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PARTE PRIMA - DIRITTO PENALE E LEGGE PENALE

CAPITOLO 1 – CARATTERISTICHE E FUNZIONI DEL DIRITTO PENALE

Il diritto penale disciplina i fatti costituenti reato, si definisce reato ogni fatto umano a cui la legge
riconnette sanzioni penali. Sono sanzioni penali la pena e la misura di sicurezza che tendono al
comune obiettivo di difendere la società dal delitto e di risocializzare il delinquente. Questi tre sono i
pilastri del diritto penale.

Il reato ruota attorno a tre principi – cardine:

 Principio di materialità: non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un
comportamento esterno;
 Principio di offensività: affinché sussista reato è necessario che il comportamento leda o
ponga in pericolo beni giuridici;
 Principio di colpevolezza: un fatto materiale lesivo di beni giuridici può essere penalmente
attribuito all’autore soltanto nel momento in cui gli si possa rimproverare di averlo
commesso.

Necessità del ricorso allo strumento penale


La necessità di ricorrere al diritto penale come strumento di tutela si ha in quanto gli altri mezzi di
protezione dell’ordinamento non risultano sempre idonei a prevenire la commissione di fatti
socialmente dannosi, per cui soltanto la sanzione penale, che per antonomasia è la pena detentiva, in
taluni casi appare inevitabile per scoraggiare le azioni dannose di coloro i quali non avvertirebbero
l’effetto di sanzioni pecuniarie o perché possono permettersi tutto o perché non posseggono nulla. Le
sanzioni penali hanno una duplica funzione preventiva: generale, perché la minaccia della sanzione
penale tende a distogliere la generalità dei consociati dal commettere reati; speciale, perché la concreta
inflizione della pena mira ad impedire che il singolo autore del reato torni a delinquere.

Funzioni di tutela del diritto penale: la protezione dei beni giuridici


Il diritto penale, tramite le sanzioni, si pone a difesa dei beni giuridici definibili come beni socialmente
rilevanti e quindi meritevoli di protezione giuridica. Recentemente la dottrina ha posto l’accento sul
carattere dinamico dei beni giuridici quali oggetti di tutela penale, concependolo non come interesse
dotato di valore in sé stesso, ma soltanto nella misura in cui produce effetti utili nella vita sociale. In
altri termini, assurge a bene giuridico soltanto quell’interesse, o quell’accorpamento di interessi,
idonei a realizzare un determinato scopo utile per il sistema sociale.

La protezione dei beni giuridici persegue un obiettivo pratico e socialmente utile: proteggere beni e
interessi dalla cui tutela dipende la garanzia di una convivenza pacifica, per questo motivo si giustifica
la sanzione punitiva soltanto nei casi in cui il ricorso ad essa appare indispensabile per questo scopo.
L’idea di diritto penale come strumento di protezione di beni socialmente rilevanti comporta una serie
di inconvenienti: da un lato alcune fattispecie criminose sono poste a tutela di beni di dubbia
identificazione e consistenza; dall’altro sono incriminate condotte che non raggiungono la soglia di
una percepibile aggressione all’interesse protetto (reati di sospetto). Pertanto, l’idea della protezione di
beni giuridici, nel tempo, ha sollevato diversi problemi teorici dati dalla difficoltà nella
determinazione dei beni assumibili a oggetto di tutela penale.

1. Birnbaum critica la concezione di reato come violazione di un diritto soggettivo perché


ritiene che questa non sia in grado di spiegare la punizione di fatti lesivi di beni considerati di
particolare rango (moralità pubblica e sentimento religioso) ancorché non riconducibili al

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paradigma del diritto soggettivo. Finiva così col riconoscere un catalogo più ampio di legittimi
oggetti della tutela penale.
2. Liszt richiama la concezione di Jhering secondo la quale lo scopo del diritto penale è
soddisfare bisogni sociali preesistenti alla disciplina giuridica, per tale ragione Liszt propone
un concetto materiale di bene giuridico basato su interessi preesistenti alla valutazione del
legislatore. Il contenuto antisociale dell’illecito non viene creato dalla norma giuridica ma da
essa stessa creato. L’impostazione incorre in un grave limite: non riesce ad individuare dei
precisi criteri atti a selezionare i dati pregiuridici utili a materializzare il concetto di bene
giuridico.
3. Arturo Rocco elabora un indirizzo cd. tecnico giuridico; criticando la concezione di bene
giuridico come dato preesistente al legislatore, ritiene che la determinazione del concetto di
bene giuridico coincida con l’oggetto di tutela di una norma penale già emanata essendo il
legislatore a creare il bene giuridico. Nello specifico, Rocco ritiene rilevante il concetto di
oggetto giuridico sostanziale specifico che coincide con il bene o l’interesse di pertinenza del
soggetto passivo del reato e che risulta essere specificamente protetto dalla norma
incriminatrice. Da questo concetto Rocco distingue l’oggetto giuridico formale (diritto dello
stato all’obbedienza delle proprie norme da parte dei cittadini) e oggetto giuridico sostanziale
generico (interesse dello stato alla sicurezza della propria esistenza).
4. La dottrina tedesca abbraccia la concezione metodologica, che contesta il ruolo centrale del
bene giuridico nella configurazione della fattispecie incriminatrice, ritenendo altrettanto
importanti altri elementi: modalità della condotta aggressiva, i motivi a delinquere, la funzione
della pena, ecc. Secondo i metodologi il concetto di bene giuridico si riduce così allo scopo
della norma penale confermando l’idea che esso non preesiste alla norma ma rappresenta il
risultato di una cosiddetta interpretazione di scopo (bene giuridico = ratio legis).
5. Nell’ordinamento nazionalsocialista pone al centro del reato la violazione del dovere di
fedeltà dello stato etico, impersonato del Fuhrer. La determinazione dei comportamenti
punibili si basa sul sentimento popolare basato su valori etici comportando un’assimilazione
della sfera dell’etica in quella del diritto.
6. A partire dai primi anni Sessanta, in Germania parte della dottrina propone di tornare ad un
concetto pre – positivo di bene giuridico, cioè preesistente al suo riconoscimento normativo,
con l’obiettivo di emancipare il più possibile il diritto penale dalla tradizionale subordinazione
alla morale corrente. Infatti, l’attacco critico coinvolge tutte quelle fattispecie (omosessualità,
pornografia, bestemmia) che rappresentano un residuo di concezioni eticheggianti in contrasto
con quelle che dovrebbero essere le finalità di un diritto penale liberal democratico e quindi
laico e secolarizzato. Il limite di questa concezione risiede nell’incapacità di individuare in
modo idoneo i beni giuridici da proteggere.

La dottrina successiva ha assunto la Costituzione a fondamento nella scelta di ciò che può
legittimamente assurgere a reato, elaborando così la teoria costituzionalmente orientata del bene
giuridico. Secondo questa teoria, il bene giuridico preesiste alla valutazione del legislatore ordinario e
risulta desumibile dalla costituzione vincolando così il legislatore penale. Le norme costituzionali alle
quali si ricollega la teoria sono:

 L’art.25 c.2 Cost riduce il campo dell’illiceità penale affidando esclusivamente al Parlamento
e al Governo, tramite decreti-legge e decreti legislativi, il potere di legiferare in materia penale
(riserva di legge);
 L’art. 27 c.1 Cost sancisce il carattere personale della responsabilità penale, limitandone il
ricorso a circostanze in cui risulta più funzionale rispetto a tecniche di tutela extra
penale

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 L’art. 27 c.3 Cost. attribuisce alla pena la funzione rieducativa e presenta come illeciti penali
solo fatti lesivi di valori suscettibili di essere assunti a meta del processo di rieducazione
del condannato.
 L’art. 13 Cost. sancisce il carattere inviolabile della libertà personale limitando l’uso della
coercizione penale ai soli casi in cui risulta inevitabile la restrizione della libertà.
 Gli artt. 2 – 3 Cost. la pena sacrifica, oltre alla libertà personale, la dignità sociale e la piena
estrinsecazione della libertà umana.

L’esigenza di una legittimazione costituzionale della tutela penale sussiste tanto nel caso della
sanzione detentiva quanto in quello della sanzione pecuniaria, infatti, intaccando il patrimonio
influisce negativamente sulla dignità sociale dell’autore del reato a causa riprovazione sociale
conseguenza dell’imputazione di un reato. Il bene della libertà personale torna ad essere coinvolto nei
casi di insolvibilità del condannato alla luce del meccanismo di conversione della pena pecuniaria
ineseguita nella sanzione della libertà controllata.

La tutela penale è accordabile anche quei beni che trovano un riconoscimento implicito nella
Costituzione, o perché risultano essere collegati tramite un nesso funzionale di tutela ad un bene
espressamente contemplato dalla costituzione o perché, pur non essendo menzionati nella costituzione,
rientrano nel sociale dei valori che fa da sfondo all’ordinamento costituzionale (es. pietà dei defunti).
Alla luce di ciò, l’estensione della tutela ai bene di rilevanza costituzionale anche implicita consente di
tutelare anche beni non emersi quando la costituzione non era ancora entrata in vigore. Ancora, di
fronte ad un potenziale nuovo bene meritevole di protezione, non raramente si tratta di proteggere un
bene già esistente da una nuova forma di aggressione Tuttavia, la teoria costituzionalmente orientata
non comporta automaticamente che la rilevanza costituzionale del bene faccia sorgere l’obbligo per il
legislatore di creare fattispecie penali finalizzate alla sua salvaguardia, ma offre soltanto un criterio di
legittimazione negativa: delimita l’area di ciò che il legislatore ritiene penalmente punibile. Infatti, una
volta che il bene risulta essere costituzionalmente tutelato, la scelta relativa al se e come punire, spetta
al legislatore, rispettando il criterio della sussidiarietà e della meritevolezza della pena.

Individuiamo un duplice problema di compatibilità tra Costituzione e figure di reato contenute


nell’ordinamento che comporta da un lato la verifica di sussistenza di fattispecie poste a tutela di beni
sufficientemente definiti e dall’altro la verifica di conformità ai principi costituzionali delle tecniche di
tutela per garantire la salvaguardia del bene.

1. Relativamente al primo problema vanno analizzate le figure di reato prive di bene


giuridico. In questa categoria rientrano reati (pornografia, gioco d’azzardo) che sollevano
svariate problematiche. È controverso se al diritto penale spetti la salvaguardia di valori
attinenti alla sfera etica la cui violazione non comporti tangibili danni diversi dall’offesa alla
morale (reati senza vittima). Il problema sollevato da questi reati è quello relativo alla
legittimità del diritto penale di imporre ai cittadini una concezione morale, cui segue una
risposta sicuramente negativa in termini di possibilità.
Inoltre, appare problematico individuare il bene giuridico meritevole di tutela in tutti in quei
casi in cui le norme penali prendono in considerazione interessi superindividuali o ad ampio
raggio o ancora di più recente emersione storica (ambiente, territorio). In questi casi è come se
il diritto penale non tutelasse beni giuridici in senso tradizionale ma funzioni amministrative
volte a garantire il regolare esercizio di determinate attività (ad es. norme penali in materia di
inquinamento che non vietano i comportamenti idonei a corrompere l’aria o l’acqua ma
mirano a rendere compatibili l’interesse alla purezza degli elementi naturali e gli interessi
connessi alla produzione industriale e agricola). In questi casi si ha una sorta di

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volatilizzazione dell’oggetto della tutela che sposta il problema sul piano della corretta tecnica
di strutturazione delle fattispecie incriminatrici.
Problematici appaiono, inoltre, i delitti omissivi cd. propri, consistenti nella mera inosservanza
di un obbligo di condotta penalmente sanzionato.

2. Il secondo profilo è quello relativo alle tecniche di tutela adottate dal legislatore per garantire
la salvaguardia del bene; nello specifico, sollevano problemi di costituzionalità i seguenti
modelli criminosi:
 Reati di sospetto > il legislatore incrimina, in modo preventivo, fatti che non ledono né
mettono in pericolo il bene protetto, sulla base della presunta pericolosità dell’agente più che
sulla idoneità offensiva della condotta.
 Reati ostativi > si tratta di una incriminazione di condotte che potrebbero comportare ulteriori
condotte che potrebbero ledere o mettere in pericolo il bene giuridico protetto. Si parla di
delitto ostativo perché mira ad impedire la realizzazione di una ulteriore condotta lesiva (es.
incriminazione del possesso di sostanze stupefacenti quale momento prodromico allo spaccio).
Affinché possano essere considerati reati è necessario che l’idoneità preventiva della
fattispecie sia empiricamente verificabile, ossia abbia riscontro concreto e che il bene da
salvaguardare sia di elevato rango.
 Reati di pericolo presunto in senso stretto > condotta che si presume possa mettere in
pericolo il bene protetto secondo una regola di esperienza.
 Delitti di attentato > si tratta di una figura di reato che colpisce gli atti preparatori di condotte
finalizzate ad offendere interessi relativi alla personalità dello Stato.
 Reati a dolo specifico con condotta neutra 🡪 il legislatore incrimina condotte che potrebbero
costituire esercizio di un diritto costituzionalmente riconosciuto ma che sulla base dello scopo
perseguito assume rilevanza penale (dolo specifico, es. reati di associazione sovversiva).
Tuttavia, il ricorso al dolo specifico non è sufficiente ad incriminare una condotta di per sé
legittima se ha una finalità meramente psicologica che non incrementa la lesività del fatto
materiale.

Sindacato di legittimità costituzionale sulle norme penali

La Corte costituzionale può avvalersi della teoria costituzionale dei beni giuridici per determinare la
legittimità delle norme penali incriminatrici, ossia sindacare sul processo di selezione dei beni oggetto
di tutela penale? La risposta è sicuramente negativa, perché quel processo di selezione rientra nella
discrezionalità valutativa del legislatore penale e un controllo della corte sui tradurrebbe in una
inammissibile ingerenza nelle scelte politiche del parlamento in quanto, il criterio della rilevanza
costituzionale del bene non è univo e stringente da consentire controlli sufficientemente rigorosi, ma,
al contrario, può dare luogo a soluzioni fortemente opinabili.

Il criterio della rilevanza costituzionale del bene può fungere da parametro di legittimità solo nei casi
di macroscopica inconsistenza dell’interesse protetto.

Questo non significa che è escluso un qualsiasi controllo di legittimità sulle norme penali, ma questo
ha ad oggetto il rapporto che intercorre tra la norma penale denunciata e l’esercizio di libertà
costituzionalmente garantite.

L’applicazione di questo modello ha condotto a pronunce inquadrabili sotto tre diverse categorie:

1. Sentenze di rigetto--> la corte ha salvato delle fattispecie di matrice autoritaria del codice
Rocco salvando le norme penali oggetto del sindacato che, seppur contrastanti con dei
fondamentali diritti di libertà, risultano finalizzate alla tutela di beni di rango costituzionale;

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nel bilanciamento tra l’esercizio di quelle libertà e tutela di un bene di rango costituzionale,
risulta prioritario quest’ultima.
2. Sentenze manipolative del bene protetto--> l’esigenza di conservare nell’ordinamento
figure di reato sospettate di contraddire principi costituzionali ha, talvolta, indotto la Corte a
riformulare oggetto della tutela in modo da renderlo maggiormente compatibile con la
Costituzione (es. delitto di sciopero: relativamente alle norme in materia di sciopero, esse
tutelavano in origine l’economia corporativa dello Stato fascista; divenuto diritto
costituzionalmente garantito, piuttosto che dichiarare incostituzionale le norme penali
incriminatrici, la Corte ne ha operato il salvataggio reinterpretando la portata della norma).
Tali interventi manipolativi dei giudici destano non poche perplessità: pertanto, la legittimità
di queste sentenze è subordinata a limiti rigorosi:
 La riformulazione deve imporsi come quasi obbligata perché discende pressoché
automaticamente ed univocamente dall’applicazione delle norme costituzionali
coinvolte. Pertanto, la riformulazione del bene protetto altro non è che il risultato di
una reinterpretazione costituzionalmente orientata.
 Deve pur sempre ricondursi al tenore letterale della fattispecie incriminatrice, nel
senso che questa deve risultare compatibile con lo schema formale del fatto di reato.
3. Sentenze di accoglimento--> si hanno quando le norme penali comprimono illegittimamente
libertà o diritti costituzionalmente garantiti senza che tale compressione possa considerarsi
giustificata dall’esigenza di tutelare altri beni o interessi costituzionalmente rilevanti.

La teoria costituzionale del bene giuridico non ha solo un rilievo teorico ma anche un risvolto pratico,
perché ha avuto due effetti:

- Ha circoscritto l’area del penalmente rilevante in quanto non possono legittimamente essere
elevati a reato fatti che consistono nell’esercizio di libertà fondamentali garantite dalla
costituzione. D'altro canto, il legislatore non è legittimato ad incriminare l’immoralità in sé
perché non è compito del diritto penale di uno stato pluralistico conforme a costituzione
educare i cittadini adulti alla moralità. Da qu la soppressione e la modifica delle fattispecie più
discutibili rinvenibili nell’ambito dell’ordine pubblico, della religione e del buon costume.
Sempre in quest’ottica di decriminalizzazione sono stati repressi anche gli illeciti bagatellari.
- Ha dilatato l’area dei fatti punibili rafforzando la salvaguardia di alcuni valori collettivi come
la salute e l’ambiente che la coscienza sociale odierna vorrebbe più incisivamente protetti.

Vi sono altri orientamenti teorici minori che ridimensionano il ruolo della protezione dei beni giuridici
nell’ambito del diritto penale:

a. Welzel > dice che il compito primario del diritto penale è assicurare la tutela dei beni
socialmente rilevanti, ma questo è un obiettivo indiretto che si raggiunge incriminando anche i
comportamenti privi di una reale minaccia a bene protetto, con l’obiettivo “primario” di
orientare e formare le coscienze dei cittadini adulti, assolvendo a una funzione di orientamento
psicologico o culturale.
b. Amelung > dice che il reato si deve definire come un fatto socialmente dannoso, quindi
richiama il concetto di dannosità sociale come qualcosa che ostacola il funzionamento del
sistema sociale.
c. Jakobs > ciò che rileva non è la lesione di un bene ma semplicemente il fatto che sia stata
violata una norma, nello specifico di carattere penale. Compito del diritto penale è confermare
la obbligatorietà e validità della norma violata.

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d. Hassmer > adotta un approccio sociologico nel tentativo di individuare i fattori sociali che
abitualmente presiedono al processo legislativo di penalizzazione della condotta umana, ad es.
Frequenza condotta criminosa, intensità del bisogno di preservare il bene e intensità della
minaccia diretta contro di esso.

Resta pur sempre dominante a livello europeo l’idea della tutela dei beni giuridici.

Principio di sussidiarietà
Si parla di carattere sussidiario del diritto penale per esprimere l’idea del diritto penale come extrema
ratio: infatti, il ricorso alla sanzione penale è giustificato

1. Quando è necessario perché gli strumenti di tutela di natura extrapenale sono insufficienti
2. Quando è conforme allo scopo; nel senso che se la sanzione appare sin dall’inizio inidonea a
conseguire l’obiettivo perseguito, il ricorso ad essa è illegittimo perché sarebbero inutili ed
ingiustificati i costi a carico del condannato

Questo principio è una specificazione del principio di proporzione secondo il quale le misure
restrittive dei diritti dei singoli sono ammesse solo nei casi di stretta necessità, ossia quando siano
indispensabili per la tutela del bene comune.

Questo principio si presta a due diverse accezioni:

a. Concezione ristretta: il ricorso alla sanzione penale è ingiustificato quando la salvaguardia


del bene è già ottenibile mediante sanzioni extra-penali in quanto a parità di efficacia bisogna
optare per lo strumento di tutela che comprime meno i diritti del singolo. Questa visione è più
moderna e laica e consente meglio di raccordare la tutela penalistica e quelle di carattere
extra-penale.
b. Concezione ampia: la sanzione penale è comunque da preferire anche nei casi di non
strettissima necessità quando, però, la funzione stigmatizzante propria della pena è utile ai fini
di una più forte riprovazione del comportamento criminoso perché le misure extra-penali
astrattamente idonee in quanto meno screditanti non sempre riescono ad essere concretamente
efficaci.

Principio di meritevolezza della pena


Secondo questo principio la sanzione penale deve essere applicata non in presenza di una qualsiasi
aggressione ad un bene meritevole di tutela ma solo nei casi in cui l’attacco raggiunga un livello di
gravità tale da risultare intollerabile.

Quanto più alto è il livello del bene all’interno della scala gerarchica della costituzione quando più
giustificato risulterà asserire la meritevolezza della pena dei comportamenti che ledono o pongono in
pericolo il bene; se il valore del bene è più basso nella scala gerarchica, tanto più giustificato apparirà
la reazione penale a forme particolarmente gravi di aggressione.

Principio di frammentarietà
Il diritto penale ha carattere frammentario. Il principio di frammentarietà opera su tre livelli:

1. Alcune fattispecie di reato non tutelano il bene da ogni aggressione proveniente da terzi ma
solo contro alcune specifiche forme di aggressione;
2. Ciò che rileva penalmente è più limitato rispetto a quello che è qualificato come antigiuridico
secondo l’ordinamento (es. violazioni contrattuali)

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3. L'area del penalmente rilevante non coincide con ciò che è moralmente riprovevole (es.
omosessualità per alcuni paesi)

Vi sono alcune obiezioni contro il carattere frammentario:

- Si è rilevato che la frammentarietà della tutela penale contrasterebbe con l’esigenza di


reprimere tutti i comportamenti lesivi di un bene protetto, anche se non formalmente tipizzati.
Per rimediare a ciò la giurisprudenza talvolta ricorre ad interpretazioni estensive delle
fattispecie incriminatrici (es. Interpretazione estensiva del concetto di aiuto nel
favoreggiamento personale). Tuttavia, queste interpretazioni estensive rischiano di condurre
ad una assolutizzazione che fa perdere di significato le scelte del legislatore nel processo di
criminalizzazione.
- Si è anche osservato che la frammentarietà contrasta con l’esigenza di risocializzazione quale
obiettivo della pena perché se la pena deve tendere non solo ad impedire la recidiva ma
soprattutto a riorientare il reo sarebbe più coerente penalizzare tutte le condotte lesive dei ben
meritevoli di tutela.
Inoltre, la criminalizzazione solo di alcuni tipi di aggressione allo stesso bene può ingenerare
nell’autore del reato la mentalità della vittima a causa della disparità di trattamento relativa alla
modalità di aggressione.

CAPITOLO 2 – LA FUNZIONE DI GARANZIA DELLA LEGGE PENALE

Principio di legalità
Il principio di legalità ha una genesi politica e la sua matrice risale alla dottrina del contratto sociale e
si giustifica con l’esigenza di vincolare il potere dello Stato alla legge.
Il principio di legalità si articola comprendendo anche il divieto di retroattività della legge penale,
secondo il quale non è possibile punire successivamente un’azione che nel momento in cui viene
commessa non è ancora penalmente sanzionata anche se risulta già contraria alla morale o al diritto.
Tale divieto ha trovato riconoscimento formale nelle costituzioni di alcuni stati nordamericani.
È stato Feuerbach a tradurre in termini giuridico-penali questo principio con il canone latino nulla
poena sine lege, al fine della prevenzione attuata con le sanzioni penali perché se la minaccia della
pena deve funzionare da deterrente psicologico, è necessario che i cittadini conoscano prima quali
sono i fatti la cui realizzazione comporta l’inflizione della sanzione.
Questo principio trova il suo fondamento normativo nell’art. 25 comma 2 Cost. e all’art. 7 della
CEDU e l’art. 1 c.p.
L’art. 25 comma 2 della cost. Dice che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso e l’art. 1 c.p. statuisce che nessuno può essere punito per
un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge né con pene che non siano da
esso stabilite. Queste due norme sono coincidenti.
Il principio di legalità ha con destinatari sia il legislatore che il giudice e si articola in quattro sotto-
principi:

1. Riserva di legge
2. Tassatività
3. Irretroattività della legge penale
4. Divieto di analogia

La riserva di legge

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Il principio di riserva di legge esprime il divieto di punire una condotta in assenza di una legge
preesistente che la configuri come reato: sottrae la competenza in materia penale al potere esecutivo.
infatti, soltanto il procedimento legislativo risulta essere lo strumento più adeguato a salvaguardare il
bene della libertà personale, i diritti delle minoranze e delle forze politiche di opposizione, le quali
risultano essere posto in condizione di esercitare un sindacato in termini di individuazione delle
fattispecie criminose.
Affinché la garanzia democratica teoricamente assicurata dal principio di riserva di legge non resti
lettera morta è necessario un accettabile livello del funzionamento democratico nel suo complesso:

 non ci deve essere squilibrio tra le forze politiche del parlamento perché non ci sarebbe
dialettica ma dittatura della maggioranza
 Le scelte in materia di criminalizzazione devono essere fatte oggetto di una qualche forma di
dibattito pubblico al di fuori delle sedi parlamentari.

