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“L’UOMO E’ LA MISURA DI TUTTE LE COSE”1

(Maristella Amisano Tesi)

1. UN LEGAME TRA DIRITTO PENALE DEL NEMICO E CULTURAL


DEFENSE
Le esigenze di continua lettura dell’esistente, in una con la necessità di
dogmatizzazione in schemi e principi, hanno fatto emergere di recente due
questioni, apparentemente non collegate fra di loro, ma che in realtà mi paiono
presentare un nucleo comune. Accettare tale elemento comune porterebbe ad
importanti conseguenze non soltanto di politica criminale ma addirittura di
compatibilità con i principi costituzionali che fondano il nostro ordinamento.
Sto parlando del diritto penale del nemico e della cultural defense.
Si tratta di concetti oggi molto dibattuti, seppur con accenti diversi, talora
opposti.
Scopo del presente lavoro è tentare di accostare e comparare due idee da sempre
considerate lontane, per trarne alcune conseguenze di ordine sistematico e
ordinamentale. Conseguenze che – voglio anticipare- ci portano alla necessità di
non abbassare la guardia di fronte a forme, più o meno mascherate, di diritto
penale d’autore che minacciano le legislazioni contemporanee.
Preliminarmente delineerò i concetti coinvolti, nei soli limiti utili alla presente
ricerca. Potrò così comparare le due ideologie 2 per evidenziarne un eventuale
elemento comune che, infine, sottoporrò al vaglio dei principi costituzionali che
regolano l’ordinamento penale. Come vedremo, le conseguenze sistematiche non
presenteranno elementi di novità. Nuovo, però, è il percorso seguito: attraverso
l’accostamento di temi apparentemente molto distanti fra di loro, si giungerà alla
conclusione della impossibilità di dare accesso nel nostro ordinemento a forme
di diritto incentrate sulle caratteristiche dell’autore invece che sul fatto
commesso. Conclusione già nota, che ci viene, però, dall’analisi di problemi
nuovi.

1
Protagora, fr.1, in Platone, Teeteto, 152a
2
Uso il termine ‘ideologia’ o ‘idea’ per descrivere il diritto penale del nemico e la cultural defense perchè
il termine ‘istituto’ mi pare inadeguato a descrivere un ordine sospeso tra positivo e aspirazione verso
qualcosa che non c’è ma si ritiene che dovrebbe esserci o non dovrebbe esserci.
2. IL DIRITTO PENALE DEL NEMICO: CONCETTO.
La filosofia, del diritto e non, ha da sempre utilizzato il concetto di nemico per
indicare colui che recede dal contratto sociale di cittadinanza. Si pensi a
Rousseau, ma anche a Fichte, secondo cui chi viola il contratto sociale perde
ogni diritto derivante dalla qualità di cittadino e financo di essere umano,
ricadendo in una condizione di assenza assoluta di diritti. Come si vede, il
nemico non è il mero delinquente. Quest’ultimo è considerato un “errore
riparabile”, mentre il nemico è colui che attenta alla stessa esistenza e
legittimazione dello Stato. Su queste basi filosofiche, utilizzate nella spiegazione
di fenomeni di attualità così imponenti da caratterizzare il nostro tempo, è nata la
teorizzazione da parte di Gunther Jakobs3 del diritto penale del nemico. Si è
trattato di qualcosa di ben diverso da una mera provocazione e lo dimostrano le
teorie nate sulla base del diritto penale del nemico, come il c.d. diritto penale di
lotta, così come l’attenzione che il tema ha suscitato fra gli studiosi. Come è
stato ben detto4, queste teorie rivendicano il superamento di un normativismo
astratto, idealisticamente ancorato ai soli principi, verso una pretesa di migliore
aderenza all’empiria. Emerge, così, una prima caratteristica della teoria del
diritto penale del nemico: l’intento è quello di leggere una realtà piuttosto che
dettare principi. Ma la pericolosità di un siffatto modo di intendere le cose non
può sfuggire. In questo modo, infatti, si eludono le critiche concettuali
trincerandosi dietro un mero descrittivismo che si vede come ineludibile. Quasi
come se i principi, le norme di ordinamento, le regole sociali, fossero impotenti
di fronte alla realtà, che creerebbe proprie regole, norme e principi meramente
fattuali, privi di sostrato normativo. Uno iato incolmabile, insomma, tra realtà e
diritto. Il che farebbe addirittura dubitare dell’importanza funzionale del diritto
stesso.
Ho già espresso così una prima critica al diritto penale del nemico. Ma la
situazione si pone in termini più complessi.
L’idea di base del diritto penale del nemico è che l’essere umano non sia persona
in sè ma solo con riferimento al diritto, tanto che il reo è trattato come persona
3
Gunther Jakobs, Cancio Meliá, Derecho penal del enemigo, II ed., Cuadernos Civitas, 2007; Jakobs,
Polaino- Orts, Terrorismo y estado de derecho, Universidade Externado Colombia, 2009.
4
A. Cavaliere, Diritto penale “del nemico” e “di lotta”: due insostenibili legittimazioni per una
differenziazione, secondo tipi di autore, della vigenza dei principi costituzionali, Critica del diritto, n.4
del 2006, p. 295ss.
solo se e fino a quando offre la garanzia di comportarsi, di base, come cittadino
che agisce –nella maggior parte dei casi- nel rispetto del diritto 5. Altrimenti, non
c’è persona e non c’è, quindi, meritevolezza di un certo tipo di trattamento
garantista.
Vedremo oltre le conseguenze a livello pratico-normativo di un siffatto modo di
pensare. Certo è che o il diritto del nemico legge la realtà, e quindi l’uomo;
oppure l’uomo è tale solo se rispetta il diritto. Tertium non datur. Le
contraddizioni, quindi, permeano i presupposti della teoria.
Si è scritto, in proposito, che “...L’essenza del tratamento diverso che si riseva al
nemico consiste nel fatto che il diritto gli nega la condizione stessa di persona.
Egli viene considerato unicamente sotto l’aspetto di entità pericolosa o foriera di
danno. Per quanto l’idea sia sfumata, ogniqualvolta si voglia distinguere tra
citadino (persona) e nemico (non persona), ci si riferisce ad esseri umani che
sono privati di certi diritti personali, motivo per cui non sono più considerati
persone...”6 .
All’interno della teorizzazione del diritto penale del nemico ne esistono due
differenti concezioni: il concetto di nemico forte ed il concetto di nemico debole.
Nel concetto c.d. forte, le differenze tra diritto penale del nemico e diritto
tradizionale sono qualitative, poichè il diritto penale del nemico presenta
caratteristiche peculiari che lo rendono autonomo.
Al contrario, la concezione debole prevede differenze con il diritto penale
tradizionale meramente quantitative: il diritto penale del nemico si colloca
semplicemente nel solco di una più ampia prevenzione con conseguente
anticipazione di tutela e garanzie soltanto affievolite, ma non escluse.
Che vi sia o no un rapporto dialogico tra diritto penale del nemico e diritto
penale tradizionale, si comprende come non sia accettabile accontentarsi di
garanzie affievolite: comunque si voglia intendere il diritto penale del nemico, in
senso forte o debole, la creazione di una forma di diritto penale parallelo porta
con sè conseguenze tali da giungere a mettere in crisi lo stesso ordinamento
democratico- costituzionale. Altrettanto superflua, poichè non muta il punto
centrale della teoria del diritto penale del nemico, ci pare la distinzione tra

