto è alcunché di sacro)
come elemento essenziale della formazione della società civile in
contrapposto allo stato di natura che, essendo uno stato senza diritto, è uno
stato che non permette la sopravvivenza degli uomini; ha esaltato il saggio
legislatore dai greci sino a Rousseau come il creatore della città felice, il
demiurgo che crea l’ordine dal caos, il vero datore di civiltà; ha creduto di
poter cogliere nelle leggi, e nello spirito che le anima, i caratteri che
distinguono le nazioni le une dalle altre, e nelle diverse costituzioni, cioè
nel diverso modo con cui è regolata la distribuzione delle magistrature, da
Aristotele a Hegel, il criterio più visibile per distinguere il buon governo
dal cattivo governo, il progresso dalla decadenza, la barbarie dalla civiltà, o
per contrassegnare in tappe necessarie il corso progressivo della storia.

4. Funzione positiva, funzione negativa, disfunzione del


diritto
Sub b: che il diritto abbia una funzione implica anche che abbia una
funzione positiva? So bene che toccando questo problema attraverso il
capo delle tempeste del funzionalismo, uno dei cui postulati è, o sembra
essere, che, posto che un’istituzione abbia una funzione, questa non può
essere che positiva. Ma altro è il funzionalismo, che è una teoria globale
della società, e di cui qui non mi occupo; altro è l’analisi funzionale di un
istituto la quale può benissimo prescindere da quella sorta di filosofia
sociale che è il funzionalismo, e che non è affatto incompatibile con
un’analisi critica dell’istituto, fondata proprio sulla maggiore o minore
utilità sociale della funzione che quell’istituto svolge. Mentre l’analisi
funzionale può ignorare il funzionalismo, una teoria critica della società,
con il che intendo una qualsiasi teoria che si ponga il problema non
soltanto di vedere come una società funziona ma anche come non
funziona o come dovrebbe funzionare, non può ignorare l’analisi
funzionale, perché la critica di un istituto comincia proprio dalla critica
della sua funzione, cioè dalla considerazione della sua eventuale funzione
«negativa». (Si pensi quanto debba la critica socialistica della società
borghese alla critica della funzione sociale della proprietà individuale, o
della famiglia fondata sulla patria potestà, ecc.) Va da sé che non si deve
confondere la funzione negativa con la perdita di funzione, cui ho già
accennato, e neppure con la disfunzione, che si verifica quando un istituto
adempie male alla sua funzione positiva. La disfunzione appartiene alla
patologia della funzione, la funzione negativa alla fisiologia (siccome tutta
l’analisi funzionale è connessa a una concezione organicistica della società,
le metafore tratte dal comportamento del corpo umano sono inevitabili).
La disfunzione ha riguardo al funzionamento di un determinato istituto; la
funzione negativa alla sua funzionalità. Un istituto a funzionalità positiva
può funzionare male senza che per questo la sua funzione diventi negativa,
così come un istituto a funzionalità negativa può funzionare bene senza
che la sua funzione diventi positiva. Si può anche ammettere in via
d’ipotesi che una disfunzione durata a lungo trasformi una funzione
positiva in negativa, ma ciò non toglie la distinzione dei due concetti e la
necessità di tenerli distinti. Posso non aver dubbi sulla funzione positiva
del parlamento, ma constatare in una data situazione storica il suo cattivo
funzionamento che può consistere in un’alterazione, o perversione, o
corruzione di qualcuna delle sue funzioni (come quella del controllo del
bilancio); le critiche che nel nostro paese vengono rivolte quotidianamente
all’ordinamento giudiziario non mettono in dubbio la positività della sua
funzione, ma si limitano a metterne in rilievo i difetti di funzionamento.
Al contrario, il dibattito sempre più acceso in questi ultimi anni sul sistema
carcerario nel suo insieme, tende non soltanto a metterne in questione le
disfunzioni ma a contestarne la funzione, cioè a mostrarne la funzione
negativa, che consisterebbe nel fatto che il risultato che esso ottiene è il
contrario di quello che istituzionalmente si propone (il carcere come
scuola del delitto). Oltretutto, la funzione negativa è tanto più evidente
quanto più l’istituto in questione funziona bene, tanto che, mentre si suole
auspicare che un istituto cui si attribuisce una funzione positiva funzioni
bene, ci si dovrebbe rallegrare che un istituto cui si attribuisce una
funzione negativa funzioni male, perché è lecito sperare che la disfunzione
attenui la negatività della funzione.
Venendo al diritto nel suo complesso, quando si dice che il diritto ha
una funzione sociale, e si cerca di definirla, si vuol dire che esso ha una
funzione positiva? Da un punto di vista funzionalistico la risposta non può
essere dubbia: per un funzionalista non vi possono essere funzioni
negative. Il funzionalismo è una concezione della società per cui potrebbe
valere una massima costruita ad analogia della celebre massima hegeliana:
ciò che è funzionale è reale e ciò che è reale è funzionale. Il funzionalista
non conosce funzioni negative, conosce soltanto disfunzioni (e semmai
funzioni latenti oltre quelle manifeste), cioè difetti che possono essere
corretti nell’ambito del sistema, mentre la funzione negativa richiede il
cambiamento del sistema. Per di più, in una concezione in cui le varie parti
di un sistema sociale sono considerate in funzione del tutto, il diritto ha
non soltanto una funzione positiva, ma ha una funzione positiva primaria,
in quanto esso è lo strumento di conservazione per eccellenza, è il
sottosistema da cui dipende in ultima istanza l’integrazione del sistema,
l’estrema barriera oltre la quale c’è la inevitabile disgregazione del sistema.
Nessuna meraviglia che nella teoria parsonsiana e in quella dei suoi
commentatori e seguaci il diritto abbia trovato il suo posto giusto senza
forzature. Ma la risposta alla domanda sulla positività della funzione del
diritto può essere totalmente diversa se ci si pone dal punto di vista non
della conservazione ma del mutamento, o addirittura del mutamento
radicale o rivoluzionario che è il punto di vista di ogni teoria critica della
società. Qual è il rapporto del diritto col mutamento sociale? Niun dubbio
che la funzione del diritto sia non soltanto quella di mantenere l’ordine
costituito ma anche di mutarlo adattandolo ai mutamenti sociali, tanto è
vero che ogni ordinamento giuridico prevede alcune procedure destinate a
regolare la produzione di norme nuove da sostituire alle vecchie. Ma come
adempie a questa funzione? È il diritto lo strumento adatto a riformare, a
trasformare, la società? Quali sono le ragioni per cui il diritto è sempre
stato considerato più un mezzo di conservazione che di innovazione
sociale? e il ceto dei giuristi più un ceto di conservatori che di riformatori?
Una risposta a queste domande non potrà per avventura mettere in risalto
che il diritto ha accanto a una funzione positiva anche una funzione
negativa che, si badi, è intrinseca alla sua stessa natura, e che comunque
non può restare inosservata a un’analisi funzionale corretta? Basti accennare
ad alcuni temi. Non è vero che il diritto arrivi sempre in ritardo e sia di
ostacolo al mutamento; talvolta arriva in anticipo e allora può essere un
elemento di disfacimento di un tessuto sociale tradizionale, e quindi di
mutamento improvviso. In entrambi i casi esercita una funzione negativa.
Il diritto opera generalmente attraverso norme generali ed astratte, che mal
si adattano alla complessità delle situazioni concrete e creano
diseguaglianza fra eguali ed eguaglianza fra diseguali: per quanto il giudice
abbia le migliori intenzioni di rendere giustizia, il fine è spesso reso
impossibile dalla struttura stessa delle norme giuridiche. Ciò che il diritto
riesce ad ottenere nei riguardi sia della conservazione sia del mutamento lo
ottiene attraverso il buon funzionamento dell’apparato coattivo; ma,
appoggiandosi alla forza, il diritto contribuisce a perpetuare un tipo di
società fondato su rapporti di forza: è la più perfetta immagine della
violenza delle istituzioni o della violenza istituzionalizzata, cioè di una
violenza la cui giustificazione sta nel presentarsi come unica risposta
adeguata alla violenza eversiva (ma la violenza eversiva è sempre ingiusta?).

5. La funzione distributiva del diritto


Sub c: mi richiamo per brevità alle notazioni di J.F. Glastra van Loon
nel capitolo conclusivo di una nota rassegna della sociologia del diritto
contemporanea16. Questi parla di una funzione distributiva del diritto da
aggiungersi a quelle comunemente considerate di regolazione e di
controllo, intendendo per funzione distributiva quella attraverso la quale
coloro che dispongono dello strumento giuridico assegnano ai membri del
gruppo sociale, siano essi individui o gruppi d’interesse, le risorse
economiche e non economiche di cui dispongono. Altrove egli dice che,
oltre alla funzione del mantenimento dell’ordine e della pace sociale, il
diritto ha tra le sue funzioni «la distribuzione delle possibilità per la
modificazione di un ordinamento esistente e per l’esercizio dell’influenza
su certe decisioni governative in quanto le funzioni stesse includono la
distribuzione dei beni di consumo, delle imposte, delle possibilità
d’impiego, dell’educazione, delle chances matrimoniali e via dicendo»17. La
notazione non è nuova. Uno degli autori da cui si dovrebbe partire è forse
James Willard Hurst, recentemente ricordato proprio a proposito del
mutamento funzionale del diritto da Vilhelm Aubert18. Hurst ha dedicato
varie pagine delle sue opere al problema delle funzioni esercitate dal diritto
negli Stati Uniti, e ha riconosciuto come una delle principali funzioni
esercitate dal diritto quella del leverage and support, cioè, come traduce il
giovane studioso italiano che mi ha introdotto alla conoscenza dello storico
del diritto americano, «impulso e sostegno»19. In altra opera Hurst
considera quattro funzioni del diritto: la quarta è descritta come «its [del
diritto] regular use to allocate resources to affect conditions of life in
society»20, e altrove, sempre in quarta posizione: «We used law as a
principal means to affect allocations of manpower and material means
among competing objects of use»21. È soprattutto su questo tema della
allocation delle risorse come funzione del diritto che ha richiamato
l’attenzione Aubert, citando fra l’altro una frase di Hurst in cui questi aveva
affermato che l’effetto più vasto del diritto sull’industria del latte era stato
«promotional rather than restrictive»22, e ricavandone uno spunto per
criticare il modello ristretto, e pur corrispondente alla communis opinio, del
diritto come strumento di coercizione, ispirato al diritto penale. Dopo aver
osservato che un grande numero di leggi servono principalmente alla
costituzione di pubbliche istituzioni destinate a distribuire beni, denaro e
servizi, Aubert commenta: «Sarebbe scorretto cercare d’interpretare la
funzione sociale di tali leggi entro lo schema del modello del diritto
coercitivo penale». Infine parla di una duplice natura del diritto, in quanto
compulsion e in quanto resource23. Che il termine generico di resource sia il
termine più adatto per indicare l’importanza che ha assunto nello stato
sociale contemporaneo la funzione non meramente coercitiva del diritto,
non sono del tutto sicuro. Ma è già di per se stesso importante il
riconoscimento di un insieme di nuove funzioni che mutano un’immagine
tramandata da secoli ed ora assolutamente inadeguata.
A dire il vero, non solo non sono nuove queste notazioni ma non è
nuova neppure la cosa. In ogni gruppo sociale, a cominciare dalla famiglia,
la funzione del sistema normativo che la regge non è soltanto quella di
prevenire e reprimere i comportamenti devianti o di impedire il sorgere di
conflitti e di facilitarne la composizione dopoché sono sorti, ma anche
quella di ripartire le risorse disponibili. C’è solo da domandarsi perché
tradizionalmente questa funzione non sia stata così chiaramente rilevata e
perché chi la rileva ora abbia l’aria di fare una scoperta. È sorprendente
quanto peso abbia avuto nella determinazione comune del concetto del
diritto la concezione privatistica dell’economia e la corrispondente
concezione negativa dello stato. In base alla concezione privatistica
dell’economia, la distribuzione dei beni avviene nella sfera dei rapporti fra
individui o gruppi in concorrenza fra loro, e il diritto (sotto specie di
diritto privato) ha unicamente la funzione di facilitare lo stabilimento di
questi rapporti, di garantirne la continuità e la sicurezza, e d’impedire la
sopraffazione reciproca. Strettamente connessa alla concezione privatistica
del diritto è la concezione negativa dello stato secondo cui lo stato non ha
ingerenza alcuna nei rapporti economici e pertanto la sua funzione diventa
esclusivamente quella di provvedere attraverso norme imperative e
coattive, cioè attraverso il diritto, al mantenimento dell’ordine: e poiché
questa è la funzione specifica del diritto penale, ne segue che la parte viene
scambiata con il tutto. Una riprova, a mio parere decisiva, della diffusione
e della continuità di questa concezione restrittiva del diritto, è data dal fatto
che per lunga tradizione chiunque si sia accinto a fissare i caratteri
differenziali del diritto ha posto il diritto in rapporto con la morale (non
con l’economia), mostrando in tal modo di considerare tanto il diritto
quanto la morale come due specie dello stesso genere, cioè delle norme di
condotta che hanno precipuamente la funzione di garantire la stabilità e la
sicurezza dei rapporti interindividuali. Come questa concezione limitativa
del diritto si sia formata non è neppure difficile da spiegare: il diritto alla
cui elaborazione ed applicazione danno la loro opera tradizionalmente i
giureconsulti e i giudici, sono principalmente il diritto privato e il diritto
penale, cioè sono proprio quelle parti del diritto che non hanno una
funzione direttamente distributiva. Si ponga per un momento attenzione al
fatto che la maggior parte delle definizioni del diritto che ancor oggi
tengono il campo (da Holmes a Ross), e che anzi sono apparse le più
aggiornate e moderne, sono contrassegnate dalla considerazione della parte
che ha il giudice nella produzione del diritto, nel processo di separazione
delle norme giuridiche dalle norme del costume e dalle norme morali,
nella determinazione insomma di ciò che è propriamente il diritto: ebbene
tutte queste definizioni colgono il fenomeno della formazione del diritto
soltanto attraverso la sua funzione protettivo-repressiva, privilegiano il
diritto come insieme di regole della condotta individuale, come
risoluzione di conflitti, come riparazione dei torti, come repressione degli
atti devianti. Il sistema normativo dello stato nella sua funzione distributiva
non arriva o è arrivato assai più tardi all’esame di chi è chiamato a dirimere
controversie fra privati (o a fungere da consulente per le parti in conflitto)
o a reprimere atti socialmente dannosi. Non è difficile neppure da spiegare
la ragione per cui la funzione distributiva, la allocation of resources, appaia
oggi con particolare insistenza nelle teorie sociologiche del diritto, cioè
nelle teorie che guardano al diritto da un punto di vista più generale e più
complesso che non sia quello tradizionale del giurista (alleato del
giureconsulto e del giudice): nel passaggio dallo stato di diritto allo stato
amministrativo è cresciuta enormemente la funzione distributiva del
diritto, tanto che è impossibile non accorgersene. Ed è cresciuta proprio
nella misura in cui è venuta meno la non ingerenza dello stato nella sfera
dei rapporti economici, e la ripartizione delle risorse (e non soltanto di
quelle economiche) è stata in gran parte sottratta al contrasto degli interessi
privati ed è stata assunta dagli organi del potere pubblico. Questa
trasformazione dei compiti dello stato dà oltretutto ragione di un altro
fenomeno su cui è stata richiamata l’attenzione in questi ultimi decenni:
quello dell’aumento, come è stato detto, di «consumo giuridico»24, che
produce e insieme riflette il fenomeno altrettanto vistoso dell’inflazione
legislativa.

6. La funzione promozionale del diritto


Sub d: anche rispetto alla sua dimensione più ristretta di regola di
comportamenti, munita di sanzione, onde la formula resa celebre da
Kelsen della norma giuridica «Se è A, deve essere B», dimensione che è
particolarmente adatta a coprire l’area del diritto nella sua funzione
protettivo-repressiva, sono avvenuti tali mutamenti nei compiti dello stato,
nel passaggio dallo stato liberale allo stato sociale, che l’esercizio stesso della
funzione primaria di regolare i comportamenti ha assunto forme diverse da
quella tradizionale, che riposava esclusivamente sulla intimidazione
attraverso la sanzione negativa. Ho già avuto molte occasioni di
soffermarmi su questo punto25, ma v’insisto perché mi pare non possa
essere tralasciato in questo sguardo d’insieme: la concezione tradizionale
del diritto, partendo dalla considerazione dell’ordine come fine del diritto,
ha sempre visto nella minaccia di sanzioni negative, come pene, multe,
ammende, risarcimenti di danni, ecc., lo strumento con cui il diritto
persegue il proprio fine. Jhering aveva perfettamente compreso che le
«leve», come egli le chiamava, dell’ordine sociale erano due, le ricompense
e le pene, ma aveva assegnato le prime al mondo dell’economia, le seconde
soltanto al diritto (ma anche Jhering aveva una concezione sostanzialmente
privatistica dell’economia). In una concezione sociologica globale della
storia come quella tracciata da Durkheim nella Divisione del lavoro sociale, il
passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica era caratterizzato
dalla trasformazione delle sanzioni repressive in sanzioni restitutive, ma
entrambe rientravano nel tipo delle sanzioni negative. Kelsen distingue tre
tipi di ordinamenti normativi: quelli che contano sull’osservanza spontanea
delle norme e quindi non hanno bisogno di sanzioni; quelli che si affidano
a sanzioni positive; quelli che ricorrono a sanzioni negative: il diritto
appartiene, senz’ombra di dubbio, secondo il Kelsen, alla terza categoria.
Forse riecheggiando Jhering, afferma che «la tecnica della ricompensa
svolge una parte significativa soltanto nelle relazioni private degli
individui»26. Minimamente scalfita è la teoria tradizionale anche nei trattati
più recenti, come quello di Lukić, già citato, e quello di Eduardo García
Maynez27. Eppure, chi guardi ai compiti dello stato contemporaneo, e li
confronti con quelli degli stati d’altri tempi, soprattutto al compito di
controllare e di dirigere lo sviluppo economico, non può non rendersi
conto che lo stato attraverso il diritto svolge anche una funzione di
stimolo, di promovimento, di provocazione della condotta di individui e
di gruppi, che è l’antitesi netta della funzione soltanto protettiva o soltanto
repressiva. La vecchia affermazione, ancora recentemente ripetuta, che il
diritto punisce l’inosservanza delle proprie norme e non premia
l’osservanza, non rispecchia la realtà di fatto28. Quando lo stato intende
incoraggiare certe attività economiche (ma non soltanto economiche) si
vale sempre più spesso del procedimento dell’incentivazione o del premio,
cioè del procedimento della sanzione positiva. Orbene questo
procedimento consiste proprio in un vantaggio offerto a chi osserva la
norma, mentre l’inosservanza della stessa norma non ha alcuna
conseguenza giuridica, al pari dell’osservanza delle norme rafforzate da una
sanzione negativa. In sostanza, la differenza fra la tecnica
dell’incentivazione e quella tradizionale della sanzione negativa sta proprio
nel fatto che il comportamento avente conseguenze giuridiche non è
l’inosservanza ma l’osservanza. Si tratta di un fenomeno macroscopico, di
cui non si può non tener conto: esso caratterizza la produzione giuridica
negli stati contemporanei, tanto in quelli capitalistici quanto, a maggior
ragione, in quelli socialisti e in quelli di nuova formazione, e che incide
profondamente sul modo tradizionale di considerare la funzione del
diritto. A proposito di esso ho parlato altrove di funzione promozionale del
diritto per contrapporla alle varie tecniche ben più note con cui il diritto,
anziché promuovere comportamenti ritenuti desiderabili, rimuove
comportamenti ritenuti indesiderabili. Anche questo fenomeno, come
tutti quelli esaminati sin qui, non può essere rivelato se non attraverso lo
spostamento dello studio del diritto dalla struttura alla funzione e pertanto
sollecita un’analisi nel pieno senso della parola funzionale.

II

7. Difficoltà cui va incontro l’analisi funzionale del diritto


Ho indicato alcuni motivi che sollecitano e giustificano un’analisi
funzionale del diritto. Questa è chiamata ad allargare il suo sguardo a
problemi che erano completamente ignoti alle teorie generali del diritto
condotte attraverso l’analisi strutturale dell’ordinamento giuridico, e che
invece entrano a pieno titolo nel campo d’indagine della sociologia del
diritto29. E ciò almeno per due ragioni: primo, perché sono problemi
connessi con la considerazione del diritto come sotto-sistema del sistema
sociale considerato nella sua globalità, e quindi per essere affrontati
richiedono lo studio dei rapporti fra il diritto e la società, che soli
permettono fra l’altro di rendersi conto delle ripercussioni che le
trasformazioni della società hanno sulla trasformazione del diritto;
secondo, perché problemi come quelli cui ho accennato, del mutamento
di funzione del diritto o della funzione negativa o della disfunzione o del
depotenziamento, ecc., esigono, per essere trattati esaurientemente,
procedendo oltre le generalizzazioni teoriche, tecniche di ricerca empirica
che sono proprie delle scienze sociali e si contraddistinguono in quanto tali
dalle tecniche di cui si valgono i giuristi per svolgere il loro compito di
interpreti e di critici di un determinato diritto positivo.
Dico subito che l’interesse per il problema della funzione o delle
funzioni del diritto, quale si è andato sviluppando in questi ultimi anni,
non deve chiuderci gli occhi di fronte al fatto che i risultati sinora raggiunti
da questo tipo di analisi sono ben lontani dall’essere soddisfacenti.
Chiunque scorra gli elenchi delle funzioni che vengono attribuite al diritto
nella maggior parte di questi scritti30 non può non ritrarsene con
l’impressione che questi elenchi siano per un verso una raccolta di cose
piuttosto ovvie che aggiungono poco o nulla alla nostra conoscenza del
fenomeno giuridico, e per un altro verso siano composti da elementi
eterogenei, onde nasce immediatamente il sospetto che nella espressione
«funzione del diritto» tanto il termine «funzione» quanto il termine
«diritto» vengano usati senza dichiararlo in significati differenti. In questa
seconda parte di questo scritto mi soffermo su alcune di queste difficoltà
d’ordine teorico, perché una ricerca empirica, verso la quale è protesa la
sociologia giuridica, ha tutto da guadagnare da un chiarimento dei suoi
presupposti concettuali e da un’eliminazione delle più grossolane
confusioni terminologiche. Tralascio le difficoltà che nascono dall’uso di
un termine tutto-fare come «funzione» (su cui si sono versati fiumi
d’inchiostro). Mi limito a impiegarlo nell’uso corrente delle teorie
funzionalistiche, ed è un uso, com’è stato più volte ripetuto, che nasce sul
terreno delle scienze biologiche, dall’analogia della società umana con
l’organismo animale, e in cui per «funzione» s’intende la prestazione
continuata che un determinato organo dà alla conservazione e allo sviluppo
secondo un ritmo di nascita, crescita e morte dell’intero organismo, cioè
dell’organismo considerato come un tutto.

8. Prima difficoltà: funzione rispetto a che cosa?


La prima difficoltà su cui intendo soffermarmi deriva dal fatto che
quando ci si interroga sulla funzione del diritto, la risposta è diversa, com’è
già stato rilevato, secondo la risposta che si dà alla domanda: «Funzione,
rispetto a che cosa?». In ogni teoria sociale sono presenti sempre due poli:
a) la società come totalità, non importa se questa totalità sia considerata
come un organismo in più o meno stretta analogia con l’organismo
biologico, oppure come un sistema in equilibrio (del resto i due modelli
dell’organismo e del sistema non sono affatto incompatibili, e spesso l’uno
viene adoperato per interpretare l’altro); b) gli individui che di questa
totalità sono le parti componenti, interagenti fra di loro e col tutto. Chi si
pone il problema della funzione del diritto, a quale dei due poli si riferisce?
Si pone il problema di quale sia la funzione del diritto rispetto alla società
come totalità oppure rispetto agl’individui che ne fanno parte?
Probabilmente rispetto a entrambi, il che è perfettamente lecito. Ciò che
non è lecito e crea confusione è che i due problemi non siano chiaramente
distinti. Se io dico, come dice il principe dei funzionalisti, che la funzione
principale del diritto è l’integrazione sociale31, mi metto dal punto di vista
della società e mi pongo un determinato problema, che è quello della
funzione del diritto nei riguardi della società nel suo insieme. Se io dico,
come dicono generalmente gli antropologi, che la funzione del diritto è di
rendere possibile la soddisfazione di alcuni bisogni fondamentali
dell’uomo, come sono quelli del nutrimento e del sesso, e via via di altri
bisogni d’ordine culturale, nelle società più evolute, mi metto dal punto di
vista dell’individuo e mi pongo un altro determinato problema che è
quello della funzione del diritto rispetto ai singoli individui. È già stata
giustamente sottolineata la differenza fra la funzione del diritto rispetto al
sistema (le systemfunktionale Bestimmungen des Rechts di Helmut Schelsky) e
la funzione antropologica del diritto32. Ma non c’è bisogno di scomodare
sociologi e antropologi per mettere in rilievo questa distinzione. Quando
Kelsen, che non era né un sociologo né un antropologo, afferma che il
diritto è una tecnica dell’organizzazione sociale la cui funzione è quella di
rendere possibile la pace sociale, si pone dal punto di vista della società
come un tutto. Quando Jhering, che come Kelsen era prima di tutto un
giurista, afferma, come si è già visto, che lo scopo nel diritto è quello di
garantire le condizioni di esistenza della società e per condizioni di
esistenza intende «i presupposti cui soggettivamente è ricollegata la vita» sia
fisica sia spirituale degli individui, ed esemplifica parlando dell’«onore» o
della «libertà» o della «vita»33, si pone evidentemente dal punto di vista dei
singoli individui e dei loro specifici interessi (non importa poi se il
soddisfacimento di questi interessi ridondi in beneficio della società nel suo
complesso). S’intende che questi due punti di vista non sono arbitrari:
rappresentano due diverse concezioni globali della società, quella
universalistica per cui ciò che conta è la foresta e non sono gli alberi, e
quella individualistica per cui contano gli alberi e non la foresta. E possono
anche rappresentare due modi diversi di guardare ai problemi sociali,
quello ex parte principis e quello ex parte populi: la funzione sociale del diritto
è quella rilevante per i governanti, cioè per coloro per cui il diritto è uno
strumento di governo; la funzione individuale del diritto è quella rilevante
per i governati, cioè per coloro che vedono nel diritto uno strumento di
protezione, di garanzia, di liberazione ecc. dei singoli membri della società.
Queste due prospettive non sono affatto incompatibili: anzi ritengo che
un’analisi funzionale che pretenda di essere completa dovrebbe tener conto
di tutte e due. Ma per tenerne conto bisogna prima di tutto averne preso
chiara coscienza, cosa che nella copiosa letteratura sull’argomento mi pare
non sia sempre avvenuto.

9. Seconda difficoltà: funzione a quale livello?


Una seconda ragione di confusione nasce dal fatto che le funzioni
elencate non si pongono sempre sullo stesso livello ma rappresentano gradi
o momenti diversi dell’influenza del diritto sulla società. La logica
dell’analisi funzionale è la logica del rapporto mezzo-fine, per cui un fine,
una volta raggiunto, diventa un mezzo per il conseguimento di un altro
fine, e così di seguito sino a che ci si ferma a un fine posto o accettato
come ultimo. Anche qui è chiaro che la risposta alla domanda «quali sono
le funzioni del diritto» muta secondo che ci si fermi ai fini intermedi o si
voglia guardare al fine o a quello che si crede il fine ultimo, oppure anche
soltanto ai fini che, pur essendo intermedi, sono alla loro volta il risultato
del conseguimento di fini che, in contrapposizione agli ultimi, possiamo
chiamare «primi». Chi, ad esempio, pone nel proprio elenco di funzioni
del diritto sia la sicurezza (o l’ordine sociale) sia la risoluzione dei conflitti
d’interesse sia l’organizzazione del potere politico34, mette sullo stesso
piano funzioni che in realtà stanno a livelli diversi e che probabilmente
potrebbero essere poste per maggiore chiarezza l’una concatenata all’altra.
Più specificamente, la funzione di sicurezza e quella di risoluzione dei
conflitti non stanno l’una accanto all’altra, ma, se posso esprimermi così,
l’una dentro l’altra, poiché è certo che uno dei modi attraverso cui il diritto
esplica la funzione di garantire la sicurezza sociale è anche quello di essere
un modo efficace, forse il più efficace in ultima istanza, di risolvere i
conflitti. Non diversamente si pone il problema del rapporto fra queste due
funzioni e la terza, quella relativa all’organizzazione del potere: garanzia
della sicurezza sociale, risoluzione dei conflitti e organizzazione del potere
sono tre compiti teleologicamente collegati, tanto che la risoluzione dei
conflitti che è un mezzo rispetto al fine della sicurezza diventa un risultato
se la si mette a raffronto con l’organizzazione del potere, e pertanto diventa
possibile stabilire una concatenazione di questo genere: l’organizzazione
del potere ha la funzione di rendere possibile la risoluzione dei conflitti, la
risoluzione dei conflitti ha la funzione di rendere possibile la sicurezza
sociale. Per fare un altro esempio, nulla vieta di affermare che la (vera)
funzione del diritto, cioè la funzione che permette di contraddistinguere
ontologicamente il diritto, è quella di realizzare la giustizia quale modo
specifico di sormontare l’insicurezza sociale35. Però questa definizione non
toglie, anzi in un certo senso implica, che siano funzioni del diritto, se
pure intermedie, e per chi cerca la «vera» funzione non specifiche, anche
tutte quelle altre operazioni che di solito vengono enumerate come
funzioni dai sociologi e dagli antropologi. Se mai si potrà dire che, oltre al
punto di vista del sociologo e dell’antropologo, bisogna tener conto anche
del punto di vista del filosofo. Si ponga mente alla funzione che è stata
chiamata distributiva, cioè a quella serie di operazioni attraverso cui il
diritto persegue lo scopo di ripartire le risorse. Nulla vieta che di fronte alla
presentazione di questa funzione ci si ponga un’ulteriore domanda: «Qual
è la funzione della ripartizione delle risorse?». È probabile che la risposta sia
di questo tenore: «L’attuazione della giustizia sociale». Come si vede, il
vedere il diritto in funzione della giustizia non esclude affatto il vederlo in
funzione di quelle operazioni che possono essere considerate gli strumenti
più idonei per il raggiungimento del risultato finale. Se mai, il rischio che
corre il filosofo che va in cerca della funzione ultima è quello di scambiare
l’essere col dover essere, e di saltare senza accorgersene dal problema di
quale sia la funzione del diritto in una situazione data al problema di quale
debba essere.

10. Terza difficoltà: quale diritto?


Le difficoltà sinora rilevate derivano principalmente dall’uso del
termine «funzione». Ma non meno gravi e forse più gravi sono le difficoltà
che nascono dall’ambiguità o per lo meno dalla genericità con cui viene
usato l’altro termine «diritto». Nell’espressione «funzione del diritto» che
cosa s’intende specificamente per «diritto»? Siamo proprio sicuri che tutti
coloro che muovono alla ricerca della funzione del diritto attribuiscano a
«diritto» lo stesso significato (vedi sub a)? E, pure ammesso che vi sia un
accordo tacito sul significato generale da dare al termine «diritto» in questa
espressione, il termine non è troppo ampio per essere usato utilmente in
un’analisi delle funzioni che, come si è visto, non sono già di per se stesse
nulla di ben definito ma possono essere individuali e sociali, di primo, di
secondo, di terzo grado (vedi sub b)?
a) La miglior prova del diverso significato con cui il termine «diritto»
viene usato nell’analisi funzionale è data dalla presenza costante nel
discorso di coloro che si sono posti il problema delle funzioni del diritto di
due coppie di attributi che sono perfettamente legittime ma, non avendo
alcuna corrispondenza fra di loro, debbono essere spiegate con il diverso
significato del sostantivo cui si riferiscono. L’analisi funzionale infatti si è
venuta concentrando soprattutto su questi due ordini di questioni: se il
diritto abbia una funzione repressiva o anche distributiva, promozionale,
ecc.; se abbia una funzione di conservazione (o di stabilizzazione) o anche
d’innovazione (si è parlato anche di «funzione rivoluzionaria» del diritto)
ed entro quali limiti. Le due questioni sono diverse, anche se si possa
vedere un certo nesso tra funzione repressiva e conservativa da un lato, e
tra funzione promozionale e innovativa dall’altro. Si tratta però di un nesso
molto labile, perché si può usare lo strumento del diritto per reprimere il
mutamento ma anche per promuovere la conservazione, o per promuovere
il mutamento ma anche per reprimere la conservazione. Sono diverse
perché la prima riguarda i rimedi impiegati dal diritto per esercitare la sua
funzione primaria (ma non esclusiva), che è quella di condizionare il
comportamento degli appartenenti a un determinato gruppo sociale, la
seconda riguarda i risultati ottenuti rispetto alla società considerata nel suo
complesso. Ma appaiono diverse soltanto a chi si renda conto che il diritto
di cui si parla a proposito della prima coppia non è il diritto di cui si parla a
proposito della seconda. Nella prima il diritto viene preso in
considerazione come un certo tipo di strumento per il condizionamento
dei comportamenti; nella seconda viene preso in considerazione con
riferimento ai comportamenti che attraverso i mezzi di cui dispone riesce a
condizionare. In altre parole, l’effetto repressivo o promozionale del diritto
dipende dal diritto inteso come mezzo di condizionamento dei
comportamenti; l’effetto conservativo o innovativo dipende dal diritto
inteso come regola o insieme di regole aventi per oggetto un determinato
comportamento, il cui adempimento o non-adempimento influisce in una
certa direzione, che può essere tanto quella della conservazione quanto
quella della innovazione, sulla configurazione della società nel suo
complesso. Chi si pone il problema della funzione del diritto in termini di
funzione repressiva o promozionale guarda al mezzo con cui il diritto
opera; chi si pone il problema in termini di funzione conservativa o
innovativa guarda a ciò che le regole di volta in volta considerate
prescrivono o permettono e alla loro efficacia. Un’espressione come
«funzione rivoluzionaria del diritto» non ha alcun senso se «diritto» vien
inteso come mezzo di coazione (perché con questo mezzo coloro che
detengono il potere possono rivoluzionare lo stato di cose esistente così
come possono lasciarlo qual è); acquista senso solo se s’intende parlare dei
mutamenti sociali che attraverso quel mezzo possono essere prodotti, e
quindi dei contenuti politici, economici, sociali, che di volta in volta
possono venir calati dentro quella forma. Per giudicare se il diritto abbia
funzione repressiva o promozionale basta prendere in considerazione il
rimedio; per giudicare se abbia funzione di conservazione o d’innovazione
bisogna prendere in considerazione i concreti provvedimenti che
attraverso quei rimedi vengono o imposti o sollecitati. Ciò permette di
concludere che il problema della funzione del diritto apre la strada a due
risposte diverse secondo che ci si proponga di studiare quali effetti derivano
dall’uso di un certo mezzo di coazione e di promozione sociale cui diamo
per comune consenso il nome di diritto, oppure quali effetti derivino dai
comportamenti che attraverso quel mezzo sono stati comandati o proibiti,
incoraggiati o scoraggiati, ecc., o più in generale dagli istituti sociali che
essendo regolati da norme giuridiche chiamiamo ugualmente per comune
consenso il «diritto» di un determinato gruppo sociale.
b) Il concetto del diritto è tanto vasto da rendere di scarsa utilità
un’analisi funzionale che non proceda alle dovute distinzioni. La prima
distinzione di cui si dovrebbe tener conto è quella fra diritto privato e
diritto pubblico, che ho chiamato altrove la «grande dicotomia»36. Quando
si affronta il problema delle funzioni del diritto, a quale dei due diritti ci si
riferisce, al diritto privato o al diritto pubblico? Il tener conto di questa
distinzione è tanto più necessario in quanto, mentre sembra un’impresa
disperata il determinare il carattere specifico del diritto come mezzo di
controllo sociale attraverso un elenco che è sempre incompleto delle sue
funzioni, la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico è possibile
mediante il ricorso alla diversa funzione che l’uno e l’altro esplicano
all’interno del vasto campo di un sistema giuridico, o per lo meno la
distinzione funzionale fra le due forme di diritto non è così aberrante come
la distinzione funzionale fra il diritto nel suo complesso e altre forme di
controllo sociale come la morale sociale, i costumi, le convenzioni, ecc.
Dirò di più: l’importanza fondamentale che assume in ogni teoria del
diritto la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico risiede a mio
parere proprio nel fatto che ad essa vengono riferite e con essa vengono
spiegate le due principali funzioni che tradizionalmente vengono attribuite
ad un ordinamento giuridico: la funzione di permettere la coesistenza di
interessi singoli divergenti, attraverso regole che debbono servire a rendere
meno frequenti e meno aspri i conflitti, e altre regole che debbono servire
a risolverli dopo che sono sorti; la funzione di dirigere interessi divergenti
verso uno scopo comune attraverso regole imperative e generalmente
restrittive.
Inoltre, vi sono altre distinzioni fra vari tipi di norme, entrate ormai
nell’uso della teoria generale, che debbono la loro nascita all’analisi
funzionale, se pure inconsapevole, e che pertanto un’analisi funzionale non
dovrebbe trascurare: mi riferisco alla distinzione fra norme di condotta e
norme di organizzazione, e a quella formulata da Hart fra norme primarie e
norme secondarie37. Di entrambe le distinzioni il criterio discriminante è
prevalentemente funzionale: con ciò voglio dire che gli autori che se ne
servono, ricorrono alle funzioni cui sono adibiti rispettivamente quei vari
tipi di norme per caratterizzarli, non ad altri elementi, come la struttura o il
contenuto, ecc. Secondo la dottrina corrente, infatti, la funzione delle
norme di condotta è quella di rendere possibile la convivenza di individui
o gruppi perseguenti ciascuno fini singoli, mentre la funzione delle norme
di organizzazione è quella di rendere possibile la cooperazione di individui
o gruppi perseguenti ciascuno secondo il proprio ruolo specifico un fine
comune. È ben noto che Hart ricorre a criteri funzionali per caratterizzare
i tre tipi di norme secondarie che egli ha creduto di individuare e per
distinguerle dalle norme primarie: quelle di riconoscimento hanno la
funzione di porre rimedio all’incertezza di un sistema composto soltanto di
norme primarie; le norme di mutamento hanno la funzione di preservare
un sistema normativo dalla immobilità; quelle di giudizio hanno la
funzione di provvedere alla sua maggiore efficacia. Con questa
conseguenza: che un sistema giuridico, in quanto composto di norme
primarie e di norme secondarie, è, oltre che strutturalmente, anche
funzionalmente diverso da un sistema normativo non giuridico. Ciò che è
interessante da notare è che di fronte al problema tipico di ogni analisi
funzionale del rapporto fra struttura e funzione, Hart spiega la struttura
partendo dalla funzione (nel senso che il diritto ha quella funzione perché
ha quella struttura) e non viceversa, mentre la teoria generale del diritto
nelle sue espressioni più comuni, a cominciare da Kelsen, ha fatto
l’inverso, cioè ha spiegato la funzione (il mantenimento dell’ordine) a
partire dalla struttura (il diritto come ordinamento della forza).

11. Conclusione
Ho messo in evidenza alcune difficoltà cui va incontro l’analisi
funzionale del diritto, ovvero quali sono le insidie in cui rischia di cadere
chiunque si avventuri in questo campo troppo fiduciosamente e senza
guardarsi alle spalle, per cercar di spiegare il fatto che, nonostante
l’importanza assunta dall’analisi funzionale in seguito e in proporzione
all’aumento delle prestazioni delle varie macchine produttrici di norme
giuridiche, una teoria funzionale del diritto, ove s’intenda per teoria
funzionale del diritto una teoria generale che cerchi l’elemento
caratterizzante del diritto non nella specificità della struttura, com’era
avvenuto sino ad ora per opera dei maggiori giuristi teorici, ma nella
specificità della funzione, sia ancora di là da venire. I tentativi sinora fatti in
questa direzione sembrano piuttosto deludenti: perché, o finiscono per
mostrare proprio il contrario di quello che si proponevano, cioè che
attraverso il rilevamento della funzione non si arriva a mettere le mani sul
carattere specifico del diritto (come a me pare sia accaduto al Parsons e ai
suoi interpreti), oppure, quando vanno alla ricerca di una funzione
specifica diversa da quella o da quelle generalmente riconosciute, cadono
in una disorientante semplificazione, come a me sembra sia accaduto al più
raffinato (e complicato) teorico della funzione del diritto, Niklas
Luhmann, che attribuisce al diritto la funzione di congruente Generalisierung
di aspettative normative38. Per effetto della complessità del fenomeno
giuridico sta accadendo alle teorie funzionali ciò che è già accaduto alle
teorie strutturali, che quando erano troppo specifiche lasciavano fuori dai
loro confini qualche pezzo del territorio (per esempio il diritto
internazionale), quando volevano abbracciare tutti i campi
tradizionalmente occupati dal diritto, o di cui si sono occupati
storicamente i giuristi, finivano per essere troppo generiche. Non vorrei a
questo punto che qualcuno credesse che ci si possa trarre d’impaccio
unendo i connotati strutturali con quelli funzionali attraverso una
sedicente analisi struttural-funzionale: fra struttura (del diritto) e funzione
(del diritto) non c’è corrispondenza biunivoca, perché la stessa struttura,
per esempio il diritto considerato come combinazione di norme primarie e
secondarie, può avere le più diverse funzioni, così come la stessa funzione,
per esempio quella abitualmente attribuita al diritto di rendere possibili la
coesione e l’integrazione del gruppo, può essere svolta mediante diverse
strutture normative. (Il che non vuol dire che struttura e funzione siano
indipendenti: modificazioni della funzione possono incidere su
modificazioni strutturali e viceversa.) Dopodiché, se una considerazione
finale si vuol trarre, questa è che l’analisi strutturale, attenta alle
modificazioni della struttura, e l’analisi funzionale, attenta alle
modificazioni della funzione, debbono essere continuamente alimentate e
procedere di pari passo, senza che la prima, com’è accaduto in passato,
eclissi la seconda, o la seconda, come potrebbe accadere in un
rovesciamento delle prospettive cui gli andazzi, le mode, il piacere del
nuovo per il nuovo, sono particolarmente favorevoli, eclissi la prima.

Note
1 L’articolo, scritto originariamente per un volume in memoria del filosofo del diritto argentino
Ambrosio Gioja, viene pubblicato per la prima volta in questo volume.
2 Questi articoli sono: W. Maihofer, Die gesellschaftliche Funktion des Rechts, pp. 13-36; H.
Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, pp. 39-
89; E. Fechner, Funktionen des Rechts in der menschlichen Gesellschaft, pp. 92-105; R. Schott, Die
Funktionen des Rechts in primitiven Gesellschaften, pp. 109-74; N. Luhmann, Positivität des Rechts als
Voraussetzung einer modernen Gesellschaft, pp. 176-202; Id., Zur Funktion der subjektiven Rechts, pp.
322-30.
3 Devo alla cortesia del prof. Elias Diaz di essere venuto in possesso di fotocopie delle
comunicazioni attinenti al tema di questo mio saggio.
4 J. Raz, On the Functions of Law, in Oxford Essays in Jurisprudence, Blackwell, Oxford 1973, pp.
278-304; M. Rehbinder, Le funzioni sociali del diritto, in «Quaderni di sociologia», XXII, 1973, pp.
103-23; V. Aubert, The Social Function of Law (relazione al ciclostile presentata all’VIII Congresso
mondiale di sociologia tenutosi a Toronto nell’agosto 1974).
5 N. Luhmann, Rechtssoziologie, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1972, 2 voll.
6 In questo stesso senso B. Le Baron, What is Law? Beyond Scholasticism, in Le raisonnement
juridique. Actes du Congrès mondial de philosophie du droit et de philosophie sociale, Bruxelles, 30 agosto-3
settembre 1971, pubblicati come fascicolo del marzo-giugno 1971 di «Logique et Analyse»,
Nauwelaerts, Louvain 1971, pp. 77-83: «It is evident that, whatever its limitations, the Marxist
account of law is not merely formal. It addresses itself very specifically to questions of social
function, showing what law does for us and what it does to us» (p. 83).
7 R. Lukić, Théorie de l’état et du droit, trad. franc. di M. Gjidara, Dalloz, Paris 1974: «La fonction
de l’Etat et du droit est d’avoir un rôle dans la société, d’agir au sein de la société. Comme l’Etat et le
droit peuvent avoir plusieurs actions, seule correspondra à leur fonction, celle qui leur est essentielle
et spécifique, ce par quoi ils se distinguent des autres phénomènes sociaux» (p. 89). E qual è questa
funzione? «... l’Etat et le droit ont comme fonction le maintien du mode de production qui
convient à la classe dirigeante intéressée et dont ils sont les créations» (ibid.). Superfluo ricordare che
una delle più note opere di teoria marxista del diritto è intitolata La funzione rivoluzionaria del diritto.
8 Mi sono soffermato più a lungo su questo tema nell’articolo citato, Verso una teoria
funzionalistica del diritto. Ma mi permetto di rimandare anche al saggio su Kelsen, in questo stesso
volume.
9 H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, F. Deuticke,
Wien 1934, p. 33 (trad. it., Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 72).
10 Sui vari aspetti della teoria generale del Roguin, e anche sull’antiteleologismo, mi sono

soffermato in un articolo, Un dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore
Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978, vol. IV, pp. 43 sgg.
11 R. von Jhering, Lo scopo nel diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1972, p. 312.
12 Ivi, p. 313.
13 M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961, vol. I, pp. 53-54.
14 Per un maggiore sviluppo del parallelo fra Weber e Kelsen rinvio al saggio su Kelsen, in
questo stesso volume, specie alle pp. 167-72, 178-80.
15 Riprendo questo spunto dalla relazione su Il diritto, svolta al convegno bolognese sullo stato
delle scienze sociali, pubblicata nel volume Le scienze umane in Italia, oggi, Il Mulino, Bologna 1971,
pp. 259-77. Ora col titolo Diritto e scienze sociali, in questa stessa raccolta.
16 J.F. Glastra van Loon, Conclusions, in Norms and Actions. National Reports on Sociology of Law,
edited by R. Treves and J.F. Glastra van Loon, Nijhoff, L’Aia 1968, pp. 289-92. Dello stesso autore
cfr. Towards a Sociological Interpretation of Law, in collaborazione con E. Vercruijsse, in «Sociologia
Neerlandica», III, 2, 1966, pp. 18-31, che cito dal rendiconto fattone da R. Treves, Nuovi sviluppi
della sociologia del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1968, pp. 150-53.
17 Traggo questa citazione da Treves, Nuovi sviluppi della sociologia del diritto, cit., p. 152.
18 Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 11.
19 F. Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard Hurst. Storiografia e Jurisprudence, in Materiali per
una storia della cultura giuridica, raccolti da G. Tarello, vol. II, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 521-86; in
modo particolare sulle funzioni del diritto, pp. 528-29. Le opere di Hurst da cui sono tratte le
notizie circa le funzioni del diritto sono Law and Social Process in United States History, The University
of Michigan Law School, Ann Arbor 1960, p. 5; Justice Holmes on Legal History, The Macmillan
Company, New York 1954, pp. 5-6; Law and the Condition of Freedom in the Nineteenth-Century
United States (1956), ma citata dall’ediz. di The University of Wisconsin Press, Madison 1967; Law
and Economic Growth. The Legal History of the Lumber Industry in Wisconsin 1836-1915, The Belknap
Press of Harvard University Press, Cambridge 1964, p. IX.
20 Hurst, Law and Social Process, cit., p. 5, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard
Hurst, cit., p. 528, nota 10.
21 Justice Holmes on Legal History, cit., p. 6, citato da Lombardi, La logica dell’esperienza di J. Willard
Hurst, cit., p. 528, nota 10.
22 Il passo citato da Aubert (The Social Function of Law, cit., p. 11) è tratto dall’opera di Hurst,
Law and Social Process, cit., p. 99.
23 Aubert, The Social Function of Law, cit., p. 12.
24 Su questo tema vedi F. Werner, Wandelt sich die Funktion des Rechts im sozialen Rechtsstaat?, in
Die moderne Demokratie und ihr Recht (Festschrift für Gerhard Leibholz zum 65. Geburtstag), Mohr,
Tübingen 1966, vol. II, pp. 153-66.
25 Sulla funzione promozionale del diritto, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile»,
XXIII, 1969, pp. 1312-29; Sulle sanzioni positive, in Studi dedicati ad Antonio Raselli, Giuffrè, Milano
1971, vol. I, pp. 229-49: entrambi presenti in questo stesso volume. Cfr. D. Pasini, Potere, stato e
funzioni del diritto, in «L’eloquenza», LXIII, 1973, pp. 517-30.
26 H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945, p. 18
(trad. it., Teoria generale del diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 18).
27 E. García Maynez, Filosofia del derecho, Editorial Porrua, México, 1974, pp. 73 sgg.
28 Così. G. Spittler, Probleme bei der Durchsetzung sozialer Normen, in «Jahrbuch für

Rechtssoziologie und Rechtstheorie», vol. 1, 1970, pp. 205-25. Sul tema «premi e ricompense» in
generale e con considerazioni di carattere sociologico, vedi J. Galtung, On the Meaning of Non-
violence, in «Journal of Peace Research», 1965, 3, pp. 228-57, e dello stesso autore, Violence, Peace and
Peace Research, in «Journal of Peace Research», 1969, 3, pp. 167-91.
29 Riprendo il tema abbozzato nel mio intervento sui compiti della sociologia del diritto, Teoria
sociologica e teoria generale del diritto, in «Sociologia del diritto», I, 1974, pp. 9-15.
30 Ne indico alcuni: R.S. Summers, The Technique Element in Law, in «California Law Review»,
LIX, 1971, pp. 733-51, elenca le seguenti funzioni (lista che egli stesso non considera esaustiva): 1)
rafforzamento della famiglia; 2) promovimento della salute; 3) mantenimento della pace sociale; 4)
raddrizzamento dei torti; 5) agevolazione degli scambi; 6) riconoscimento e ordinamento della
proprietà privata; 7) garanzia delle libertà principali; 8) protezione della «privacy»; 9) controllo delle
attività giuridiche private e pubbliche. Rehbinder, nell’articolo Le funzioni sociali del diritto, cit.,
riprende l’elenco delle funzioni dato da K.L. Llewellyn, The Normative, the Legal and the Law-Jobs: the
Problem of the Juristic Method, in «Yale Law Journal», XLIX, pp. 1355-400, che è il seguente: 1)
composizione dei conflitti; 2) regolazione dei comportamenti; 3) organizzazione e legittimazione
del potere nella società; 4) strutturazione delle condizioni di vita nella società; 5) amministrazione
della giustizia. Nella comunicazione al congresso di Madrid (1973) L. Recaséns Siches distingue tre
funzioni: 1) certezza e sicurezza, e contemporaneamente anche possibilità di cambiamento; 2)
risoluzione dei conflitti d’interesse; 3) organizzazione, legittimazione e limitazione del potere
politico (Las funciones del derecho, dalla copia dattiloscritta distribuita al congresso, p. 1). Nell’articolo
di Aubert, The Social Function of Law, cit., si trovano le funzioni seguenti: 1) rafforzamento
autoritativo di regole di condotta promulgate al fine di ottenerne l’osservanza; 2) risoluzione dei
conflitti; 3) distribuzione di risorse. Maihofer, nell’articolo Die gesellschaftliche Funktion des Rechts,
cit., distingue le funzioni sociali da quelle antropologiche, e quindi suddistingue le prime in
funzioni regolative e integrative, le seconde in razionalizzatrici e anticipatrici. Nel libro Sociologia del
diritto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1970 (l’edizione originale americana presso la Random House di
New York è del 1968), E.M. Schur presenta una tavola di raffronto fra le funzioni del diritto
secondo Hart (Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, cap. V), secondo E.A. Hoebel (The Law of
Primitive Man, Harvard University Press, Cambridge 1954, cap. XI) e secondo Parsons (The Law and
Social Control, in Law and Sociology. Exploratory Essays, a cura di W.M. Evan, Free Press, New York
1962; vedi la tavola a p. 101 con relativi commenti).
31 Per un’interpretazione e uno sviluppo della teoria parsonsiana del diritto H.C. Bredemeier,
Law as an Integrative Mechanism, in Law and Sociology, cit., pp. 73-90. Sulla sociologia del diritto di
tendenza struttural-funzionalistica, in modo particolare su Parsons, si veda A. Giasanti, Sistema
sociale e sistema giuridico nella prospettiva strutturale-funzionalistica, in «Quaderni di sociologia», XXI,
1972, pp. 73-95. Si veda anche il saggio di Schelsky, Systemfunktionaler, anthropologischer und
personfunktionaler Ansatz der Rechtssoziologie, cit., pp. 51-57.
32 La distinzione tra funzioni sociali e funzioni antropologiche si trova tanto nel saggio di

Maihofer quanto in quello di Schelsky, entrambi già citati.