Questo principio in passato non è stato applicato conformemente alla sua ratio perché vi era l’intento
di conservare buona parte del sistema penale già esistente, comportando questo un tentativo di
ridimensionamento del valore della riserva, cioè accompagnando a precetti primari delle fonti
normative secondarie. Questa concezione non può essere accolta perché finisce con l’alludere alle
esigenze garantistiche.
La riserva di legge va intesa come riserva assoluta, ma in merito vi sono due formulazioni diverse:
1. Una prima è quella elastica che afferma che il carattere assoluto della riserva di legge non
esclude un concorso tra fonte normativa primaria e secondaria. Per giustificare quanto detto, si
è sostenuto che nel momento in cui un elemento della fattispecie viene determinato da un
regolamento questo non viene in considerazione come fonte normativa ma come semplice
presupposto fattuale, ma si ritiene respinta questa concezione anche perché non si comprende
come un atto normativo quale il regolamento vada ridotto a presupposto fattuale.
2. La riserva assoluta esclude che il legislatore attribuisca a una fonte di grado secondario il
potere normativo penale in ossequio al principio nullum crimen sine lege, che comunque non
va interpretato in modo troppo rigoroso in quanto siamo nel contesto di una normazione
penale tendente ad essere sempre più specifica. pertanto, si vuole concedere al potere
regolamentare un intervento normativo anche limitato quando siano consentiti accertamenti di
natura tecnica o specificazioni di dati sempre entro parametri legislativi predeterminati (es.
ministero della salute che con decreto aggiorna le tabelle delle sostanze stupefacenti).

Il concetto di legge nell’art. 25 comma 2 e nell’art. 1 c.p.

Il concetto di riserva di legge rinvia all’atto normativo ai sensi degli artt. 70 e 74 cost.
Sorge una questione relativa all’ammissibilità tra le fonti del diritto penale - oltre che alla legge in
senso formale - le leggi in senso materiale, decreto-legge e legge delegata. Attenendoci ad un
approccio giuridico formale, la dottrina dominante fa rientrare sia il decreto delegato che il decreto-
legge tra le legittime fonti di produzione di norme penali. È possibile dedurre la loro rilevanza anche
in materia penale alla luce del fatto che è lo stesso ordinamento costituzionale a riconoscere a tali
categorie di atti normativi efficacia pari a quella delle leggi ordinarie.
La ratio sottesa al principio della riserva di legge appare poco compatibile con i caratteri della legge
delegata e del decreto legge.
La legge delegata si pone nei confronti della legge delega nello stesso rapporto in cui si pongono le
fonti normative secondarie nei confronti della legge, mentre il decreto-legge caratterizzato dalla

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necessità e dall’urgenza, cozza con le esigenze di ponderazione che sorgono in sede di individuazione
delle fattispecie incriminatrici.

Rispetto alla legge regionale, stante il monopolio della legge statale, si è escluso che questa potesse
essere ricompresa tra le fonti in ipotesi sia di competenza esclusiva che concorrente, perché:

 comportando la scelta circa le restrizioni dei beni fondamentali della persona un impegno
rilevante non può che essere riservata alla competenza statale
 la necessità di assicurare delle condizioni di eguaglianza nella fruizione delle libertà personali
dentro tutto il territorio nazionale, pena la violazione dell’art. 3
 Promuovendo un pluralismo di fonti regionali si entrerebbe in contrasto con il principio di
unità politica dello Stato, in violazione dell’art. 5 cost.
 In richiamo all’art. 120 si fa divieto alle regioni di adottare provvedimenti che possano
ostacolare il libero esercizio di diritti fondamentali dei cittadini

La Corte costituzionale ha ribadito ciò con sent. 487/1989 affermando che la criminalizzazione
comporta una scelta tra beni e valori emergenti nell’intera società che non può essere realizzata dai
consigli regionali ciascuno per proprio conto per la mancanza di una visione generale dei bisogni e
delle esigenze dell’intera società.
Meno problematica appare, invece, la possibilità di ammettere l’intervento di una legge regionale in
funzione scriminante (es. ipotesi di uno stabilimento industriale che scarica sostanze ritenute
inquinanti dalla legge statale ma rientranti nei limiti di tollerabilità stabiliti da successiva legge
regionale). In questi casi, la legge regionale, lungi dall’abrogare una legge statale può avere come
effetto quello di giustificare alcuni comportamenti che possono strettamente rientrare nel precetto
penale ampliando così la sfera della liceità penale. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale
prevalente esclude che la legge regionale possa rendere legittima una attività che lo stato considera
penalmente rilevante o introdurre cause estintive della punibilità diverse da quelle previste dalla
legislazione statale.

Rapporto legge - fonte subordinata: i diversi modelli di integrazione

I modelli di integrazione legge - fonte normativa proposti dal nostro ordinamento sono:
- NORME PENALI IN BIANCO > la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle
condotte concretamente punibili;
- la fonte secondaria disciplina soltanto alcuni degli elementi che concorrono alla descrizione
dell’illecito penale;
- la fonte secondaria si limita a specificare IN VIA TECNICA elementi già predeterminati dalla
fonte primaria;
- la fonte secondaria ha il potere di scegliere comportamenti punibili tra quelli disciplinati dalla
fonte primaria.

1. Si parla di norma penale in bianco con riferimento all’art. 650 c.p. che incrimina
qualsiasi condotta posta in essere in violazione dei provvedimenti dell’autorità
amministrativa. Il contenuto effettivo della norma (“è punito colui che non osserva un
provvedimento emanato dall’autorità amministrativa”) dipende dallo specifico
provvedimento emanato dall’autorità amministrativa presentandosi quindi come un
contenitore vuoto. Ne consegue che l’effettiva determinazione del fatto costituente
reato è affidato alla stessa autorità amministrativa. Nonostante questo, la Corte

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costituzionale ha sostenuto la legittimità della disposizione in questione affermando
che le norme penali in bianco non violano il principio di legalità quando è una legge
dello stato a determinare caratteri, presupposti, contenuti e limiti dei provvedimenti
alla cui trasgressione si riconnette una sanzione penale. Risulta necessario discostarsi
quindi dall’argomentazione che sovrappone il profilo della tassatività a quello della
legalità; nel caso delle norme penali in bianco, infatti, la fonte secondaria non si limita
a specificare elementi di un precetto posto dalla legge ma si spinge fino a formulare
essa stessa una regola di comportamento.

2. E’ il caso di ipotesi in cui la fonte secondaria interviene nella configurazione della


fattispecie di reato. Si pensi alla contravvenzione ex art. 659 c.p. commessa
nell’esercizio di un mestiere rumoroso in violazione delle prescrizioni dettate
dall’autorità locale che quindi contribuiscono a delineare le modalità del fatto vietato.
Una tale ipotesi, teoricamente, sembra cozzare con la ratio della riserva di legge ma
un certo margine di tollerabilità si deve comunque ammettere a fronte del fatto che
nell’attuale ordinamento positivo, la tutela penale si raccorda spesso con discipline
extra penali di fonte secondaria.

3. Nessun problema di violazione del principio di riserva di legge si pone nell’ipotesi di


fonte secondarie che si limitano a specificare in modo tecnico alcuni elementi della
fattispecie già contemplati dalla fonte primaria che disciplina il fatto di reato. Tale
contributo appare, infatti, indispensabile soprattutto nei settori della legislazione
speciale caratterizzati da complessità tecnica e bisognosi di continui aggiornamenti
(sostanze stupefacenti).

4. E’ certamente illegittimo il modello nel quale la legge consente alla fonte secondaria
di selezionare i comportamenti punibili tra quelli dalla prima disciplinati: il legislatore
verrebbe meno alla funzione attribuitagli dal principio della riserva di legge,
delegando al potere regolamentare.

La giurisprudenza costituzionale si è preoccupata di salvare la legittimità di precetti penali integrati


da atti amministrativi, anche se nella sua giurisprudenza è ravvisabile una significativa evoluzione;
dapprima ha ritenuto l’atto amministrativo come un mero presupposto di fatto del precetto penale,
poi ha adottato il criterio della “sufficiente specificazione del precetto penale” (grazie al quale ha
salvato l’art. 650 c.p.). Più di recente (nel 90) ha interpretato rigorosamente la riserva di legge
seguendo tre criteri fondamentali:
- è coerente con il principio della riserva di legge l’intervento della fonte secondaria di natura
tecnica (caso 3);
- è ugualmente coerente l’ipotesi 1 nonostante appaia discutibile (norma penale in bianco);
- è invece da ritenere in contrasto col principio della riserva di legge la tecnica del rinvio a
fonte secondaria per la determinazione di elementi essenziali dell’illecito (caso 2);

Rapporto legge-consuetudine

La consuetudine viene definita come la ripetizione generale e costante di un comportamento


accompagnata dalla convinzione della sua corrispondenza ad un precetto giuridico. Una disciplina
esplicita della consuetudine è contenuta nel codice civile; nel nostro ordinamento assurge a fonte
primaria rispetto alle materie non disciplinate da leggi e regolamenti. Nel diritto penale è

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assolutamente pacifica l’inattitudine della consuetudine a svolgere funzione incriminatrice o
aggravatrice del trattamento punitivo e, ad analoga conclusione, si deve pervenire rispetto alla
consuetudine cd. abrogatrice o desuetudine. Sebbene sia possibile che una o più norme penali
restino di fatto inapplicate per lunghissimo tempo, in quanto ritenute più conformi alle nuove
concezioni dominanti, si tratta in realtà di una disapplicazione puntuale che ha valenza sul piano
sociologico ma, affinché la norma in questione cessi di avere efficacia formale, è comunque
necessaria l’emanazione di una successiva legge che espressamente la abroghi. Parte della dottrina
ammette una funzione integratrice della consuetudine, come nel caso dell’obbligo di impedire un
evento che può anche scaturire da una fonte consuetudinaria; ma si nutrono comunque dubbi di
costituzionalità in termini di contrasto tra la riserva di legge e funzione integratrice della consuetudine.
Al concetto di consuetudine integratrice si fa ricorso per alludere ai casi in cui il giudizio penale
presuppone il rinvio a criteri sociali di valutazione (materia di osceno), ma si tratta di un richiamo
ingiustificato perché, un conto è la consuetudine in senso stretto, un conto è la ricezione da parte della
norma penale di criteri di valutazione scaturenti dalla realtà sociale. Ammissibile è invece il ricorso
alla consuetudine scriminante, perché situazioni scriminanti non risultano essere necessariamente
subordinate al principio della riserva di legge.

La legalità penale nella prospettiva europea


Vi sono molteplici interferenze tra la legislazione penale nazionale e le fonti europee a tal punto che ci
si è spinti a sostenere che la legalità penale europea rappresenta una nuova e più avanzata forma di
legalità.
La legalità europea non è incentrata sul primato della lex parlamentaria ma risulta da una pluralità di
fonti normative, questo anche perché nel contesto europeo si riconosce alla giurisprudenza il ruolo di
fonte del diritto che contribuisce, insieme con il legislatore, a fissare presupposti e limiti di fatti
punibili (diritto penale giurisprudenziale).
Nell’ordinamento penale italiano, attribuire al diritto giurisprudenziale il valore di fonte del diritto
non equivale a parificare in toto al diritto legislativo perché la legge continua comunque ad essere
superiore. In ogni caso, nel testo costituzionale ritroviamo varie disposizioni che forniscono copertura
ai fenomeni di integrazione tra legislazione italiana e fonte normativa sovranazionale:
 art.10 Cost > “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”
 art.11 Cost > “consente in condizioni di parità con gli altri Stati le limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”
 art.117 Cost > la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della
costituzione, nonché dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali.

UE e diritto penale
La progressiva incidenza della normativa comunitaria dell’UE sul diritto nazionale ha sollevato delle
problematiche in ambito penale.
- Il primo problema attiene alla possibilità di riconoscere agli organi istituzionali europei
una vera e propria competenza a creare norme incriminatrici direttamente applicabili
nei diversi stati membri.
- Un secondo ordine di problema riguarda gli effetti che le fonti normative sovranazionali
possono produrre sull’applicazione del diritto penale nazionale.

Con riferimento al primo problema, la questione appare complessa a causa del tradizionale deficit di
democraticità delle istituzioni europee, anche se il Trattato di Lisbona nel 2007 ha introdotto delle

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innovazioni che hanno consentito una maggiore valorizzazione del ruolo legislativo del Parlamento
europeo e un’espressa forma di competenza in materia penale.

A tal proposito, l’art 83 TFUE prevede espressamente una competenza penale indiretta dell’Ue, in
due direzioni:
 rispetto a sfere di criminalità particolari che hanno una dimensione transnazionale derivante
dalla necessità di combatterle su basi comuni (terrorismo, tratta di esseri umani, riciclaggio di
denaro, ecc.)
 per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione europea armonizzata.

Si parla di competenza penale indiretta perché l’atto normativo a cui fa riferimento l’art 83 TFUE è la
direttiva che deve essere necessariamente recepita in leggi nazionali al fine di introdurre negli
ordinamenti interni dei singoli Stati membri delle fattispecie incriminatrici corrispondenti a quanto
imposto dalle stesse direttive. Si parla di competenza settoriale perché, a livello contenutistico, le
direttive sono legittimate a stabilire le norme minime relative alla definizione dei reati e delle
sanzioni nei settori di criminalità e negli ambiti di ulteriore competenza.

È da rilevare che il processo di europeizzazione del diritto penale progredisce compiendo


continuamente passi in avanti, anche grazie al Trattato di Lisbona che ha cercato di ovviare al deficit
di democraticità che si imputa agli organi europei e che si è tradizionalmente frapposto al
riconoscimento di una piena e diretta competenza penale in capo agli stessi organi europei.
Ma questo deficit di democraticità può oggi ritenersi superato?
Da un lato il Trattato di Lisbona ha introdotto la procedura di codecisione che distribuisce il potere
deliberativo tra Consiglio e Parlamento Europeo su proposta della Commissione. Dall’altro però,
bisogna chiedersi se si è così raggiunto un accettabile livello di democraticità con specifico riguardo
alle scelte di politica criminale che, rientrando tra quelle che maggiormente limitano gli spazi di libertà
individuale, dovrebbero avere una legittimazione democratica ampia. Inoltre, è vero che le direttive
europee presuppongono necessariamente una legge di attuazione deliberata dal Parlamento nazionale,
per cui si può ritenere rispettato il principio di riserva di legge, ma è altrettanto vero che il principio
sembra rispettato più nella forma che nella sostanza, in quanto si è così impedito ai singoli parlamenti
nazionali di prendere l’iniziativa in un settore cruciale e di assumere sulla base della propria
discrezionalità politica, le opzioni di fondo relative alle tutela penale. Si deve comunque tener conto
del fatto che questa sostanziale erosione della garanzia del principio di riserva di legge, si può
considerare proporzionata alla luce di una prospettiva di europeizzazione della legislazione penale
e che il principio di riserva di legge non riesce a mantenere le sue promesse neppure negli odierni
contesti nazionali a causa del cattivo funzionamento delle attuali democrazie e dello scadimento del
dibattito pubblico.

Per quanto riguarda il secondo problema, relativo all’attuazione delle norme UE di matrice penale
nell’ordinamento interno, determinante è il principio del primato del diritto dell’Unione postulato
dalla corte di giustizia CEE con una importante decisione con la quale si è sancito l’obbligo per il
legislatore nazionale di applicare le disposizioni UE disapplicando, all’occorrenza, qualsiasi
disposizione contrastante della legislazione nazionale senza dichiararne l’incostituzionalità o
attenderne la rimozione in via legislativa (Simmenthal).
Vi è però da chiedersi se tale primato vige rispetto a tutte le norme del diritto UE o solo per alcune:
sicuramente trova applicazione con riferimento ai regolamenti e alle norme dei Trattati, che sono
direttamente applicabili negli SM e hanno efficacia obbligatoria; diverso è, invece, il discorso rispetto

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alle direttive (con le quali l’UE legifera in materia penale) in quanto, non essendo direttamente
applicabili, non devono essere applicate dal giudice interno disapplicando la legislazione nazionale se
interferiscono con quest’ultimo.
La soluzione, però, muta rispetto alle direttive self-executing in quanto immediatamente applicabili.
I conflitti che possono originarsi tra norme penali del diritto UE e diritto penale interno possono
riguardare o gli effetti riduttivi o gli effetti estensivi delle norme europee.
La forma più frequente di interazione è quella relativa ad una incompatibilità evidente tra la norma
europea contenuta in un regolamento o in una direttiva self-executing perché introducono nuovi spazi
o porzioni di libertà nell’ambito della circolazione delle persone o diritto all’esercizio di determinate
attività economiche.
In questi casi di espansione delle libertà fondamentali vi è un inevitabile e certo effetto limitativo o
restrittivo del diritto penale interno.
Una seconda modalità di interazione si ha quando norme dell’UE concorrono nella determinazione
dei presupposti applicativi di fattispecie incriminatrici interne: dato che i singoli SM non hanno
accettato una limitazione di sovranità tale da riconoscere all’UE il potere diretto di fondare i
presupposti della responsabilità penale dei cittadini, si dovrebbe escludere che le fonti euro-unitarie
possano aggravare la responsabilità penale individuale. Questo effetto espansivo è sicuramente
ammissibile nell’ipotesi di un regolamento dell’UE che si limita a specificare da un punto di vista
tecnico uno o più elementi della fattispecie penale già definiti nel nucleo essenziale dal legislatore
nazionale.
Più problematica è, invece, l’ipotesi di una norma sovranazionale che integra elementi normativi della
fattispecie incriminatrice con effetti espansivi della punibilità.
Un discorso analogo può valere nei casi in cui un regolamento UE configuri una nuova posizione di
garanzia a partire dalla quale impone un obbligo giuridico volto ad evitare l’evento nell’ambito dei
reati omissivi cd. impropri. Questa forma di integrazione deve ritenersi ammissibile perché, in caso
contrario, vi sarebbe una irragionevole differenziazione rispetto al regime previsto per le fattispecie
colpose di reato (vedi parte 4 capitolo 1)
L’ultima possibile ipotesi di interazione tra diritto UE e diritto interno è quella della attività
ermeneutica ad opera dell’interprete giudiziale in riferimento alla cd. interpretazione conforme al
diritto sovranazionale: si tratta di quel canone ermeneutico secondo il quale il giudice è tenuto,
laddove possibile, a prescegliere quelle interpretazioni del diritto interno che risultino più in armonia
con le fonti sovranazionali vincolanti per l’ordinamento nazionale, in ossequio al principio di leale
collaborazione e fedeltà comunitaria.
L'interpretazione conforme ha come confine applicativo quei casi in cui è in questione la compatibilità
tra diritto interno e norme sovranazionali non ancora formalmente recepite o imperfettamente trasposte
nell’ordinamento nazionale.
Non vi è uniformità di vedute rispetto ai limiti e agli effetti della interpretazione conforme: posto che
anche in questo ambito questa interpretazione deve risultare compatibile con il tenore testuale della
norma penale in questione, essa è senz’altro legittima se ne derivano esiti applicativi in senso riduttivo
della punibilità, ossia in bonam partem in quanto migliorativi della situazione giuridica dell’imputato.
Controvertibile risulta, invece, l’ammissibilità di interpretazioni sovrannazionalmente orientate che
producono effetti espansivi della portata incriminatrice delle norme penali interne nel senso di
integrazioni in malam partem, con ricadute peggiorative sull’autore del fatto. Più compatibile con la
ratio del principio costituzionale di riserva di legge è l’orientamento che considera ammissibile
l’interpretazione conforme di norme penali interne nei soli casi in cui derivino effetti restrittivi della
punibilità.

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Caso Taricco → ha approfondito i rapporti tra diritto internazionale e unione europea. La questione
è relativa alla disapplicazione della disciplina interna sulla prescrizione di un reato quando la stessa
sia ritenuta inidonea a garantire l’inflizione di sanzioni effettive e dissuasive in ipotesi di reati contro
gli interessi finanziari dell’Unione Europea. Con una prima sentenza la CGUE ha affermato che, nel
caso di contrasto tra il codice penale italiano e gli obblighi di tutela degli interessi finanziari dell’UE
sanciti nel TFUE, il giudice nazionale deve assicurare il rispetto di questi ultimi disapplicando ove
necessario le disposizioni interne. Successivamente, la CC ha assunto una posizione di tipo
interlocutorio con la CGUE chiedendole se tale obbligo di disapplicazione sussistesse anche quando
la stessa disapplicazione contrasti con i principi costituzionali, preannunciando che, nel caso di
risposta affermativa della CGUE, l’obbligo di disapplicazione andrebbe in contro ad un impedimento
di ordine costituzionale (controlimiti). Nella successiva sentenza, la CGUE, recependo l’avvertimento
della Corte Costituzionale ha affermato che il giudice nazionale è esonerato dall’obbligo di
disapplicazione quando la stessa comporti la violazione di un principio costituzionale come quello di
legalità.

CEDU e diritto penale


Analizziamo l’incidenza sul diritto penale italiano delle norme contenute nella CEDU e nei Protocolli
addizionali. Incidenza divenuta rilevante alla luce del ruolo assunto dalla Corte di Strasburgo, ritenuta
giudice di ultima istanza, rispetto a violazione di diritti fondamentali.

La Corte EDU ha il compito di interpretare le norme della CEDU e ravvisare un’eventuale violazione
da parte degli stati aderenti. La metodologia adottata è di tipo casistico: i giudici utilizzano la tecnica
del precedente rilevante. Nel caso di accertata violazione, la Corte ordina allo Stato soccombente la
restitutio in integrum o, in caso di impossibilità, il pagamento di un indennizzo in forma pecuniaria.

Le norme CEDU sono norme pattizie di diritto internazionale che pongono obblighi a carico dello
Stato italiano diversi da quelli derivanti dalle fonti UE, in quanto non hanno un effetto diretto che
comporti la disapplicazione della norma nazionale contrastante ad opera del giudice ma, come ha
sancito la CC nelle sentenze gemelle, integrano il parametro costituzionale i cui all’art. 117 Cost. In tal
modo, le norme interne confliggenti le norme CEDU diventano oggetto di sindacato di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost. nella parte in cui si riferisce agli “obblighi
internazionali”. Secondo questa impostazione, le norme CEDU assumono un rango sub-costituzionale
ma supra-legislativo.
Da ciò deriva che il giudice nazionale deve, inoltre, interpretare le leggi penali interne alla stregua
delle norme CEDU così come interpretate dalla corte EDU. Ma, nel caso di impossibilità di
interpretazione conforme, il giudice non può in automatico disapplicare le norme interne bensì
sollevare questione di legittimità costituzionale, denunciando il contrasto con l’art. 117 Cost.
La seconda differenza rispetto alle norme UE risiede nel fatto che gli obblighi comunitari assunti dallo
Stato italiano si arrestano dinanzi ai controlimiti (nucleo duro Costituzione), mentre è necessario che
gli obblighi internazionali non contrastino solo con i principi supremi dell’ordinamento ma anche con
l’insieme delle norme della Costituzione italiana.

Fatte queste premesse di ordine generale, accenniamo alle forme di influenza che derivano dalla
CEDU e dalla relativa giurisprudenza. Il primo effetto consiste nell’innalzamento degli standard di
garanzia in vista di una più efficace protezione dei diritti fondamentali dei soggetti che a vario titolo
sono coinvolti in vicende penalmente rilevanti (indagati, vittime, testimoni, condannati ecc.). questo
potenziamento della dimensione garantistica è stato rilevato in primo luogo in ambito processuale e
poi si è andato progressivamente manifestando nel diritto penale sostanziale.

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Relativamente alla nozione di legalità in materia penale, la Corte di Strasburgo ha dovuto tener conto
delle tradizioni di common law e civil law, quindi ha dovuto fare a meno di ancorare la concezione di
riserva di legge alla legge parlamentare piuttosto perchè un qualsiasi atto normativo possa essere
considerato legge ai sensi della CEDU, i giudici di Strasburgo esigono alcuni presupposti di garanzia:
conoscibilità della fonte normativa, ossia accessibilità e ragionevole prevedibilità da parte dei
destinatari della sua applicazione. Inoltre, nel concetto allargato di legge rientra anche il diritto
giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nell’individuazione dell’esatta
portata della norma penale, il cui significato si ottiene dalla combinazione di due dati: normativo ed
interpretativo. Infatti, conoscibilità, accessibilità e prevedibilità delle conseguenze applicative, non
vanno rapportate al testo della norma astratta, ma all’interpretazione concreta che ne forniscono i
giudici nella realtà vivente del diritto penale.
questo consente di estendere la ratio del divieto di retroattività in malam partem anche ai mutamenti
giurisprudenziali in peius.