5
Cfr. Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e
l’amico del diritto penale, in Riv. It. Dir. E proc. Pen., 2007a,470ss
6
Zaffaroni, O inimigo do direito penal, trad. Sergio Lamarão,Rio de Janeiro: Revan, 2007, p. 18. La
traduzione è nostra.
‘logiche binarie’ e ‘logiche fuzzy’ nel descrivere i rapporti possibili tra diritto
penale tradizionale e diritto penale del nemico.
Si parla di logica binaria quando cittadino e nemico vengono considerati
categorie incomunicabili. Al contrario, si parla di logica fuzzy quando non esiste
una realizzazione “pura” nè di diritto penale tradizionale, nè di diritto penale del
nemico. Su questa linea, si potrebbero avere forme di diritto penale del nemico
anche dentro alle realizzazioni quotidiane del diritto penale tradizionale.
Questa distinzione avrebbe senso solo se si potesse accettare, giuridicamente e
logicamente, il presupposto del diritto penale del nemico. Su questo torneremo.
Quel che è certo è che la logica fuzzy presenta caratteristiche notevoli di
pericolosità perchè consente, all’interno di un sistema penale tradizionale,
l’ingresso di logiche appartenenti al diritto penale del nemico. Una forma
mascherata, quindi, di affievolimento di garanzie.

3. CONSEGUENZE DELLA TEORIA DEL DIRITTO PENALE DEL NEMICO


Se il presupposto del diritto penale del nemico è che colui che si dimostra ostile
all’ordine giuridico non è persona, conseguenza ne è, oltre al già accennato
affievolimento delle garanzie, una peculiare funzione della pena.
Nel diritto penale tradizionale il reato si pone come violazione di una norma che
la pena mira a riportare alla vigenza. Oltre ad una funzione retributiva, la pena
presenta caratteristiche di prevenzione, generale e speciale, che contribuiscono
al mantenimento dell’assetto sociale disegnato dalle norme penali e dai principi
costituzionali. La Carta costituzionale, poi, impone che la pena miri alla
rieducazione del reo.
Nel diritto penale del nemico, invece, la funzione della pena non può che essere
quella della neutralizzazione del nemico, che può essere realizzata con tutti i
mezzi possibili, legittimati dal fatto che i nemici non sono persone ma meri
individui: sanzioni draconiane, riduzione di garanzie, pene che nulla hanno a che
fare con la lesione del bene.
Un diritto penale orientato al nemico, insomma, si caratterizza perchè punisce
anche comportamenti potenzialmente pericolosi, in una cornice edittale molto
ampia, ed abusa di misure di sicurezza e prevenzione. E se la pena è mera
neutralizzazione della pericolosità sociale, il reato perde due delle sue
caratteristiche essenziali: la materialità e la colpevolezza.
Arriviamo così al punto centrale: il diritto penale del nemico non è altro che una
delle più nette realizzazioni del diritto penale d’autore. Non si viene puniti per il
fatto commesso ma per le caratteristiche dell’autore, ovvero per una determinata
immagine di identità sociale.
Si dice, a tal proposito, 7 che il diritto penale del nemico è il frutto di un diritto
penale di concezione antropologica, cioè del diritto penale d’autore. Per il vero,
ci pare che il diritto penale d’autore ed il diritto antropologico non siano la stessa
cosa: il diritto penale – e lo vedremo meglio in seguito – ha come suo centro
essenziale l’uomo. L’uomo deve essere necessariamente il fulcro: è lui che pone
in essere il fatto di reato, che a lui è ricollegato attraverso il nesso psicologico,
ed è su di lui che ricade la pena, caratterizzata dalla funzione rieducativa. E –non
dimentichiamo- è l’uomo il primo mattone della società, di cui il diritto penale è
il portato (rectius: uno dei portati).
Ma una cosa è considerare l’uomo come essenza del diritto penale, altro è
modellare il diritto penale sull’uomo-soggetto agente del reato. È proprio questo
il punto centrale del presente lavoro, che mira alla differenziazione tra un diritto
penale che abbia come fulcro l’uomo ed un diritto penale che si modelli sulle
caratteristiche di quello o quell’altro agente.
L’occasione che ha dato luogo alla teorizzazione del diritto penale del nemico
ed ai suoi corollari è l’attentato dell’11 settembre e la lotta al terrorismo
internazionale. L’intento è stato quello di punire comportamenti che hanno
finalità sovversive di un determinato assetto socio-giuridico motivate da un
diverso sostrato culturale. Il nemico viene combattuto con ogni mezzo in quanto
non-persona poichè attenta alla stessa esistenza del contratto sociale al quale non
aderisce per motivi religiosi o, comunque, culturali. Ci potrà essere utile il
paragone con la cultural defense: nel caso di specie si potrà, al contrario, parlare
di cultural offense. Ma di ciò oltre.
È proprio la lotta al terrorismo, così sentita dai Paesi occidentali, che ha
consentito il proliferare di teorie che, seppur non arrivino alle medesime
conseguenze e tentino una versione dai contorni sfumati, partono dal concetto di
diritto penale del nemico8.
7
Marcel Figuereido Ramos, Direito Penal do Inimigo. Violação ao principio da ampla defesa negativa?,
Unifacs, 2010.
8
Cfr. Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico jus in bello del criminale e
annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008 e Insolera, Terrorismo internazionale tra delitto
politico e diritto penale del nemico, in Dir.pen. proc., 2006, 895ss.
É chiaro che il fenomeno del terrorismo è molto complesso ed ha risvolti
importanti di diritto internazionale. Quel che è certo è che, negli ordinamenti
nazionali, le garanzie costituzionali non possono essere sospese9. Altrimenti si
arriva a dire10 che, poichè il diritto penale tradizionale è considerato inadeguato a
combattere il terrorismo, sono necessari stati di eccezione che possono giungere
anche a “flessibilizzare” le garanzie costituzionali.
Ma ci pare che le garanzie fondamentali non siano compatibili nè con il termine
‘eccezione’, nè con quello di ‘flessibilizzazione’. Dare spazio a concetti del
genere non avrebbe limite e vanificherebbe l’intero assetto delle garanzie
costituzionali. Arrivando alle stesse conseguenze che con il diritto penale del
nemico si vorrebbero evitare: la sovversione dell’ordinemento di riferimento.
Insomma, il diritto penale del nemico, nato per evitare che siano posti in essere
comportamenti finalizzati alla sovversione di ordinamento, attraverso la
‘flessibilizzazzione’ delle garanzie costituzionali, porterebbe al medesimo
risultato che voleva evitare. E questo basterebbe a negare qualunque validità a
questa teoria.

