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S.O.S.

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DISPENSA DEL LIBRO


“Diritto penale ”
Di Fiore (IV edizione)

Introduzione

§1. Nozione ed ambito del diritto penale vigente


Il diritto penale è costituito dall'insieme delle norme dell'ordinamento giuridico che
prevedono l'applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale
(sanzione criminale), come conseguenza di un determinato comportamento umano,
che prende il nome di reato: è reato, in altri termini, il fatto dell'uomo, per la cui
realizzazione la legge prevede, come conseguenza, l'applicazione di una sanzione (o
pena) criminale. Questa definizione del reato costituisce il riflesso precipuo e diretto
del ed. principio di legalità dei reati e delle pene, enunciato nell'art. 1 del codice penale
(c.p.) vigente, il quale stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto che non
sia preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Il
binomio normativo reato-pena non esaurisce, tuttavia, l'ambito del diritto penale, dato
che il nostro ordinamento giuridico prevede (agli artt. 199 e ss. c.p. e 25, co. 3 Cost.)
anche la possibilità di applicare, conseguentemente alla commissione di un fatto
preveduto dalla legge come reato, determinate misure di sicurezza, in qualità di
strumenti atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte dell'agente. Negli
ultimi decenni hanno acquisito importanza anche le ed. misure di prevenzione, la cui
applicazione, prescindendo dall'accertamento della concreta commissione di un reato,
si ricollega al particolare dato della pericolosità sociale dell'agente (ed è questo il
motivo per il quale le si definisce anche misure ante delictum).
In ogni caso, va detto che il diritto penale, quale che sia l'angolo di osservazione, si
contrassegna come una branca del diritto pubblico, dal momento che esso non regola
rapporti e conflitti di carattere privato, ma disciplina i rapporti che intercorrono tra la
comunità giuridica statuale e l'individuo che ne infrange determinate regole.

§2. Funzioni e caratteri del diritto penale vigente

a) il diritto penale come sistema di tutela dei beni giuridici


Lo strumento che l'ordinamento adotta, al fine di regolare le azioni dei consociati, è
costituito dalla produzione di specifiche norme di condotta, la cui osservanza, se
necessario, può essere perseguita con la forza, facendo ricorso alla sanzione penale
(detentiva o patrimoniale): è così che il diritto penale assicura una specifica tutela a
quelle entità considerate socialmente più rilevanti (si pensi alla vita ovvero alla libertà
personale). Tali entità, nel dettaglio, prendono il nome di beni giuridici. Ovviamente,
stabilire quali beni giuridici richiedano una tutela penale e quali no, dipende dalle scelte
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che il legislatore compie in un determinato momento storico-politico: in linea di


massima, però, si può affermare che vi sono delle priorità che l'ordinamento deve
rispettare e che possono essere sintetizzate come segue:

• il diritto penale deve, in primis, circoscrivere il suo intervento alla sfera dei beni
giuridici che si percepiscono come maggiormente rilevanti per la vita della
collettività;

• in secondo luogo, l'intervento del diritto penale deve configurarsi come


necessario per la salvaguardia dei beni giuridici che si intendono tutelare (ciò
significa che il ricorso alla minaccia penale deve risultare inevitabile - dunque,
necessario -, nel senso che la stessa deve essere vista come l'unico ed ultimo mezzo
in grado di assicurare la salvaguardia dei beni giuridici (il che, di conseguenza, porta
a considerare tutte le misure apprestate dagli altri settori del sistema completamente
impraticabili);

• in quest'ottica, la dottrina prevalente attribuisce al diritto penale un carattere di


sussidiarietà (vale a dire di ultima ratio) rispetto agli altri rami del sistema
giuridico; è importante specificare, però, che questo principio di sussidiarietà del
diritto penale non deve essere inteso come un criterio che abilita il sistema
penalistico a sanzionare, in modo ulteriore, precetti (comandi o divieti) già
disciplinati in altri settori del diritto (pubblico o privato che sia). Al contrario, va
tenuto presente che, nella maggior parte dei casi, il precetto penale si presenta come
regola originaria: si pensi, ad es., al divieto déW'omicidio {ex art. 575 c.p.) e, in
generale, ai reati contro la persona, ai delitti contro lo