33 von Jhering, Lo scopo nel diritto, cit., p. 313.
34 Come fa il Recaséns Siches, nella comunicazione citata nella nota 30.
35 Questa è la tesi di S. Cotta, Ha il diritto una funzione propria?, in «Rivista internazionale di
filosofia del diritto», LI, 1974, pp. 398-412: «Il Sein del diritto ci indica dunque con sufficiente
precisione qual è la funzione propria del diritto: quella di realizzare la giustizia quale modo specifico
di sormontare l’insicurezza esistenziale» (p. 411).
36 Ho chiamato così la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico nell’articolo La grande
dicotomia, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Cedam, Padova 1974, pp. 2187-200. Questo articolo
si ricollega ad uno precedente, intitolato Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in Studi in
onore di Giuseppe Grosso, Giappichelli, Torino 1971, vol. IV, pp. 615-35 (apparso anche in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», XLVII, 1970, pp. 187-204). Entrambi gli articoli si trovano in
questo stesso volume.
37 Mi richiamo a un tema già altre volte trattato, specie in Nouvelles réfléxions sur les normes
primaires et secondaires, in La règle de droit, Emile Bruylant, Bruxelles 1971, pp. 104-22 (anche in
italiano col titolo Ancora sulle norme primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-
53, e quindi col titolo Norme primarie e norme secondarie, nel volume Studi per una teoria generale del
diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 175-97); e in Per un lessico di teoria generale del diritto, in Studi in
memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova 1975, vol. I, pp. 1-14.
38 Veramente meritorio il saggio di A. Febbrajo, Sociologia del diritto e funzionalismo strutturale
nell’opera di N. Luhmann, in «Sociologia del diritto», I, 1974, n. 2, pp. 303-32, che cerca di far capire
ai profani il pensiero (inutilmente) complicato del teorico e sociologo del diritto che è al centro del
dibattito sulla sociologia del diritto oggi in Germania, come mostra la ricca bibliografia citata a p.
305. Quando il presente libro era già in preparazione, lo stesso autore ha pubblicato una intera
monografia sul sociologo tedesco: Funzionalismo strutturale e sociologia del diritto nell’opera di Niklas
Luhmann, Giuffrè, Milano 1975. La definizione del diritto data nel testo si trova in Luhmann,
Rechtssoziologie, cit., vol. I, p. 105.
VI. Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria
del diritto

1. Norme di condotta e norme di organizzazione


Mi propongo di richiamare l’attenzione degli studiosi di teoria generale
del diritto e dei giuristi su due articoli recenti dell’economista Friedrich A.
Hayek, apparsi in traduzione italiana in riviste non giuridiche1. In questi
due articoli l’autore utilizza una contrapposizione, ben nota ai giuristi, tra
due tipi di norme, per descrivere e contraddistinguere due tipi di
ordinamento statale. I due tipi di norme sono le norme di condotta e le norme
di organizzazione. I due tipi di stato sono lo stato liberale e lo stato assistenziale.
La tesi di Hayek è che il passaggio dallo stato liberale allo stato assistenziale
sia contrassegnato dall’aumento delle norme di organizzazione rispetto a
quelle di condotta. Nel primo articolo: «Una caratteristica della società
liberale è che il cittadino può essere costretto ad obbedire solo alle norme
di diritto privato e penale; la progressiva contaminazione del diritto privato
col diritto pubblico durante gli ultimi ottanta o cento anni, cioè la
progressiva sostituzione di norme di comportamento con norme di organizzazione, è
uno dei modi principali in cui si è compiuta la distruzione
dell’ordinamento liberale»2. Nel secondo: «Il punto di partenza e il punto
di arrivo dello sviluppo che conduce dal superamento graduale dell’ordine
spontaneo a una forma organizzativa completamente diversa
corrispondono rispettivamente allo stato liberale e allo stato totalitario.
Generalmente non ci si accorge che questo processo di trasformazione si
riflette sul terreno giuridico, nella espansione del diritto pubblico ai danni
del diritto privato, e quindi nella sostituzione di regole di comportamento
mediante regole di organizzazione»3.
Prescindo completamente dai giudizi di valore dell’autore il quale,
com’è noto, è un teorico e un difensore a oltranza del liberalismo classico e
lamenta come regresso quel che altri esalta come progresso. Dal punto di
vista della teoria generale del diritto da cui mi pongo m’interessano in
questa sede esclusivamente due problemi: a) se l’uso che Hayek fa degli
strumenti concettuali desunti dalla teoria del diritto sia corretto; b) se questi
strumenti concettuali, nella loro interpretazione più corretta, siano adeguati
allo scopo, cioè servano a dare la rappresentazione più esatta possibile della
«grande dicotomia», che Hayek ha in mente. Nella prima parte (§§ 2-5)
verrà svolta un’analisi della distinzione tra norme di condotta e norme di
organizzazione e della nozione stessa di norme di organizzazione; nella
seconda (§§ 6-9) la grande dicotomia dell’autore verrà confrontata con
altre che hanno parimenti utilizzato strumenti concettuali tratti dal diritto,
e sarà proposta una dicotomia alternativa.

2. La distinzione fra norme di condotta e norme di


organizzazione non coincide né con la distinzione fra
norme positive e negative né con quella tra norme astratte e
concrete
Dacché è venuta all’onor del mondo, la distinzione tra norme di
condotta e norme di organizzazione ha preso il sopravvento su tutte le altre
distinzioni tradizionali, come distinzione esaustiva dell’insieme delle
norme che compongono un ordinamento giuridico. L’unica distinzione
che ancor non cede il passo è quella tra norme primarie e norme
secondarie, di cui parleremo più oltre. Ciononostante, non mi sembra che
la nozione di norma di organizzazione sia stata sinora approfondita come il
suo uso continuo richiederebbe. Né appare immediatamente chiaro il
criterio in base al quale questo tipo di norma viene distinto da un altro tipo
di norma, chiamato «norma di condotta», se non altro perché anche le
norme di organizzazione, per il solo fatto di essere norme, sono norme di
condotta. Pertanto, se la distinzione ha un senso, essa non può essere
fondata sul fatto che vi siano norme che regolano la condotta e altre che
regolano qualcosa di diverso dalla condotta, ma, evidentemente, deve
poggiare su qualche altra base che la infelice terminologia nasconde.
Dallo stesso Hayek, che pur ha adottato la distinzione e le ha assegnato
un ruolo così importante come quello di caratterizzare due tipi di
ordinamento statale, ci si attenderebbe una definizione precisa dei due tipi
di norme. Tanto per cominciare, sembra che per il nostro autore la
distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione coincida,
come si può rilevare dagli stessi passi citati, con la distinzione tra diritto
privato e diritto pubblico. Questa sovrapposizione è una prima causa di
confusione, almeno per due ragioni: a) se si prende in considerazione uno
dei due criteri classici in base ai quali si può dare un senso alla
disputatissima distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, intendo il
criterio del tipo di interesse (dei singoli cittadini o dello stato), sono norme
di diritto pubblico, per esempio, le norme di diritto penale che Hayek
pone, del resto correttamente, tra le norme di condotta; b) se si attribuisce
alle norme di organizzazione, come sembra attribuire Hayek, la funzione
di produrre un ordinamento artificiale delle azioni, contrapponendola alla
funzione delle norme di condotta che consisterebbe nel renderne possibile
l’ordinamento spontaneo, non si vede perché non debbano essere
annoverate tra le norme di organizzazione norme indubbiamente
appartenenti al diritto privato come quelle che regolano le società per
azioni (che costituiscono un esempio abbastanza caratteristico di
«ordinamento artificiale delle azioni»).
Secondariamente, affiora in più luoghi negli scritti sopra citati la
tentazione di scambiare la distinzione tra norme di condotta e norme di
organizzazione con la distinzione tra norme negative (o divieti) e norme
positive (o comandi): ora questa tentazione può derivare soltanto dal fatto
che della distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione
viene compiuto un uso generico e non ne viene definita esattamente la
portata. A meno che non si restringa l’ambito delle norme di condotta a
quello delle norme penali (ma questa restrizione, oltre ad essere arbitraria,
finirebbe per rendere perfettamente inutile la categoria delle norme di
condotta), non vi è nessun elemento del concetto di norma di condotta
che permetta di privilegiare la condotta omissiva su quella commissiva. Se
il concetto di norma di condotta può avere qualche utilità, esso deve poter
servire a comprendere tanto le norme che regolano una condotta negativa
quanto quelle che regolano una condotta positiva. Né d’altra parte vi è nel
concetto di norma di organizzazione alcun elemento che induca a mettere
in particolare evidenza l’aspetto positivo piuttosto che quello negativo della
loro qualità normativa (le norme di competenza che taluni identificano
con le norme di organizzazione si presentano – in quanto stabiliscono
limiti da non oltrepassare – piuttosto come divieti che come comandi).
In terzo luogo, nell’ultima parte del secondo articolo la
contrapposizione tra ordine spontaneo e ordine artificiale, cui
corrisponderebbe la distinzione tra stato liberale e stato assistenziale o
tendenzialmente totalitario, viene ricondotta ad un altro tipo di distinzione
tra norme giuridiche, che non ha niente a che vedere con la distinzione tra
norme di condotta e norme di organizzazione: il che non può che
aumentare la confusione. Si tratta questa volta della distinzione, che viene
ripresa e discussa soprattutto in polemica con Carl Schmitt, tra norme
astratte (intendendosi per «astrazione» che «la regola deve valere per un
numero imprecisato di casi futuri») e ordini (o provvedimenti) concreti4,
corrispondente grosso modo alla distinzione tra legislazione e
amministrazione. Quale sia il rapporto tra norme di condotta e carattere
dell’astrattezza, da un lato, e norme di organizzazione e carattere della
concretezza dall’altro, Hayek non spiega e non è neppure immediatamente
evidente5. Stando al significato corrente di «astrattezza» come attributo
delle norme giuridiche (e anche a quello accolto da Hayek nella
definizione riportata), le norme di organizzazione sono, per lo più, astratte,
non diversamente da quelle di condotta; e nulla esclude che una norma di
condotta possa essere in casi specifici concreta, per esempio la sentenza del
giudice che ingiunge a Tizio di pagare il debito a Caio.
Infine, poiché la contrapposizione principale che sta a cuore al nostro
autore, ed è sottintesa in tutte le altre, è la contrapposizione tra ordine
spontaneo e ordine artificiale delle azioni, non si può non rilevare che la
distinzione giuridica corrispondente non è minimamente quella tra norme
di condotta e norme di organizzazione, bensì quella ben più antica e
fondamentale tra diritto consuetudinario e diritto statutario. La nozione di
diritto consuetudinario ha una sua precisa collocazione nell’universo del
diritto in quanto serve a rappresentare il fenomeno della cosiddetta
«razionalità spontanea» nella formazione di un ordinamento giuridico.
Orbene, questo fenomeno della razionalità spontanea si può dare tanto
nella sfera dei rapporti intersoggettivi che sarebbero regolati dalle norme di
condotta, quanto nella formazione delle istituzioni sociali, che sarebbero
regolate dalle norme di organizzazione. Ne è la miglior prova il fatto che,
accanto a un diritto consuetudinario privato, che consiste di norme di
condotta, i giuristi hanno sempre rilevato l’esistenza di un diritto
consuetudinario pubblico, consistente di norme di organizzazione.
Volendo servirsi della distinzione tra norme di condotta e norme di
organizzazione sarà bene sgomberare il campo da possibili confusioni cui
può dare (involontariamente) occasione il modo con cui Hayek si serve di
questa distinzione e di altre, non coincidenti con essa, per raggiungere un
identico scopo, che è quello, come si è detto, di contrapporre lo stato
liberale come ideale della società aperta allo stato totalitario come ideale
della società chiusa. In particolare, è bene non lasciarsi trarre in inganno
dalla utilizzazione promiscua di varie distinzioni, e non confondere la
distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione con le
distinzioni tra norme di diritto privato e norme di diritto pubblico, tra
norme negative e positive, tra norme astratte e ordini concreti.

3. La distinzione fra norme di condotta e norme di


organizzazione in base alla loro diversa funzione
Fatte queste debite precisazioni, bisogna riconoscere che Hayek ha
visto bene l’importanza della distinzione tra norme di condotta e norme di
organizzazione al di là dell’uso meramente classificatorio che ne possano
fare i giuristi. Ancora una volta prescindo dai giudizi di valore dell’autore,
il quale preferisce una società in cui prevalgano le prime a una società in
cui prevalgano le seconde sino a lasciare intendere (con un vero e proprio
salto logico ingiustificato) che vere e proprie norme giuridiche siano
soltanto le prime. L’importanza della distinzione in esame sta in ciò, che
essa meglio di ogni altra serve a individuare le due funzioni che
tradizionalmente vengono attribuite ad un ordinamento giuridico: la
funzione di rendere possibile la convivenza di individui (o gruppi)
perseguenti ciascuno fini singoli, e la funzione di rendere possibile la
cooperazione di individui o gruppi perseguenti un fine comune. Sono norme
di condotta quelle che, limitando la propria opera al coordinamento di azioni
individuali, stabiliscono le condizioni per l’attuazione del massimo
d’indipendenza di individui conviventi. Sono norme di organizzazione
quelle che, mediante un’opera di convergenza (forzata) di azioni sociali,
stabiliscono le condizioni per attuare il minimo di dipendenza necessario a
individui cooperanti. Come si è detto, la dizione è infelice, specie per quel
che riguarda l’espressione «norme di condotta», perché non si vede qual
sorta di contrapposizione si possa stabilire tra condotta e organizzazione,
mentre è immediatamente evidente la contrapposizione tra coordinamento
e convergenza, tra azioni individuali e azioni sociali, tra indipendenza e
dipendenza, tra convivenza e cooperazione. Ma poiché quel che conta non
è tanto la dizione quanto il modo con cui la distinzione viene utilizzata, è
indubbio che il ruolo primario ad essa attribuito nella descrizione di un
ordinamento giuridico rivela l’importanza della contrapposizione che essa
intende rappresentare.
Una volta posta la distinzione in questi termini, cioè una volta messo
l’accento sulla diversa funzione cui adempiono le regole di un
ordinamento giuridico, quella di rendere possibile la coesistenza di
interessi divergenti attraverso la delimitazione delle singole sfere di libertà,
e quella di rendere possibile la composizione di interessi convergenti
attraverso l’assegnazione di ruoli specifici per il raggiungimento di un fine
comune, si spiega facilmente la tendenza a confondere questa distinzione
con quella tra diritto privato e diritto pubblico, da un lato, e con quella tra
norme negative e positive, dall’altro. La prima confusione nasce dal
privilegiare, nell’ambito del diritto privato, l’ordinamento della proprietà (e
dei contratti), in cui il sistema normativo svolge visibilmente la funzione di
coordinamento delle azioni, mettendo in ombra il diritto familiare o quello
dell’impresa, in cui, invece, la funzione del diritto è anche e soprattutto
organizzativa; nell’ambito del diritto pubblico, dal privilegiare la
regolamentazione dei pubblici uffici, in cui è manifesta la funzione
organizzativa, tralasciando il diritto penale che, insieme col diritto della
proprietà e delle obbligazioni, costituisce un insieme di regole che mirano
a stabilire le condizioni minime per la convivenza dei membri del gruppo
sociale. La seconda confusione nasce da uno dei tanti parallelismi,
tramandatici dai giusnaturalisti, tra le norme di convivenza e il precetto
negativo neminem laedere, da un lato, e tra le norme di organizzazione e il
precetto positivo suum cuique tribuere. Ma è un parallelismo che non regge
ad una analisi particolareggiata di un qualsiasi ordinamento giuridico
concreto, la quale mostrerebbe che la regolamentazione della mera
convivenza ha bisogno di norme positive, allo stesso modo che norme
negative possono essere necessarie per il buon funzionamento di
un’organizzazione.

4. Comparazione fra le norme di condotta e di


organizzazione, da un lato, e le norme primarie e
secondarie, dall’altro
Anche se non affiora mai nei saggi di Hayek, vi è un’altra distinzione
tra norme che meriterebbe di essere messa a raffronto (e potrebbe allo
stesso titolo essere confusa) con quella tra norme di condotta e norme di
organizzazione. Mi riferisco alla distinzione tra norme primarie e norme
secondarie, non nel senso corrente in cui per «norme secondarie»
s’intendono le norme su norme, ma nel senso proposto da Hart, per il
quale «norme primarie» sono quelle che impongono obblighi e «norme
secondarie» quelle che conferiscono poteri6. La tentazione del raffronto
viene dal fatto che anche Hart, come Hayek, utilizza la propria distinzione
per caratterizzare due tipi di ordinamento sociale, quello delle società
primitive (ivi compreso l’ordinamento internazionale), composto
prevalentemente da norme primarie, e quello delle società evolute, in cui
le norme primarie sono integrate dalle norme secondarie.
È vero peraltro che i due ordinamenti di cui parla Hart sono posti
assiologicamente in ordine inverso ai due ordinamenti di cui parla Hayek.
Stabilito, infatti, un certo parallelismo tra norme primarie e norme di
condotta, tra norme secondarie e norme di organizzazione, è interessante
osservare che le due dicotomie, quella di Hart tra società primitiva e società
evoluta, e quella di Hayek tra società aperta e società chiusa, s’incrociano:
alla società primitiva del primo, caratterizzata dalla prevalenza delle norme
primarie, corrisponde la società chiusa o tribale del secondo, caratterizzata
dalla prevalenza delle norme di organizzazione; inversamente, alla società
evoluta del secondo, caratterizzata dalla prevalenza delle norme di
condotta, corrisponde in Hart l’ordinamento composto da un apparato
sempre più ricco e complesso di norme secondarie. In altre parole: mentre
per Hart lo sviluppo storico ideale procede secondo la direzione che va
dalle norme primarie alle norme secondarie, per Hayek procede secondo il
verso opposto, che va dalle norme di organizzazione alle norme di
condotta.
Per quanto estremamente seducente, il confronto tra la distinzione di
Hayek e la distinzione fondamentale di Hart non lascia alcun luogo a dubbi
sulla conclusione che le due distinzioni non coincidono. Si potrebbe forse
sostenere che la categoria delle norme di condotta e quella delle norme che
impongono obblighi (le norme primarie di Hart) tendono a sovrapporsi.
Ma si può con altrettanta approssimazione sostenere che la categoria delle
norme di organizzazione coincida con quella delle norme che conferiscono
poteri? Che di fatto Hart si serva della categoria delle norme attributive per
caratterizzare il fenomeno dell’organizzazione dell’apparato statale è
indiscutibile. Ma egli non può disconoscere che sono norme attributive
anche quelle che conferiscono ai privati il potere di stipulare contratti, di
fare testamento, di contrarre matrimonio. D’altra parte, per quanto
importante sia l’attribuzione di poteri per la formazione di qualsiasi
organizzazione, l’attribuzione di un potere è spesso accompagnata
dall’imposizione di un obbligo (l’obbligo di esercitare quel potere entro
determinati limiti); così risulta che nell’ordinamento di un’organizzazione
norme attributive e norme imperative sono compresenti ed entrambe
necessarie. In sostanza, le norme secondarie di Hart sono per un verso una
categoria più ampia di quella delle norme di organizzazione, perché le
norme attributive private non hanno nulla a che vedere con il processo
formativo di un’organizzazione; per un altro verso, più ristretta, perché alla
formazione di un’organizzazione partecipano anche norme imperative che
nella concezione hartiana sono norme primarie. Ancora un’osservazione:
com’è noto, le norme secondarie sono per Hart di tre tipi (norme di
riconoscimento, di mutamento, di giudizio). Di questi tre tipi ricoprono
l’area delle norme di organizzazione il secondo e il terzo, non il primo.
Anche in questo senso la categoria delle norme secondarie è più ampia di
quella delle norme di organizzazione.

5. La distinzione fra norme di condotta e norme di


organizzazione messa in relazione con la distinzione fra
teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come
istituzione
Abbiamo sinora parlato della distinzione tra norme di condotta e
norme di organizzazione come di una distinzione fondamentale
nell’universo giuridico. Possiamo essere sicuri che una distinzione è
fondamentale quando tanto l’uno quanto l’altro termine possono venire
scambiati per il tutto. La distinzione tra norme negative e norme positive,
per esempio, è stata utilizzata non solo, come vedremo, per rappresentare
una delle grandi dicotomie, ma anche per contraddistinguere il diritto
tutto intero da altri sistemi normativi. Lo stesso vale per la distinzione di
cui ci stiamo occupando. Certamente essa è nata dall’esigenza di
contraddistinguere due funzioni essenziali delle norme giuridiche, tanto
essenziali che, come abbiamo visto, la prevalenza or dell’una or dell’altra
può servire a distinguere due tipi di ordinamento statale. Ma poiché è
accaduto che entrambe le parti del tutto siano state tanto allargate da
rappresentare l’intero, la stessa distinzione tra questi due tipi di norme
adombra una distinzione ben più radicale, la distinzione cioè tra due
immagini, o modelli, o concezioni del diritto. Queste due concezioni
sono, da un lato, quella che considera come elemento semplice del diritto
il rapporto giuridico, dall’altro, quella che identifica il diritto non tanto in
un elemento semplice quanto in una determinata struttura, la cosiddetta
istituzione.
Ho già avuto occasione di dire che la teoria del diritto come rapporto e
la teoria del diritto come istituzione ricoprono (insieme con la teoria
normativa) il campo delle grandi concezioni del diritto, beninteso con
tutte le variazioni e le combinazioni che la varietà (e talora la bizzarria)
delle opinioni comporta7. Per quanto, almeno in Italia, la teoria
istituzionale del diritto sia nata in polemica con la teoria normativa, teoria
istituzionale e teoria normativa non sono affatto incompatibili (come non
sono incompatibili la teoria normativa e la teoria del rapporto giuridico)8:
contrasto profondo c’è invece tra teoria istituzionale e teoria relazionale del
diritto, come dimostra bene lo sviluppo della teoria istituzionale in
Francia9. Questo contrasto profondo affonda le sue radici in due
concezioni opposte della società o addirittura della natura umana. Chi vede
il diritto sub specie relationis parte da una considerazione atomistica della
società, parte cioè dall’individuo di per sé considerato che viene a contatto
con altri individui con i quali è costretto a stabilire un certo numero di
rapporti sociali per garantirsi la possibilità di sopravvivenza; chi vede il
diritto sub specie institutionis parte invece da una considerazione organica
della società, cioè dalla società come un tutto organico, del quale gli
individui sono parti cui la società assegna ruoli determinati. È inutile dire
che su questa contrapposizione principale che divide tutta la storia del
pensiero giuridico (e sociale) se ne possono ricomporre infinite altre. Basti
pensare alla contrapposizione tra società di eguali e società di diseguali, tra
società naturale e società civile, tra società e comunità (nel senso
tönnesiano), tra società fondata sul contratto e società fondata sullo status, e
via discorrendo, per arrivare, volendo, sino alla contrapposizione di Hayek,
ispirata ai giusnaturalisti, tra ordine spontaneo e ordine artificiale.
A questo punto non occorre molta immaginazione per rendersi conto
che chi concepisce il diritto come rapporto è portato a considerare
l’ordinamento giuridico come un insieme di norme di condotta
(beninteso, nel senso sopra definito); chi concepisce il diritto come
istituzione è indotto a vedere dappertutto soltanto norme di
organizzazione. In tal modo la distinzione tra due tipi di norme giuridiche
si trasforma, per una tendenza naturale al riduzionismo teoretico che non è
mai disgiunta da una, spesso inconsapevole, presa di posizione ideologica,
in una contrapposizione tra due concezioni del diritto. Tanto la teoria del
diritto come rapporto quanto la teoria del diritto come istituzione sono
strettamente connesse con una ben determinata e ideologicamente ben
caratterizzata concezione del fine del diritto, che per la prima è l’ordine delle
azioni individuali o la pace sociale, per la seconda è il bene comune da
raggiungersi con lo sforzo congiunto e articolato di tutti. Si può parlare di
bene comune anche rispetto alla prima concezione del fine del diritto,
purché si abbia cura di intendere per «bene comune» non già il bene
collettivo ma il bene che tutti hanno in comune, il quale appunto non può
essere che l’ordine. Abbiamo visto che l’unico modo di dare un senso alla
distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione è di assegnare
alle prime il compito di regolare il coordinamento dei fini individuali, alle
seconde quello di regolare l’assegnazione dei compiti per il raggiungimento
di un fine collettivo. Ebbene, la teoria del rapporto ha una concezione del
fine del diritto in generale cui serve un ordinamento di norme di condotta;
la teoria dell’istituzione ha una concezione del diritto in generale cui serve
al contrario un ordinamento di norme di organizzazione. Il diverso modo
di concepire il fine del diritto che caratterizza le due teorie determina la
riduzione che l’una e l’altra compiono del diritto all’uno o all’altro tipo di
norme.
Sino a che l’immagine che i giuristi si facevano del diritto derivava dal
diritto privato, ha prevalso la concezione del diritto come insieme di
rapporti intersoggettivi, e di conseguenza la norma giuridica è stata
costruita a immagine e somiglianza della norma di condotta. La teoria del
diritto come istituzione non poteva nascere se non con lo sviluppo della
dottrina del diritto pubblico che avvenne alla fine del secolo scorso; e solo
da allora si è fatta strada a poco a poco l’idea che il diritto sia strettamente
connesso con quel tipico prodotto dell’azione sociale che è
l’organizzazione. Non a caso uno studioso di diritto pubblico come Hans
Kelsen ha definito il diritto come una tecnica sociale di quella particolare
organizzazione sociale che è l’ordinamento coercitivo10. Chi voglia avere
un esempio illustre del primo tipo di connessione si vada a rileggere alcuni
passi fondamentali della teoria del diritto di Kant, dove si trovano
strettamente unite in un sistema coerente una concezione del diritto come
rapporto intersoggettivo, una definizione del diritto come regola delle
condizioni di ogni coesistenza possibile, la tesi fondamentale che il fine del
diritto non è il raggiungimento di un bene collettivo ma lo stabilimento
delle condizioni che permettano a ciascuno di raggiungere i propri beni
individuali, insieme con una prevalente immagine della norma giuridica
come norma di condotta la quale si limita a determinare le modalità con
cui l’azione deve essere compiuta, la «forma», non la sostanza, dell’azione11.
La teoria istituzionale del diritto è nata, almeno in Italia, da quell’aureo
libretto che è L’ordinamento giuridico di Santi Romano (che era, non bisogna
dimenticarlo, uno studioso di diritto pubblico): essa si svolse in polemica
diretta contro la concezione privatistica del diritto, e quindi si contrappose
alla definizione del diritto come rapporto ben più che alla teoria normativa,
come pur si è andato ripetendo e come lo stesso Romano ha lasciato
credere. In quanto tale è strettamente connessa con la tesi che il diritto
riguardi non tanto la libertà dei singoli individui quanto l’organizzazione
del tutto sociale, e che quindi il fine di un ordinamento giuridico sia il
raggiungimento di un bene collettivo12.
6. Le «grandi dicotomie» e la loro importanza sistematica
Tutta la storia delle riflessioni (o immaginazioni) dell’uomo sulla sua
vita in società è contraddistinta dalla costruzione di «grandi dicotomie», a
cominciare da quella tra stato d’innocenza e stato di corruzione13. Per
secoli il pensiero occidentale è stato dominato (e a giudicare dal modello
proposto da Hayek questo dominio non è ancora esaurito) dalla dicotomia
giusnaturalistica tra stato di natura e stato civile. Della quale hanno avuto
corso due versioni, secondoché fosse attribuito valore positivo al primo
termine (onde la tradizione del pensiero liberale classico che va da Locke
agli economisti classici, fino a Spencer e, come abbiamo visto testé, a
Hayek) o al secondo (da Hobbes a Hegel, per il quale funge da stato di
natura, cioè da stadio in cui si sviluppano rapporti antagonistici, la «società»
civile). Alla rudimentale concezione della storia dei giusnaturalisti è
succeduta la filosofia della storia illuministica: dalla quale è nata la teoria del
progresso che ha dominato sino alla metà del secolo XIX. Attraverso la
teoria del progresso la dicotomia astratta dei giusnaturalisti tra stato di
natura e stato civile viene calata nella storia, storicizzata, e dà luogo alla
contrapposizione tra barbarie e civiltà, tra dispotismo (considerato come
categoria generale del «negativo» storico) e libertà. Dalla metà del secolo
scorso in poi con la nascita della società industriale la funzione di condurre
innanzi la riflessione sulle grandi dicotomie è stata assunta dalla sociologia
(il cui precedente storico più illustre è la contrapposizione saint-simoniana
tra società organiche e società critiche): ad un sociologo si deve la
contrapposizione tra società e comunità, che si ritrova, anch’essa in due
versioni – secondoché si faccia consistere il progresso nel passaggio dalla
comunità alla società o viceversa –, in quasi tutte le analisi del processo di
industrializzazione e delle trasformazioni sociali ad esso conseguenti. Con
la sociologia i due termini della dicotomia cessano dall’essere categorie
storiche e ridiventano, com’erano nella dottrina del diritto naturale,
astrazioni concettuali o modelli ideali. Nonostante la successione articolata
dei quattro o cinque «modi di produzione», anche il marxismo appartiene,
almeno nel suo aspetto profetico, alla storia delle grandi dicotomie (regno
della necessità-regno della libertà, preistoria-storia, società di classe-società
senza classi).
Qui c’interessano, principalmente, le dicotomie. Questo interesse
specifico non ci deve far dimenticare i fasti del pensiero tricotomico: basti
pensare alla tre età del Vico, ai tre stadi di Comte, e, naturalmente, alle tre
incarnazioni dello spirito oggettivo di Hegel. Si faccia attenzione però a
non confondere una tricotomia con l’uso triadico di una dicotomia, che è
pur esso frequente, ed è connesso con la interpretazione dialettica del corso
storico. Della stessa dicotomia si può fare un uso diadico e un uso triadico:
il primo, quando i due momenti della dicotomia vengono assolutizzati e il
processo storico viene concepito o come passaggio, che è avvenuto o è
destinato ad avvenire una volta sola, dal primo al secondo, oppure come
costante e monotona ripetizione dell’identico processo (al progresso
succede la decadenza, alla decadenza il progresso e così via); il secondo,
quando i momenti continuano a restare soltanto due (l’uno è il momento
positivo, l’altro quello negativo, l’uno l’affermazione, l’altro la negazione),
ma il processo storico viene concepito come continuo e non ricorrente, e
vi è sempre un terzo termine che è la ripresa su un nuovo piano del primo,
non la semplice riproduzione. Dei due momenti della dicotomia
giusnaturalistica, stato di natura e stato civile, Hobbes fa un uso diadico (o
l’anarchia o lo stato assoluto, o Behemoth o Leviathan), Rousseau fa un
uso triadico (stato di natura, società civile, sintesi di stato di natura e di
società civile nella società fondata sul contratto sociale). Della grande
dicotomia scaturita dalla interpretazione socialistica della storia – dalla
società di classe alla società senza classi – Engels fa, com’è noto, un uso
triadico là dove, prendendo in considerazione l’esistenza di una società
senza classi e quindi senza stato tra i popoli primitivi, finisce per dividere il
corso della storia umana in tre grandi stadi – comunità primitiva, stato,
società senza classi –, di cui l’ultimo è configurato come un ricorso del
primo. Per tornare al nostro Hayek, dopo aver messo in rilievo sin qui
l’importanza del modello dicotomico nell’analisi del contrasto tra società
aperta e società chiusa, occorre ancora far notare che l’interpretazione del
corso storico che egli dà servendosi di questa dicotomia è triadica: lo stato
totalitario cui si sta avviando la società contemporanea è un ritorno allo
stato tribale se pure in una fase più avanzata e a grandi dimensioni.
Si può anche osservare che le tre fasi storiche del pensiero liberale
corrispondono a quelle del pensiero socialista se pur invertite di segno,
onde le due diverse sequenze: negazione-affermazione-negazione
dell’affermazione, da un lato, affermazione-negazione-negazione della
negazione, dall’altro. Il giudizio opposto, positivo o negativo, sull’età
liberale ottocentesca – giudizio che distingue un liberale da un marxista –
importa naturalmente un giudizio opposto sull’età che precede e sull’età
che segue.

7. La grande dicotomia fra norme di condotta e norme di


organizzazione comparata alle grandi dicotomie dei
giusnaturalisti e dei sociologi positivisti
Scopo di questo articolo non è certo quello di fare un’analisi delle
«grandi dicotomie» bensì, prendendo lo spunto dall’uso che un non
giurista ha fatto di una dicotomia giuridica per esprimere la propria
interpretazione dicotomica della storia, di volgere lo sguardo a tentativi
analoghi e suscitare l’interesse per qualche raffronto.
Più vicina alla dicotomia di Hayek per quanto opposta di segno è la più
celebre delle dicotomie sociologiche, quella escogitata e minuziosamente
elaborata da Tönnies14: più vicina perché il tema dominante è ancora
quello giusnaturalistico della contrapposizione tra società costituita da
rapporti tra individui (Gesellschaft) e società come un tutto organico
(Gemeinschaft); opposta di segno perché quel che per Tönnies è prodotto
arbitrario della volontà umana (Kurwille), cioè il momento della società,
corrisponde all’ordine spontaneo di Hayek; e viceversa, quel che per Hayek
è il prodotto artificiale della volontà dominante, cioè il mondo delle
organizzazioni, corrisponde alla Gemeinschaft di Tönnies che è insieme
naturale e organica (ma il modello di organismo cui si rifà il Tönnies non
sono le grandi organizzazioni ma la famiglia), prodotta da una volontà
essenziale (Wesenwille). Di conseguenza, mentre la predilezione di Tönnies
va verso il mondo organico delle istituzioni sociali, la predilezione di
Hayek muove verso la società disorganica dei rapporti individuali. Ma qui
interessa il rapporto tra forme sociali e forme giuridiche. Ora, anche per
Tönnies ai due tipi di sistema sociale corrispondono due tipi di sistema
giuridico: quello in cui «gli uomini sono in rapporto tra loro come membri
naturali di un tutto» e quello in cui «essi, assolutamente indipendenti in
quanto individui, entrano in rapporto tra loro soltanto in virtù della
propria volontà arbitraria»15. Il prototipo del primo è il diritto di famiglia
(in quanto regola una società organica naturale); il prototipo del secondo è
il diritto delle obbligazioni (in quanto regola rapporti meccanici e
artificiali). In altro luogo, ove definisce il diritto come forma di quei
rapporti la cui materia è la convivenza, Tönnies ribadisce il concetto che
questa forma o viene pensata come unità necessaria delle volontà, il cui
fatto più elementare è l’unione di due corpi (ancora una volta vi è un
riferimento esplicito alla famiglia), oppure come aggiunta per opera della
volontà arbitraria alla stessa materia, il cui fatto elementare è lo scambio di
cose16. Nonostante il contrasto tra i nostri due autori sulla preferenza da
dare all’uno o all’altro sistema giuridico, appare chiaro che anche in
Tönnies la differenza tra i due sistemi giuridici opposti viene ricondotta
alle due diverse funzioni che esplica il diritto nella società: delle quali, la
prima consiste nel rendere possibile la formazione di una volontà collettiva
– il diritto come forma di una società organica –, la seconda, l’incontro di
volontà individuali – il diritto come forma di una società meccanica.
Meno vicina strutturalmente ma rivolta assiologicamente nella stessa
direzione è la grande dicotomia di Herbert Spencer tra società militari e
società industriali17. Meno vicina, perché, allo scopo di caratterizzare i due
tipi di società in base alla loro struttura giuridica, Spencer si vale non della
distinzione tra norme di condotta e norme di organizzazione, ma della
distinzione (che abbiamo visto affiorare anche in Hayek) tra norme
negative e norme positive (cioè tra divieti e comandi). Nel passaggio dalle
società militari alle società industriali dovrebbero via via scomparire,
secondo Spencer, le norme positive per lasciare il posto alle sole norme
negative (di cui il prototipo sono ancora una volta le norme penali).
Ciononostante, le norme negative di Spencer sono parenti strette delle
norme di condotta di Hayek: il loro sopravvento sulle norme positive
significa la stessa cosa, cioè un affievolimento dei poteri dello stato, e
soddisfa l’ideale, proprio del liberalismo ottocentesco, dello stato ridotto ai
minimi termini. Da questo punto di vista, il sistema assiologico di Hayek
non è diverso da quello di Spencer: nella grande dicotomia dell’uno e
dell’altro il momento positivo sta dalla stessa parte, cioè dalla parte del
sistema sociale in cui vi è minor diritto, sia questo minor diritto raffigurato
nella prevalenza delle norme di condotta o delle norme negative. Se mai,
ciò che differenzia il liberale del secolo scorso da quello del nostro secolo è
il giudizio storico: Spencer vedeva la società avviata trionfalmente verso lo
stadio positivo (la sua filosofia della storia è stata un esempio tipico delle
positivistiche teorie del progresso); Hayek, invece, vede nel nostro tempo
«la via alla servitù», aperta per l’appunto dall’inversione di rotta, per cui il
momento negativo prende a poco a poco il sopravvento su quello positivo.

8. ... e alla grande dicotomia di Durkheim fra solidarietà


meccanica e solidarietà organica
Tra le grandi dicotomie proposte dai fondatori della sociologia
moderna, quella che è maggiormente debitrice alla teoria generale del
diritto è la dicotomia di Durkheim. In polemica diretta con lo Spencer,
Durkheim sostiene che la storia sociale dell’uomo si svolge non già
attraverso il passaggio dalle società militari alle società industriali, bensì
attraverso il passaggio dalle società a solidarietà meccanica alle società a
solidarietà organica, caratterizzate dalla divisione del lavoro. Orbene, il
tratto distintivo delle due forme di società sta, secondo Durkheim, nel
diverso tipo di diritto che esse esprimono e ne costituisce la connessione
interna. Ciò che peraltro differenzia la teoria di Durkheim da quelle di
Spencer e di Hayek è che la forma giuridica caratteristica dei due tipi di
società non viene ricondotta a due tipi di norme bensì a due tipi di
sanzione. Le società primitive, tenute insieme da una solidarietà di tipo
meccanico, sono contraddistinte dal fatto che il controllo sociale è
esercitato attraverso il meccanismo di sanzioni repressive (le sanzioni penali
comunemente intese); le società evolute, tenute insieme da una solidarietà
di tipo organico, sono contraddistinte dal fatto che il controllo sociale è
esercitato attraverso il meccanismo di sanzioni restitutive (come il
compenso pecuniario per un torto arrecato, il risarcimento del danno,
ecc.). Queste due forme di controllo sociale caratterizzano due sistemi
giuridici diversi, che Durkheim chiama «diritto repressivo (o penale)» e
«diritto cooperativo (o restitutivo)».
Non è il caso di soffermarsi a fare raffronti, che del resto sono già stati
fatti tante volte, tra la grande dicotomia di Durkheim e le altre. Un
elemento però merita di essere messo in rilievo, giacché abbiamo preso le
mosse da Hayek che si trova sulla stessa linea di Spencer da cui Durkheim
gravemente e a lungo dissente18. Mentre Hayek (lo stesso si potrebbe dire
per Spencer e anche per Tönnies) conserva nella contrapposizione di
norme di condotta e di norme di organizzazione la distinzione
fondamentale tra le due funzioni del diritto, quella della convivenza e
quella della collaborazione, da cui hanno tratto alimento, come si è visto,
due concezioni o immagini del diritto, la privatistica e la pubblicistica,
Durkheim non attribuisce al diritto altra funzione che quella organizzativa
e di conseguenza risolve tutto il diritto in diritto pubblico19. Ha cura,
infatti, di affermare che la sua distinzione tra diritto repressivo e diritto
cooperativo non corrisponde alla distinzione tra diritto pubblico e diritto
privato, mentre, occorre precisare, potrebbe corrispondervi quella
tönnesiana tra diritto organico e diritto di scambio; e che tutto il diritto è
pubblico20. Dal punto di vista della distinzione tra teoria del diritto come
rapporto e teoria del diritto come istituzione non c’è dubbio che la teoria
di Durkheim è una teoria istituzionale del diritto. Rispetto a tutti i modelli
esaminati sin qui, quello durkheimiano, dunque, si differenzia nettamente
per il fatto che il concetto di organizzazione non costituisce più uno dei
due termini della dicotomia, cui si contrappone qualche cosa che non è
organizzazione – si pensi alle norme primarie di Hart o a quelle di condotta
di Hayek, al diritto di scambio di Tönnies o alle norme negative di
Spencer –, ma definisce l’intero campo della ricerca. Con la conseguenza
che la grande dicotomia verrà identificata nella contrapposizione non più
tra società organizzata e società non organizzata, ma tra due forme diverse
di organizzazione, attraverso le quali affiora la differenza, che abbiamo già
avuto occasione di notare, tra l’organismo naturale sul cui modello
Tönnies ha ricostruito il tipo ideale della comunità e l’organizzazione
artificiale che caratterizza secondo Hayek lo stato assistenziale
contemporaneo.

9. Dalla distinzione fra sanzioni repressive e sanzioni


restitutive alla distinzione fra sanzioni negative e sanzioni
positive
Il discorso tönnesiano su due diversi tipi di sanzione invocati a
contraddistinguere due tipi fondamentali di società m’induce a riprendere
il tema svolto in un saggio precedente in cui ho cercato di caratterizzare il
contrasto tra stato liberale e stato assistenziale, servendomi di strumenti
concettuali offerti dalla teoria generale del diritto diversi da quelli proposti
da Hayek. Per l’appunto ho fatto ricorso, anziché a due tipi di norme, a
due tipi di sanzioni, più precisamente alla differenza tra sanzioni negative e
sanzioni positive (tra pene e ricompense). Non mi par dubbio che la
concezione sinora dominante del diritto come forma di controllo sociale
diversa da altre forme di controllo sociale – dominante sia che si risalga alla
tradizione giusnaturalistica (da Hobbes a Kant) sia che si consideri la
tradizione positivistica (da Jhering a Kelsen) – abbia identificato il modo
specifico del controllo giuridico con la funzione repressivo-protettiva che
viene esplicata attraverso la predisposizione e l’esecuzione di sanzioni
negative. Questa identificazione è così ovvia che quando si parla di
sanzione giuridica s’intende parlare di sanzione negativa. Si osservi che i
due tipi di sanzione, cui Durkheim affida il difficile compito di
differenziare i due tipi fondamentali di società, appartengono entrambi alla
categoria delle sanzioni negative.
Un’analisi degli ordinamenti giuridici degli stati moderni, a cominciare
dai documenti costituzionali, in cui il termine «promuovere» ha
soppiantato o messo in disparte il termine «garantire», induce a modificare
l’immagine tradizionale del diritto, o per lo meno ad affiancarne ad essa
una nuova in cui la funzione promozionale si sovrappone a quella
repressivo-protettiva. Con questo non si vuol dire che il diritto non abbia
avuto anche in passato funzione, oltreché di repressione, anche di
promozione. Ma il primo tipo di funzione è sempre stato tanto preminente
che la maggior parte delle teorie del diritto non hanno registrato nelle loro
definizioni del diritto la funzione di promozione. È avvenuto anzi spesso
che la distinzione tra le due funzioni abbia servito di criterio per
distinguere il diritto da altri sistemi di controllo sociale. Esemplare da
questo punto di vista la grande opera di Rudolf Jhering, Der Zweck im
Recht, la quale va alla ricerca delle quattro leve che determinano il
movimento sociale. Di queste quattro leve, due, il premio e la pena,
muovono gli impulsi inferiori; due, il sentimento del dovere e l’amore,
muovono gli impulsi superiori. In questa dicotomia, il diritto occupa un
posto ben preciso: esso ricopre il campo in cui agisce la leva della coazione,
il che val quanto dire che la sua funzione è essenzialmente repressiva. Da
notare che la sfera in cui opera la leva della ricompensa coincide in gran
parte con quella sfera dei rapporti di scambio che costituiscono per
Tönnies il tessuto della Gesellschaft contrapposta alla Gemeinschaft, anche se
lo stesso Tönnies tiene a far presente la differenza tra la sua categoria e
quella jheringhiana21.
La differenza tra funzione repressiva e funzione promozionale di un
sistema normativo può essere brevemente riassunta in questi termini: con
la prima il sistema tende ad impedire il verificarsi di comportamenti non
voluti; con la seconda tende a provocare comportamenti voluti. Tra i
comportamenti voluti e quelli non voluti sta la vasta sfera dei
comportamenti indifferenti, come fare o non fare testamento, contrarre o
non contrarre matrimonio, partecipare o non partecipare ad un concorso:
per i quali il sistema giuridico può intervenire richiedendo che qualora il
comportamento venga effettuato, ciò avvenga secondo determinate
modalità a pena di nullità. Rispetto alla distinzione tra funzione di
repressione e funzione di promozione, l’intervento del sistema normativo
nella sfera dei comportamenti indifferenti può essere interpretato come
appartenente tanto alla prima se si guarda alla pretesa dell’ordinamento che
solo alcuni atti siano validi, cioè giuridicamente efficaci, quanto alla
seconda se si guarda alla tutela che l’ordinamento giuridico è disposto a
concedere soltanto ad essi, e non ad altri.
Sociologi ed economisti, scienziati politici e giuristi, sono d’accordo sul
fatto che il processo di industrializzazione delle società moderne abbia
enormemente aumentato i compiti dello stato, contrariamente a quel che
aveva profetizzato Spencer, e conformemente, invece, a quel che avevano
previsto Durkheim, e naturalmente Max Weber. Che questo aumento di
compiti dello stato abbia determinato un aumento delle norme di
organizzazione, come sostiene Hayek, è innegabile. Ma poiché tra questi
compiti, preminente è quello di dirigere l’attività economica, è altrettanto
innegabile che lo stato moderno si vale sempre più delle tecniche
d’incoraggiamento oltre a quelle di scoraggiamento che gli erano abituali.
Tra queste tecniche d’incoraggiamento assume un ruolo sempre più
evidente l’uso dell’apparato giuridico (cioè del sistema normativo coattivo)
non per rendere difficili o svantaggiosi i comportamenti considerati nocivi
alla società, ma per rendere facili o vantaggiosi i comportamenti considerati
utili, cioè l’uso delle sanzioni positive. Tanto evidente da far considerare
ormai inadeguate le teorie del diritto che non ne tengano conto e sfocata
l’immagine, essenzialmente repressivo-protettiva tuttora predominante,
dell’ordinamento giuridico.