4. (ULTERIORI) CRITICHE AL CONCETTO DI DIRITTO PENALE DEL


NEMICO
Sebbene la teorizzazione del diritto penale del nemico –complice un particolare
momento di emergenza storica- abbia influenzato parte della dottrina penalistica
europea, moltissime sono le critiche mosse a questo modo di intendere le cose.
Critiche che giungono alla conclusione di definire il diritto penale del nemico
come un “non diritto”. Ma procediamo con ordine, seguendo la scansione logica
di Antonio Cavaliere11, che ci pare particolarmente persuasiva.
Abbiamo già anticipato come il punto di partenza di Jakobs sia che il diritto
penale del nemico non è una teorizzazione bensì la mera descrizione analitica di
ciò che accade in ogni ordinamento. E l’asserzione della mera descrittività è
molto usata dai sostenitori delle teorie vicine, o che comunque prendono spunto
dal diritto penale del nemico. Quasi come se al mero descrittivismo, osserva
Cavaliere, non si potesse opporre nulla in quanto rappresentazione del reale. In

9
Cfr. Viganò, Diritto penale del nemico e diritti fondamentali, in Legalità penale e crisi del diritto, oggi.
Un percorso interdisciplinare, a cura di Bernardi, Pastore, Pigiotto, Milano, 2008, 107ss.
10
Bartoli, cit., infra
11
A. Cavaliere, cit., 297.
realtà, se il reale contrasta con i principi fondamentali di un ordinamento è
indispensabile la sua modifica. Non il contrario, qualora –almeno- quei principi
siano ancora aderenti all’ethos di quel popolo. Di questo ho già detto.
La asserita descrittività di Jakobs è giudicata 12 solo apparente, proprio perchè,
all’interno di un sistema di diritto positivo, diritto penale vigente è quello
conforme alla Costituzione.
Gravissima, poi, sarebbe l’affermazione di fondo secondo cui chi non si
comporta da cittadino è una non-persona, per ciò stesso priva di diritti. Qui non
solo ci si dimentica dei principi costituzionali, che si fondano sull’eguaglianza di
trattamento di fronte alla legge, ma oltretutto il presupposto di base, così
fondamentale da non essere neppure esplicitato, è la salvaguardia della dignità
umana. Ove per ‘umana’ si intende di ogni uomo in quanto essere umano e non
in quanto essere umano che è considerato cittadino o che possegga qualsivoglia
altra caratteristica imposta dall’autorità. Uomo è una caratteristica naturalistica a
cui il diritto ha attribuito, appunto, diritti e tutele, non può, quindi, diventare una
caratteristica giuridica assolutamente arbitraria. Vogliamo solo far cenno alla
pericolosità degli abusi relativi alla individuazione dei nemici perchè le
conseguenze sono da tutti facilmente immaginabili.
Ulteriore critica al diritto penale del nemico è che la teoria della pena di Jakobs,
fra le altre cose, trascura la vita futura del reo, contrastando, ancora una volta,
con i principi costituzionali e, segnatamente, con l’idea di rieducazione e di
risocializzazione.
Infine, è chiaro come il principio di deresponsabilizzazione, caratteristica
peculiare del diritto penale del nemico, comporti la legittimazione dello Stato a
compiere tutto ciò che ritenga utile e necessario alla sicurezza dei consociati.
Spinta autoritaria che farebbe in modo che un interesse super-individuale quale,
appunto, la sicurezza sociale prevalga sui diritti fondamentali dei singoli
individui.
E qui vengono in considerazione l’essenza stessa del diritto penale e, soprattutto,
la sua funzione.
Solo tentando di rispondere alla domanda circa la funzione del diritto penale
potremo comprendere se il diritto penale del nemico sia un non- diritto, in
quanto totalmente estraneo alla logica del diritto penale, oppure no.
12
A. Cavaliere, cit. 297ss.
5. IL DIRITTO PENALE DEL NEMICO COME DISSOLUZIONE DEL DIRITTO
Con riferimento ai rapporti intercorrenti tra diritto penale tradizionale e diritto
penale del nemico, è stato sostenuto13 che la stessa espressione con cui si indica
la teoria ‘diritto penale del nemico’ sia una contraddizione in termini, un vero e
proprio ossimoro che dissolve l’essenza medesima del diritto penale. Senza
pensare alle Eumenidi e ad Atena che mette fine al ciclo del sangue e della
vendetta con l’Aeropago, è chiaro come il nemico evochi la guerra, di cui il
diritto penale si pone come negazione o, perlomeno, tentativo di negazione.
Inutile –come ho già accennato- replicare che il diritto penale del nemico non si
pone come teorizzazione ma come lettura di ciò che accade. Da qualunque
prospettiva si vogliano osservare le cose, non si può mai confondere ciò che
accade con ciò che è legittimo e, più ancora, giusto.
Il diritto penale riveste la funzione di far passare i conflitti dallo stato selvaggio
a quello civile. Secondo questa condivisibile opinione, l’idea di nemico
contraddice sia la configurazione della fattispecie penale sia quella del giudizio.
Dal punto di vista della configurazione della fattispecie, il nemico cozza con
l’identificazione di ciò che è punibile e cosa no, imposta dal principio di legalità.
Principio che rende legittima la punizione del fatto di reato ma non del reo a
cagione delle sue caratteristiche.
Per quanto attiene al giudizio, poi, il diritto penale del nemico presuppone il
crollo di tutte le garanzie processuali perchè il giudice, da terzo imparziale,
diventa nemico del reo, ovvero nemico del nemico.
In questo senso, il diritto penale del nemico sarebbe un non-diritto.
Ma occorre ancora indagare sulla funzione del diritto penale. Qualora si
rinvenga come funzione esclusiva del diritto penale quella della sicurezza 14,
allora sarebbe prospettabile quel c.d. diritto penale di lotta, finalizzato a
combattere la pericolosità ed alla neutralizzazione. Ma, come ammettono anche i
sostenitori del diritto penale di lotta, le politiche criminali orientate ad un mero
scopo di tutela possono non presentare il carattere della giustizia.
In quest’ottica, ben sarebbero legittimi alcuni stati di eccezione che consentano
dinamici interventi di contrasto a determinati fenomeni criminosi. Abbiamo già
13
L.Ferrajoli, Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale, in Questione Giustizia, 4,
2006, 804ss.
14
Donini, Il diritto penale di fronte al “nemico”, Cass. Pen. 2006, 735ss.
visto15 come sia molto pericoloso legittimare interi sottosistemi di eccezione,
oltre che contrastante con i principi costituzionali che , appunto, come tali, non
sono derogabili. Nessuno contesta che lo Stato debba intervenire, anche con
fermezza, per evitare danni alla vita o al patrimonio o ad altri beni giuridici
meritevoli di tutela. Tuttavia, negli Stati di diritto, o dei diritti 16, anche lo stesso
diritto ha dei limiti17.
Ma c’è di più. Certamente il diritto penale deve mirare anche alla sicurezza dei
consociati, ma il fine ultimo deve essere quello della giustizia. Non come analisi
dell’esistente, bensì come orizzonte a cui tendere. Un diritto penale che assicuri
la sicurezza dei consociati, compromettendo i diritti fondamentali della persona
umana –che costituisce il nucleo primigenio della società- non solo non esprime
alcun senso di giustizia, ma è il sintomo di un sistema dittatoriale. Magari anche
solo in potenza.
I rischi di un diritto penale d’autore e non del fatto sono noti da tempo18.
Occorre non farsi affabulare da teorie ben congegnate e motivate, che cavalcano
l’onda di insicurezza sociale del momento storico.