Stato e contro l'ordine pubblico. Ma, a ben vedere, anche quando alcuni dei
presupposti per l'applicazione della norma penale risultano ricavabili da altri rami del
sistema giuridico, il collegamento che si viene ad instaurare tra il fatto vietato (cioè il
reato) e la conseguente sanzione (vale a dire la pena) prescinde da questi presupposti,
data la sua autonoma natura: così, per intenderci, se è vero che per configurare l'ipotesi
del furto è necessario far ricorso ai concetti di proprietà e possesso (ricavabili dalle
norme civilistiche), il precetto che comanda di non rubare trova, però, la sua fonte
originaria ed esclusiva all'interno del codice penale, all'art. 624;
• la tutela che offre il diritto penale presenta, infine, un carattere frammentario; e il
motivo di ciò risiede nel fatto che, nel provvedere alla protezione dei beni giuridici, il
diritto penale individua, tra le possibili ed infinite forme di aggressione, solo quelle più
significative dal punto di vista socio-giuridico (in questo modo, accade che, nel
codificare tali atteggiamenti, determinati comportamenti finiscono per risultare leciti o
anche indifferenti sotto il profilo penalistico).

b) altri caratteri del diritto penale


Rispetto agli altri settori dell'ordinamento, il diritto penale presenta tre peculiarità:
• la prima è il suo tendenziale formalismo (il diritto penale rappresenta, non a caso,
lo strumento principale attraverso il quale lo Stato incide sulla libertà individuale);
• la seconda è l'attenzione che esso dedica alla definizione dei titoli di
responsabilità, con una cura particolare riservata alla componente soggettiva (tant'è
che, per attribuire ad un soggetto la responsabilità per aver commesso un fatto
penalmente rilevante, è necessaria la presenza del dolo);
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• la terza è costituita, infine, dal tipo di sanzioni che si possono irrogare (prima tra
tutte la pena criminale, detentiva o pecuniaria, che si sostanzia in una considerevole
limitazione della libertà personale).

§3. Oggetto e partizioni della scienza del diritto penale

a) la scienza del diritto penale


La scienza del diritto penale è quella branca del settore penalistico che abbraccia tutte
le norme giuridiche che fanno riferimento al diritto penale: nel dettaglio, dal punto di
vista dogmatico, l'obiettivo di questa branca del diritto è quello di assicurare l'esatta
applicazione del diritto penale; il che può avvenire soltanto ricercando il significato
corretto delle sue disposizioni (in quest'ottica, la scienza del diritto penale svolge un
importante ruolo per la comprensione del sistema normativo).
La scienza del diritto penale, però, interessa anche un altro settore e, precisamente,
quello delle scienze umane (con particolare riguardo all'ambito delle scienze
criminali): sotto questo profilo, lo scopo della scienza del diritto penale è quello di
garantire una risposta normativa al problema della devianza criminale.
Nei confronti dello stesso oggetto (vale a dire nei confronti del problema relativo alla
devianza criminale), l'approccio di tipo empirico è, invece, fornito dalla criminologia,
la quale racchiude l'insieme delle conoscenze sperimentali sul reato, sul reo, sulla
condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo.
Ora, il punto d'incontro tra scienza normativa e scienza empirica del diritto penale è
rappresentato dagli obiettivi di politica criminale perseguiti dal legislatore, i quali, da
un lato, possono essere fondati scientificamente soltanto sulla base delle conoscenze
sperimentali sulle cause del fenomeno criminale e, dall'altro, devono essere tenuti in
considerazione nell'interpretazione del sistema normativo del diritto penale. Diritto
penale e politica criminale non si pongono, quindi, in un rapporto conflittuale, come
una parte della dottrina ancor oggi sostiene: difatti, bisogna prendere atto del fatto che il
diritto penale non rappresenta più, come affermava il filosofo Franz von Liszt,
l'insormontabile limite della politica criminale, bensì rappresenta la forma in cui gli
obiettivi di politica criminale subiscono una trasformazione in termini giuridici. Queste
considerazioni portano, così, a ridurre lo spazio che separa il diritto penale e le
discipline criminologiche: ciò perché il trasformare acquisizioni criminologiche in
istanze di politica criminale e, successivamente, istanze di politica criminale in regole
giuridico-penali, costituisce un procedimento essenziale per la realizzazione di quel che
gli studiosi identificano con il socialmente giusto.