Note
1 Questi due articoli sono: F.A. Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico»,
XXXI, 1966, pp. 601-18 (citato d’ora innanzi come I); Ordinamento giuridico e ordine sociale, in «Il
Politico», XXXIII, 1968, pp. 693-723 (citato d’ora innanzi come II). Del primo è apparsa una
traduzione italiana col titolo Il liberalismo di F.A. Hayek, in «Biblioteca della libertà», IV, 1967, n. 1,
pp. 28-55, che tengo presente nelle citazioni. Chi voglia avere una conoscenza più ampia della
concezione giuridica di Hayek, legga il libro The Constitution of Liberty, University of Chicago Press,
Chicago 1960, tradotto recentemente in italiano col titolo La società libera, Vallecchi, Firenze 1969,
specie la parte seconda, intitolata La libertà e la legge (pp. 151-283).
2 I, p. 609. Il corsivo è mio.
3 II, pp. 717-18. Il corsivo è mio.
4 II, p. 705.
5 Vedine un accenno in II, p. 718 alla fine.
6 H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Einaudi, Torino 1965, p. 35. Sull’argomento cfr. G. Gavazzi,
Norme primarie e norme secondarie, Giappichelli, Torino 1966, e anche il mio articolo Ancora delle norme
primarie e secondarie, in «Rivista di filosofia», LIX, 1968, pp. 35-53, quindi col titolo Norme primarie e
norme secondarie, in Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 175-97.
7 Cfr. Teoria generale del diritto e teoria del rapporto giuridico, in Studi sulla teoria generale del diritto,
Giappichelli, Torino 1955, pp. 53-58, e anche Teoria della norma giuridica, Giappichelli, Torino 1958,
pp. 10 sgg.
8 Teoria della norma giuridica, cit., pp. 17-23 e 30-34.
9 Si veda per tutti l’opera di G. Renard, La théorie de l’institution, Sirey, Paris 1930, dove, com’è
noto, la teoria dell’istituzione è costruita come contraltare alla teoria contrattualistica, non alla teoria
normativa, del diritto.
10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, p. 68; Teoria generale del

diritto e dello stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 18-19; La dottrina pura del diritto, Einaudi,
Torino 1966, pp. 45-46.
11 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, in particolare p. 421
(per la teoria del rapporto), p. 407 (per la teoria del diritto come regola della coesistenza), pp. 225 e
268 (per la critica dello stato paternalistico), p. 406 (per la teoria del diritto come forma). Di tutto
questo ho parlato più distesamente in Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant, Giappichelli,
Torino 1969.
12 «Il diritto non consacra solo il principio della coesistenza degli individui, ma si propone
soprattutto di vincere la debolezza e la limitazione delle loro forze, di sorpassare la loro caducità, di
perpetuare certi fini al di là della loro vita naturale, creando degli enti sociali più poderosi e più
duraturi dei singoli» (S. Romano, L’ordinamento giuridico, Sansoni, Firenze 1945, pp. 35-36).
13 A questo punto riprendo il discorso iniziato nell’articolo Sulla nozione di società civile, in «De
Homine», 1968, n. 24-25, pp. 19-36.
14 F. Tönnies, Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1963.
15 Ivi, p. 224.
16 Ivi, p. 241.
17 H. Spencer, Principles of Sociology, Section 570 (vedi trad. it., Principi di sociologia, a cura di F.

Ferrarotti, Utet, Torino 1967, vol. II, pp. 375-76).


18 E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1962, pp. 138 sgg.,
in particolare la tavola a p. 146; anche pp. 147 sgg.
19 Ivi, pp. 209 sgg.
20 Ivi, pp. 89 e 142.
21 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 233.
VII. La grande dicotomia

1. Caratteristiche delle grandi dicotomie


Nel processo di ordinamento e di organizzazione del proprio campo
d’indagine ogni disciplina tende a dividere il proprio universo di enti in
due sottoclassi che sono reciprocamente esclusive e congiuntamente
esaustive. Per designare il prodotto di questa operazione, che è
un’operazione di classificazione, uso l’espressione «grande dicotomia»1:
grande sia nel senso di totale, perché, in quanto tutti gli enti, nessuno
escluso, cui attualmente e potenzialmente la disciplina si riferisce, debbono
potervi rientrare, si differenzia dalle dicotomie parziali che ne includono
solo una parte; sia nel senso di principale, perché, in quanto tende a far
convergere verso di sé, a risolvere, a fondare altre dicotomie, si differenzia
da altre distinzioni, che pur essendo esaustive, possono considerarsi,
rispetto ad essa, secondarie. Nelle scienze sociali, esempio classico di grande
dicotomia è la distinzione, minuziosamente e persino troppo
pedantescamente elaborata da Tönnies, tra comunità e società2: tale
dicotomia è totale nel senso che nessuna forma di società dovrebbe, a
giudizio del suo autore, sfuggire alla sua capacità comprensiva, è principale
nel senso che altre tradizionali e ben note dicotomie, come quella tra
società naturale e società convenzionale, o quella tra società di status e
società di contractus, sono in essa risolte a causa della sua maggiore capacità
esplicativa. Occorre peraltro subito avvertire che una dicotomia per essere
grande non è detto che sia unica: adottando criteri diversi di classificazione
la stessa disciplina può servirsi, per ordinare e organizzare la propria
materia, anche di due o più dicotomie che non si sovrappongono e che
combinandosi tra loro possono dar luogo a un numero sempre maggiore di
sottoclassi (quattro, se le dicotomie sono due, otto se sono tre e così via)3.
Gaetano Mosca, ad esempio, distingueva tutti i regimi politici sinora
esistiti in aristocratici e in democratici in base al criterio del diverso modo
di ricambio della classe politica, e in autocratici e liberali in base al criterio
della diversa forma di organizzazione del potere: ne derivavano quattro
sottoclassi (regimi aristocratico-autocratici, aristocratico-liberali,
democratico-autocratici, democratico-liberali)4.
La caratteristica principale di una grande dicotomia rispetto alle
dicotomie parziali o secondarie è l’impiego privilegiato dei suoi due termini
allo scopo di delimitare l’orizzonte entro cui si iscrive una determinata
disciplina. Chiamo questo impiego dei due termini «uso sistematico» della
grande dicotomia. Ma non è il solo. Voglio richiamare l’attenzione su due
altre forme di impiego privilegiato dei due termini di una grande
dicotomia che chiamo «uso storiografico» e «uso assiologico». Intendo per
«uso storiografico» di una grande dicotomia l’utilizzazione che di essa viene
compiuta per contraddistinguere due momenti necessari (eventualmente
ricorrenti) dello sviluppo storico, cioè per dividere l’universo in questione
non più sincronicamente ma diacronicamente. Intendo per «uso
assiologico» l’utilizzazione che di essa viene compiuta per dividere
l’universo in questione in due parti contrapposte rispetto al valore, cioè in
due parti di cui l’una rappresenta il momento positivo, l’altra il momento
negativo, l’una ciò che deve essere approvato ed eventualmente promosso,
l’altra ciò che deve essere disapprovato ed eventualmente respinto.
S’intende che in una teoria del progresso (o del regresso) storico, l’uso
storiografico coincide con l’uso assiologico: ciò che viene dopo è anche ciò
che ha più (o meno) valore. Allo stesso modo in una teoria storicistica del
valore, l’uso assiologico coincide con l’uso storiografico: ciò che ha più
valore coincide con ciò che viene dopo (o prima). Come esempio dell’uso
storiografico, si pensi alla celebre dicotomia durkheimiana tra società
meccanica a sanzione repressiva e società organica a sanzione riparativa5:
questa dicotomia divide in due non soltanto l’universo sociale ma anche
l’universo storico, onde la storia è considerata nel suo processo come
movimento dalla società meccanica alla società organica. Come esempio di
uso assiologico, si pensi all’ancor più celebre dicotomia giusnaturalistica tra
stato di natura e stato civile: entrambi questi termini hanno, oltre che un
significato descrittivo, anche un significato valutativo, non importa poi se,
secondo le diverse teorie, portatore del valore positivo e rispettivamente
del valore negativo sia il primo o il secondo.
Un’altra caratteristica delle grandi dicotomie è la seguente: ciascuno dei
due termini è suscettibile, per influenza del suo significato storiografico e
assiologico, di essere esteso sino a connotare non più una sola delle due
parti ma tutto l’universo, cioè di diventare il termine di una classe
universale, respingendo l’altro termine fuori dell’universo, ovvero
degradandolo a termine di una classe vuota (nella logica delle classi la classe
vuota è la negazione della classe universale). Con una metafora si potrebbe
dire che una delle due classi in cui l’universo è diviso dalla grande
dicotomia ha una singolare tendenza a estendere il proprio dominio su
tutto l’universo a danno dell’altra classe, a occupare l’intero territorio. Uno
dei segni attraverso cui si può riconoscere una grande dicotomia è proprio
questa capacità potenziale dell’una e dell’altra classe ad assumere il ruolo di
classe universale. Uno degli espedienti più comuni mediante i quali
avviene l’elevazione di una delle classi a classe universale e rispettivamente
la degradazione dell’altra classe a classe vuota è il ricorso alla coppia reale-
apparente6: pur continuando l’universo ad essere diviso in due grandi classi
esaustive, si dice che solo una di esse lo rappresenta realmente, cioè è il vero
universo, è l’universo autentico, mentre l’altra lo rappresenta solo
apparentemente, cioè è quello stesso universo in forma falsificata o
inautentica. Si ritorni per un momento alla grande dicotomia tönnesiana
società-comunità: chi interpreta il progresso storico come passaggio dalla
società alla comunità, chi, in altre parole, privilegia tanto nell’uso
storiografico quanto nell’uso assiologico della dicotomia la comunità, avrà
la tendenza a risolvere tutto l’universo sociale in comunità, e
probabilmente soddisferà la sua esigenza affermando che solo la comunità è
vera società. Una volta risolto tutto l’universo sociale in comunità,
«comunità» diventa termine di una classe universale nel senso che tutto ciò
che è comunitario è sociale; «società» diventa termine di una classe vuota
nel senso che nulla di ciò che è societario è veramente sociale. Molto
istruttiva a questo proposito la secolare disputa intorno alla grande
dicotomia società naturale-società civile, cui è strettamente connessa l’altra
grande dicotomia diritto naturale-diritto positivo: istruttiva, perché mostra
la tendenza della grande dicotomia a trasformarsi in una falsa dicotomia.
Infatti, poiché per il giusnaturalista solo il diritto naturale è (vero) diritto (il
diritto positivo essendo diritto soltanto in quanto si accordi col diritto
naturale), non vi sono più nell’universo del diritto due classi, ma ve n’è una
sola. Lo stesso vale nell’universo di discorso del positivista, per il quale solo
il diritto positivo è (vero) diritto.

2. La distinzione tra diritto privato e diritto pubblico come


grande dicotomia
Nella teoria del diritto la distinzione che si presenta, più spiccatamente
di ogni altra, col carattere di «grande dicotomia» è la distinzione tra diritto
privato e diritto pubblico. Superfluo aggiungere che non è una grande
dicotomia la distinzione, che pur si trova in testa nella maggior parte dei
nostri trattati, tra diritto soggettivo e diritto oggettivo. La necessità in cui il
giurista si trova di soffermarsi su questa distinzione nasce esclusivamente da
un’omonimia. La distinzione tra diritto soggettivo e diritto oggettivo serve
a chiarire una possibile confusione terminologica, derivante dal fatto che la
stessa parola «diritto» viene adoperata, in certe lingue, in due significati
diversi. Non serve, come serve invece la distinzione tra diritto privato e
diritto pubblico, a dividere in due sottoclassi, reciprocamente esclusive e
congiuntamente esaustive, l’universo del diritto. Tanto per cominciare
l’espressione «diritto oggettivo» non designa una sottoclasse ma tutta intera
la classe degli enti (idest le norme) che sono compresi nell’universo cui si
riferisce la teoria del diritto. Quanto poi all’espressione «diritto soggettivo»,
essa designa una sottoclasse la cui sottoclasse contrapposta non è quella che
si designa col nome di «diritto oggettivo» ma quella cui si attribuisce
comunemente il nome di «obbligo» o «dovere» o simili. Da un lato, non
esiste qualcosa che non sia diritto oggettivo; dall’altro, ciò che non è diritto
soggettivo non è il diritto oggettivo ma l’obbligo. Con ciò non si vuol dire
che la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico sia l’unica grande
dicotomia giuridica, ma semplicemente che una grande dicotomia è
sempre il prodotto di una classificazione, cioè di un’operazione logica, e
non può nascere da una semplice analisi linguistica. Non è affatto escluso
che vi siano altre grandi dicotomie nell’universo giuridico: sarei propenso a
considerar tale la distinzione tra diritto consuetudinario e diritto statuito.
Ma di ciò più oltre. Qui mi limito ad analizzare, dal punto di vista dei
caratteri che contraddistinguono, secondo quel che si è detto nel paragrafo
precedente, le grandi dicotomie, la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico.
Anzitutto la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico è una
distinzione totale, perché, una volta posta, quali che siano i criteri distintivi
proposti per fondarla, non vi è ente dell’universo giuridico, sia esso
rapporto, norma, istituzione (secondo le diverse teorie del diritto, che ho
distinto altrove in teorie del diritto come rapporto, o come norma, o come
istituzione), che non rientri nell’una o nell’altra delle partizioni. Non
conosco teoria del diritto che abbia cercato di sottrarsi all’aut aut imposto
dalla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, escogitando un
tertium genus. Si disputa intorno all’appartenenza di un istituto all’uno o
all’altro: il che dipende sia dal modo diverso con cui può venir interpretato
e configurato l’istituto sia dal diverso criterio adottato per la distinzione.
Ma non si disputa intorno all’insufficienza della distinzione ad abbracciare
tutti gli enti dell’universo che è oggetto del discorso. In altre parole, non vi
è ente dell’universo giuridico che non appartenga né al diritto privato né al
diritto pubblico. Possono esservi se mai enti che appartengono, secondo il
punto di vista da cui vengono considerati, e al primo e al secondo. I casi
incerti o di confine vengono risolti con l’espediente cui si ricorre spesso
nel momento in cui una classificazione viene messa alla prova di fronte alla
varietà degli enti reali: con l’aggiunta di un «quasi» («quasi-privato» e
«quasi-pubblico»).
In secondo luogo è principale. Nel senso che tende ad assorbire e a
risolvere (o dissolvere) altre dicotomie, a costituire una specie di polo
d’attrazione e magari di neutralizzazione di dicotomie tratte da campi affini
o emergenti nello stesso campo, o meglio ancora una specie di centro di
unificazione della inarrestabile produzione dicotomica di cui è fertile ogni
teoria generale. È impossibile fare un elenco completo di tutte le
dicotomie secondarie rispetto a cui la distinzione tra diritto privato e
diritto pubblico è diventata, nella teoria generale del diritto moderna,
principale. Vi rientrano alcune grandi dicotomie classiche, come quella tra
giustizia commutativa e giustizia distributiva, tra società di eguali e società
di diseguali, tra il «neminem laedere» e il «suum cuique tribuere». Anche la
grande dicotomia diritto naturale-diritto positivo può essere considerata,
almeno in una certa interpretazione, come vedremo più oltre, una
dicotomia – rispetto alla distinzione tra diritto privato e diritto pubblico –
«rientrata». Nella teoria generale del diritto moderna la distinzione tra
diritto privato e diritto pubblico ha avuto la funzione di degradare, per così
dire, grandi dicotomie classiche a dicotomie secondarie. La stessa funzione
ha esercitato rispetto alle grandi dicotomie elaborate dalle scienze sociali,
come quelle tra società e comunità, tra società di contractus e società di
status, tra società organica e società meccanica (nel senso durkheimiano): in
questo caso è avvenuto che grandi dicotomie, elaborate per un universo di
enti diverso da quello giuridico, siano entrate nella teoria del diritto
attraverso la porta della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico,
perdendo nel passaggio il loro rango. La distinzione tra diritto privato e
diritto pubblico, infine, ha resistito bene anche di fronte alle dicotomie che
via via sono andate sviluppandosi nello stesso campo della teoria del diritto:
la contesa tra teoria del diritto come rapporto e teoria del diritto come
istituzione è stata ridotta a più giuste dimensioni quando si è cominciato a
vedere nella prima una assolutizzazione del punto di vista privatistico, nella
seconda una assolutizzazione del punto di vista pubblicistico intorno al
diritto. L’unica dicotomia non soggiogata o solo apparentemente
soggiogata, e proprio per questo sempre più importante, è quella tra norme
di condotta e norme di organizzazione7: agli insiemi di norme di condotta
appartiene certo il diritto penale che è considerato tradizionalmente
pubblico; agli insiemi di norme di organizzazione appartiene certo il diritto
dell’impresa (delle grandi imprese) che rientra nel diritto privato.

3. Uso storiografico e uso assiologico della distinzione tra


diritto privato e diritto pubblico
Anche rispetto a quello che ho chiamato «l’uso storiografico» dei due
termini di una grande dicotomia, la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico regge bene alla prova. In una visione storica del diritto, diritto
privato e diritto pubblico compaiono spesso non più come le due parti del
sistema giuridico, ma come i due momenti dell’evoluzione del diritto,
come due fasi del diritto considerato nel suo processo. Si potrebbero fare
osservazioni interessanti sul modo di adattare una dicotomia alla divisione
di un processo storico in periodi, di servirsi dei risultati del dicotomizzare
per stabilire un periodizzamento. Le grandi dicotomie sociologiche
offrono ampia materia ad uno studio di questo genere. Ma per restare nel
campo della teoria del diritto, si osservi il passaggio della grande dicotomia
che qui c’interessa a criterio di periodizzamento, o a indicatore di una
tendenza di sviluppo: il che avviene quando si parla di tendenza alla
privatizzazione e per converso alla pubblicizzazione, o addirittura di un
momento prevalentemente privatistico e di un momento prevalentemente
pubblicistico del diritto. Nel secolo scorso, nella misura in cui si fece strada
la contrapposizione tra società civile e stato, e si mise in evidenza la priorità
della prima sul secondo, e si affermò l’idea del progressivo deperimento
dello stato, si preconizzò l’avvento del momento privatistico del diritto (in
questo senso si deve interpretare dal punto di vista della teoria generale del
diritto la tesi del passaggio dalla società di status alla società di contractus). In
seguito vi fu una inversione di tendenza: già all’inizio del secolo opere
sull’inesorabile declino delle istituzioni tradizionali del diritto privato
richiamavano l’attenzione sul fenomeno contrario, cioè sulla progressiva
pubblicizzazione del sistema giuridico. Deprecata come male o esaltata
come bene, questa tendenza è stata riconosciuta unanimemente come uno
dei caratteri del diritto contemporaneo. Che questa tendenza sia stata vista
nel primato dei rapporti di subordinazione su quelli di coordinazione, o
delle norme di organizzazione su quelle di condotta, o del momento
dell’eteronomia su quello dell’autonomia, o della volontà collettiva sulla
somma delle volontà individuali, e via discorrendo, non ha molta
importanza rispetto all’opinione concorde sul carattere del processo, che
contraddistinguerebbe l’evoluzione del diritto nel passaggio dallo stato
liberale allo stato sociale, dallo stato tutore dell’ordine pubblico allo stato
curatore e promotore del pubblico benessere. Non si vuol negare che siano
state adoperate altre dicotomie per contrassegnare le grandi tappe
dell’evoluzione del diritto, come, per esempio, quella tra norme negative e
norme positive, tra norme di condotta e norme di organizzazione, tra
norme astratte e ordini concreti. Ma spesso è accaduto che per dar loro
maggior credibilità, queste dicotomie sono state ricondotte, quasi
assimilate, alla grande dicotomia diritto privato-diritto pubblico (in ciò
hanno mostrato il loro carattere di dicotomie secondarie), oppure non
hanno retto alla prova di una pur superficiale verifica storica, mentre la
contrapposizione tra tendenza alla privatizzazione e tendenza alla
pubblicizzazione non ha perso nulla della sua rilevanza storica e del suo
prestigio concettuale.
Strettamente connesso con l’uso storiografico è, come si è visto, l’uso
assiologico dei termini delle grandi dicotomie, nel senso che spesso la
distinzione in periodi va di pari passo con una teoria del progresso o del
regresso storico o, in altre parole, il periodizzamento è anche l’indicatore di
una certa processualità (o in una direzione positiva o in una direzione
negativa). Chiunque abbia presente anche soltanto qualche frammento
della letteratura sulla pubblicizzazione del diritto, sa che le valutazioni sul
fenomeno, cioè se essa sia nella direzione del progresso storico o in quella
del regresso, sono varie e discordanti. Si pensi ai due casi-limite della lunga
tradizione liberale-liberista che va da Spencer a Hayek, che vede nel
sopravvento del diritto pubblico sul diritto privato una delle manifestazioni
più inquietanti del dispotismo moderno8; o della tradizione marxista-
comunista, di cui si possono trovare esemplari genuini nei primi e più
vigorosi teorici del diritto sovietico, che identifica (o scambia) il diritto
privato col diritto borghese e pertanto vede nel superamento del diritto
borghese cui tende il nuovo stato anche un superamento del diritto
privato9. Le valutazioni, nell’una e nell’altra tendenza, sono opposte: ciò
che è bene per l’una, e quindi indice di progresso, è male per l’altra, e
quindi indice di regresso. E viceversa. Anche se non si ritiene che l’una
forma di diritto sia destinata a soppiantare l’altra (il soppiantamento del
diritto pubblico da parte del privato e del diritto privato da parte del
pubblico è soltanto il limite ideale del processo) e si continui ad affermare
che diritto privato e diritto pubblico sono destinati a convivere nello stesso
sistema, altro è dire che il diritto pubblico ha la funzione di salvaguardare il
diritto privato, di assicurarne l’efficacia, altro che il diritto pubblico tende a
eliminare, a ridurre sino a farlo scomparire, il diritto privato. Una volta che
ci si sia resi conto dell’uso assiologico della grande dicotomia, diventa più
chiara e anche più plausibile l’osservazione ripetutamente fatta dal Kelsen
intorno al carattere ideologico della distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico10. Ciò che ha carattere ideologico, infatti, non è tanto la
distinzione di per se stessa, quanto la carica valutativa che viene impressa ai
due termini della distinzione, cioè proprio il fatto che nella distinzione
opera o s’insinua un giudizio di valore, per cui ci si serve di quei termini
non per distinguere due classi di eventi ma per contrapporre una classe di
eventi da approvare a una classe di eventi da disapprovare. Prova ne sia che
il Kelsen vede nella distinzione tra diritto privato e diritto pubblico «il
contrasto assoluto tra potere e diritto, o per lo meno tra potere statale e
diritto», onde deriva la convinzione che «nell’ambito del diritto pubblico...
il principio del diritto non sia in vigore nello stesso senso e con la stessa
intensità con cui lo si trova nell’ambito del diritto privato»11. Da
aggiungere che Kelsen, pubblicista, ha colto nella distinzione tra diritto
privato e diritto pubblico soltanto la svalutazione del diritto pubblico, cioè
l’ideologia privatistica, e non la svalutazione, storicamente non meno reale,
del diritto privato, cioè l’ideologia pubblicistica.

4. Uso universalizzante
Resta infine da verificare la fondatezza dell’ultima caratteristica che ho
attribuito alle grandi dicotomie: quella per cui entrambe le sottoclassi
hanno la tendenza a trasformarsi in classe universale respingendo l’altra
fuori dell’universo e facendone così una classe vuota. Qui vale il
riferimento alla contrapposizione tra una concezione privatistica e una
concezione pubblicistica del diritto. Si richiami alla mente per un
momento l’espediente, cui di solito si ricorre per compiere questa
operazione: l’opposizione tra ciò che è reale e ciò che è apparente. Ebbene:
concezione privatistica del diritto è quella per cui solo il diritto privato è
vero diritto; concezione pubblicistica quella per cui è vero diritto solo il
diritto pubblico. Il diritto pubblico per la prima, il diritto privato per la
seconda, sono diritto apparente, diritto impropriamente detto, in una
parola non-diritto. Il che è qualcosa di diverso dal dire che è diritto
destinato a scomparire, secondo quel che argomenta chi fa della grande
dicotomia un uso storiografico, o che è cattivo diritto, secondo quel che
insinua chi ne fa un uso assiologico. Nel linguaggio giuridico uno dei modi
più comuni per espellere dalla sfera del diritto tutto ciò che si ritiene non
debba appartenervi è quello di assegnarlo alla sfera del fatto. Per chi intende
«diritto» come un insieme di norme, cioè di proposizioni espresse o
inespresse che permettono di qualificare comportamenti umani come leciti
o illeciti, viene ad appartenere alla sfera del fatto ogni evento non
qualificato né qualificabile da quelle norme. Orbene il processo di
universalizzazione di una delle due parti della grande dicotomia avviene
abitualmente attraverso la degradazione dell’altra parte a mero fatto. In una
concezione privatistica del diritto i rapporti di diritto pubblico vengono
espulsi dalla sfera giuridica come rapporti di potere o di forza, che si
sottraggono in quanto tali alle regole valide per i rapporti di diritto privato;
in una concezione pubblicistica, i rapporti di diritto privato vengono
estromessi come rapporti di mera convenienza o di opportunità, come
rapporti sociali generici non protetti dal sistema normativo statale. Nella
prima concezione il diritto pubblico viene sospinto nella sfera dell’extra-
giuridico; nella seconda, il diritto privato viene relegato nella sfera del pre-
giuridico. Nell’uno e nell’altro caso il vero diritto è uno solo.
La scienza del diritto è stata dominata per secoli dalla concezione
privatistica del diritto, per la quale sono diritto in senso proprio solo gli
istituti tradizionali del diritto privato. Di questa concezione uno dei
momenti culminanti è stata la dottrina del contratto sociale. Il
contrattualismo, come aveva ben visto Hegel nel criticarne la legittimità12,
si può considerare come l’estrema conseguenza della tendenza prevalente a
pensare tutto il diritto, e quindi anche il diritto pubblico, attraverso una
delle categorie fondamentali del diritto privato, come il supremo tentativo,
mi si permetta l’espressione, di privatizzare lo stato. Via via che si
affermano, invece, le teorie statualistiche ed imperativistiche, per cui il
diritto è comando del sovrano, cioè di colui che detiene il monopolio della
forza in una determinata società, il diritto privato viene ad essere
considerato diritto solo in quanto è diritto pubblico, il che val quanto dire
che tutto il diritto è pubblico, e la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico è soltanto una distinzione di comodo che in realtà non distingue
nulla. Ciò che i giuristi continuano a chiamare diritto privato non sarebbe
altro che una branca del diritto pubblico. Anziché privatizzare lo stato, si
pubblicizza l’individuo. Anziché guardare allo stato dal punto di vista
dell’autonomia degl’individui, si guarda all’individuo dal punto di vista
dell’autorità dello stato. Un esempio ancor più calzante dell’influenza che
ha esercitato nella teoria del diritto la prevalenza dell’immagine privatistica
o di quella pubblicistica del diritto, è il contrasto tra teoria del diritto come
rapporto e teoria del diritto come istituzione. Com’è noto, la teoria
istituzionale è nata, tanto in Francia quanto in Italia, da giuristi provenienti
dal campo del diritto pubblico per i quali il diritto si presentava, più che
come insieme di regole per lo stabilimento di rapporti di convivenza, come
insieme di regole per il coordinamento di azioni convergenti al
raggiungimento di un fine, cioè come strumento di organizzazione in vista
di uno scopo comune13. La teoria del diritto come rapporto tra due
soggetti aveva tenuto il campo sino a che la teoria generale del diritto era
stata modellata sul diritto privato: la teoria dello stato come persona
giuridica, che aveva permesso l’applicazione del concetto di rapporto
giuridico al rapporto tra individui e stato, era stata un tentativo di costruire
la dogmatica del diritto pubblico a immagine e somiglianza di quella del
diritto privato. Quando entrarono in lizza i pubblicisti, sempre più
insofferenti dell’antico giogo, l’immagine del diritto come rapporto
intersoggettivo fu rapidamente offuscata e sostituita da quella
dell’istituzione: per chi aveva a che fare con la realtà dello stato il fenomeno
più imponente di cui si doveva tener conto era l’apparato organizzativo, un
insieme di regole la cui funzione non era tanto quella di dividere parte da
parte, ma di mettere in relazione le varie parti col tutto. Oggi sappiamo
benissimo che sia la teoria del rapporto sia quella dell’istituzione sono
teorie riduzionistiche. Qui si è voluto soltanto mostrare la relazione tra
questa operazione riduzionistica e la presenza sempre incombente della
grande dicotomia.
Non si insisterà mai abbastanza, infatti, che la sfera del diritto privato e
la sfera del diritto pubblico sono dominate da due immagini diverse di
diritto. Per i privatisti il diritto è una specie di arbitro che è chiamato a
dirimere conflitti; per i pubblicisti, il diritto assume piuttosto la figura del
comandante che coordina gli sforzi della sua truppa per vincere la battaglia.
Fuor di metafora, per gli uni, il diritto è un insieme di regole di
convivenza, per gli altri, un insieme di regole per indirizzare azioni
altrimenti disperse verso uno scopo comune. Il contrasto tra queste due
immagini del diritto spiega perché la ricerca di un criterio di distinzione tra
diritto privato e diritto pubblico sia sempre così difficile tanto da sembrare
disperata. Non ci si accorge che nella distinzione si scontrano non due
specie di un unico genere ma due modi diversi di concepire lo stesso
oggetto, o, se si vuole, due punti di vista diversi. Tanto è vero che a chi si
mette dal punto di vista del diritto come regola di convivenza riesce
estremamente ostico assegnare il diritto penale al diritto pubblico, così
come diventa impossibile, per chi si mette dal punto di vista del diritto
come organizzazione, collocare il diritto di famiglia nel diritto privato.
5. Se la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo sia
una grande dicotomia
Ho detto all’inizio che in un universo di discorso può esistere più di
una grande dicotomia. Non appartiene alle caratteristiche di una grande
dicotomia di essere l’unica possibile in un determinato universo. Esistono
altre grandi dicotomie nell’universo del discorso giuridico? Quel che è
stato detto sin qui a proposito della distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico dovrebbe servire, se non m’inganno, a dare una risposta a questa
domanda. Si tratta infatti di sottoporre altre distinzioni alla stessa prova cui
abbiamo sottoposto la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Se
la prova dà gli stessi risultati, si può annoverarla tra le grandi dicotomie.
Come ho già accennato, credo che almeno un’altra distinzione potrebbe
superare la prova: quella tra diritto consuetudinario e diritto statuito. Si
pensi alla divisione della storia del diritto in epoche di diritto
consuetudinario e diritto statuito, all’evoluzione degli ordinamenti
giuridici giudicata in base al parametro della graduale estinzione del diritto
consuetudinario e al graduale predominio del diritto statuito (ciò che ho
chiamato «uso storiografico» della grande dicotomia). Si pensi anche alle
annose e ricorrenti dispute giunte sino a noi intorno alla superiorità della
consuetudine sulla legge come modo di regolare i rapporti sociali (quello
che ho chiamato «uso assiologico»), e il conseguente miraggio che la fine
dello stato coincida con la scomparsa non tanto del diritto quanto del
diritto legislativo e con la sostituzione del diritto posto dall’autorità
pubblica con un insieme di regole osservate, come quelle consuetudinarie,
spontaneamente14. A questo punto ecco che si è verificato anche per questa
distinzione quel processo di universalizzazione di una delle due sottoclassi
in cui ho visto l’ultimo e più rilevante carattere delle grandi dicotomie: il
diritto consuetudinario non è più una parte dell’universo giuridico ma
finisce per identificarsi col diritto stesso, con l’unico diritto possibile in una
società giunta alla compiutezza del suo svolgimento. Infine, questa
distinzione è – insieme con la distinzione tra diritto privato e diritto
pubblico – una delle matrici della distinzione tra diritto naturale e diritto
positivo.
Che della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo non si sia
sinora parlato, può sembrare strano. Ma ciò dipende dal fatto che i due
termini della distinzione – e soprattutto il primo – sono piuttosto ambigui
e non sono immediatamente evidenti come i termini delle distinzioni di
cui si è sin qui discorso. Io ritengo anzi che uno dei modi per scioglierne
l’ambiguità sia proprio quello di servirsi di queste, di trarre giovamento
dalla loro maggiore perspicuità. La mia tesi è che la distinzione tra diritto
naturale e diritto positivo, quando è usata in senso ontologico e non
deontologico, cioè per distinguere due specie di diritto e non il diritto
ideale dal diritto reale, sia quasi sempre un’interpretazione irrigidita e
quindi quasi una duplicazione, ora, della distinzione tra diritto privato e
diritto pubblico, ora, della distinzione tra diritto consuetudinario e diritto
statuito.
Che in molti contesti, anche fra i più noti, diritto naturale e diritto
consuetudinario mal si distinguano e appaiano reversibili l’uno nell’altro,
oppure il diritto naturale, nella contrapposizione al diritto positivo, faccia
per così dire le veci, o abbia la stessa funzione, del diritto consuetudinario,
è questione che meriterebbe più lungo discorso. Ma è già sufficientemente
illuminante un celebre testo di Pascal: «J’ai grand peur que cette nature ne
soit elle-même qu’une première coutume, comme la coutume est une
seconde nature»15. Quando Antigone invocava «le leggi non scritte», si
appellava al diritto naturale, come sulla scorta di Aristotele interpretarono
abitualmente i giusnaturalisti, oppure al diritto tramandato, come intese
Hegel?16 Tanto il diritto romano nella tradizione del diritto comune
quanto la common law inglese furono accolti e giustificati dai giuristi come
diritto la cui validità dipende tanto dalla autorità della tradizione quanto
dall’essere diritto della ragione. Lo scambio dei due argomenti, quello della
legittimità tradizionale e quello della legittimità razionale, è frequentissimo
e, si direbbe, innocuo. Il diritto romano è un diritto tramandato la cui
validità riposa sulla sua razionalità allo stesso modo che la common law è un
diritto della ragione la cui validità riposa sulla tradizione. Le parti si
potrebbero invertire. Nel diritto internazionale, diritto naturale e diritto
consuetudinario si sono scambiati, secondo i tempi e gli autori, il ruolo di
fonte primaria delle norme generali dell’ordinamento. E ancora
recentemente la polemica contro il diritto positivo è stata portata innanzi
in nome del diritto spontaneo, cioè in nome di un attributo del diritto, la
«spontaneità», che sin dall’apparire della distinzione tra diritto secondo
natura e diritto secondo convenzione era stato considerato come un
carattere del primo17.
Analoghe considerazioni si possono fare per quel che riguarda la
sovrapposizione della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo alla
distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. Anche in questo caso il
materiale storico è così abbondante che l’argomento meriterebbe una
trattazione a parte. Una delle raffigurazioni più costanti del diritto naturale
è quella che ce lo rappresenta come il diritto che regola i rapporti tra gli
individui singoli e isolati l’uno rispetto all’altro nello stato di natura, cioè
nello stato in cui non esiste ancora un diritto pubblico. Gli istituti tipici
dello stato di natura sono la proprietà, il contratto e in genere anche la
famiglia: sono gli istituti del diritto privato. Il passaggio dallo stato di natura
allo stato civile avviene con l’istituzione degli organi del potere pubblico,
incaricati di far rispettare, ricorrendo in ultima istanza alla forza, gli
obblighi assunti dagl’individui nella società prestatuale. Il diritto positivo
per eccellenza è il diritto pubblico, tanto che non si riuscirebbe a
distinguere nella teoria giusnaturalistica tradizionale il processo di
positivizzazione del diritto da quello della sua statualizzazione. La
riduzione del diritto naturale a diritto privato e rispettivamente del diritto
positivo a diritto pubblico è espressamente formulata da Kant: «La
divisione del diritto naturale non risiede... nella distinzione di diritto
naturale e di diritto sociale, ma in quella di diritto naturale e di diritto civile,
di cui il primo è chiamato diritto privato, il secondo diritto pubblico»18. Nel
processo di monopolizzazione del diritto positivo da parte dello stato tutto
il diritto positivo è diritto pubblico, anzi il diritto è vero diritto, cioè ius
perfectum, solo in quanto è pubblico. Che poi questo diritto, che è positivo
in quanto pubblico, regoli anche rapporti tra privati non toglie nulla al suo
carattere di diritto pubblico, dal momento che quei rapporti tra privati
diventano rapporti veramente giuridici solo in quanto ricevono protezione
attraverso gli organi dello stato. Nella teoria generale del diritto questo
processo di eliminazione del diritto privato come diritto prestatuale è
avvenuto attraverso l’espulsione delle norme primarie dall’ordinamento
giuridico. Compiuto questo processo, il recupero del diritto privato come
diritto prestatuale o naturale non poteva avvenire se non attraverso la
riscoperta del «diritto dei privati»19. La contrapposizione del diritto dei
privati al diritto pubblico (che include anche il diritto privato) è una delle
tante forme in cui è stata espressa nei secoli la contrapposizione tra diritto
naturale e diritto positivo.

6. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo come


dicotomia derivata
Se tutto ciò è vero, la dicotomia diritto naturale-diritto positivo
sarebbe, contrariamente a quel che si crede, una dicotomia derivata, non
originaria, derivata nel senso che è sempre risolvibile nell’una o nell’altra
delle due grandi dicotomie, se non in tutte e due contemporaneamente.
Anche della distinzione tra diritto naturale e diritto positivo si è fatto un
uso storiografico (stato di natura e stato civile come due momenti del
processo storico), un uso assiologico (il diritto naturale ha più valore del
diritto positivo o viceversa) e un uso universalizzante (solo il diritto
naturale, o rispettivamente il diritto positivo, è il vero diritto). Ebbene: il
passaggio dallo stato di natura allo stato civile può essere interpretato ora
come passaggio da una società regolata da norme allo stato diffuso e
osservate spontaneamente a una società regolata da norme poste da
un’autorità a ciò delegata, oppure da una società semplice composta di
individui autonomi ed eguali che regolano con patti i loro rapporti di
convivenza a una società complessa in cui i vari enti che la compongono
sono posti in rapporto gerarchico e tutti quanti ordinati autoritativamente
a un fine comune. Molti degli argomenti con cui viene sostenuto il
primato del diritto naturale sul diritto positivo sono identici agli argomenti
con cui si difende la superiorità assiologica del diritto spontaneo sul diritto
riflesso, o del diritto tra eguali sul diritto tra diseguali. E viceversa molti
degli argomenti del positivismo giuridico sono tratti dall’arsenale dei
fautori del diritto statuito contro il diritto consuetudinario o del diritto
come ordinamento coattivo fondato sul monopolio della forza contro lo
pseudo-diritto fondato sul principio della reciprocità tra individui o gruppi
eguali. Infine si consideri l’uso universalizzante di uno dei due termini
della distinzione nella formula pregnante del positivismo giuridico: «Non
esiste altro diritto che il diritto positivo». Con questa formula in realtà si
vuol dire che non esiste altro diritto che il diritto legislativo, cioè il diritto
imposto dai poteri pubblici dello stato, cioè che il diritto positivo è diritto
statuito (non più consuetudinario) e pubblico (non più privato).
Tutto ciò non esclude che la distinzione tra diritto naturale e diritto
positivo abbia altri significati oltre a quelli qui messi in rilievo, non sia
soltanto il travestimento delle due grandi dicotomie. Quel che premeva in
questa sede non era tanto un’analisi dei vari significati della fatidica
distinzione, quanto la conferma che se ne poteva trarre di alcuni caratteri
delle due grandi dicotomie qui esaminate.

Note
1 Mi riferisco all’articolo precedente Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria del diritto, in questo
stesso volume. Ma vedi anche Sulla nozione di società civile, in «De Homine», 1968, n. 24-25, pp. 19-
36.
2 Richiama l’attenzione, sulle grandi dicotomie del pensiero sociologico, P. Farneti, Theodor
Geiger e la coscienza della società industriale, Giappichelli, Torino 1966, pp. 230 sgg.
3 Per chi ne voglia sapere di più rinvio a P.F. Lazarsfeld, L’algebra dei sistemi dicotomici, in R.
Boudon-P.F. Lazarsfeld, L’analisi empirica nelle scienze sociali, vol. II, Il Mulino, Bologna 1969, pp.
353-84.
4 Ho illustrato questa matrice moschiana nel saggio Mosca e la teoria della scienza politica, ora in
Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari 1969, p. 209.
5 Alla quale è dedicata una delle sue opere maggiori, De la division du travail social (1893), che si
può leggere in traduzione italiana, La divisione del lavoro sociale, a cura di A. Pizzorno, Edizioni di
Comunità, Milano 1962.
6 Ch. Perelman-L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, vol. II, PUF, Paris 1958, pp. 556-
61 (trad. it., Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino 1966, pp. 437-41).
7 Sulla quale mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Dell’uso delle grandi dicotomie nella teoria
del diritto, già citato.
8 Per Hayek si vedano i due articoli The Principles of a Liberal Social Order, in «Il Politico», XXXI,

1966, pp. 601-18, e Ordinamento giuridico e ordinamento sociale, in «Il Politico», XXIII, 1968, pp. 693-
723.
9 Particolarmente interessante a questo proposito P.I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e
dello stato, a cura di U. Cerroni, Einaudi, Torino 1967, pp. 229 sgg. e 246 sgg. Cfr. sul tema U.
Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Editori Riuniti, Roma 1969.
10 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952 ma 1967, pp. 134-36; La
dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. 313-16.
11 La dottrina pura del diritto, cit., p. 314.
12 Sin dall’opera giovanile Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, ed. Lasson,
vol. VII, p. 405 (trad. it., Scritti di filosofia del diritto, a cura di A. Negri, Laterza, Bari 1962, p. 110).
Per ulteriori particolari rinvio al mio articolo Hegel e il giusnaturalismo, in «Rivista di filosofia»,
XLVII, 1966, pp. 387-89.
13 Questa prospettiva è evidente nell’ormai famoso saggio di Santi Romano, L’ordinamento

giuridico, Sansoni, Firenze 19452.


14 Questa corrispondenza tra l’estinzione dello stato e l’osservanza spontanea delle norme sociali
si trova in alcuni passi di Lenin: «Lo stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà
realizzato il principio: “Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”, cioè
quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della convivenza
sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo ch’essi lavoreranno volontariamente secondo le
loro capacità» (Stato e rivoluzione, in Opere scelte, vol. II, Edizioni in lingue estere, Mosca 1948, p.
192. Cfr. anche a p. 196).
15 Pascal, Pensées, ed. della «Bibliothèque de la Pléiade», p. 1121 (Pensée n. 120).
16 Per Aristotele cfr. Retorica, 1373d e 1375a. A proposito del conflitto che pone Antigone di
fronte a Creonte Hegel dice: «La morte, a cui in caso di guerra il governo espone l’individuo, è
dunque il punto in cui la legge umana viene a incontrarsi con la legge familiare o divina, dacché a
quest’ultima è riservato il culto dei morti» (Fenomenologia dello Spirito, trad. it., La Nuova Italia,
Firenze 1936, p. 15 in nota).
17 Mi riferisco alla nota teoria di R. Ago, Diritto positivo e diritto internazionale, in Scritti di diritto
internazionale in onore di T. Perassi, vol. I, Giuffrè, Milano 1957, pp. 3-65.
18 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1956, p. 422.
19 È di rito la citazione del vecchio saggio di W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, in «Rivista
italiana per le scienze giuridiche», n.s., IV, 1929, pp. 43-124. Ma si vedano successivamente gli studi
di Salvatore Romano, Ordinamenti giuridici privati, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», V,
1955, pp. 149-331; Autonomia privata, ivi, VI, 1956, pp. 801-922, sino al corso universitario,
Ordinamento sistematico del diritto privato, vol. I, Morano, Napoli, s.d.
VIII. Teoria e ideologia nella dottrina di Santi
Romano

1. La fortuna postuma della dottrina di Santi Romano


La teoria dell’istituzione di Santi Romano – a venticinque anni dalla
morte e a cento anni dalla nascita del suo autore – sembra godere in questi
ultimi anni di una particolare fortuna. Sono uscite recentemente e nello
stesso tempo le traduzioni francese e tedesca de L’ordinamento giuridico
(1918), la sua opera maggiore di teoria generale del diritto1. Nella
Introduzione alla traduzione francese, Ph. Franceskakis scrive: «Tel quel,
cet apport de Santi Romano ne semble pas avoir vieilli. Mieux, il parait
épouser le temps présent encore mieux que le sien» (p. VII). Nella Premessa
alla traduzione tedesca Roman Schnur afferma: «Jedenfalls kann man das
“institutionelle Rechtsdenken” in der europäischen Rechtswissenschaft...
nur unzulänglich erörtern, wenn man nicht vor allem dieses Werk von
Santi Romano in die Diskussion einbezieht» (p. 6). Nel 1963 era uscita la
traduzione spagnola con un’ampia e documentata Introduzione di
Sebastián Martín-Retortillo2, il quale, dopo aver detto che L’ordinamento
giuridico è un libro fondamentale che segna una pietra miliare nello sviluppo
del pensiero giuridico contemporaneo, lo presenta come un’opera
precorritrice nella corrente del pluralismo giuridico contro la concezione
monistica che riduce il diritto al solo diritto statuale, più in generale contro
il positivismo giuridico nella sua accezione più stretta. Non accade
frequentemente ad un’opera scritta in una lingua così poco diffusa come
l’italiano di essere tradotta in tre delle maggiori lingue universali; e quando
ciò accade, è segno di una considerazione e di una fortuna assolutamente
eccezionali. Per quel che riguarda il mondo di lingua inglese, alla
mancanza di una traduzione sopperisce l’ampia e accurata esposizione del
pensiero di Santi Romano, fatta da un giurista di fama come Julius Stone
in una delle sue ultime opere3.
Eppure sino a qualche anno fa, l’eco della dottrina di Romano era stata
circoscritta entro il ristretto ambito della scienza giuridica italiana, che dal
suo primo apparire ne aveva discusso le tesi principali e aveva accolto con
favore la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici contro la pretesa
esclusività del diritto statuale. Per molti anni, quando fuori d’Italia si
discuteva della teoria dell’istituzione, il riferimento obbligato era alla
dottrina di Hauriou e dei suoi seguaci. L’istituzionalismo si è identificato
per anni con la dottrina francese dell’istituzione. Non vorrei sbagliare, ma
l’unico grande giurista non italiano che si sia accorto allora di Romano fu
Carl Schmitt, il quale nel saggio I tre tipi di pensiero giuridico (i tre tipi sono,
com’è noto, il normativismo, l’istituzionalismo e il decisionismo) riservò
un posto d’onore, tra i fautori dell’istituzionalismo che faceva risalire
esattamente ad Hauriou, al nostro Romano, di cui disse che aveva
«giustamente affermato che non è corretto parlare del diritto italiano o
francese, riferendosi soltanto ad una somma di regole, mentre in verità è
l’organizzazione complessa e differenziata dello stato italiano o francese, in
quanto ordinamento concreto, a produrre tale diritto»4. La teoria
dell’istituzione ebbe intorno al ’30 grande risonanza in Francia, quando vi
si richiamarono due giuristi di diversa tendenza come Renard e Gurvitch,
ma in tutti i libri e articoli dedicati all’argomento che ho potuto consultare
non ho trovato alcuna traccia dell’opera di Romano5. Nel 1931 le
«Archives de philosophie du droit et de sociologie juridique» iniziarono le
loro pubblicazioni con un fascicolo dedicato alla teoria dell’istituzione
dove Romano non è nominato neppure una volta6. Nel 1933 il
costituzionalista inglese Ivor Jennings faceva conoscere la teoria
dell’istituzione in Inghilterra, in un paese in cui negli stessi anni ad opera di
Cole ed Hobson venivano diffuse le teorie del «guild-socialism», favorevoli
a un’articolazione pluralistica dello stato, e il pluralismo era diventato
popolare attraverso l’opera diffusissima di Harold Laski, in un paese quindi
in cui la teoria istituzionalistica poteva trovare un uditorio ben disposto.
Ma gli autori cui si riferiva lo studioso inglese erano ancora Hauriou e
Renard, stranamente non Gurvitch, e meno stranamente non Romano7.
Pur tenendo il debito conto della tradizionale ignoranza della dottrina
giuridica francese ed inglese nei riguardi della italiana, bisogna riconoscere
che non doveva essere tanto naturale per uno straniero andare a cercare
una teoria antistatalistica in Italia negli anni dell’imperante fascismo.
Nonostante il prestigio di cui godette sempre Romano come giurista, la
sua teoria generale del diritto, proprio perché veniva colta nel suo aspetto
prevalente di teoria del pluralismo, non poteva essere approvata da un
regime consacrato al culto dello stato. Sintomatico il fatto che quando nel
1940 furono pubblicati i quattro volumi degli studi in onore, Giuseppe
Bottai, allora ministro dell’educazione nazionale del governo fascista, vi
premise alcune pagine per sostenere che la crisi dello stato da cui aveva
preso le mosse la dottrina pluralistica era stata ormai superata dal fascismo e
che ad ogni modo gli esempi di stato pluralistico di cui si era servito il
Romano, la società medioevale e la società europea dei primi anni del
secolo, non avevano niente a che vedere con lo stato corporativo che
«rappresenta l’opposto delle situazioni, per le quali non può parlarsi di
pluralità»8. L’ex sindacalista rivoluzionario, diventato teorico dello stato
fascista, Sergio Panunzio, aveva già detto del resto molto chiaramente
alcuni anni prima che, se era vero che la teoria del pluralismo era un
episodio legato alla nascita del sindacalismo, era ormai un episodio
superato da quando il sindacalismo puro si era trasformato in sindacalismo
di stato e Sorel era stato definitivamente sepolto da Mussolini9. Con ciò
non si vuol dire che il pluralismo fosse scomparso dalla scena: il fascismo
era culturalmente troppo sterile per poter imporre un orientamento
piuttosto che un altro. Basterà ricordare lo studio appassionato che dedicò
alla dottrina di Romano e in particolare al problema del pluralismo nel
1936 e nel 1939 Giuseppe Capograssi10, che aveva iniziato le sue riflessioni
sullo stato, sulla crisi dell’autorità e sulla democrazia diretta (cito tre titoli
delle sue opere giovanili)11, cioè su temi che lo avrebbero portato al
pluralismo, negli stessi anni in cui si andava diffondendo l’opera di
Romano. Ma si trattava pur sempre di un episodio del dibattito interno alla
scienza giuridica italiana; e poi, per quanto il fascismo fosse culturalmente
sterile, non era tanto inetto nella politica culturale da non essere riuscito a
porre il nostro paese in uno stato d’isolamento, che aveva avuto per
conseguenza un certo provincialismo da parte nostra e per la legge del
contraccambio un certo disinteresse per le cose nostre da parte degli altri
paesi.
Ora che questo isolamento è stato rotto e che l’opera di Romano sta
entrando nella circolazione del pensiero giuridico universale, può valer la
pena di tentarne una interpretazione e una valutazione complessiva, allo
scopo di mettere in evidenza che cosa essa rappresenti nei suoi due aspetti
di «teoria» e di «ideologia».

