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Dei delitti e delle pene

– analisi del testo.

1. Beccaria argomenta la sua tesi a sfavore della pena di morte assumendo come base la
teoria di Rousseau – secondo cui la legge e l’autorità del sovrano sono conseguenza di un
contratto volontario, per cui ogni uomo cede una parte minima delle proprie libertà per il
bene comune. Beccaria dimostra che la pena di morte è al di fuori di questo contratto, ed
è dunque “guerra della nazione contro il cittadino”; una guerra potrebbe essere
considerata legittima quando è necessaria e utile; in una società stabile e giusta, punire i
delitti è necessario e utile solo quando può dissuadere dal compierne altri. L’autore si
presta quindi ad esporre i motivi per cui i lavori forzati siano, come deterrente,
obiettivamente migliori della pena capitale; la maggior parte di queste argomentazioni si
fondano sulla convinzione che un impatto forte e improvviso possa smuovere l’animo
umano, ma non rimanere impresso più di quanto riescano impatti moderati ma
persistenti; per questo, nell’incutere terrore e impartire idee morali, una spettacolare
condanna a morte non regge il confronto con il continuo esempio dei lavori forzati che si
protraggono per anni.
Il discorso si sposta in seguito sull’analisi psicologica del criminale, cui Beccaria dà
voce. Che la volontà del reo sia di violare il contratto sociale significa che questo
contratto non rispecchia la volontà di tutti; solo a questo punto la suddetta guerra della
nazione contro il cittadino, e del cittadino contro la nazione, ha inizio. In questa guerra,
Beccaria spiega le motivazioni del criminale e rende evidente che a porre meglio il freno
a queste motivazioni siano i lavori forzati, non la morte.
Dopo qualche considerazione morale sul perché legittimare l’omicidio è un controsenso
per la legge stessa, Beccaria attacca l’ultimo ostacolo: la pena di morte è stata in vigore
per millenni nella quasi totalità dei governi della storia, quindi è data come sistema
scontato nella mentalità comune. L’autore afferma che ciò che è persistito nella storia
non corrisponde a ciò che è giusto, perché la storia di una creatura fallace come l’uomo è
costellata di errori; nelle tenebre dell’esperienza umana le verità sono lampi isolati e rari,
concesse dalla Sapienza infinita.