b) la scienza del diritto penale e le teorie della pena


In questa prospettiva, il punto di partenza per la costruzione di una teoria generale del
diritto penale, orientata secondo lo scopo della norma (ed. sistematica teleologica)
deve essere costituito da un'attenta analisi circa l'essenza e i fini della pena. In
quest'ottica, occorre rilevare che le teorie della pena vengono tradizionalmente distinte
in due diversi gruppi: teorie assolute e teorie relative. Alle prime corrisponde
l'enunciato si punisce perché si è peccato: esse, quindi, prendendo in considerazione il
reato che è stato commesso, giustificano l'irrogazione di una retribuzione per il male
compiuto (proprio per tal motivo, esse sono anche denominate teorie della giustizia).
Alle teorie relative corrisponde, invece, l'enunciato si punisce affinché non si pecchi:
esse, come si può notare, risultano interamente rivolte al futuro e, perciò, vengono
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anche definite teorie della prevenzione. Al loro interno, per altro, si deve distinguere a
seconda che l'effetto preventivo sia rivolto alla generalità dei consociati (e, allora, si
parlerà di ed. prevenzione generale) o si ponga, al contrario, l'accento su obiettivi di
ri-socializzazione del reo (e, in tal caso, si parlerà di ed. prevenzione speciale).

c) le partizioni della scienza del diritto penale


Tradizionalmente si distingue tra una parte generale ed una parte speciale del diritto
penale; nella parte generale si ricercano e si elaborano gli istituti giuridici ai quali si
riconosce una validità generale rispetto a tutti i reati. In particolare, le materie che
formano oggetto della parte generale sono:
• la legge penale, che ricomprende le norme relative alla produzione, interpretazione
ed applicazione delle norme penali;
• il reato, cioè l'analisi del fatto penalmente rilevante;
• le sanzioni, il cui sistema è imperniato sulle forme non solo della pena, ma anche
delle altre conseguenze giuridiche del reato.
La parte speciale si occupa, invece, dei singoli fatti previsti come reato: beninteso, per
far sì che le norme di parte speciale possano operare in concreto, si rende necessaria la
conoscenza e l'utilizzazione dei concetti elaborati nella parte generale.

§4. Le fonti normative del diritto penale italiano


La prima e più importante fonte normativa del nostro diritto penale è costituita dal
codice penale (il ed. Codice Rocco, 1930) approvato con regio decreto (r.d.) 1398/30.
Ovviamente, tra le fonti un posto particolarmente rilevante spetta anche alle norme
costituzionali, che al diritto penale fanno riferimento, in modo diretto o indiretto (si
tratta, in particolare, degli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e 4 Cost.). Esistono poi altri
due testi di legge in forma di codice: sono i Codici penali militari di pace e di guerra. Il
corpus normativo ricomprende, infine, numerose leggi, che vanno a comporre il ed.
diritto penale complementare o speciale.
Le misure di sicurezza trovano la loro disciplina all'interno dello stesso c.p. (artt. 199
ss.), mentre le misure di prevenzione sono disciplinate in appositi testi legislativi.

Parte I
I presupposti culturali ed istituzionali del diritto penale vigente
Capitolo unico

§1. Alle origini del diritto penale moderno: il giusnaturalismo laico La nascita di una
teoria penale, razionalmente orientata, viene fatta risalire intorno al XVII secolo:
infatti, fu proprio in questo periodo storico che cominciò a maturare il passaggio dal
diritto naturale teologico al diritto naturale laico. In particolare, il motivo che
condusse all'attuazione di questo mutamento risiedeva nell'esigenza, avvertita dai
giuristi, di trovare un fondamento del diritto che fosse in grado di prescindere dalle
differenze religiose e da quelle confessionali: non a caso, sarà proprio su tali basi che
Hobbcs intraprenderà, poi, la fondazione giusnaturalistica del diritto. L'idea nuova
consisteva, in breve, nell'attribuire al diritto naturale non il compito di far calare dal
cielo la giustizia divina, ma solo quello di costruire in terra un sistema che fosse in
grado di superare il caos dello stato di natura pregiuridico e che riuscisse, per questa
via, a garantire la sicurezza dei consociati. Nella materia penale, tuttavia, le idee del
diritto naturale laico incontrarono particolari difficoltà ad affermarsi sulla tradizione,
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perché erano troppo forti le radici sacre del diritto penale (basti pensare alla totale
identificazione tra delitto e peccato, propria della ideologia medievale); nonostante
questi ostacoli, però, una prospettiva interamente giusnaturalistica era, in realtà, già
presente all'interno dell'opera di Ugo Grozio: il De Jurc belli ac pacis (1625), il cui
contenuto si presentava, infatti, in netto contrasto con le concezioni teocratiche del
tempo. Nella costruzione di Grozio, difatti, Stato e diritto erano concepiti da un punto di
vista esclusivamente razionale; e questo tratto caratteristico finì, di riflesso, per
influenzare anche la concezione dell'autore sulla materia penale, con riferimento alla
quale, infatti, l'illecito fu identificato con il fatto che contraddice alle regole di una
ordinata comunità di esseri razionali. La sfera giuridica, in tal modo, venne a separarsi
dalla sfera morale: e questo smembramento finì per indirizzare l'intervento punitivo
solo verso i comportamenti esteriori dell'uomo, in qualità di fatti socialmente dannosi.