6. REATO CULTURALMENTE ORIENTATO E CULTURAL DEFENSE: IL


CONCETTO DI CULTURA
La società complessa individuata da Friedrick Von Hayek svela la sua
importanza quando la complessità diventa anche culturale. Come è chiaro, gli
uomini hanno propri connotati biologici ed hanno proprie culture 19. Le
migrazioni hanno portato molti soggetti ad insediarsi in società diverse da quelle
originarie e con presupposti culturali talora anche molto lontani. Le società sono
diventate multiculturali. Non bisogna confondersi, però. Società multiculturale
non è quella dove le varie e differenti culture convivono una accanto all’altra in
un regime paritario. Spesso accade, infatti, che le culture minoritarie convivano
all’interno della cultura dominante senza esserne riconosciute o, comunque,
accettate. Che è il caso in cui nasce il c.d. reato culturalmente orientato: la
cultura dominante non accetta alcune pratiche tipiche della cultura di minoranza

15
Cavaliere, cit., infra
16
M. Gallo, Moralitè, Esi, 2011
17
Marcel Figuereido Ramos, cit., 2
18
M. Gallo, Il concetto unitario di colpevolezza, Giuffrè, 1951
19
Cfr. R. Sacco, Antropologia giuiridica, Il Mulino, 2007, 13.
e la discrepanza, l’attrito, hanno conseguenze sul sistema di diritto. Ove per
conseguenze non si intende una modifica del diritto ma il semplice porsi il
problema della compatibilità o della soluzione, anche senza alcuna alterazione
del diritto vigente. Ma procediamo per ordine per non sovrapporre problemi che
si dovrebbero porre su piani differenti.
Il punto di partenza è che il grande flusso migratorio delle ultime decadi 20 ha
comportato che all’interno di un medesimo contesto sociale convivessero
enclavi di culture diverse. Il problema giuridico si è posto nel momento in cui un
fatto considerato penalmente rilevante nella cultura ospitante sia, al contrario,
accettato o approvato dalla cultura di un determinato gruppo. Si pensi, a titolo di
mero esempio, alla poligamia, alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, ai
matrimoni tra parenti consanguinei. Questo fenomeno ha condotto a porsi il
problema dell’esistenza o meno di una cultural defense o, più precisamente, di
una giustificazione che copra il reato commesso attraverso la valutazione della
cultura di origine. Parliamo, ancora, genericamente di giustificazione.
Entreremo, nel prosieguo, nel merito dei possibili strumenti giuridici per
adeguare il sentire sociale dell’agente a quell’altro sentire sociale che ha dato
luogo alla produzione di quel determinato sistema giuridico-penale.
Già da questi meri lineamenti si evince con tutta chiarezza l’importanza di una
definizione omogenea di cultura. L’identità culturale, infatti, è il perno su cui
ruota tutto il discorso sui reati culturalmente orientati o motivati. Ma il termine
cultura porta con sè una definizione estremamente complessa. Non ci si può
accontentare di dire che la cultura è qualcosa che l’individuo acquisisce in
quanto membro di una determinata società e che ogni cultura possiede uguale
dignità ed ancora che le culture non sono monadi isolate ma interagiscono 21.
Certo, si tratta di elementi tutti che contribuiscono efficacemente a definire il
concetto di cultura, ma ancora non ne colgono l’essenza. Ogni individuo
appartenente alla medesima cultura la può recepire in modo diverso, così come
l’interazione tra culture può portare alla assenza di quei conflitti che stanno,
invece, alla base del reato culturalmente motivato. Prendiamo le mosse
dall’antropologia. Da questo punto di vista, la cultura non è soltanto il
20
Certo, il fenomeno non è solo recente. Si pensi a tutte le colonizzazioni e, ancora prima, alle scoperte
geografiche che comportarono l’alterazione dell’assetto sociale previgente attraverso l’imposizione di un
differente sistema culturale generalmente impermeabile a qualsiasi commistione o apertura verso il
passato.
21
Cfr. De Maglie, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Ets, 2010.
patrimonio di conoscenze che ogni individuo possiede, ma è il complesso di
valori, tradizioni, costumi, credenze e abiti mentali che connotano ogni data
comunità sociale22.
Ma l’antropologia ci insegna anche che le culture risentono della diversità insita
nella natura delle cose. Tutto ciò che è reale è dominato dalla diversità 23 e ciò
vale tanto per il reale materiale quanto per il reale culturale. D’altronde, la
diversità proviene dalla variazione, dal mutamento. E di questo dato non ci si
può certo lamentare. Certo, la diversità può implicare l’incompatibilità 24 e
financo il conflitto, ma è il prezzo da pagare per l’evoluzione.
In qualunque società, tranne che nelle forme più embrionali e primitive, è facile
che più culture coesistano. Più complicato è comprendere come reagisce una
cultura che sa dell’esistenza dell’altra. Difficile che gli operatori delle due
comunità mettano a confronto le proprie culture e le uniformizzino, arricchendo
una con elementi dell’altra e viceversa. Più facilmente il confronto fra due
culture diverse creerà una contesa finalizzata alla sopravvivenza di una cultura o
anche di singoli elementi culturali. Ed è per questo che la ‘deculturizzazione’ è
un destino dell’uomo25. Una fra le culture risulterà dominante e non sorprende
che chi crede superiore la propria cultura creda superiore il proprio diritto,
perchè la superiorità etica pone il dovere di intervenire: “non è lecito consentire
devianze etiche nel nostro stesso habitat e nemmeno -quando l’intervento sia
possibile26- in un habitat lontano”27.
Proviamo ad unire i due concetti a cui siamo pervenuti.
Definire che cosa si intenda per cultura non è affatto semplice e presenta
caratteri di grande relatività: si pensi alla cultura orientale contrapposta a quella
occidentale, alla cultura rurale contrapposta a quella industriale ed a tutte le
sfumature che possono colorare queste stesse categorie.
Parlando di reati culturalmente orientati si è soliti dire che si intende per cultura
quella di una nazione o di un popolo che occupa un determinato territorio. Ma