Relativamente al concetto di materia penale, la Corte ha fornito una definizione particolarmente


ampia: per identificarla assume rilievo non decisivo la qualificazione formale che l’illecito riceve
all’interno dell’ordinamento nazionale, quello che veramente conta per i giudici della Corte è la
valutazione sostanziale relativa al carattere punitivo e al livello di afflittività della sanzione prevista.
L’incidenza delle norme della CEDU sul nostro diritto penale si esplica sotto forma di effetti riduttivi
dell’area del penalmente rilevante perché ciò nasce dall’esigenza di dare più spazio ai diritti umani,
comportando così una restrizione della sfera di operatività dei precetti penali e una mitigazione della
risposta sanzionatoria (es. 1 > estensione dei limiti di liceità dell’esercizio del diritto di cronaca e di
critica giornalistica a prescindere dal requisito della continenza; es. 2 > in virtù della proibizione della
tortura e dei trattamenti inumani e degradanti è stato ricavato il divieto di procedere all’espulsione dei
cittadini extracomunitari dopo aver scontato la pena; es. 3 > illegittima la perdita di voto dei soggetti
condannati all’ergastolo).
Il rafforzamento della tutela dei diritti umani ha anche provocato un effetto opposto: ha dato un nuovo
rilievo ai diritti fondamentali che sono così diventati oggetto della stessa tutela penale, con
conseguente manifestazione di effetti espansivi della punibilità nell’ambito degli ordinamenti interni.
Sulla base di questa premessa, la Corte ha talvolta preteso da uno Stato membro l’introduzione di
fattispecie incriminatrici finalizzate a reprimere la violazione di una norma convenzionale (ad es.
condanna della Francia per mancanza nell’ordinamento di una norma penale idonea a sanzionare
condotte di riduzione in schiavitù e servitù in violazione dell’art.4 CEDU).

Il principio nulla poene sine lege


L’art. 25 c.2 Cost. sancisce il principio nulla poena sine lege in quanto cardine del principio di legalità,
infatti una legge penale che si limita a prevedere il fatto ma rimette al giudice la scelta del tipo e/o
della durata della sanzione, contraddirebbe le istanze garantistiche sottese al principio di legalità.
predeterminazione legale della sanzione, non significa esclusione di ogni potere discrezionale del
giudice, al contrario, una certa estensione dello spazio edittale, nonché la possibilità di scegliere tra più
tipi di sanzione legalmente predeterminate sono imposte sia dall’esigenza di adattare la pena al
disvalore del reato commesso, sia dalla necessità di rispettare i principi costituzionali
individualizzazione della pena e del finalismo rieducativo. Sarebbe incostituzionale attribuire dei limiti
eccessivamente dilatati (pena detentiva da quindici giorni a quindici anni) perché il principio di
legalità sarebbe eluso, in quanto così facendo spetterebbe al giudice, in modo autonomo, scegliere tra
varie sottofattispecie quella conforme al caso concreto. Infatti, il principio di legalità è veramente
rispettato solo se lo spazio edittale oscilla tra minimi e massimi ragionevoli.

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Anche rispetto alle pene, il principio di legalità opera come riserva di legge assoluta: soltanto la legge
o un atto ad esso equiparato possono stabilire con quale sanzione e in quale misura debba essere
represso il comportamento criminoso. La riserva assoluta si applica non solo alle pene principali ma
anche alle pene accessorie, nonché agli effetti penali della condanna, oltre che alla fase di esecuzione
della pena.

Il principio di tassatività o sufficiente determinatezza


il principio di legalità è strettamente connesso a quello di tassatività: difatti, il primo sarebbe eluso
nella sostanza se la legge definisse un fatto reato in termini così astratti e generici da non lasciare
individuare con sufficiente precisione il comportamento penalmente sanzionato.
Il principio di determinatezza o di tassatività ha l’obiettivo di salvaguardare i cittadini contro eventuali
abusi del potere giudiziario in sede di redazione delle fattispecie criminose.
Questo principio si collega anche a quello di frammentarietà, in quanto se la tutela penale è apprestata
solo contro alcune forme di aggressione ai beni giuridici è necessario che il legislatore specifichi con
precisione i comportamenti che integrano tali modalità aggressive.
Questo risponde a numerose esigenze:
1. la determinatezza delle fattispecie incriminatrici è indispensabile affinché la norma penale
possa efficacemente guidare il comportamento del cittadino; infatti il cittadino non può essere
chiamato ad obbedire ad una norma se non ha la possibilità di conoscere con sufficiente
chiarezza il suo contenuto.
2. Più il cittadino è posto in condizioni di discernere tra le zone del lecito e dell’illecito, tanto più
cresce la sua fiducia partecipativa nei confronti delle istituzioni e dello Stato;
3. Se non ci fosse una puntuale descrizione legale del fatto contestato, il diritto costituzionale
alla difesa verrebbe menomato.

Tuttavia, la Corte Costituzionale di rado ha effettuato un reale controllo sulle modalità di


tipizzazione legislativa dell’illecito in quanto, nella quasi totalità dei casi, ha respinto le eccezioni
sollevate sotto il profilo della violazione del principio di tassatività facendo leva su argomenti
discutibili. Questo atteggiamento di chiusura è stato, probabilmente, determinato dalla preoccupazione
di creare vuoti di tutela e di entrare in conflitto con il legislatore.
 Secondo un filone giurisprudenziale la corte ha operato questo salvataggio attraverso il
criterio del significato linguistico in quanto, nonostante l'indeterminatezza della norma al
giudice sarebbe sempre possibile rintracciare un significato determinato corrispondente al
normale uso linguistico dei termini impiegati. Tuttavia, questo criterio, può avere utilità per
l’interpretazione di espressioni linguistiche che il legislatore trae dal linguaggio comune ma è
inadatto a conferire alla norma determinatezza nel caso di espressioni tecnico-specialistiche
 un altro filone della giurisprudenza giustifica tale orientamento della corte facendo leva
sull'argomento del diritto vivente che viene utilizzato in due versioni:
 secondo la prima versione la corte identifica il diritto vivente con l’interpretazione
dominante in giurisprudenza, specie in quella di cassazione;
 nella seconda versione, mancando una interpretazione costante, la corte costituzionale
concepisce come diritto vivente il rapporto dialettico tra le diverse interpretazioni
giurisprudenziali, competendo, così, al giudice la scelta tra la soluzione preferibile.
Questo criterio, però, attribuisce al giudice eccessivi poteri di manipolazione della
legge per supplire alle deficienze del legislatore.

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 Raramente la corte ha, tuttavia, dichiarato incostituzionali delle norme penali per mancanza di
determinatezza, come nel caso della fondamentale pronuncia di accoglimento in tema di
plagio con la quale ha precisato che la determinatezza della fattispecie incriminatrice non
attiene soltanto alla sua formulazione linguistica ma implica anche la verificabilità empirica
del fatto da essa disciplinato.

Il difetto di determinatezza nella normativa penale, soprattutto di recente, è una diretta conseguenza
della tendenza compromissoria che caratterizza l’attuale attività legislativa che ha come protagoniste
forze politico-sociali portatrici di interessi confliggenti e che, in sede di redazione, danno vita a
disposizioni troppo generiche o incerte scaricando, così, sui giudici il compito di attribuire alle stesse
disposizioni un significato univoco.
In ogni caso, bisogna tener conto del fatto che il linguaggio, cioè lo strumento del quale il legislatore si
avvale per tipizzare i reati, costituisce una struttura aperta per cui, inevitabilmente, i termini linguistici
possono assumere più significati tutti astrattamente possibili. Pertanto, è fondamentale la capacità
della dottrina e della giurisprudenza di contribuire ad accrescere il tasso di determinatezza delle
fattispecie incriminatrici.

Principio di tassatività e tecniche di redazione della fattispecie penale


Il principio di tassatività vincola il legislatore ad una descrizione il più possibile precisa del fatto, per
tale ragione è necessario tener conto delle tecniche di redazione della fattispecie penale che adotta. In
proposito, occorre precisare che le principali tecniche di legiferazione sono quelle di normazione
descrittiva e sintetica.
La normazione descrittiva descrive, appunto, il fatto criminoso mediante l’impiego di termini che
alludono a dati della realtà empirica; per ovviare all’eccesso casistico, il legislatore, integra questa
tecnica di legiferazione con quella sintetica cioè adotta una qualificazione di sintesi mediante
l’impiego di elementi normativi, rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice
come parametro più ampio della regola di giudizio da applicare al caso concreto.
Gli strumenti di tecnica legislativa atti a garantire la tassatività della fattispecie sono gli elementi
descrittivi, ossia quello che traggono il loro significato dalla realtà dell’esperienza sensibile. In alcuni
casi, il carattere descrittivo della fattispecie è più apparente che reale, questo quando la formula
legislativa impiega degli elementi descrittivi privi di riscontro reale nella realtà del mondo esterno,
risultando quindi indeterminati perché alla descrittività sul piano linguistico non corrispondono dei tipi
adeguatamente profilati nella realtà sociale (es. plagio).
Quanto agli elementi normativi, ossia quelli che necessitano, per la determinazione del loro contenuto,
di una etero-integrazione mediante il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice, occorre
operare una precisazione:
 nel caso di elementi normativi giuridici, l’esigenza di tassatività è perlopiù rispettata perché la
norma giuridica richiamata è solitamente individuabile senza incertezze;
 nel caso di elementi normativi extragiuridici, ossia rinvianti a norme sociali o di costume, il
parametro di riferimento diventa incerto e sorgono forti dubbi circa il limite discretivo tra
rispetto di un sufficiente livello di determinatezza e carattere discretivo del fatto di reato.
L’elasticità di un criterio di giudizio sconfina con una indeterminatezza contrastante con il
principio di tassatività tutte le volte in cui il segno linguistico non riesce a connotare il
parametro valutativo, ovvero il parametro valutativo non trova riscontro univoco nel contesto
sociale di riferimento. Questo è l’esempio del caso delle fattispecie poste a tutela del pudore.
La persistente oscillazione della giurisprudenza tra parametri di valutazione dell’osceno
contraddittori al di là di ogni ragionevolezza, costituisce la migliore riprova

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dell’indeterminatezza del concetto di buon costume, talmente frantumato nella nostra società
non omogenea da apparire difficilmente riconducibile ad un univoco sentire collettivo.
L'elemento normativo risulta, inoltre, indeterminato in quelle fattispecie in cui il parametro valutativo
difetta di una qualsiasi predeterminazione legislativa, ad es. espressioni quali sensibilità e
impressionabilità degli adolescenti.

Il principio di irretroattività
Il principio di irretroattività vieta l'applicazione di leggi penali a fatti commessi prima della loro
entrata in vigore, è sancito all’art.11 delle Disposizioni preliminari, il quale stabilisce che la legge
non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo. Tale principio ha rango costituzionale
soltanto con riferimento alla materia penalistica e si ritrova all’art. 25 c.2 Cost. secondo il quale
“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”. A livello della legislazione ordinaria, lo stesso trova riconoscimento, nonché una più
articolata disciplina, nell’art.2 c.p., il quale, al c.1 ribadisce l’irretroattività della norma
incriminatrice, e ai cc. 2 - 3 stabilisce la retroattività della norma più favorevole successivamente
emanata. Tra il principio di irretroattività assoluta, sancito in costituzione, e quello della retroattività in
bonam partem del c.p. non sussiste contrasto, se non sul piano meramente formale; questo perché
l’ordinamento, in entrambi i casi si preoccupa di garantire al singolo maggiori spazi di libertà e, in
ogni caso, il principio di retroattività in bonam partem, trova riconoscimento in costituzione all’art.3
Cost. sotto il profilo di una parità sostanziale di trattamento: non sarebbe infatti ragionevole
continuare a punire/punire più gravemente un soggetto, per un fatto che chiunque altro può
commettere impunemente/ commettere subendo una pena meno grave, nel momento stesso in cui il
primo subisce la condanna o i suoi effetti. Più di recente, tale principio è stato ricondotto all’art.7
CEDU, includendolo nel paradigma dei diritti fondamentali. Nel diritto penale sostanziale, il divieto di
retroattività concerne tutti gli elementi dell'illecito penale, compresi le condizioni di punibilità e le
corrispondenti conseguenze penali. Tale principio, teoricamente, non si applica al diritto processuale
penale, anche se, un orientamento dottrinale, tende ad estenderne l'applicazione sull’assunto che la
sanzione dipende strettamente dal procedimento con cui le ragioni della punibilità sono accertate e la
pena è irrogata ed applicata.

La disciplina dettata dall’art.2 del Codice penale


Art. 2 c.1 c.p. > “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato”. Questa disposizione si riferisce al fenomeno della cd. nuova
incriminazione, che ricorre quando una legge introduce una figura di reato prima inesistente. Il divieto
non soddisfa solo un’esigenza di giustizia ma anche di legalità, secondo il principio “nullum crimen,
nulla poena sine praevia lege poenali".

Art. 2 c.2 c.p. > “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”. La norma allude
al fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti (abolitio criminis). Pertanto, sarebbe
contraddittorio e irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai tollerato dall’ordinamento
giuridico. Ad es. il caso dell’abrogazione dei delitti di offesa alla libertà e all’onore del capo del
governo, trasformazione in illeciti amministrativi di alcuni reati contravvenzionali.
Può accadere tuttavia, che una legge penale successiva piuttosto che abrogare una disposizione
incriminatrice esistente, ne riformuli il contenuto tramite la sostituzione degli elementi costitutivi con
l’aggiunta di nuovi. In questi casi, il problema è stabilire se permanga la rilevanza penale del
comportamento in questione, salva, ove ne sussistano i presupposti, l'applicabilità del favor rei art. 2
c.3 c.p.

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Occorre fissare i criteri che presiedono all'individuazione del fenomeno di successione delle leggi
penali nel tempo:
 Primo orientamento > si ha successione quando, nel passaggio dalla vecchia alla nuova norma,
permane la continuità e l’omogeneità del tipo di illecito. A riguardo si utilizzano quali
parametri valutativi, sia l’interesse protetto che le modalità di aggressione al bene, sicché si
verificherebbe la successione di leggi quando, nonostante la novazione legislativa,
permangono identici gli elementi predetti. Tuttavia, il criterio può essere interpretato in un
duplice modo:
> secondo una prima interpretazione restrittiva, le due condizioni si verificherebbero soltanto
nel caso di perfetta identità del fatto di reato, rendendo vana l’utilità pratica del criterio.
> secondo una interpretazione estensiva, la tesi risulta di incerta applicazione in quanto
fondata sia su apprezzamenti di valore opinabili sia sull’indeterminatezza del peso da
attribuire al criterio del bene e a quello delle modalità di aggressione.

Poiché la funzione di garanzia del principio di irretroattività richiede parametri valutativi più certi, si
ritiene applicabile il criterio che si fonda sul rapporto di continenza tra la nuova e la vecchia
fattispecie, sulla base del quale occorre un rapporto strutturale tra le fattispecie considerate tale per cui
si possa instaurare una relazione di genere e specie tra le stesse.
Questo si verifica in tre casi:
- la norma posteriore è speciale rispetto a una precedente di contenuto più generico (il rapporto
di specialità presuppone che tra due norme esista un rapporto che comporta la priorità della
norma speciale su quella generale. La norma speciale contiene tutti gli elementi presenti in
quella generale)
- la norma successiva amplia il contenuto di una precedente più specifica
- l’eventuale abrogazione di una precedente norma speciale determina la riespansione della
norma di contenuto più generale precedente

es. l’art. 578, in passato disciplinava il reato di infanticidio per causa d’onore, successivamente
modificato nel reato di infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale contemplato nella
stessa norma. Tra queste due norme non vi è un rapporto di relazione da genere a specie, in quanto
presentano delle strutture eterogenee, motivo per cui i fatti commessi sotto il vigore della precedente
norma incriminatrice non possono essere ricondotti sotto la nuova previsione criminosa. Tuttavia,
sarebbe affrettato propendere per la tesi dell’abolitio criminis: in realtà, stante l’abrogazione del
vecchio art. 578, questa fattispecie ricade nell’ambito del più ampio genus dell’omicidio comune, che
ricomprende l’ipotesi più specifica dell’infanticidio (III).
Pertanto, sussistono i presupposti della successione di leggi con applicabilità, però, della regola del
favor rei (art. 2 comma 3), quindi inflizione pena infanticidio (rientra nel caso III).

Successione di leggi e applicabilità delle disposizioni più favorevole al reo


L’art. 2 c.4 stabilisce che “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono
diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile”. Trattasi del principio di retroattività della norma più favorevole al reo, il cui
fondamento è la garanzia del favor libertatis che assicura al cittadino il trattamento più mite tra quello
previsto da leggi successive, purché precedenti alla sentenza definitiva di condanna. Detto principio è
indirettamente ricollegabile al principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 che impone di
evitare ingiustificate disparità di trattamento. In questo senso si è orientata la Corte costituzionale che
ha affermato che mentre il divieto di retroattività della norma in malam partem è espressione
dell'esigenza di calcolabilità necessaria del rischio penale al momento in cui viene posta in essere una

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condotta, la regola che sta alla base della retroattività in bonam partem rinviene il suo fondamento
giuridico nel principio di eguaglianza. Tuttavia, la stessa Corte ammette che detto principio trova un
limite di derogabilità nella stessa norma costituzionale (art. 3) in cui trova fondamento, cioè deroghe
eventuali alla retroattività della legge più favorevole possono risultare costituzionalmente legittime
quando superino una certa soglia di ragionevolezza. In altri termini, quando l’applicazione del
principio risulta irragionevole o può dare luogo a diseguaglianze.
La Corte di Strasburgo nella sentenza Scoppola c. Italia è giunta a riconoscere per via di
interpretazione evolutiva che il principio di retroattività della lex mitior è implicitamente contenuto
nell’art. 7 CEDU con l’effetto di ricondurre il diritto a ricevere un trattamento penale più favorevole
nel novero dei diritti fondamentali dell’uomo.

Caso Scoppola → la questione relativa alla vicenda Scoppola riguardava la possibilità che un autore
di reati punibili con l’ergastolo facesse richiesta di un giudizio abbreviato con conseguente
sostituzione della pena perpetua con la reclusione ad anni 30, essendosi verificati tra il momento
della commissione dei fatti e lo svolgimento del processo mutamenti della legge processuale. Questo
perché, in passato, tale possibilità era ammessa dal cpp ma poi era stata esclusa da una
dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nel caso specifico, l’imputato Scoppola aveva commesso
i fatti dopo l’intervento della Corte Costituzionale e quindi nel momento in cui l’accesso al giudizio
abbreviato gli era inibito. Successivamente alla commissione dei reati il legislatore, intervenendo,
aveva reintrodotto la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato e poi, in pendenza del giudizio, era
tornato sui suoi passi escludendo che la pena temporanea sostitutiva fosse concedibile nel caso di
concorso di reati comportanti l’ergastolo aggravato dall’isolamento diurno. La Corte EDU ha, però,
constatato in questo caso la violazione dell’art. 7 CEDU e ha affermato che la regola della
retroattività in mitius si riferisce anche alla lex intermedia, cioè ad una legge sopravvenuta al fatto e
non più in vigore al momento del giudizio così riconoscendo come illegittima la mancata applicazione
all’imputato della lex intermedia favorevole, ordinando allo Stato italiano di rideterminare la pena
inflitta al ricorrente.

Se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi posteriori adottate
prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quelle le cui disposizioni sono
più favorevoli→ favor rei.

Il fenomeno della successione di leggi in senso più favorevole riguarda il piano del trattamento
sanzionatorio in senso latu, riferito, quindi, non solo al tipo e alla misura della sanzione ma anche al
regime processuale. Ad es. il reato di pascolo abusivo, divenuto punibile soltanto a querela di parte: in
applicazione dell’art. 2 comma 4 non saranno più punibili i fatti di pascolo abusivo commessi
antecedentemente alla nuova legge di modifica rispetto ai quali non sia stata sporta querela.

Per stabilire quando ci si trovi di fronte ad una disposizione più favorevole bisogna operare un
confronto tra la disciplina della vecchia e quella della nuova norma che va effettuato in concreto
mettendo a paragone i rispettivi risultati dell'applicazione di ciascuna di esse al caso concreto, ad es. se
la vecchia legge prevede un massimo di pena più elevato e un minimo più ridotto e la nuova un
massimo più mite ma un minimo più rigoroso si applicherà la prima legge a seconda rispettivamente
che il giudice intenda applicare al caso concreto una pena edittale minima oppure massima.
L’operatività del criterio in esame è più dubbia in taluni casi, ad es. quando vi è la degradazione di un
illecito da delitto a contravvenzione, tale per cui la gravità della pena diminuisce ma vi è una
conseguente estensione delle ipotesi di punibilità.

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Il comma 3 dell’art. 4 (aggiunto con l. 85/2006) prevede la conversione o la modifica del trattamento
sanzionatorio intervenuta dopo il passaggio in giudicato. Infatti, sancisce che “se vi è stata condanna a
pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva
inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria”. Ha innovato sensibilmente
rispetto al vecchio principio della intangibilità del giudicato previsto nella originaria formulazione
dell’art. 2. Se è vero che il fatto continua a rimanere penalmente illecito, è comunque vero che la
modifica del trattamento sanzionatorio non può rimanere priva di efficacia anche dopo il giudicato,
pena l’irragionevolezza manifesta della stessa disciplina.
Nel caso in cui la pena detentiva passata in giudicato risulti di quantità superiore al nuovo massimo di
pena pecuniaria, la soluzione più congrua è quella che converte la pena detentiva nel massimo della
nuova pena pecuniaria.

Successione di leggi integratrici di elementi normativi della fattispecie criminosa


(modifiche cd. mediate della fattispecie incriminatrice)
è necessario valutare se la disciplina dell’art.2 c.p. sia applicabile alle ipotesi di modifica di norme
penali attraverso successive norme che ne integrano il contenuto o che disciplinano elementi normativi
della fattispecie.
Consideriamo esemplificativamente la disposizione che disciplina il delitto di calunnia consistente
nell’incolpare falsamente taluno di un reato. Tale norma, rinvia alla nozione di “reato” per cui, al
mutare del concetto di reato bisogna chiedersi se conseguentemente muti o meno il delitto di calunnia,
nello specifico se permanga o venga meno.
La soluzione del problema è controversa perché vengono rilevati orientamenti diversi in dottrina e
giurisprudenza:
 In dottrina prevale un orientamento restrittivo secondo il quale, l’eventuale abrogazione
della norma integratrice di elementi normativi, non introduce differenze nella valutazione del
disvalore della norma incriminatrice che viene integrata.
All’interno di questo indirizzo che giunge ad una conclusione diversa relativamente alle
norme penali in bianco, in quanto l’abolizione della disposizione integratrice implicherebbe
inevitabilmente un diverso giudizio di disvalore astratto;
 un altro orientamento mediano (estensivo) ritiene invece che tale valutazione dipenda dalla
reale capacità dell’elemento normativo integrato di incidere sulla portata e sul disvalore
astratto della fattispecie incriminatrice.
Quest’ultima tesi appare preferibile in quanto valuta caso per caso la capacità della norma
integratrice di dar corpo alla norma incriminatrice.
Controversa invece è la disciplina da applicare nel caso in cui la norma integratrice sia di natura non
solo extrapenale ma anche extragiuridica (oscenità). Parte della dottrina ritiene comunque che in questi
casi non sia operante il principio di retroattività della norma più favorevole al reo (mutamento norme
culturali).

Successione di leggi temporanee, eccezionali e finanziarie


Il principio di retroattività in senso più favorevole al reo risulta inoperante rispetto a leggi temporanee
ed eccezionali (disciplina derogatoria).
Sono eccezionali quelle leggi il cui ambito di operatività temporale è segnato dal persistere di uno
stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario (guerre, epidemie, terremoti).
Sono temporanee quelle leggi per le quali il legislatore ha prefissato un termine di durata. La ratio è
evidente: da un lato, l’applicabilità di un regime diverso da quello, eventualmente più favorevole,
reintrodotto nel momento di ritorno alla normalità risulta connaturata alle stesse caratteristiche di

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queste leggi; dall’altro nell’ipotesi in cui il principio del favor rei dovesse trovare applicazione, si
offrirebbe una comoda scappatoia per commettere violazioni con la certezza di una futura impunità.
Astrattamente potrebbe verificarsi che una legge eccezionale o temporanea sia più favorevole rispetto
ad una legge precedente, anch'essa eccezionale o temporanea e in questo caso ai fatti commessi sotto il
vigore di quest’ultima si applicherebbe la relativa disciplina, pur essendo più rigorosa.
Analoga disciplina veniva applicata alle norme che reprimono le violazioni delle leggi finanziarie. Le
disposizioni penali relative a leggi finanziarie, e quelle che prevedono violazione di altre leggi, si
applicano ai fatti commessi mentre le stesse erano in vigore, nonostante la loro successiva abrogazione
o modificazione. La Corte Costituzionale ravvisava il fondamento di detta disciplina derogatoria
nell’interesse primario alla riscossione dei tributi, anche se non così decisivo da far ritenere
giustificata la disparità di trattamento che ne conseguiva alla stregua dell’art.3 Cost. Pertanto, essendo
conseguita la soppressione di questa disciplina sicché i commi 2-4 si applicano anche nel caso di
successioni di leggi penali finanziarie.