§2. Il diritto penale dell' illuminismo

a) lo stato della legislazione penale alle soglie del XVIII secolo


Nonostante queste aperture di stampo razionale, è necessario, tuttavia, ricordare che,
nel periodo compreso tra il XVII e il XVIII secolo, le procedure adottate dai diversi
ordinamenti penali si caratterizzavano ancora per le ineguaglianze di trattamento, il
disordine normativo, l'estrema crudeltà e la connessa arbitrarietà: basti pensare, ad es.,
che, per i delitti di lesa maestà, la pena era, nella maggior parte dei casi, quella capitale,
mentre per le infrazioni di lieve entità si procedeva non solo alla fustigazione, ma assai
spesso anche a mutilazioni corporali, come, ad es., al taglio delle mani, della lingua e
delle orecchie. A ciò si aggiunga che la produzione legislativa era, ovunque,
caratterizzata da ripetitività, sovrabbondanza e difficile conoscibilità (soprattutto a
causa dell'inesistenza di semplici raccolte o di repertori affidabili). Se queste, dunque,
erano le condizioni del diritto penale, all'alba dell'età dei lumi, era inevitabile che le
grandi personalità dell'Illuminismo decidessero di appuntare le loro critiche proprio su
questo stato di cose.

b) Montesquieu e il problema penale


Il problema penale può dirsi aperto in Francia mediante la pubblicazione de Lo Spirito
delle Leggi: un'opera con la quale il suo autore, Montesquieu, fornirà dei contributi di
primo piano alla cultura penalistica europea. Montesquieu, nel suo trattato, parte dal
presupposto che la libertà del cittadino consiste nella sicurezza; a sua volta, però, per
far sì che questo sistema funzioni, è necessario che la sicurezza sia condizionata dalle
leggi penali. Da questo schema piramidale se ne deduce, perciò, che il grado di libertà
del cittadino dipende principalmente dalla bontà delle leggi.
In quest'ottica, per Montesquieu rivestono una particolare importanza le regole della
procedura, perché è dalle stesse che si può misurare il grado di libertà del cittadino: tra
queste, le più importanti sono, in primis, quella della imparzialità del giudice e, in
secondo luogo, quella relativa al diritto dell'accusato di essere ascoltato dal giudice,
mediante l'esercizio del suo diritto di difesa.
Per quel che riguarda, invece, la tematica relativa alla teoria della pena, l'ispirazione
razionalizzatrice di Montesquieu si estrinseca nella teoria che le pene non devono
essere contrarie all'ordine materiale e morale dello Stato e devono essere naturali: il
che avviene quando vi è una proporzione tra la qualità del crimine e la qualità della pena
(a tal riguardo, come è stato giustamente notato, questa concezione retributiva della
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pena è equiparabile, in sostanza, alle dottrine retribuzionistiche proprie della prima


metà del '700, in quanto dottrina antitetica alle settecentesche concezioni della pena
come deterrente).
Montesquieu riprende, infine, l'assunto per il quale le leggi penali devono concernere
le sole azione esterne dell'uomo; ed è in quest'ottica che egli propone la distinzione tra
quattro classi di reati: contro la religione, contro i costumi, contro la tranquillità e
contro la sicurezza dei cittadini (le pene naturali per quest'ultima classe di reati sono
indicate nei supplizi). Da questo punto di vista, ovviamente, Montesquieu non si
presenta di certo come un tenace progressista: ma, in ogni caso, non si può disconoscere
in lui un forte atteggiamento di critica nei confronti del diritto vigente.