22
Cfr. Sacco, cit., p.13
23
Cfr. Sacco, cit., p. 43
24

25
Sacco, cit., p.59ss.
26
L’affermazione ci induce a riflettere sul tema del diritto penale del nemico: la cultura dominante può
arrivare ad avvertire la necessità di reprimere istanze etiche considerate inaccettabili.
27
Sacco, cit., p. 69.
anche questa affermazione pecca di superficialità: se così fosse, di reati
culturalmente orientati non staremmo neppure a parlare.
Infatti, almeno per ciò che concerne il valore spaziale della norma, si va verso
l’uniformazione. Quantomeno, si considera desiderabile l’uniformazione. Il
problema è che il diritto non è diverso da qualunque altro fenomeno sociale e
culturale28: accanto al diritto , la lingua, il sapere, le regole del vivere, la qualità
dei prodotti dell’attività umana materiale e intellettuale costituiscono, nel loro
insieme, cultura. Certo, fra gli elementi ora indicati, lingua e diritto hanno un
carattere speciale, perchè se due diversi individui si nutrono di cibi diversi o se
ricorrono a cure diverse per guarire le loro malattie, il pluralismo delle soluzioni
non crea problemi alla società 29. Al contrario, i membri di una comunità non
possono reciprocamente intendersi se non usano la medesima lingua. Allo stesso
modo, qualsiasi regola giuridica, per avere validità, deve essere condivisa. “ In
via di fatto, la comunità degli umani non parla una sola lingua. Ma questo
contraddice lo scopo della lingua, che consiste nella comunicazione.
Gli umani non osservano un solo diritto. Ma questo va contro lo scopo del
diritto, che consiste nel garantire un meccanismo di soluzione di conflitti uguale
per diversi soggetti e prevedibile. L’uniformità è perduta se le soluzioni previste
per due ipotesi identiche sono molteplici”30. E qui arriviamo ad un punto
cruciale, anche per toglierci dall’empasse relativo alla definizione di cultura.
Definire ciò che è cultura è senza dubbio importante, ma non bisogna
dimenticare che siamo nell’ambito giuridico ed il diritto recepisce la cultura di
quel determinato contesto sociale. Tra cultura e diritto si instaura con tutta
certezza un rapporto bilaterale, ove uno è influenzato dall’altra e, almeno nelle
intenzioni, uno influenza l’altra. Anche perchè il diritto, come abbiamo visto,
costituisce uno degli elementi che compongono quell’insieme definito come
‘cultura’. Ma, quando questo rapporto reciproco diventa norma, all’interprete
non resta che vedere in che modo quel determinato portato culturale, che è
diventato diritto, recepisce fatti che sono il portato di altre e differenti culture. Il
diritto, quindi, è sì il risultato della cultura dominante, ma questo aggettivo deve
essere privo di connotazioni negative: non si tratta di colonialismo culturale
bensì di omogeneità necessaria affinchè si creino i principi espressi col e nel
28
Ecco che cultura e diritto si ritrovano inscindibilmente connessi.
29
Sacco, cit., p.42
30
Sacco, cit., p. 43
diritto. Generalmente, nella misura in cui la fonte del diritto è la volontà degli
interessati, la nuova regola si appoggia sul consenso generale. Ma non si può
negare che l’unificazione del diritto abbia un costo. Un codice nazionale riflette
l’opinione dei giuristi del Paese, si ispira alla giurisprudenza radicata, si apre a
soluzioni che istanze sociali diffuse e ripetute hanno invocato. Molto spesso non
ci sarà nulla di imprevedibile o di socialmente aggressivo, ma è certo che un
codice, finalizzato alla creazione dell’uniformità, necessariamente soffocherà
alcune regole, sostituendole con altre. Il che si pone come realtà del diritto.
Detto questo, già abbiamo espresso in larga misura la nostra opinione circa la
possibile rilevanza dei reati culturalmente orientati. Ma non vogliamo correre
troppo senza aver delineato con compiutezza il problema.
Abbiamo visto come il concetto di cultura sia molto complesso, altrettanto può
dirsi, quindi, della società multiculturale. A proposito di quest’ultima, il dato
significativo è –a prescindere dalla definizione puntuale di cultura- la
coesistenza di più culture in un determinato contesto socio-geografico 31. In tali
casi si crea quello che l’antropologo chiama ‘pluralismo giuridico’, indicando
con questa locuzione la concorrenza del diritto codicistico a cui i tribunali si
attengono con il diritto gestito e praticato dalla singola etnia 32. Ma, per noi
giuristi, le cose stanno diversamente. È chiaro che, di fronte ad una situazione di
fatto di questo tipo, ogni ordinamento statuale non ha che davanti a sè una
alternativa: o la cultura dominante assimila quella o quelle minoiritarie (c.d.
modello assimilazionista alla francese), oppure si mantiene ferma nella volontà
di non attribuire rilevanza giuridica al multiculturalismo.
La situazione risulta ancor più complessa se solo si rifletta che esiste uno
scollamento fra il diritto e la sua conoscenza: il diritto è un complesso di realtà,
la conoscenza del diritto è la conoscenza di dati reali. Per questo il legislatore
scrive, l’interprete legge e scrive, il giudice giudica, il cittadino ottempera o

31
Su questo e su altri aspetti, come i conflitti culturali, si veda ancora Sacco, cit., 40ss.
32
Sacco, cit., p. 83. All’interno della stessa antropologia va rilevato che il concetto di pluralismo giuridico
può presentare accenti diversi. C’è chi parla di pluralismo là dove lo Stato prevede norme diverse per i
cittadini a seconda della religione o dell’origine, altri ritengono che vi sia pluralismo solo se un medesimo
soggetto è il destinatario di norme contrastanti. Che non sarebbe neppure il caso –malgrado l’apparente
affinità- del reato culturalmente orientato. Nel nostro caso il comportamento costituisce reato per
l’ordinamento giuridico a cui si deve soggiacere ed, al contrario, è ammesso nella cultura di riferimento.
Non si tratta –se non in casi eccezionali- di comportamenti in un caso vietati e nell’altro imposti da regole
giuridiche, seppure derivanti da diverse culture.
Esiste, poi, un pluralismo giuridico c.d. radicale, secondo cui è diritto ciò che gli uomini considerano tale:
il diritto è un’opinione, un’aspirazione, non è nè una struttura nè una norma.
devia. Esistono, quindi, in ogni ordinamento norme criptotipiche, ossia praticate
ma non consapevoli. Norme ignote che giocano importante ruolo
nell’interpretazione, facendo in modo che si situino su piani diversi il diritto
applicato e la norma scritta, insieme al discorso dottrinale che riflette la norma
nota, ovvero la situazione normativa in atto33. Tutto ciò contribuisce a mescolare
vari piani, in alcuni dei quali la cultura dell’agente non può non entrare in gioco.
Come abbiamo visto, cultura e diritto non possono considerarsi concetti slegati:
“la cultura umana; il diritto. Le culture umane; i diritti. La riflessione
antropologica ci dirà in quale misura credere nella cultura umana (al singolare) e
in quale misura riconoscere le culture umane (al plurale).
Non è logicamente impossibile che si constati la molteplicità delle culture sul
piano del fatto, e si aspiri all’unità; o che si misuri quanto è marcata l’unità delle
culture dell’uomo, e si auspichi la varietà” 34. Aldilà della fiducia riposta nello
studio antropologico come fonte di ogni risposta, è importante cogliere i legami
profondi tra diritto e cultura. Ma quale cultura? La risposta prevalentemente
sarà: la cultura dominante, quella che ha sancito i principi ritenuti meritevoli di
tutela attraverso la creazione del diritto.
Possiamo così provare a trarre qualche conseguenza. Può accadere che vengano
commessi fatti costitutivi di reato secondo la cultura dominante ma
assolutamente leciti nella cultura di origine ed appartenenza del reo. Intendiamo
questo quando parliamo di reati culturalmente orientati o motivati. Di fronte a
questi fatti, è possibile utilizzare come difesa il fatto che quel determinato
comportamento sia lecito nella cultura dell’agente? È possibile, insomma,
qualche forma di cultural defense?
Come si vede, si tratta di problemi distinti: innanzitutto occorre attribuire una
qualche plausibilità al reato culturalmente orientato e solo successivamente si
potrà vedere se esistono –o se si riterrebbero opportuni- mezzi normativi per
utilizzare l’elemento culturale a difesa dell’agente.