Decreti-legge non convertiti


l’art.2 c.6 c.p. stabilisce che la disciplina della successione di leggi si applica anche nei casi di
decadenza, mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto legge convertito in legge con
emendamenti.
In passato il codice Rocco stabiliva che gli effetti del decreto non convertito cessavano ex-nunc,
facendo così salvi gli effetti prodotti durante la sua vigenza.
Oggi, l’art. 77 Cost. afferma il principio opposto secondo il quale, gli effetti del decreto non
convertito cessano ex-tunc. Ciò detto, i decreti non convertiti che introducono, modificano o
abrogano fattispecie penali preesistenti non si prestano all’applicazione della disciplina relativa
all'applicazione di leggi penali. Questo trova sicuramente applicazione se il decreto-legge non
convertito aveva introdotto delle novità peggiorative per il reo. mentre se il decreto-legge non
convertito aveva ad oggetto modifiche della disciplina penale preesistente, la stessa conclusione non è
accettabile, perché il principio sancito dall’art.25 Cost è irrinunciabile e non può mai essere derogato.
Ne consegue che le esigenze di cui è espressione l’art.77 (esigenza di un controllo parlamentare sui
provvedimenti del governo) devono rimanere subordinate rispetto al principio della retroattività della
disposizione più favorevole al reo.
Questa tesi, sembra a prima vista contraddetta dalla sentenza dell’85 della Corte Costituzionale con la
quale ha dichiarato illegittimo il comma 6 dell’art.2 per violazione dell’art.77 c.3. è fondamentale
precisare che la Corte circoscrive l’illegittimità (dell’ultimo comma dell’art.2) soltanto ai casi in cui
esso rende applicabile il decreto non convertito ai fatti pregressi, cioè commessi anteriormente alla sua
entrata in vigore.

Leggi dichiarate incostituzionali


L’art.136 Cost. stabilisce che “quando la corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di
legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione”.
Originariamente prevalse la tesi secondo cui la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne
produce ex-nunc la cessazione di efficacia e quindi questa continuava ad applicarsi ai rapporti già
maturati. Tuttavia, ciò determinava un grave inconveniente in quanto nel nostro ordinamento
l’eccezione di costituzionalità presuppone la concreta rilevanza della questione in un giudizio
pendente, sarebbe venuto meno l’interesse ad adire la CC se l’invalidazione della legge dichiarata
incostituzionale non ne avesse fatto cessare gli effetti anche con riferimento al rapporto in forza del
quale ci si era rivolti alla Corte.

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Pertanto, una legge del 1953 ha disposto che la cessazione degli effetti si estende anche ai rapporti
maturati antecedentemente alla dichiarazione di incostituzionalità (perdita di efficacia ex tunc).
Da ciò deriva l’impossibilità di ravvisare un fenomeno successorio tra una legge preesistente ed una
successiva poi dichiarata incostituzionale.
Senonchè, in ossequio al principio di irretroattività della legge penale in malam partem, la legge
invalidata si applicherà comunque ove risulti più favorevole al reo rispetto alla precedente
disposizione incriminatrice.

Sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore


La necessità di rispettare il principio di irretroattività in materia penale pone dei problemi di limiti al
sindacato di costituzionalità delle leggi penali di favore (cioè che attribuiscono un trattamento di
favore a determinati soggetti o in determinate fattispecie rispetto a quello che risulterebbe
dall’applicazione delle norme penali generali o comuni). L’effetto di una pronuncia di
incostituzionalità sarebbe infatti quello di far rivivere norme più sfavorevoli al reo.

La prevalente giurisprudenza della Corte Costituzionale, considerato che i principi in tema di


irretroattività delle norme penali impedirebbero che una sentenza di accoglimento possa produrre un
effetto pregiudizievole per l’imputato nel giudizio a quo, ne ha dedotto l’inammissibilità per
irrilevanza della questione di legittimità costituzionale. Tuttavia, la stessa Corte ha superato, in alcune
prese di posizione, l’assunto dell’inammissibilità di qualsiasi denuncia di norme penali più favorevoli
al reo. Infatti, altro è la garanzia, altro è invece il sindacato di costituzionalità sulle leggi penali anche
di favore che non può essere sottratto alla Corte, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste
dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile.
Pertanto, parte della dottrina costituzionalistica tende a formulare un concetto di rilevanza basato sui
dati normativi coinvolti nella decisione di specie, piuttosto che sul concreto esito del giudizio a quo.
Nello stesso tempo è necessario evitare che la Corte finisca con arrogarsi il potere di compiere
valutazioni di merito che per loro natura spettano al legislatore (non deve avere una funzione creativa
di diritto). Quindi, il sindacato della Corte è ritenuto ammissibile soltanto quando, accertato che la
scelta legislativa è, in linea di principio, quella di penalizzare certi comportamenti, appaia palesemente
arbitraria (alla stregua del principio di eguaglianza) una eventuale discriminazione nel trattamento
punitivo delle condotte che appartengono allo stesso tipo.

Tempo del reato commesso


Per individuare la legge penale applicabile nel tempo, è decisivo il problema della determinazione del
tempo in cui fu commesso il delitto. In assenza di un'esplicita previsione normativa, la dottrina ha
prospettato tre criteri:
- teoria della condotta, che considera il reato commesso nel momento in cui si è realizzata
l’azione o l’omissione
- teoria dell’evento, per cui il reato è commesso nel momento in cui si verifica l’evento lesivo
che è connesso causalmente alla condotta e quindi necessario ai fini della configurazione
dell’illecito
- teoria mista, per cui il reato si considera indifferentemente commesso quando si verifichi la
condotta o l’evento.

Quale sia il criterio più valido va individuato, di volta in volta, tenuto conto delle esigenze dei singoli
istituti. Facendo leva sulla ratio dell’art. 2 si è concordi nel respingere sia la teoria dell'evento, la quale
porterebbe un’applicazione retroattiva della legge penale in tutti i casi in cui la condotta si sia svolta
sotto il vigore di una norma e l’evento sotto il vigore di un’altra successiva, che la teoria mista in

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quanto sarebbe irragionevole considerare commesso un reato indifferentemente sotto la vigenza di due
norme incriminatrici diverse.
Resta pertanto applicabile il criterio della condotta, essendo questo il momento in cui il soggetto mette
in atto il proposito criminoso, in ossequio al principio di autodeterminazione dell’individuo.
L’applicazione del criterio della condotta si atteggia diversamente a seconda dei vari tipi di reato:
1. reati causalmente orientati a forma libera, ossia reati in cui manca la tipizzazione
legislativa di specifiche modalità di realizzazione dell’evento lesivo→ qui la
determinazione del tempus commissi delicti risulta problematica. Differisce a seconda
che si tratti di delitti dolosi o colposi:
- delitti dolosi = il tempo del commesso reato coincide con la realizzazione dell’ultimo atto
sorretto dalla volontà colpevole;
- reati colposi = coincide con la realizzazione del primo atto causalmente collegato all’evento
lesivo che per primo si pone in contrasto con le regole di diligenza e prudenza.

2. reati di durata→ divergenze di opinione a seconda che si tratti di:


- reati permanenti = contraddistinto dal perdurare di una situazione illecita
volontariamente rimovibile dal reo. Al riguardo, la tesi prevalente fissa il tempo del
commesso reato nell’ultimo momento di mantenimento della condotta antigiuridica.
Tuttavia, questo comporta l'inconveniente di applicare una legge penale più
sfavorevole che aggravi il trattamento penale del reato permanente. Si ritiene,
pertanto, preferibile l’orientamento che fissa il tempo della commissione del reato nel
primo atto della condotta antigiuridica.
- reato abituale = caratterizzato dalla reiterazione nel tempo di condotte della stessa
specie. Mentre parte della dottrina individua il tempus commissi delicti nel
compimento dell’ultima condotta, occorre anche qui fare riferimento alla
realizzazione del primo atto che, unitamente ai successivi integra il reato abituale.
- reato continuato = nell’ottica della successione di leggi non rappresenta un fatto
unitario; ci si trova piuttosto in presenza di un concorso materiale di reati, ciascuno
dei quali presenta un proprio tempus commissi delicti.
- reati omissivi = occorre fare riferimento al momento in cui scade il termine utile per
realizzare la condotta doverosa.

Divieto di analogia
Per analogia si intende quel processo attraverso il quale ad un determinato caso si applica una regola
che si ricava dall’applicazione di una data normativa regolante casi o materie simili, il
presupposto è l’identità di ratio.
Il ricorso all’analogia ex art 14 delle Disposizioni sulla legge in generale è escluso nel caso di leggi
penali. Tale esclusione è ricavabile implicitamente dagli artt. 1 - 199 c.p., inoltre, il fondamento di
questo divieto si può rintracciare anche nel testo costituzionale in quanto obbedisce alla medesima
ratio di garanzia della libertà del cittadino che rappresenta un valore costituzionalmente rilevante.
È necessario però distinguere tra analogia e interpretazione estensiva, quest’ultima, secondo la
dottrina maggioritaria, risulta ammissibile in materia penale, seppur debbano essere prese in
considerazione alcune giustificate riserve.
Come indicato dalla Cassazione, il discrimine teorico tra interpretazione estensiva e procedimento
analogico sta nel fatto che, la prima è sempre legata al testo della norma esistente, mentre il
processo analogico è sempre creativo di una norma nuova che prima non esisteva (es. la
sottrazione deliberata e prolungata dal mercato degli alloggi sfitti al fine di eludere la legge sull’equo
canone non può integrare il reato di aggiotaggio mobiliare, perché il bene casa non può essere

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validamente interpretato in modo estensivo a tal punto da essere considerato parificabile ad un genere
alimentare o ad un prodotto di prima necessità, ai quali espressamente si riferisce l’art. 501 bis che
disciplina tale reato).
Il divieto di analogia risulta violato dallo stesso legislatore ogni qualvolta enunci una serie di casi e
poi aggiunge formule di chiusura quali “in casi simili”, “in materie analoghe”, non offrendo
contestualmente dei criteri univoci alla stregua dei quali individuare casi analoghi (es. in passato erano
vietati una serie di mestieri enunciati casisticamente e poi, il legislatore accompagnava a tale
enunciazione la formula “mestieri analoghi” senza indicare il parametro univoco di cui sopra).
Controversa è l’ampiezza del divieto in esame. Secondo un indirizzo minoritario, il divieto ha un
carattere assoluto, riguardando sia le norme incriminatrici sia le norme di favore, a fronte del fatto
che ciò che prevale è il primato dell’esigenza di certezza. Questa concezione però è da obiettare in
quanto, l’art.25 c.2 Cost sancisce, non il primato dell’esigenza di certezza, bensì della garanzia della
libertà del cittadino, muovendo dal presupposto che la libertà è la regola e la sua limitazione
un’eccezione. Ciò detto, si deve concludere che il divieto di analogia ha carattere relativo perché
riguarda solo le norme penali sfavorevoli.
Vi sono dei limiti anche all’interpretazione analogica delle disposizioni penali in bonam partem in
quanto, le leggi eccezionali non possono applicarsi ad altri casi rispetto a quelli espressamente
considerati. Sono leggi eccezionali quelle che introducono una disciplina che deroga la portata
generale di altre disposizioni.
Le norme che prevedono cause di non punibilità hanno tendenzialmente carattere eccezionale e quindi
dovrebbero rispettare il divieto di analogia, ma non tutte presentano queste caratteristiche. Ad
esempio, le cause di esclusione della colpevolezza, nella misura in cui contribuiscono a determinare i
presupposti generali di applicazione delle norme incriminatrici, appaiono senz’altro suscettibili di
applicazione analogica.
Il ricorso al procedimento analogico è invece precluso rispetto a cause di non punibilità o esclusione
della colpevolezza che fanno riferimento a situazioni particolari e/o riflettono motivazioni politico
criminali specifiche.
In particolare, l'analogia è inammissibile:
 con riferimento all’immunità > deroga all’obbligatorietà della legge penale
 con riferimento alle cause di estinzione del reato e della pena, che derogano alle normale
disciplina dell’illecito penale e delle conseguenze sanzionatorie
 con riferimento alle cause speciali di non punibilità, che rispecchiano valutazioni politico-
criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in esame e perciò non
estensibili ad altri casi.

CAPITOLO 5 – NOZIONI DI TEORIA GENERALE DEL REATO

Definizione formale di reato


La definizione di reato, come “fatto cui la legge ricollega una sanzione penale”, appare
insufficiente. Per delineare il concetto di reato secondo il nostro ordinamento, non si può prescindere
dall’insieme dei principi che la costituzione, esplicitamente, prevede come propri della materia
penale.
L’illecito penale presenta le seguenti caratteristiche:
 è di creazione legislativa in quanto, sulla base del principio di legalità, soltanto una legge in
senso stretto, può disciplinare gli elementi costitutivi;
 è di formulazione tassativa, perché la legge deve fissare con la maggiore determinatezza
possibile i fatti costituenti reato;

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 ha carattere personale, da intendere non solo nel senso che è vietata ogni forma di
responsabilità per fatto altrui, ma anche nel senso che il reato deve atteggiarsi a fatto
tendenzialmente colpevole.
Risulta necessario distinguere tra illecito penale e illecito civile. In campo civile non domina il
principio della riserva di legge (non potendo una fonte di grado normativo inferiore creare una figura
di illecito) né il principio di tassatività.
Per quanto riguarda la distinzione tra illecito penale e amministrativo, va sottolineato come siano
riscontrabili profili di maggiore affinità (profilo della riserva di legge, irretroattività, colpevolezza).
Relativamente alle differenze sul piano formale evidenziamo l’inflizione di sanzioni meramente
pecuniarie e la natura amministrativa del procedimento e dell’organo competente ad infliggere la
sanzione.

Il problema della definizione sostanziale del reato


La dottrina penalistica ha cercato di dare una definizione sostanziale al concetto di reato.
Si è tentato, talvolta, di adottare un approccio scientifico relativo alla ricerca delle ragioni delle
condotte umane; talvolta, invece, si è dato rilievo dominante alla concezione di stato e di società
attuale.
 Secondo l'orientamento giusnaturalistico è reato ciò che turba gravemente l’ordine etico, cioè
ciò che cozza con la moralità media di un popolo in un determinato momento storico.
 Secondo un altro orientamento è reato ogni comportamento umano che rende impossibile o
mette in pericolo la conservazione della società;
 Più di recente, il reato è stato definito come un fenomeno disfunzionale che impedisce o
ostacola la conservazione dell’ordinamento.
I più rilevanti e recenti approcci di tipo sociologico qualificano il reato, dal punto di vista sostanziale,
selezionando i fatti secondo i valori riconosciuti e promossi dalla Costituzione. Per cui, risulta pacifico
che il reato sia “la lesione o la messa in pericolo di un bene giuridico meritevole di protezione in
base al dettato costituzionale”. Sempreché la misura dell’aggressione sia tale da far apparire
inevitabile il ricorso alla pena e sanzioni di tipo penale non siano in grado di garantire un’efficace
tutela.

Portata e limiti del principio di offensività


Il principio di offensività prevede che ai fini della sussistenza del reato non è sufficiente la
realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che il comportamento leda o ponga in
pericolo beni giuridici. La sua portata e i suoi limiti sono al centro del dibattito, nello specifico si
controverte sul suo fondamento costituzionale e/o codicistico (a) e sul suo rilievo ai fini della
strutturazione delle fattispecie incriminatrici (b).

Per quanto riguarda il suo fondamento normativo, manca tutt'oggi nell’ordinamento italiano una
disposizione che enunci tale principio, per tale ragione viene concepito come criterio implicito,
ricavabile in via interpretativa.
o Anzitutto, la dottrina ha tentato di rintracciare un fondamento normativo di tale
principio all’interno del codice penale, attraverso una peculiare interpretazione
dell’art.49 c.2, secondo il quale la punibilità è esclusa “quando per l’inidoneità
dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa è impossibile l'evento dannoso o
pericoloso”. Secondo questa interpretazione, non può esservi reato, senza lesione o
messa in pericolo del bene giuridico. Anche la giurisprudenza ha in parte accolto tale

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orientamento (concezione realistica dell’illecito) e ha così escluso la punibilità del
cd. falso grossolano innocuo. Tuttavia, il fondamento codicistico del principio di
offensività è contestato da altra parte della dottrina.
o A partire dagli anni ‘70, si è individuata nella stessa Costituzione la fonte
legittimatrice del principio di offensività, prescegliendo come norme chiave gli artt.
25 c.2 - 27 c. 1-3 Cost., le stesse su cui ruota la teoria costituzionale del bene
giuridico. Sulla base del combinato disposto, la dottrina maggioritaria sostiene il
seguente assunto: il reato non può incentrarsi su un atto di infedeltà all’autorità statale
o sulla pericolosità soggettiva dell’autore, ma deve consistere in un fatto socialmente
dannoso e quindi oggettivamente lesivo (in forma di danno o di messa in pericolo) di
beni o interessi rilevanti e quindi meritevoli di tutela.
A sua volta il principio di offensività può essere considerato operante su un duplice piano:
- da un lato, funge da criterio di conformazione legislativa dei fatti punibili e cioè, vincola il
legislatore a costruire reati come fatti che incorporano un’offesa a più beni giuridici;
- dall’altro, il principio di offensività, funge da criterio giudiziario interpretativo, e quindi
vincola il giudice in sede applicativa a qualificare come reati solo i fatti idonei in concreto ad
offendere beni giuridici.
Questo duplice ruolo è stato riconosciuto e ribadito dalla Corte Costituzionale, affermando che tale
principio opera su due piani: sotto forma di precetto, rivolto al legislatore, di prevedere fattispecie che
esprimano in astratto un contenuto lesivo (offensività in astratto) e sotto forma di criterio
interpretativo-applicativo in sede giurisprudenziale, quindi affidato al giudice che è tenuto ad
accertare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene tutelato ( offensività in
concreto).
La Corte ha anche ridimensionato l’apparente carattere assoluto di tale principio di fronte a una
giustificata esigenza di anticipazione di tutela e ha infatti ammesso la compatibilità con tale principio
delle fattispecie di pericolo presunto o astratto, purché queste si fondino su collaudate regole di
esperienza.
Si riconduce al principio di offensività anche la nuova causa di non punibilità per particolare tenuità
del fatto, introdotta nel 2015.

Delitti e contravvenzioni
Il codice Rocco opera una distinzione tra delitti e contravvenzioni. I delitti dovrebbero rappresentare le
forme più gravi di illecito penali; le contravvenzioni le forme meno gravi.
Per molto tempo, la dottrina si è sforzata di ravvisare un criterio sostanziale di differenziazione tra
delitti e contravvenzioni.

Secondo un punto di vista che risale a Beccaria, i delitti offenderebbero la sicurezza pubblica e
privata, coincidente con l’integrità dell'insieme dei diritti di natura; mentre le contravvenzioni
violano soltanto le leggi destinate a promuovere il bene pubblico. Senonché una simile impostazione
risulta ben lontana dalla realtà degli ordinamenti penali moderni.
Secondo un'altra teoria, i delitti offendono le condizioni primarie ed essenziali del vivere civile;
mentre le contravvenzioni minacciano le condizioni secondarie e contingenti della convivenza.
Secondo un’ulteriore concezione risalente a Rocco, le contravvenzioni sono azioni o omissioni
contrarie all’interesse amministrativo dello Stato, ma un tale criterio può rintracciare obiezioni nel
fatto che sono andate crescendo le ipotesi delittuose poste a tutela di interessi lato sensu
amministrativi.

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Dato il fallimento di questi tentativi di rinvenire una differenza sostanziale tra delitti e
contravvenzioni, la dottrina ha in proposito ravvisato la differenza soltanto sulla maggiore o minore
gravità. Con la rivalutazione dell’illecito amministrativo avvenuta nell’81’, si è superata la vecchia
ripartizione dei reati in delitti e contravvenzioni, trasferendo in blocco il settore degli illeciti
contravvenzionali nel campo degli illeciti puniti con sanzione amministrativa. Ciò nonostante, esistono
degli illeciti posti in una situazione intermedia che, pur non integrando l’ipotesi di delitto, non
tollerano una riduzione a mero illecito amministrativo, o perché la semplice sanzione amministrativa
appare poco proporzionata rispetto al rango del bene protetto o al rango dell'offesa, o perché detta
sanzione, garantisce un’efficacia preventiva minore rispetto a quella penale.

→ La circolare della Presidenza del CdM del 1986 ha stabilito dei criteri orientativi per la scelta tra
delitti e contravvenzioni secondo i quali la materia contravvenzionale è circoscritta a 2 categorie di
illeciti:
 quelle previste nelle fattispecie di carattere preventivo o cautelare finalizzate alla tutela di beni
primari (vita, integrità fisica…) che dettano regole di prudenza, diligenza e perizia.
 quelle previste nelle fattispecie concernenti la disciplina di un'attività sottoposta ad un potere
amministrativo per il perseguimento di un pubblico interesse.
La circolare osserva, inoltre, che in entrambe le fattispecie l’elemento psicologico che sorregge
l’azione non ha rilievo e dunque nulla cambia se il soggetto ha agito con dolo o con colpa.
La circolare avverte che il regime giuridico delle contravvenzioni non è caratterizzato
quantitativamente dalla minore gravità dell’illecito rispetto ai delitti perché ad es. in termini di pena,
se la contravvenzione può risultare assai meno grave del delitto, può tuttavia essere anche più grave
(l’arresto è pena più incisiva della semplice pena pecuniaria della multa).

Sul piano del diritto positivo vigente, il criterio più sicuro di distinzione tra delitti e contravvenzioni,
rimane quello che si fonda sul diverso tipo di sanzioni comminate (art 39 cp), e infatti le pene
principali stabilite per i delitti sono l’ergastolo, reclusione e la multa (art 17 cp); mentre le pene
principali stabilite per le contravvenzioni sono l’ammenda e l’arresto.

La distinzione tra delitti e contravvenzioni assume particolare rilevanza rispetto all’elemento


soggettivo del reato e al tentativo (di reato).
I delitti richiedono, di regola, il dolo e la punibilità a titolo di colpa rappresenta l’eccezione; nelle
contravvenzioni si risponde indifferentemente a titolo di dolo o colpa.
Questo non vale nei casi eccezionali in cui è la stessa struttura del reato contravvenzionale a richiedere
il dolo o la colpa.

Il problema della responsabilità penale delle persone giuridiche


Tutt’oggi continua a vigere il principio individualistico “societas delinquere non potest" alla luce del
fatto che il nostro ordinamento attualmente sconosce forme di responsabilità penale a carico delle
persone giuridiche.
L’esclusione della responsabilità penale delle persone giuridiche, non essendo prevista esplicitamente
dal nostro ordinamento, suole essere dedotta dall’art. 197 c.p. che prevede una obbligazione civile di
garanzia della persona giuridica per il caso in cui, il rappresentante o l’amministratore commetta un
reato o in violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita o nell’interesse della persona giuridica
e versi in condizioni di insolvibilità. L’attribuzione all’ente di detto obbligo di garanzia non si
spiegherebbe se l’ente stesso potesse considerarsi soggetto attivo del reato.
Tuttavia, si è posto il problema del superamento del vecchio principio dell’esclusione della
responsabilità penale delle persone giuridiche a causa del dato per cui, talvolta, le più gravi forme

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di criminalità economica corrispondono a manifestazioni di criminalità d’impresa/societaria. Gli
strascichi relativi alla sopravvivenza o al permanere di questo principio emergono nei casi in cui
l’illecito costituisce la conseguenza di precise scelte di politica di impresa, per cui la mancata
punizione dell’impresa si traduce in un ingiustificato accollo di responsabilità a un altro soggetto.
È altrettanto problematica la concreta individuazione dei meccanismi sanzionatori da adottare e anche
la compatibilità della responsabilità delle persone giuridiche con i principi costituzionali relativi alla
materia penale.
1. Secondo una parte della dottrina il principio societas delinquere non potest rinverrebbe un
fondamento costituzionale dal principio del carattere personale della responsabilità penale (art.
27 comma 1 cost.).
Partendo dal presupposto che la norma costituzionale appena richiamata intende vietare la
responsabilità per fatto altrui, la società non potrebbe rispondere penalmente per la condotta
altrui di un suo organo; diversamente, facendo riferimento all’interpretazione che identifica il
carattere personale della responsabilità penale con la responsabilità ancorata al principio di
colpevolezza, la società non potrebbe rispondere personalmente in quanto incapace di
atteggiamento volitivo colpevole.
2. La teoria organicistica della persona giuridica riconosce soggettività reale all’ente collettivo in
virtù di un rapporto di rappresentanza organica tra l’ente stesso e le persone fisiche che ne
determinano la volontà e l’azione; di conseguenza, l’attività degli organi diventa
automaticamente imputabile alla persona giuridica.
La questione rimane aperta ove si aderisca alla tesi che intende detto principio di personalità
come inclusivo del requisito della colpevolezza quale presupposto del reato, cioè l’ente
collettivo è capace di agire con dolo o colpa? Per superare l’ostacolo sono state predisposte
sanzioni aventi il carattere della misura di sicurezza piuttosto che di pena in senso stretto,
ritenendo che l’applicazione delle misure di sicurezza implichi non tanto la colpevolezza del
destinatario della sanzione quanto la pericolosità sociale. A quanto pare, questa impostazione
risulta inidonea ad armonizzarsi con i nostri principi del sistema penale. Lo stesso requisito
della pericolosità sociale come presupposto della misura di sicurezza non risulta compatibile
con una ricostruzione che prescinda dall’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto,
riproponendo così la difficoltà di tradurre le manifestazioni dell’ente collettivo in
atteggiamenti psicologici effettivi.
Nel nostro ordinamento il concetto di pericolosità risulta strettamente connesso a quello della
risocializzazione, a sua volta poco compatibile nei confronti dell’ente collettivo.
Altro principio difficilmente compatibile con le manifestazioni proprie della persona giuridica,
soprattutto in rapporto all’atteggiamento psicologico dell’agente, risulta quello personalistico.