c) Cesare Beccaria
Il discorso avviato in Francia dal Montesquieu sarà ripreso in Italia, vent'anni dopo, da
Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, attraverso il quale, grazie
ad una felice sintesi dei principi dell'illuminismo in materia di leggi e di giustizia
penale, si porranno le basi dell'indirizzo liberale del diritto e del processo penale.
Grazie a quest'opera, invero, Beccaria può essere, a ragione, considerato il fondatore
del moderno diritto penale, in quanto la maggior parte dei principi da lui enunciati, in
polemica contro la crudeltà e l'arbitrarietà del sistema penale dell'antico regime,
costituiscono, ancora oggi, dei capisaldi fondamentali di un ordinamento che aneli a
essere definito garantista. Più precisamente, i principi enunciati dal Beccaria possono
essere sintetizzati nel modo seguente:
• concezione utilitaristica del diritto penale, in ragione della quale il sistema
penalistico non deve porsi l'obiettivo di far trionfare un'astratta virtù morale, bensì
intervenire solo quando sia assolutamente necessario e socialmente utile;
• certezza e chiarezza del diritto penale, in quanto è diritto di tutti i cittadini conoscere
in precedenza ciò che è vietato e ciò che è consentito dalla legge penale;
• la pena deve colpire il delinquente in misura proporzionata al male dallo stesso
commesso (ed. principio di proporzionalità della pena), ma le sue finalità devono
essere esclusivamente quelle di impedire al delinquente di danneggiare di nuovo la
società (ed. prevenzione speciale), nonché di distogliere i consociati dal commettere
reati dello stesso genere (ed. prevenzione generale);
• le pene, stabilite in modo chiaro e tassativo dal legislatore, devono essere inflitte con
rapidità, in quanto il potere intimidatorio di una pena mite, ma certa, è maggiore di
quello di una pena terribile, ma incerta nella sua applicazione.
Beccaria, infine, volge lo sguardo anche ai temi processuali, perché egli è consapevole
che le regole della procedura costituiscono un ambito essenziale del sistema penale:
non a caso, le pagine dedicate alla pratica della tortura e alla pena di morte sono tra le
più note del suo manuale (in particolare, per ciò che concerne la parte relativa alla pena
di morte, la cui abolizione viene giustificata in termini contrattualistici, in virtù del
fatto che nessun essere umano sarebbe disposto a concedere alla società il diritto di
disporre della propria vita).

d) l'illuminismo penale e le origini del diritto penale liberale


Il primo ad elaborare e ad approfondire le idee del Beccaria sarà Gaetano Filangieri,
nell'opera La scienza della legislazione, attraverso la quale l'autore non solo compie
una sistemazione delle più importanti categorie giuridico-penali (dall''imputabilità, al
dolo, al delitto tentato), ma rielabora, altresì, su nuove basi, la classificazione dei reati e
delle pene.
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L'esigenza di eseguire uno studio analitico delle principali categorie penalistiche (in
particolare per ciò che concerne il tema relativo alla teoria della pena), sarà avvertita
anche da Mario Pagano, il quale, attraverso la teoria della minaccia penale come un
contrario motivo rispetto ai motivi a delinquere, anticiperà l'elaborazione del concetto
di prevenzione generale mediante intimidazione.
Seguendo questo schema, Pagano considera la pena come la perdita di un diritto per
un diritto violato o per un dovere omesso; per essere giusta, quindi, essa deve
corrispondere al delitto sia per la qualità che per la quantità. Anche per Pagano, tuttavia,
il fine (o scopo) del diritto penale resta quello di prevenire i delitti, ed è in quest'ordine
di idee che egli maturerà la sua teoria del contrario motivo: in altre parole, al piacere
derivante dalla commissione del delitto, il legislatore deve opporre (al reo e agli altri
consociati) il timore della pena, quale argine fortissimo e potente ostacolo (in
quest'ottica, la pena viene configurata come controspinta alla spinta criminosa).
Negli stessi termini si pone, infine, la teoria penale di Gian Domenico Romagnosi, che
si ispira, infatti, alla concezione del diritto penale come strumento di difesa sociale:
degna di nota qui è, in particolare, la significativa sintonia con il famoso enunciato del
giurista tedesco Anselm von Feuerbach, per il quale, infatti, la pena si configura come
coazione psicologica all'osservanza del precetto.