2. È necessario distinguere la teoria dell’istituzione dalla


teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici
Nella dottrina di Santi Romano12 sono contenute due teorie che è
bene tenere distinte, perché non costituiscono, checché se ne dica, un
tutto unitario. Queste due teorie sono: la teoria del diritto come
istituzione che si contrappone alla teoria normativa e la teoria della
pluralità degli ordinamenti giuridici che si contrappone alla teoria
monistica o statualistica. Gli studiosi che si sono sinora occupati della
dottrina di Romano sono stati tanto avvezzi a considerarla come un tutto e
a discutere le due teorie congiuntamente da non rendersi conto che l’una è
indipendente dall’altra. Non vi è nessun nesso necessario fra teoria
dell’ordinamento e pluralismo, così come fra teoria della norma e
monismo. Non vi è nessuna incompatibilità fra teoria dell’ordinamento e
monismo, così come fra teoria della norma e pluralismo. Anche se di fatto
le più note teorie istituzionalistiche sono anche pluralistiche, la
congiunzione fra istituzionalismo e pluralismo nonché quella fra
normativismo e monismo non è una regola. Augusto Thon, il principe dei
normativisti, è anche un pluralista. Il principe degli istituzionalisti,
Maurice Hauriou, la fonte principale se pur presto abbandonata di
Romano13, non ha alcun interesse per le conseguenze pluralistiche della
sua dottrina. Per restare in Italia: Benedetto Croce è un pluralista convinto,
ma se dovessi rispondere alla domanda se fosse un istituzionalista o un
normativista sarei in imbarazzo.
Mi preme sottolineare la presenza nella dottrina romaniana di due
teorie distinte perché, sia per la comprensione teorica sia per la
interpretazione ideologica del di lui pensiero, ritengo che la seconda sia più
importante della prima. E non a caso è anche quella che nell’opera del
1918 è di gran lunga la più elaborata14. Per entrare subito in argomento,
ritengo, non da oggi, che la teoria del diritto come istituzione ubbidisse a
un’esigenza giusta ma il bersaglio, e quindi anche l’esito finale fosse, a ben
guardare, sbagliato. Nonostante il riferimento polemico alla «règle de
droit» di Duguit, ripreso attraverso Hauriou anche da Romano15, il padre
dell’istituzionalismo non si era mai proposto come avversario principale il
normativismo: dalla tradizione del pensiero giuridico tomistico, il maestro
di Tolosa, e ancor più il suo fedele discepolo Georges Renard16, avevano
derivato una invincibile diffidenza verso il volontarismo, si trattasse della
volontà dall’alto che si esprime nella legge dello stato, o della volontà dal
basso che si esprime attraverso il contratto. Ma il normativismo, come era
ormai evidente nel pensiero del Kelsen, che si veniva formando proprio in
quegli anni, non era necessariamente connesso con il volontarismo, anzi se
ne veniva staccando energicamente. Come si verrà scoprendo in seguito,
teoria dell’ordinamento e teoria della norma non erano affatto in contrasto
fra loro: anzi, solo attraverso un recupero e un approfondimento della
teoria normativa, cioè attraverso il riconoscimento dell’importanza delle
norme di organizzazione accanto a quelle di condotta, o per usare
l’espressione hartiana, delle norme secondarie accanto e oltre le norme
primarie, si sarebbe risolta la maggior difficoltà della dottrina istituzionale,
derivante dal fatto che il concetto di diritto era stato definito risolvendolo
nel concetto di organizzazione, ma il concetto di organizzazione non era
stato ultimamente chiarito. Il concetto di organizzazione era rimasto non
chiarito, perché l’unico modo di fare un passo avanti nella sua
determinazione era di ricorrere alle norme di secondo grado, cioè a quelle
norme che regolano il riconoscimento, la modificazione, la conservazione
delle norme di primo grado, e che fanno di un insieme di rapporti
intrecciantisi fra individui conviventi un tutto ordinato, appunto un
ordinamento, o un sistema, se pure non nel senso di un sistema logico o
etico ma nel senso kelseniano del sistema dinamico, mentre era chiaro che
le norme che aveva in mente Romano quando respingeva la teoria
normativa erano le norme primarie. Una volta accolta l’idea che dal punto
di vista giuridico, che era poi il punto di vista da cui Romano non voleva
assolutamente allontanarsi, un’organizzazione è fatta anch’essa di norme,
l’istituzione, anziché essere un sistema pre-normativo, come l’intende
ripetutamente e insistentemente Romano, è un sistema normativo
complesso17.
3. La teoria istituzionale è meno elaborata di quella
pluralistica
Che la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici sia più elaborata
di quella istituzionale appare a chiunque abbia letto e meditato
L’ordinamento giuridico. Delle due parti in cui è diviso il libro, la seconda
dedicata al secondo tema è non solo ben più ampia della prima ma anche
tecnicamente più raffinata18. Confesso poi che le pagine sull’istituzione mi
hanno sempre lasciato non del tutto soddisfatto. Per un verso, come è stato
più volte osservato, la parola-chiave «organizzazione» non viene mai
chiaramente definita; per un altro verso, ora il diritto viene definito come
«organizzazione», cioè risolto totalmente in un’altra entità, che non viene
definita, e che spesso viene denominata con altre parole, come
«struttura»19, «posizione»20, «sistema»21, ora l’organizzazione viene
considerata come «lo scopo caratteristico del diritto»22. Ma se
l’organizzazione non è il diritto ma lo scopo del diritto, che cosa è allora il
diritto? In altre parole, il diritto è organizzazione o è qualche cosa che sta
dietro e prima dell’organizzazione? Ma se sta prima dell’organizzazione,
non ne segue che il diritto viene prima... del diritto? Non vorrei
sbagliarmi, ma ho l’impressione che questa difficoltà sia una spia della
mancata risoluzione del concetto di organizzazione in quello di sistema
normativo (intendo del concetto «giuridico» di organizzazione, cioè del
concetto di organizzazione cui intende riferirsi esclusivamente Romano)23.
In realtà ciò che viene prima dell’organizzazione o è qualche cosa di
pregiuridico – come potere, volontà concorde, idea direttiva, forze sociali,
ecc. – e allora è giocoforza immergere il diritto nella società da cui nasce
(ma è proprio l’operazione che Romano si rifiuta di compiere), oppure è e
non può essere altro che il sistema normativo complesso, di cui ho parlato.
Ma se è così lo sbocco dell’istituzionalismo giuridico è ancora una volta il
normativismo se pure un normativismo più consapevole e più progredito.
Bisogna anche aggiungere che con la sua teoria dell’istituzione Hauriou, a
differenza di Romano, non si era affatto proposto di dare una definizione
del diritto. Il suo scopo era un altro: era quello di mostrare che un sistema
giuridico non nasce dalla volontà ma da un fatto sociale com’è
l’organizzazione di un potere attorno ad un’idea. Hauriou aveva bene in
mente che non si poteva comprendere che cosa è un’istituzione senza
imbattersi nel fenomeno pregiuridico, sociale o politico che sia, del
«potere»24. L’aver voluto identificare il concetto di diritto nel concetto di
istituzione allo scopo di fornire un concetto giuridico e non sociologico di
diritto, anziché fare dell’istituzione il fatto costitutivo del diritto (e in
quanto tale pregiuridico), condusse Romano, a mio parere, in difficoltà
che solo la teoria del diritto dopo Romano avrebbe risolto.

4. La teoria pluralistica è indipendente da quella


istituzionale
La seconda parte del libro è esente da queste difficoltà. Ma, come ho
detto, la teoria pluralistica è logicamente e anche storicamente
indipendente dalla teoria istituzionale. Il riconoscimento di una
molteplicità di ordinamenti oltre quello dello stato non dipende dalla
definizione del diritto come norma o come istituzione, ma dai caratteri
specifici che vengono attribuiti alla norma giuridica o alla istituzione
giuridica per distinguerle rispettivamente dalla norma non giuridica e dalla
istituzione non giuridica. Se Romano può coerentemente sostenere che lo
stato non è il solo ordinamento giuridico, ma è «una specie del genere
diritto»25, ciò dipende dal non aver attribuito all’istituzione, che egli
identifica con l’ordinamento giuridico, caratteri come quello della
coazione o della sanzione istituzionalizzata che sono propri di
quell’ordinamento giuridico cui siamo soliti dare il nome di stato. Non si
può confondere l’antinormativismo con l’antistatalismo: la confusione
nasce soltanto se si risolve il concetto di norma giuridica in quello di
norma statale, risoluzione che, per quanto lecita e di fatto frequentemente
compiuta, non è necessaria. Non si riesce a vedere infatti come, partendo
dalla norma, si debba necessariamente arrivare alla dottrina monistica se
non si parte dal presupposto tutt’altro che inevitabile che non vi siano altre
norme giuridiche che le norme statali. Credo di non aver bisogno di
ricordare che lo stato moderno – quello stato moderno la cui crisi orienta il
Romano verso il pluralismo – nasce da due processi paralleli,
dall’unificazione di tutti gli ordinamenti prestatali o antistatali nell’unico
ordinamento dello stato accentrato e accentratore, e dall’unificazione di
tutte le fonti del diritto nell’unica fonte del diritto statale per eccellenza, la
legge. Di qua risulta che si può sostenere la non-statualità del diritto tanto
facendo riemergere gli ordinamenti a poco a poco assorbiti dallo stato
moderno, quanto prendendo in considerazione tipi di norme diverse da
quelle poste dalla volontà dominante ad esclusione di altre in un
determinato territorio e fatte valere mediante la coazione fondata sul
monopolio della forza fisica.
Probabilmente, rendendosi conto della debolezza di una dimostrazione
fondata su una ri-definizione, cioè sulla ridefinizione del diritto come
istituzione, dal momento che in una ri-definizione c’è sempre un
elemento di arbitrio, Romano precisò che la tesi monistica era in aperto
contrasto non solo con il «concetto astratto di diritto», ma anche «con la
storia e con la vita giuridica, quale si svolge nella realtà»26. Era dunque
tanto convinto della storicità della sua teoria da riconoscere che la teoria
contraria, pur non essendo teoricamente fondata, era pur sempre il
prodotto di un’epoca che aveva visto l’ordinamento-stato prendere il
sopravvento su tutti gli ordinamenti inferiori, e pertanto nell’epoca in cui
sorse e che ora volgeva al termine, non era in «una troppo palese e stridente
contrapposizione con la realtà»27. Il successo della teoria pluralistica dipese
dal fatto che essa dava una rappresentazione della realtà sociale più
soddisfacente, proprio nel momento in cui il ribollimento delle forze
sociali, seguito alla pressione della «questione sociale», rischiava di far
saltare – e in taluni paesi questo salto era già avvenuto – il coperchio dello
stato. Romano coglieva benissimo questa realtà quando osservava che, se
negli ultimi secoli vi era stato un continuo processo di statalizzazione della
società, al tempo presente ci si trovava presumibilmente di fronte al
processo inverso, che si potrebbe chiamare di socializzazione dello stato.
Diceva: «La così detta crisi dello stato moderno implica per l’appunto la
tendenza di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno
una cerchia giuridica indipendente»28.

5. Il rapporto fra teoria e ideologia in generale, con particolare


riguardo alla dottrina di Romano
Che in ogni teoria si possa o addirittura si debba distinguere la funzione
esplicativa che è la funzione palese da un’eventuale funzione latente,
prescrittiva, o come si dice spesso ideologica (con una parola che preferirei
non usare perché ha di solito una forte connotazione negativa), in altre
parole, il contenuto ontologico da quello assiologico, è cosa nota.
Altrettanto noto, e comunemente accettato, che nel compiere questa
difficile operazione di dissezione bisogna procedere con molta cautela, per
la semplice ragione che non è sempre (forse non è mai) vera la
proposizione che «tale la teoria, tale l’ideologia», ma è quasi sempre vera la
proposizione contraria, secondo cui la medesima teoria può avere
interpretazioni ideologiche diverse, e la stessa ideologia può essere rivestita
di forme teoriche anche opposte. Per fare subito l’esempio che ci tocca da
vicino, una teoria pluralistica può nascondere tanto un’ideologia
rivoluzionaria, se la pluralità degli ordinamenti viene interpretata come un
episodio della progressiva liberazione degl’individui e dei gruppi dalla
oppressione dello stato, quanto un’ideologia reazionaria, se viene
interpretata come un episodio della disgregazione e della frantumazione
dello stato e quindi come il prodromo di una imminente e inarrestabile
anarchia. Dietro la concezione sociale del diritto possiamo trovare tanto un
Gierke quanto un Gurvitch o addirittura Proudhon, così come dietro la
concezione monistica si possono nascondere tanto un Hegel quanto un
Marx. Parimenti, un’ideologia rivoluzionaria può scoprire buoni
argomenti sia in una teoria monistica sia in una pluralistica, secondo che
per spiegare la società esistente e fare previsioni favorevoli all’avvento di un
nuovo ordine prenda in considerazione piuttosto i fenomeni di
dissoluzione sociale (ergo pluralismo) che non quelli di aggregazione (ergo
monismo).
Tanto più grande deve essere la cautela quando si tratta di un
personaggio come Santi Romano, almeno per due ragioni. Anzitutto egli è
per disciplina di studio, e forse anche per temperamento, controllatissimo
nella manifestazione dei propri sentimenti, sino ad apparire impenetrabile;
scrive con rara sobrietà, senza mai indulgere alla preziosità letteraria, anche
se è studioso di buone e vaste letture; guarda alle cose che pur lo
interessano con un certo distacco, impassibile sino ad apparire indifferente
(ma non è) di fronte alle grandi passioni che agitano la storia29; è alieno
dallo spirito polemico e raramente si lascia andare a sfoghi di malumore
accademico. Scrive le due opere principali di teoria del diritto,
L’ordinamento giuridico e i Frammenti di un dizionario giuridico in due dei
periodi più terribili della storia italiana, nel 1917-18 il primo, nel 1944-46
il secondo: ma se si toglie qualche breve e rara allusione alla costituente, ai
partiti nascenti, specie nel frammento, importante per tanti altri aspetti,
sulla «rivoluzione», non vi si trova brano in cui egli tradisca il suo animo
che vuol far credere anche nella tempesta (che non è soltanto storica ma
anche personale) né «perturbato» né «commosso»30. Sono due libri di teoria
pura, che per il deliberato proposito del loro autore di essere «wertfrei»,
sembrano non aver data, essere fuori del tempo. In secondo luogo, egli si
considera, anzi tiene a presentarsi e a farsi considerare, un giurista puro,
preoccupato più delle astratte strutture, delle «forme», che non delle
concrete forze sociali che vi entrano dentro. Non si stanca mai
dall’avvertire il lettore male orientato o male intenzionato che la sua opera
è esclusivamente di teoria del diritto, non è di filosofia né di sociologia e
tanto meno di scienza politica31: quando scrive il necrologio di Gaetano
Mosca, oltre al non avaro elogio della tradizione giuridica siciliana cui egli
stesso appartiene, esprime la propria approvazione per l’orientamento
antipositivistico e antimaterialistico dell’autore degli Elementi di scienza
politica, ma non dimostra particolare interesse a mettere in rilievo se non
altro per contrasto il punto di vista non giuridico da cui il teorico della
classe politica ha trattato i problemi fondamentali dello stato moderno, di
quello stesso stato di cui lui, Romano, ha cercato di penetrare gli aspetti
essenzialmente strutturali32. Il problema che egli affronta nell’Ordinamento
giuridico è un problema tecnico, un problema che nasce all’interno della
scienza giuridica, in un momento in cui i giuristi che si occupano
prevalentemente di diritto pubblico intendono affermare anche
metodologicamente l’autonomia del diritto pubblico rispetto al diritto
privato, e la mettono alla prova prima di tutto cercando di elaborare una
teoria del diritto dal punto di vista del diritto pubblico anziché dal punto di
vista tradizionale del diritto privato. La teoria dell’istituzione deve servire,
secondo Romano, a questo scopo, cioè allo scopo di fornire alla teoria del
diritto strumenti concettuali più consoni a una scienza giuridica che assiste
al fenomeno della pubblicizzazione del diritto su cui richiama più volte
l’attenzione dei suoi lettori. Se si vuole una riprova del prevalente interesse
tecnico-giuridico che muove Romano verso la teoria dell’istituzione e del
pluralismo, si prenda nota del fatto che, quando pubblica la seconda
edizione dell’Ordinamento, risponde scrupolosamente ai suoi critici, ma
prende in considerazione soltanto le critiche dei giuristi (o dei filosofi del
diritto) che gli avevano mosso obiezioni di carattere teorico e tecnico. La
teoria della pluralità degli ordinamenti aveva suscitato accese discussioni di
giuristi politici: Romano non si cura di loro ma «guarda e passa».

6. Critica di un’interpretazione ideologica della dottrina di


Romano
Veramente è stato detto che la teoria dell’istituzione, come ogni teoria
del diritto come ordinamento, scalda nel proprio seno un serpentello
ideologico, perché con la sua idea della totalità organica e organizzata
favorirebbe l’occultamento delle contraddizioni che lacerano la società33.
Può darsi che altre teorie si siano rese colpevoli di questa «utile menzogna».
Ma francamente mi riesce difficile fare entrare nello stesso girone di
peccatori anche Romano. Anzitutto, come ho appena detto, la teoria
dell’istituzione è soltanto la prima metà della dottrina romaniana del
diritto, e neppure la più importante; la parte più importante è la seconda,
quella che trae dalla definizione del diritto come istituzione la
conseguenza, possibile ma non necessaria, che vi sono più ordinamenti
giuridici diversi e lo stato è soltanto uno di questi. Ora in che senso si può
dire che la teoria pluralistica occulta le contraddizioni? E che dovremmo
dire allora della teoria monistica? O si è monisti o si è pluralisti: tertium non
datur. Sinora si era sentito dire che gli occultatori erano soprattutto i
monisti. Se sono tali anche i pluralisti, chi si sottrae all’accusa? Ma se
nessuno si sottrae all’accusa, mi domando come si faccia a non nascondere
le contraddizioni dal momento che non si può essere se non monisti o
pluralisti. Non dico che anche il pluralista – per quel rapporto non
immediato che sussiste fra una teoria e la sua funzione ideologica – non
possa nascondere le contraddizioni, solo che dia maggior rilievo al rapporto
di convergenza o di collaborazione fra istituzioni che non al rapporto di
divergenza e di conflitto, ma, mentre il monista rivela certamente
un’ideologia integrazionistica, il pluralista non esclude un’ideologia
conflittualistica. Anzi non riesco a capire come si possa essere conflittualisti
senza essere pluralisti.
Il problema se mai – dal momento che ci stiamo ormai avventurando
sul terreno scabroso dell’interpretazione ideologica – è un altro. Il teorico
del pluralismo, Santi Romano, era anche ideologicamente un pluralista?

7. Romano è teoricamente un pluralista ma ideologicamente


un monista
Tutti coloro che si sono occupati del pensiero di Romano sono
d’accordo nel sostenere che la teoria della pluralità degli ordinamenti
giuridici nasca dalla riflessione sulla «crisi dello stato», cui Romano ha
dedicato la prolusione pisana dell’anno accademico 1909-1034, anche se
Fulvio Tessitore ha mostrato attraverso quali piccoli passi vi sia arrivato in
alcuni scritti minori precedenti35, e Sabino Cassese abbia rivelato l’esistenza
di un trattato inedito di diritto costituzionale italiano, scritto da Romano
per una casa editrice tedesca, nel periodo che sta fra la prolusione pisana e
L’ordinamento giuridico, e l’importanza che esso ha per la nascita della teoria
dell’istituzione36. Il nesso fra la constatazione della crisi dello stato e la
teoria del pluralismo giuridico è evidente. La ragione della crisi sta nel
venir meno della corrispondenza fra l’idea in base alla quale lo stato nato
dalla rivoluzione francese è stato costruito, secondo cui fra gl’individui
singoli e lo stato non deve esservi posto per alcun ente intermedio, e la
realtà sociale presente in cui proliferano e spadroneggiano gruppi sempre
più numerosi e sempre più prepotenti. Il tema non era nuovo, anzi era
diventato un tema comune non solo alla scienza sociale e giuridica ma
anche alla pubblicistica. Lungo tutto il secolo precedente il pluralismo era
stato alimentato da tre correnti diverse di pensiero politico, dal socialismo
prima utopistico e poi libertario (Proudhon), dal liberalismo che aveva
scoperto l’associazionismo della giovane democrazia americana
(Tocqueville), dal cristianesimo sociale (che si era mosso intorno alle
encicliche sociali di Leone XIII). Al tempo in cui scriveva Romano
pluralisti erano tanto i sindacalisti rivoluzionari quanto un liberale come
Luigi Einaudi, che esaltava la funzione sociale e progressiva delle prime
leghe di operai, quanto i primi attori di un movimento popolare cattolico,
come Romolo Murri e Luigi Sturzo. Romano aveva presenti tutti e tre i
movimenti, come risulta da un breve passo della prolusione37.
Pur prescindendo dalla differenza profonda fra i tre pluralismi, bisogna
riconoscere che accanto a un pluralismo «in bonam partem» vi è sempre
stato anche un pluralismo «in malam partem». Accanto a coloro che
consideravano la formazione di società intermedie fra l’individuo e lo stato
un fenomeno positivo, perché contribuiva nello stesso tempo a diminuire
l’isolamento dell’individuo e lo strapotere dello stato, vi erano coloro che
vi intravedevano al contrario un infausto segno dello sgretolamento della
compagine statale e della diversa ma non meno pericolosa
irreggimentazione dell’individuo. Qual era l’atteggiamento di Romano di
fronte a queste due possibili interpretazioni del pluralismo? Come
scienziato che ha il compito e il dovere di osservare la realtà senza veli
pietosi e senza maschere deformanti egli è sicuramente colpito dalla vastità
del fenomeno, che può essere indicato come la «rivolta della società contro
lo stato». Ma non lascia intendere altrettanto chiaramente il suo animo.
Che cosa egli pensava del prorompente fenomeno associazionistico? Era
fausto o nefasto? Di conseguenza la crisi dello stato moderno doveva essere
interpretata come una crisi di crescenza o non piuttosto come una crisi di
degenerazione? Da un lato, di fronte alla «eclissi» di una «luminosa»
concezione dello stato qual è stata quella nata dalla rivoluzione francese
afferma che «potrebbe essere non del tutto superstizioso il trarne non lieti
presagi», ma nello stesso tempo denuncia la eccessiva «semplicità»
dell’organizzazione statale esistente e quindi la sua «insufficienza» e
«deficienza»38. Se i presagi non sono lieti vuol dire che la rivolta della
società contro lo stato può avere conseguenze distruttive; ma se le strutture
statali presenti sono insufficienti e deficienti è segno che lo
sconvolgimento non solo è stato necessario ma può anche essere a fin di
bene, cioè può portare a modificare l’organizzazione dello stato per
adattarla ai mutamenti sociali. Quanto all’esito finale dello scontro fra stato
vecchio e società nuova si limita a esprimere una speranza: «che il
movimento corporativo sia diretto, non già a travolgere lo stato…, ma a
completarne le deficienze e le lacune, che, come si è visto, presenta per
necessario effetto delle sue origini»39. L’unica conclusione certa che si può
desumere da queste espressioni è che egli non accetta il pluralismo estremo
o eversivo di coloro che auspicano non tanto la trasformazione dello stato e
il suo adattamento alle nuove esigenze sociali quanto la sua distruzione.
Egli è un pluralista moderato, crede cioè ai benefici effetti che l’emergere
di gruppi sociali riottosi come i sindacati può produrre in una migliore
articolazione dei rapporti fra individui singoli e stato, ma considera pur
sempre come momento finale e necessario della società organizzata lo
stato. Meglio ancora, egli è teoricamente un pluralista, ma ideologicamente
un monista40. Nella conclusione afferma che quali che siano le
trasformazioni sociali in atto, non si può rinunciare al principio di
«un’organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le
organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi»41. Questa
organizzazione superiore non può non essere ancora una volta lo «stato
moderno».

8. Conclusione
Teoricamente pluralista, ideologicamente monista. Non sembri una
contraddizione. Questa affermazione, se mai, conferma la complessità del
rapporto fra teoria e ideologia. Del resto, non è difficile darne una
spiegazione. In quanto teoria il pluralismo, ridotto al suo nucleo centrale, è
imperniato sulla convinzione che un maggior rilievo dato alla molteplicità
dei gruppi che agiscono in un sistema sociale offra un modello per la
comprensione della realtà sociale più adeguato del modello ottocentesco
incardinato sui due poli opposti dell’individuo e dello stato. Ma una volta
constatata l’articolazione del sistema sociale in gruppi, anche le dottrine
pluralistiche sono attraversate e quindi influenzate dalla «grande divisione»
fra teorie conflittualistiche e teorie integrazionistiche. Da un lato, si può
interpretare la società divisa in gruppi come un sistema in equilibrio
dinamico, in cui i vari gruppi occupano un posto di potenziale parità e
sono continuamente in concorrenza fra loro, oppure come un sistema
organico in cui i vari gruppi sono funzionali al tutto in modo diseguale,
essendo alcuni subordinati, altri sopraordinati42. La prova del fuoco per la
classificazione di una dottrina pluralistica nella prima o nell’altra categoria è
la posizione dello stato rispetto a tutti gli altri gruppi. Per il pluralismo
eversivo lo stato è un’istituzione come tutte le altre, tanto che può persino
rendersi superfluo. Per il pluralismo moderato, lo stato è pur sempre
un’istituzione diversa da tutte le altre, irriducibile alle altre, superiore alle
altre, è in un certo senso l’istituzione che rende possibile l’esistenza stessa
di tutte le altre istituzioni, e non può essere eliminato perché è il
coronamento e la sintesi necessaria di ogni sistema sociale. Con
un’espressione significativa Romano chiama lo stato «istituzione delle
istituzioni», e non pensa mai neppure lontanamente essere possibile o
desiderabile che venga disaggregato nelle sue parti. Dal punto di vista
ideologico c’è pluralismo e pluralismo, così come c’è monismo e
monismo. Al tempo in cui Romano scriveva il saggio sulla crisi dello stato,
il monismo dei nazionalisti era un monismo assoluto che sarebbe sfociato
nella formula mussoliniana di «tutto nello stato, nulla al di fuori dello stato,
nulla contro lo stato». Il monismo di Romano era un monismo relativo,
perché, per quanto ponesse lo stato al vertice della scala degli ordinamenti,
come ordinamento sovraordinato agli ordinamenti sociali, non lo
considerava un ordinamento esclusivo43. Riconosceva che lo stato aveva
una tendenza irresistibile ad assorbire gli altri ordinamenti ma riconosceva
nello stesso tempo che al di là dello stato vi era una tendenza altrettanto
irresistibile della società a generare sempre nuovi ordinamenti, onde
restava pur sempre al di fuori dello stato un margine più o meno ampio di
socialità non controllata dallo stato e quindi sotto certi aspetti prestatale e
sotto certi altri addirittura antistatale.
Pluralismo moderato e monismo relativo sono formule cui non voglio
attribuire maggior valore di quello che hanno tutte le formule. Però mi
pare che entrambe esprimano abbastanza bene lo spirito con cui Romano
affrontò il problema del rapporto fra società e stato in un periodo di
profonde trasformazioni, nonché la concezione che egli aveva del giurista,
su cui scrisse alcune delle sue più belle pagine in un frammento dove, dopo
aver paragonato le diverse specie di giuristi alle diverse specie di perle, vere,
false o coltivate, conclude che «giurista e, tanto meno grande giurista, non
è... chi non ha mente molto equilibrata e prudente»44. Non è arrischiato
presumere che scrivendo quelle pagine pensasse anche a se stesso45.

Note
1 S. Romano, L’ordre juridique, traduction française de la 2e édition de L’ordinamento giuridico, par
L. François et P. Gothot, introduction de Ph. Franceskakis, Dalloz, Paris 1975; Id., Die
Rechtsordnung, mit einem Vorwort, biographischen und bibliographischen Notizen, herausgegeben
von Roman Schnur, Duncker & Humblot, Berlin 1975. Per quel che riguarda la scienza giuridica
tedesca, non è da dimenticare l’elogio dell’opera di Romano fatto da J. Esser, Grundsatz und Norm in
der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Mohr, Tübingen 19642, p. 292, che considera L’ordinamento
giuridico un’opera di pioniere della teoria pluralistica in Europa e la ritiene, non del tutto
esattamente, la base di ogni ulteriore ricerca di Renard, Delos, Gurvitch, Desqueyrat, ecc.,
insomma di tutta la dottrina istituzionalistica francese. Dico «non del tutto esattamente», perché in
realtà la dottrina istituzionalistica francese ha seguito le orme di Hauriou, del quale lo stesso
Romano si considera, se pure solo in parte, debitore. Giusta, invece, l’osservazione di Esser,
secondo cui specie la seconda parte dell’Ordinamento giuridico, che anche a mio parere è la più
importante (ma su ciò vedi oltre), offre un materiale convincente per mostrare la falsità storica e
attuale della tesi del monopolio delle fonti del diritto da parte del diritto dello stato.
2 S. Romano, El Ordinamiento Jurídico, con Introduzione di S. Martín-Retortillo, intitolata La
doctrina del ordinamiento jurídico de Santi Romano y algunas de sus aplicaciones en el campo del derecho
administrativo, pp. 9-77, Instituto de Estudios politicos, Madrid 1963.
3 J. Stone, Social Dimensions of Law and Justice, Stevens and Sons limited, London 1966, pp. 516-
45. Tanto il saggio di Martín-Retortillo quanto quello di Stone, tradotti in tedesco, sono compresi
nel volume antologico Institution und Recht, herausgegeben von Roman Schnur, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 1968, rispettivamente, pp. 370-420 e 312-69.
4 C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt,
Hamburg 1934, p. 24 (trad. it., nella raccolta di saggi schmittiani, Le categorie del politico, Il Mulino,
Bologna 1972, p. 260).
5 Vedi per tutti A. Desqueyrat, L’institution, le droit objectif et la technique positive. Essai historique et
doctrinal, Recueil Sirey, Paris 1933; dello stesso autore, L’institution. Sa nature, ses espèces, les problèmes
au’elle pose, in «Archives de philosophie», XII, 1936, pp. 65-115. Ancora più sorprendente che non
vi sia traccia della teoria del Romano nel recente volume, Le pluralisme juridique. Etudes publiées sous la
direction de John Gilissen, Editions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 1972, che contiene scritti di
vari autori, e fra questi un saggio di L. Ingber, Le pluralisme juridique dans l’oeuvre des philosophes du
droit, pp. 57-84.
6 Cfr. J. Delos, La théorie de l’institution, in «Archives de philosophie du droit et de sociologie
juridique», I, n. 1, 1931, pp. 97-143; G. Gurvitch, Les idées-maîtresses de Maurice Hauriou, ivi, pp.
155-94.
7 W. Ivor Jennings, The Institutional Theory, in Modern Theories of Law, Oxford University Press,
London 1933, pp. 68-85. Anche Jennings mette in relazione la teoria istituzionale con la
trasformazione dello stato moderno, come avevano fatto i suoi fondatori, con quella trasformazione
per cui non c’è più lo stato da una parte e gl’individui dall’altra, ma lo stato è diventato sempre più
«un aggregato d’istituzioni».
8 G. Bottai, Santi Romano, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Cedam, Padova 1940, vol. I,
p. XVIII. Sull’opera politica e culturale di Bottai vedi S. Cassese, Un programmatore degli anni trenta:
Giuseppe Bottai, in «Politica del diritto», a. I, n. 3, 1970, pp. 404-47.
9 S. Panunzio, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’unità dello stato, in Studi filosofico-giuridici
dedicati a G. Del Vecchio nel XXV anno di insegnamento (1904-1929), Società tipografica modenese,
Modena 1931, vol. II, pp. 179-227.
10 G. Capograssi, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici (1936, 19392), ora in Opere,
Giuffrè, Milano 1959, vol. IV, pp. 183-221. Dello stesso autore vedi anche L’ultimo libro di Santi
Romano (1951), ora in Opere, vol. V, pp. 223-54, a proposito dei Frammenti di un dizionario giuridico.
11 Si tratta delle seguenti opere: Saggio sullo stato (1918), Riflessioni sulla autorità e la sua crisi (1921)
e La nuova democrazia diretta (1922), in Opere, vol. I, rispettivamente pp. 5-147, 153-402, 407-573.
12 Mi riferisco in modo particolare all’Ordinamento giuridico, apparso primamente in due fascicoli
degli «Annali delle università toscane», n.s., vol. II, n. 5, e vol. III, n. 1, 1917-1918, e quindi in
volume presso l’editore Spoerri di Pisa, nel 1918. Ripubblicato immutato con aggiornamenti
bibliografici e con l’aggiunta di varie risposte ai critici nonché di un indice analitico e dei nomi,
presso l’editore Sansoni di Firenze, come n. 1 della collana «I classici del diritto», s.d., ma la
Prefazione dell’autore reca la data «novembre 1945», ristampato nel 1962. D’ora innanzi citato dalla
seconda edizione come OG. L’altra opera di Romano di cui ho tenuto largo conto sono i Frammenti
di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano 1951, citati d’ora innanzi come FDG. Per quel che riguarda
la bibliografia sull’opera di Santi Romano, rinvio il lettore all’eccellente saggio di S. Cassese, Ipotesi
sulla formazione de «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, in «Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno», a. I, 1972, pp. 244-83. Dello stesso autore, Cultura e politica nel diritto
amministrativo, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 44 sgg., e Guido Zanobini e il sistema del diritto
amministrativo degli anni trenta, in «Politica del diritto», a. V, n. 6, 1974, pp. 699-710.
13 Romano, nel formulare la propria teoria dell’istituzione, prende le mosse da Hauriou, cui
ascrive «il merito principale... di aver posto avanti l’idea di sussumere nel mondo giuridico il
concetto di istituzione ampiamente inteso, di cui finora non si avevano che tracce, anch’esse del
resto lievi, nella terminologia, più che nella speculazione, politica e sociologica» (OG, p. 26). Si
tenga presente che Romano scrive quando Hauriou non ha ancora pubblicato il saggio cui di solito
gli studiosi si riferiscono per esporre la teoria dell’istituzione, vale a dire la Théorie de l’institution et de
la fondation, apparso primamente nei «Cahiers de la nouvelle journée», n. 4, 1925, e quindi nel
volume Aux sources du droit: le Pouvoir, l’Ordre et la Liberté, Librairie Bloud & Gay, Paris 1933,
tradotto in italiano in un volume che raccoglie parecchi saggi del giurista francese col titolo Teoria
della istituzione e della fondazione, a cura di W. Cesarini Sforza e presentazione di A. Baratta, nella
collana «Civiltà del diritto», n. 16, Giuffrè, Milano 1967. L’opera di Hauriou cui Romano si
riferisce sono i Principes de droit public, che cita dalla seconda edizione, Sirey, Paris 1916.
14 Anche per lunghezza le due parti sono diseguali: la prima, dedicata all’istituzione, è di 80
pagine; la seconda, dedicata alla pluralità degli ordinamenti e dei loro rapporti, è di 100 pagine.
15 Proprio all’inizio dell’opera, Romano cita come rappresentante del normativismo esasperato,
oltre a Kelsen, Duguit, nei «singolari lavori» del quale, egli nota, «ogni altro momento del fenomeno
giuridico è risolto e quasi annullato in quello della “règle de droit”» (p. 4).
16 Di questi due autori mi sono occupato in un saggio ormai remoto nel tempo e nella memoria,
intitolato Istituzione e diritto sociale (Renard e Gurvitch), in «Rivista internazionale di filosofia del
diritto», XVI, 1936, pp. 385-418. Lo stesso saggio conteneva in nota un accenno anche alla teoria di
Romano, cui Romano stesso rispose nelle repliche della seconda edizione (in particolare vedi p. 34).
17 Ho già sviluppato questo concetto nel saggio Ancora sulle norme primarie e norme secondarie
(1968), ora nel volume, Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1970, pp. 196-97.
18 Mi riferisco in modo particolare ai paragrafi dedicati all’esemplare e originale trattazione dei
diversi modi con cui i diversi ordinamenti possono venire in rapporto fra di loro (che, è bene
ricordarlo, occupa più di un terzo dell’intero libro, pp. 112-80).
19 OG, pp. 22, 35.
20 OG, pp. 22, 43.
21 OG, p. 35.
22 Vedi OG, rispettivamente pp. 22 e 35.
23 Sarà bene dire una volta per sempre che nella mente del Romano la contrapposizione fra
normativismo e istituzionalismo non corrisponde affatto, come si sarebbe tentati di credere, e come
è stato più volte sostenuto, alla contrapposizione fra formalismo e realismo giuridico. La dottrina di
Romano non ha e non vuole avere niente a che vedere con la dottrina realistica né con la sociologia
giuridica. Romano è, nel senso proprio della parola, un «formalista», perché considera il diritto
come la forma dei rapporti sociali che, in quanto tale, può e deve essere studiato indipendentemente
dai suoi rapporti con la sottostante società. Fra i molti brani che si potrebbero citare, mi pare
oltremodo significativo il seguente: «Noi tale ente [l’istituzione] abbiamo considerato, non dal
punto di vista delle forze materiali che lo producono e lo reggono, non in rapporto all’ambiente in
cui si sviluppa e vive come fenomeno interdipendente con altri, non in riguardo ai nessi di cause ed
effetti che vi si ricollegano, e quindi non sociologicamente, ma in sé e per sé, in quanto risulta da un
ordinamento giuridico, anzi è un sistema di diritto obiettivo. Ci siamo, naturalmente, dovuti spingere
sino alle ultime regioni, in cui è dato respirare l’atmosfera giuridica, ma non le abbiamo mai oltrepassate»
(OG, p. 79, il corsivo è mio). Sulla considerazione formale del diritto, cfr. anche OG, p. 37.
Conferma il proprio orientamento formalistico, ogni qual volta rifiuta le interpretazioni teleologiche
del diritto e dello stato. A proposito della concezione dello stato come «unità teleologica» scrive:
«Ciò non è inesatto, ma pel giurista è non meno, anzi forse più importante la natura strutturale di
quell’unità...» (FDG, p. 209, corsivo mio).
24 Hauriou si preoccupa dei rapporti fra il giuridico e il pregiuridico, fra il diritto e il potere, fra

il diritto e la società, più di quel che se ne preoccupi Romano, che tiene lontane dai suoi confini
tanto la filosofia quanto la sociologia e la politica come se ne temesse la contaminazione. Un
sottotitolo come quello che Hauriou diede alla sua Teoria dell’istituzione e della fondazione, «saggio di
vitalismo giuridico», sarebbe per Romano inimmaginabile. Si veda l’importanza che ha il concetto
di «potere», fondamentale per la scienza politica, nella tematica di Hauriou, Teoria dell’istituzione, cit.,
pp. 13 sgg. e 105 sgg.
25 OG, p. 91.
26 OG, p. 88.
27 OG, p. 89.
28 OG, p. 93.
29 Il frammento sulla rivoluzione, scritto nel settembre 1944, comincia così: «La storia così
tragica di questi ultimi anni, come, del resto, tutta la storia dell’umanità...». Ma questa constatazione
serve soltanto di premessa alla introduzione di una nuova categoria giuridica: il diritto delle
rivoluzioni (FDG, p. 220).
30 Ma non sempre: si leggano almeno le ultime righe dei Frammenti che lasciano intravedere le
sue simpatie politiche: «... sarebbe da augurarsi che l’uomo “popolare” non diventi uomo “volgare”;
che “l’uomo qualunque” non si atteggi a uomo sapiente e pretenda di comandare lui quando si
dovrebbe ubbidire; che insomma il tranquillo e bonario “uomo della strada” non assuma
l’atteggiamento dello schiamazzante “uomo della piazza”, determinando la facile degenerazione
della democrazia in oclocrazia» (p. 235). Il frammento reca la data del luglio 1945.
31 Specie nei riguardi dei filosofi Romano si preoccupa di stabilire una precisa delimitazione di
confini, lasciando intendere che quel che dicono i filosofi sul diritto sarà pure importante ma non ha
alcun interesse per un teorico generale del diritto che deriva le sue costruzioni esclusivamente
dall’esperienza. Nella Prefazione alla seconda edizione reagisce bruscamente anche alle critiche dei
politici che «dimostrano un’assoluta incomprensione dei problemi fondamentali della teoria
generale del diritto» (OG, p. 1). A p. 39: «... un’indagine di teoria generale del diritto, quale è la
nostra».
32 S. Romano, Gaetano Mosca (1942), in Scritti minori, a cura di G. Zanobini, Giuffrè, Milano
1950, vol. I, pp. 381-85.
33 Questa è la tesi sostenuta, con la solita bravura e un pizzico di sostanza caustica (che brucia
più di quel che guarisca), da G. Tarello, Prospetto per la voce «Ordinamento giuridico» di un’enciclopedia, in
«Politica del diritto», a. VI, n. 1, 1975, pp. 73-102.
34 S. Romano, Lo stato moderno e la sua crisi (1910), in Scritti minori, cit., pp. 310-25. Ancora
recentemente il rapporto fra la prolusione pisana e L’ordinamento giuridico è stato ribadito da S.
D’Albergo, Riflessioni sulla storicità degli ordinamenti giuridici, in «Rivista trimestrale di diritto
pubblico», XXIV, 1974, pp. 451-82, e ripreso dallo stesso autore nella breve nota, L’ordinamento
giuridico, in «Rinascita», XXXII, n. 35, 5 settembre 1975, p. 38, segno evidente dell’interesse attuale
per il nostro tema. La constatazione del nesso fra la consapevolezza della crisi dello stato liberale e la
dottrina della pluralità risale ai primi interpreti della dottrina romaniana. Per non parlare di
Panunzio che denuncia non la crisi dello stato ma al contrario la crisi della teoria pluralistica sulla
base del riconosciuto superamento della crisi dello stato, si veda A.E. Cammarata, Contributi ad una
critica gnoseologica della giurisprudenza (1925), in Formalismo e sapere giuridico, a cura della Università di
Trieste, 1962, pp. 30-31: «Recentemente... questa concezione sociale del diritto ha ricevuto
ulteriori spinte, se così è lecito esprimersi, dalla cosiddetta “crisi dello stato moderno”: crisi che si è
creduto di scorgere nel moltiplicarsi, in seno allo stato moderno, di associazioni ed organizzazioni...
tendenti a riunire gl’individui secondo il criterio delle loro “professioni”, o, meglio, del loro
interesse economico». Il richiamo al precedente saggio sulla crisi dello stato moderno è fatto del
resto dallo stesso Romano nell’Ordinamento giuridico, p. 93.
35 F. Tessitore, Crisi e trasformazioni dello stato. Ricerche sul pensiero giuspubblicistico italiano tra Otto e

Novecento, Morano, Napoli 19712, pp. 177 sgg.


36 Cassese, Ipotesi sulla formazione, cit., pp. 260 sgg.
37 Mi riferisco al seguente passo: «Lo promuovono [il movimento appunto che determina la crisi
dello stato moderno] e l’agevolano coloro che mirano ad un sovvertimento generale degli attuali
ordinamenti; lo guardano con simpatia, come potente affermazione di vitalità democratica, coloro
che, pur rifuggendo da vie incostituzionali, vagheggiano riforme profonde e radicali; lo propugna,
anche ufficialmente, la Chiesa cattolica, che… si è mostrata decisamente favorevole al sistema
corporativo» (p. 316). Sull’argomento vedi S. Lanaro, Pluralismo e società di massa nel dibattito ideologico
del primo dopoguerra (1918-1925), in Luigi Sturzo nella storia d’Italia, Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 1973, vol. II, pp. 271-315.
38 Romano, Lo stato moderno e la sua crisi, cit., pp. 314 e 317. A p. 320 esprime in poche righe il
concetto fondamentale del pluralismo con le parole seguenti: «Il nucleo di verità più indiscutibile
che anima le moderne tendenze al sistema corporativo sta nel rilievo semplice, che i rapporti sociali
che direttamente interessano il diritto pubblico non si esauriscono in quelli che hanno per termini
l’individuo, da una parte, lo stato e le comunità territoriali minori, dall’altra. Come sarebbe del tutto
contrario al più evidente e sicuro processo storico da cui la nostra civiltà è derivata, prescindere da
quest’ultime, così appare esigenza elementare e fondamentale tener conto anche delle
organizzazioni sociali derivanti da vincoli diversi da quelli territoriali».
39 Ivi, p. 321.
40 Cassese parla a questo proposito di «delicato compromesso», operato da Romano, «fra
l’esigenza pluralista posta dai fatti, e l’ideologia autoritaria della scuola giuspubblicistica italiana».
Compromesso «che, successivamente, nel suo stesso autore, sembra rompersi per lasciare apparire,
più rigorosamente, ma con accentuazione del momento autoritario, il pluralismo in funzione
servente dello stato» (Cultura e politica nel diritto amministrativo, cit., p. 184).
41 Cassese, Cultura e politica nel diritto amministrativo, cit., p. 324.
42 Vi è un passo nell’Ordinamento giuridico da cui risulta che il pluralismo può essere giustificato
proprio a causa dei suoi esiti inegualitari. A proposito del rapporto fra l’ordinamento statale e
l’impresa considerata come ordinamento minore, Romano osserva che «il diritto dello stato
moderno ha voluto eliminare ogni rapporto che implicasse la dipendenza di una persona verso
un’altra egualmente privata. In questa, che è stata una reazione all’ordinamento più antico e agli
abusi che esso consacrava, ha però troppo ecceduto, disconoscendo che certe manifestazioni della vita
sociale richiedono ancora e probabilmente richiederanno sempre una diseguaglianza fra gli individui, una
supremazia degli uni, una subordinazione degli altri» (p. 163, corsivo mio).
43 La polemica di Romano nei riguardi di Kelsen considerato come il teorico dell’esclusività
dell’ordinamento statale è frequente attraverso l’affermazione in più luoghi ripetuta che «il principio
che ogni ordinamento originario è sempre esclusivo, deve intendersi nel senso che esso può, non che
debba necessariamente negare il valore giuridico di ogni altro» (OG, p. 119). Vedi anche FDG, ove si
legge che il principio di esclusività o di unicità di ogni ordinamento giuridico originario «fa parte
delle esagerate e spesso paradossali teorie kelseniane e ha trovato, anche fuori dei fedeli seguaci di
esse, una non sempre meditata accoglienza» (p. 16). Vedi anche FDG, p. 213.
44 FDG, p. 116.
45 Quando questo volume era già in bozze mi è giunto l’articolo di G. Falcon, Gli «scritti minori»

di Santi Romano, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXVI, 1976, pp. 661-74, che,
attraverso un’accurata analisi di alcuni scritti composti fra il 1907 e il 1917, mette in evidenza tutti
gli elementi che mostrano l’ideologia conservatrice di Santi Romano.
IX. Struttura e funzione nella teoria del
diritto di Kelsen