La responsabilità da reato degli enti collettivi


Con la riforma del 2001 è stato introdotta nel nostro ordinamento la responsabilità amministrativa
degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o dai loro sottoposti per prevenire la
commissione di reati all’interno degli enti collettivi. La scelta di qualificare come amministrativa la
nuova forma di responsabilità è frutto della necessità di allentare le consistenti tensioni del mondo
imprenditoriale, molto preoccupato per le eventuali ricadute economiche della riforma.
Trattasi di una disciplina che formalmente definisce amministrativa una responsabilità che nella
sostanza assume un volto penalistico (tertium genus): infatti, la responsabilità dell’ente è
strettamente connessa alla commissione di un fatto di reato e la sede in cui viene accertata è pur
sempre il processo penale.
Progressivamente, è stato esteso il novero dei reati per cui era stata originariamente prevista la
responsabilità degli enti.

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La scelta più discutibile a riguardo sembra essere stata quella di includere tra i reati presupposti
della responsabilità degli enti, l’associazione criminosa (delle diverse tipologie es. associazione a
delinquere, mafiosa). Si auspica che con sanzioni prevalentemente a carattere economico si possa
conseguire l’obiettivo politico-criminale di riportare alla legalità gruppi che operano per fini illeciti.

Caratteristiche fondamentali e presupposti applicativi essenziali del nuovo istituto


1. Le disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti si applicano sia a enti aventi
personalità giuridica che a società e associazioni che ne sono prive; invece non si applicano
allo Stato, a enti pubblici territoriali, a enti pubblici non economici ed a enti che svolgono
funzioni di rilievo costituzionale;
2. Il giudizio di responsabilità è subordinato alla presenza di determinati requisiti:
- La commissione da parte di una persona fisica di un determinato reato, consumato o
tentato;
- L’esistenza di un rapporto qualificato tra l’autore del reato e l’ente vale a dire una
posizione apicale del soggetto nella società definibile in termini di rappresentanza,
amministrazione, direzione, gestione o controllo di fatto, o anche un rapporto di
dipendenza del soggetto autore del reato da persone in posizione apicale;
- L’interesse o vantaggio dell’ente;
- Il carattere non territoriale, non pubblico o non di rilievo costituzionale dell’ente;
- L’inesistenza di un provvedimento di amnistia per il reato da cui dipende l’illecito
amministrativo.

Trattasi di requisiti da accertare rigorosamente in sede giudiziale anche in fase cautelare, qualora ne
ricorrano i presupposti.
Bisogna chiarire perché il decreto richiede che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio
dell’ente (fermo restando che lo stesso non risponde se il reato è commesso nell’interesse esclusivo
dell’autore materiale o di terzi).
L’interesse caratterizzerebbe la condotta della persona fisica in senso marcatamente soggettivo,
ritenendo sufficiente una verifica ex ante; mentre il vantaggio potrebbe essere ricavato anche quando
la persona fisica non agisca per un interesse proprio, occorrendo sempre una verifica ex post; tuttavia,
sembra preferibile l’orientamento ormai dominante che si basa su un unico concetto di interesse da
intendersi in senso obiettivo, in rapporto alla condotta dell’autore del reato.
3. Circa i criteri di imputazione soggettiva, è stato normativamente configurato un modello di
colpevolezza sui generis concepita pur sempre come rimproverabilità soggettiva, ma questa
volta peculiarmente connessa al fatto che il reato dovrà costituire anche espressione della
verifica aziendale o almeno derivare da una colpa di organizzazione. All’ente viene richiesta
l’adozione di modelli comportamentali volti ad impedire, tramite la fissazione di regole di
condotta, la commissione di determinati reati. Pertanto, l’adozione del modello assurge a
requisito indispensabile affinchè possa derivare l’esenzione da responsabilità dell’ente che
l’abbia efficacemente attuato. In altri termini, la specifica colpevolezza della persona giuridica
si configura quando il reato commesso da un suo organo o sottoposto rientra in una decisione
imprenditoriale oppure quando è conseguenza del fatto che l’ente stesso non si sia dotato di un
modello di organizzazione idonea a prevenire reati del tipo di quello verificatosi o in caso di
omessa o insufficiente vigilanza degli organi di controllo.

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I criteri di imputazione soggettiva del reato all’ente vengono normativamente differenziati a
seconda che il reato sia commesso da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti
all’altrui direzione.
- Nel primo caso presupponendo il legislatore che essi agiscono secondo la volontà d’impresa, è
prevista un’inversione dell’onere della prova, sicchè l’ente, per esimersi da responsabilità,
deve dimostrare: I. che gli apicali hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente il
modello di organizzazione e gestione; II. che non vi è stata omessa o insufficiente
sorveglianza da parte dell'organismo di vigilanza/di controllo.
- Nel secondo caso, l’ente è responsabile soltanto se la commissione del reato è stata resa
possibile dall’inosservanza di obblighi di direzione e vigilanza, inosservanza comunque
esclusa se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un
modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo.

4. E’ espressamente introdotto il principio di autonomia della responsabilità dell’ente per cui


lo stesso risponde anche quando:
 l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
 il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.

5. La responsabilità degli enti non ha portata generale ma circoscritta a figure di reato


espressamente previste. Il quadro complessivo di reati-presupposti risulta molto vasto:
 reati contro la PA
 reati contro la fede pubblica
 reati con finalità di terorismo e di eversione dell'ordine democratico
 reati contro l’ordine pubblico
 reati contro la persona
 reati contro la personalità individuale
 reati informatici
 reati contro il patrimonio
 reati contro l’industria del commercio
 reati societari
 abusi di mercato
 reati in materia di violazione del diritto d’autore
6. Le misure sanzionatorie previste contro l’ente responsabile vanno da sanzioni pecuniarie, a
sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna.

SEZIONE II - STRUTTURA DEL REATO

Premessa
La dottrina penalistica ha tentato di costruire una dottrina generale del reato, volta ad unificare tutti gli
elementi comuni alle varie tipologie delittuose al fine di soddisfare aspettative di certezza giuridica (in
mancanza di categorie concettuali rigorose il giudice non avrebbe punti di riferimento sicuri per
orientare la decisione sui casi concreti secondo criteri di razionalità ed imparzialità).
Tuttavia, è necessario cogliere anche le particolarità del caso concreto per evitare degli abusi di
generalizzazione e un appiattimento dei tratti peculiari delle singole fattispecie di reato, per cui, oggi,
la dottrina penalistica ha distinto i reati in:
 reati di azione
 reati di omissione
 reato doloso

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 reato colposo

Analisi della struttura del reato


Elemento centrale del reato è il fatto umano che corrisponde alla fattispecie obiettiva di una figura
criminosa: questa corrispondenza tra fatto e schema legale si risolve nel concetto di tipicità.
Tuttavia, un fatto tipico così inteso non sempre si pone in contrasto con l’ordinamento giuridico,
essendo consentite situazioni in presenza delle quali viene autorizzata la realizzazione di un fatto
altrimenti punibile. Ai fini dell'integrazione di un illecito penale il fatto deve risultare conforme alla
fattispecie astratta ed essere realizzato contra ius: il giudizio di antigiuridicità si risolve nel contrasto
tra fatto tipico e ordinamento.
Ai fini della punibilità della condotta risulta necessario che la stessa sia riconducibile alla
responsabilità dell’autore, così riassumendo il concetto di colpevolezza.
Definiremo, dunque, il reato come un fatto umano tipico, antigiuridico e colpevole: questa è la cd.
concezione tripartita.
Nell’ambito della dottrina penalistica italiana alla concezione cd. tripartita si affianca la teoria della
bipartizione, che scompone il reato in elemento oggettivo e soggettivo, mancando, quindi,
l’antigiuridicità come elemento costitutivo dell’illecito penale.
La compresenza delle due teorie si giustifica alla luce del carattere convenzionale dei meccanismi di
analisi della struttura dell’illecito penale: ogni studioso adotta la concezione sistematica che ritiene
maggiormente adatta a descrivere l’oggetto di indagine. Nonostante la legittimazione di entrambe le
concezioni, quella tripartita (nella concezione di Fiandaca- Musco) soddisfa meglio le esigenze di
indagine relative ai reati. Le tre categorie dogmatiche in cui essa scompone il reato assolvono a
funzioni specifiche non intercambiabili, ognuna relativa ad aspetti diversi delle tecniche di tutela
penalistica. Presenta l’ulteriore vantaggio di scomporre la struttura del reato nei passaggi in cui si
articola il giudizio di accertamento del fatto di reato in sede processuale (es. omicidio presuppone
prova del fatto tipico, verifica dell’illiceità del fatto e prova della colpevolezza dell’autore).

La concezione bipartita è quella a cui la giurisprudenza italiana appare più legata in quanto la
concezione tripartita, pur essendo più idonea alla prassi applicativa, mantiene un profilo di
ambiguità in merito alla collocazione sistematica delle cause di giustificazione. Infatti, la
giurisprudenza dominante ha escluso che queste ineriscano alla struttura di reato e le qualifica come
cause esterne, impeditive della punibilità, in quanto suscettive di operare solo nel caso in cui ne sia
stata raggiunta la prova piena. Un tale approccio rappresenta più che altro un espediente concettuale
per assecondare preoccupazioni di difesa sociale. Oggi la questione sembra risolta in quanto il
codice di procedura penale, all’art 530 c 3, dice che il giudice dovrà comunque pronunciare sentenza
di assoluzione piena se vi sono dubbi sull’esistenza di cause di giustificazione. È così venuta meno la
maggiore preoccupazione pratica che ha, verosimilmente, impedito alla giurisprudenza di accogliere
la concezione tripartita, dando così ingresso all’elemento dell’“antigiuridicità obiettiva”, inteso come
assenza di cause di giustificazione.

Fatto tipico
Nell'ambito del diritto penale, il concetto di fatto tipico o tipo delittuoso va inteso come il complesso
degli elementi che delineano il volto di uno specifico reato: perciò il fatto, come oggetto del giudizio
di tipicità, ingloba soltanto quei contrassegni, in presenza dei quali, si può ritenere adempiuto un
particolare modello delittuoso e non un altro (es. omicidio > il fatto consiste nell’aver cagionato la
morte di un uomo).

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Costruire il concetto di fatto equivale a plasmare questo concetto in funzione del principio nullum
crimen sine lege, assolvendo la funzione garantista di indicare ai cittadini i fatti che devono astenersi
dal compiere per non incorrere nella sanzione penale.
Nel tipizzare i contrassegni delle diverse figure delittuose, il fatto ritaglia e circoscrive specifiche
forme di aggressione ai beni penalmente tutelati: selezionando le forme o modalità di offesa che il
legislatore ritiene così intollerabili da giustificare il ricorso all’extrema ratio della pena, la categoria
della tipicità segna i limiti della tutela che il diritto penale accorda ai beni giuridici considerati
meritevoli di protezione.
La categoria del fatto tipico, quindi, deve essere idonea a rispettare il più possibile tutte le esigenze
poste dal principio di materialità, che esige che il reato si manifesti in un contegno esteriore
accertabile empiricamente. È quindi necessario evitare che il legislatore crei tipi artificiali di reato che
non trovano alcun riscontro nella realtà concreta. Questo perché, in primis, il giudice non sarò in grado
di accettare il fatto materiale (es. plagio > dichiarato incostituzionale perché la fattispecie
incriminatrice non riusciva a descrivere un fatto materiale suscettivo di accertamento empirico nella
realtà esterna).
Pertanto, la categoria del fatto tipico, dovrebbe assolvere l’ulteriore funzione di ancorare i modelli
delittuosi a tipi di comportamento basati su definite tipologie empirico-criminologiche.

Tipicità e offesa del bene giuridico


Tra le principali funzioni della categoria del fatto tipico, vi è quella di descrivere specifiche modalità
di aggressione ai beni penalmente protetti. Ciò vuol dire che la tipicità del fatto si riconnette
intimamente alla lesione del bene giuridico. Pertanto, la categoria del bene giuridico non può non
occupare un ruolo centrale nella costruzione della fattispecie delittuosa. Essa, oltre ad assumere un
ruolo fondante della punibilità quale criterio legislativo di criminalizzazione e a fungere quale criterio
ermeneutico in una prospettiva teleologica, assolve anche un’importante funzione dogmatica, la quale
consiste nel far sì che la tipicità stessa concettualmente includa la lesione del bene giuridico.
Un fatto che non sia capace di offendere il bene tutelato dalla norma, soltanto apparentemente è
conforme al tipo di reato: in realtà tale conformità manca.

Tipicità apparente: che la tipicità della condotta inglobi la lesione del bene appare in alcuni casi di
evidenza tangibile (es. omicidio). Tuttavia, esistono altri casi in cui, all’esteriore conformità del fatto
alla fattispecie legale non si accompagni una effettiva lesione del bene protetto (es. furto di un acino
di uva). Qui la tipicità è soltanto apparente perché non può seriamente essere considerato conforme
alla fattispecie un fatto così manifestamente privo dell’idoneità a pregiudicare interessi tutelati dalle
norme che incriminano il furto, in questi casi l’illecito penale degraderebbe a illecito di pura
disobbedienza. Il principio della tendenziale corrispondenza tra tipicità e offesa del bene giuridico
può subire delle deroghe a causa della difettosa formulazione tecnica delle fattispecie incriminatrici.
Fenomeno riscontrabile nell’ambito della legislazione penale extracodicistica, dove tende a prevalere
un modello di illecito penale soltanto formale la cui idoneità lesiva è spesso presunta o comunque
difficilmente verificabile nel caso concreto.

Antigiuridicità
La conformità alla fattispecie, secondo la dottrina rilevante, è un indizio del carattere antigiuridico
del fatto. Tuttavia, in certi casi, tale fatto può ritenersi giustificato o consentito in base ad una
valutazione effettuata alla stregua dell’intero ordinamento giuridico; questo è imposto dal principio
dell’unità del sistema giuridico, in quanto, se un’azione è consentita in un settore dell’ordinamento,
non può risultare illecita in un altro settore dello stesso ordinamento. Infatti, soltanto l’intero
ordinamento è in grado di di indicare ad un soggetto la regola di condotta da adottare nel caso singolo

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(es. ufficiale giudiziario che effettua un pignoramento, anche se commette un fatto astrattamente
conforme al delitto di furto, in quanto sottrae al proprietario della cosa, non realizza di certo un furto
punibile perché esiste una norma del c.p.c. che gli fa obbligo di compiere quest’atto).
Il carattere unitario del giudizio dell’antigiuridicità in seno all’ordinamento giuridico è comprovato
da norme processuali che regolano i rapporti tra diritto processuale penale, civile e amministrativo.
L’art.652 c.p.p. stabilisce che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato,
quanto all’accertamento che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di
una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo (nell’ipotesi in cui il danneggiato agisca in
sede civile) > principio di non contraddizione dell’ordinamento.
L’art.651 c.p.p. vincola il giudice civile e amministrativo al giudicato penale di condanna >
l’accertamento dell’antigiuridicità del fatto in sede penale costituisce requisito unitario ricavabile una
volta per tutte con riguardo sia al torto penale, che a quello civile, che a quello amministrativo.

Il requisito di antigiuridicità si risolve nell’accertamento che il fatto tipico non sia coperto da alcuna
causa di giustificazione o esimente.

In seno alla concezione tripartita del reato, l’antigiuridicità ha carattere oggettivo e come tale
prescinde ed è distinta dalla colpevolezza; questo modo di intendere l'antigiuridicità corrisponde alla
stessa enunciazione codicistica: l’art 59 fissa la regola della rilevanza obiettiva delle cause di
giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute dall’agente, presupponendo così
un’antigiuridicità concepita su base puramente oggettiva.
L’autonomia dell’antigiuridicità, rispetto alla colpevolezza, è altresì suffragata dal fatto che essa è da
intendersi quale categoria unitaria in seno all’ordinamento, specie nelle ipotesi di responsabilità cd.
obiettiva, nelle quali, il giudizio di contraddizione tra fatto e diritto tende sempre di più a prescindere
dall’esistenza di requisiti soggettivi di imputazione.
La concezione dell’antigiuridicità come categoria obiettiva, come elemento autonomo del reato, è stata
contestata da parte della dottrina, che nel farlo è ricorsa al concetto di elementi negativi del fatto, ossia
elementi che devono mancare affinché l’illecito penale si configuri (sulla base di ciò, l’omicidio
sarebbe così costruito: “è vietato cagionare la morte di un uomo a meno che l’aggressione non sia
giustificata dalla necessità di difendersi”.
La ragione storica che ha originato la teoria degli elementi negativi del fatto è da ricondursi alla
ricerca di espedienti concettuali che consentissero di risolvere il problema dell’errore sull’esistenza
delle cause di giustificazione in seno ad ordinamenti, quale quello tedesco, non muniti di una
normativa ad hoc. Di contro, rende questa teoria superflua in un ordinamento che, come quello
italiano, disciplina espressamente l’errore sulle scriminanti.
La funzione della categoria penale del fatto è quella di selezionare le forme di offesa meritevoli di
sanzione penale indi per cui, la stessa categoria assume connotazione prettamente penalistica. Di
contro, la categoria delle cause di giustificazione, proprio perché va ricostruita alla stregua dell'intero
ordinamento giuridico, non ha funzione prettamente penalistica, ma serve ad integrare il diritto penale
nell’ordinamento generale. Questo spiega perché la tutela del bene protetto dalla norma incriminatrice,
che viene in questione, debba cedere rispetto alla tutela del bene contrapposto oggetto della norma
extra-penale configurante la causa di giustificazione. Se l’esimente, in qualità di norma autonoma, è
speciale rispetto alla norma incriminatrice, perseguendo le sue specifiche finalità di tutela, fa assurgere
ad oggetto di facoltà o dovere quel fatto che una norma penale ha elevato a reato, nell’instaurarsi di un
apparente conflitto tra norme, la risoluzione dello stesso deve necessariamente sacrificare il bene
aggredito dal fatto punibile.

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Dal fatto che le norme configuranti le cause di giustificazione non hanno carattere specificamente
penale ne derivano due importanti conseguenze:
 la disciplina delle scriminanti non è subordinata al principio della riserva di legge
 possono essere estese analogicamente essendo le scriminanti autonome norme extrapenali
desumibili da tutto l'ordinamento.
Il fatto obiettivamente lecito è soltanto non punibile, ma legittimo rispetto a tutti i settori
dell’ordinamento, per cui non potrà costituire presupposto di alcuna reazione sanzionatoria, né civile,
né amministrativa, né disciplinare. Paralizza altresì ogni forma di reazione anche legittima contro di
esso, per cui non mai impedibile. La verifica dell’esistenza di cause di giustificazione poggia su criteri
più formali che sostanziali, perché le esimenti non sono liberamente individuabili dal giudice ma
costituiscono oggetto di esplicita previsione normativa.

L’antigiuridicità cd. materiale è una teoria che darebbe conto delle ragioni sostanziali alla base
dell’incriminazione, ossia: l’antisocialità del fatto e la lesione del bene protetto penalmente. Si badi,
però, che il profilo dell’incidenza lesiva del fatto sul bene è già assorbito dal giudizio di tipicità.
D’altra parte, le ragioni sostanziali a fondamento della scelta legislativa di penalizzare un determinato
comportamento vanno oltre quelle riconducibili all’antigiuridicità materiale come tradizionalmente
concepita. L’antigiuridicità materiale come requisito distinto o ulteriore rispetto a quello di non
conformità alle norme positive appare inaccettabile se ricostruito sulla base di parametri
dichiaratamente ultralegali e di stampo eticizzante.

L’antigiuridicità o illiceità speciale è relativa ai casi in cui la condotta tipica è contraddistinta da una
nota di illiceità desumibile da una norma diversa rispetto a quella incriminatrice. La presenza di questa
speciale antigiuridicità che si distingue rispetto a quella oggettiva, intesa come assenza di cause di
giustificazione., è indiziata da espressioni legislative quali “illegittimamente”, “abusivamente”,
“arbitrariamente”; oppure, “contro le disposizioni della legge o dell’autorità” ovvero “abusando dei
poteri e delle qualità”. Si tratta di elementi normativi della fattispecie per la cui determinazione
occorre fare riferimento ad una disposizione extra penale:
 art.348 > esercizio abusivo di una professione: l’avverbio “abusivamente” richiede un
contrasto con le disposizioni amministrative che disciplinano le singole professioni
 art.659 > mestiere rumoroso: richiede che il fatto avvenga contro le disposizioni della legge o
le prescrizioni dell’autorità.
La rilevanza pratica della categoria si coglie sul terreno del dolo e dell’errore perchè un eventuale
errore sulla norma extrapenale che disciplina l’antigiuridicità cd. speciale, si risolve in un errore sul
fatto che esclude il dolo. Può accedere, talvolta, che l’illiceità speciale si colga per via interpretativa,
ad esempio, nel caso di fattispecie di attentato contro organi costituzionali, la cui condotta tipica
consiste nell’impedire temporaneamente l’esercizio delle funzioni, richiedendo ciò la violazione delle
norme pubblicistiche attributive dei corrispondenti poteri. Per converso, si registrano casi in cui l’uso
di una delle tipiche formule linguistiche della illiceità penale, altro non è che una ridondanza retorica
come il caso dell’art. 392 che, nell’incriminare, l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza
sulle cose, utilizza l’avverbio “arbitrariamente”, nulla aggiungendo al carattere illecito del fatto
medesimo.

La colpevolezza
La colpevolezza riassume le condizioni psicologiche che consentono l’imputazione personale del fatto
di reato all’autore. Nel giudizio di colpevolezza rientra anzitutto la valutazione del legame psicologico
o del rapporto di appartenenza tra fatto e autore, oltre che la valutazione delle circostanze che
incidono sulle capacità di autodeterminazione del soggetto.

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Ciò non vuol dire che il concetto di colpevolezza presuppone, come condizione costitutiva, il libero
arbitrio, in senso filosofico: storicamente, ha predominato la concezione retributiva per cui la pena era
concepita come reazione avente come scopo di compensare la colpevolezza del reo e in quest'ottica, la
colpevolezza era fondata sul libero arbitrio; nell’attuale momento storico, caratterizzato da una
concezione più laica del diritto penale e dalla teoria preventiva della pena, la colpevolezza perde il
tradizionale ruolo di fondamento della pena e la ratio che la giustifica va piuttosto individuata
nell’ambito di un diritto penale idoneo a contemperare l’efficienza preventiva con la garanzia delle
libertà fondamentali del singolo.
Il diritto penale, in altri termini, come strumento di controllo sociale, non può attendere la
dimostrazione scientifica della libertà del volere e fa proprio il principio della responsabilità umana
come presupposto necessario della vita pratica. La legge penale garantisce la libertà di scelta
individuale nella misura in cui rifiuta la responsabilità oggettiva basata sul puro nesso di causalità
materiale e subordina, invece, la punibilità alla presenza di coefficienti soggettivi: dolo e colpa,
nell’assumerli come presupposto della responsabilità questo consente di circoscrivere la punibilità nei
limiti di ciò che è prevedibile ed evitabile da parte del soggetto, consentendo a ciascuno di pianificare
la propria vita senza incorrere in sanzioni penali.
Questa spiegazione di matrice liberalgarantistica è stata avallata dalla Corte Costituzionale con
sentenza n.364/88 la quale ha ravvisato la ratio della colpevolezza nell'esigenza di garantire al privato
la certezza di libere scelta d’azione: sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui
controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente
vietate.
Così intesa, la colpevolezza assurge a criterio cardine della responsabilità penale ponendo un limite
alla discrezionalità del legislatore ordinario nell’incriminazione dei fatti penalmente sanzionabili,
indicando necessari requisiti minimi di imputazione senza la previsione dei quali, il fatto non può
essere legittimamente sottoposto a pena. Così facendo, si rafforza la tesi dell’illegittimità
costituzionale delle ipotesi residue di responsabilità obiettiva: infatti, in mancanza di coefficienti
soggettivi di imputazione, il soggetto può essere ritenuto responsabile anche di fatti che esulano dal
suo potere di personale controllo.
Nella dottrina contemporanea, la colpevolezza in senso dogmatico tende ad essere concettualmente
distinta a seconda che funga da elemento costitutivo del reato, accanto a tipicità e antigiuridicità,
oppure da criterio di commisurazione della pena.