7. ESEMPI DI REATI CULTURALMENTE ORIENTATI: LIMITI E


PROBLEMI
Cerchiamo di calare, ora, nel reale ciò di cui abbiamo parlato.

33
R. Sacco, cit., 24.
34
Sacco, cit., 41.
Abbiamo visto che il reato culturalmente orientato deriva il suo significato da
quello, più ampio e complesso, di cultura. Ed abbiamo altresì visto come, a
livello di definizione, si consideri culturalmente orientato quel reato motivato da
ragioni culturali appartenenti al gruppo sociale di minoranza. Il gruppo con
cultura maggioritaria, infatti, si presume che abbia espresso quei principi che
sono diventati diritto.
Poichè la categoria di reati culturalmente orientati ci viene dagli Stati Uniti,
prendiamo le mosse dai casi che, in quel contesto, sono stati ritenuti tali.
Molti sono gli esempi addotti in letteratura, mi limito ad esporre due casi che
ritengo particolarmente significativi e fecondi.
Nel caso State vs. Kargar del 1993, il Signor Kargar, un afgano residente negli
Stati Uniti, è stato tratto a giudizio con l’accusa di molestie sessuali gravi ai
danni del proprio figlio di 18 mesi sulla base della denuncia di una vicina di
casa che lo aveva visto più volte baciare il pene del bimbo. La condotta è stata
accertata e pure ammessa dall’imputato, che però ha addotto a propria difesa
che, nel suo Paese di origine, quella condotta è assolutamente lecita ed, anzi, è
considerata dimostrazione di amore incondizionato perchè, baciando una parte
sporca a causa dell’urina, il padre dimostra il proprio amore verso il figlio. Non
si tratterebbe, quindi, di condotta con valenza sessuale.
Non è la sede, questa, per analizzare la decisione del tribunale statunitense. Ci
limitiamo ad osservare che, dopo una condanna in primo grado, l’imputato è
stato assolto sulla scorta della circostanza che la condotta dell’imputato non ha
cagionato un apprezzabile danno alla vittima. Un escamotage processuale per far
aderire la condanna ad un comportamento che, sulla scorta della cultura
dell’imputato, non aveva connotazioni sessuali e, quindi, non meritava sanzione.
Mi pare che, nell’ordinamento italiano, si sarebbe potuti pervenire ad una
medesima soluzione assolutoria utilizzando gli strumenti propri del nostro
sistema, senza necessità di forzatura alcuna. Ma su ciò torneremo.
Nel caso People vs. Metallides del 1974, un immigrato di origine greca,
Metallides, uccise un amico dopo aver scoperto che questi aveva stuprato sua
figlia. La difesa dimostrò che il particolare concetto d’onore radicato nella
cultura di origine comportava la vendetta per il gravissimo affronto subito.
L’elemento culturale è stato valutato dai giudici statunitensi nell’ambito della
“temporary insanity defense” e l’imputato è stato assolto.
Utilizziamo questa pronuncia, senza entrarne nel merito, solo per evidenziare le
differenze tra i due casi: nel primo, la motivazione culturale ci pare
prospettabile. Nel secondo, no. Chiunque potrebbe avere reazioni violente nello
scoprire che un amico ha violentato la propria figlia. Nulla, però,
giustificherebbe –almeno nel nostro ordinamento- una assoluzione.
Ne possiamo trarre una prima conclusione: il reato culturalmente motivato può
essere inteso in molti modi, troppi per poterne dare una definizione e quindi una
risoluzione comune. Il relativismo insito nello stesso concetto di reato
culturalmente motivato ci fa propendere per una difficile legittimazione del
medesimo, non solo a livello giuridico ma anche sociale.
Ma a questo primo limite che rintracciamo nella categoria se ne accompagnano
molti altri.
Sino ad ora ho considerato reato culturalmente orientato quello commesso sulla
scorta di una motivazione culturale di un gruppo minoritario. Ma, se
legittimassimo la cultural defense, dovremmo arrivare ad ammetterla anche
quando, all’interno della cultura dominante, si formassero sacche ove un
determinato comportamento, illecito per l’ordinamento giuridico, fosse
considerato non soltanto lecito ma, anzi, auspicabile. Fino ad arrivare al punto di
dire che ciò che la cultura propria dell’individuo impone costituisce
giustificazione per il suo comportamento. Significherebbe dire che la cultural
defense vale ogniqualvolta vi sia conflitto tra la cultura dell’imputato e quella
che informa il diritto penale 35. Il che sarebbe inaccettabile: verrebbe a negare la
funzione stessa del diritto penale. Se diciamo A dobbiamo dire anche Z: ogni
individuo, in un caso del genere, avrebbe un proprio diritto penale, portatore dei
propri valori, senza necessità alcuna che i valori stessi siano condivisi in una
finalità di sicurezza e pace sociale.
Ed ancora: la cultura non è un microcosmo di valori chiuso ed immutabile, bensì
è caratterizzata dall’essere fluida e dinamica. Riconoscere la cultural defense
significherebbe favorire ricostruzioni culturali stereotipate, quasi caricaturali,
scorrette, impermeabili a qualsivoglia contaminazione. Nè si può negare, poi,
che ogni individuo può deviare anche dai propri modelli culturali. Ancora una
volta si arriverebbe all’assurdo di attribuire rilevanza giuridica alla cultura
interna, personale, del soggetto agente.
35
Cfr. Rentel, The cultural defense, Oxford University Press, 2004.
Insomma, consentire il ricorso alla cultural defense significherebbe ammettere
che nel giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato vengano applicate
norme altre e diverse da quelle del diritto penale statale 36. Diritto che, a trarne le
dovute conseguenze, non avrebbe più ragion d’essere.

8. TENTATIVI DI DARE INGRESSO ALLA MOTIVAZIONE CULTURALE


NEL NOSTRO ORDINAMENTO.