1. Significato dell’opera di Kelsen nella storia della teoria


generale del diritto nell’ultimo secolo
Nel 1910 Hans Kelsen, non ancora trentenne, pubblicò gli
Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, una voluminosa opera di settecento
pagine, con cui pose, più che la prima pietra, le fondamenta di quella che
nella Prefazione alla seconda edizione (1923) chiamò «una teoria pura del
diritto come teoria del diritto positivo»1. Nel 1934, quando apparve la
prima edizione di quel libro sintesi, programma e manifesto, che è la Reine
Rechtslehre, l’edificio poteva dirsi compiuto. Tra il 1911 e il 1914 si raccolse
attorno a Kelsen un gruppo di giovani studiosi cui fu dato il nome di
Scuola di Vienna. Nell’ambito della scuola, Adolf Merkl, in un’opera del
1923 (Die Lehre von der Rechtskraft entwickelt aus dem Rechtsbegriff) svolse la
teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, la cosiddetta Stufentheorie des
Rechts, che Kelsen accolse e incorporò nell’Allgemeine Staatslehre del 1925.
Dopo il 1934, sino alla seconda edizione della Reine Rechtslehre (1960), che
contiene tutti gli arricchimenti successivi della dottrina tanto da avere una
mole tre volte maggiore rispetto alla prima edizione e da aver assunto il
carattere di un vero e proprio trattato, il sistema fu perfezionato,
completato, qua e là corretto, ma le linee maestre non furono più mutate.
Dall’apparizione degli Hauptprobleme era ormai trascorso mezzo secolo.
Nella storia della teoria del diritto l’opera di Kelsen costituisce una
tappa fondamentale. Ha tolto parte della loro importanza alle opere
precedenti, come quelle di Jhering, di Thon, di Jellinek, salvo a
considerarle affluenti confluiti nel gran fiume. Teorie che avevano
imboccato altre strade, come quella pur celebrata di Duguit, finirono per
essere abbandonate. Le due principali opere di teoria del diritto apparse in
questi ultimi vent’anni, Law and Justice di Alf Ross (1958) e The Concept of
Law di Herbert L. Hart (1961), pur essendo state scritte da autori educati
in una tradizione giuridica non certo ben disposta verso il tanto deprecato
e frainteso formalismo kelseniano, riconoscono il debito che hanno
contratto verso la teoria pura del diritto. Malgrado i dissensi dall’opera del
maestro, sono opere entrambe nettamente post-kelseniane nel preciso
senso che non si possono intendere senza Kelsen.
Il maggior riconoscimento del posto strategico che la teoria pura del
diritto ha occupato nella storia della giurisprudenza teorica2 è venuto dai
suoi avversari più irriducibili. Per decenni l’opera di Kelsen è stata
identificata dalle correnti avverse (quelle che Kelsen aveva messo in
difficoltà o aveva scartato dalla sua strada) come il nemico per eccellenza.
Per i giusnaturalisti l’opera di Kelsen è diventata il termine estremo e
insieme il prototipo del positivismo giuridico; per i realisti, del formalismo;
per i giuristi sovietici, della giurisprudenza borghese. La teoria pura del
diritto è stata di volta in volta denunciata come sede di tutti gli errori del
secolo, come il risultato di tutte le aberrazioni di una scienza che pretende
di sostituirsi alla metafisica, cadendo nell’agnosticismo; alla nuda empiria,
condannandosi alla sterilità; alla ideologia, essendo essa stessa un’ideologia
mascherata.
Nonostante sia stata data più volte per morta (soprattutto da coloro che
credevano di averla ammazzata), la teoria kelseniana non ha mai cessato
anche in questi ultimi anni di essere oggetto di studi e di ripensamenti3.
Nel 1970 è stata fondata una rivista di teoria del diritto, intitolata
«Rechtstheorie», di cui Kelsen era direttore insieme con K. Engisch,
H.L.A. Hart, U. Klug, K. Popper, che si propone lo scopo di approfondire
più di quel che sia stato fatto sinora la critica dei fondamenti della
conoscenza giuridica, e sembra proporsi il compito di sviluppare gli
«analytische Ansätze» presenti nell’opera kelseniana4. Nella prima annata è
apparso un articolo di Robert Walter sullo stato presente della teoria pura
del diritto, in cui si può leggere che la nuova rivista non può fare a meno di
ricollegarsi ai risultati di questa teoria5.
La giurisprudenza è sempre stata un orto chiuso e precluso ai non
addetti ai lavori. Dei grandi giuristi di quest’ultimo secolo solo l’opera di
Jhering aveva avuto qualche risonanza fuori del recinto, anche se per
aspetti marginali del sistema. Ma Jhering aveva invaso nella sua opera
filosofica, Der Zweck im Recht, il campo dell’etica e in genere del costume
sociale (lambendo la sociologia). Kelsen è stato essenzialmente un giurista,
anche se tutt’altro che ignaro della storia del pensiero giuridico, cui ha dato
contributi originali, e salvo una esplorazione nel campo dell’etnologia allo
scopo di trarre una conferma storica della grande dicotomia tra natura e
cultura, tra mondo dell’essere e mondo del dover essere, tra sfera dei
rapporti di causalità e sfera dei rapporti d’imputazione, su cui egli ha
fondato l’autonomia della scienza giuridica: giurista puro, dunque, per una
teoria pura del diritto. Eppure da Kelsen in poi, e prima di tutto attraverso
Kelsen, i problemi della giurisprudenza teorica sono entrati nella cerchia
delle discussioni generali di metodologia, di etica e di meta-etica, di logica
e più in generale di filosofia delle scienze. Un esempio probante e
significativo: nell’ampia rassegna di problemi di logica e di filosofia della
scienza, diretta da Jean Piaget, per la «Encyclopédie de la Pléiade», nel
breve paragrafo in cui viene introdotto il problema della scienza giuridica,
l’unico punto di riferimento è il sistema kelseniano, a proposito del quale si
dice: «...il diritto costituisce di per se stesso un sistema di norme i cui
incastri e la cui costruttività sono stati messi in luce con grande profondità
da H. Kelsen»6.
Ciò che fa della teoria pura del diritto un momento decisivo della
giurisprudenza teorica, e quindi una tappa obbligata, anche per i
recalcitranti, degli studi di teoria del diritto, sono alcuni tratti fondamentali
sia del metodo, sia della prospettiva sul proprio oggetto, sia dell’impianto
teorico generale della disciplina, che la teoria pura del diritto ha in comune
con le teorie generali che si andavano sviluppando all’incirca negli stessi
anni in altri campi delle scienze umane. La letteratura kelseniana, se pure
vastissima, non si è mai soffermata con la dovuta attenzione su questo
punto, cioè sul fatto che l’impresa scientifica del Kelsen si svolge
all’unisono con le grandi imprese scientifiche del suo tempo nel campo
delle scienze sociali e ne condivide alcuni caratteri fondamentali. I consueti
confronti tra la teoria di Kelsen e altre teorie del diritto non vanno
purtroppo molto al di là di corrette ma sterili esercitazioni accademiche,
senza conseguenze rilevanti per una migliore comprensione del sistema
kelseniano. Il confronto più interessante e più illuminante è ancora quello
che lo stesso Kelsen istituì tra la teoria pura del diritto e la giurisprudenza
analitica di John Austin, intesa come primo esempio di giurisprudenza
teorica7. Anche lo studio delle fonti filosofiche, o in genere culturali, del
movimento per una teoria pura del diritto è stato sinora
sorprendentemente povero: critici, anche recenti, si limitano a riprendere i
noti accenni dello stesso Kelsen a una convergenza significativa, seppure
casuale, con il neo-kantismo della scuola di Marburgo. Ancor oggi Kelsen
passa per un neo-kantiano, anche se il nome di Hermann Cohen non è
citato neppure una volta nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, che
costituisce, come si è detto, il punto d’arrivo del suo pensiero. Kelsen può
dirsi kantiano soltanto nella misura in cui si ricollega alla grande dicotomia
tra la sfera del Sein e la sfera del Sollen, che si fa risalire a Kant8. Per
difendere la stessa dicotomia, oggi, in un clima culturale diverso, un autore
preferirebbe presentare altre credenziali, in primis la distinzione humiana tra
is e ought. In effetti, tra la dicotomia kantiana che separa il regno della
necessità dal regno della libertà, e la dicotomia kelseniana che distingue
natura da società, c’è tutta la differenza che corre tra una impostazione
filosofica e una scientifica del problema: la dicotomia kelseniana si risolve
nella contrapposizione tra due sistemi di rappresentazione della realtà,
l’uno fondato su rapporti di causalità, l’altro su rapporti d’imputazione. Per
nessuna delle tesi di Kelsen c’è bisogno, allo scopo di spiegarne l’origine e
di capirne il significato, di scomodare Kant, anche se Kelsen abbia più
volte civettato con la Critica della ragion pura.
Chi voglia rendersi conto della funzione di rottura che la teoria pura
del diritto ha avuto nello sviluppo della giurisprudenza teorica, dovrà
allargare i propri orizzonti ed esaminare più da vicino il movimento del
sapere scientifico e della riflessione sulla scienza, che si svolse nei primi
decenni del secolo. Come è stato più volte osservato, nella stessa Vienna in
cui Kelsen aveva formato la sua scuola, era nata pochi anni prima la
psicoanalisi e sarebbe sorto pochi anni dopo il Wiener Kreis. Anche se
l’interesse di Kelsen per l’una e per l’altro sia stato marginale (ma i rapporti
tra la teoria pura del diritto e la psicoanalisi, da un lato, e il Circolo di
Vienna, dall’altro, meriterebbero di essere meglio studiati), i tre movimenti
si svilupparono nello stesso clima culturale. Non appena apparvero i primi
studi di Freud sulla psicologia di massa, Kelsen li accolse con interesse e ne
diede conto nell’opera di maggior rilievo scritta in quegli anni dopo gli
Hauptprobleme9. La sua partecipazione all’azione culturale dei neopositivisti
avvenne molto più tardi, nei gruppi della diaspora post-nazista. Collaborò
alla nuova rivista «The Journal of the Unified Science», che continuava
«Erkenntnis», con due articoli10; la prima edizione dell’opera Vergeltung und
Kausalität. Eine soziologische Untersuchung, che prenderà poi il titolo di
Society and Nature, nell’edizione americana del 1943, fu stampata, ma non
pubblicata a causa dell’occupazione tedesca, in Olanda, nel 1941, presso la
«Library of Unified Science», cui avevano dato vita i neopositivisti fuggiti
dall’Austria e dalla Germania11.
Nello stesso anno 1916 apparvero due opere sulla cui importanza per
l’elaborazione teorica e la ricostruzione sistematica dei rispettivi campi
d’indagine non c’è bisogno di spender molte parole: il Cours de linguistique
générale di Ferdinand de Saussure e il Trattato di sociologia generale di Vilfredo
Pareto. Pubblicate, la prima in Francia, la seconda in Italia, durante la
prima guerra mondiale, erano nate entrambe nella pacifica Svizzera, dove
lo stesso Kelsen si sarebbe recato in esilio nel 1933 dopo l’avvento al potere
di Hitler. Non vi sono tracce della conoscenza della sociologia di Pareto
nell’opera di Kelsen, al quale peraltro non era sfuggita l’importanza del
maestro di Losanna12. Ma uno dei pochi giuristi che attrassero l’attenzione
di Pareto fu il suo collega losannese Ernest Roguin, che aveva pubblicato
sin dal 1889 un libro, come l’autore stesso dichiara, di «scienza giuridica
pura», e quindi nel 1923 i tre volumi di La science juridique pure che
costituisce l’unica opera paragonabile (anche se raramente paragonata) –
più per l’ispirazione, s’intende, che per i risultati – a quella del Kelsen13.
Negli stessi anni in cui Kelsen stava elaborando la propria teoria,
apparvero i saggi fondamentali di Max Weber, Über einige Kategorien der
verstehenden Soziologie (Sopra alcune categorie della sociologia comprendente, 1913)
e Der Sinn der Wertfreiheit der soziologischen und ökonomischen Wissenschaften (Il
significato dell’avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche, 1917); nel
1921 apparve postuma l’opera fondamentale di Weber, Wirtschaft und
Gesellschaft (Economia e società). Per quanto Kelsen avesse trascorso un
periodo di studi ad Heidelberg nel 1908, non ebbe alcun contatto con
Weber che allora vi teneva cattedra di economia politica. Ma studiò più
tardi accuratamente il pensiero weberiano, in cui trovò alcune affinità col
proprio, per quanto riguarda il rapporto tra stato e diritto e la concezione
giuridica dello stato14.
2. Fatti e valori nella teoria del diritto del Kelsen: l’ideale
della scienza e la non scientificità degli ideali
È ben noto quanta parte abbia avuto la scoperta dei motivi non
razionali che determinano la condotta dell’uomo in società nel provocare
una svolta nelle scienze dell’uomo. Secondo Pareto le azioni logiche
occupano un piccolo spazio a paragone delle azioni non-logiche
nell’economia complessiva di un sistema sociale. Max Weber collocò
accanto all’agire razionale rispetto allo scopo altre forme di agire sociale:
l’agire razionale rispetto al valore, l’agire affettivo, l’agire tradizionale.
Tanto Pareto quanto Weber furono i più rigidi e ostinati assertori, se pur
con diversa accentuazione, della condanna di ogni contaminazione della
scienza coi giudizi di valore. Furono entrambi fortemente inclini a credere
(operando di conseguenza come scienziati) che in una società dominata da
forze irrazionali l’unica impresa umana in cui dovessero mantenersi
incontrastati il dominio e la guida della ragione fosse la scienza; e che
pertanto all’uomo di scienza incombesse la responsabilità di preservare il
sapere scientifico dalla corruzione delle fedi individuali e collettive, dei
sentimenti, delle concezioni del mondo non razionalmente ma solo
praticamente giustificabili. In Pareto e in Weber la difesa accanita
dell’avalutatività della scienza procede di pari passo con una concezione
fondamentalmente irrazionalistica dell’universo etico: l’etica dello
scienziato consiste proprio nella difesa ad oltranza dell’unica e limitata
cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione, che si rivela
nell’enunciazione di giudizi di valore. Tanto più importante questo
comune atteggiamento etico di fronte alla scienza in quanto l’uno e l’altro
furono rispetto ai valori della vita e della società, in genere, diversissimi:
Pareto fu un libertino, Weber uno spirito religioso. Ma entrambi
credettero fermamente di essere chiamati a salvare almeno l’isola della
scienza nella tempesta delle passioni umane.
Nel primo capoverso della Prefazione alla sua opera-manifesto, che è la
Reine Rechtslehre, Kelsen scrive queste parole: «Anzitutto, il mio scopo è
stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente od occultamente
si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento politico-giuridico, all’altezza
di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di
sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente
alla conoscenza del diritto, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati
agl’ideali della scienza: oggettività ed esattezza»15. Senza aver mai letto
Pareto e senza citare Max Weber, Kelsen perseguiva, nel campo del diritto,
lo stesso scopo e vi tendeva affidandosi alla stessa ispirazione fondamentale
che era quella di separare la ricerca scientifica dai programmi politici, di
impedire che i giudizi di valore insidiassero la purezza della ricerca. Nella
Prefazione alla General Theory of Law and State, che contiene, assai più che
la seconda edizione della Reine Rechtslehere, la summa del suo pensiero, lo
dice molto chiaramente: «Chiamando tale dottrina “teoria pura del
diritto”, si intende dire che essa è tenuta libera da tutti gli elementi estranei
al metodo specifico di una scienza, il cui unico scopo è la conoscenza del
diritto e non la sua formazione. Una scienza deve descrivere il proprio
oggetto quale esso è effettivamente, e non prescrivere come esso dovrebbe
o non dovrebbe essere, in base ad alcuni giudizi specifici di valore.
Quest’ultimo è un problema politico e, come tale, riguarda l’arte del
governo, un’attività che si occupa dei valori, e non è un oggetto della
scienza, che si occupa della realtà»16.
Kelsen era perfettamente consapevole del fatto che, perseguendo
questo scopo, iscriveva il proprio progetto di una giurisprudenza scientifica
nel movimento generale a lui contemporaneo delle scienze sociali. Uno
dei testi kelseniani metodologicamente più impegnativi, la Prefazione alla
seconda edizione degli Hauptprobleme (1923), termina con questo augurio:
«Forse io posso sperare che i nostri sforzi tendenti ad approfondire
filosoficamente i problemi della dottrina del diritto e dello stato,
collegandoli con gli analoghi problemi delle altre scienze, e così liberando
la nostra scienza dal suo insano isolamento e inserendola come degno
membro nel sistema delle scienze, trovino una giusta comprensione anche
presso gli avversari»17.
Anche in Kelsen il disegno di portare la scienza del diritto al livello
delle altre scienze, perseguendo l’ideale scientifico dell’«oggettività» e
dell’«esattezza», si accompagna a una concezione irrazionalistica dei valori,
altrettanto radicale di quella di Pareto e di Weber. Se vuole riuscire nel suo
intento di costruire una teoria valida universalmente, lo scienziato deve
tenere a bada quanto più gli è possibile i giudizi di valore, proprio perché i
valori rappresentano la sfera dell’irrazionale. Ovunque lo scienziato lasci
insinuare le proprie preferenze espresse in giudizi di valore, l’impresa
scientifica è destinata a fallire per la semplice ragione che i giudizi di valore
non sono sottoponibili ai controlli costitutivi dell’universo scientifico. In
altre parole, l’impresa scientifica è possibile soltanto in quanto riesca ad
essere avalutativa. Naturalmente, per non lasciarsi influenzare dalle proprie
preferenze etico-politiche, lo scienziato deve rinunciare alla pretesa di dare
ricette per l’azione. Il compito della scienza è di descrivere e non di
prescrivere. Chiunque abbia una qualche familiarità con le opere di Kelsen
sa bene quanta importanza abbia nella sua concezione dell’etica dello
scienziato l’impegno di non prescrivere nulla: Kelsen conduce tanto oltre
questo impegno da estenderlo dalla teoria generale del diritto, dove sembra
più ovvio, all’opera dei giuristi, i quali dovrebbero limitarsi a proporre le
varie interpretazioni possibili di una norma o di un complesso di norme,
giacché ogni scelta, implicando una valutazione, sarebbe scientificamente
inattendibile18.
Il valore per eccellenza con cui ha a che fare il diritto è il valore della
giustizia. Come ogni valore (o più precisamente come ogni valore ultimo o
finale), la giustizia è qualcosa d’inassoggettabile a qualsiasi forma di
controllo empirico o razionale. Una delle affermazioni ricorrenti in tutta
l’opera kelseniana è che la giustizia è un ideale irrazionale. «Giustizia – egli
scrive nella Reine Rechtslehre – nel significato che le è proprio e che la
differenzia dal diritto esprime... un valore assoluto. Il suo contenuto non
può essere determinato dalla dottrina pura del diritto. Anzi, esso non è in
alcun modo determinabile dalla conoscenza razionale»19. Più oltre: «Come
è impossibile (secondo quanto si può presupporre) determinare mediante
la conoscenza scientifica, cioè per mezzo di una conoscenza razionale
orientata verso l’esperienza, l’essenza dell’idea o della cosa in sé, così è
impossibile rispondere per la stessa via alla domanda: in che cosa consiste la
giustizia»20. Nella General Theory of Law and State, abbandonando il
paragone kantiano, e accogliendo spunti neo-positivistici, afferma che il
giudizio di valore con cui si dichiara che qualcosa costituisce un fine
ultimo, «è sempre determinato da fattori emotivi»21. Siffatto giudizio è un
giudizio soggettivo, valido soltanto per il soggetto giudicante e perciò
relativo. Poiché alla domanda se una norma o un intero ordinamento sia
giusto o ingiusto non si può rispondere se non con un giudizio di valore, il
problema della giustizia non è un problema di cui possa occuparsi la
scienza, e pertanto la teoria pura del diritto in quanto pretenda di essere
scienza se ne deve disinteressare: «Una teoria pura del diritto – una scienza
– non può rispondere a questa domanda che cosa sia giusto e ingiusto,
perché ad essa non si può in alcun modo rispondere scientificamente»22.
È stato più volte osservato che la costruzione delle scienze sociali
procede di pari passo con la relativizzazione di tutti i valori: il relativismo
culturale permette di studiare la società umana, le varie forme di società
umane, senza preoccupazioni etico-politiche. La condicio sine qua non per
studiare scientificamente le società umane sarebbe una certa indifferenza
rispetto al valore da dare a questa o a quella forma sociale, a questo o a
quell’atteggiamento dell’uomo in società. Ebbene: questo stato
d’indifferenza è tanto più accessibile quanto più si è dominati dalla
convinzione che non vi sono valori assoluti, che una civiltà, una cultura,
nel caso specifico di Kelsen, un ordinamento giuridico, vale l’altro. Per
quanto non sia da tutti accettato che esista un nesso necessario tra teoria
positivistica del diritto e relativismo etico, è certo che nel pensiero di
Kelsen questo nesso esiste: «L’esigenza, avanzata sul presupposto di una
dottrina relativistica dei valori, di separare il diritto dalla morale ed in
conseguenza il diritto dalla giustizia, significa soltanto che, valutando un
ordinamento giuridico come morale o immorale, giusto o ingiusto, si
esprime soltanto il rapporto dell’ordinamento giuridico con uno dei molti
possibili sistemi morali (non con “la” morale) e si enuncia un giudizio di
valore non già assoluto, bensì relativo»23.
Nella storia del pensiero giuridico, l’assolutismo etico è rappresentato
dalla teoria del diritto naturale, la quale pretende di ricavare dallo studio
obbiettivo, «scientifico», della natura umana regole di condotta
universalmente valide. Sulla base di questa pretesa il giusnaturalismo ha
sempre attribuito alla teoria del diritto il compito di distinguere il diritto
giusto da quell’ingiusto, e quindi di prescrivere quale diritto debba essere
piuttosto che di descrivere il diritto che è. Ma poiché questa pretesa – per
un relativista come il Kelsen – è infondata, il giusnaturalismo ha finito per
sottoporre l’analisi della realtà giuridica a giudizi soggettivi, e quindi per
ostacolare, se non addirittura per rendere impossibile, una teoria scientifica
del diritto. La costruzione di una teoria scientifica del diritto è strettamente
collegata, nell’opera kelseniana, con una critica serrata, continua,
incalzante del giusnaturalismo. Si è detto che per aprire la via alla scienza
giuridica bisogna liberarla dai giudizi di valore. Siccome la manifestazione
più alta e anche più ricorrente di intrusione di giudizi di valore è, secondo
Kelsen, quel modo di atteggiarsi di fronte al diritto che va sotto il nome di
giusnaturalismo, bisogna, se si vuol far progredire la scienza giuridica,
sgombrare definitivamente il campo dal giusnaturalismo.
Il modo con cui Kelsen critica la pretesa della teoria del diritto naturale
di essere una teoria scientifica rientra nel procedimento, così caratteristico
in questa fase di sviluppo delle scienze sociali, della «deideologizzazione». Il
giusnaturalismo non è una teoria (scientifica), ma un’ideologia, o, con altre
parole, non è una teoria razionale di un particolare campo dell’esperienza
umana, ma è la razionalizzazione postuma di un bisogno fondamentale,
che è generalmente quello di conservare lo stato esistente. Nel denunciare
il giusnaturalismo come ideologia, Kelsen adopera espressioni che non
possono non far pensare a Pareto o a Freud, anche se probabilmente la
fonte diretta di Kelsen è il padre stesso della critica delle ideologie, Karl
Marx: «Il bisogno di giustificare razionalmente i nostri atti emotivi è così
forte che noi cerchiamo di soddisfarlo anche a rischio di un auto-inganno.
E la giustificazione razionale di un postulato basato su un giudizio
soggettivo di valore, cioè su un desiderio, quale, ad esempio, quello che
tutti gli uomini siano liberi, o che tutti gli uomini siano trattati
egualmente, è un auto-inganno o un’ideologia, il che costituisce press’a
poco la stessa cosa. Tipiche ideologie di questo genere sono le affermazioni
che un qualche fine ultimo e quindi un qualche regolamento determinato
dal comportamento umano, derivi dalla “natura”, cioè dalla natura delle
cose, dalla ragione umana o dalla volontà di Dio. Questa dottrina sostiene
che esiste un ordinamento delle relazioni umane diverso dal diritto
positivo, più alto ed assolutamente valido e giusto, in quanto promana dalla
natura, dalla ragione umana o dalla volontà di Dio»24.
Spetta ad Ernst Topitsch, studioso, non a caso, di Pareto e di Weber, il
merito di aver richiamato l’attenzione degli studiosi, al di fuori della
ristretta cerchia dei giuristi, sull’importanza che assume nell’opera
kelseniana la critica delle ideologie25. La teoria pura del diritto è (pretende
di essere), in quanto teoria scientifica, una dottrina compiutamente de-
ideologizzata (appunto come la sociologia di Pareto). Una delle operazioni
cui Kelsen si dedica con maggiore compiacimento è quella di eliminare
intere parti della tradizionale dommatica giuridica mettendone in rilievo
l’origine ideologica, e degradando le teorie precedenti a ideologie
mascherate: anche per Kelsen, come per Pareto, tutte le teorie che hanno
preceduto la teoria pura sono pseudo-teorie (l’espressione è di Pareto ma
vale bene anche per Kelsen). Ideologici sono i concetti di diritto soggettivo
e di soggetto giuridico, le classiche distinzioni tra diritti reali e diritti
d’obbligazione, tra diritto privato e diritto pubblico, e il dualismo tra
diritto e stato. Che il giudice dichiari e non crei il diritto non è una teoria
ma un’ideologia (è l’ideologia che vuol mantenere l’illusione della certezza
del diritto); così è un’ideologia, e non una teoria, l’affermazione che
esistono lacune nella legge (è l’ideologia che permette al legislatore di
limitare con regole ad hoc la libertà del giudice). Difendendo la concezione
del primato del diritto internazionale sul diritto statuale contro la teoria
dualistica e contro la teoria del primato del diritto statuale, Kelsen non
esita ad affermare a conclusione del suo libro-manifesto: «La dissoluzione
teoretica del dogma della sovranità, di questo massimo strumento
dell’ideologia imperialistica diretta contro il diritto internazionale, costituisce
uno dei risultati più importanti della dottrina pura del diritto»26.

3. La teoria pura del diritto come teoria dell’ordinamento


giuridico
Non s’insisterà mai abbastanza sul fatto che primamente col Kelsen la
teoria del diritto si sia orientata definitivamente verso lo studio
dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, considerando come
concetto fondamentale per una costruzione teorica del campo del diritto
non più il concetto di norma ma quello di ordinamento, inteso come
sistema di norme. Si confronti la teoria del Kelsen con una delle opere più
importanti di teoria generale del diritto che l’ha preceduta: Subjektives Recht
und juristische Norm (Diritto soggettivo e norma giuridica, 1878) di Augusto
Thon. Ciò che manca totalmente nell’opera di Thon, frammezzo a tante
sottili analisi di alcune parti del sistema giuridico, è l’idea dell’ordinamento
giuridico come sistema. Il diritto, egli dice, è un insieme di imperativi.
Quale tipo di insieme? Era proprio a questa domanda che l’opera del Thon
non dava nessuna risposta.
Su per giù negli stessi anni in cui Kelsen inizia il suo lavoro teorico, la
teoria normativa tradizionale viene abbandonata, specie in Francia e in
Italia, per la teoria dell’istituzione, la quale scopre che non basta occuparsi
degli alberi (le singole norme), occorre occuparsi anche della foresta
(l’istituzione appunto). Ma la foresta che essa descrive, l’istituzione intesa
come società organizzata, è stranamente priva di alberi, cioè di norme.
L’impresa di Kelsen consiste invece nel non abbandonare il punto di vista
normativo nel passaggio dallo studio delle singole norme allo studio
dell’ordinamento, ma anzi nel condurlo sino alle estreme conseguenze,
cercando l’elemento caratteristico del diritto nel modo con cui le norme
cui abitualmente diamo il nome di norme giuridiche si dispongono e
compongono in sistema. Così accanto alla nomostatica, che è la teoria della
norma giuridica, prende posto nel sistema kelseniano la nomodinamica,
che è la teoria dell’ordinamento giuridico. Anche se la prima è, per
abitudini inveterate, forse più nota, la seconda è certamente più
importante. L’essenza del diritto non andrà ricercata d’ora innanzi,
secondo la nuova prospettiva kelseniana, in questa o quella caratteristica
delle norme, ma nella caratteristica di quell’insieme di norme che formano
l’ordinamento giuridico. Il diritto è un ordinamento coattivo
(Zwangsordnung). Di qui l’inversione del modo tradizionale di impostare il
problema della definizione del diritto: non è un ordinamento giuridico
quello che si compone di norme coattive, ma sono norme giuridiche
quelle che appartengono a un ordinamento coattivo. Solo partendo
dall’ordinamento, anziché dalle singole norme, la teoria del diritto è in
grado di risolvere il famoso caso del bandito (da cui prende le mosse anche
Hart). Perché non attribuiamo il senso oggettivo di norma giuridica
all’ordine di un bandito accompagnato da minaccia di uccisione? Kelsen
risponde: «Se si tratta dell’atto isolato di un singolo individuo, esso non
può essere qualificato come atto giuridico ed il suo senso non può essere
considerato come una norma giuridica già per il fatto che il diritto... non è
una singola norma, bensì un sistema di norme, un ordinamento sociale, ed
una particolare norma è da considerarsi norma giuridica solo nella misura
in cui appartiene a tale ordinamento»27.
Mi pare che sinora non sia stata attratta la dovuta attenzione sul fatto
che questo orientamento verso la rappresentazione di un determinato
campo d’indagine come un sistema, cioè come un insieme di elementi in
relazione d’interdipendenza tra loro e col tutto, è un orientamento
generale delle scienze sociali di quegli anni. Chi voglia cercare di
connettere il processo di formazione della teoria kelseniana del diritto con
lo spirito del tempo, non può fare a meno di presentare alla discussione
anche questa annotazione: Kelsen condivise con alcuni dei maggiori
studiosi contemporanei nell’ambito delle scienze sociali questa tendenza
verso la scoperta del sistema come meta ultima della ricerca, inteso il
sistema come quella totalità la cui struttura una volta individuata permette
di spiegare la composizione, il movimento e il mutamento delle singole
parti. Non è il caso di ricordare che il Trattato di sociologia generale di Pareto
è un ambizioso, e grandioso, se pur ancora rozzo, tentativo di
rappresentare la società umana come un sistema (in equilibrio dinamico).
La svolta della linguistica teorica che si fa risalire al Cours de linguistique
générale di de Saussure consiste nella concezione della lingua come un
sistema: anche se la giurisprudenza teorica è ancora estremamente arretrata
rispetto alla linguistica teorica, la tendenza che nasce con Kelsen verso una
teoria del diritto come sistema di norme in relazione interna tra loro non
può non trarre illuminanti suggestioni dal confronto con la svolta
saussuriana nella linguistica. Nella Reine Rechtslehre Kelsen si esprime in
questo modo: «L’atteggiamento della dottrina pura del diritto è... del tutto
oggettivistico e universalistico. Essa è rivolta fondamentalmente alla totalità
del diritto e cerca solo di comprendere ogni singolo fenomeno nel nesso
sistematico con tutti gli altri e di comprendere in ogni parte del diritto la
funzione della totalità del diritto. In questo senso, essa è una concezione
veramente organica del diritto»28. Non sembra che in questo passo Kelsen
abbia ancora chiaro in mente il nesso tra concezione sistematica del diritto
e teoria dinamica dell’ordinamento giuridico: la totalità del diritto di cui
parla appare più come una totalità funzionale (definita cioè attraverso la sua
funzione) che una totalità strutturale (da definirsi, cioè, attraverso la sua
struttura specifica). Ma già Adolf Merkl molti anni prima, a proposito della
kelseniana teoria dinamica dell’ordinamento giuridico, di cui egli stesso
avrebbe dato la prima esposizione, scriveva: «La teoria a gradi
dell’ordinamento giuridico, come già Kelsen l’ha fissata, è la prima
cosciente applicazione del modo di pensare sistematico al mondo dei
fenomeni giuridici, rimasto sinora quasi estraneo ai giuristi»29.
Solo nella General Theory of Law and State Kelsen presenta con la
massima chiarezza la propria teoria come una teoria sistematica del diritto
riferendosi espressamente alla specifica struttura interna del sistema
normativo giuridico: «Il diritto è un ordinamento del comportamento
umano. Un ordinamento è un sistema di regole. Il diritto non è una
regola, come talvolta si dice. Esso è un complesso di regole aventi quel
genere di unità che concepiamo come un sistema. È impossibile afferrare la
natura del diritto limitando la nostra attenzione alla singola regola
isolatamente. I rapporti che collegano tra loro le norme particolari di un
ordinamento giuridico sono pure essenziali alla natura del diritto. Solo
sulla base di una chiara comprensione di questi rapporti che costituiscono
l’ordinamento giuridico si può intendere pienamente la natura del
diritto»30.
Non è stata mai sottolineata con il dovuto rilievo la novità di quest’uso
di «sistema» nella teoria del diritto. Nel linguaggio dei giuristi vi è un
significato tradizionale di questa parola per cui «sistema» non significa
nient’altro che l’insieme delle partizioni della materia giuridica ad uso
didattico più che scientifico (il cosiddetto sistema esterno)31. Quanto al
sistema interno, l’unica concezione dell’ordinamento come sistema emersa
nei giuristi del secolo scorso era quella dell’ordinamento giuridico come
sistema funzionale. Con Kelsen, ossia con la teoria dinamica
dell’ordinamento giuridico, compare per la prima volta nella teoria del
diritto la rappresentazione dell’ordinamento giuridico come un sistema che
ha una certa struttura, e che è caratterizzato proprio dall’avere questa e non
quella struttura. Il termine «struttura» è usato dallo stesso Kelsen in alcuni
passi cruciali della sua teoria: «Come scienza [la dottrina pura del diritto] si
ritiene obbligata soltanto a comprendere il diritto positivo nella sua essenza
e d’intenderlo mediante un’analisi della sua struttura (Struktur)»32. E più
oltre dove l’analisi strutturale è nettamente contrapposta all’analisi
funzionale del diritto: «Questa dottrina [la dottrina pura del diritto] non
considera infatti lo scopo che viene perseguito e raggiunto per mezzo
dell’ordinamento giuridico, ma considera soltanto l’ordinamento giuridico
stesso; e considera questo ordinamento nell’autonomia propria del suo
contenuto di senso (Sinngehalt) e non già relativamente a questo suo
scopo»33. È stato giustamente osservato che «non basta far uso del termine
“struttura” per divenire senz’altro strutturalisti»34: ma è innegabile che la
tendenza di Kelsen a considerare il diritto come un universo strutturato,
risponde alla stessa esigenza da cui hanno preso le mosse le ricerche
strutturali in linguistica e in antropologia.
Su quale sia la struttura specifica del sistema giuridico rispetto ad altri
sistemi normativi, a Kelsen vien dato di riflettere soprattutto quando
affronta direttamente in un saggio del 1928 il classico problema del
rapporto tra diritto naturale e diritto positivo. Per distinguere il sistema del
diritto naturale dal sistema del diritto positivo Kelsen introduce la
distinzione tra sistema normativo statico, le cui regole sono connesse
attraverso il contenuto, e sistema normativo dinamico, le cui regole sono
connesse attraverso il modo con cui sono prodotte. L’ordinamento
giuridico è un sistema dinamico35.
In un sistema statico si dice che una norma appartiene al sistema
quando è deducibile dal contenuto del postulato etico che vi sta alla base;
in un sistema dinamico si dice che una norma appartiene al sistema quando
viene prodotta nel modo previsto dalla norma che istituisce il potere
sovrano (la cosiddetta norma fondamentale). È certo che la teoria dinamica
dell’ordinamento giuridico, nonostante le critiche cui è stata fatta segno, e
nonostante le integrazioni e i perfezionamenti cui ha dato e può ancora dar
luogo36, costituisce il punto di partenza o, se si vuole, il passaggio obbligato
di un’analisi strutturale del diritto. Può essere se mai una ragione di
sorpresa che una distinzione così fondamentale e meritevole di più ampi
sviluppi come quella tra sistema normativo statico e sistema normativo
dinamico sia stata scarsamente recepita e utilizzata37.
È già stato osservato che la costruzione dell’ordinamento giuridico
come edificio a più piani, come sistema gerarchizzato di più livelli
normativi, nasce dall’osservazione della natura complessa
dell’organizzazione del moderno stato costituzionale, in particolare dalla
riflessione apertasi negli anni dopo la prima guerra mondiale sul valore
etico-politico delle costituzioni rigide, in cui la distinzione tra leggi
ordinarie e leggi costituzionali, con la conseguente subordinazione
gerarchica delle prime alle seconde, introduce un grado di più nel sistema
giuridico e rende immediatamente più visibile la forma a piramide
dell’ordinamento. Alla fine della guerra Kelsen era stato chiamato dal
cancelliere del governo provvisorio austriaco, Karl Renner, a collaborare
alla redazione definitiva della costituzione della nuova repubblica, che fu
approvata il 1° ottobre 1920. Com’è ben noto, al suo contributo personale
fu dovuta l’innovazione storicamente più significativa di quella
costituzione, cioè l’istituzione di una corte suprema chiamata a controllare
la legittimità delle leggi ordinarie. Come racconta il suo biografo, Rudolf
Metall, Kelsen era particolarmente fiero di questa innovazione, perché
«nell’attuazione del principio della conformità alla costituzione della
legislazione e del principio della legittimità del potere esecutivo
(giurisdizione e amministrazione), egli vedeva la più efficace garanzia della
costituzione e il tratto caratteristico della costituzione federale austriaca»38.
È comunque certo che l’istituzione di leggi costituzionali gerarchicamente
superiori alle leggi ordinarie, cioè a quelle norme del sistema che
tradizionalmente erano considerate le norme ultime, introducendo un
grado ulteriore nel sistema normativo permetteva di vedere, più
distintamente di quel che fosse accaduto sino allora, anche gli altri gradi.
Non è un caso che un teorico del diritto come Hart, che costruisce la sua
teoria sulla base della costituzione inglese dove manca il grado superiore
delle norme costituzionali, si fermi alla distinzione tra norme primarie e
norme secondarie, e adombri senza approfondirlo il principio della
struttura gerarchica dell’ordinamento (da questo punto di vista la teoria di
Hart costituisce un passo indietro rispetto a quella di Kelsen). A maggior
ragione, la teoria dinamica dell’ordinamento giuridico difficilmente
sarebbe potuta nascere dalla riflessione sulla costituzione di uno stato
assoluto o di una società primitiva. Il che non toglie che la
rappresentazione dell’ordinamento giuridico come sistema gerarchico a
molti gradi serva a comprendere meglio anche gli ordinamenti più
semplici, cioè serva a comprendere che anch’essi hanno una struttura, e
costituiscono un sistema, non sono cioè un coacervo di norme.
(L’anatomia dell’uomo, avrebbe detto Marx, serve a comprendere meglio
l’anatomia della scimmia.)
Ciò che invece non è stato sino ad ora, almeno a mia conoscenza,
osservato è che la teoria kelseniana sulla struttura interna di un sistema
giuridico può essere messa utilmente a raffronto con la contemporanea
teoria weberiana del processo di razionalizzazione (formale) del potere
statale, onde deriva quel tipo di stato amministrativo o burocratico la cui
legittimità è data dalla forma di potere che Weber chiama, a ragione, per il
nesso che egli scorge tra razionalizzazione e legalizzazione, «legale». La
costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico può ben essere considerata
come la rappresentazione più adeguata di quello stato razionale e legale,
razionale perché regolato dal diritto a tutti i livelli, la cui formazione
costituisce, secondo Weber, la linea di tendenza del grande stato moderno
(capitalistico e non). Ancora una volta questo non significa che Kelsen,
nonostante la sua pretesa di elaborare una teoria generale del diritto, valida
per tutti i sistemi giuridici di tutti i tempi, teorizzi in realtà una forma
storica di stato: significa che una compiuta teorizzazione del sistema
giuridico come sistema normativo complesso non poteva nascere se non da
una continua riflessione sulla formazione dello stato moderno in cui la
razionalizzazione dei processi di produzione giuridica rende più evidente la
struttura piramidale dell’ordinamento, ovvero permette di percepire con
maggiore perspicuità che quell’ordinamento normativo cui diamo il nome
di ordinamento giuridico è un universo strutturato in un certo modo. Ciò
che qui preme rilevare è che, quando Kelsen descrive la progressiva
giuridificazione dello stato moderno, tanto da giungere alla famosa o
famigerata riduzione dello stato a ordinamento giuridico, rileva lo stesso
processo che Weber coglie nella formazione del potere legale, che
accompagna lo sviluppo dello stato nello stesso periodo storico. Lo stato è
lo stesso ordinamento giuridico (Kelsen) in quanto il potere è
completamente legalizzato (Weber). Ciò che distingue lo stato come
ordinamento giuridico da altri ordinamenti giuridici come gli ordinamenti
delle società prestatali o l’ordinamento internazionale, è un certo grado di
organizzazione, ovvero l’esistenza di organi «che lavorano secondo le
regole della divisione del lavoro per la produzione e l’applicazione delle
norme da cui esso è costituito»39. Quando Kelsen precisa che la presenza di
questa organizzazione per la produzione e l’applicazione del diritto
comporta la conseguenza che il rapporto definito come potere statuale si
differenzia dagli altri rapporti di potere per il fatto di essere esso stesso
regolato da norme giuridiche, sembra descrivere quella forma di potere
legittimo che è per l’appunto il potere legale, la cui principale caratteristica
è quella di avere apparati specializzati come l’apparato giudiziario e quello
amministrativo (Kelsen aggiungerebbe anche l’apparato legislativo) che
agiscono nei limiti di regole generali ed astratte poste dal sistema. Niun
dubbio che la descrizione kelseniana si trovi ad un livello superiore di
astrazione rispetto a quella weberiana; ma Kelsen si propone di elaborare
una teoria generale dello stato, mentre Weber descrive un tipo ideale di
stato, che non è il solo tipo storicamente esistente. Non diversamente da
Weber, Kelsen si rende conto dell’enorme importanza dei grandi apparati
amministrativi nella formazione dello stato moderno. Ma mentre Weber
identifica nella burocratizzazione della maggior parte delle attività dello
stato la tipicità del potere legale, Kelsen vi scorge una fase di quel processo
di progressivo accentramento delle attività di produzione e di applicazione
del diritto in cui ritiene consista la caratteristica dell’ordinamento giuridico
statuale (processo che egli chiama passaggio dal Gerichtsstaat al
Verwaltungsstaat)40. Si può anche aggiungere che al di là di questa
convergenza tra la concezione teorica del Kelsen e la descrizione weberiana
del processo tendenziale dello stato moderno, per Weber era chiaro ciò che
era chiarissimo anche per Kelsen, e cioè che il punto di vista del giurista è
diverso da quello del sociologo. Ciò che Weber dice sul diritto, in quanto
sociologo, cioè che esiste un ordinamento giuridico quando si forma in un
determinato gruppo sociale un apparato coercitivo, può essere
letteralmente sottoscritto da Kelsen. D’altro canto, Weber avrebbe potuto
sottoscrivere la tesi kelseniana secondo cui per capire che cosa sia il diritto
bisogna guardare non alle regole ma al loro insieme, cioè all’ordinamento
nel suo complesso41.

4. Struttura e funzione nella teoria del diritto


Il significato storico dell’opera kelseniana è legato all’analisi strutturale
del diritto come ordinamento normativo specifico, la cui specificità
consiste per l’appunto non nei contenuti normativi ma nel modo con cui
le norme sono unite l’una all’altra in sistema. Questo tipo di analisi
costituisce anche il limite della teoria pura del diritto. Non c’è dubbio che
lo sviluppo dell’analisi strutturale è andato a scapito dell’analisi funzionale:
a paragone del rilievo che Kelsen ha dato ai problemi strutturali del diritto
è estremamente angusto lo spazio che egli ha riservato ai problemi relativi
alla funzione del diritto. È significativo che proprio il passo, già citato, in
cui afferma che la teoria pura studia il diritto nella sua struttura, appartenga
a un contesto il cui scopo è quello di negare che essa debba occuparsi dei
fini dell’ordinamento giuridico.
La ragione per cui Kelsen non si è preoccupato del fine
dell’ordinamento giuridico sta nel fatto che egli ha del diritto, inteso come
forma di controllo sociale, una concezione meramente strumentale, la
quale, occorre ripeterlo, va perfettamente d’accordo con il relativismo
etico e l’irrazionalismo dei valori. Una delle affermazioni ricorrenti in tutta
l’opera kelseniana è che il diritto non è un fine ma un mezzo. Come
mezzo può essere usato per raggiungere i fini più diversi, come la storia del
diritto insegna. Ma proprio in quanto serve a raggiungere i fini più diversi,
un’analisi che parta dai fini o peggio dal fine (come quella dei
giusnaturalisti) non permetterà mai di cogliere l’essenza del diritto. Per
Kelsen il diritto è «una tecnica dell’organizzazione sociale»: la sua
specificità consiste nell’uso dei mezzi coercitivi per indurre i membri di un
gruppo sociale a fare o a non fare alcunché. Il diritto è un «meccanismo
coattivo». Ciò che è comune a tutti gli ordinamenti sociali che chiamiamo
giuridici è la presenza di un’organizzazione più o meno accentrata per
ottenere, ricorrendo in ultima istanza alla forza, l’esecuzione di certi
obblighi di fare o l’osservanza di certi obblighi di non fare. Da questo
punto di vista si capisce perché il diritto possa avere gli scopi più diversi: ha
di volta in volta tutti gli scopi cui un gruppo sociale annette tanta
importanza da ritenere che debbano essere raggiunti ricorrendo anche alla
forza. Con la terminologia dei sociologi, che Kelsen peraltro non usa, il
diritto è una delle forme possibili di controllo sociale, specificamente è
quella forma di controllo che si vale dell’uso della forza organizzata.
Considerato il diritto come mezzo e non come fine, definito come
specifica tecnica sociale, l’analisi funzionale del diritto è presto esaurita. La
funzione del diritto è quella di permettere il raggiungimento di quei fini
sociali che non possono essere raggiunti con altre forme (più blande, meno
costrittive) di controllo sociale. Quali siano questi fini varia da società a
società: è un problema storico, non un problema che possa interessare la
teoria del diritto.
Non già che il problema funzionale sia del tutto eluso. Ma nulla mostra
come Kelsen volesse non impegnarsi troppo nel problema del fine del
diritto quanto la correzione «non lieve»42 apportata nella seconda edizione
della Reine Rechtslehre ai due paragrafi della General Theory of Law and State,
in cui si era lasciato sfuggire l’affermazione che il diritto ha, sì, uno scopo, e
questo scopo è la pace sociale: «il diritto – aveva detto – è indubbiamente
un ordinamento per la promozione della pace»43. Una frase di questo
genere apre un discorso teleologico: infatti, in quanto organizzazione della
forza monopolizzata, il diritto limita l’uso indiscriminato della forza; se si
definisce la pace «come quella condizione in cui non viene usata la forza»,
si deve concludere che il diritto «assicura la pace della comunità»44. La
correzione «non lieve» che egli introduce nell’ultima opera a questo passo
consiste nel rifiutare la pace come fine del diritto e nell’indicare al suo
posto un concetto assai più generico e meno compromettente, come
quello di «sicurezza collettiva», derivato manifestamente dal diritto
internazionale: come organizzazione della forza monopolizzata, il diritto
assicurerebbe non tanto la pace quanto la sicurezza collettiva, la quale non
è essa stessa la pace ma «mira alla pace»45. In questo senso sembrerebbe che
la pace non fosse il fine del diritto ma una specie di ideale-limite cui il
diritto tende. Subito dopo, infatti, Kelsen si affretta a precisare che negli
ordinamenti giuridici primitivi, fondati sul principio dell’autotutela (e il
diritto internazionale è uno di questi), «non si può parlare seriamente di
una pacificazione, anche soltanto relativa, della comunità giuridica»46.
Donde la conclusione: «Non si può ritenere con ragione che lo stato di
diritto sia necessariamente uno stato di pace e che l’assicurare la pace sia
una funzione essenziale del diritto»47. Certo, il diritto ha un fine, ma è un
fine minimo, un fine intermedio, un fine che ha valore strumentale, in
quanto serve di condizione preliminare per raggiungere altri fini. Il diritto
non ha un fine ultimo (come la giustizia, il bene comune, l’interesse
collettivo). Il suo fine non è neppure quello hobbesiano della pace, che è
già esso stesso manifestamente un fine intermedio. Nella retrocessione
della ricerca di questo fine minimo, dalla pace alla sicurezza collettiva,
Kelsen mostra insomma la caccia spietata che egli dà a ogni tentativo di
determinare, per usare l’espressione jheringhiana, lo «scopo del diritto».
Kelsen si rende perfettamente conto che dal punto di vista dell’analisi
funzionale le sue affermazioni non fanno altro che riprodurre, se pure in
forma ancor più drastica e in maniera ideologicamente sempre più
sterilizzata, uno dei caposaldi del positivismo giuridico. Introducendo il
discorso sulla coazione, nella prima edizione della Reine Rechtslehre, ha cura
di avvertire che «in questo punto la dottrina pura del diritto continua la
tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX»48. Sotto
questo aspetto, che è appunto l’aspetto funzionale, sembra che egli non
abbia nulla di particolarmente importante da dire. I problemi, cui il
positivismo giuridico non aveva dato una risposta, erano quelli relativi alla
struttura di questo meccanismo coattivo in cui consiste il diritto. Per
questo, messo da parte il problema della funzione, egli volge la propria
attenzione essenzialmente all’analisi strutturale. Ma così accade che,
mentre in questa analisi il suo contributo è stato fondamentale, e non è più
contestato se non dai giusnaturalisti attardati (che peraltro vanno
scomparendo), dai giuristi sovietici per pregiudizi ideologici duri a morire,
e da alcuni tra i più radicali realisti americani per una sorta di fobia contro
ogni sorta di teoria generale, l’analisi funzionale resta nella dottrina
kelseniana più o meno ferma al punto in cui egli l’aveva trovata, proprio
nel momento in cui la società andava trasformandosi rapidamente nei paesi
industrialmente più sviluppati, e questa trasformazione avrebbe fatto
emergere una diversa funzione del diritto che i giuristi del secolo scorso
non avevano potuto neppure prevedere. Non si può certo rimproverare il
Kelsen di non essersi accorto di un processo in corso, che del resto è stato
poco osservato anche da coloro che sono venuti dopo di lui. Ma dovendo
fare un bilancio non si può fare a meno di constatare quanto la vecchia
teoria del diritto come ordinamento coattivo, accolta in toto dal fondatore
della teoria pura del diritto, sia oggi inadeguata.
Come ho avuto occasione di dire altrove, Kelsen non ha avuto mai
alcun dubbio sul fatto che la tecnica di controllo sociale propria del diritto
consistesse nella minaccia e nell’applicazione di sanzioni negative, cioè di
quelle sanzioni che infliggono un male a coloro che compiono azioni
socialmente indesiderabili. Ogni qualvolta ripete la sua definizione del
diritto come ordinamento coattivo ha cura di precisare che il diritto è tale
perché è in grado di procurare del male, se pure sotto forma di privazione
di beni, al violatore delle norme. Ordinamento coattivo e ordinamento
basato su sanzioni negative sono nel suo linguaggio sinonimi. Ma ormai si
va sempre più imponendo all’osservatore spregiudicato la constatazione
che da quando lo stato ha cessato di essere indifferente di fronte allo
sviluppo economico, la funzione del diritto ha cessato di essere
esclusivamente protettivo-repressiva. Lo strumento giuridico classico dello
sviluppo economico in una società in cui lo stato non interviene nel
processo economico, è stato il negozio giuridico, di cui il diritto, proprio
in quanto ordinamento coattivo, si limita a garantire l’efficacia. Ma da
quando lo stato si assume il compito, non soltanto di controllare lo
sviluppo economico, ma di dirigerlo, lo strumento idoneo a questa
funzione non è più la norma rafforzata da una sanzione negativa contro
coloro che la trasgrediscono, ma la direttiva economica, che spesso viene
rafforzata da una sanzione positiva in favore di coloro che vi si
conformano, come accade, per esempio, nelle cosiddette leggi
d’incentivazione, che cominciano ad essere studiate con attenzione dai
giuristi. Onde la funzione del diritto non è più soltanto protettivo-
repressiva ma anche, e sempre più frequentemente, promozionale. Al
giorno d’oggi, un’analisi funzionale del diritto che voglia tener conto dei
mutamenti avvenuti in quella «specifica tecnica dell’organizzazione sociale»
che è il diritto non può non integrare lo studio della tradizionale funzione
protettivo-repressiva del diritto con quello della sua funzione
promozionale. Questa integrazione è, a mio avviso, necessaria se si vuole
elaborare un modello teorico rappresentativo del diritto come sistema
coattivo. Si tratta di passare dalla concezione del diritto come forma di
controllo sociale alla concezione del diritto come forma di controllo e di
direzione sociale.
Detto questo, occorre anche aggiungere che i mutamenti avvenuti
nella funzione del diritto non inficiano la validità dell’analisi strutturale,
così com’è stata elaborata da Kelsen. Ciò che Kelsen ha detto intorno alla
struttura dell’ordinamento giuridico resta perfettamente in piedi anche
dopo gli sviluppi più recenti dell’analisi funzionale. La costruzione del
diritto come sistema normativo dinamico non è minimamente intaccata
dalle rilevazioni che riguardano il fine del diritto. Per essa una norma è
giuridica quando sia stata prodotta nelle forme previste, cioè in conformità
di altre norme dell’ordinamento, in particolare da quelle norme che
regolano la produzione delle norme del sistema. Che una norma miri a
reprimere o a promuovere un determinato comportamento non ha,
rispetto alla struttura dell’ordinamento, nessuna rilevanza. Anzi, la
specificità dell’ordinamento giuridico rispetto ad altri ordinamenti sociali
rimane ancora una volta affidata alla tipicità della sua struttura e non alla sua
funzione che, quale essa sia, si esplica nella forma che è propria di un
ordinamento dinamico. La svolta che la teoria pura del diritto ha
rappresentato nello sviluppo della giurisprudenza teorica è insomma una di
quelle svolte oltre cui è possibile andare avanti ma da cui non è lecito
tornare indietro. Prova ne sia che la maggiore opera di giurisprudenza
teorica dopo Kelsen, quella di Hart, ha proseguito sulla stessa strada,
cercando nella struttura specifica dell’ordinamento giuridico, individuata
nell’«unione di norme primarie e di norme secondarie», la determinazione
del «concetto del diritto».