Costruzione separata dei tipi di reato


Per molto tempo, gli ordinamenti penali si sono limitati a sanzionare la violazione di divieti di
compiere azioni criminose volontarie. In seguito però all’evoluzione del processo tecnologico, si è
registrato un aumento di fattispecie penali incentrate sull’inosservanza di obblighi positivi di condotta
aventi la finalità di salvaguardare beni esistenti o l’espansione di beni suscettivi di incremento >
crescita dei reati colposi e dei reati omissivi.
La scienza penalistica è giunta, infine, a prospettare una nuova sistematica del reato intesa a
valorizzarne meglio, in piena autonomia, le relative peculiarità strutturali, registrando un’inversione di
tendenza dal passaggio dalla costruzione unitaria dell’illecito penale alla costruzione separata delle
rispettive tipologie delittuose del delitto colposo e doloso, nonché del delitto commissivo ed omissivo.

Classificazione dei tipi di reato


In base alla rispettiva struttura, le tipologie delittuose si possono suddividere in diverse categorie.

Reati di evento

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La fattispecie incriminatrice tipicizza un evento esteriore come risultato concettualmente e
fenomenicamente separabile dall’azione e a questa legato in base a un nesso di causalità.
Distinguiamo reati di evento a forma vincolata e reati di evento a forma libera (o reati causali puri) , a
seconda che il legislatore specifichi o no le modalità di produzione del risultato lesivo.
Art. 438 c.p. che incrimina chiunque cagioni un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni;
art. 575 c.p. che punisce chiunque cagioni la morte di un uomo. Ricorrendo a questa ultima tecnica di
incriminazione il legislatore mira all’obiettivo di apprestare una tutela molto estesa del bene oggetto di
protezione in quanto sono sottoposte a pena tutte le possibili modalità di aggressione al bene stesso.
La distinzione assume rilevanza nell’ambito del procedimento di conversione di un’ipotesi
commissiva di reato in un’ipotesi di mancato impedimento dell’evento ex art. 40 cp, essendo
suscettibili di conversione solo le fattispecie causali pure.

Reati di azione
I reati di azione consistono nel semplice compimento dell’azione vietata senza che sia necessario
attendere il verificarsi di un evento causalmente connesso alla condotta.

Reati commissivi (o di azione) ed omissivi (o di omissione)


Nei primi la condotta è rappresentata da un agire positivo, nei secondi da una omissione.
Esiste una sotto-distinzione nell'ambito delle fattispecie omissive tra reati cd. omissivi propri e reati
omissivi cd. impropri: i reati omissivi propri consistono nel semplice e mancato compimento di
un’azione imposta da una norma penale di comando a prescindere dalla verificazione di un evento
come conseguenza della condotta omissiva (es. omissione di soccorso); i reati omissivi impropri si
configurano quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di un’azione doverosa (es.
omicidio colposo dovuto alla mancata sorveglianza di un bambino).

Reati istantanei e reati permanenti


Nei reati istantanei la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa in quanto è impossibile
che la lesione del bene persista nel tempo, ad es. nell’omicidio la lesione si esaurisce nel momento
della morte.
Nei reati permanenti l’agente non soltanto instaura la situazione antigiuridica ma il protrarsi
dell’offesa dipende dalla sua stessa volontà; infatti, l’agente potrebbe rimuovere la situazione
antigiuridica determinando la riespansione del bene compresso. Nella categoria rientrano sia i reati che
offendono beni immateriali che quelli materiali purché suscettibili di compressione: in questo ultimo
caso vedi delitto di invasione di terreni.
Nei reati permanenti acquista rilevanza giuridica oltre all’attività del soggetto che realizza la lesione
del bene anche quella successiva di mantenimento. Ne deriva che gli estremi della fattispecie di un
reato permanente non sono ancora realizzati senza il mantenimento per un apprezzabile lasso di tempo
dello stato antigiuridico (es. ladri che immobilizzano per un breve tempo i custodi della villa→ no
reato di sequestro di persona).
La dottrina dominante respinge oggi la concezione cd. bifasica permanente, secondo la quale la fase
della cd. instaurazione si realizza con un’azione e quella del mantenimento con un’omissione,
ammettendosi anche il caso contrario di instaurazione con omissione e mantenimento con azione
positiva.
Il reato permanente cessa nel momento in cui si mette fine alla condotta volontaria di mantenimento
dello stato antigiuridico.

Dibattuta è la natura istantanea o permanente dei reati omissivi propri: secondo un criterio distintivo il reato
omissivo è permanente tutte le volte in cui ai fini dell'adempimento dell’azione doverosa sia fissato un termine

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ordinatorio; in questo caso la permanenza perdura fino a quando il soggetto non adempia al suo obbligo di agire.
Sarebbe, invece, reato omissivo istantaneo quando ai fini dell’adempimento sia previsto un termine di scadenza
perentorio decorso il quale il soggetto obbligato non è più in grado di far cessare lo stato di antigiuridicità
conseguente alla condotta illecita.
In dottrina risulta, invece, più diffusa la tesi secondo cui i reati omissivi possono, eccezionalmente, assumere
natura permanente: è il caso in cui il dovere di agire imposto dalla norma permanga nel tempo anche
successivamente alla prima manifestazione della situazione da cui esso ha origine (es. mentre sarebbe istantaneo
il dovere di prestare immediato soccorso a una persona in pericolo, è perdurante l’obbligo del proprietario di
provvedere alla riparazione di un edificio pericolante, con conseguente carattere permanente del reato derivante
dalla sua inosservanza).

Sono prive di reale autonomia le figure del reato eventualmente permanente (in cui l’offesa è fatta
durare in concreto nel tempo dall’agente, es. ingiuria realizzata con numerose espressioni offensive) e
del reato istantaneo con effetti permanenti (caratterizzato dalla durata delle conseguenze, es,
omicidio).
Il reato permanente è un reato unico, lesivo di uno stesso bene giuridico. Trattasi di una distinzione
che acquista rilevanza pratica sotto diversi profili: al momento della cessazione della permanenza la
legge fa riferimento, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione, dell’applicabilità
dell’amnistia, del termine per proporre querela.

Reati abituali
Trattasi di quegli illeciti penali per la cui realizzazione è necessaria la reiterazione nel tempo di più
condotte della stessa specie.
A differenza del reato permanente, caratterizzato dal perdurare nel tempo senza interruzione della
situazione antigiuridica prodotta dall’agente, nel reato abituale ci si trova di fronte alla reiterazione
intervallata nel tempo della stessa condotta o di più condotte omogenee, ad es. il reato di
maltrattamenti in famiglia, per sua stessa natura, richiede il ripetersi nel tempo di più comportamenti
offensivi; ad. es. il delitto di sfruttamento della prostituzione esige molteplici atti di utilizzazione
strumentale dell’altrui persona in quanto solo da questa reiterazione di condotte è desumibile la
caratteristica di abitualità.
Si distingue, inoltre, un reato abituale proprio e uno improprio: nel primo (sfruttamento prostituzione)
le singole condotte autonomamente considerate sono penalmente irrilevanti; nel secondo (relazione
incestuosa) ciascun singolo atto integra di per sé altra figura di reato (nella specie il reato di incesto).
Dal fatto che il disvalore penale deriva solo dall’insieme delle condotte reiterate, però, non può
ricavarsi la necessità che il soggetto agisca anche con dolo unitario, risultando sufficiente una
coscienza e volontà di volta in volta rapportata alle singole condotte.
La natura abituale del reato assume rilevanza sotto profili sia sostanziali che procedurali, sicché la
prescrizione comincia a decorrere dall’ultima condotta integrante reato, il termine per proporre querela
dalla realizzazione di condotte già sufficienti ad assumere rilievo penale.

Reati propri e reati comuni


Il reato proprio è quell’illecito che può essere commesso soltanto da chi riveste una particolare
qualifica o posizione idonee a porre il soggetto in una speciale relazione con l’interesse tutelato, ad es.
qualifica di pubblico ufficiale nei reati contro la PA (vedi peculato).
I reati propri sono ulteriormente differenziabili a seconda che il possesso della qualifica determini la
stessa punibilità del fatto (reato proprio in senso puro, es. omissione atti d’ufficio) ovvero comporti un
mutamento del titolo del reato (reato proprio in senso lato, es. appropriazione indebita che si trasforma
in peculato se commessa da pubblico ufficiale).

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La distinzione tra reati propri e reati comuni assume rilevanza ai fini della determinazione del dolo e
del concorso di persone.

Reati di danno e reati di pericolo


Si distinguono a seconda che la condotta criminosa comporti la lesione effettiva o la messa in pericolo
o lesione potenziale del bene giuridico assunto ad oggetto di tutela penale.
Es. reato di danno→ delitto di omicidio, il bene aggredito subisce una completa distruzione a seguito
dell’azione criminosa. Ma il danno può anche consistere in una diminuzione del bene.
Es. reato di pericolo→ incendio, il fatto di cagionarlo è punito per i risultati lesivi che possono
derivarne a carico di una cerchia indeterminata di persone, anche se nessuna in concreto subisse dei
danni.
Sussistono delle precise correlazioni tra la struttura di danno o di pericolo del fatto di reato e la natura
del bene oggetto di protezione. Suscettivi di essere distrutti o menomati sono i beni dotati di substrato
empirico (vita, integrità fisica). La possibilità di accertarne l’effettivo nocumento decresce, infatti,
man mano che il bene protetto perde di spessore materiale (pudore, onore).
Mentre i reati di danno costituiscono la fattispecie delittuosa classica, quelli di pericolo sono stati
oggetto di una rilevante espansione in tempi più recenti, determinata da due fenomeni: evoluzione
tecnologica con conseguente incremento delle attività rischiose; assunzione da parte dello Stato di
compiti di natura solidaristica che ha indotto il legislatore penale ad anticipare alla semplice messa in
pericolo la tutela di beni particolarmente rilevanti per la collettività.

Reati di pericolo concreto e di pericolo presunto


Tradizionalmente i reati di pericolo vengono distinti in due categorie:
 di pericolo concreto o effettivo → il pericolo rappresenta elemento costitutivo della fattispecie
incriminatrice, spettando così al giudice, in base alle circostanze del singolo caso concreto,
accertarne l’esistenza (es. delitto di strage: il giudice è investito del compito di accertare se gli
atti compiuti al fine di uccidere presentino il requisito della effettiva pericolosità nei confronti
di un indeterminato numero di persone).
 di pericolo presunto o astratto → si presume, in base ad una regola di esperienza, che al
compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo. Il legislatore si limita a
tipizzare una condotta, al cui compimento tipicamente o generalmente, si accompagna la
messa in pericolo di un determinato bene: una volta accertata la prima il giudice è esonerato
dallo svolgere ulteriori indagini di verifica del secondo (es. incendio di cose altrui: il
legislatore si limita a tipizzare il fatto, <<chiunque cagiona un incendio è punito>> nella
presunzione che l’incendio sia un accadimento di comune pericolo).

La tradizionale bipartizione dei reati di pericolo ha subito tentativi di revisione, nel corso degli ultimi anni. E’
stata evidenziata la relatività della contrapposizione tra pericolo astratto e concreto, presentando come decisivo
non soltanto il coinvolgimento del giudice in sede di accertamento, ma anche la collocazione che riceve il grado
di concretezza o astrattezza del pericolo nella struttura del tipo delittuoso, oltre che i criteri di accertamento
adottati per verificarne l’esistenza. Nell’ambito della specie di pericolo concreto perché assunto ad oggetto di
accertamento giudiziale distinguiamo tra più e meno concreto, a seconda che il giudice debba verificare I. che
uno o più soggetti passivi determinati abbiano effettivamente subito una minaccia; II. che l’azione realizzata sia
idonea a ledere a prescindere dalla circostanza che i titolari del bene protetto siano stati lesi. Es. art. 440 —> in
questo caso il pericolo è soggetto all’accertamento del giudice nelle situazioni di fatto che, di volta in volta,
vengono sottoposte al suo vaglio. Tuttavia, qui il pericolo non rileva come minaccia individualizzata nei
confronti di uno o più persone ma assume rilevanza come attitudine dell’azione a danneggiare la salute di coloro
che possono venire in contatto con le sostanze alterate.

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Problemi di costituzionalità → i reati a pericolo astratto sollevano problemi sotto il profilo
costituzionale. La questione è relativa all’illecito di pericolo presunto e, in particolare, ci si chiede se
questo modello di illecito si caratterizza per il fatto di tipicizzare una condotta ritenuta pericolosa sulla
base di una regola di esperienza, considerando che sussistono casi in cui il giudizio in questione risulta
falso. Succede, infatti, che in alcune ipotesi alla realizzazione dell’azione vietata non sempre segue il
pericolo che lo stesso divieto penale si impone di impedire. Da qui il rilievo che gli illeciti di pericolo
presunto rischiano di reprimere la mera disobbedienza dell’agente, vale a dire reprimere la semplice
inottemperanza ad un precetto penale senza che a questa si accompagni una effettiva esposizione a
pericolo del bene protetto. Parte della dottrina, partendo da queste obiezioni, ha posto in dubbio la
stessa legittimità costituzionale dei reati a pericolo presunto: introducendo o mantenendo illeciti così
strutturati, il legislatore finisce col disattendere il principio di necessaria lesività che comprende sia la
lesione che l’effettiva messa in pericolo del bene protetto.
Il reale problema risiede nella corretta individuazione dei settori nei quali risulta consigliabile se
non necessario anticipare la tutela fino alla soglia dell’astratta pericolosità.
L’incriminabilità delle condotte pericolose - a prescindere dalla prova di una concreta esposizione a
rischio di individui determinati - in quest’ambito, presenta due vantaggi:
1. viene posto un argine alla tendenza diffusiva del pericolo insito in questo tipo di condotte
2. si evita la probatio diabolica dell’attitudine del fatto a provocare una lesione effettiva nel caso
concreto
Vi sono dei beni collettivi o superindividuali (ambiente, economia pubblica) che sono suscettibili di
essere danneggiati esclusivamente da condotte cumulative: vale a dire da molteplici condotte che si
ripetono nel tempo, rendendo così impossibile provare che una singola condotta tipica sia idonea in
concreto ad es. a compromettere l’integrità dell’ambiente.
Finché si ritenga che tali beni richiedono, in ragione del loro rilievo, la tutela apprestata dallo
strumento penale il ricorso allo schema del reato di pericolo astratto appare una scelta obbligata.
In questo contesto si colloca la corte costituzionale che ha affermato come le fattispecie di pericolo
presunto o astratto siano incompatibili, in linea di principio, con il dettato costituzionale rientrando
nella discrezionalità politico criminale del legislatore la scelta dei settori in cui il ricorso a tali modelli
risulta più utile: resta fondamentale che tale scelta sia il frutto di apprezzamenti rigorosi fondati
sull’esperienza.

Principio di precauzione
Tale principio risulta invocabile in tutti quei settori in cui le conoscenze scientifiche non consentono di
verificare con certezza la dannosità o pericolosità di determinati fenomeni, gode di riconoscimento
normativo all’art. 174 del Trattato istitutivo della Comunità europea relativo alle politiche ambientali:
entra in gioco <<quando un’oggettiva e preliminare valutazione scientifica stabilisca che è
ragionevole temere che gli effetti potenzialmente pericolosi per l’ambiente o la salute degli uomini,
animali o vegetali siano incompatibili con l’alto livello di protezione scelto dalla Comunità>>.

Il principio di precauzione assume, quindi, rilievo nelle situazioni di incertezza scientifica: difronte a
rischi sospettabili, a pericoli possibili, sorge il problema se sia legittimo che il legislatore o altra
autorità pubblica impongano l’adozione di misure preventive di carattere coattivo, tali da incidere in
modo limitativo sulle libertà fondamentali dei cittadini, pur in assenza di danni o pericoli
scientificamente comprovabili. In presenza di quali presupposti ciò risulta legittimo?

Il principio di precauzione non può essere considerato come criterio sostanziale capace di imporre il
ricorso a forme di tutela penale avendo una funzione orientativa sul piano politico-criminale, la quale

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si presta a contribuire alla legittimazione di forme anticipate di tutela, purché ricorrano i presupposti
che giustificano le fattispecie di pericolo astratto.
I rischi o pericoli paventati non devono essere frutto di semplice sospetto o mera congettura, ma
devono comunque poggiare su fondamenti riconosciuti come tali dagli esperti.
In secondo luogo occorre un'adeguata proporzione tra il rango dei beni da proteggere il costo, in
termini di limitazione dei diritti di libertà, conseguente all’anticipazione della tutela al livello del
pericolo astratto.
L’attribuzione al reato di un contenuto pericoloso in concreto diventa meno eludibile quanto più
l'incriminazione interferisca con l’esercizio di libertà politiche (es. reati di opinione o reati a carattere
ideologico → l’adozione della categoria del pericolo presunto crea il rischio che la repressione penale
si risolva in una limitazione delle libertà costituzionalmente garantite).

Reati aggravati dall’evento


Per questa categoria di reati è previsto un aumento di pena se dalla realizzazione del delitto derivi,
come conseguenza non voluta, un evento ulteriore (es. omissione di soccorso aggravata dalla morte di
una persona in pericolo).

I delitti di attentato consistono nel compiere atti o nell’usare mezzi diretti ad offendere un bene
giuridico. La caratteristica di questi reati è data dalla circostanza che la legge considera consumato il
delitto pur in presenza di atti tipici rispetto ad una fattispecie di delitto tentato (es. attentato contro
l’integrità dello Stato).

PARTE SECONDA – REATO COMMISSIVO DOLOSO

Premessa
Per fattispecie si intende il complesso degli elementi che contraddistinguono ogni singolo illecito
penale. La fattispecie legale assolve anzitutto alla funzione di garanzia: ciò che non rientra in una
fattispecie legalmente tipizzata non può costituire materia di divieto e non può integrare un illecito
penale.
La fattispecie o tipo legale abbraccia tutti gli elementi che condizionano la punibilità: non solo i
contrassegni oggettivi o materiali di ogni fatto criminoso ma anche il criterio di imputazione
soggettiva (dolo o colpa) e ogni altro requisito capace di influire sulle conseguenze giuridico-penali.
Nella scienza penalistica si parla di fattispecie anche in una accezione più ristretta, che tende a fare
coincidere questa con la nozione di fatto tipico, come categoria distinta dalla antigiuridicità e dalla
colpevolezza.
Secondo una concezione ormai classica, risalente ai primi anni del Novecento, la fattispecie obiettiva
designa soltanto gli elementi descrittivi ed obiettivi del fatto di reato: elementi oggettivi perché
coincidenti con i requisiti necessari ai fini della realizzazione materiale del fatto di reato e, quindi,
come tali distinti dall’elemento soggettivo. Identificheremo tali elementi a carattere materiale nella
condotta e nei presupposti che la caratterizzano oltre che nel rapporto causale e nell’evento lesivo (es.
fattispecie di furto è costituita dal fatto materiale dell’impossessamento e dalla sottrazione della cosa).

La tendenza dogmatica a ricostruire il concetto di fattispecie secondo il criterio della natura oggettivo-
materiale degli elementi presi in considerazione era influenzata da due ragioni:
 la dottrina del tempo era influenzata dalle correnti scientifico-positivistiche allora dominanti,
il cui influsso induceva ad elaborare la teoria generale del reato sulla base di schemi relativi
alle scienze naturalistiche;

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 sussiste la preoccupazione di costruire una categoria dogmatica che fosse idonea a segnare il
discrimine tra ciò che è lecito e ciò che è punibile: era il concetto di tipicità circoscritto agli
elementi empiricamente riscontrabili ad assicurare il massimo livello di garanzia.
Per un verso si è assistito al progressivo tramonto dell’influenza esercitata dai modelli delle scienze
naturalistiche: la scienza penalistica ha assunto consapevolezza circa il nesso che lega le sue categorie
concettuali agli scopi specificamente presi in considerazione dal diritto penale; da qui l’affermarsi di
un metodo teleologico nella elaborazione delle dottrine di reato, che ne evidenzia e valorizza
l’apertura ai valori e la funzione politico-criminale.
Per un altro verso, l’evolversi dell’elaborazione dogmatica ha condotto alla scoperta di elementi
normativi e subiettivi della fattispecie.
Sono definibili elementi normativi quei requisiti di fattispecie che non rispecchiano dati della realtà
esterna ma che rappresentano il risultato di una qualificazione giuridica operata alla stregua di una
norma diversa rispetto a quella incriminatrice (es. altruità della cosa nel delitto di furto).
Gli elementi subiettivi del fatto tipico hanno alla base la constatazione che non risulta possibile
individuare la specie di reato che viene in rilievo nel singolo caso se non si prendono in
considerazione le componenti di tipo soggettivo: è qualificabile furto la semplice sottrazione della
cosa materiale altrui senza riguardo all’intenzione dell’agente?

Secondo la concezione ad oggi dominante, il concetto di fatto tipico va inteso in un'accezione più
ampia non solo perché il fatto può ricomprendere, oltre ad elementi descrittivi, elementi a carattere
normativo, ma anche in ragione del fatto che la condotta in senso oggettivo materiale, pur
mantenendosi centrale, non esaurisce completamente la tipicità perché occorre prendere in
considerazione anche le componenti soggettive (ciò è evidente nei casi di reati soggettivamente
pregnanti in cui l'offesa tipica non risulta scindibile dal contenuto della volontà colpevole: ingiuria,
diffamazione, ecc.).
Nell’ambito dell’orientamento adottato è prospettata una costruzione separata delle diverse tipologie
delittuose: le differenze strutturali tra reati dolosi e colposi emergono già a livello del fatto tipico, per
cui dolo e colpa assumono una doppia rilevanza sistematica, appartenendo sia alla sfera della tipicità
che a quella della colpevolezza.

Nell’ambito di un sistema penale a sfondo oggettivistico-liberale, la volontà criminosa assume


rilevanza non in quanto tale ma alla luce della sua realizzazione nel mondo esterno e il contenuto
dell’elemento psicologico contribuisce, soprattutto in determinati casi, a precisare i caratteri della
tipicità, non solo distinguendo quello che è lecito da quello che è illecito ma anche tra illeciti di natura
diversa.

La categoria del fatto tipico ricomprende sia elementi obiettivi di natura descrittiva o normativa che
elementi a carattere soggettivo, non dovendo però intendere tali distinzioni in modo eccessivamente
rigido.

Concetto di azione
L’azione umana rappresenta la base su cui poggia l’intera costruzione dogmatica del reato commissivo
doloso, ma il ruolo del concetto di azione nella costruzione di questo tipo di illecito, non va
sopravvalutato.
Fino a un quarantennio fa, dominava il convincimento che il problema definitorio dell’azione
penalmente rilevante fosse il tema centrale dell’intera teoria del reato, così affidando al concetto di
azione due compiti fondamentali:

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 quello di fornire una nozione superiore e unitaria capace di adattarsi tanto all’azione dolosa
che a quella colposa, tanto all’azione, quanto all’omissione;
 quello di orientare la stessa collocazione dogmatica degli elementi costitutivi del reato.