§3. Il diritto penale dell'età liberale

a) Francesco Carrara e la Scuola classica del diritto penale


Il pensiero penalistico italiano troverà la sua espressione più compiuta verso la metà del
1800 attraverso l'opera di Francesco Carrara, capostipite della ed. Scuola classica del
diritto penale. Carrara, in particolare, distingue non solo tra una parte generale ed una
parte speciale del diritto penale, ma altresì tra una parte pratica e una parte teorica
della scienza penalistica:
• nella parte teorica si interpreta una legge eterna ed immutabile come modello al quale
tutti debbono uniformarsi;
• nella parte pratica, invece, si interpreta una legge umana e variabile, alla quale tutti
sono tenuti ad uniformarsi, fintanto che vige (in tal modo, Carrara riesce a compiere una
sistemazione organica del diritto penale e ad elevarlo, così, a dignità scientifica). È bene
precisare, inoltre, che Carrara considera il diritto penale come un sistema teso alla
tutela della libertà individuale e (cosa ancor più importante) definisce il delitto come
l'infrazione della legge dello Stato, promulgata per proteggere la libertà dei cittadini,
risultante da uno specifico atto esterno dell'uomo, positivo o negativo, che risulti
moralmente imputabile: così ragionando, l'autore contribuirà a dare un'impostazione
astratta del diritto penale, staccandolo non solo dalla considerazione della personalità
dell' uomo delinquente, ma anche dalle cause sociali del delitto.
L'indirizzo di pensiero denominato Scuola classica amerà, in seguito, definirsi Scuola
giurìdica: e ciò al fine di contrapporsi a quegli orientamenti della scienza penalistica a
cui si addebitavano concezioni di carattere socio-antropologico.

b) il Codice Zanardelli del 1889


Sui postulati della Scuola classica si modellò il primo Codice penale dell'Italia unita: il
Codice Zanardelli (dal nome del ministro della giustizia dell'epoca) il quale, entrato in
vigore il 1° gennaio 1890, andò a sostituire il codice penale sardo del 1859. Al centro
del dibattito sulla riunificazione della legislazione penale vi fu soprattutto l'annosa
questione circa l'abolizione della pena di morte (a lungo ritenuta irrinunciabile, specie
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nelle province del meridione, che erano infestate dal brigantaggio); e fu proprio a causa
di questa diatriba che i lavori preparatori del nuovo codice durarono oltre vent'anni, al
termine dei quali, tuttavia, prevalse l'opzione abolizionista, quanto alla pena capitale
(che, di fatto, già non veniva applicata da oltre un decennio, al tempo della
promulgazione del codice).

Va tenuto presente, in ogni caso, che il nuovo codice penale prevedeva, rispetto alla
legislazione preunitaria, non solo l'abolizione della pena di morte, ma anche:

• massimi e minimi di pena meno elevati;


• la riprensione giudiziale, per i reati di lieve entità;
• richiedeva, per la punibilità del tentativo, l'inizio di esecuzione del delitto;
• distingueva e graduava la responsabilità dei concorrenti nel reato, prevedendo
delle figure secondarie di compartecipi;
• attenuava gli eccessi del cumulo materiale delle pene, nel concorso di reati;
• disciplinava, per la prima volta, l'estradizione, escludendola per i reati politici;
• introduceva, infine, l'istituto della liberazione condizionale dei condannati.
Quanto alla funzione della pena, nei fatti il codice si manteneva ben saldo agli scopi
della prevenzione generale: non mancavano, però, i riflessi di istanze retributive
tipiche della dottrina liberale, che infatti emergevano nella fissazione dei
presupposti e nella graduazione della responsabilità penale).

Il codice, inoltre, dedicava degli ampi riferimenti alla categoria dell'imputabilità (che
era fondata sulla coscienza e libertà dei propri atti), ai criteri di imputazione soggettiva
del reato (dolo, colpa, responsabilità oggettiva), alle cause di giustificazione.
Ovviamente, all'interno del nuovo codice venivano enunciati i princìpi fondamentali
propri del garantismo illuministico-liberale: dal principio di legalità alla regola della
irretroattività della legge penale.
Per converso, nella parte speciale del codice affioravano, però, le esigenze di tutela di
classe, sia nel sistema dei delitti contro la sicurezza dello Stato, che in relazione ad
altre categorie di reati; d'altra parte, i contenuti garantistici del nuovo codice venivano
puntualmente disattesi dal ricorso alla legislazione di pubblica sicurezza e alle misure
di polizia: per cui, non ci si può sorprendere se il codice del 1889 (che certo segnava un
momento fondamentale di unificazione e di progresso) provocò l'effetto di spaccare
letteralmente in due la cultura giuridica italiana.