Note
1 Il titolo intero è Hauptprobleme der Staatsrechtslehre entwickelt aus der Lehre vom Rechtssatze, Mohr,
Tübingen 1910. La seconda edizione è una riproduzione foto-meccanica della prima, con l’aggiunta
di un’importante Introduzione (pp. V-XXIII), che fa il punto sullo sviluppo della teoria pura del
diritto negli ultimi dieci anni. La più ampia bibliografia delle opere di Kelsen e su Kelsen si trova in
appendice a R.A. Metall, Hans Kelsen. Leben und Werk, F. Deuticke, Wien 1969, pp. 124-216.
Aggiornata sino al 1965 è la bibliografia delle opere di Kelsen che si trova in appendice al Saggio
introduttivo di M.G. Losano, premesso alla edizione italiana della seconda edizione della Reine
Rechtslehre; H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. LXII-XC.
2 Anche questa espressione «giurisprudenza teorica» (theoretical jurisprudence) si trova in Kelsen,
per esempio in General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 1945
(d’ora innanzi citato come GTLS), p. 141 (trad. it., Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 143).
3 Mi limito a ricordare, dopo la bibliografia di Metall, citata, la monografia, a dire il vero
alquanto scolastica, di R. Hauser, Norm, Recht und Staat. Überlegungen zu Hans Kelsens Theorie der
reinen Rechtslehre, Springer Verlag, Wien 1968.
4 «Rechtstheorie. Zeitschrift für Logik, Methodenlehre, Kybemetik und Soziologie des
Rechts», Duncker & Humblot, Berlin 1970.
5 R. Walter, Der gegenwärtige Stand der reinen Rechtslehre, in «Rechtstheorie», I, 1970, pp. 69-95.
6 J. Piaget, Les deux problèmes principaux de l’épistémologie des sciences de l’homme, in Logique et
connaissance scientifique, vol. XXII dell’«Encyclopédie de la Pléiade», Paris 1967, p. 1117. Sul rapporto
Piaget-Kelsen, cfr. G. Cellerier, Incidenza dell’epistemologia genetica sulla teoria dei fondamenti del diritto,
in AA.VV., Jean Piaget e le scienze sociali, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 71-113.
7 H. Kelsen, Pure Theory of Law and Analytical Jurisprudence, in «Harvard Law Review», LV, 1941,
pp. 44-70 (trad. it. in Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1967,
pp. 173-206).
8 Una lunga discussione con Kant si trova nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, F.

Deuticke, Wien 1960 (citata d’ora innanzi come RRL2), pp. 102-5 (trad. it., Einaudi, Torino 1966,
pp. 119-20). Per i rapporti tra Kelsen e il neo-kantismo è ancora fondamentale R. Treves, Il
fondamento filosofico della dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, in «Atti della R. Acc. delle Scienze di
Torino», LXIX, 1934 (p. 43, estratto).
9 Cfr. il paragrafo intitolato Die Libido als Kriterium der sozialen Verbindung, nel libro Der
soziologische und der juristische Staatsbegriff, Mohr, Tübingen 1922, pp. 19-33. Un accenno alla
psicoanalisi anche in Das Verhältnis von Staat und Recht im Lichte der Erkenntniskritik, in «Zeischrift für
öffentliches Recht», II, 1921, p. 506.
10 H. Kelsen, Die Entstehung der Kausalgesetzes aus dem Vergeltungsprinzip, in «The Journal of
Unified Science», VIII, 1939, pp. 69-130; Causality and Retribution, ivi, pp. 234-40.
11 Per queste notizie rinvio Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 67 e 110. Cfr. anche F. Barone, Il neo-
positivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino 1953, p. 247.
12 In una nota di Vom Wesen der Demokratie, Mohr, Tübingen 1920 (che cito dalla trad. it.,
Essenza e valore della democrazia, in H. Kelsen, Democrazia e cultura, Il Mulino, Bologna 1955), Kelsen
discute l’affermazione di Roberto Michels, secondo cui il fascismo nella sua tendenza
antiparlamentare si era appoggiato a Pareto, e la rifiuta ritenendo che l’atteggiamento di Pareto nei
riguardi del parlamento fosse quello di un liberale (pp. 46-47). Il giudizio di Michels si fondava sul
saggio paretiano Pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale, che egli stesso aveva pubblicato
subito dopo la morte di Pareto in «La vita italiana», settembre-ottobre 1923, pp. 165-69,
presentandolo come «il testamento politico del più grande sociologo e pensatore dell’epoca presente
lasciato a tutti gli italiani giovani senza distinzione di partito» (ora in V. Pareto, Scritti politici, a cura
di G. Busino, Utet, Torino 1974, vol. II, pp. 795-800). Lo stesso riferimento a Pareto si trova anche
in un saggio posteriore del Kelsen, Das Problem des Parlamentarismus, W. Braumüller, Wien-Leipzig
1924, come viene rilevato da P. Tommissen, La conception parétienne de la démocratie, in «Res publica»
(Revue de l’Institut belge de science politique), XVII, 1975, pp. 5-30, che cita a p. 23 il saggio
kelseniano dalla seconda edizione del 1968 (dove il passo commentato si trova a pp. 42-44). Di
questo scritto kelseniano esiste anche una vecchia traduzione italiana in «Nuovi studi di diritto,
economia e politica», II, 1929, pp. 182-204. Come ognun può vedere da queste citazioni, l’incontro
di Kelsen con Pareto fu occasionale, e non riguardò né la teoria del diritto del primo né la teoria
sociologica del secondo.
13 Nella Prefazione della prima opera, intitolata La règle de droit, F. Rouge, Lousanne 1889,
Roguin scriveva: «noi studiamo il diritto, dal punto di vista analitico e sintetico, come il chimico
studia i corpi che egli scompone e classifica... Per la loro stessa natura, le nostre conclusioni sono,
salvo errore, altrettanto rigorose che quelle della scienza dei corpi materiali» (p. VI). Nella Prefazione
della seconda opera, La science juridique pure, F. Rouge, Lousanne 1923, cita come precedente
Austin, non menziona Kelsen e ribadisce che le verità dimostrate nel suo sistema «non implicano in
se stesse alcun giudizio di valore riguardo al merito o al demerito delle soluzioni e delle istituzioni
giuridiche» (p. XX). Sui rapporti tra Pareto e Roguin ha richiamato l’attenzione G. Busino, Ernest
Roguin e Vilfredo Pareto, in «Cahiers Vilfredo Pareto», 1964, n. 4, pp. 189-210. Sui rapporti fra
Kelsen e Roguin, F. Guisan, La science juridique pure. Roguin e Kelsen, in «Zeischrift für
schweizerisches Recht», LIX, 1940, pp. 207-38. Su Roguin ho scritto io stesso un saggio: Un
dimenticato teorico del diritto: Ernest Roguin, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, Giuffrè, Milano 1978,
vol. IV, pp. 43 sgg.
14 Cfr. il paragrafo Der Staat als Rechtsordnung in den Kategorien der «verstehenden» Soziologie, in Der
soziologische und der juristische Staatsbegriff, cit., pp. 156-70. Sul soggiorno di Kelsen ad Heidelberg cfr.
Metall, Hans Kelsen, cit., pp. 10 sgg.
15 Reine Rechtslehere, F. Deuticke, Leipzig-Wien 1934, Prefazione (citato d’ora innanzi come

RRL1).
16 GTLS, p. XIV (trad. it., p. IX).
17 Hauptprobleme, cit., p. XXIII.
18 Metall racconta che Kelsen non si iscrisse mai ad alcun partito politico, perché riteneva che
l’appartenenza ad un partito mettesse a repentaglio o limitasse l’indipendenza scientifica (Hans
Kelsen, cit., p. 33).
19 RRL1, § 8.
20 RRL1, § 8.
21 GTLS, p. 7 (trad. it., p. 7).
22 GTLS, p. 6 (trad. it., p. 6).
23 RRL2, § 12.
24 GTLS, p. 8 (trad. it., p. 8). E ancora: «Uno studio più approfondito delle fonti rivelerebbe
che queste tesi, cioè le tesi dei giusnaturalisti sul diritto naturale come fondamento del diritto
positivo, erano assolutamente irrilevanti per la validità del diritto positivo: il carattere della dottrina
giusnaturalistica in generale, e della sua corrente principale, era strettamente conservatore. Il diritto
naturale, quale era affermato dalla teoria, era essenzialmente una ideologia, che serviva a sostenere,
giustificare, e rendere assoluto il diritto positivo, o, ciò che è la stessa cosa, l’autorità dello stato» (p.
416, trad. it., p. 423).
25 H. Kelsen, Aussätze zur Ideologiekritik, con un’Introduzione e a cura di E. Topitsch, Hermann
Luchterhand Verlag, Neuwied am Rhein 1964.
26 RRL1, § 50 i.
27 RRL2, § 6 c.
28 RRL1, § 26. Cfr. anche RRL2, § 33 g.
29 A. Merkl, Die Lehre von der Rechtskraft entwickelt aus dem Rechtsbegriff, F. Deuticke, Leipzig-
Wien 1923, p. 223.
30 GTLS, p. 3 (trad. it., p. 3).
31 Sulle varie nozioni di sistema giuridico cfr. G. Lazzaro, L’interpretazione sistematica della legge,
Giappichelli, Torino 1965, specie il cap. I; per una storia dell’idea di sistema, con particolare
riguardo alla scienza giuridica e al diritto, cfr. M.G. Losano, Sistema e struttura nel diritto, vol. I,
Giappichelli, Torino 1968. Alcune considerazioni sul tema ho svolto anche nel saggio Per un lessico
di teoria generale del diritto, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Cedam, Padova 1975, pp. 135-46.
32 RRL1, § 9.
33 RRL1, § 14 c. R. Treves traduce Sinngehalt con «struttura» (trad. it., ed. 1952, p. 48). Il
traduttore italiano della seconda edizione, M.G. Losano, traduce la tipica espressione kelseniana
Stufenbau (costruzione a gradi) con «struttura gerarchica» adducendo alcuni passi in cui lo stesso
Kelsen usa il termine Struktur con riferimento appunto alla costruzione a gradi dell’ordinamento
giuridico (La dottrina pura del diritto, cit., p. XCIX).
34 Ibid.
35 H. Kelsen, Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslehre und des Rechtspositivismus (1929),

che cito dalla trad. it. in appendice a GTLS, p. 407. Cfr. anche RRL2, § 34 b.
36 Oltre l’articolo di R. Walter, già citato, cfr. B. Akzin, Analysis of State and Law Structure, in
Law, State and International Legal Order. Essays in Honor of Hans Kelsen, edited by E. Engel and R.A.
Metall, The University of Tennessee Press, Knoxville 1964, pp. 2-20.
37 Non mi pare colgano e approfondiscano questo aspetto del problema dell’ordinamento
giuridico i due libri recenti sull’argomento, per altri versi importanti e meritevoli della massima
considerazione: J. Raz, The Concept of a Legal System, Clarendon Press, Oxford 1970; C.E.
Alchourrón-E. Bulygin, Normative Systems, Springer, Wien 1971.
38 Metall, Hans Kelsen, cit., p. 36.
39 RRL2, § 41 a.
40 RRL1, § 48 c; RRL2, § 41 b.
41 Un richiamo a Kelsen, ma solo per quel che riguarda il Wertrelativismus, si trova nel saggio sul
pensiero giuridico weberiano di K. Engisch, Max Weber als Rechtsphilosoph und Rechtssoziologe, in
Max Weber. Gedächtnisschrift der Ludwig-Maximilians-Universität München zum 100. Wiederkehr seines
Geburtstages 1964, Duncker & Humblot, Berlin 1966, pp. 67-88. Per la stessa ragione Weber e
Kelsen sono accomunati nella critica da G. Lukács: Die Zerstörung der Vernunft (1954), di cui cito la
trad. it., La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 617.
42 RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51).
43 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21).
44 GTLS, p. 21 (trad. it., p. 21).
45 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50).
46 RRL2, p. 39 (trad. it., p. 50).
47 RRL2, p. 40 (trad. it., p. 51).
48 RRL1, § 12.
X. Tullio Ascarelli

1. Riflessioni introduttive e conclusive sull’ultima opera


L’ultimo scritto di Tullio Ascarelli prima della morte, avvenuta
prematuramente il 20 novembre 1959, fu l’ampia Introduzione a
un’edizione di testi rari di Hobbes e di Leibniz1. Il libro apparve postumo,
curato e annotato da Giorgio Bernini e Domenico Maffei, con una
presentazione del discepolo Michele Giannotta. Era il primo volume di
una collana di «Testi per la storia del pensiero giuridico», che, ideata da
tempo, era stata negli ultimi anni oggetto di ripensamenti e cure costanti.
Il nostro comune interesse per il pensiero giuridico di Hobbes, e
specialmente per il Dialogo sul diritto comune, alla pubblicazione del quale
attendevamo contemporaneamente all’insaputa l’uno dell’altro, era stato
all’origine di uno scambio epistolare avvenuto nei primi mesi del ’59. Il
pensiero della collana, che egli aveva concepita come strumento di rottura
e di apertura verso la dottrina giuridica, generalmente incuriosa della
propria storia, e mezzo di rinnovata diffusione delle idee, che più gli
stavano a cuore, sulla natura e sulla funzione della scienza giuridica, era, in
quelle lettere, preminente. Il 10 febbraio mi scriveva: «... io sono assai
convinto della necessità di un’apertura di finestre culturali nel mondo del
diritto». Quindi abbozzava quasi un programma di lavoro: «...con tanti
studi sul “mos gallicus” nessuno ha rilevato il rapporto con la posizione dei
culti di Ottomano, ecc., con Ockham, e col nominalismo; nello studiare
l’interpretazione del ’500 e poi Ramus si è dimenticato che al contrasto
con Ramus è intesa la “Nova Methodus” di Leibniz; con tutto quello che
Domat rappresenta per la codificazione napoleonica e nostra non si è
indicato quanto sulle sue tesi... abbia potuto influire il suo legame col
mondo di Port Royal». Subito dopo, con una impennata verso i principi,
di cui s’era fatto negli ultimi anni assertore, propugnatore, divulgatore,
scopriva il fondo del suo pensiero, la reale intenzione che lo muoveva
nell’intrapresa: «...i giuristi immaginano di lavorare su un piano meramente
tecnico scissi dall’opera del legislatore e dallo sviluppo della storia e a loro
volta vengono così considerati. Così l’attività del giurista diventa un po’
sempre un’arte di azzeccagarbugli, mentre forse le varie correnti di
pensiero e le varie ideologie poi operano proprio attraverso tutti gli schemi
del lavoro del giurista». Chi abbia qualche familiarità con le opere di
Ascarelli, troverà in queste poche battute alcuni tratti essenziali e originali
della sua personalità di studioso – indocilità verso le idee tramandate,
amore dell’avventura intellettuale, bisogno di muoversi in spazi sempre più
larghi – e del suo pensiero – storicismo e realismo congiunti insieme, che
confluiscono nella concezione della indistinzione tra diritto e scienza
giuridica.
Come ultimo scritto, la lunga Introduzione ai testi di Hobbes e di
Leibniz assume un significato singolarissimo nell’evoluzione di un pensiero
che si era mosso ininterrottamente in un’unica direzione. Dopo tante
allusioni e riferimenti e straripamenti verso la storia del pensiero giuridico,
e dopo tante schermaglie, quasi sempre occasionali, con le correnti del
pensiero giuridico contemporaneo, negli scritti degli ultimi dieci anni,
Ascarelli affrontava in questa Introduzione, per la prima volta direttamente,
un tema storico e filosofico insieme. Essa costituì certamente il punto di
arrivo di un lungo travaglio e insieme una prova del fuoco: se la sua vita
non fosse stata recisa troppo presto, sarebbe stata probabilmente anche un
punto di partenza. Il filo rosso, che aveva legato tutte insieme le sue opere
da quelle giovanili a quelle della maturità, sempre più forte, teso e visibile
negli scritti dell’ultimo decennio, era stata l’idea della natura creatrice e
non soltanto ricreatrice, assiologica e non soltanto logica, innovativa e non
soltanto dichiarativa, dell’opera dei giuristi. Eppure, nonostante la parte di
protagonisti che essi hanno assolto nella elaborazione secolare del
patrimonio di regole giuridiche di cui dispone oggi la società moderna per
risolvere gli infiniti problemi di convivenza e di organizzazione che
un’economia sempre più complessa, traffici sempre più intensi, sollevano, i
giuristi tendono, per lunga e consolidata tradizione, a considerare la loro
opera come un monumento di rigore logico e di costruzione sistematica:
non si ricorderà mai abbastanza il grande Savigny che ammirava i giuristi
romani perché «calcolavano» coi loro concetti. Ragione di sorpresa e
occasione di continue riflessioni fu per Ascarelli l’osservazione del perenne
divario tra quello che i giuristi effettivamente fanno e quel che spesso
credono o pretendono e dicono di fare. Non si faceva in tempo a scoprire
il terreno reale su cui si muoveva il pensiero giuridico di tutte le età che
una nuova ondata di metodologica presunzione lo ricopriva: gli ultimi
strali di Ascarelli erano rivolti al neopositivismo che cercava di mettere una
fronda al vecchio, ormai devastato albero del logicismo giuridico. Pertanto,
uno dei compiti fondamentali della storia del pensiero giuridico doveva
essere quello di dar conto delle ragioni della divergenza tra il metodo
effettivamente praticato e la metodologia proposta e proclamata. Ascarelli,
da buon storicista, sapeva che le metodologie non nascono improvvise nel
cervello di un pensatore, perché sono il prodotto di situazioni storiche
concrete, in particolare, trattandosi di teorie sul metodo della scienza
giuridica, delle condizioni di sviluppo di una determinata società, coi suoi
conflitti d’interesse e con le concezioni generali che ne derivano sulla
funzione del diritto. Perciò, allo scopo di veder chiaro in quella divergenza
era necessario collocare l’eterna aspirazione del giurista a far dell’arte sua
una scienza, addirittura una scienza esatta, nel contesto storico in cui la
giurisprudenza opera, individuare i nessi tra l’ideologia della giurisprudenza
come scienza e la realtà storica da cui scaturiva, insomma avvicinarsi allo
studio della storia della giurisprudenza – impresa affascinante e sterminata
– con lo sguardo rivolto alla sua funzione reale piuttosto che non a quella
di volta in volta proclamata.
La pubblicazione di alcuni testi scelti di Hobbes e di Leibniz mirava
precisamente a questo scopo. Può apparir strano il connubio tra due
pensatori che sono di solito considerati su opposte sponde rispetto alla
fondazione ultima del diritto, l’uno volontarista, l’altro razionalista, o, se si
vuole, giusnaturalista nel senso più rigoroso della parola, nemico dichiarato
dei volontaristi, e di Hobbes in ispecie. Ma nel programma di ricerche e
nell’intenzione polemica di Ascarelli essi erano strettamente congiunti
dalla comune concezione dell’interpretazione giuridica come opera non
innovativa ma dichiarativa: potevano quindi essere considerati come
autorevoli progenitori della concezione «dogmatica» della giurisprudenza,
che aveva rappresentato una parte tanto cospicua nella storia del pensiero
giuridico del secolo scorso, responsabili artefici di uno dei dogmi
fondamentali del positivismo giuridico. Anche se l’espressione
«positivismo giuridico» non è abituale nel linguaggio di Ascarelli per
indicare quella teoria e quell’ideologia del diritto, di cui la concezione
dichiarativa dell’interpretazione è stata uno dei maggiori caposaldi, credo si
possa annoverare questa proposta ascarelliana di rileggere Hobbes e Leibniz
in una stessa chiave tra le testimonianze di un recente diffuso interesse per
le fonti del positivismo giuridico: solo questa collocazione, del resto, può
offrire il giusto angolo per giudicare un’opera, che è stata l’ultimo
messaggio di un autore estremamente sensibile nell’individuare i punti
nodali di un processo storico, e sarebbe dovuto essere l’inizio di un
ripensamento insieme puntuale e globale di un indirizzo di pensiero giunto
al momento del rendiconto risolutivo.
Ascarelli sapeva benissimo che Leibniz era, a parole, antihobbesiano:
ma gli premeva dimostrare che la teoria dell’interpretazione, che lo
accomunava ad Hobbes, doveva avere (e aveva) un’unica radice, cioè
l’esigenza della certezza elevata a supremo valore dell’esperienza giuridica.
E così raggiungeva anche un altro scopo: far vedere che dietro la teoria più
astratta e apparentemente innocua si nascondeva un’ideologia, e compito
dello storico è di snidarla. Peraltro, nonostante l’identità dell’ispirazione, le
teorie di Hobbes e di Leibniz non potevano essere confuse l’una con l’altra:
la medaglia che essi volevano coniare era la stessa ma ognuno ne aveva
riprodotto una sola faccia. Fuor di metafora, i loro sforzi sistematici
corrispondevano a due momenti diversi dell’ideale della certezza: quelli di
Hobbes al momento della posizione d’un ordinamento, quelli di Leibniz al
momento dell’applicazione di un ordinamento già posto (che era per lui,
una volta per sempre, il diritto romano). Con le parole di Ascarelli: «La
certezza di Hobbes è la certezza di una soluzione, e la sicurezza di una
convivenza; quella di Leibniz la certezza di un’argomentazione»2. Il rilievo
dato a questa distinzione può spiegare come mai Ascarelli assuma di fronte
ai due autori, anche se in forma non del tutto esplicita, due atteggiamenti
diversi, di simpatia e in parte di adesione rispetto a Hobbes, di critica, o per
lo meno di freddo distacco, di fronte a Leibniz. Verso quest’ultimo non si
stanca mai di ripetere che l’assegnare al giurista un compito meramente
dichiarativo, logico, e al massimo sistematico, è prova di spirito
conservatore, è la manifestazione di una concezione passiva, servile, della
giurisprudenza, di una visione statica della formazione del diritto, che i
giuristi e i principi romani hanno una volta per tutte elaborato, onde non
resta che continuarne l’opera in un rinnovato spirito di rigida fedeltà. Di
Hobbes, invece, è un fervido ammiratore: una curiosa nota autobiografica
suggerisce, di questa sua ammirazione, una spiegazione psicologica.
Citando il libro su Hobbes di Leo Strauss, osserva: «Sembra che coloro che
hanno percorso le vie dell’esilio [...] subiscano l’attrazione di Hobbes e
forse proprio per il coraggio della sua durezza e insieme per l’eticità che
proprio la sua durezza finisce per reintrodurre»3. A giudicar dalla rinascita
hobbesiana di questi ultimi anni, dopo il crollo di tanti Leviatani, dalla
difesa che del suo pensiero politico è stata fatta da autori non certo sospetti
di indulgenza verso il dispotismo, la posizione di Ascarelli non è affatto
eccezionale: il fascino perenne di Hobbes deriva dal realismo senza
illusione dei suoi principi unito all’asciutto rigore dei suoi ragionamenti.
Questa ammirazione peraltro non basta a spiegare come mai un critico così
convinto e perseverante di uno dei dogmi più celebri del positivismo
giuridico, come Ascarelli, fosse andato a scegliere come testo da consigliare
ai giuristi per una lettura liberatrice proprio uno dei documenti più
impressionanti, ancorché quasi sconosciuto, della preistoria del positivismo
giuridico, il famoso Dialogo sul diritto comune, quel dialogo, tanto per
intenderci, in cui, sin dalle prime battute, il Filosofo getta in faccia al
Legista, portavoce di sir Edward Coke, la sfida: «Non è la sapienza, ma
l’autorità che crea la legge»4.
Ascarelli vede nel pensiero di Hobbes due aspetti, uno regressivo,
l’altro progressivo: il primo consiste nella teoria dichiarativa
dell’interpretazione, ovvero nell’attribuzione al giudice di una parte
sostanzialmente passiva nel processo di creazione del diritto, il secondo
nella rivalutazione della ragione naturale di ogni singolo individuo, contro
la ragione artificiale della corporazione dei legisti, esaltata dai fautori della
common law. Ma qual era poi la funzione reale della ragione naturale nella
creazione del diritto? Se Ascarelli avesse tratto tutte le conseguenze dai
principi hobbesiani, si sarebbe reso conto che nello stato la ragione naturale
dei singoli individui viene soppressa e superata nella ragione anch’essa
artificiale, perché prodotta da un accordo, del sovrano. Che era poi lo
stato, secondo la più genuina esperienza hobbesiana, se non un «homo
artificialis» che si ergeva con la sua potenza unificatrice sulla impotenza
dissociante dell’«homo naturalis»? La divergenza tra Coke e Hobbes
derivava dal contrasto tra la ragione artificiale della corporazione dei giuristi
e la ragione anch’essa artificiale del sovrano. La ragione naturale era stata, in
entrambe le teorie, cacciata fuori della porta, e poiché la ragione naturale è
l’organo del diritto naturale, quel che in definitiva l’una e l’altra posizione
avevano espunto dal sistema era proprio il diritto naturale. Nella riduzione
hobbesiana del diritto a calcolo utilitario Ascarelli vedeva, per
contraccolpo, l’affermazione di un’etica della coscienza e quindi la
liberazione dell’etica dall’abbraccio mortale col diritto. Hobbes, così
interpretato, diventava il campione di quella separazione tra morale e
diritto che sarebbe stata celebrata da Kant. Era un’interpretazione forse sin
troppo generosa di un’etica sostanzialmente utilitaristica. In Hobbes il
calcolo utilitario sta in luogo dell’inclinazione e del sentimento morale, o,
peggio, della misteriosa e non sempre socialmente utile voce della
coscienza. E una volta costituito lo stato per calcolo utilitario, diritto dello
stato e morale dell’individuo finiscono, per lo meno nella materia regolata
dalle leggi positive, per coincidere. Per fare di Hobbes un teorico di
un’etica della coscienza bisognerebbe sbarazzarsi di un passo, che avrebbe
dato del filo da torcere al giovane e hobbesianeggiante Locke, di quel passo
di Leviathan, in cui si condanna come ripugnante alla società civile la teoria
secondo cui «qualunque cosa faccia un uomo contro la sua coscienza, è
peccato», giacché per l’uomo, transfuga per calcolo utilitario dallo stato
naturale, rifugiatosi nella vita civile, non vi è altra coscienza che la legge:
«The law is the public conscience»5.
L’interesse dell’Introduzione di Ascarelli andava comunque al di là
dell’interpretazione hobbesiana: era, come si diceva, l’inizio di un discorso
originale, che sarebbe dovuto essere il più possibile documentato sulla
storia della dogmatica giuridica. Ascarelli era giunto a quella maturità di
pensiero che permette, anzi sollecita, pause di riflessione retrospettiva: si
trattava di andare alla ricerca di fili sparsi che avrebbero dovuto comporre
un tessuto organico. Sapeva che bisognava procedere a tentoni, e non aver
fretta. Ma l’opera rimase incompiuta. E dall’abbozzo che ci è rimasto
sarebbe temerario voler ricostruire l’intero disegno.

2. L’interesse prevalente per il problema dell’interpretazione


e della comparazione giuridica nei primi scritti minori
Si può invece cercare di ripercorrere il cammino che lo condusse dai
primi scritti sino a quest’ultima tappa. È stato detto che negli ultimi anni,
dopo il ritorno dal Brasile, era avvenuta «una decisa evoluzione della sua
personalità» e si era rivelato «un nuovo temperamento di studioso»6. Se
questa affermazione tende a sottolineare la sorprendente fertilità di idee, la
straordinaria fecondità, la particolare insistenza su temi impegnativi di
teoria generale del diritto, un certo atteggiamento baldanzoso di
demolitore di idee tramandate, che caratterizzarono l’ultimo decennio del
suo lavoro, è da accettarsi. Ma se mira invece, come sembra, a mettere in
rilievo una vera e propria soluzione di continuità nel suo pensiero, a dare al
lettore l’impressione di una spaccatura tra il vecchio e il nuovo, deve essere
in questa forma drastica respinta. Vi sono pochi autori che più di Ascarelli
abbiano sin dall’inizio – che fu per lui precocissimo – formulato un nucleo
di idee fondamentali, cui rimasero poi fedeli sino alla fine. La formazione
intellettuale della prima giovinezza, di una giovinezza piena di fermenti e
di tentativi, stampò nella sua mente un’impronta profonda. A leggere ora
gli scritti minori, minuscoli, dei primi anni, dove sono espressi i pensieri
forse più segreti, meglio che nelle opere accademiche, si resta sorpresi nel
vedervi già esposte, se pure in forma ancora acerba, alcune delle idee più
avanzate dell’età matura.
Intanto egli fu, dal principio alla fine, con una convinzione che non
ebbe incrinature, nonostante il mutar dei tempi e degli indirizzi e la varietà
delle sue esperienze culturali (dall’Italia alla Francia, dall’Inghilterra al
Brasile), uno storicista, secondo il verso che lo storicismo aveva preso in
Italia per effetto dell’insegnamento crociano. Fu uno storicista coerente.
Lo storicismo fu la sua passione e la sua filosofia, la pietra di paragone della
validità delle teorie altrui, il criterio ultimo cui ci si appella per sciogliere i
nodi più complicati: metodologia e insieme concezione del mondo.
Ascarelli appartiene alla seconda generazione crociana, che fiorì subito
dopo la prima guerra mondiale ed ebbe tanta parte nell’opposizione al
fascismo, alla generazione che ormai potrebbe chiamarsi, dal suo maggior
protagonista, gobettiana (e anch’egli fu preso nel vortice, come vedremo,
del prodigioso ispiratore di «La Rivoluzione liberale»). Erano gli anni in
cui l’idealismo cominciava a far sentire il suo influsso anche nel campo
degli studi giuridici, con Cesarini Sforza, Max Ascoli, Cammarata,
Maggiore, Battaglia, e qualche anno più tardi col troppo dimenticato
Alessandro Pekelis. L’idealismo storicistico fu la via attraverso cui si
sviluppò in Italia la crisi del positivismo giuridico, che in altri paesi maturò
per altri influssi. Quel che accadde all’inizio del secolo XIX al
giusnaturalismo, il quale fu aggredito da varie parti, dal positivismo,
dall’utilitarismo, dallo storicismo di destra e di sinistra, accadde all’inizio
del nostro secolo al positivismo giuridico: negli stessi anni in cui François
Gény criticava i dogmi del positivismo giuridico richiamandosi a Bergson,
i filosofi del diritto italiano della giovane generazione compivano la stessa
operazione appellandosi a Croce. Uno dei problemi in cui l’influsso
crociano maggiormente (e beneficamente) operò fu quello della
interpretazione giuridica, considerata non più come mera riproduzione
meccanica di un testo una volta per sempre posto e staccato dal contesto
storico da cui era sorto, ma come creazione continua nel processo di
adattamento del testo alla realtà storica in movimento. Uno dei motivi
dominanti nella filosofia giuridica ispirata all’idealismo storicistico fu
l’identità, o se si vuole la distinzione dialettica, tra momento della
creazione e momento dell’interpretazione del diritto in nome dell’unità del
movimento storico in cui l’astrattezza della norma si converte
continuamente nella concretezza della sua attuazione. Sin dal 1908 Croce
aveva fatto giustizia sommaria della teoria del diritto libero condannando la
strana pretesa del Kantorowicz che al giudice fosse attribuita una facoltà
legislatrice: il giudice, questa facoltà, spiegava il Croce, aveva di fatto
sempre esercitata. E aggiungeva subito dopo che non poteva non esercitarla
«perché, anche prescindendo da casi estremi e straordinari, la legge, a
cagion del suo carattere di astrattezza, importa sempre, nella sentenza che
la fa sua, un momento volitivo o legislativo»7. Il tema era stato ripreso e
svolto dallo stesso Croce nella Filosofia della pratica ed aveva trovato in un
fortunato libro di Max Ascoli la sua più ampia formulazione8; era quindi
diventato il cavallo di battaglia della nuova generazione di filosofi del
diritto, risvegliati per opera dell’idealismo dal sonno dogmatico.
Il primo saggio d’ampio respiro di Tullio Ascarelli, per quanto appena
ventiduenne non più alle prime armi9, ebbe per oggetto il problema
dell’interpretazione10. E ciò, da quel che si è detto sin qui, è notevole per
due ragioni: perché è una ulteriore riprova dell’importanza di quel
problema nel clima filosofico di quegli anni, e perché ci mostra che
Ascarelli s’imbatté sin dall’inizio in quel tema che sarebbe diventato il
tormento della sua vita sino agli ultimi anni quando, come vedremo,
intorno a quel problema tesserà e ritesserà senza tregua la trama delle sue
riflessioni. La soluzione ch’egli offriva in questo saggio del problema delle
lacune non poteva essere crocianamente più ortodossa: l’incompletezza
dell’ordinamento giuridico, su cui tanto si travagliano i giuristi dommatici
escogitando soluzioni o paradossali o ingenue, appartiene alla natura stessa
dell’ordinamento, che è composto di norme, cioè di regole astratte,
incapaci di per se stesse di risolvere integralmente i casi concreti. Fatta
questa affermazione, la metteva subito sotto la protezione
dell’orientamento filosofico dominante in Italia, citando Croce, Gentile,
Maggiore. Solo che per tranquillizzare i giuristi, i quali non possono
rinunciare al dogma della completezza, introduceva una distinzione di
comodo, che avrebbe in seguito ripudiata, tra il punto di vista esegetico-
dommatico, secondo cui l’ordinamento è un dato naturalistico una volta
per tutte compiuto e quindi intrinsecamente completo, e il punto di vista
storico-filosofico, per cui il diritto è considerato nella sua storicità «come
un momento del nostro spirito», e quindi, come tale, sempre incompleto
ancorché, o proprio perché, sempre completantesi per opera dei soggetti
cui è destinato. Di fronte a questi espedienti, la nostra mente corre subito
alla gentiliana contrapposizione fra logo astratto e logo concreto, alla
dialettica di pensiero pensato e pensiero pensante: già allora Max Ascoli
aveva parlato di questa soluzione come dell’unico segno «dell’accettazione
da parte di un giurista delle concezioni attualistiche di filosofia giuridica»11.
La dualità dei punti di vista servirà alla fine per trovare una soluzione
salomonica anche del problema tradizionale dell’interpretazione.
L’interpretazione è dichiarativa o creativa? Ascarelli risponde che dal punto
di vista naturalistico, che è quello dei giuristi, l’interpretazione è
dichiarativa, mentre dal punto di vista storico-filosofico ha valore creativo
«non solo perché... deve trasformare l’astratta norma giuridica in una
norma regolatrice di un caso concreto, ma perché è innegabile la natura
creatrice di ogni atto spirituale»12.
Questa dottrina della doppia verità, che sarebbe stata poi ripudiata, era
evidentemente una soluzione di compromesso, pro bono pacis, e come tutte
le soluzioni di compromesso aveva il difetto di essere poco chiara e, alla
fine, per la volontà di accontentare gli uni e gli altri, di scontentare
entrambi. Ma se a parole i punti di vista erano due, di fatto Ascarelli ne
aveva accettato uno, quello filosofico-storico, e solo questo poi avrebbe
sviluppato nelle ricerche successive. Ma intanto la strada da percorrere era
ormai segnata. In una breve recensione dello stesso anno (1925) esponeva
la sua visione dinamica dell’ordinamento giuridico che si realizza e cresce
nel tempo attraverso l’opera degli interpreti, su per giù con le stesse parole
con cui l’avrebbe esposta venti anni più tardi. Più che un programma di
teoria era già una teoria in nuce, che aveva bisogno soltanto di esser
documentata e ragionata: «... in linea di fatto, l’ordinamento giuridico
risulta non solamente dalle semplici norme di legge per sé prese, ma dalle
norme di legge integrate attraverso tutto un corpo di dottrine e di
interpretazioni, lentamente formatosi attraverso il travaglio dottrinale e
giurisprudenziale, e che costituisce il quotidiano aggiornamento e pertanto
la indispensabile integrazione delle norme di legge, che attraverso ad esso si
adattano alle sempre nuove esigenze della vita, così come questa tende ad
abituarsi a quei determinati schemi giuridici»13.
Accanto al problema dell’interpretazione l’altro campo di studi cui
Ascarelli si dedicò con crescente passione, negli ultimi anni, fu, com’è
noto, il diritto comparato. Ebbene chi scorra le brevi recensioni scritte per
la «Rivista internazionale di filosofia del diritto» dal 1925 al 1929 non tarda
ad avvedersi che la quasi totalità di esse riguardano libri di legislazione
straniera e di diritto comparato. Per un giovane esordiente erano letture
piuttosto singolari. E poi non si limita a dare notizia di questi libri, ma
quando può tesse l’elogio degli studi comparatistici, lamenta la
trascuratezza in cui son caduti, specie tra noi, gli studi sul diritto anglo-
americano e ammonisce i nostri giuristi troppo chiusi nel loro specialismo
a studiare il diritto inglese per il contributo che può offrire alla
comprensione dei nostri istituti. Passa dalla riforma del codice civile
austriaco al codice di commercio giapponese, dalla giurisprudenza
americana sul controllo dei prezzi al diritto civile egiziano14. Dietro queste
letture si vede il divoratore di libri, il giovane di cultura non volgare che
vuole dischiudere nuovi orizzonti allo studio del diritto, rompere il
provincialismo in cui spesso si rinchiude la cittadella universitaria.
Al diritto commerciale, del resto, non era arrivato coi paraocchi ma
attraverso una ricca esperienza di ricerche anche in altri campi. Negli anni
universitari, avvinto in un primo tempo dal magistero di Vittorio Scialoja,
aveva coltivato studi di storia del diritto: raccolse ampio materiale per una
monografia su Bartolo e il diritto internazionale che sarebbe dovuta essere
divisa in quattro parti, rispettivamente dedicate al diritto internazionale
pubblico, al diritto internazionale privato, al diritto internazionale
processuale e al diritto internazionale penale. Nell’orientamento verso gli
studi di diritto commerciale fu decisivo l’incontro con Cesare Vivante, che
gli fu maestro e alla cui memoria rimase fedele e riconoscente tutta la vita:
negli ultimi anni rievocò l’«atmosfera vivantiana», in cui si era sviluppata la
parte migliore della scienza commercialistica italiana nei primi decenni del
secolo; parlò insistentemente dell’aspetto etico-politico dell’insegnamento
del maestro, di quell’effettivo liberalismo che andava di pari passo col
solidarismo sociale, fiducioso nell’ascesa delle classi popolari, e rivelò, a chi
voleva leggere tra le righe, che la discendenza non era stata soltanto di
natura accademica15. Sotto la guida del Vivante preparò la tesi di laurea con
uno studio su Le società a responsabilità limitata e la loro introduzione in Italia,
che vide la luce nel 192416.
Ascarelli fu un giovane di rara precocità: proveniva per parte di padre e
di madre da due famiglie ebraiche di nobili tradizioni culturali. Il padre,
Attilio, fu professore di medicina legale, la madre, Elena Pontecorvo,
tuttora vivente, appartiene al rigoglioso ceppo da cui son discesi Enzo ed
Emilio Sereni, Eugenio Colorni, il fisico Bruno Pontecorvo. Il curriculum
universitario di Tullio fu rapidissimo: si laureò il 13 luglio 1923, quando
non aveva ancora vent’anni (era nato a Roma il 6 ottobre 1903);
nell’ultimo anno di università e durante la laurea prestò servizio militare
nell’arma della sussistenza. Vinta una borsa di perfezionamento all’estero
del Ministero della Pubblica Istruzione, passò un anno in Germania, dove
ritornerà nel 1926-27 con una borsa della von Humboldt Stiftung.
Conseguì la libera docenza in diritto commerciale il 21 novembre 1925
con una commissione composta da Cesare Vivante, Ulisse Manara, Angelo
Sraffa. Alla fine del ’24, a ventuno anni, ebbe l’incarico di insegnare il
diritto commerciale all’università allora libera di Ferrara. Vinse il concorso
a professore non stabile presso l’Università di Ferrara l’11 ottobre 1926 con
una commissione composta da Cesare Vivante, Mario Finzi, Angelo Sraffa,
Leone Bolaffio, Ageo Arcangeli. Nell’ottobre del ’26 passò all’Università di
Cagliari, nel novembre del ’29 a quella di Catania, dove rimase sino al ’32.
Pubblicata nel 1928 la prima ampia monografia su un tema estremamente
complesso, La moneta. Considerazioni di diritto privato (Padova), scritto il
saggio su Il negozio indiretto e le società commerciali, che nasceva dalla
prolusione tenuta all’Università di Catania il 21 gennaio 193017, venne
promosso ordinario il 28 aprile 1930 con una relazione firmata da Cesare
Vivante, Angelo Sraffa, Ageo Arcangeli. A ventisette anni compiva l’iter
della carriera universitaria, a un’età in cui di solito la maggior parte di
coloro che si avviano per quella strada non l’hanno ancora neppure
incominciata.