La dottrina dell’azione ha storicamente prospettato diverse concezioni, le principali sono:


1. Teoria causale > teorizzava sotto l’influsso del positivismo-naturalistico (fine XIX - inizio
XX). Ha definito l’azione come una modificazione del mondo esterno cagionata dalla volontà
umana, qui il dolo è considerato solo come forma di colpevolezza, non anche come elemento
costitutivo dell’azione. Questa teoria si è esposta a due obiezioni:
- la definizione dell’azione come modificazione del mondo fisico non si adatta all’omissione
quale forma di condotta priva substrato naturalistico
- il dolo non esaurisce la sua unica funzione sul piano della colpevolezza ma funge anche da
componente dell’azione, perché solo la direzione della volontà colpevole incide sulla stessa
tipicità di un dato comportamento.
2. Teoria finalistica > elaborata da Welzel, per cui l’azione umana consiste nell’esercizio di
un’attività orientata verso uno scopo. La finalità è quello che l’uomo, in base al suo sapere
causale, è in grado di prevedere come possibile conseguenza del suo operare, così facendo
orienta la propria attività verso il raggiungimento di un obiettivo. La teoria finalistica
considera il dolo come elemento costitutivo dell’azione e quindi del fatto tipico, negando al
contempo che esso rappresenti una forma di colpevolezza. Non è sempre vero però che le
azioni volontarie sono esercizio di attività programmate secondo il rapporto mezzo - scopo.
Esistono, infatti, azioni impulsive o automatiche ed inoltre, nell’ambito dei reati colposi e di
quelli omissivi, alla finalità reale se ne sostituisce uno solo potenziale, perché il rimprovero
penale, in questi casi, si incentra sul mancato esercizio di azioni finalisticamente dirette agli
obiettivi di tutela tipizzati dal legislatore.
3. Teoria sociale > Secondo questa teoria il comportamento penalmente rilevante consiste in
ogni risposta dell’uomo ad una pretesa nascente da situazione riconosciuta o riconoscibile
attuata grazie alla messa in atto di una possibilità di reazione liberamente scelta tra quelle
disponibili. Questa teoria fa leva su una mera possibilità di reagire agli stimoli dell’ambiente
esterno adattandosi a tutte le forme delittuose, però, proprio perché di contenuto assai
generico, finisce col rivelarsi priva di contenuto informativo rispetto alle caratteristiche che il
comportamento assume in ognuna delle principali categorie criminose.

Le teorie dell’azione fin qui ricordate sono fallite nel loro intento perché hanno voluto trascurare il
fatto che la premessa della costruzione del reato non può basarsi su un’aprioristica concezione
dell’azione. Il modo di atteggiarsi e i limiti dell’azione penalmente rilevante risultano soltanto
dall’interpretazione delle varie fattispecie e da questioni inerenti alla configurabilità della stessa
colpevolezza. Da questo punto di vista, i criteri che presiedono alla determinazione del concetto di
azione si uniformano ai principi dell’imputazione penale, e non viceversa. Il punto di partenza è la
verificazione di un accadimento che lede o pone in pericolo il bene giuridico, solo in un secondo
momento ci si preoccupa di stabilire se l’accadimento sia riconducibile al comportamento di qualcuno.
Quali siano i criteri di attribuzione della responsabilità viene stabilito dall’ordinamento penale di volta
in volta considerato e una condotta penalmente rilevante sussiste solo in presenza delle forme e delle
condizioni richieste dai parametri accolti dall’ordinamento.
Nell’ambito del reato commissivo, la condotta criminosa assume la forma di un’azione in senso stretto
che equivale a “movimento corporeo dell’uomo”. Per una maggiore specificazione di questo concetto
soccorre il richiamo all’art.42 c.1 per cui “nessuno può essere punito per un’azione, prevista
dall’ordinamento come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà. L’azione deve consistere

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in un movimento corporeo cosciente e volontario. La formula di coscienza e volontà dell’azione
richiama dati diversi a seconda che l’azione acceda ad un reato doloso o colposo, perchè solo sul
terreno del reato commissivo doloso, l’azione è sempre caratterizzata dalla partecipazione effettiva di
coscienza e volontà.

Azione determinata da forza maggiore o da costringimento fisico. Caso Fortuito


L’azione punibile deve essere accompagnata dal requisito della coscienza e volontà.
Il nostro legislatore ha tipizzato due situazioni in cui non può mai giungersi ad un giudizio di
colpevolezza, in quanto ne risulta sempre la precondizione di un addebito, a titolo di colpa o dolo,
rappresentata dalla possibilità di considerare l’azione criminosa come opera propria di un determinato
soggetto.

Forza maggiore > Art. 45 c.p.


Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore. La forza maggiore viene definita
tradizionalmente come qualsiasi energia esterna contro cui il soggetto non è in grado di resistere e
che perciò lo costringe necessariamente ad agire (es. uccisione di un passante da parte di un operaio
che cade da un'impalcatura a causa di una tromba d’aria). Tuttavia, non si può parlare di forza
maggiore se l’agente dispone di un sufficiente margine di scelta, in detti casi la coazione ad agire è
soltanto relativa, per cui, in presenza dei rimanenti presupposti, potranno risultare applicabili le norme
sullo stato di necessità o sulla coazione morale.

Costringimento fisico > Art 46 c.p.


Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri connesso, mediante violenza fisica,
alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona
costretta, risponde l’autore della violenza.
Il costringimento fisico costituisce una specificazione della forza maggiore, cioè si tratta di una forza
irresistibile che promana, non dalla natura, ma dall’uomo che si serve materialmente di un altro
essere umano come strumento di realizzazione dell’obiettivo criminoso (es. tizio che costringe con la
forza Caio a falsificare un documento). Affinché l’art.46 c.p. sia applicabile occorre una coercizione
assoluta, in quanto, qualora sussistano margini di scelta si ricadrebbe nell’ipotesi di coazione morale
ex art. 54 c.p.

Caso fortuito > Art 45 c.p.


Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito. Trattasi di un’ulteriore causa di esenzione
da responsabilità. La differenza con la forza maggiore sta nel fatto che, mentre quest’ultima,
annullando la signoria del soggetto sulla condotta impedisce di configurare un’azione penalmente
rilevante, il caso fortuito non sempre esclude l’esistenza dell’azione: esso, in quanto risulta
dall’incrocio tra un accadimento naturale ed una condotta umana da cui deriva l’imprevedibile
verificarsi di un evento lesivo, impedisce, però, egualmente che l’agente possa rispondere dell’evento
cagionato col concorso di fattori che esulano dall’ordine normale delle cose.
La problematica del caso fortuito interferisce sia con la teoria della colpa che con quella della
causalità, infatti, mentre la concezione tradizionale ravvisa nel caso fortuito un limite della colpa
strettamente intesa (nel senso che non può contrastare con una regola di diligenza un fatto che si
verifica in via del tutto imprevedibile), altra parte della dottrina ritiene che esso escluda il nesso di
causalità. Trattasi di un istituto dogmaticamente polivalente, sicché in alcuni casi potrà essere valutato
nell’ambito dell’elemento soggettivo poiché esemplifica una di quelle circostanze che rendono
impossibile l’osservanza del dovere di diligenza richiesto nella situazione concreta, in altri potrà
rilevare come fattore di esclusione del nesso causale tra condotta ed evento.

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Presupposti dell’azione
La categoria dei presupposti dell'azione o del fatto è stata, talvolta, utilizzata in un'accezione ampia e
fuorviante considerando presupposti la stessa norma penale, il bene giuridico, il soggetto attivo,
passivo, ecc.
È evidente che questa accezione di presupposti è errata ed inutile in quanto è ovvio che la
configurabilità di qualsiasi reato presuppone sempre l’esistenza dei requisiti giuridici necessari per la
qualificazione del fatto in termini di illecito penale.
Il concetto di presupposti dell’azione (o del fatto) è utile, invece, in funzione di uan scomposizione
analitica dell’illecito se circoscritto a quelle circostanze, di fatto o di diritto, che, in alcuni casi, devono
preesistere o concorrere alla condotta affinché questa possa assumere un significato criminoso (es.
situazione di pericolo nell’omissione di soccorso, esistenza di un precedente matrimonio nel delitto di
bigamia).
I presupposti del fatto tipico nel senso detto possono riferirsi al soggetto attivo del reato
specificandone un ruolo o una qualità (qualifica di Pubblico Ufficiale nei reati contro la PA) o
all’oggetto materiale della condotta (es. natura documentale dell’oggetto su cui ricade la falsità in atti),
oppure al contesto che deve preesistere alla condotta (es. situazione di pericolo nell’omissione di
soccorso), oppure al soggetto passivo (es. qualifica di Capo dello Stato nei delitti di cui agli artt. 276 e
ss.).
L’utilità pratica emerge soprattutto sul terreno del dolo e, infatti, trattandosi di elementi che precedono
l’azione criminosa possono essere non già voluti ma soltanto conosciuti dal reo.

Oggetto materiale dell’azione


Oggetto materiale dell’azione si definisce la persona o la cosa su cui ricade l’attività fisica del reo, ad
es. la cosa nel furto o la persona nell’omicidio.
L’oggetto materiale dell’azione si distingue concettualmente sia dall’oggetto giuridico quale sinonimo
di bene penalmente protetto, sia dal soggetto passivo del reato (ad es. nel primo caso, nel delitto di
falso oggetto materiale della condotta è rappresentato dal documento falsificato, mentre il bene
giuridico protetto è la fede pubblica; nel secondo caso, es. nel delitto di sottrazione consensuale di
minorenni, l’interesse protetto è costituito dalla potestà di entrambi i genitori mentre l’oggetto
dell’azione è il minore protetto).
Può accadere che vi siano casi in cui oggetto materiale dell’azione e soggetto passivo coincidono: vedi
il caso di omicidio.
L’oggetto materiale della condotta può essere unico ma anche plurimo: è più di uno ad es. nel furto di
più cose ovvero nel delitto di rapina, ricadendo l’azione tipica di quest’ultimo reato sia su di una
persona che su di una cosa.
La separazione concettuale tra oggetto dell’azione e oggetto della tutela penale (o bene giuridico) si
accentua ogni qualvolta il bene giuridico subisce un processo di <<spiritualizzazione>>, ad es. i delitti
di falso sono caratterizzati dalla presenza di un oggetto di tutela di natura ideale, cioè la fede pubblica.
Al contrario, si può assistere ad una tendenziale coincidenza tra oggetto dell’azione e oggetto di tutela
ogni qualvolta il bene protetto subisce un processo di materializzazione, es. corpo umano nei delitti di
omicidio.
L’oggetto materiale assume rilevanza quale requisito che concorre alla determinazione e
specificazione del fatto tipico, ad es. mentre il furto o l’appropriazione indebita possono avere ad
oggetto solo cose mobili, sulle cose immobili possono, invece, commettersi i reati di invasione o
turbativa del possesso.

Evento
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Nella struttura di taluni reati (reati cd. di evento) figura un evento concepito come risultato esteriore
causalmente riconducibile all’azione umana (es. delitto di omicidio, nel quale la lesione del bene
protetto si materializza in una modificazione della realtà naturale concettualmente e fenomenicamente
separabile dalla condotta omicida).
Il concetto di evento assume un’accezione più tecnica e ristretta rispetto a quella propria del
linguaggio comune, che identifica invece l’evento con un accadimento qualsiasi della realtà esterna >
evento in senso naturalistico. L’evento naturalistico può anche consistere in un risultato esteriore che
concretizza, non già l’effettiva lesione, ma la messa in pericolo di un bene protetto: (es. art. 434 >
incrimina chiunque commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione, se dal fatto
deriva pericolo per la pubblica utilità). L’evento di pericolo è configurabile soltanto in quelle figure di
reato che la dottrina tradizionale definisce a pericolo concreto, nelle quali spetta al giudice accertare se
un'effettiva situazione di pericolo si è verificata come conseguenza dell’azione. L’importanza pratica
della categoria in esame emerge sul terreno del rapporto di causalità; l’evento naturalistico costituisce
il secondo polo del nesso causale e quindi un requisito del fatto tipico nell’ambito dei reati che lo
contemplano nella loro struttura.
L’evento naturalistico rileva come circostanza, può rilevare altresì come circostanza aggravante di
un reato già perfetto (es. morte della persona nell’omissione di soccorso) e in altri casi come
condizione obiettiva di punibilità (es. il pubblico scandalo nell’incesto).

Disputa sul concetto di evento


L’elaborazione della categoria dell’evento ha suscitato una disputa teorica della dottrina italiana,
traendo spunto dalla lettura di alcune norme codicistiche che riconnettono ad ogni reato un evento
dannoso o pericoloso come risultato dell’azione criminosa. Alla base della formulazione delle predette
norme sta l’idea che ogni reato consiste nella lesione o messa in pericolo di un bene giuridico. La
lesione o messa in pericolo del bene protetto è stata dal legislatore configurata come un risultato che
sempre si aggiunge all’azione delittuosa, da qui l'identificazione del concetto di offesa con quello di
evento, concepito in senso cd. giuridico, consistente nell’offesa all'interesse protetto dalla norma
penale.
Nell’ambito dei reati di mera condotta, tali perché privi di un evento cd. naturalistico, l’offesa
all’interesse protetto non è un’entità materiale che si somma all’azione, ma la stessa azione
considerata come confliggente con la norma poste a tutela del bene in questione. Quindi, in altri
termini, la lesione del bene, si immedesima ed esaurisce nella realizzazione della condotta tipica.
Se si dovesse ragionare come ragionano i sostenitori dell’evento giuridico, nonostante l’avvenuta
realizzazione della condotta tipica, il giudice dovrebbe ulteriormente verificare l’effettivo impatto
della condotta sul bene protetto, ma così si richiederebbe un tipo di accertamento che si sovrappone al
giudizio di lesività, già espresso dal legislatore, secondo cui, l’azione tipica è tale se lede il bene
oggetto di protezione penale.
L’ordinamento penale attuale contempla fattispecie criminose strutturate non in ossequio alla
equazione reato-lesione, così da far cadere in crisi l’asserto della necessaria compenetrazione tra
lesività e offesa la bene (es. fattispecie di mera condotta quale il reato di interesse privato in atti
d’ufficio, abrogato dal legislatore, stante l’incertezza relativa alla individuazione delle condotte
meramente conformi a questa ipotesi delittuosa, si era ritenuto che un aggancio al concetto di bene
giuridico, consentisse interpretazioni più univoche.
Per valorizzare il concetto di evento giuridico e per rimediare all’insufficiente tipizzazione legislativa
di alcune figure di illecito si rischia di sovrapporre opzioni interpretative del giudice alle scelte del
legislatore. Se così è, il problema della maggiore compenetrazione tra tipicità ed offesa risulta
risolubile solo in sede di redazione legislativa di fattispecie criminose.

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Dal punto di vista tecnico, va mantenuta la sola nozione di evento naturalistico, quale conseguenza
dell’azione e consistente in una modificazione fisica della realtà esterna. Non è necessario che esso si
verifichi contestualmente all’azione, ad es. ai fini della configurazione dell’omicidio è indifferente che
la morte si verifichi subito o dopo molto tempo rispetto all’esaurimento dell’azione omicida. Risulta,
altresì, irrilevante che l’evento si verifichi in un luogo diverso da quello in cui è stata realizzata
l’azione criminosa (cd. reati a distanza).

Rapporto di causalità: premessa


La fattispecie di reato commissivo di evento ricomprende il nesso di causalità che lega l’azione
all’evento stesso. Nel nostro diritto penale, l’imputazione di un evento lesivo richiede, infatti, che il
reo abbia materialmente contribuito alla verificazione del risultato dannoso.
L’accertamento del nesso di causalità è finalizzato ad emettere un giudizio di responsabilità. Da questo
punto di vista la causalità funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto: il nesso
causale tra condotta ed evento comprova che non solo l’azione ma lo stesso risultato lesivo è opera
dell’agente, per cui quest’ultimo può essere chiamato a risponderne penalmente.
Il codice Rocco contiene una disciplina esplicita del nesso causale agevolando, quindi, il compito
dell’interprete.
Ad oggi ci si limita a sottolineare che, da un lato, l’azione del soggetto deve porsi come condizione
necessaria dell’evento, senza però chiarire i criteri che presiedono all'accertamento del nesso di
condizionamento, dall’altro, l’attenzione si è concentrata sull’interpretazione dell’art. 41 (le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare
l’evento).

La tradizionale teoria condizionalistica


L’art.40 c.1 c.p. richiede che l’evento dannoso o pericoloso, dal quale dipende l’esistenza del reato, sia
conseguenza dell’azione del reo, così sottolineando l’esigenza di un legame causale tra azione ed
evento. Il codice non specifica quando o a quali condizioni l’evento può considerarsi conseguenza
dell’azione. Per cui, si richiama la teoria condizionalistica, secondo la quale è causa dell’evento ogni
antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Tale teoria viene anche denominata
dell’equivalenza perché parifica tutti gli antecedenti necessari dell’evento: affinché l’azione umana
assurga a causa è sufficiente che rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato
lesivo.
Per accertare tale nesso, la dottrina ricorre al procedimento di eliminazione mentale (condicio sine qua
non) cioè volta ad eliminare mentalmente un’azione e se l’elemento lesivo viene meno allora
quell’azione non si ritiene causativa dell’evento. Nei casi più comuni, il ricorso a questo procedimento
è utile ma sono prospettabili casi meno usuali rispetto ai quali tale criterio non riesce a fornire
indicazioni probanti in merito all’esistenza del nesso eziologico (es. abitare nella zona in cui è sita una
fabbrica di alluminio che emette fumi all’esterno non è sufficiente per asserire che eliminando questa
condizione, l'evento lesivo (malattia) possa venir meno). Da ciò consegue che la formula della
condicio ha un’efficacia limitata e che, talvolta, rappresenta una formula vuota, laddove non si
conoscano in anticipo le leggi causali che regolano i rapporti tra determinati fenomeni.
Questa teoria incontra un altro limite se viene sviluppata fino alle estreme conseguenze (regresso
all’infinito), in quanto, a considerare causali anche i remoti antecedenti delittuosi, paradossalmente, si
potrebbe sostenere che un omicidio risalga anche ai genitori dell’omicida che l’hanno messo al
mondo. Ulteriori inconvenienti si hanno nelle ipotesi di:
 causalità alternativa ipotetica: cioè quando, anche in mancanza dell’azione del reo, l’evento
sarebbe stato ugualmente prodotto da un’altra causa intervenuta più o meno contestualmente
(es. Caso 14 - incendio).

47
 causalità addizionale: cioè quando l’evento si è prodotto dal concorso di più condizioni
ciascuna capace da sola di produrre risultato (es. Caso 15 - veleno).
 causa sopravvenuta da sola sufficiente ex art. 41 c.p. > quando si ha una causa successiva
idonea da sola a determinare l’evento, In questi casi, supponendo come non realizzata la
seconda opzione, l’evento permarrebbe come conseguenza della prima.

1. La prima obiezione, però, viene meno se si osserva che, in ambito penalistico, si selezionano
come antecedenti causali soltanto le condotte che assumono rilevanza rispetto alla fattispecie
incriminatrice e che comunque, ai fini dell’imputabilità, determinanti sono il dolo e la colpa.
La teoria appare obiettabile nei casi di responsabilità oggettiva dove manchi la possibilità di
ricorrere al correttivo del dolo o della colpa.
2. Risulta, inoltre, superabile l’obiezione mossa sul terreno della causalità alternativa ipotetica, in
quanto, ciò che rileva è che un legame causale sussista fra l’azione dell'autore e l’evento
concreto che ne consegue mentre risulta irrilevante la circostanza che potrebbero verificarsi
eventi analoghi per effetto di cause operanti all’incirca nello stesso momento (es. incendio).
3. Parimenti superabile è l’obiezione dell’ipotesi della causalità addizionale, in quanto, rilevano
quelle condizioni dell’evento che, cumulativamente, considerate ne costituiscano un
presupposto necessario e che lo sarebbero alternativamente se l’altra condizione mancasse (es.
soggetti che avevano versato veleno dentro il bicchiere della vittima verranno considerati
entrambi responsabili per omicidio).

La teoria condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi


scientifiche
La teoria della condizionalità, come già detto, rappresenta una formula vuota ove non si conoscano in
anticipo le leggi causali che regolano i rapporti di derivazione tra antecedenti e determinati
conseguenti. In questi casi, è possibile adottare due modelli diversi di ricostruzione del rapporto
causale:
1. METODO INDIVIDUALIZZANTE > la prova del rapporto di causalità tra un antecedente e
un conseguente è fornita dallo stesso accadimento di fatti, cioè dalla stessa successione
temporale che lega il secondo accadimento al primo. In questi casi, il giudice si comporta
come uno storico che, nel ricostruire le vicende, si limita a rilevare le connessioni tra eventi
singoli e concreti, senza preoccuparsi di rinvenire leggi universali, risultando così esentato
dal ricercare leggi causali rigorose dal punto di vista scientifico che possano spiegare perché e
come l’evento sia conseguenza dell’azione criminosa.
2. METODO GENERALIZZANTE > il giudizio causale deve fornire una spiegazione adeguata
dell’evento e la sua determinazione non può essere affidata alla discrezionalità del giudice ma
può correttamente effettuarsi alla stregua del modello della sussunzione sotto leggi
scientifiche. Cioè, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a
patto che rientri nel novero di quelli antecedenti che sulla base di leggi scientifiche portano ad
eventi del tipo di quello che si è verificato in concreto.
In una prima fase occorrerà valutare la sussistenza della causalità generale, cioè, sulla base di
un ragionamento induttivo, dimostrare che vi sia una legge scientifica di copertura e in una
seconda fase, tener conto della causalità individuale alla stregua della quale è l’organo
giudicante che individua e produce le connessioni causali tra i singoli fatti oggetto di giudizio.
È necessario precisare quali sono le leggi generali di copertura applicabili al processo penale, cioè le
leggi scientifiche atte a spiegare le relazioni tra accadimenti. Distinguiamo:

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 leggi universali > sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è
invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento, soddisfacendo al
massimo livello le esigenze di rigore scientifico e di certezza (rapporto di regolarità tra
fenomeni non smentito da eccezioni);
 leggi statistiche > si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal
verificarsi di un altro evento soltanto in una certa percentuale di casi. Tali leggi sono valide
quanto più trovano applicazioni in un numero alto di casi.
Non è possibile pretendere che l'accertamento giudiziale della causalità si presti sempre
all’applicazione di leggi universali a fronte della limitatezza delle conoscenze umane. Per tale motivo,
si tende a ricorrere ad una serie di assunzioni tacite, cioè dare per conosciute alcune condizioni e leggi
ignorate o meramente supposte: la spiegazione causale avrebbe ad oggetto solo alcune delle condizioni
necessarie dell’evento, mentre le altre condizioni si suppongono per date (clausola ceteris paribus).
Pertanto, in sede di accertamento giudiziale della causalità ci si deve accontentare di una misura di
certezza inferiore a quella garantita dall’applicazione di leggi universali, attraverso spiegazioni causali
del giudice di carattere meramente probabile, in altri termini, in molti casi il giudice sarà in grado
soltanto di asserire che è probabile che la condotta dell’agente costituisca una condizione necessaria
dell’evento. Il carattere probabilistico dell’accertamento dipende dalla circostanza che i fatti criminosi
sono spesso ricostruibili sulla base di leggi statistiche.
In che modo è raggiungibile la maggior certezza possibile sulla sussistenza del nesso di causalità
applicando leggi statistiche? Distinguiamo:
 probabilità statistica che indica il grado di frequenza con cui la connessione tra certi
antecedenti e conseguenti si verifica nel mondo esterno;
 probabilità logica che indica il grado di fondatezza logica o credibilità razionale con cui si
può sostenere che la legge statistica trovi applicazione nel singolo caso oggetto di giudizio, in
dipendenza dall’esclusione degli altri fattori causali alternativi.

Considerate le difficoltà obiettive cui può andare incontro l’accertamento processuale della causalità
dei casi più complessi, qual è il livello di probabilità sufficiente per considerare attendibile la
ricostruzione giudiziale del nesso causale? Certamente, risulta erroneo cercare di quantificare una
volta per tutte il livello minimo di probabilità di verificazione dell’evento sufficiente ai fini del
riconoscimento del nesso causale. Piuttosto, ciò che conta, è che, valutando caso per caso, il grado di
conferma della spiegazione ipotizzata rimanga alto.
La teoria condizionalistica secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche ha trovato un
crescente accoglimento nella prassi giurisprudenziale > Cassazione Sezioni Unite 2002 con
riferimento a un caso di responsabilità colposa del medico per decesso del paziente.
Questa sentenza fornisce un tentativo di fornire una soluzione al problema della corretta condizione
d’impiego delle leggi statistiche nel processo penale.
Ai fini della prova giudiziaria del nesso di causalità non è determinante l’elevato grado di probabilità
statistica semmai, risulta rilevante l’alta probabilità logica che siano da escludere fattori causali
alternativi (es. anche se è statisticamente bassa la probabilità di contrarre l’AIDS attraverso sporadici
contatti sessuali con persone infetta, si può comunque ritenere sussistente il nesso causale tra tali
contatti e la morte della vittima contagiata, ove fossero ragionevolmente da escludere, sulla base di
tutte le conosce disponibili nel caso concreto, altre cause di possibile contagio. à

Nonostante l’impiego diffuso di questo criterio dell’alta probabilità logica da parte della
giurisprudenza, spesso, i giudici non ne fanno un’applicazione davvero coerente perché influenzati
dalle valutazioni circa la necessità o meno di punire, dai giudizi di valore e dalle preoccupazioni
relative alla meritevolezza della pena, in funzione della diversa gravità dei casi singoli.