c) la Scuola positiva del diritto penale


A differenza della Scuola classica, la Scuola positiva del diritto penale prese le mosse
da una visione del mondo che derivava dal positivismo scientifico; il fondatore di
quest'indirizzo di pensiero fu il famoso antropologo Cesare Lombroso, il quale, nel suo
manuale (L'uomo delinquente, 1876) ritenne di essere in grado di determinare il tipo
antropologico del delinquente (il c.d. delinquente-nato).
Poggiando su queste basi, però, il diritto penale vagheggiato dai seguaci della Scuola
positiva non era più un diritto penale del fatto, bensì dell'autore, in quanto tutto era
incentrato sulla pericolosità sociale del soggetto: ragionando in questi termini, allora,
la funzione del diritto penale (e, in particolare, della sanzione penale) fu interamente
spostata in un'ottica special-preventiva, da perseguirsi sia in forma di terapia, sia in via
eliminativa (fino alla condanna a morte ovvero alla sanzione detentiva perpetua per i
delinquenti incorreggibili).
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All'apice del suo successo, la Scuola positiva si fece promotore anche di un Progetto
preliminare di codice penale italiano (si tratta del ed. progetto Ferri, del 1921), che era
orientato all'accoglimento di tutti i presupposti (sia filosofici che politico-criminali)
dell'indirizzo positivistico: dalla negazione della distinzione tra delinquenti
imputabili e non imputabili, alla segregazione a tempo - assolutamente o
relativamente - indeterminato, alla parificazione del tentativo al delitto consumato,
alla costruzione delle circostanze, sia aggravanti che attenuanti, esclusivamente in
funzione della pericolosità del delinquente. Il progetto Ferri, in ogni caso, non riuscì
ad ottenere la trasformazione in legge dello Stato, anche perché, di lì a poco, si
sarebbero prodotti in Italia dei mutamenti politici molto significativi.

§4. Il codice penale del 1930 (ed. Codice Rocco)


Con l'avvento del fascismo, lo scontro ideologico tra Scuola classica e Scuola positiva
venne superato da un nuovo indirizzo di pensiero, denominato tecnicismo giuridico:
questi si contrassegnava per il rifiuto di ogni discussione concernente i presupposti
filosofici e politico-criminali del diritto penale: a conferma di ciò, invero, discipline
come l'antropologia, la filosofia del diritto e la politica criminale vennero additate come
mere scienze speculative, idonee solo ad inquinare la purezza delle costruzioni
giuridiche (per questa corrente di pensiero, dunque, solo il diritto positivo poteva
formare oggetto della scienza giuridico-penale).
E proprio al programma del tecnicismo giuridico si ispirò, in seguito, il nuovo codice
penale, denominato Codice Rocco (dal nome del ministro guardasigilli dell'epoca), il
quale entrò in vigore il 1° luglio 1931: in dettaglio, il nuovo codice penale, tutt'oggi
ancora operante, presentava una parte generale fortemente strutturata che, accanto ai
primi due titoli (dedicati alla legge penale ed alla pena), conteneva un Titolo HI (Del
reato), ricco di definizioni analitiche degli elementi essenziali ed accidentali del reato e
delle più collaudate ipotesi di non punibilità.
È bene precisare, però, che (nonostante l'evidente chiusura del sistema nei confronti
delle concezioni liberali) la nuova legge penale non rinunciò al più caratteristico dei
principi illuministici in materia penale, vale a dire il principio di legalità dei reati e
delle pene: e ciò sia per 1' ovvia difficoltà di rimuovere una regola radicata da ormai
oltre un secolo nella coscienza giuridica europea, sia per la sostanziale irrilevanza di
essa nel quadro dello Stato autoritario, che, ben più apertamente di quello liberale,
poteva utilizzare contro i suoi avversari politici le misure di polizia ed il relativo
apparato repressivo.
Il principio di legalità, del resto, si inquadrava, a ben vedere, in un sistema orientato a
ridurre al minimo non solo lo spazio di intervento della dottrina, ma anche quello della
discrezionalità del giudice: basti pensare che la parificazione delle condotte di tutti i
concorrenti nel reato, la disciplina del rapporto di causalità, la punibilità degli atti
preparatori nel tentativo, l'estensione della responsabilità oggettiva, le particolari
regole sul concorso di reati ed il regime delle circostanze aggravanti rappresentavano
maglie tese ad imprigionare proprio l'interprete ed il giudice.
Per quel che concerne la funzione della pena, essa veniva ricondotta dai compilatori del
codice alla funzione di prevenzione generale, mediante intimidazione; va detto, però,
che erano anche presenti elementi di prevenzione speciale: basti pensare agli istituti
della sospensione condizionale della pena e del perdono giudiziale (riservato ai
minori, rispetto ai quali soltanto il nuovo codice riconosceva alla pena concorrenti
finalità di rieducazione morale).
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A queste limitate concessioni alle istanze special-preventive, si affiancava la ben più