3. La partecipazione alla lotta antifascista attraverso la


collaborazione a «Studi politici» e a «Quarto stato»
Tra le recensioni pubblicate tra il ’25 e il ’26 sulla «Rivista
internazionale di filosofia del diritto» ce n’è una che può sembrare, a chi
consideri l’intero lavoro compiuto da Ascarelli in quei due o tre anni negli
studi giuridici, estravagante: Alberto Cappa, Vilfredo Pareto, Gobetti
editore, Torino 192418. Essa invece è uno spiraglio che serve a gettar luce
su un aspetto dell’attività quasi completamente sconosciuta o dimenticata
del giovane giurista. In questa recensione Ascarelli confermava nel giudizio
sulla sociologia e su Pareto il suo radicato crocianesimo: d’origine crociana
erano i dubbi, ch’egli manifestava, sulla validità della sociologia come
scienza; crociano era pure il giudizio su Pareto, di cui ammirava le
osservazioni particolari ma deplorava l’astrattezza dello schema costruttivo,
concludendo che il grande Pareto era l’economista non il sociologo. Ma
l’interesse della recensione è altrove: Alberto Cappa era un giovane
paretiano che aveva pubblicato nel 1923 un libro di critica politica, ispirato
a Pareto, ove elevava i ceti medi a protagonisti della crisi politica italiana19.
Anche di questo libro Ascarelli aveva scritto una recensione più agra che
dolce su «Studi politici» (di cui parleremo fra poco). Dopo questo primo
libro, Cappa si era avvicinato a Piero Gobetti nel 1923, e aveva pubblicato
su «La rivoluzione liberale» a puntate, sotto lo pseudonimo di Grildrig, uno
studio poi stampato in uno smilzo volumetto nelle edizioni Gobetti nel
1924, col titolo Le generazioni nel fascismo: qui sosteneva che l’avvento del
fascismo dovesse essere spiegato con la eccezionale partecipazione alla vita
politica attiva di una generazione di giovanissimi, che non aveva fatto la
guerra ma ne aveva subito il tormento e il fascino, sostituendo così alla
spiegazione per classi quella per generazioni (l’eterna lotta dei figli contro i
padri)20. A questa tesi di Cappa Gobetti aveva opposto una delle sue glosse
taglienti: «C’era una generazione, oltre quella del manganello, che la guerra
ha maturato, risparmiandola; che si è condannata alla serietà sin
dall’adolescenza, che ha fatto in cinque anni la sua preparazione ideale e
pratica, austeramente, senza sperare vantaggi e senza chiedere posti.
Vogliamo vedere che cosa diranno i padri di questi figli. Vogliamo vedere
che cosa ci risponderanno Mussolini e il fascismo quando alla loro retorica
avremo opposto la nostra ascesi e la nostra preparazione»21. In quello stesso
anno il nome di Alberto Cappa era apparso insieme con quello di Tullio
Ascarelli e di altri (Giorgio Bandini, Alberto Pincherle, Enzo Sereni e
Giuseppe Vescovini) tra i redattori di una rivista mensile romana, «Studi
politici», diretta da Paolo Flores, che iniziò la sua breve vita il primo
gennaio 1923. Il Cappa sin dal secondo numero scomparve dal novero dei
redattori e dei collaboratori, mentre Ascarelli fu per tutta la durata della
rivista uno dei collaboratori più assidui. Per il giovane ventenne, che faceva
insieme il giurista e il coscritto, il 1923 fu davvero l’annus mirabilis:
pubblicò il suo primo saggio d’argomento giuridico, conseguì la laurea con
un secondo saggio che sarebbe stato pubblicato l’anno seguente, ebbe
infine il battesimo di scrittore politico in una rivista giovanile di battaglia
antifascista.
«Studi politici», com’è già stato notato22, nasceva nella scia di «La
rivoluzione liberale», il cui primo numero era uscito l’anno prima nel
febbraio del ’22. Come la rivista gobettiana, questa romana figlia minore
era nata da un gruppo di giovani fuori e al di sopra dei partiti, e cercava
prestigio e sostegno nella collaborazione di firme illustri: nel primo
numero compaiono articoli di Pietro Bonfante, Ernesto Buonaiuti e
Rodolfo Mondolfo23. L’editoriale del primo fascicolo (1° gennaio 1923),
intitolato Per intendersi, partiva dalla constatazione di una crisi, che non era
sporadica, ma aveva radici profonde nel processo di formazione dello stato
nazionale e nel carattere degli italiani, individualisti arrabbiati, devoti
esclusivamente al proprio «particulare». La soluzione della crisi doveva
essere cercata nella formazione di una nuova coscienza civile degli italiani
«per la quale lo Stato non sia più la risultante meccanica di un gioco
d’interessi, ma una democrazia di produttori». La conclusione, che rivelava
uno stato d’animo d’insoddisfazione del presente più che una chiara
visione dell’avvenire, era generica: «Siamo dunque raccolti per dare alla vita
politica nazionale un ritmo d’universalità e la consapevolezza del valore
degli ideali». Ascarelli rappresentò nel gruppo la tendenza più
radicaleggiante. Le assonanze tra alcune sue affermazioni e i più noti temi
della polemica gobettiana sono sorprendenti. La sua collaborazione fu
assidua (nel corso dell’anno diciotto scritti, tra articoli e recensioni): due
articoli storici, o meglio due profili appena sbozzati alla maniera
gobettiana, uno su Rathenau e l’altro su Urbano Rattazzi24; alcuni articoli
di attualità25; varie recensioni26. Rathenau veniva raffigurato come un
ribelle alla civiltà capitalistica che non conosce il peccato ma soltanto il
successo, e tutto risolve nell’assolutezza della propria attività (donde un
singolare paragone con l’attualismo assoluto); un moralista, che aveva del
moralista l’ingenuità e l’astrattismo, che «misconosce la tragica serietà della
lotta politica in una visione idilliaca»; essendogli estraneo il problema della
partecipazione del proletariato al potere, il suo ideale democratico si risolve
nella realtà della plutocrazia tedesca. L’articolo su Rattazzi fu scritto in
occasione del cinquantesimo anniversario della morte; più sbiadito del
precedente, era imperniato sulla tesi che Rattazzi avesse concepito la
politica come amministrazione e in questo modo di intendere la politica
avesse svolto la sua funzione storica in un momento difficile. L’articolo I
competenti, con il quale Ascarelli iniziava la sua attività di scrittore politico, e
che Gobetti ripubblicò sulla sua rivista, era manifestamente rivolto contro
il tentativo fascista, o per lo meno di una certa ala del fascismo, ispirata da
Massimo Rocca, di rivalutare le competenze contro ogni forma di
politicantismo generico: il Rocca proprio nel dicembre del ’22 era riuscito
a far approvare lo statuto-regolamento dei Gruppi di competenza27.
Ascarelli commentava ironicamente: «È davvero un po’ strana questa
venerazione per i competenti proprio da parte di coloro che non hanno
nessuna competenza, e che rifuggono sempre dall’acquistarne una»; e
concludeva che dietro al desiderio ricorrente in periodi difficili del
governo dei competenti c’era la poco nobile aspirazione a rinunciare al
proprio giudizio politico, in definitiva alla propria libertà. Per Ascarelli il
fascismo era mussolinismo, e questo era la continuazione del giolittismo,
cioè della stessa politica piccolo-borghese. Perciò non condivideva l’elogio
di Giolitti fatto da Burzio: il riformismo era finito nel fascismo che è «un
po’ l’illusione romantica della piccola borghesia italiana»28. Rivendicare un
ideale di libertà era compito tanto della borghesia capitalistica quanto del
socialismo, ma di ciascuno in un senso profondamente diverso, onde vano
era ogni compromesso o tentativo di fronte unico. Ascarelli aveva scelto
chiaramente la sua parte quando scriveva: «... deve risorgere il moto
autonomo o liberale di un proletariato operaio che nel diffondersi e
rafforzarsi di quella grande industria che è condizione della sua esistenza,
può trovare la forza – in una lotta i cui termini sempre più netti tendono
ad escludere sempre più rigorosamente ogni compromesso – di esprimere
dal suo seno nuovi valori politici»29. Altrove parlava di un «proletariato
coscientemente rivoluzionario e perciò apportatore di nuovi valori»30.
Questa aspirazione ad una rigenerazione dal basso lo induceva a dare un
giudizio severo sulla crisi del socialismo: contro Salvemini, che vedeva la
principale ragione di decadenza del socialismo in una deviazione
oligarchica, sosteneva che il socialismo si stava dissolvendo «nel complesso
degli interessi particolari e individuali, nell’empirismo dei contrasti
economici» e guardava con simpatia al movimento dell’«Ordine Nuovo»31.
Auspicava un ritorno agli studi marxistici «per una rinnovata e feconda
affermazione di fronte a quell’attualismo puro che è così caro al governo
attuale»32. Accettava, come Gobetti, la rivoluzione bolscevica,
attribuendole la funzione di un rinnovamento liberale della politica e
dell’economia russa, e la definiva gobettianamente come «rivoluzione
classicamente liberale»33, «animata da una disperata affermazione e volontà
di utopia, da un afflato religioso che avrebbe scosso dal profondo tutti i
popoli oppressi». L’unico punto che lo divideva da Gobetti era il giudizio
sul partito popolare: dalla lettura delle pagine di Luigi Sturzo, Riforme statali
e indirizzi politici (1922), era tratto alla convinzione che vi fosse un’antitesi
profonda tra la concezione cattolica e quella moderna dello stato, nata dalla
rivoluzione protestante, e pertanto il partito dei cattolici non avrebbe mai
potuto mutare la sua indole essenzialmente riformistica e conservatrice34.
Altrove negava la fiducia riposta da Alberto Cappa nel partito popolare e
nel mito autonomo delle classi rurali35.
«Studi politici» chiuse la propria breve esistenza dopo un anno di vita.
Ne dava notizia lo stesso Ascarelli in una lettera a Gobetti del 18 febbraio
1924, alludendo alle molteplici cause «né tutte belle» che l’avevano
provocata. Prometteva di iniziare un’attiva collaborazione a «La rivoluzione
liberale» non appena fosse riuscito a trovar qualche ora libera dal servizio
militare36. Anche se il proposito non fu mai attuato, Ascarelli continuò a
tenersi in contatto con l’entourage gobettiano. Com’è noto, Gobetti aveva
costituito nel luglio del 1924, durante la prima crisi esplosa dopo il delitto
Matteotti, i Gruppi di Rivoluzione Liberale. Da una lettera di Umberto
Morra a Gobetti del 25 ottobre 1924, in cui si dà particolareggiata notizia
di una seduta del Gruppo romano di Rivoluzione Liberale, risulta
presente, tra gli altri (Liebmann, Necchi, Nicoletti, Ascoli, Sotgiu,
Pincherle, Bosi), Tullio Ascarelli, che fu tra i quindici rimasti sino alla fine
della burrascosa seduta, dopo la secessione di sette dei presenti non
concordi sul tenore dell’ordine del giorno37.
Non saprei dire se Ascarelli avesse collaborato a riviste politiche nei due
anni successivi durante i quali coltivò con particolare fervore gli studi
giuridici. Certo continuò a mantenere vivaci rapporti coi centri
dell’antifascismo militante, come quello fiorentino del «Non mollare».
Riprese con rinnovato ardore l’attività di scrittore politico sulle colonne di
«Quarto stato», la rivista fondata a Milano da Carlo Rosselli e Pietro
Nenni, uscita in 30 numeri dal 27 marzo al 30 ottobre 192638. Vi collaborò
con sei articoli, due storico-critici firmati col proprio nome, gli altri
quattro programmatici, politicamente più impegnativi, con lo pseudonimo
di Guido da Ferrara39. L’adesione al socialismo, che negli articoli del ’23
pareva puramente ideale e culturale, ora diventa accettazione reale del
movimento, o più precisamente del partito che dovrà risorgere dalle ceneri
del vecchio partito ormai in dissoluzione e creare la nuova democrazia
italiana. Ascarelli condivide il punto di vista dei neofiti e dei rinnovatori
che si potrebbe esprimere nella formula: il socialismo è morto, viva il
socialismo. Il fascismo ha spezzato la storia d’Italia in due parti che non
potranno più essere ricongiunte: il fascismo trascinerà nella sua rovina tutta
l’Italia di ieri, di cui è stato una continuazione. Il rinnovamento avverrà
nella democrazia e nel socialismo, o per meglio dire nel socialismo che sarà
l’unica condizione per l’instaurazione di quella democrazia che in Italia
non è mai esistita. Tra una lotta con fini immediati, che deve
necessariamente discendere a più o meno realistici compromessi con la
classe borghese, e una lotta a lunga scadenza che accetta il fascismo come
fatto compiuto e pone con maggiore intransigenza il problema del
rinnovamento radicale, Ascarelli propone la seconda alternativa. Ma il
socialismo per rinnovare il paese dovrà prima di tutto rinnovare se stesso.
In che modo? Fascismo e socialismo rappresentano non due diverse
politiche, ma due diverse civiltà: il socialismo sarà una nuova civiltà
soltanto in quanto saprà esprimere un’etica nuova, un’etica superiore, e
proporrà un nuovo ideale di uomo. Quale fosse poi questa etica nuova
Ascarelli non sapeva e non voleva definire con particolari troppo precisi:
anzi riconosceva che l’esigenza della nuova civiltà appariva «più in senso
negativo per opposizione a quella attuale che in senso positivo»40. Non
stiamo ora a discutere se questa accentuazione dell’aspetto etico del
socialismo fosse un passo avanti o non fosse piuttosto un passo indietro,
com’è già stato osservato a proposito della battaglia combattuta da «Quarto
stato» nel bel mezzo del fascismo trionfante: poteva sembrare un modo per
giustificare la rinuncia alla lotta, accettare la sconfitta e rinviare la ripresa
della battaglia a tempi più propizi. A giudicare dall’atteggiamento di
apparente distacco, di deluso riserbo, di interessamento esclusivo per i
problemi tecnici del diritto, che Ascarelli tenne negli anni successivi,
quando il fascismo diventò regime e non tollerò voci di dissenso, si sarebbe
tentati di dar credito a questa interpretazione.
Tra gli articoli di «Quarto stato» merita, a mio parere, particolare
menzione quello dedicato ad una rapida valutazione del libro di Francesco
Ruffini, Diritti di libertà, apparso nelle edizioni di Piero Gobetti in quello
stesso anno (1926). Ascarelli riconosce la bontà della causa ma non la
validità degli argomenti: non vi sono diritti naturali anteriori allo stato; i
diritti sono l’espressione delle forze che si contrastano e prendono di volta
in volta il sopravvento in un determinato ordinamento. Vogliamo la
libertà? Dobbiamo lottare per riconquistarla. La libertà non si afferma con
argomenti giuridici, ma con una decisa azione politica. Teniamo d’occhio
queste poche battute. In una interpretazione che si potrebbe chiamare
realistica più ancora che positivistica dei diritti soggettivi sembrano
convergere per la prima volta le valutazioni etiche del giovane intellettuale
politicamente impegnato e gli interessi teorici del giurista, che aveva già
intrapreso la sua battaglia contro gli eccessi del formalismo. Il politico e lo
studioso, che erano proceduti sino allora su due binari diversi, si
incontrano, ma solo per un momento. La lunga notte del fascismo li
separerà una seconda volta per altri vent’anni.
4. Breve rassegna degli scritti giuridici tra il 1926 e il 1946
Alla fine del ’26, come s’è visto, Ascarelli aveva vinto il concorso per
una cattedra universitaria. Questa sua sistemazione accademica coincideva
con il progressivo e definitivo consolidamento del regime fascista. Per un
intellettuale che non aveva preso coraggiosamente la via dell’esilio e non si
era buttato disperatamente nella cospirazione, non rimase altra via che
quella degli studi politicamente sterilizzati e della libera professione.
Furono anni di intenso lavoro e di cattiva coscienza.
Tra il ’26 e il ’38 il curriculum universitario di Ascarelli è, ancora una
volta, sorprendente. Percorse cinque sedi in dodici anni: Cagliari tra il ’26
e il ’29; Catania tra il ’29 e il ’32; Parma, nel ’32-33; Padova tra il ’32 e il
’35; Bologna tra il ’35 e il ’38. Virtù e fortuna sembravano
indissolubilmente alleate nel favorire un’ascesa che era forse senza
precedenti nella vita universitaria italiana. Ma nel ’38, col decreto-legge del
5 settembre che espelleva i professori ebrei dalle università, l’ascesa fu
bruscamente arrestata. A trentacinque anni il cursus honorum precocemente
iniziato era anzitempo concluso. D’ora innanzi il giurista provetto avrebbe
dovuto affidarsi alla sola virtù. Fu tra i primi a rendersi conto che in Italia
ogni possibilità di lavoro e di studio era preclusa. Alla fine del ’38 decise di
lasciare definitivamente l’Italia. Andò prima a Parigi e poi a Londra, dove
passò l’inverno e fu raggiunto dalla moglie coi bambini (si era sposato nel
1930 con Marcella Ziffer, di famiglia triestina). Gli era stata fatta balenare la
possibilità di una modesta sistemazione alla London School of Economics,
ma l’attesa fu delusa. Nonostante il paventato approssimarsi della guerra,
preferì stabilirsi in Francia, dove fu accolto fraternamente da due luminari
della scienza giuridica, come Georges Ripert e Maurice Picard. Sostenne
alcuni esami di diritto francese e discusse il doctorat il giorno della
dichiarazione di guerra italiana. Cercò di prender contatto con l’ambiente
universitario e forense, e di esercitare la professione dell’avvocato. Ma i
primi approcci non furono facili. A Parigi riprese i rapporti interrotti da
dieci anni con gli amici della diaspora politica, riuniti per la maggior parte
attorno al movimento di Giustizia e Libertà, che attraversava un periodo di
agitato travaglio dopo l’assassinio di Carlo Rosselli (9 giugno 1937), ma
non aveva rinunciato alla sua funzione stimolatrice di avanguardia culturale
dell’antifascismo in esilio41. Come ci ha narrato in occasione della sua
morte uno dei membri attivi del movimento, Paolo Vittorelli, Ascarelli
partecipò durante il soggiorno a Parigi alla rielaborazione del pensiero
giellista, collaborando alla redazione del «Quaderno» n. 13 di Giustizia e
Libertà, che, per quanto completo, non poté veder la luce per gli ostacoli
frapposti dalla censura francese. Il contributo di Ascarelli era consistito in
un saggio sulla grande industria italiana, che sarebbe interessante poter
ritrovare42. Ma ormai la Francia non era più un paese sicuro, soprattutto
dopo la guerra con l’Italia. Così alla fine del ’40, dopo un breve soggiorno
come sfollato a Bordeaux e nei pressi di Marsiglia, salpò con la famiglia per
il Brasile, dove avrebbe trovato la sua seconda patria. Sin dal primo anno gli
fu offerta una cattedra all’Università di San Paolo: quindi fu invitato a
Porto Alegre, a Rio de Janeiro, a Santiago del Cile. Impadronitosi
rapidamente della nuova lingua, assimilata con sorprendente maestria la
materia di un diverso diritto positivo, svolse ampia e fortunata attività
professionale che continuò in parte anche dopo il suo ritorno in Italia;
allargando la sua esperienza di giurista e i suoi orizzonti dottrinali, scrisse
numerose opere scientifiche, in cui ripensò e rielaborò vecchi temi, ne
propose dei nuovi, diede sfogo alla sua antica vocazione di comparatista.
Nei vent’anni trascorsi tra il ’26 e il ritorno in Italia alla fine della
guerra, l’opera scientifica di Tullio Ascarelli fu rivolta prevalentemente allo
studio di problemi tecnici del diritto positivo italiano prima, brasiliano poi:
e non spetta a me illustrarne il contenuto e il valore. Sono gli anni in cui
appaiono, oltre a un numero enorme e tuttora imprecisato di articoli, di
note a sentenze e di recensioni, le più importanti tra le sue monografie: La
moneta (1928); Il negozio indiretto e le società commerciali (1931); Il concetto di
titolo di credito (1932); Consorzi volontari tra imprenditori (1937). Nel 1932
pubblicò la prima edizione degli Appunti di diritto commerciale, cui seguono
altre due edizioni, rispettivamente nel 1934 e nel 1936. Nel 1937 raccoglie
la ormai più che decennale esperienza di studi e di insegnamento in
un’opera di sintesi, le Istituzioni di diritto commerciale, di cui fu vietata
l’adozione nelle scuole medie in seguito alle leggi razziali. Tra le opere
uscite in Brasile ricordiamo la raccolta di studi intitolata Problemas das
sociedades anónimas e direito comparado (1945).
Per quanto prevalentemente tecnici, gli studi di questi vent’anni
contengono alcuni spunti di quelle teorie generali del diritto che saranno
sviluppate nelle ultime opere, su cui mi soffermerò in modo particolare nei
paragrafi seguenti. Pur nell’esercizio severamente condotto del compito
dogmatico, Ascarelli non dimenticò mai la sua iniziale ispirazione
storicistica, che gli faceva cogliere l’aspetto dinamico del diritto attraverso
l’opera creativa della dottrina e della giurisprudenza. Ma in questa prima
fase non elaborò una teoria dell’interpretazione, come avrebbe fatto di poi;
si limitò ad enunciare i termini del problema ogni qual volta gliene veniva
l’occasione. Tra i saggi di questo periodo particolarmente illuminante per
gli sviluppi futuri è quello intitolato La funzione del diritto speciale e le
trasformazioni del diritto commerciale (1934)43: dopo aver distinto una
considerazione dogmatica da una considerazione storicistica dei rapporti
tra diritto speciale e diritto comune, contrappone la statica giuridica cui si
rivolgono di solito i giuristi alla dinamica, intesa come lo studio di quel
diritto vivente «che si rivela attraverso la pratica applicazione degli istituti»,
onde l’attività dei giuristi, anche loro malgrado, «è veramente creativa e
collabora nello sviluppo del diritto» (p. 452)44. Il diritto non ha carattere
matematico e l’opera dell’interprete non può ridursi a una deduzione
logica: al contrario l’opera dell’interprete non può prescindere da
«continue valutazioni onde fissare la regola e l’eccezione, determinare
nell’unità del sistema la portata di un principio giuridico, valutazioni che
hanno luogo in base a tutti i dati logici, storici, politici, economici,
risultanti dal sistema, in base alla generale concezione dell’interprete del
sistema giuridico e del fenomeno sociale, del suo sviluppo storico, del
senso della sua evoluzione» (p. 484). Quanto alle dispute metodologiche
che dividono i giuristi più formalisti da quelli più realisti, cercava di
spiegarle storicamente mettendo in relazione la varietà degli indirizzi coi
diversi compiti che di volta in volta gli interpreti si proponevano di fronte
al progresso del diritto, e risolvendole quindi in un contrasto tra giuristi
conservatori e giuristi progressisti45. In un’epoca di consolidamento di un
sistema giuridico, occorreva una interpretazione più rigida; in un’epoca di
trasformazione, occorreva un’interpretazione più elastica, più sensibile alla
considerazione dei fini economici degli istituti. Si tengano presenti i tre
punti emersi dall’esame di questo articolo: 1) funzione creatrice della
giurisprudenza; 2) ineliminabilità di un momento valutativo nell’opera
dell’interprete; 3) spiegazione storica delle controversie sul metodo
dell’interpretazione: li ritroveremo tutti e tre nella teoria
dell’interpretazione che Ascarelli elaborerà negli ultimi anni. Questa
continua attenzione rivolta al diritto come fenomeno storico lo indusse a
prendere di fronte alla dommatica una posizione di equilibrio tra le due
tendenze estreme della cieca ammirazione e della critica demolitrice. Negli
Appunti di diritto commerciale scrisse: «Naturalmente i dogmi conquistati
sono dei semplici strumenti di lavoro, non dei grimaldelli buoni per aprire
tutte le porte! Sono a mio parere erronee tanto le tendenze formalistiche
della giurisprudenza concettuale, quanto quelle di coloro che vorrebbero
bandire dall’indagine giuridica il ricorso all’indagine dogmatica»46. Anche
questo atteggiamento di cautela critica non sarà più abbandonato e
costituirà un motivo ricorrente dell’analisi futura.
Il ponte di passaggio tra gli studi di teoria generale dei primissimi anni e
quelli sullo stesso argomento degli ultimi, dopo la lunga parentesi di studi
dedicati esclusivamente all’approfondimento di problemi specifici del
diritto commerciale, può essere rappresentato dal rinnovato interesse per il
diritto comparato durante il soggiorno in Brasile. Come si è detto, lo
studio dei diritti stranieri non era stato estraneo alla sua originaria
educazione di giurista cresciuto alla scuola dello storicismo: il suo primo
lavoro di impegno sulla introduzione in Italia delle società a responsabilità
limitata (1924) era preceduto da un esame delle principali legislazioni degli
altri paesi. La conoscenza che egli dovette acquistare del diritto brasiliano e
il continuo raffronto che non poteva non istituire nella nuova pratica
professionale tra il diritto di oggi e quello di ieri lo portarono
inevitabilmente ad approfondire il tema fondamentale della natura e della
funzione del diritto comparato. Il diritto comparato era nello spazio quel
che lo studio della storia del diritto era nel tempo: perciò lo studio dei vari
sistemi giuridici rispondeva alla stessa esigenza che lo aveva indotto a
schierarsi contro il tecnicismo antistorico dei giuristi chiusi nel loro
ordinamento come in una fortezza assediata. Il metodo comparatistico era
un ampliamento e un prolungamento del metodo storico o, meglio ancora,
era un aspetto dello studio globale del diritto, che solo permetteva una
comprensione adeguata del fenomeno giuridico, e che era insieme storico
e sociologico. Non sembra che Ascarelli fosse disposto a sottolineare la
differenza tra metodo storico e metodo sociologico: in un articolo
fondamentale del 1954 li avrebbe risolti puramente e semplicemente l’uno
nell’altro47. Ciò che egli distingueva nettamente era lo studio storico del
diritto, che comprendeva anche le ricerche di diritto comparato, da quello
dogmatico, in altre parole lo studio del diritto nella sua realtà effettuale
(storia e sociologia) dall’interpretazione di un sistema giuridico allo scopo
di renderne possibile l’applicazione. In un saggio scritto in Brasile,
intitolato Premesse allo studio del diritto comparato, attribuiva allo studio del
diritto comparato, tra gli altri meriti, anche quello di rivelare, «come forse
nessun altro, le relazioni fra le premesse economiche, sociali, storiche,
morali da una parte, e la soluzione giuridica dall’altra», e quindi «di cogliere
nel vivo, in un’esperienza concreta, il diritto nel suo ambiente sociale, e di
notare le reciproche influenze fra diritto e ambiente [...], di cogliere la reale
portata economica e sociale del problema giuridico»48. Ora, proprio il
problema del rapporto tra funzione economica e struttura giuridica di un
istituto sarà, come vedremo tra poco, una delle premesse della sua teoria
generale dell’interpretazione. Negli ultimi anni le riflessioni sulla natura e
sull’utilità del diritto comparato s’intrecceranno continuamente con le
riflessioni sulla natura e la funzione dell’interpretazione.

5. Gli scritti di teoria generale dopo il 1946 e la critica del


positivismo giuridico
Il nuovo corso del pensiero giuridico di Tullio Ascarelli, indirizzato
verso l’elaborazione di una teoria generale del diritto e della scienza
giuridica e conclusosi, come s’è visto, nell’ultimo saggio su Hobbes e
Leibniz, può essere fatto cominciare dal saggio L’idea di codice nel diritto
privato e la funzione dell’interpretazione, scritto in Brasile nel 194349, che è un
rapido ma intenso scorcio sulla storia e sulla funzione dell’opera degli
interpreti del diritto nel secolare contrasto e nell’odierno ravvicinamento
dei due sistemi continentale e inglese. Ma il saggio germinale è del 1946:
Funzioni economiche e istituti giuridici nella tecnica dell’interpretazione50; quello
più suggestivamente programmatico è la Prefazione del 1952 alla raccolta
di Studi di diritto comparato e in tema d’interpretazione51, cui seguono, decisivi
sui singoli problemi che vengono via via isolati, studiati separatamente e
approfonditi dall’interno, Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni
(1953)52, Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato (1954)53, Norma
giuridica e realtà sociale (1955)54, Giurisprudenza costituzionale e teoria
dell’interpretazione (1957)55, Ordinamento giuridico e processo economico (1958)56,
per non citare che i saggi d’indole generale e trascurando quelli generali ma
di contenuto non dissimile da quelli già citati57. Nei saggi di questo
quindicennio le ripetizioni sono frequenti: la ricerca si sviluppa per giri
concentrici intorno a un nucleo di idee che rimane sostanzialmente lo
stesso dai primi saggi agli ultimi. Ma ora viene perfezionato un particolare,
ora viene aggiunto un riferimento ad un nuovo libro, ora vien fatta
avanzare l’analisi su un punto vitale, ora viene condotta su questo o quel
campo un’operazione di verifica storica delle tesi sostenute. Non vi è
saggio in cui le tesi principali non vengano riesposte, riformulate o anche
rielaborate tutte insieme, magari con diverse parole o con diversa
accentuazione di questo o quell’aspetto, come se l’autore avesse bisogno di
ricordarle a se stesso prima di ripresentarle ai lettori in un’opera continua di
riesumazione e di riassestamento. Per questa ragione un’esposizione del
pensiero di Ascarelli di quest’ultimo periodo non può essere fatta articolo
per articolo ma deve svolgersi secondo un ordine sistematico.
Il pensiero di Ascarelli è uno degli aspetti – nell’ambito degli studi di
diritto privato in Italia è l’aspetto storicamente più importante – della
reazione odierna al positivismo giuridico58. Ciò spiega anche il fatto che
Ascarelli abbia dato particolare sviluppo ad alcune sue idee generali sul
diritto e sulla scienza giuridica proprio in questi ultimi anni: la reazione
antipositivistica in Italia è recente e solo dopo la seconda guerra mondiale i
nostri giuristi, che furono tra i più fedeli al metodo dommatico, hanno
cominciato a scuotere il giogo. L’opera di Ascarelli in questo contesto ha
avuto una funzione stimolatrice e critica, da un lato, e una funzione
mediatrice tra il più avanzato pensiero giuridico degli altri paesi,
soprattutto dei paesi anglosassoni, e quello italiano dall’altro. Ho cercato di
indicare altrove alcune caratteristiche della teoria del positivismo giuridico
e le ho riassunte in questi cinque punti principali: definizione del diritto
dal punto di vista della coazione, teoria imperativistica della norma
giuridica, primato della legge, cioè della volontà generale, su tutte le altre
fonti di produzione giuridica, teoria della completezza (e talora anche della
coerenza) dell’ordinamento giuridico e teoria meccanicistica
dell’interpretazione59. La critica di Ascarelli si riferisce in modo particolare
alla teoria positivistica delle fonti e dell’interpretazione, in modo
specialissimo a quest’ultima: gli altri punti sono lasciati in ombra. In una
prima approssimazione si potrebbe dire che la battaglia di Ascarelli è stata
condotta con particolare intensità contro il dogma del legalismo giuridico
in tema di fonti e contro quello del logicismo giuridico in tema di
interpretazione: dogmi strettamente connessi, perché rappresentano due
aspetti del formalismo giuridico. Occorre peraltro una seconda
precisazione preliminare: nella rivolta contro il positivismo giuridico e il
formalismo occorre distinguere i critici estremisti dai moderati. Ascarelli
appartiene senz’ombra di dubbio ai secondi: fa largo spazio alla sociologia
ma non perde mai di vista la differenza che continua a sembrargli essenziale
tra punto di vista sociologico e punto di vista normativo; si allontana
decisamente dal formalismo della vecchia scuola positivistica ma non si
butta spensieratamente nelle braccia del realismo; condanna il
concettualismo ma non mette fuori uso quegli strumenti indispensabili al
giurista che sono i concetti giuridici; rifiuta il rigorismo, la cosiddetta
rigorizzazione del linguaggio giuridico, ma non l’esigenza del rigore; mette
in rilievo i limiti della logica nel ragionamento giuridico, ma non si
prosterna di fronte al miracolo dell’intuizione; non crede al sillogismo
giudiziale che risolve l’operazione del giudice in un ragionamento logico,
ma non si fida della equità (che di solito non viene mai ben definita). Il
proposito fondamentale che lo anima e lo sospinge innanzi, in cerca di una
soluzione nuova e insieme non sconvolgente, e viene rimartellato in ogni
scritto, è quello di comprendere e far comprendere il senso dell’opera e
della funzione della giurisprudenza che si esprime nelle due esigenze
apparentemente contrastanti della creazione e della continuità, o, più
esattamente, della creazione nella continuità.

6. Critica della teoria tradizionale delle fonti in una visione


antiformalistica dei rapporti tra diritto e società, tra diritto
ed economia
Per quel che riguarda il dogma positivistico della supremazia della
legge, uno studioso del diritto commerciale, non insensibile ai vantaggi del
metodo storico, era nella migliore delle condizioni per mostrarne
dall’interno la fragilità e l’inconsistenza teorica. Il diritto commerciale, non
diversamente dal diritto internazionale, era stato nel periodo della sua
formazione un diritto in prevalenza consuetudinario e pattizio: la
recezione da parte dell’ordinamento statale era venuta dopo. Prima di
diventare un settore del diritto dello stato, la cui fonte primaria di
produzione giuridica è la legge, era stato un «diritto dei privati». Ma questa
sua origine non poté mai essere eliminata del tutto: quegli stessi «privati»
che lo avevano creato per la necessità dei loro scambi economici nel
passaggio da una economia agricola feudale ad un’economia mercantile
precapitalistica continuavano ad adoperarlo, a manipolarlo, ad adattarlo ai
loro fini, e quindi a elaborarlo, a modificarlo, a riplasmarlo al di sotto e ad
onta della protezione statale, nel passaggio da una economia capitalistica
primitiva, fondata sulla piccola impresa artigianale, all’economia
capitalistica della grande impresa dopo la prima e ancor più dopo la
seconda rivoluzione industriale. Sin dai suoi primi studi Ascarelli aveva
detto chiaramente che per capire il diritto commerciale bisognava studiarlo
storicamente e aveva spesso ripetuto la tesi che il diritto commerciale fosse
il diritto nato dalle esigenze della società capitalistica60.
Non è un caso che siano stati gli studiosi di diritto commerciale,
almeno in Italia, a rimettere in onore tra le fonti del diritto la natura delle
cose (si pensi ad Asquini e allo stesso Vivante): la natura delle cose ha avuto
nel diritto privato la stessa funzione che ebbe il diritto naturale nella
elaborazione del diritto internazionale, di fonte o fondamento di regole
che non potevano essere tratte da un corpus iuris precostituito, cioè da un
diritto positivo riconosciuto e consolidato. Che «natura delle cose» fosse
sostanzialmente un concetto oscuro ed equivoco, Ascarelli aveva visto
giustamente sin da un lontano saggio del ’35, che, contro la natura delle
cose come fonte, aveva messo innanzi un’obiezione decisiva, richiamando
l’attenzione sulla differenza essenziale tra fatto e valore: «L’elemento
tecnico, la natura delle cose – aveva detto – non può... di per sé dar luogo
ad alcuna regolamentazione giuridica, se è vero che il diritto consiste in
una valutazione normativa e pertanto in una valutazione delle differenze
tecniche ed economiche ai fini della loro rilevanza giuridica»61. Ma ciò non
gli impedì di vedere dietro l’esigenza che si esprimeva nel ricorso alla
natura delle cose un bisogno reale, che era quello di comprendere e
giustificare l’evoluzione di un diritto, nato per disciplinare rapporti
economici che si svolgono in gran parte al di fuori della sfera di dominio
diretto del potere statale, cioè indipendentemente dalle direttive politiche
dei parlamenti e dal controllo della burocrazia. Proprio per questo rapporto
diretto con la sua matrice economica, il diritto commerciale era un campo
estremamente fertile di osservazioni per lo studio dei rapporti tra diritto e
società, da un lato, e tra diritto sociale e diritto statale dall’altro (anche se
Ascarelli non si serve mai di questa dicotomia e non affronta di petto il
problema della pluralità degli ordinamenti giuridici e dei loro rapporti). A
rafforzare questa sua convinzione, e a stimolare e indirizzare le sue
riflessioni sui rapporti complessi tra diritto e società in un orizzonte sempre
più vasto, intervenne in un secondo tempo lo studio del diritto comparato,
il quale rivelò, a suo dire, «come forse nessun altro, le relazioni fra le
premesse economiche, sociali, storiche, morali da una parte, e la soluzione
giuridica dall’altra»62.
Sul problema del rapporto tra diritto e società, in particolare sul nesso
di dipendenza del diritto dalla società, Ascarelli ebbe a pronunciarsi
esplicitamente nelle più diverse occasioni. Tra le varie formulazioni di
questa tesi scelgo la seguente: «Le norme vengono poste in relazione alle
esigenze della vita consociata e non in via di sviluppo logico da azioni
prestabilite; la loro spiegazione si ritrova sul terreno della storia e non su
quello dell’armonia logica»63. Anche se Ascarelli non lo dice
esplicitamente, una posizione di questo tipo aveva due bersagli polemici: il
razionalismo matematizzante del giusnaturalismo e il logicismo del
concettualismo o costruzionismo già criticato dallo Jhering della seconda
maniera. Ascarelli soleva riassumere questa sua posizione dicendo
sinteticamente che il diritto è storia64. Con ciò intendendo dire che il
diritto è un prodotto cangiante del processo storico e non di ragionamenti
astratti secondo l’ideale universalistico sempre rinascente dei giuristi in
tempi di grandi conflitti sociali e di lacerazioni ideologiche. La formula di
Ascarelli richiama alla mente quella celeberrima del giudice Holmes, che
aveva iniziato la sua opera sul diritto comune con la storica frase: «Il diritto
non è logica, ma esperienza». Non è difficile accorgersi che il termine
«esperienza» assume in una tradizione di filosofia empiristica, com’era
quella in cui si inserisce Holmes, lo stesso significato eulogico e vagamente
prescrittivo del termine «storia» in una tradizione di filosofia storicistica
com’era quella cui Ascarelli si era costantemente ispirato. In entrambi i casi
la formula conteneva un duplice avvertimento: 1) a considerare il diritto
nella pratica e non sui libri (secondo la distinzione, più volte riaffermata dal
Pound, tra law in action e law in books); 2) a cogliere nel lavoro
dell’interprete il momento della valutazione e della creazione anche dietro
la impalcatura logica con l’aiuto della quale il discorso del giurista viene di
solito fabbricato.
Il primo avvertimento (parleremo del secondo nel paragrafo successivo)
fu per Ascarelli occasione di frequenti osservazioni, non mai
sistematicamente raccolte, sulla situazione del diritto commerciale, in
particolare del diritto dell’impresa, durante la rapida trasformazione
economica avvenuta in Italia dopo la seconda guerra mondiale, e della
legislazione e degli studi giuridici, l’uno e gli altri anacronisticamente
attardati su posizioni da tempo superate. Rispetto al contrasto tra il diritto
nei codici e il diritto nella pratica non perdette mai l’occasione di
richiamare l’attenzione sul fatto che istituti regolati dal codice, e sui quali
alcuni giuristi scrivevano magari dotte monografie, non erano mai entrati
in vigore, mentre d’altro canto istituti importanti, come quello degli
holdings, erano trascurati e abbandonati allo sviluppo spontaneo (o
sedicente tale) delle forze sociali65. Un diritto così sensibile alle esigenze
dello sviluppo economico, come il diritto dell’impresa, era in continua
trasformazione, e creava in questa trasformazione nuove regole che
integravano e modificavano le antiche senza che spesso il giurista
dottrinario se ne rendesse conto. Queste regole poi, create dalla mobile
pratica ad onta e a dispetto del legislatore immobile per natura e
immobilizzato dalla concezione volontaristica dell’interpretazione, erano
spesso espressione della volontà di potenza delle classi dominanti. Il
cosiddetto diritto spontaneo che si forma o si crede si formi direttamente
attraverso il libero gioco delle forze in lotta è sempre il diritto del più forte.
Il richiamo allo studio della realtà effettuale del diritto conteneva, nelle
intenzioni di Ascarelli, un invito rivolto ai giuristi affinché si ponessero
problemi non soltanto d’interpretazione del diritto posto, ma anche di
riforma: «Il problema del giurista – egli diceva – è da un lato quello di
rendersi conto del mondo che ci circonda, dall’altro di elaborare un
pensiero giuridico che sia strumento di intelligenza e di azione, di
comprensione del presente e di azione pel futuro»66. Il fenomeno
economico nuovo, cui Ascarelli amava riferirsi per accentuare il distacco
dell’età presente da quella in cui erano state formate le leggi che ci reggono
tuttora, era la produzione industriale di massa che faceva sentire ogni
giorno più il bisogno di nuove regole giuridiche: se alla formulazione di
queste regole non provvedevano i giuristi, queste si formavano egualmente
nella pratica degli affari ed erano regole imposte dai gruppi più potenti.
Purtroppo il mondo economico preso in considerazione dal codice
Napoleone e dai codici che lo seguirono era ancora quello di «un
capitalismo nascente, commerciale ancora più che industriale, di piccoli
produttori, anziché di grandi complessi industriali; di una società nelle cui
classi medie e alte prevalgono redditi di capitale e beni ereditari; d’una
società nella quale prevale la produzione agricola e l’investimento
immobiliare, seppure nuove forze si siano già vittoriosamente affermate; di
una società alla quale è ignoto o quasi il lavoro della donna nelle classi
medie o alte»67. Di fronte a questo divario fra diritto scritto e non scritto
non era rimedio sufficiente lo studio della pratica dei tribunali, per la
semplice ragione che uno dei caratteri di questo diritto nuovo della società
contemporanea è la diminuita litigiosità, o per meglio dire, il ricorso per la
risoluzione delle controversie a rimedi diversi da quello tradizionale
previsto e regolato dall’ordinamento giudiziario dello stato: uno dei temi
cari ad Ascarelli negli ultimi anni fu quello del rapporto tra tipi di società e
maggiore o minore frequenza della litigiosità, e tra cause della litigiosità e i
vari metodi di soluzione delle liti68. Come si vede, quand’egli insisteva sulla
necessità di studiare la realtà giuridica effettuale, invitava il giurista ad
abbandonare le vie consuete di informazione sul diritto vigente e ad
inoltrarsi nella strada accidentata, inesplorata, accessibile solo agli addetti ai
lavori, dello studio della società economica nel suo sviluppo.
Il problema del rapporto tra diritto e società si risolveva nel rapporto
ben più determinato tra diritto ed economia, tra un certo tipo di
ordinamento giuridico e un certo sistema economico. Peraltro, che il
diritto fosse l’espressione dei rapporti economici non volle mai dire per
Ascarelli che il diritto fosse il semplice prodotto del sistema economico:
sotto certi aspetti si poteva considerare il sistema economico come un
prodotto del diritto, cioè delle regole concordate o imposte che venivano
di volta in volta formulate per dare ad un rapporto questa piuttosto che
quella disciplina. Credo che egli pensasse ad una integrazione o ad una
interdipendenza tra esigenza economica e regola giuridica: talvolta gli
balenò l’idea, che forse avrebbe meritato di essere maggiormente
approfondita, che il diritto facesse parte del sistema economico, e che
pertanto il problema tradizionale dei rapporti tra diritto ed economia fosse
in definitiva un problema mal posto, perché le regole giuridiche sono esse
stesse un elemento costitutivo di un certo sistema economico, nel senso
che contribuiscono a formarlo, cioè a foggiarlo in un modo piuttosto che
in un altro. Un’espressione caratteristica di quest’idea mi pare la seguente:
«La disciplina giuridica non costituisce variabile forma di una costante
sostanza, in una contrapposizione che presupporrebbe appunto una legalità
economica naturale; costituisce essa stessa elemento della struttura
economica i cui effetti e procedimenti sono in funzione delle regole
seguite nell’azione e viceversa»69. L’idea che il diritto non potesse
trasformare l’economia era puramente e semplicemente il riflesso di
un’ideologia (reazionaria), cioè del desiderio che il diritto non intervenisse
a trasformare per il vantaggio di classi diseredate il sistema economico
esistente: era il riflesso della concezione che si presentava come scientifica
ma era in realtà politica, secondo cui esiste un’economia naturale cui
corrisponde l’ideologia del diritto naturale. Ma anche la pretesa economia
naturale era artificiale, cioè era il riconoscimento e l’attribuzione di certi
poteri che ne escludevano certi altri, e nella creazione di questo artificio
avevano avuto la loro parte l’accettazione e l’imposizione di certe regole
giuridiche piuttosto che di altre. In più luoghi Ascarelli si soffermò sulle
trasformazioni economiche prodotte da mutamenti legislativi. Per questo
partecipò con ardore soprattutto negli ultimi anni, non dimentico della
milizia politica degli anni giovanili, a movimenti di riforma legislativa, di
cui daremo un cenno nel penultimo paragrafo.
Il nesso così inteso tra diritto ed economia costituì la premessa per una
più rigorosa impostazione metodologica dell’attività del giurista: il quale,
studiando un istituto, deve guardare contemporaneamente alla sua
struttura normativa e alla sua funzione economica. L’esigenza di questa
duplice indagine nasceva dal fatto, ben noto agli studiosi di diritto
comparato, che spesso l’identica funzione può essere esercitata attraverso
strutture diverse, o viceversa la stessa struttura giunge ad assolvere in
diversi tempi funzioni diverse. Perciò non bastava considerare la struttura:
occorreva di volta in volta accertare quale funzione vi corrispondesse. In
questo rilievo dato alla funzione economica dell’istituto, Ascarelli prendeva
posizione contro il formalismo tradizionale e si apriva la strada ad una più
rigorosa e storicamente adeguata visione del compito dell’interpretazione
nello sviluppo storico del diritto. Forse non fu estraneo al formarsi nella
sua mente, soprattutto negli ultimi anni, di questa concezione del vario
atteggiarsi del rapporto tra struttura e funzione, l’influsso, o per lo meno
una reminiscenza, di Karl Renner, che egli aveva conosciuto
personalmente a Vienna nel 193470.

7. Il problema dell’interpretazione
Il problema dell’interpretazione fu al centro dei suoi interessi teorici
negli ultimi studi e costituì nello stesso tempo un ritorno alle origini (aveva
esordito, come abbiamo visto, nel 1925, con un ampio saggio sul problema
delle lacune). Nel porsi ripetutamente il problema dell’interpretazione egli
si propose di intervenire autorevolmente nella famosa battaglia dei metodi
che aveva diviso e ancor divide i giuristi in due opposte schiere; ma
concepì il suo intervento più come il giudizio di un arbitro che come la
difesa dell’una o dell’altra parte o la proposta di un metodo nuovo.
Anzitutto ripeté in più luoghi che il suo compito non era prescrittivo, ma
semplicemente storico e descrittivo71: il suo scopo non era quello di
insegnare qual fosse il modo migliore di fare l’interprete, bensì quello di
osservare e spiegare come di fatto agivano ed avevano sempre agito gli
interpreti, anche senza saperlo o credendo di fare cose diverse da quelle che
facevano in realtà. La sua teoria dell’interpretazione non era una
precettistica, ma uno studio storico-critico. Proprio per questo si
distingueva essenzialmente dalle solite teorie dell’interpretazione che erano
ideologie mascherate. Sosteneva, infatti, in secondo luogo, che i cosiddetti
metodi dell’interpretazione erano il riflesso di atteggiamenti etico-politici,
e pertanto non esisteva il «buon metodo», cioè il metodo per eccellenza, di
cui si potesse dimostrare l’assoluta validità in ogni tempo e in ogni luogo,
ma esistevano metodi buoni per raggiungere un certo fine politico e
metodi buoni per raggiungere un altro fine, e quindi ogni tempo e luogo
avevano il proprio metodo migliore72. La famosa disputa metodologica tra
concettualismo e giurisprudenza degli interessi celava un contrasto tra una
giurisprudenza conservatrice e una giurisprudenza innovatrice. Perciò
quando egli diceva di porsi di fronte al problema dell’interpretazione come
storico voleva far intendere che non aveva alcun metodo nuovo da
annunciare, ma si proponeva di capire storicamente in che cosa consistesse,
di fatto, la tecnica dell’interpretazione, quale che fosse il metodo
perseguito (o, che era lo stesso, l’ideologia sottintesa).
Le riflessioni di Ascarelli intorno al problema dell’interpretazione si
possono raggruppare attorno a due grandi temi: la natura e la funzione
dell’interpretazione. Per quel che riguarda la natura, l’interpretazione è per
Ascarelli non dichiarativa ma creativa. Questo è sempre stato uno dei punti
fermi della sua visione realistica e dinamica del diritto. Rigettando le
consuete metafore dell’interpretazione come copia fotografica o come
rispecchiamento del diritto già posto, egli adottò quella del seme e della
pianta, onde l’ordinamento giuridico cresce su se stesso e si sviluppa
attraverso l’opera dell’interprete, di cui la legge data è il germe
fecondatore73. Fuori di metafora, l’interpretazione, checché pensi il giurista
della sua opera, non è mai soltanto sviluppo logico di premesse, cioè mera
esplicitazione dell’implicito, ma anche sempre accrescimento,
adattamento, integrazione, insomma opera continua di riformulazione e
quindi di rinnovamento del corpus iuris74: il giurista non è un logico che
manipola soltanto delle regole, ma un ingegnere, che si serve di regole per
costruire nuove case, nuove fabbriche, nuove macchine. Quando Ascarelli
vuol parlare dell’opera creatrice dell’interpretazione introduce un termine
che avrebbe forse dovuto essere meglio definito: «valutazione». Non vi è
legge che non abbia bisogno, per essere applicata, di venire interpretata,
onde l’interpretazione è un’operazione non sussidiaria, ma necessaria; non
vi è interpretazione che non costringa l’interprete a prendere posizione di
fronte a questa o a quella alternativa, e quindi ad esprimere una valutazione
personale. Per «valutazione» Ascarelli intende l’enunciazione di una
soluzione non desunta logicamente o tautologicamente dalle premesse
poste dal legislatore, ma ricavata da una preferenza che rivela un
orientamento personale.
Per dimostrare il carattere valutativo dell’interpretazione, Ascarelli
soleva riferirsi soprattutto a tre aspetti caratteristici della tecnica
interpretativa, nei quali l’interprete non può trovare una soluzione nel
sistema, ché anzi la sua operazione rende possibile l’applicazione e in
definitiva l’efficacia del sistema: 1) la ricostruzione sistematica
dell’ordinamento, la quale non è mai in alcun momento presupposta ma è
sempre il prodotto provvisorio e mutevole della ricostruzione
interpretativa; 2) la ricerca della ratio legis, che permette talvolta
all’interprete di colmare il divario tra struttura normativa e funzione
economica, e comunque è uno dei mezzi più efficaci per adattare vecchie
norme a realtà nuove; 3) la ricostruzione tipologica della realtà sociale.
Quest’ultimo punto, su cui Ascarelli ritorna più volte negli ultimi scritti75,
merita un’illustrazione particolare per la sua novità, almeno nella dottrina
italiana. Tra i concetti di cui si serve il giurista occorre distinguere,
secondo Ascarelli, quelli attinenti all’ordinamento tipologico della realtà
sociale, come dolo, errore, colpa, vizio redibitorio, e quelli che esprimono
o riassumono una disciplina normativa, come nullità, decadenza,
annullabilità. Questi secondi hanno un significato fisso, i primi variabile,
nel senso che si riempiono di nuovi contenuti col variare della società e dei
rapporti sociali. Quale sia il contenuto variabile di questi concetti
l’interprete è chiamato a stabilire di volta in volta, quando la norma
astratta, che contiene uno di questi termini, deve essere applicata; e deve
stabilirlo osservando la realtà. Perciò in questa operazione l’interprete è per
così dire abbandonato a se stesso, o più esattamente attinge la soluzione a
orientamenti generali etico-politici cui aderisce (anche se crede di essere
assolutamente neutrale). Per esprimere il radicalismo della sua posizione,
Ascarelli afferma che anche il più semplice dei testi: «Apri la porta» importa
una ricostruzione tipologica della realtà, per lo meno una indagine su ciò
che si debba intendere, nel caso specifico, per «aprire» e per «porta». Aprire
include anche il socchiudere e lo spalancare? Porta è un’apertura di foggia
determinata e quale? In ultima analisi, l’interprete, che può essere in una
norma così semplice lo stesso destinatario della norma, per quanto ricorra
al sistema o alla ratio del legislatore, si troverà sempre di fronte ad
alternative tra le quali dovrà decidere: e ogni decisione presuppone una
valutazione. Una situazione giuridica non è mai compiuta e finita perché le
norme contengono riferimenti a una tipologia di cose, atti, eventi, che
mutano nel tempo: la determinazione dei tipi variabili spetta all’interprete.
Se non ci fosse l’interprete, la norma non potrebbe neppure essere
applicata per mancanza di un riferimento specifico alla realtà che deve
essere regolata.
Quale sia per Ascarelli la funzione dell’interpretazione risulta ormai
abbastanza chiaro da quel che si è detto circa la sua natura: l’interpretazione
costituisce «il ponte necessario tra il corpus iuris e la mutevole realtà»76. Di
qua derivano due caratteri, spesso disconosciuti: anzitutto è necessaria, nel
senso che una norma esiste, cioè è efficace, solo in quanto è interpretata; in
secondo luogo fa corpo col sistema, sì che norme e interpretazioni delle
norme costituiscono un unico sistema attuantesi nel tempo. Un sistema
giuridico, in altre parole, è l’insieme delle norme date e in più l’insieme
delle interpretazioni che di volta in volta hanno reso possibile
l’applicazione, e perciò l’efficacia, delle norme date. Un sistema giuridico
non è un dato ma un processo continuato nel tempo: se si vuole, la sua
unità non è un presupposto ma un risultato. Una concezione siffatta
dell’ordinamento giuridico si può chiamare concezione dinamica
dell’ordinamento; ma bisogna badare a distinguerla dalla teoria dinamica
dell’ordinamento di Kelsen: se ne distingue, peraltro, non per escluderla
ma per integrarla. Tutte e due hanno in comune, anche se né il Kelsen né
l’Ascarelli lo riconoscono espressamente, l’attribuzione all’ordinamento
giuridico di una dimensione temporale, oltre a quella spaziale che ha
raggiunto la sua più compiuta formulazione nella raffigurazione
dell’ordinamento come di una piramide77. L’ordinamento giuridico, in
altre parole, è un processo, un sistema in divenire, un tutto mobile e
moventesi nel tempo, una specie di corrente di fiume che s’ingrossa per via
ma è sempre lo stesso fiume. In questo processo l’interpretazione è come
l’affluente che contribuisce alla crescita della massa d’acqua; ma una volta
confluito nella corrente, non se ne distingue più.
L’interpretazione adempie la propria funzione mantenendo la
continuità del sistema. Il discorso di Ascarelli sull’interpretazione si muove
sempre tra i due poli della creatività e della continuità. Purtroppo, questo
concetto di continuità, nonostante la parte importante che assume nella
teoria, non è mai stato svolto analiticamente. Si capisce a che cosa serve (a
evitare il facile abbandono alle correnti del diritto libero, cioè della
creazione continua); ma non si capisce bene come debba essere inteso.
Continuità rispetto a che cosa? Ai principi generali del sistema? Ai principi
dei singoli istituti? Ai precedenti giurisprudenziali? Questa continuità è
un’esigenza cui il giurista deve restar fedele sino ai limiti del possibile? O è
un fatto che lo storico constata studiando l’opera dei giuristi in differenti
sistemi? Ma se è un fatto, come si inseriscono in questo fatto le cosiddette
innovazioni giurisprudenziali, di cui lo stesso Ascarelli porta spesso esempi
assai noti? Quale rapporto si può stabilire tra innovazione e continuità?
Che le tecniche interpretative siano tecniche miranti a ricondurre i casi
nuovi all’unità del sistema, dalle finzioni all’analogia, è certo: ma
accettando le tecniche per quel che presumono di essere non si rischia di
confondere ancora una volta quel che i giuristi dicono di fare con quel che
fanno realmente? Ora l’interesse delle riflessioni di Ascarelli sta nella
demolizione del vecchio pregiudizio legalistico secondo cui
l’interpretazione era prevalentemente un’operazione logica, mentre di fatto
non è mai tale. Ma la continuità non è anch’essa un pregiudizio? Siamo
proprio sicuri che l’interpretazione si presenti come continuazione, ma di
fatto non sia talora innovazione e rottura? Il mancato approfondimento di
questo punto si può spiegare, a mio giudizio, col fatto che su questo punto
Ascarelli abbandona senza parere il terreno della constatazione storica sul
quale dichiara a più riprese di essersi posto, e lascia apparire le proprie
preferenze pratiche: la continuità non è un fatto constatato, ma un valore
cui il buon giurista dovrebbe attenersi. È un’esigenza cui non può
rinunciare chi si muove, come l’Ascarelli, tra le due ideologie opposte del
concettualismo radicale e del radicale realismo in una posizione che ho
chiamato poc’anzi di antiformalismo moderato78.