3. Ci sono due argomenti con cui Beccaria contesta la legittimità morale della pena di
morte, fondati entrambi sulla sua concezione di legge. Secondo il primo, le leggi sono
nate per moderare la condotta degli uomini, indisciplinati e violenti allo stato naturale, e
tra le violenze che queste si impongono di correggere c’è l’omicidio; è contraddittorio e
moralmente discutibile perseguire un fine del genere tramite l’omicidio stesso. Inoltre,
essendo la legge “contratto sociale”, espressione della volontà generale che spinge ogni
cittadino a sacrificare un minimo della sua libertà per il vantaggio collettivo, è
impossibile che tra queste minime libertà egli voglia includere la libertà di disporre della
sua morte. Se anche fosse così, non potrebbe comunque accordarla perché secondo i
principi cristiani non è una libertà che gli appartiene; si elargiscono i diritti di cui si
dispone.
Ma se una legge non è morale, potrebbe essere accettata solo in quanto utile o
necessaria; perciò Beccaria contesta anche l’efficacia della pena capitale (citando, come
esempi a favore, i romani ed Elisabetta di Moscovia che avevano abolito la condanna a
morte).
Beccaria sostiene che impressioni minime e replicate affettano l’uomo più di
impressioni forti ma momentanee, perché “l’impero dell’abitudine è universale”; le
passioni violente possono violentemente agire sugli animi, ma la loro forza non
impedisce all’uomo di dimenticarle in fretta; quando l’obiettivo non è attuare una
trasformazione radicale nel popolo, ma impartire idee morali per mantenere l’equilibrio,
non sono efficaci. I lavori forzati, quindi, sono deterrenti preferibili alla pena di morte.
L’animo umano è definito “elastico”, perché sopporta il colpo improvviso, mentre si
spezza con pressioni lievi e incessanti. La necessità di una pena prolungata è anche
comprensibile perché entrando nell’ottica del criminale: un solo giorno di miseria (la
condanna a morte, peraltro allievata dalla fede religiosa) varrebbe la pena per diversi
giorni felici, mentre allo stesso modo questi giorni felici impallidirebbero al confronto
con anni di schiavitù (i lavori forzati).
Inoltre, la veloce pena di morte offre al popolo un singolo esempio per un singolo
delitto; i lavori forzati offrono per ogni delitto moltissimi esempi. Se non ci fossero
abbastanza delitti, non ci sarebbero abbastanza pene di morte per dissuadere dal
commetterne altri: la pena capitale può funzionare solo quando è frequente, ma è
frequente solo quando non funziona.
Confrontando poi i diversi esempi che queste punizioni offrono, è evidente che quello
dei lavori forzati sia un ritornello valido e concreto per ciascuno, mentre la morte è un
concetto astratto, oscuramente lontano; per la maggior parte degli spettatori è più un
mezzo di intrattenimento che altro, e ai restanti spesso suscita più compassione che
terrore. Il limite al rigore delle leggi che regolano i supplizi - essendo queste utili per il
popolo, non per i criminali - dovrebbe essere la compassione di quest’ultimo: una volta
superata questa soglia perdono efficacia. E se anche il popolo non provasse compassione,
significherebbe che assistere alle condanne l’abbia indurito anziché migliorato dal punto
di vista etico.
In più, spesso se si compie un delitto è per uscire dalla miseria, per fanatismo, o per
vanità: la morte è percepita come un finale eroico, o perlomeno degno. I lavori forzati,
invece, essendo sia un’umiliazione che una forma peggiore di miseria, colpirebbero più a
fondo le suddette motivazioni dell’aspirante criminale.

5. Quando l’autore afferma che la pena di morte è una guerra della nazione contro il
cittadino e non un legge stabilita con il suo accordo, dichiara che questa guerra sia utile
solo nel caso in cui l’esistenza stessa del cittadino (che esercita talvolta una grande
influenza sugli altri anche se privato della libertà, potenzialmente causando disordini o
rivoluzioni) metta in pericolo la società. Ma se una società deve temere il cittadino, è
necessariamente una società in preda dell’anarchia, non una stabile e illuminata come
Beccaria considerava quella contemporanea (“ben unita al di fuori e al di dentro dalla
forza e dall’opinione”).

7. La legittimità dei lavori forzati è sottintesa nel concetto di contratto sociale. Il diritto
naturale alla libertà è un diritto che appartiene pienamente all’uomo, e che quindi può
delegare in parte alla società. Questo sacrificio andrebbe dopotutto a suo vantaggio,
perché lo scoraggerebbe dal commettere crimini che danneggino, con la società, tutti i
membri che la compongono compreso sé stesso. Se si considera invece un criminale già
nella condizione di subire il supplizio, si tratterebbe di un cittadino indebitato verso la
comunità, e quindi sarebbe legittimo che sia costretto a risarcirla.
Inoltre, i lavori forzati non sono punizioni più crudeli della pena capitale: comportano la
stessa se non superiore dose di dolore, ma questo dolore è distribuito nel tempo anziché
impartito interamente nella morte. In questo modo, il prigioniero, grazie alla forza
dell’abitudine (che è più volte ribadita nel testo), può sopportarlo concentrandosi sulla
infelicità lieve del momento presente e non sulla somma dell’infelicità dei momenti
futuri. Nella seconda si concentra invece lo spettatore esterno quando si immedesima nel
prigioniero; dopotutto, “tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione”.
Il fatto che la schiavitù incuta più terrore nello spettatore che nel criminale è la prova
che essa sia un deterrente vantaggioso, oltre che moralmente adeguato.

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