corposa innovazione legislativa, costituita dall'introduzione delle misure di sicurezza
(strumenti, come sappiamo, atti a prevenire l'ulteriore commissione di reati da parte
dell'agente): in tal modo, il codice Rocco, introducendo il ed. sistema a doppio binario
(pene e misure di sicurezza), finiva per raddoppiare le potenzialità repressive dello
Stato.
Nella parte speciale, invece, il codice penale esprimeva una sostanziale continuità con
la legislazione precedente (e ciò perché l'avvento del fascismo non aveva modificato
minimamente l'assetto socio-economico); in quest'ottica, una cura particolare venne
riservata al tema dei delitti contro la personalità dello Stato: in questo settore, infatti,
le mutate condizioni politiche permisero al nuovo regime di costituire un efficace ed
ampio sistema di repressione del dissenso politico, assicurato, quest'ultimo, da alcune
disposizioni contenute nel Titolo dedicato ai delitti contro l'ordine pubblico e da alcuni
illeciti contravvenzionali (artt. 654, 656 e 657 c.p.), che andavano a completare la serie
dei numerosi reati di opinione criminalizzati dal codice.
Ulteriori contrassegni del clima politico autoritario erano, poi, visibili nella creazione
di un nuovo titolo (Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe) e nella
disciplina dei delitti in materia di religione, ove si registrava una tutela privilegiata per
il culto cattolico (il quale, infatti, in seguito al Concordato con la Santa Sede, aveva
assunto di nuovo il ruolo di religione dello Stato).
Il nuovo codice incriminava, inoltre, le condotte di sciopero e di serrata, nonché altri
comportamenti diretti contro la nuova facciata dirigistica di uno Stato che, in realtà, si
guardava bene dall'intaccare l'assetto capitalistico dell'economia. Nel complesso,
l'immagine che scaturiva dall'analisi del Codice Rocco poteva essere paragonata ad una
piramide, che presentava - al suo vertice - l'idea dello Stato e che, discendendo
gradatamente attraverso i reati contro i suoi organi, i suoi apparati e la sfera pubblica,
trovava soltanto alla sua base i reati contro la sfera privata (famiglia, persona e
proprietà).

§5. Il diritto penale tra il codice Rocco e la Costituzione repubblicana Ad oltre 50 anni
dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla caduta del regime fascista, non si sono
mai determinate, in Italia, le condizioni per il varo di un nuovo codice penale; vi sono
state, tuttavia, riforme parziali di stampo legislativo, nonché ripetuti interventi della
Corte costituzionale, che hanno contribuito di sicuro a modificare la fisionomia del
sistema codicistico.
In particolare, tra gli interventi legislativi di più ampia portata ricordiamo:
• la L. 220/74, la prima e la seconda legge penitenziaria (L. 354/75 e L. 663/86) e la
L. 689/81 (denominata Modifiche al sistema penale);
• altra importante novità legislativa è, poi, costituita dalla L. 274/2000, attraverso la
quale sono state attribuite al giudice di pace limitate competenze in materia penale.
Al di là delle riforme legislative citate, però, quel che conta qui rilevare è soprattutto
l'importanza che rivestono, per il diritto penale, le norme della nostra Costituzione:
ci riferiamo, in particolare, a quelle contenute negli artt. 25, co. 2 e 3 e 27, co. 1, 3 e
4 (principio di legalità e principio della personalità della responsabilità penale).

Parte II
La legge penale
Capitolo I

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