Proviamo a seguire questa impostazione37: per dare legittimità ai reati


culturalmente orientati bisogna prima dare risposta a questi due quesiti. Il diritto
alla cultura è un diritto fondamentale? Qualora la risposta sia positiva, in che
rapporto di bilanciamento sta con altri diritti fondamentali eventualmente
confliggenti? Anche la legislazione internazionale enuncia il diritto alla cultura:
tale diritto, quindi, esiste. Ma è diritto fondamentale? Si è soliti distinguere tra
diritti umani e diritti fondamentali. I diritti umani spettano a tutte le persone in
quanto tali. Tra i diritti fondamentali è compresa l’uguaglianza di valore di tutte
le differenze personali, ivi comprese quelle culturali. La cultura, quindi, non è un
diritto umano ma è diritto fondamentale che, come tale, deve essere garantito.
Quanto al bilanciamento, esistono diritti fondamentali invalicabili: il diritto alla
cultura è sì diritto fondamentale ma non può svolgersi con modalità lesive delle
immunità inviolabili della persona. Si tratta, quindi, di un diritto fondamentale
destinato a soccombere di fronte a diritti di portata più ampia e che toccano la
persona umana nella sua vita o integrità.
Ammesso, quindi, che si debba riconoscere rilevanza alla cultura all’interno di
ogni ordinamento, occorre vedere in che modo lo si debba e possa fare. È stata
invocata- per la verità in ordinamenti anglosassoni ove il problema è più sentito,
ma ciò non toglie importanza alla questione- la creazione legislativa di una causa
di esclusione o diminuzione della punibilità. Si è pensato ad una causa di
esclusione della responsabilità. La replica è che occorrerebbe distinguere tra una
cultural defense cognitiva ed una volitiva 38. Quella cognitiva verrebbe chiamata

36
Cfr. Parolari, Multicultural Jurisprudence. Comparative Perspectives on the cultural defense. Note a
margine , Diritto e questioni pubbliche, n. 10, 2010, pp. 573ss.
37
Ferrajoli, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, 2007.
38
Renteln, cit., infra
in causa quando la cultura dell’agente gli impedisca di capire che la sua condotta
integra un reato. Al contrario, la cultural defense volitiva riguarderebbe i casi in
cui l’agente sappia che la propria condotta, nel Paese ospitante, integra un reato,
ciononostante la realizza in quanto obbligato dalla sua cultura d’origine. Ebbene,
una eventuale causa di esclusione della responsabilità penale coprirebbe
entrambe? Se la cultural defense cognitiva sembrerebbe avere spazi di breccia
maggiore, quella volitiva implicherebbe dare rilevanza al movente, ovvero alla
motivazione che ha spinto all’agire. Benchè i sistemi di common law e di civil
law siano differenti, se teniamo a parametro di riferimento –come ci sembra di
dover fare- il nostro ordinamento, non mi pare che ci si possa accontentare della
vaghezza che questo tipo di causa di esclusione di responsabilità presenterebbe,
nè potremmo attribuire al movente una rilevanza che gli è altrimenti sempre
negata.
Tentiamo, allora, un diverso approccio. Cedo alla tentazione di ripercorrere una
strada a me cara39: provare ad inquadrare il fatto nelle cause di esclusione della
responsabilità già esistenti nel nostro ordinamento. Sto parlando delle esimenti
elencate nel nostro codice penale. Una ipotesi prospettabile mi parrebbe essere
quella dell’esercizio del diritto. Ma è chiaro che questa applicazione presuppone
l’esistenza di un diritto riconosciuto e che prevalga su quelli ritenuti
soccombenti. E qui torniamo al circolo vizioso: il diritto è espresso dalla cultura
dominante, che evidentemente non può riconoscere come diritti valori che
appartengano a culture diverse e che vengano a ledere valori che, invece,
secondo la propria cultura, sono elevati a diritti. E questo è insito nel concetto di
diritto: un concetto che non è universale bensì, appunto, culturale. Ed allora
difficilmente si potrà utilizzare una esimente presente nel codice penale vigente
per giustificare un fatto motivato da una diversa sensibilità culturale.
Proseguiamo su questa via per verificare se altri istituti, diversi dalle esimenti,
possano essere utilizzati per dare legittimità nel nostro ordinamento alle
motivazioni culturali.
Iniziamo dall’imputabilità: far leva sul vizio di mente per evitare la punibilità di
un crimine culturalmente motivato non solo sarebbe inaccettabile per la cultura
dominante, ma significherebbe oltretutto disprezzare la cultura di origine del reo.

39
Il tentativo di inquadrare le esimenti c.d. non codificate in quelle già presenti nel codice penale permea
tutta la ricerca esposta in Le esimenti non codificate. Profili di liceità materiale, Giappichelli, 2008
Intento che si porrebbe addirittura in contrasto con il principio della cultural
defense.
Pensiamo, allora, all’ignoranza della legge penale. Impossibile l’applicazione
dell’art. 5 c.p., anche perchè non si vede come l’ignoranza possa essere
considerata inevitabile.
Spesso si è fatto leva sull’esclusione del dolo. In via di principio, implicando il
dolo la rappresentazione e la volizione del fatto tipico, la circostanza che quel
determinato fatto non costituisca reato secondo la propria cultura di origine non
rileva. Per il codice penale italiano, il rom che si rappresenta e vuole sottrarre un
oggetto agisce con dolo, a nulla valendo che per la sua cultura quel fatto non
costituisca un furto. Anzi, a ben guardare, la sottrazione non sarà condannata
nella cultura d’origine, ma non si può negare che, comunque lo si voglia
intendere, si tratta di un furto. Che poi sia condannabile o addirittura
raccomandabile è tutta un’altra storia.
Non c’entra, quindi, in via generale, l’esclusione del dolo. Altra cosa è il caso
specifico. Come sempre, occorre guardare al fatto tipico, al completo di tutti i
suoi elementi oggettivi e soggettivi. Riprendiamo il caso del signore afgano che
era solito baciare il pene del figlio per dimostrargli amore. Compiere atti sessuali
significa compiere atti considerati ‘sessuali’ nella cultura di chi? Saremmo
portati a dire: secondo la cultura dominante che ha espresso il diritto in quel
determinato contesto. Tuttavia il dolo deve riguardare la rappresentazione e
volizione di compiere atti che abbiano una connotazione sessuale, lasciva. Nel
caso di specie, il dolo non può dirsi sussistente. Anche secondo i principi del
nostro ordinamento, senza forzatura alcuna, quel fatto non sarebbe stato
considerato costitutivo di reato. In questo caso, il rilievo culturale verrebbe a
coincidere con le esigenze espresse dall’ordinamento c.d. dominate.
In conclusione, non ci pare che si possa dare ingresso a strumenti all’interno
dell’ordinamento penale per dare legittimazione ai reati culturalmente orientati.
Quale che sia la motivazione, resta il fatto che si tratta, per il nostro
ordinamento, di reati.
Diverso il caso, a mio parere, della commisurazione della pena. La cultura di un
soggetto fa parte della costruzione del sè, tanto che può a buon titolo essere
valutata tra i motivi a delinquere e le condizioni di vita del reo. Buon uso potra
essere fatto, quindi, dell’art. 133 c.p.
Quanto alle circostanze attenuanti comuni, mi pare che la circostanza dei motivi
di particolar valore morale o sociale non sia adeguata. I valori devono essere
condivisi dal contesto sociale. Le circostanze attenuanti generiche si potrebbero
prestare a mitigare la pena per i reati culturalmente orientati, tuttavia la vastità
del loro utilizzo impedisce di considerarle prerogativa di tale categoria di reati.
In conclusione, i modi di commisurazione della pena presenti nel sistema
italiano possiedono sufficiente elasticità da comprendere le ragioni appartenenti
alla cultura dell’agente. Senza che lo stesso sistema venga sovvertito con
l’inserimento di istituti che si porrebbero come l’anti-diritto rispetto a quello
dominante, espresso dai fattori legislativi. Senza contare che valorizzare il dato
di una determinata appartenenza culturale si potrebbe intendere anche come
privilegio ingiustificato. Meglio, quindi, lasciare che i giudici, nel loro naturale
ambito di apprezzamento, tengano conto delle variabili legate al caso di specie
durante la comminazione della pena ed, anche prima, nell’inquadramento del
fatto nella fattispecie adeguata.
È chiaro come la cultura di appartenenza influenzi profondamente i valori e le
convinzioni di un individuo, così come il suo modo di percepire ed interpretare
la realtà. Tuttavia in nessun caso ci pare che la cultura possa divenire argomento
giuridicamente rilevante per rivendicare la legittimità di qualsivoglia condotta
lesiva della vita, dell’integrità fisica o della libertà altrui. Ragionare
diversamente aprirebbe il campo ad un diritto penale ove ciò che conta non è più
il fatto bensì il suo autore. Solo così potrebbero essere apprezzati giuridicamente
aspetti dell’agente e soprattutto delle ragioni che lo hanno spinto all’agire che,
nel nostro ordinamento, sono irrilevanti. E si badi che si tratta di precisa scelta
del legislatore, motivata dai rischi e dai pericoli che il diritto penale d’autore
porta con sè.