8. In particolare critica del logicismo e avvicinamento alla


scuola della «nouvelle rhétorique» di Perelman
Ascarelli accompagna l’esposizione del proprio pensiero con una
incalzante critica del pensiero altrui. Non c’è corrente metodologica antica
o moderna o recentissima che sfugga al tiro generalmente ben centrato:
critica Hart e Tammelo, Coing e Klug. Rispetto a ciascuno indica affinità
e differenze. La sua critica si pone continuamente almeno su tre fronti tra
loro opposti: il fronte del concettualismo tradizionale, di cui vede un
prolungamento in recenti tentativi di riportare il ragionamento giuridico
negli schemi della logica formale (Magni, Klug)79 e in alcune formulazioni
neo-positivistiche (si riferisce anche ad alcuni miei studi)80; il fronte del
realismo sociologico, in cui considera anche la teoria della natura dei fatti
come fonte di diritto; il fronte del libero diritto o della creatività sregolata,
di cui è espressione tipica e ricorrente la fiducia nel giudizio di equità.
Tenendo conto di questi tre bersagli polemici la «pars destruens» del
pensiero di Ascarelli si può riassumere in queste tre affermazioni: 1)
l’interpretazione non è logica, e pertanto la cosiddetta scienza giuridica
non ha niente a che vedere con le scienze formali; 2) l’interpretazione non
è una ricerca fattuale, e pertanto la scienza giuridica non ha niente a che
vedere con le scienze empiriche; 3) l’interpretazione non è mera intuizione
personale, espressione di emozioni o sentimenti. Peraltro, che
l’interpretazione non sia logica nel senso stretto della parola non significa
che sia un’attività irrazionale, poiché ubbidisce a regole che servono a
garantire certi risultati, anche se non sono regole logiche: Ascarelli accetta
il rigore ma rifiuta la rigorizzazione. Che l’interpretazione non si risolva
con l’indagine fattuale, non esclude che l’indagine sulla natura dei fatti sia
preliminarmente necessaria: Ascarelli, pur condannando il sociologismo,
riconosce l’importante contributo che la sociologia può offrire al giurista.
Che l’interpretazione non sia intuizione irrazionale, non deve precludere la
via a rendersi conto dell’inevitabilità delle valutazioni personali
dell’interprete, in ultima istanza, nella decisione del caso.
Sarei tentato di dire che Ascarelli tiene a bada ognuno degli avversari
facendo qualche concessione agli altri due, e quindi mettendoli alla fin fine
in contrasto fra loro. Alla teoria dell’equità riconosce il merito della
spregiudicatezza di fronte al falso e presuntuoso logicismo, ma rimprovera
la scarsa importanza attribuita ai concetti giuridici. Al concettualismo
riconosce il merito di tener conto dei concetti giuridici, ma rimprovera il
cattivo uso di essi, l’uso dogmatico anziché critico, rigido anziché flessibile,
e la mancata distinzione tra tipologia sociale storicamente variabile e
concetti attinenti alla disciplina normativa. Al realismo riconosce il merito
di aver inculcato il rispetto dei fatti, ma rimprovera di essere caduto
nell’errore del naturalismo ingenuo, consistente nel pretendere di dedurre
un giudizio di valore da un giudizio di fatto. E così l’intuizionismo viene
combattuto con le armi del concettualismo, il concettualismo con quelle
del realismo, il realismo con quelle dell’intuizionismo. Il criterio ultimo
cui Ascarelli si affida per distinguere ciò che è da accettare e ciò che è da
respingere è ancora una volta l’antitesi tra storicismo e antistoricismo. Il
che è un’ultima riprova della continuità del suo pensiero. Accoglie infatti
delle tre posizioni quel che non contrasta con le esigenze di una
concezione storicistica: più precisamente, l’uso strumentale dei concetti
giuridici rispetto al concettualismo, lo studio dell’ambiente sociale per la
miglior comprensione di un istituto rispetto al realismo, la inevitabile
relatività storica delle valutazioni rispetto all’intuizionismo. Respinge quel
che una concezione storicistica non può accettare, cioè la credenza in un
ordine razionale e in una natura precostituita rispetto alle prime due
posizioni, l’arbitrarismo velleitario rispetto alla terza.
In questa posizione polivalente, ma non ancora consolidata in una
teoria coerente e completa, fu estremamente fecondo negli ultimi anni
l’incontro di Ascarelli con la «nouvelle rhétorique» di Ch. Perelman, con
una teoria che, rimettendo in onore la retorica distinta dalla logica, confuta
l’infecondo dominio della logica nel ragionamento morale, senza cadere
nelle braccia dell’irrazionalismo. Il mondo dei valori non è il dominio
dell’irrazionale, ma di una particolare forma di ragionamento che mira alla
persuasione attraverso l’argomentazione: i valori non si dimostrano, si
argomentano. Mette conto di riportare questo riconoscimento che si trova
in una delle ultime pagine che di lui ci sono rimaste (il Traité de
l’argumentation di Perelman e Olbrechts-Tyteca, cui la citazione seguente si
riferisce, apparve nel 1958): «È stato per me di grande conforto ritrovare
nelle pagine di questo trattato osservazioni di carattere generale analoghe a
quelle che, muovendo dalla necessità di chiarire a me stesso la mia
esperienza di giurista, avevo avanzato nei riguardi dell’interpretazione
giuridica negli studi ripubblicati in questo volume e in quelli raccolti nei
volumi del 1952 e del 1955»81. Nella Premessa all’ultima raccolta di saggi,
uscita postuma, si trova un’affermazione che è insieme la conclusione della
critica delle teorie opposte e l’indicazione di una via d’uscita: «Oserei dire
che il problema del giurista tra noi è quello di superare una antinomia per
la quale il ragionamento giuridico o viene identificato con la logica
aristotelica o considerato come arbitrario»82. La via d’uscita tra il logicismo
e l’irrazionalismo è la distinzione tra logica e retorica, tra «una logica
ineluttabilità e una ragionevolezza dell’argomentazione»: è, in breve, la
teoria dell’argomentazione.
In questi ultimi scritti Ascarelli era arrivato al punto in cui forse sarebbe
stato necessario un riepilogo: ed egli stesso ne sentiva il bisogno. Aveva
ormai ben chiare in mente le linee fondamentali di una teoria; ma era una
teoria sinora composta di frammenti, più o meno levigati, ripresi ciascuno
infinite volte ma non mai ordinati in sistema, gettati disordinatamente,
secondo l’occasione, in scritti di varia indole, saggi critici, recensioni, note
a sentenze, lettere al direttore, e in ogni scritto apparentemente senza un
disegno, ora nel testo ora nelle note. Peraltro l’elaborazione sistematica di
una vera e propria metodologia del diritto avrebbe avuto ancora bisogno di
una ricostruzione storica dell’opera della giurisprudenza negli ultimi secoli
e nei diversi sistemi. Sinora Ascarelli si era destreggiato tra le teorie
dell’ultimo secolo dalla scuola storica in poi; ma occorreva risalire più
indietro, al contrasto tra «mos italicus» e «mos gallicus», ai primi grandi
sistemi umanistici e giusnaturalistici. Questo bisogno di una indagine
storica nasceva dalla constatazione del divario tra la convinzione ormai
raggiunta e solidamente ancorata all’esperienza professionale della natura
creativa dell’interpretazione e l’illusione tradizionale dei giuristi circa il
carattere logico, rigoroso, matematico della loro scienza. Quali erano le
ragioni pratiche di questo errore? In un saggio del 1955, più volte citato,
dedicò un paragrafo denso e concitato a un rapido scorcio di questa storia
con una lunga nota su Bacone, con riferimenti molto precisi a Hobbes e a
Leibniz83: queste pagine erano evidentemente appunti per una ricerca
ulteriore, di cui la raccolta di scritti di Hobbes e Leibniz, uscita postuma,
onde abbiamo preso le mosse per questo profilo, sarebbe stata la prima
tappa. Ne aveva dato l’annuncio nella Premessa, testé ricordata, dove,
lamentando la mancanza di riflessioni sull’argomentazione giuridica,
concludeva: «È perciò che, a mio avviso, è indispensabile uno studio della
storia del pensiero giuridico»84.

9. Azione politica e interessi culturali dopo il ritorno


dall’esilio sino alla morte
Può aver destato qualche sorpresa il non aver incontrato, sin qui, in
pagine di contenuto prevalentemente metodologico, neppure un cenno al
problema dei problemi, al problema della scienza giuridica, diventato dal
Kirchmann in poi uno dei temi prediletti della filosofia del diritto. Non
l’abbiamo incontrato per la semplice ragione che Ascarelli non se l’era mai
posto nei termini falsi in cui questo problema era stato tramandato. Che la
giurisprudenza fosse o non fosse una scienza era un problema fittizio: ciò
che importava sapere era come operavano i giuristi nella loro diuturna
fatica dell’interpretazione, indipendentemente dal fatto che quest’opera
fosse scientifica e a qual tipo di scienza appartenesse. Per Ascarelli non c’era
una scienza giuridica al di fuori della tecnica dell’interpretazione. Vi
potevano essere diversi gradi di rigore nella tecnica interpretativa; ma non
vi era alcuna dicotomia essenziale tra una giurisprudenza inferiore e una
superiore (come aveva sostenuto Jhering), né tra una tecnica e una scienza
(come aveva sostenuto Gény), neppure tra un’interpretazione inferiore e
un’interpretazione superiore (come aveva proposto il Gorla). Ammetteva
una differenza tra interpretazione-scienza del diritto e teoria formale del
diritto nel senso kelseniano della parola: ma la teoria formale, di cui non
disconosceva l’utilità, non aveva niente a che vedere con l’attività del
giurista. Così pure non era possibile una distinzione tra interpretazione e
costruzione: «Non v’è... interpretazione – diceva toccando un punto
nevralgico della metodologia giuridica – che non importi un momento
costruttivo; non v’è d’altra parte costruzione che non si ponga come
strumento di applicazione del diritto»85. Ogni tentativo di innalzare una
pretesa scienza giuridica sull’attività interpretativa era l’espressione o di
cattiva coscienza o di cattiva conoscenza. Se si voleva parlare di una scienza
giuridica, ci si mettesse bene in mente che questa non poteva essere nulla
di diverso dall’opera creativa dell’interpretazione, e quindi aveva funzione
pratica e non teoretica86. Seguendo le proprie inclinazioni e convinzioni
ultime, Ascarelli avrebbe preferito parlare di saggezza piuttosto che di
scienza87.
Dietro le astratte discussioni intorno alla scientificità della
giurisprudenza, credo che Ascarelli fiutasse il desiderio dei giuristi di
sfuggire alle proprie responsabilità etiche e politiche. Quando, invece,
andava ripetendo la tesi della funzione pratica della scienza del diritto che
era tutt’uno poi con la riconosciuta natura creativa dell’interpretazione,
richiamava il giurista al dovere di acquistar coscienza del proprio posto
nella società. Una delle sue massime preferite era che le tecniche
interpretative non sono mai neutrali. Con le sue valutazioni il giurista era,
ne fosse o non ne fosse consapevole, al servizio di fini politici. Ascarelli
non era neutrale e aveva il vantaggio di fronte ad altri colleghi di esserne
consapevole. Anche nei primi anni, come abbiamo visto, aveva partecipato
alla battaglia politica dei gruppi giovanili antifascisti; ma impegno politico e
studi giuridici, come spesso accade nei giovani a causa di una non
raggiunta armonia tra le aspirazioni e la realtà, erano proceduti per strade
diverse senza quasi mai incontrarsi. Poi era venuta la lunga parentesi del
fascismo in cui il tecnicismo era stato una difesa contro la politica diventata
campo minato. Solo negli anni dopo la liberazione, avvenne nell’opera di
Ascarelli la compiuta conciliazione tra politica e scienza. Anche per questo,
gli anni di cui stiamo discorrendo sono stati i più fecondi.
In Brasile aveva trascorso un periodo di grande attività scientifica e
pratica e d’intensa preparazione allo sperato ritorno. Del soggiorno in
Brasile serbò sempre gratissimo ricordo: e per renderne pubblica
testimonianza scrisse, con la versatilità che gli era propria, una monografia
compiuta, in cui espose storia e sistema politico, economia e diritto,
problemi culturali, sociali e religiosi, della terra che lo aveva ospitato. Il
libro apparve col titolo dimesso Sguardo sul Brasile, in una collana, «Paesi
stranieri», che egli aveva ideato con un amico dell’antifascismo giovanile,
Riccardo Bauer; ma l’impresa non ebbe fortuna, e il volumetto è stato
poco letto, ed ora è pressoché dimenticato88. Tornò per la prima volta in
Italia per riprendere possesso della cattedra di Bologna nel novembre del
1946. Le sue impressioni sulla società italiana che si era venuta formando
tumultuosamente attraverso il disordine della sconfitta, le lacerazioni della
guerra civile, l’agitazione frenetica della liberazione, erano contrastanti.
Ammirava lo slancio generoso della Resistenza, ma ne constatava il rapido
smorzarsi in un qualunquismo senza orizzonti e nella rissosa faziosità dei
partiti. Non si nascondeva il pericolo del neo-fascismo «alimentato dalla
borghesia proletarizzata e ferocemente nemica della repubblica». Sulla
situazione politica espresse un giudizio che era una profezia: il governo era
di sinistra (non era ancora avvenuto allora l’allontanamento dei comunisti e
dei socialisti dal governo), ma l’economia andava a destra creando nuovo
aumento di concentrazione della ricchezza89. Confrontando la Francia con
l’Italia, giudicò la prima più stabile, la seconda più inventiva (ma meno
solida): preferiva comunque lo slancio attivistico di Milano all’euforia di
pochi, accompagnata all’apatia di molti, che aveva trovato nella capitale. A
proposito della situazione finanziaria emise questo giudizio perentorio: «La
mia esperienza fiscale è preziosa; mi fa subito vedere molti aspetti. L’Italia è
il paese meno tassato del mondo e ciò spiega molte cose: spiega l’esistenza e
rimanenza del fascismo; il potere dei borsari neri e il qualunquismo ed è a
sua volta conseguenza dell’incapacità amministrativa delle sinistre, i cui
uomini, ottimi, hanno bisogno di tempo per impadronirsi dei problemi,
mentre il tempo preme e la situazione economica peggiora». A proposito
della ripresa industriale arrischia questa previsione: «L’industria italiana... è
più moderna e tecnicamente più avanti della francese, sia pel maggior
spirito inventivo italiano, sia perché più giovane... e perciò, credo,
destinata ad andare bene. Forse l’Italia del Nord è oggi col Belgio il
maggior centro industriale europeo»90.
Insegnava a Bologna ma viveva, quando era in Italia, a Roma.
Continuò pure in questi primi anni a mantener contatti col Brasile, dove
era rimasta, sino al 1952, la famiglia. Il ritorno non fu privo di amarezze, di
nostalgie, di difficoltà, di conflitti. Spesso si sentiva isolato, quasi straniero
e ormai sradicato, come se fosse piovuto da un altro mondo; soffriva di
solitudine e stentava a trovare la propria strada. Gli pareva talora di essere
vittima di una congiura del silenzio. Rimase per qualche tempo incerto se
dovesse considerare definitivo il ritorno in Italia: qual era l’avvenire
politico ed economico d’Europa? Sarebbe scoppiata una nuova guerra
mondiale? Quale sarebbe stato il destino dell’Italia? Erano gli anni della
guerra fredda, in cui pareva che tra America e Russia la civiltà europea
fosse destinata a inabissarsi per sempre. Il lungo soggiorno nel Nuovo
Continente lo aveva abituato a guardare con uno sguardo più freddo le
cose del Vecchio, a fare raffronti imparziali tra l’una e l’altra civiltà, a
orientarsi con prudente distacco. Ma aveva appreso ad ammirare il costume
sociale degli americani: «Spesso il latino detta una regola giuridica –
scriveva – dove l’anglosassone osserva una regola sociale». E il loro spirito
egualitario: «L’uomo dell’ascensore nell’ora del suo riposo mi prende sotto
braccio per fare una fumata e una chiacchierata; questa è la civiltà
dell’America», e antindividualistico: «Senso del collettivo: persino nel
campo scientifico non si lavora soli, ma in gruppo. Senso della comunità
per cui tutti possono dire “we are the government”. Desiderio di essere
come gli altri». E il loro «perbenismo» per cui «non si dicono bugie; non si
froda; si è reputati galantuomini sino a prova contraria...», onde gli piaceva
concludere: «America erede dell’Inghilterra: nella tutela di un equilibrio; in
una talassocrazia in contrapposizione ad una potenza continentale; nella
tutela di una civiltà industriale, marinara e perciò liberale contro le
tendenze di pianura, continentali»91. A poco a poco la vita italiana diventa
più normale, i furori postbellici si placano: ed egli decide di restare in
patria. Aveva ripreso gusto al lavoro, soprattutto all’insegnamento e alla
ricerca scientifica; gli pareva di essere nelle migliori condizioni per aprire
nuovi solchi e non doveva abbandonare il campo nel momento della più
rigogliosa mietitura. Nel 1949 pubblicò la prima raccolta di scritti vari,
Saggi giuridici, cui seguirono tre anni dopo le altre, oltre gli Studi di diritto
comparato, più volte citati, i Saggi giuridici sulla moneta (1951), gli Studi in
tema di contratti (1952), gli Studi in tema di società (1952). Quando nel 1953
fu chiamato all’Università di Roma per l’insegnamento del diritto
industriale, il lento processo di inserimento nella vita italiana era ormai
definitivamente compiuto. Il 19 agosto 1954 veniva eletto socio
corrispondente dell’Accademia dei Lincei.
Le elezioni del 7 giugno 1953, condotte in base alla famigerata legge
maggioritaria, diedero vigore a piccoli gruppi politici che si erano battuti
strenuamente per impedire lo scatto del premio di maggioranza. E
ottennero il risultato sperato. Ascarelli si era avvicinato al movimento di
Unità popolare, alleanza provvisoria di ex azionisti, socialisti autonomisti,
repubblicani dissidenti, che aveva dato battaglia con propria lista alle
elezioni politiche. Fu candidato in queste elezioni nella lista di quel
movimento. Fece parte del comitato provvisorio che il 13 gennaio 1954
ebbe il compito di concordare con il consiglio direttivo di Autonomia
socialista la formazione di un organo comune ai due movimenti, quindi del
Comitato centrale92. Partecipò ai dibattiti promossi dal movimento.
Collaborò alla redazione dell’appello del Comitato dei giuristi (gli altri
erano Calamandrei, Comandini, Jemolo e Piccardi) contro i
provvedimenti discriminatori minacciati dal governo Scelba il 4 dicembre
1954. Collaborò al foglio periodico che uscì tra il ’54 e il ’55 col titolo
«Lettera agli amici di Unità popolare», il cui animatore era Leopoldo
Piccardi93. Attraverso Ernesto Rossi, che aveva conosciuto sin dai tempi
del «Non mollare»94, diede pure qualche sporadico contributo a «Il
Mondo»95. Ebbe parte di protagonista in due convegni promossi dal
settimanale del radicalismo italiano, rispettivamente nel primo e nel
quinto, su «La lotta contro i monopoli» (Roma, 13-14 marzo 1955) e su
«Atomo ed elettricità» (Roma, inverno 1957)96. Entrambi i convegni si
conclusero con la redazione di due schemi di progetti di legge, di cui
Ascarelli fu uno dei principali autori, «Sulle intese industriali e
commerciali in tema di società» e «Sulla produzione e utilizzazione dei
combustibili nucleari», poscia presentati alla Camera dei deputati dagli on.
La Malfa, Lombardi e Villabruna97.
La prima relazione offrì ad Ascarelli una buona occasione per
presentare come proposte di riforma legislativa osservazioni e critiche che
andava da anni rivolgendo alla disciplina normativa delle società per azioni,
partendo soprattutto da due considerazioni: rispetto a coloro cui spettava
in ultima istanza il potere di decisione, il potere si era enormemente
accresciuto col crescere della grande impresa, ma non era aumentato in
proporzione il rischio economico; rispetto agli azionisti piccoli ed isolati, la
protezione legislativa era insufficiente e, quel che è più, inefficace.
Occorrevano maggiori e migliori misure di controllo dei più forti, da un
lato, più energici interventi a tutela dei più deboli, dall’altro. La destra
economica, aggiungiamo noi, sempre pronta ad erigersi a severa custode
dei diritti delle minoranze in sede politica (dove è più debole) diventa
altrettanto indignata rivendicatrice del potere delle maggioranze in sede
economica (dove è più forte). Quanto alla critica antimonopolistica,
lamentando che la nostra legislazione fosse ormai l’unica ad ignorare il
problema, propose l’introduzione di norme preclusive di ogni pattuizione
della reciproca concorrenza, precisando e delimitando il campo che doveva
essere allargato alle intese indirette (che sono anche le più frequenti).
Rispetto alla soluzione giuridica da dare alla produzione dell’energia
nucleare in Italia, criticò il cosiddetto Progetto Cortese che finiva di dare
tutto il potere ai privati fingendo di essere accentuatamente pubblicistico:
«Un progetto – diceva – che non offre uno strumento per lo sviluppo
dell’energia nucleare, ma si limita a sperare che i privati provvedano a
questo sviluppo»98. Sostenendo che spettava allo stato e solo allo stato di
decidere sull’impulso da dare all’industria nucleare indipendentemente da
considerazioni di profitto privato, propose la soluzione del monopolio di
stato. Non si trattava di un amore generico per la statalizzazione; ma di un
giudizio di opportunità su una situazione che non sembrava consentire
altre vie (incoraggiato, del resto, dall’esperienza di altre legislazioni certo
non socialiste).
Dopo la chiamata a Roma sino alla morte, l’operosità di Ascarelli fu in
ogni campo fervidissima. Tenne conferenze in varie città, fu ospite
applaudito in congressi italiani e stranieri. Più volte ricordata fu la sua
partecipazione alla Conferenza diplomatica per la revisione della
Convenzione di Parigi in tema di brevetti, che ebbe luogo a Lisbona
nell’ottobre del 1958: egli si prodigò soprattutto nella IV Commissione
incaricata di esaminare i problemi relativi alla repressione delle false
indicazioni di provenienza e alla protezione delle denominazioni di
origine. Pochi mesi prima della morte aveva accettato di presiedere un
Convegno da tenersi a Milano in tema di brevetti, promosso dal Centro
Studi della legislazione industriale: il Convegno, dedicato alla «Riforma
della legislazione brevettuale», fu inaugurato il 5 febbraio 1960, due mesi e
mezzo dopo la sua morte e fu dedicato alla sua memoria. Nel 1956 ideò,
fondò e diresse un organo suo, dedicato allo studio specifico di quei
problemi che più avevano stimolato le sue riflessioni sullo scarto tra le
forme legislative e la realtà effettuale della prassi giuridica e giudiziaria, la
«Rivista delle società», che ora gli sopravvive sotto la direzione di Giuseppe
Auletta e Luigi Mengoni. Scrisse un grandissimo numero di articoli e note,
specie in tema di società e di titoli di credito, di cui solo una bibliografia
completa, che dovrà pur essere un giorno o l’altro compilata, potrà dar la
piena ed esatta misura. Compose il grande commentario sulle Obbligazioni
pecuniarie, che apparve nel 1959 pochi mesi prima della morte99. Curò, con
numerose aggiunte, soprattutto nelle note, la più importante delle sue
raccolte di saggi, i più volte citati due volumi di Problemi giuridici, usciti
postumi. Un mese prima della morte, il 21 ottobre 1959, la Facoltà di
Giurisprudenza di Roma lo chiamava all’insegnamento del diritto
commerciale come successore di Alberto Asquini100. La crudele malattia
che lo avrebbe stroncato in pochi giorni non gli permise neppure di tenere
la prolusione. L’ultimo traguardo era così, ad un tempo, raggiunto e
perduto. Nello stesso giorno della morte (20 novembre 1959) l’Università
libera di Bruxelles, per iniziativa dell’amico e collega Perelman, gli
conferiva la laurea honoris causa.

10. Giudizio complessivo sull’opera e sulla personalità di


Tullio Ascarelli
Parlando un giorno di Piero Calamandrei, ebbi a definirlo un giurista-
moralista101: volevo dire che egli era particolarmente sensibile al valore
etico del diritto, guardava ansiosamente al diritto come a uno strumento
delicato, imperfettissimo, sempre pronto a guastarsi, per far trionfare la
giustizia. Usando lo stesso metro, Ascarelli si potrebbe definire, invece, un
giurista-economista: studiò sempre con particolare attenzione i rapporti tra
diritto ed economia, considerò il diritto soprattutto nel suo valore
strumentale rispetto ai fini economici della società. Il grande tema degli
ultimi anni fu, come è stato più volte osservato, l’inadeguatezza del diritto
privato contemporaneo di fronte alla rapida trasformazione economica da
cui sarebbe nata la seconda rivoluzione industriale. Ma la critica economica
del diritto si risolveva alla fine in una critica politica e più oltre ancora in
una critica morale, cioè nella constatazione della insufficienza di un dato
corpo di leggi e di dottrine rispetto alla difesa dei valori ultimi della
giustizia sociale e della tutela dell’individuo. Senonché lo studio del diritto
commerciale e il continuo contatto professionale coi problemi della società
capitalistica in trasformazione avevano contribuito a mettere in primo
piano la funzione immediata del diritto, che era la funzione economica.
Guardando il diritto secondo questa prospettiva, Ascarelli inaugurò in Italia
un indirizzo funzionalistico nello studio dei grandi problemi giuridici. Per
definire con una etichetta la sua opera, si potrebbe parlare, appunto, di
funzionalismo giuridico, che è una nuova strada oltre il positivismo
giuridico, legato alla finzione della volontà del legislatore, e oltre il
giusnaturalismo, anche nella sua versione moderna del ricorso alla natura
delle cose, viziato dalla confusione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. In
questa concezione funzionalistica del diritto, il giurista perdeva il carattere
tradizionale del dogmatico e assumeva quello dell’ingegnere o del
costruttore rivolto al compito di organizzare, disciplinandola
giuridicamente, una società in espansione e in evoluzione. Del resto, tanto
il giusnaturalismo quanto il positivismo giuridico, pur opposti nella
posizione dei fondamenti, erano accomunati dall’ideale della
giurisprudenza come logica del diritto e della concezione dichiarativa
dell’interpretazione. La nuova via era quella che, rigettando un’immagine
del giurista diventata ormai anacronistica, apriva la strada a una visione più
realistica della sua opera, e insieme a un’attività più consona ai nuovi
bisogni.
È impossibile dissociare questa concezione della giurisprudenza dalla
intera personalità di Ascarelli, dal suo carattere di uomo curioso,
irrequieto, sempre pronto a nuove esplorazioni, verso nuovi orizzonti di
sapere (negli ultimi anni avrebbe voluto darsi allo studio della matematica
per approfondire certi problemi di logica giuridica). Era affascinato dai due
grandi temi del diritto nel tempo, onde la sua passione, soprattutto negli
ultimi anni, per lo studio della storia del pensiero giuridico, e del diritto
nello spazio, onde l’indefesso studio, sin dai primi anni, dei diritti stranieri.
E in entrambe le direzioni, aiutato da una eccezionale facilità di
apprendimento e da una naturale vocazione cosmopolitica, allungò più che
poté lo sguardo sino a vedere nuovi mezzi, a disegnare nuove prospettive, a
proporre nuovi temi di lavoro.
Fu per tutta la vita un lettore infaticabile: leggeva con avidità tutto quel
che gli capitava tra le mani o gli veniva suggerito dalle circostanze. Alcune
note di diario dal ’48 in poi102 documentano la varietà delle sue letture: da
Voltaire a Kafka, da Filangieri a Gide, da Guizot a Freud, da Goethe a
Proust, a Nehru, a Gramsci. A Parigi si entusiasmava a Les Mouches di
Sartre, a Venezia ammirava Chagall. Con le letture estravaganti sembrava
volesse nutrire il suo spirito di quel cibo di cui la giurisprudenza era troppo
povera. Prediligeva i poeti dell’oscurità a quelli della chiarezza. L’esercizio
dell’intelligenza, che aveva rapida, sicura, lucidissima, non gli bastava.
Cercava un compenso, un’integrazione, nei classici, negli scrittori
problematici, negli spiriti religiosi. Recalcitrava di fronte alla
spregiudicatezza di Voltaire, ma si abbandonava volentieri a Pascal. Si
compiaceva che si tornasse nel teatro ai grandi problemi: «Il peccato
originale e la grazia; necessità e libertà; fatti e responsabilità, due grandi
antinomie». Alla qualità della chiarezza intellettuale, che aveva fatto di lui
un giurista temprato all’esigenza del rigore, faceva riscontro l’ansia di
sondare il mistero che circonda l’uomo e la sua opera di civiltà103. E così lo
storicismo, che l’aveva guidato nello studio del diritto, era sospeso al
dubbio finale sul senso ultimo della storia: dubbio che non doveva (o non
poteva) avere risposta.

Note
1 Th. Hobbes, A Dialogue between a Philosopher and a Student of the Common Law of England; G.W.
Leibniz, Specimen quaestionum philosophicarum ex iure collectarum. De casibus perplexis. Doctrina
conditionum. De legum interpretatione, con uno studio introduttivo di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano
1960. Cfr. la recensione di F. Brunetti, in «Belfagor», XVI, 1962, pp. 252-55.
2 G.W. Leibniz, Specimen quaestionum, cit., Introduzione, p. 7.
3 Ivi, p. 8, in nota.
4 Nell’edizione curata da Ascarelli, a p. 75; nella traduzione italiana da me curata, Th. Hobbes,
Opere politiche, vol. I, Utet, Torino 1959, p. 397.
5 Leviathan, a cura di M. Oakeshott, Blackwell, Oxford, s.d., p. 211.
6 F. Messineo, Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di T. Ascarelli, Giuffrè, Milano 1969, vol. I, p.
LV.
7
Conversazioni critiche, serie prima, Laterza, Bari 19504, p. 246.
8 M. Ascoli, La interpretazione della legge. Saggio di filosofia del diritto, Athenaeum, Roma 1928.
9 Ascarelli pubblicò il primo saggio giuridico a vent’anni: I debiti di moneta estera e l’art. 39 cod. di
comm., in «Rivista del diritto commerciale», XXI, 1923, I, pp. 444-69.
10 Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. cod. civ. nel diritto privato, in «Archivio giuridico»,
XCIV, 1925, pp. 235-79; ora in Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Giuffrè, Milano
1952, pp. 209-43.
11 Ascoli, La interpretazione, cit., p. 52, nota 1.
12 Il problema delle lacune, cit., p. 221.
13 In «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, p. 652 (recensione a Marcel de
Gallaik, La réforme du code civil autrichien. Textes et commentaires, Paris 1925).
14 Cfr. in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1925, pp. 651-52, pp. 652-54, pp.
654-56; ivi, VI, 1926, p. 329; ivi, VIII, 1928, p. 268; ivi, IX, 1929, pp. 172-73, pp. 173-74, pp.
356-57, p. 357, pp. 357-58.
15 La dottrina commercialista italiana e Francesco Carnelutti, in Problemi giuridici, vol. II, Giuffrè,
Milano 1959, pp. 983-99.
16 In «Rivista del diritto commerciale», XXII, 1924, I, pp. 419-66.
17 Indi pubblicato in Studi di diritto commerciale in onore di C. Vivante, I, Foro italiano, Roma 1931,
pp. 25-98.
18 «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VI, 1926, pp. 168-69.
19 Due rivoluzioni mancate. Dati, sviluppo e scioglimento della crisi politica italiana, Campitelli, Foligno
1923. Ne ho sott’occhio la copia che appartenne a Piero Gobetti con dedica dell’autore: «A Piero
Gobetti – con stima e comprensione – Alberto Cappa – maggio 1923». In una annotazione scritta a
matita sull’ultima pagina Gobetti commenta: «Cappa concepisce la storia del dopoguerra come lotta
dei ceti medi contro gli altri. Invece è una lotta tra medi ceti: gli uni nazionalisti, gli altri socialisti...».
Le due rivoluzioni mancate di cui parla il Cappa sono quella socialista e quella fascista, entrambe
assorbite nella continuità dello stato monarchico accentratore.
20 Anche di questo libro del Cappa, Ascarelli aveva scritto una recensione, tre anni prima, nella
rivista «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96 (cfr. nota 26), ove aveva già espresso analogo
giudizio sul Pareto: «... nonostante l’ammirazione che oggi si vuole imporre per il dimenticato di
ieri, [il Trattato di sociologia generale] non mi sembra costituire un nuovo titolo di gloria, ma un segno
di decadenza di quegli che rimarrà come l’autore del Cours d’économie politique» (p. 94).
21 La lotta delle generazioni, in «La rivoluzione liberale», II, n. 28, 25 settembre 1923, p. 113,
siglato p.g., ora in Scritti politici, Einaudi, Torino 1960, p. 523.
22 L. Basso, Introduzione a Le riviste di Piero Gobetti, a cura di L. Basso e L. Anderlini, Feltrinelli,
Milano 1961, pp. LXXVII-LXXIX.
23 Ai dieci numeri apparsi collaborarono P. Bonfante, E. Buonaiuti, R. Mondolfo, G.
Vescovini, A. Cammarano, A. Pincherle, T. Ascarelli, S. Diambrini Palazzi, A. Tilgher, L.
Salvatorelli, V. Giusti, E. Sereni, C. Treves, P. Flores, E. Leone, F. Battaglia, M. Coppini, P.
Gobetti, M. Ascoli, C. Berneri, G. Ferrero, L. Limentani, A. Graziadei, N.M. Fovel, L. Fabbri, R.
Rolland, E. Nasalli-Rocca, E. Fodale. Inoltre apparvero articoli e note con le seguenti sigle: T.A.
(Tullio Ascarelli), P.F. (Paolo Flores), g.v. (Giuseppe Vescovini), G.B. (Giorgio Bandini), E.S.
(Enzo Sereni), A.P. (Alberto Pincherle), T.L. (Tullio Liebmann), B.L. (?), C.B. (?), U.F. (?). Ogni
numero conteneva un brano di autori noti la cui lettura veniva riproposta come particolarmente
istruttiva. L’elenco degli autori è poco illuminante: Oriani, Chesterton, Savonarola, De Maistre,
Max Weber, Stefano Jacini, Marx e Sorel.
24 Rathenau, in «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, pp. 43-50; Urbano Rattazzi, in «Studi
politici», I, n. 910, settembre-ottobre 1923, pp. 255-59.
25 I competenti, in «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, p. 24, firmato t. a. (questo articolo fu
pubblicato anche in «La rivoluzione liberale», II, n. 12, 1° maggio 1923); Italia e piccola intesa, in
«Studi politici», II, n. 4-5, aprile-maggio 1923, pp. 142-43, firmato T.A.; Gli avvocati e la politica, in
«Studi politici», I, n. 6-7, giugno-luglio 1923, pp. 186-87, firmato T.A.; Punti interrogativi sulla
questione italo-greca, in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 225-26, firmato T.A. In più una
risposta in corsivo, firmata T.A., ad una nota di E. Nasalli-Rocca, Borghesi e liberali, n. 9-10,
settembre-ottobre 1924, pp. 246-47.
26 In «Studi politici», I, n. 1, gennaio 1923, pp. 26-28, firmata T.A. (recensione a U.
Formentini, Collaborazionismo, ed. di «La rivoluzione liberale», Torino 1922); ivi, pp. 28-30, firmata
t.a. (recensione a S. Perozzi, Critica politica, Zanichelli, Bologna 1922); in «Studi politici», I, n. 2,
febbraio 1923, pp. 63-64, firmata T.A. (recensione a G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove
nel movimento operaio italiano, Cappelli, Bologna 1922); ivi, p. 64, firmata T.A. (recensione a M.
Brinkmeyer, Hugo Stinnes, Documents traduits et commentés par V. Marcano, préface de Georges
Blondel, Plon, Paris 1922); in «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, pp. 94-96, firmata t.a.
(recensione a A. Cappa, Due rivoluzioni mancate; Campitelli, Foligno 1923); ivi, p. 96, firmata T.A.
(recensione a P. Pascal, Die ethischen Ergebnisse der russischen Sovjetmacht, Malik Verlag, Berlin 1922);
in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, pp. 192-94, firmata T.A. (recensione a F. Burzio,
Politica demiurgica, Laterza, Bari 1923); ivi, p. 194 (recensione a L.M. Hartmann, Il Risorgimento. Le
basi dell’Italia moderna, Vallecchi, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p.
194, firmata T.A. (recensione a L. Sturzo, Riforme sociali e indirizzi politici, Vallecchi, Firenze 1922);
in «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, pp. 227-28, firmata T.A. (recensione a R. Mondolfo,
Significato e insegnamento della rivoluzione russa, Bemporad, Firenze 1923); in «Studi politici», I, n. 9-
10, settembre-ottobre 1923, pp. 269-70, firmata T.A. (recensione a A. Graziadei, Prezzo e
sovraprezzo nell’economia capitalistica. Critica alla teoria del valore di Carlo Marx, Soc. ed. Avanti!, Milano
1923).
27 Su questo argomento cfr. A. Acquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e
Sud», XI, aprile 1964, n. 52, pp. 109-28.
28 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 193 (recensione a Burzio, cit.).
29 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.).
30 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194. Riporto tutto il brano: «Uscendo
dall’empirismo giolittiano, come da quello fascista abbiamo da formare una nuova classe dirigente
con una nuova coscienza politica che abbia più vivo il senso dell’insopprimibile drammaticità della
vita e della lotta politica, della necessaria insufficienza di ogni compromesso che equivale non già al
superamento dei termini antitetici nella unità della vita politica, ma a una soluzione mancata, come
del disperato relativismo di ogni nostra azione. Certo ciò non potrà essere se non da un lato
coll’entrata nella vita italiana di un proletariato coscientemente rivoluzionario e perciò apportatore
di nuovi valori, nel constatato esaurimento della piccola borghesia nel fascismo da un lato,
nell’impossibilità di un ampio fiorire di grande borghesia industriale dall’altro, proletariato
concretamente nazionale nella sua coscienza di classe, dall’altro con la risoluzione del problema
unitario, risoluzione che per essere tale deve importare soluzione dell’attuale crisi politica italiana:
opera complessa che non potrà compiersi se non con una completa e profonda rivalutazione di tutti
i nostri elementi culturali prima di poter entrare nel campo della formulazione tecnico-giuridica» (p.
194).
31 In «Studi politici», I, n. 2, febbraio 1923, p. 64 (recensione a Salvemini, cit.).
32 In «Studi politici», I, n. 9-10, settembre-ottobre 1923 (recensione a Graziadei, cit.).
33 In «Studi politici», I, n. 8, agosto 1923, p. 228 (recensione a Mondolfo, cit.). Cfr. anche I, n.
3, marzo 1923, p. 96 (recensione a Pascal, cit.).
34 In «Studi politici», I, n. 6-7, aprile-maggio 1923, p. 194 (recensione a Sturzo, cit.).
35 In «Studi politici», I, n. 3, marzo 1923, p. 95 (recensione a Cappa, cit.).
36 Questa lettera è custodita nell’Archivio del Centro Studi Piero Gobetti (via Fabro 6, Torino).
Vi sono altre due lettere di Ascarelli a Gobetti: una del 21 marzo 1924 (su carta intestata del
Ministero delle Finanze. Direzione generale delle pensioni di guerra), con la quale Ascarelli invia la
propria quota di sottoscrizione a «La Rivoluzione Liberale»; una del 31 giugno 1925 (su carta
intestata avv. Tullio Ascarelli, via Cesalpino 26, Roma) in cui raccomanda un amico Fortini (?) che
vorrebbe tradurre Marshall (l’economista) e assicura che il prof. Ricci avrebbe promesso di scrivere
la prefazione.
37 Archivio del Centro Studi Piero Gobetti. L’ordine del giorno, approvato dal Gruppo romano,
è il seguente: «Il gruppo romano di Rivoluzione Liberale, affermando la necessità di un governo che
sia espressione della volontà del paese, liberamente manifestata, conferma la propria sfiducia in ogni
soluzione che limitandosi ad un’astratta rivendicazione delle libertà statutarie non superi i
presupposti politici ed economici del fascismo, e denuncia l’equivoco delle tardive resipiscenze di
elementi fiancheggiatori corresponsabili nella situazione attuale».
38 Cfr. E. Bassi, Contributo alla storia di Quarto Stato, in «Critica sociale», 20 agosto-5 settembre
1960; e, per ulteriori annotazioni e una diversa interpretazione dell’indirizzo politico della rivista, S.
Merli, Il Quarto stato di Rosselli e Nenni e la polemica sul rinnovamento socialista nel 1926, in «Rivista
storica del socialismo», III, 1960, n. 11, pp. 819-28.
39 Il diritto di libertà, 3 aprile 1926, firmato Tullio Ascarelli; Socialismi e nazione (A proposito di un
libro di Otto Bauer), 26 giugno 1926, firmato Guido da Ferrara; Il programma agrario della
socialdemocrazia austriaca, 24 luglio 1926, firmato Guido da Ferrara; Il valore del socialismo, 7 luglio
1926, firmato Guido da Ferrara; Un carattere: Giustino Fortunato, 21 luglio 1926, firmato Tullio
Ascarelli; Unità socialista e pregiudiziale repubblicana, 4 settembre 1926, firmato Guido da Ferrara.
40 Il valore del socialismo, cit.
41 Cfr. A. Garosci, Storia dei fuoriusciti, Laterza, Bari 1953, pp. 180-86.
42 p.v. [Paolo Vittorelli], Tullio Ascarelli un grande cittadino, in «Il Punto», 28 novembre 1959.
43 In Studi in memoria di U. Ratti, a cura e con Prefazione di E. Albertario, Giuffrè, Milano 1934,
pp. 451-95.
44 Negli Appunti di diritto commerciale, Foro Italiano, Roma 19363, affermava esplicitamente che
poteva ormai dirsi acquisita alla nostra coscienza giuridica «la funzione creativa storicamente assolta
dalla interpretazione nello sviluppo del diritto» (vol. I, p. 36).
45 La stessa tesi è riaffermata in Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 36.
46 Appunti di diritto commerciale, cit., I, p. 35.
47 Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè, Milano
1955, pp. 505 sgg.
48 Questo articolo fu primamente pubblicato nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito
comparado, Saraiva, São Paulo 1945. Quindi in edizione italiana nel volume Saggi giuridici, Giuffrè,
Milano 1949, pp. 3-40. La citazione nel testo è a pp. 10-11.
49 Apparso primamente nel volume Problemas das sociedades anónimas e direito comparado, cit.; ora in
Saggi giuridici, cit., pp. 41-81; nonché in Studi di diritto comparato e in tema d’interpretazione, Giuffrè,
Milano 1952, pp. 165-204.
50 In Saggi giuridici, cit., pp. 83-107; nonché in Studi di diritto comparato, cit., pp. 55-78.
51 Ed. cit., pp. IX-LIII.
52 In «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», VIII, 1953, pp. 115-23; ora in Saggi di
diritto commerciale, cit., pp. 467-79.
53 In «Rivista del diritto commerciale», LII, 1954, I, pp. 157-84; ora in Saggi di diritto commerciale,
cit., pp. 481-519.
54 In «Il diritto dell’economia», I, 1955, pp. 1179-203; ora in Problemi giuridici, vol. I, Giuffrè,

Milano 1959, pp. 69-111.


55 In «Rivista di diritto processuale», XII, 1957, pp. 351-63; ora in Problemi giuridici, cit., vol. I,
pp. 139-52.
56 In Studi in memoria di L. Mossa, vol. I, Cedam, Padova 1961, pp. 51-73; ora in Problemi
giuridici, cit., vol. I, pp. 39-65.
57 La funzione del diritto comparato e del nostro sistema di diritto privato (1949), in Studi di diritto
comparato, cit., pp. 41-54; Il Codice civile e la sua vigenza (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp.
461-66; Antigone e Porzia (1955), in Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. 5-15; Certezza del diritto e
autonomia delle parti (1956), ivi, pp. 113-36; Étude comparative et interprétation du droit (1958), ivi, pp.
319-37; Unificazione del diritto dello stato e tecnica dell’interpretazione, ivi, pp. 339-54; Premessa ai due
volumi di Problemi giuridici, cit., vol. I, pp. IX-XIII.
58 Questo tema è stato sviluppato dal primo studioso del pensiero giuridico ascarelliano, L.
Caiani, La filosofia dei giuristi italiani, Cedam, Padova 1955, pp. 129 sgg.
59 Cfr. N. Bobbio, Il positivismo giuridico (Lezioni di filosofia del diritto raccolte dal dr. Nello
Morra), Cooperativa libraria universitaria torinese, Torino 1962. Inoltre: Id., Sul positivismo giuridico,
in «Rivista di filosofia», LII, 1961, pp. 14-34; Id., Ancora sul positivismo giuridico, in «Rivista di
filosofia», LIII, 1962, pp. 335-45. In seguito, i miei vari saggi sull’argomento sono stati raccolti nel
volume Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1965, 19722.
60 Cfr. La funzione del diritto speciale e le trasformazioni del diritto commerciale, cit. Ancora in Sviluppo
storico del diritto commerciale e significato dell’unificazione (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 7-
33.
61 L’importanza dei criteri tecnici nella sistemazione delle discipline giuridiche e del diritto agrario, in Atti del
primo Congresso nazionale di diritto agrario, Tip. editrice Mariano Ricci, Firenze 1935, p. 105. Cfr.
anche Prefazione a Saggi di diritto commerciale, cit., p. 3, in cui precisa che bisogna rendersi conto dei
fatti che si vuol regolare, e ciò significa il ricorso alla natura delle cose, ma non bisogna sostituire la
sociologia con il diritto, confondendo le constatazioni storiche con le valutazioni normative.
62 Premesse allo studio del diritto comparato, cit., p. 10.
63 Interpretazione del diritto e studio del diritto comparato, cit., p. 482.
64 Per esempio in Per uno studio della realtà giuridica effettuale (1956), in Problemi giuridici, cit., vol.
II, p. 805: «Gli è che il diritto non è dispiegamento di principi astratti, ma è storia...».
65 Si veda in particolare Il Codice civile e la sua vigenza (1953), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp.
461-66.
66 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 101.
67 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 101.
68 Il saggio più completo sull’argomento è Per uno studio della realtà giuridica effettuale, cit., pp. 803-

26.
69Ordinamento giuridico e processo economico, cit., p. 47.
70Da una lettera inedita alla moglie del 19 settembre 1957.
71 Apertamente nella Premessa ai due volumi di Problemi giuridici, cit., vol. I, p. X.
72 Cfr. in particolare Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, in Saggi di diritto commerciale, cit.,
pp. 467-79.
73 Antigone e Porzia, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 14.
74 Per una sintetica e chiara esposizione di questa tesi si legga il n. 3 del saggio Norma giuridica e
realtà sociale, cit., vol. I, pp. 71-75.
75 Sul concetto di titolo di credito (1954), in Saggi di diritto commerciale, cit., pp. 573-77; Considerazioni
in tema di società e personalità giuridica (1954), ivi, pp. 129-217, in particolare n. 22; Norma giuridica e
realtà sociale, cit., n. 4; Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, cit., n. 4.
76 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 73.
77 A.G. Conte, «Ordinamento giuridico», in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII.
78 Per una critica serrata della teoria ascarelliana dell’interpretazione cfr. G. Tedeschi, Insufficiency
of the Legal Norm and Loyalty of the Interpreter, in The Israel Academy of Sciences and Humanities.
Proceedings, I, n. 3, Jerusalem 1963, pp. 1-22 (estratto).
79 Per la critica degli studi del Magni cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXIX-
XXXI, nota 21; del Klug, Dispute metodologiche e contrasti di valutazioni, cit., pp. 473 sgg. Osservazioni
sull’uso della logistica con riferimento a I. Tammelo, in Il problema preliminare dei titoli di credito e la
logica giuridica (1956), in Problemi giuridici, cit., I, p. 180, in nota.
80 Sul neo-positivismo cfr. Prefazione a Studi di diritto comparato, cit., pp. XXVI- XXVII, nota 19;
con allusione, suppongo, agli studi dello Scarpelli: «I tentativi neopositivisti, pur recentemente
elaborati con fine acutezza, cadono comunque di fronte all’impossibilità di qualunque controllo
sperimentale del diritto, che si pone come struttura d’azione» (Certezza del diritto e autonomia delle
parti, in Problemi giuridici, cit., vol. I, p. 124, nota 11); Il problema preliminare dei titoli di credito e la logica
giuridica, ivi, p. 179, nota 11.
81 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 91.
82 In Problemi giuridici, cit., vol. I, p. XI.
83 Norma giuridica e realtà sociale, cit., pp. 91-101.
84 Premessa a Problemi giuridici, cit., p. XI.
85 Tipologia della realtà, disciplina normativa e titoli di credito (1957), in Problemi giuridici, cit., vol. I, p.
188. Sul problema della costruzione, più particolarmente cfr. L’idea di codice nel diritto privato e la
funzione dell’interpretazione (1943), in Saggi giuridici, cit., pp. 72-77.
86 Alcune tesi sulla scienza giuridica furono esposte da Ascarelli in una nota del saggio Norma
giuridica e realtà sociale, cit., pp. 88-89, nota 20.
87 Norma giuridica e realtà sociale, cit., p. 82.
88 Sguardo sul Brasile, Giuffrè, Milano 1949. Ma non era sfuggito ad un lettore attento e curioso
come Capograssi che ne cita le considerazioni finali sulla differenza tra società americana e società
europea: L’ambiguità del diritto contemporaneo (1953), ora in Opere, vol. V, Giuffrè, Milano 1959, p.
393.
89 Da due lettere alla moglie, scritte da Roma il 17 e il 19 novembre 1946.
90 Da una lettera alla moglie, scritta da Parigi il 20 novembre 1946.
91 Da appunti di diario inediti, datati febbraio 1948.
92 In «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 1, Roma, 20 febbraio 1954, p. 7.
93 Fisco e società, in «Lettera agli amici di Unità popolare», n. 22-23, Roma, 17-24 luglio 1954,
pp. 5-6. Nel n. 44 del 26 marzo 1955 è pubblicato uno stralcio della relazione di Ascarelli al
«Convegno per la lotta contro i monopoli» (pp. 8-9) sul quale vedi più oltre.
94 Cfr. E. Rossi, La pentolaccia dei monopoli, in «Il Mondo», XI, n. 49, 8 dicembre 1956.
95 Con tre articoli: L’emigrante liberista, II, n. 25, 24 giugno 1954; Giustizia migliore, II, n. 51, 23
dicembre 1950; Un colpo gobbo, VIII, n. 52, 25 dicembre 1956.
96 Gli atti dei due Convegni sono stati pubblicati nella collana laterziana dei «Libri del tempo»:
La lotta contro i monopoli, a cura e con una Introduzione di E. Scalfari, Bari 1955 (la relazione di
Ascarelli è a pp. 105-35); Atomo ed elettricità, a cura e con un’Introduzione di E. Scalfari, Bari 1957
(la relazione di Ascarelli è a pp. 105-38): è incredibile, ma da tutto il volume degli atti non risulta la
data del convegno. Le due relazioni di Ascarelli si possono leggere anche in Problemi giuridici, cit.,
vol. II, pp. 879-931 e pp. 945-64; la prima arricchita di molte note (già pubblicata anche in «Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile», IX, 1955, pp. 273-317). Ascarelli partecipò anche ad altri
convegni degli Amici del «Mondo»: Dibattito sulla scuola, Laterza, Bari 1956, pp. 144-47; Verso il
regime, Laterza, Bari 1960, pp. 203-8. Il contributo dato da Ascarelli a questi convegni è stato
ricordato da Nicolò Carandini in apertura del Convegno sulla nazionalizzazione dell’energia
elettrica (1960): cfr. Le baronie elettriche, Laterza, Bari 1960, p. 26.
97 Il testo corretto dei due schemi in Problemi giuridici, cit., vol. II, pp. 933-34 e pp. 971-81.
98 In Problemi giuridici, cit., vol. II, p. 959.
99 Obbligazioni pecuniarie, nel Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca,
Zanichelli, Bologna 1959.
100 Il quale scrisse su Ascarelli uno dei saggi più penetranti: Nell’anniversario della morte di Tullio
Ascarelli, in «Rivista delle società», V, 1960, pp. 977-1012.
101 N. Bobbio, Ricordo di Piero Calamandrei, in «Belfagor», XIII, 1958, p. 592.
102 Inedito, di cui ho preso visione per gentile concessione della famiglia. Da questo diario sono
state tratte tutte le citazioni che seguono. Colgo l’occasione per ringraziare in modo particolare la
vedova, signora Marcella Ascarelli Ziffer, per il prezioso costante aiuto prestatomi durante il lavoro.
103 Coglie bene questo aspetto della personalità di Ascarelli, G. Auletta, Tullio Ascarelli, in
«Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», XIII, 1959, pp. 1209-18.

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