9. IL FILO ROSSO CHE LEGA DIRITTO PENALE DEL NEMICO E


CULTURAL DEFENSE.

Abbiamo delineato nei tratti essenziali che cosa si intenda per diritto penale del
nemico e per cultural defense. Benchè queste due nuove categorie siano
apparentemente lontanissime l’una dall’altra, abbiamo riscontrato più volte, nel
tentativo di sostenere l’impossibilità del loro ingresso nel nostro ordinamento,
dati comuni.

In entrambi i casi l’importanza del fatto di reato cede di fronte alle


caratteristiche del suo autore. In un caso tali caratteristiche condurranno
addirittura ad uno svilimento della condizione di cittadino, atto a giustificare
interventi e trattamenti privi delle garanzie che presiedono ad un ordinamento.
Nell’altro caso, le caratteristiche dell’autore agiranno in senso opposto, venendo
a giustificare addirittura la commissione di un fatto costitutivo di reato. Effetti
opposti che hanno un medesimo sostrato: l’uomo, le sue caratteristiche, i motivi
del suo agire.

Che l’uomo costituisca il perno del diritto, così come della società, è
indiscutibile. Quel che è in discussione è il modellare il diritto non sull’uomo ma
su quell’uomo che ha posto in essere un determinato fatto. Fino alle estreme
conseguenze di negare la qualità di uomo proprio a seguito della commissione di
determinati fatti. Oggi, per come è congegnato il nostro ordinamento penale,
così come non è conforme ai principi che reggono il nostro diritto punire non per
un fatto ma per le caratteristiche del suo autore, allo stesso modo non si può non
punire a causa delle caratteristiche dell’autore –come sarebbe proprio della
cultural defense. D’altronde, di diritto penale del nemico si parla anche quando
si attribuisce un particolare disvalore ad un fatto criminoso solo perchè
culturalmente motivato, ovverosia conforme a valori estranei all’ordinamento.
L’opposto o, meglio, il contraltare della cultural defense.

Questo, dunque, il punto di collegamento tra diritto penale del nemico e cultural
defense: una visione a-generica di uomo sostituita da altra che ne evidenzi le
peculiarità. Se tutte o solo alcuna è un altro discorso, che affronterò a breve.

Come quando giochiamo a carte e dobbiamo conoscere le regole del gioco,


anche il diritto penale ha le sue regole e non è detto che le une siano migliori
delle altre. Il che significa che, in linea di principio, un diritto che tenga conto
delle specificità proprie dell’agente (culturali, sociali, ideologiche e così via)
potrebbe anche essere migliore di un diritto che non le tenga in considerazione.
Proviamo a continuare su questa strada. Ogni individuo presenta proprie
caratteristiche che lo differenziano da un altro. Molte caratteristiche, un poliedro
di sfumature che costituiscono, appunto, l’essere umano. Quali di queste
dovranno essere prese in considerazione dal diritto? Tutte o soltanto qualcuna? E
quale il criterio di selezione? Occorrerebbe redigere altre regole. Un altro diritto,
insomma. Ma per farlo dovremmo essere sicuri che sia migliore del nostro. Non
dico nemmeno: uguale. Dovrebbe essere migliore.

Poniamo mente ai discorsi già svolti per trarne elementi in tal senso o in senso
contrario: anche scoprire che il nuovo diritto sarebbe peggiore di quello attuale
ci aiuterebbe a trovare la soluzione che stiamo cercando.

Ma diritto penale del nemico e cultural defense hanno anche un altro punto in
comune, particolarmente significativo con riferimento all’aspetto in esame.
Affrontando il diritto penale del nemico abbiamo visto che l’idea di fondo di
punire certi comportamenti affievolendo talune garanzie costituzionali è
motivata dall’esigenza di mantenimento, sopra ogni cosa, della sicurezza dei
consociati. Allo stesso tempo, l’affievolimento delle garanzie che stanno alla
base del nostro ordinamento inevitabilmente comporta una svolta autoritaria,
incompatibile con la sicurezza dei consociati. Almeno se si intende la sicurezza
nel suo significato più ampio. E –comunque- affievolire le garanzie comporta
l’indebolimento dell’intero assetto ordinamentale. Conseguenza non voluta,
anzi, aborrita, dal diritto penale del nemico.

Allo stesso tempo, abbiamo visto che legittimare la cultural defense


significherebbe ritenere lecito un comportamento ogniqualvolta vi sia conflitto
fra la cultura dell’agente e quella che informa il diritto vigente. In questo caso,
ogni individuo verrebbe a creare un proprio diritto e questo rende ciascuno
nemico di chi abbia un diritto differente.

Unendo le tessere del puzzle che stiamo componendo, ne traiamo la


conseguenza che diritto penale del nemico e cultural defense costituiscono due
forme di anti-diritto, di dissoluzione del diritto penale.

Ed allora non si tratta più di creare un diritto uguale a quello vigente o migliore.
Si tratta di scegliere tra il diritto ed il non diritto.

La scelta, a mio avviso, è e può essere una sola.

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