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Caso della talidomide
In questo caso, i giudici affermano la sussistenza del rapporto causale affidandosi a certezze soggettive
senza soddisfare le condizioni logiche imposte da una spiegazione scientifica della causalità. Tuttavia,
se avessero tenuto conto delle evidenze scientifiche sarebbero comunque giunti alla stessa soluzione,
in quanto:
 scienziati di altre nazioni avevano già denunciato che molti preparati analoghi provocano
morte o malformazione dei feti
 l’effetto della talidomide sugli animali è molto simile a quello sull’uomo
 l’ondata delle tipiche malformazioni scomparve dopo il ritiro del farmaco dal mercato
 la distribuzione geografica delle malformazioni coincideva con l’aria di vendita del farmaco
Un analogo sviluppo del giudizio sulle connessioni tra eventi si è avuto anche nel caso delle macchie
blu da inalazione di fumi derivanti da una fabbrica di alluminio.

Teoria della causalità adeguata


Tale teoria si pone come correttivo alla teoria condizionalistica nella sfera dei delitti cd. aggravati
dall’evento. Pur non rinnegandola, tende a selezionare, tra i molteplici antecedenti causali equivalenti,
quelli rilevanti in sede giuridico penale.
Tale esigenza è avvertita principalmente nei casi di decorso causale atipico, caratterizzati da una
successione degli eventi che sfugge dagli schemi di un’ordinaria prevedibilità (es. caso 16:
tossicodipendente che muore in seguito all’assunzione di una dose di eroina di per sé non mortale a
causa di un’alterazione organica preesistente. E’ giusto procedere ad aumenti di pena imposti dalle
conseguenze lesive di altro delitto che si verificano indipendentemente da ogni criterio di prevedibilità
soggettiva e per il concorso di circostanze atipiche? → alterazione organica preesistente).
La teoria dell’adeguatezza propone un modello generalizzante di spiegazione della causalità: solo
alcuni antecedenti vengono considerati come causali, ossia solo quelle condizioni che tipicamente
sono idonee o adeguate a produrre l’evento sulla base di un criterio di prevedibilità. Questa teoria
dell’adeguatezza viene applicata per attenuare la rigidità in termini di applicazione della teoria
condizionalistica.

Questa teoria è stata aggiornata al fine di soddisfare meglio le esigenze della repressione penale che
risulterebbero troppo sacrificate se per azione causale si intendesse solo quella che con molta
probabilità conduce all’evento. Per tale ragione si è ritenuto più opportuno che la teoria venga
costruita in termini negativi: il rapporto di causalità sussiste tutte le volte in cui non sia improbabile
che l’azione conduca all’evento.

Criterio della prognosi postuma: con riferimento al giudizio di probabilità, questo deve essere
effettuato tenendo conto delle circostanze presenti al momento dell’azione e conoscibili ex ante da un
osservatore avveduto: per cui, con riferimento all’esempio di cui sopra, lo spacciatore dovrebbe
rispondere anche per la morte del tossicodipendentente se fosse stato a conoscenza delle preesistenti
alterazioni organiche. Questa teoria, così formulata, si presta, però, a delle critiche: in particolare,
questa appare incapace a risolvere i casi in cui l’azione criminosa appare ex ante idonea a cagionare
l’evento e questo, tuttavia, si verifica per il sopraggiungere di circostanze del tutto imprevedibili. Per
tali ragioni, la dottrina ha suggerito di scindere il giudizio di adeguatezza in due fasi:
- una fase anteriore nella quale, con un giudizio ex ante, si verifica se non appaia improbabile
che all'azione consegue a un evento del genere di quello contemplato dalla norma
- una successiva, nella quale, sulla base di un giudizio ex post, si verifica se l’evento concreto
realizzi il pericolo tipicamente o generalmente connesso all’azione delittuosa.

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Es: se Tizio ferisce Caio e poi Caio, dopo essere guarito, muore in ospedale a causa di un incendio,
sicuramente con una valutazione ex ante la grave ferita appare idonea a cagionare l’astratto evento
morte ma, ex post, la morte del ferito per l’incendio non rappresenta una concretizzazione del rischio
tipicamente connesso all’azione del ferire, per cui il nesso di causalità è da escludere.
Sono state mosse tre obiezioni a questa teoria:
1. non è agevole conciliare il requisito della prevedibilità ex ante dell’evento con l’accertamento
della causalità, che dovrebbe, invece, basarsi su giudizi ex post di natura rigorosamente
oggettiva;
2. questa teoria finisce per includere nell’ambito della causalità considerazioni che più
opportunamente rientrerebbero in quello della colpevolezza;
3. il concetto di adeguatezza è relativo perché è inevitabilmente soggetto a giudizi di probabilità
propri della vita sociale.

Causalità umana (teoria minore): la teoria della causalità umana è, tra quelle minori, quella che ha
avuto maggiore diffusione in dottrina e giurisprudenza. La premessa da cui muove è che possono
considerarsi causati dall’uomo solo gli eventi che egli può dominare in virtù dei suoi poteri volitivi e
conoscitivi, mentre non possono essere da lui causati quelli che, per contro, sfuggono dai suoi poteri di
dominio. Per Antolisei, ciò che sfugge dal dominio dell’uomo è il fatto che ha una probabilità minima,
insignificante di verificarsi, ossia il fatto eccezionale. Affinché sussista un rapporto di causalità
occorrono due elementi, uno positivo che richiede che l’uomo con la sua azione abbia posto in essere
una condizione dell’evento, senza la quale l’evento non si sarebbe verificato e una negativa che
richiede che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali.
Tuttavia, detta teoria non riesce a fornire un reale criterio discretivo tra i due concetti.
Peraltro, nel porre accento sul fattore eccezionale non precisa a quale elemento vada riferita
l’eccezionalità, per cui resta un concetto relativo in quanto l’eccezionalità di un evento non si ritrova
in natura ma è il risultato di un giudizio che muta al variare dell’angolo visuale da cui si osservano i
fenomeni.

Teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento


Una parte della dottrina tedesca ha elaborato la teoria della cd. imputazione obiettiva dell’evento che
si ramifica in filoni diversi la cui premessa di partenza è che il nesso causale rappresenta il
presupposto indispensabile della responsabilità in quanto comprova quel che più conta per il diritto
penale e cioè che l’evento cagionato è opera dell’agente. Secondo la teoria in esame, non si tratta
tanto di verificare se l’agente abbia cagionato l’evento, quanto di stabilire se questo gli possa essere
obiettivamente imputato come suo proprio fatto o se non debba considerarsi come conseguenza di
una coincidenza del tutto causale. Nello specifico, un evento lesivo può essere obiettivamente
imputato all’agente soltanto se esso realizza il rischio giuridicamente non consentito o illecito
(entrano così in gioco considerazioni valutative relative ai rischi socialmente tollerabili o intollerabili).

Tale teoria si avvale di vari criteri. I più importanti sono:


 quello dell’aumento del rischio > l’imputazione obiettiva dell’evento presuppone che
l’azione in questione abbia di fatto aumentato la probabilità di verificazione dell’evento
dannoso. Sarebbero infatti vietate solo le azioni che vanno al di là del rischio socialmente
consentito e che producono eventi costituenti realizzazione del rischio vietato, mentre
sarebbero lecite le condotte che non aumentano le chances di verificazione di eventi lesivi.
 quello dello scopo della norma violata > l’imputazione viene meno se il fatto, pur essendo
causalmente riconducibile alla condotta dell’autore, non costituisce concretizzazione dello
specifico rischio che la norma in questione tende a prevenire.

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Questo criterio non è però di applicazione univoca perché su di esso si riflettono le incertezze
che non di rado sorgono al momento di individuare la ratio delle norme incriminatrici.

La teoria dell’imputazione obiettiva si presta a delle critiche in quanto:


1. è stata elaborata all’interno dell’ordinamento tedesco che è privo di un’esplicita normativa
della causalità > da qui la difficoltà di renderla compatibile con il sistema penale italiano che
ha una regolamentazione della causalità il cui contenuto non sempre collima con la teoria in
esame;
2. applicando il criterio dell’aumento del rischio gli illeciti di danno verrebbero trasformati in
illeciti di pericolo > così si ribalterebbe il principio in dubbio pro reo nel suo esatto contrario.

Questa teoria non ha ottenuto un ruolo rilevante nell’ambito dei criteri dell’accertamento causale.

Concause
L’art.41 disciplina il fenomeno delle concause, cioè il concorso di più condizioni nella produzione di
uno stesso evento. Tali condizioni possono essere antecedenti, concomitanti o successive rispetto alla
condotta del reo. Tale fenomeno è tutt’altro che raro, in quanto, al contrario, di norma accade che alla
produzione di un evento concorrono più fattori causali > perché l’azione umana assurga a causa nel
senso del diritto penale è sufficiente che essa costituisca anche una sola delle condizioni necessarie
che concorrono a determinare l’evento lesivo.
Art.41 c.1 c.p. > il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti
dall’azione o omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione e l’evento.
Art. 41 c.3 c.p. > afferma che la causa (concorrente) può essere anche costituita da un fatto illecito
altrui.
Art. 41 c.2 c.p. > più problematico da interpretare, secondo questa disposizione, le cause
sopravvenute, da sole sufficienti a produrre l’evento lesivo, escludono il rapporto di causalità tra
l’evento e la condotta del reo. La norma ha suscitato contrasti interpretativi: I. la sua formulazione
letterale fa riferimento ad una serie causale del tutto autonoma, vale a dire, a una causa che opera a
prescindere da qualsiasi legame con una precedente azione del soggetto, ma, se si adottasse tale
interpretazione, il secondo comma risulterebbe superfluo perché, ad una tale conclusione, si
arriverebbe applicando semplicemente il principio condizionalistico di cui all’art. 40 c.p.
Questo secondo comma deve quindi essere interpretato diversamente, rappresentando l’unico modo
attraverso il quale può trovare legittimazione nel nostro ordinamento un criterio causale diverso da
quello condizionalistico, al fine di temperare gli eccessi punitivi derivanti dalla rigorosa applicazione
dello stesso criterio condizionalistico. Questa esigenza di temperamento emerge in quei casi in cui lo
sviluppo causale fuoriesce dagli schemi di una ordinaria prevedibilità. In forza dell’art. 41 c. 2 c.p. il
nesso causale si esclude in tutti quei casi in cui l’evento lesivo, anche se è legato da un nesso di
condizionalità alla condotta tipica, non è inquadrabile in una successione normale di accadimenti (es.
ferito che muore a causa dell’incendio in ospedale).

Nella nostra giurisprudenza il concetto di “causa sopravvenuta da sola sufficiente” in alcune sentenze
viene inteso alla stregua della teoria della causalità umana e quindi la causa si identifica come fattore
eccezionale. Mentre in altre, si richiama la teoria della causalità adeguata e quindi la causa
sopravvenuta, interruttiva del nesso causale, viene individuata in un fattore atipico di ricorrenza solo
improbabile e non eccezionale.

52
Il rapporto causale, invece, NON si ritiene interrotto > Caso 17: Tizio che aggredisce Caio, lo
stordisce e lo lascia sul ciglio della strada e poi, a causa del sopraggiungere di una automobile che lo
investe, Caio muore.
Indipendentemente dall’approccio causale, la conclusione non muta:
 secondo la teoria condizionalistica (anche orientata secondo il modello della sussunzione
sotto leggi) è rinvenibile un rapporto di probabilità statistica tra l’azione del percuotere un
soggetto provocandone la caduta sulla sede stradale e il verificarsi di un investimento dovuto
al sopraggiungere di autoveicoli
 secondo la teoria della causalità adeguata, l’evento lesivo risulta nella specie tutt’altro che
atipico rispetto all’antecedente né si potrebbe escludere che l’azione del percuotere, per come
si è svolta, abbia aumentato il rischio della verificazione dell’investimento.

CAPITOLO 2 - ANTIGIURIDICITA’ E SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE

L’antigiuridicità viene meno se una norma diversa da quella incriminatrice è desumibile dall’intero
ordinamento giuridico, facoltizza o impone quel medesimo fatto che costituirebbe reato. In questi casi,
si parla di cause di esclusione dell’antigiuridicità (o esclusione, di giustificazione). le cause di
giustificazione sono desumibili da qualsiasi branca del sistema giuridico, essendo la loro efficacia non
limitata al diritto penale, ma si estende a tutti i rami dell'ordinamento, rendendo inapplicabili anche le
sanzioni civili e amministrative.

Il codice non parla mai di cause di giustificazione ma di circostanze che escludono la pena,
espressione però troppo ampia e generica che ha finito col trasformarsi in un contenitore che
ricomprende tutte le ipotesi in cui il codice ritiene non punibile un soggetto.

Le ragioni che spiegano l’esclusione della punibilità sono riconducibili a tre piani di valutazione,
corrispondenti a tre categorie:
1. cause di giustificazione > viene meno l’antigiuridicità o l'illiceità del fatto rendendo, così,
inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione nei confronti di tutti colori i quali prendono parte alla
commissione del fatto medesimo (es. esercizio di un diritto, legittima difesa);
2. cause di esclusione della colpevolezza > mantengono integra l’antigiuridicità o illiceità
oggettiva del fatto, fanno venir meno solo la possibilità di rimproverare la condotta all’autore,
operano soltanto a vantaggio dei soggetti a cui si riferiscono e non sono estensibili ad
eventuali concorrenti. Rientrano in questa categoria tutte le situazioni in cui il soggetto agisce
sotto la pressione di circostanze coartanti che rendono difficilmente esigibile un
comportamento diverso conforme al diritto.
3. cause di esenzione della pena > lasciano sussistere tanto l’antigiuridicità quanto la
colpevolezza e il venir meno della pena dipende da valutazioni di opportunità circa la necessità
o la meritevolezza della stessa, avuto anche a riguardo dei controinteressati che risulterebbero
altrimenti lesi, nel caso di erogazione della pena. Anche queste non sono estensibili ad
eventuali concorrenti nel reato (es. figlio che ruba al padre per ragioni legate all'unità della
famiglia).

Fondamento sostanziale e sistematica delle cause di giustificazione


La dottrina ha tentato di elaborare dei principi generali che presiedono alle cause di giustificazione per
rinvenire il fondamento sostanziale e per dare adeguata sistemazione concettuale alla materia. Questi
tentativi perseguono anche obiettivi pratici:

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 individuare il fondamento delle scriminanti può giovare all’interpretazione del significato dei
requisiti di ciascuna di esse;
 la conoscenza della ratio delle scriminanti consente un’applicazione analogica delle stesse a
quei casi che non sono espressamente preveduti dalla norma che le configura.

La dottrina adotta due modelli esplicativi:


- monistico→ tutte le scriminanti andrebbero ricondotte allo stesso principio, ravvisato, di volta
in volta, nel:
o criterio del mezzo adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato
dall’ordinamento giuridico;
o prevalenza del vantaggio sul danno;
o bilanciamento tra beni in conflitto;
o giusto contemperamento tra interesse e disinteresse.

Ciascuna causa di giustificazione presenta, però, degli elementi propri e, quindi, nell’individuare
portata e limiti di ogni scriminante, decisivo appare un approccio che tenga conto delle loro singole
peculiarità.

Per queste ragioni, è stata elaborato, dalla dottrina dominante, un modello di tipo
- pluralistico→ tende a ricondurre le esimenti a principi diversi. Tra i criteri più invocati:
o interesse prevalente (esercizio del diritto, adempimento del dovere, difesa legittima,
uso legittimo delle armi)
o interesse mancante (consenso dell’avente diritto, stato di necessità).

Disciplina delle cause di giustificazione


Le cause di giustificazione sono assoggettate a regole comuni di cui agli artt. 55 a 59 c.p.

 Rilevanza puramente obiettiva: art. 59 c.1 c.p. stabilisce che “le circostanze che escludono
la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o per errore
ritenute inesistenti". In questo modo le cause di giustificazione vengono ritenute operanti su
un piano meramente oggettivo e, cioè, vengono valutate in virtù della loro sola esistenza a
prescindere dalla consapevolezza dell’agente. Es. Tizio spara al suo nemico senza accorgersi
che in quel preciso momento il suo nemico sta per sparare su di lui (legittima difesa). Tuttavia,
ci sono casi in cui rilevano gli elementi soggettivi come gli stati psicologici per l’operatività
delle scriminanti. Si tratta di casi rari che si riscontrano nell’ambito delle scriminanti speciali,
cioè applicabili soltanto a talune figure di reato.
 Rilevanza del putativo: art. 59 ult. comma c.p. stabilisce che “se l'agente ritiene per errore
che esistono circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di
lui”.
Si attribuisce rilevanza alla figura della scriminante putativa equiparando la situazione di chi
agisce effettivamente in presenza di una causa di giustificazione a quella di chi confida
erroneamente nella sua esistenza. Necessario è però che l’errore investa:
 i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione medesima (es. Tizio a
causa di un errore di percezione crede di essere aggredito da Caio e reagisce
difendendosi)
 una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie
giustificante.

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Si esclude, invece, la rilevanza esimente di un errore di diritto consistente nell’erronea e
inescusabile convinzione che la situazione in cui si trova l’agente rientri tra quelle cui
l’ordinamento giuridico attribuisce efficacia di scriminante, in quanto ignorantia legis non
excusat.
La regola costituisce il frutto di una estensione alle scriminanti della disciplina generale
dell’errore di fatto enunciata all’art. 47 c.p.; infatti, chi commette un reato nell'erronea
convinzione che sussistono circostanze che facoltizzano o impongono il comportamento che
integra reato, agisce senza dolo allo stesso modo di chi erra sull’esistenza di un requisito
positivo nella figura criminosa in questione. In entrambi i casi non si rappresenta un fatto
punibile ma un fatto diverso del tutto lecito.

La giurisprudenza interpreta restrittivamente l’art. 59 ult. comma ritenendo necessaria, oltre a una erronea
supposizione da parte dell’agente dell’esistenza di una causa di giustificazione, anche che l’errore in cui il
soggetto versa sia ragionevole, abbia logica giustificazione, possa apparire scusabile sulla base dei dati di fatto
e simili. La ratio è quella di evitare che possa essere utilizzato l’errore sulle scriminanti per eludere
ingiustificatamente la responsabilità penale.

 Errore colposo: art. 59 ult. comma se l’errore sulla presenza di una scriminante è dovuto a
colpa dell’agente, la punibilità non è esclusa quando il fatto è previsto dalla legge come
delitto colposo. Es. Tizio, camminando di notte, viene avvicinato da un estraneo che gli chiede
una informazione e, scambiando quest’ultimo per un pericoloso bandito, si crede aggredito e
lo uccide.
In un caso del genere sussistono entrambi i requisiti per dare luogo a responsabilità per colpa:
errore di valutazione inescusabile di Tizio e la punibilità anche in forma colposa
dell’omicidio. Sebbene l’art. 59 ult. comma si riferisca ai soli delitti si deve propendere per la
tesi che la disciplina relativa all’errore colposo sulle scriminanti sia applicabile anche alle
contravvenzioni.
 Eccesso colposo: a norma dell’art. 55 c.p., quando nel commettere alcuno dei fatti previsti
agli artt. 51 (adempimento di un dovere/esercizio di un diritto), 52 (legittima difesa), 53 (uso
legittimo delle armi), 54 (stato di necessità), si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla
legge o dall’ordine dell’autorità o imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.
La figura dell’eccesso colposo ora in esame ricorre quando sussistono i presupposti di fatto di
una causa di giustificazione ma l’agente con colpa ne travalica i limiti (es. eccesso di legittima
difesa). Differisce dalla figura di erronea supposizione di scriminante in quanto, mentre in
quest’ultima la causa di giustificazione non esiste nella realtà ma solo nella mente di chi
agisce, nell’eccesso colposo la scriminante di fatto esiste ma l’agente supera colposamente i
limiti del comportamento consentito.

Il travalicamento di tali limiti viene valutato alla stregua dell’art. 43, cioè deve dipendere da
difetto inescusabile di conoscenza della situazione concreta da parte dell’agente o da altre
forme di inosservanza di regole di condotta a contenuto precauzionale e relative all’uso di
mezzi o alle modalità di realizzazione del comportamento.
Parte della dottrina distingue due forme di eccesso colposo:
- quando si cagiona un determinato risultato volutamente perché si valuta erroneamente la
situazione di fatto.
- si verifica quando la situazione di fatto è valutata esattamente ma per un errore esecutivo si
produce un evento più grave di quello che sarebbe stato necessario cagionare.

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Ciò che conta è, in ogni caso, che l’agente intenda realizzare quel fine al quale è specificamente
ispirata l’esimente e che quindi renda giustificato il comportamento.
Non si parla, invece, di eccesso colposo se l’agente viene a conoscenza della situazione concreta e,
nonostante questo, superi volontariamente i limiti dell’agire esimente (es. Tizio ferisce con un coltello
un feritore per provocargli uno sfregio duraturo, pur rendendosi conto che sarebbero sufficienti delle
percosse per farlo desistere).
L’eccesso qui si riferisce non ai mezzi ma ai fini dell’agire: la volontà è diretta alla realizzazione di un
fine criminoso, l'eccesso è doloso il soggetto deve rispondere a titolo di dolo e non di colpa.

L’eccesso colposo si ritiene estendibile anche alla scriminante del consenso dell'avente diritto e anche,
secondo parte della dottrina e della giurisprudenza, all’ipotesi di scriminante putativa.
Il delitto commesso in situazione di eccesso è colposo, perché se è vero che l'evento più grave può
essere dall'agente preveduto e voluto, è anche vero che la volontarietà del fatto è qui viziato da un
errore inescusabile che si converte in una falsa rappresentazione dei confini entro cui è consentito
agire; mancando, quindi, l’esatta conoscenza della situazione concreta esula l’elemento conoscitivo
del dolo. Sussistono, però, i presupposti del comportamento colposo considerando l’errore di
valutazione evitabile prestando maggiore attenzione.

Consenso dell’avente diritto


L’art. 50 c.p. stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto col consenso della
persona che può validamente disporne, la ratio è chiara: non vi è ragione che lo Stato appresti la tutela
penale dell’interesse alla cui salvaguardia il titolare mostra di rinunciare, consentendone, appunto, la
lesione.
L’art. 50 non opera, però, nell’ipotesi in cui il dissenso costituisce un elemento costitutivo del fatto
illecito, per cui, al contrario, il consenso fa venire meno lo stesso fatto tipico. In questi casi si dirà che
il fatto non sussiste (es. reati di violenza sessuale). Lo specifico ambito di operatività dell’art.50 è
circoscritto alle ipotesi nelle quali il giudice accerta un fatto criminoso tipico al completo dei suoi
elementi (il fatto sussiste), per cui il consenso dell’offeso ha l’effetto di giustificare o rendere lecito il
fatto che, altrimenti, costituirebbe illecito penale→ il fatto non costituisce reato.
Il consenso non ha natura di negozio giuridico ma va qualificato come un semplice atto giuridico, cioè
un permesso col quale si attribuisce al destinatario un potere di agire. Il consenso è, per tale ragione,
sempre revocabile.

Requisiti di validità:
Perché sia valido, il consenso deve essere libero e immune da violenza, dolo, errore. La validità
prescinde, inoltre, dai requisiti di forma, per cui è indifferente il mezzo con cui si manifesta (scritto,
orale, ecc.) e può anche essere desunto dal comportamento oggettivamente univoco dell’avente diritto,
purché sussista al momento del fatto (consenso tacito).
Secondo parte della dottrina, non si esige neppure che la volontà del consenziente giunga
effettivamente a conoscenza del destinatario.
Si distinguono, poi, consenso putativo e consenso presunto: putativo se il soggetto agisce nell’erronea
supposizione della sua esistenza ed è efficace salvo che in base alle circostanze del caso concreto si
debba escludere la ragionevole convinzione di potere operare con l’assenso della persona che può
validamente disporre del diritto; presunto, quando si può fondatamente ritenere che il titolare del bene
lo avrebbe concesso se fosse stato a conoscenza della situazione di fatto. Mentre la dottrina dà rilievo a
questa forma di consenso e quindi la ritiene una esimente, la giurisprudenza mostra un orientamento
più restrittivo, negando rilevanza al convincimento che il consenso sarebbe stato prestato se richiesto.

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Legittimazione: la legittimazione a prestare il consenso spetta al titolare del bene penalmente protetto;
nel caso di più titolari, a tutti i cointeressati. Può anche spettare al rappresentante legale o volontario, a
meno che la rappresentanza non risulti incompatibile con la natura del diritto.
Il soggetto legittimato deve possedere la capacità di agire che, stante la natura non negoziale del
consenso, si risolve nella capacità naturale, ossia capacità di intendere e di volere. In alcuni casi è lo
stesso legislatore a fissare un’età minima, ad es. la maggiore età necessaria per validamente consentire
alla lesione di diritti patrimoniali.
In quanto l’art. 50 specifica che il consenso deve provenire dalla persone che può disporne, da ciò
deriva che la sfera di operatività della scriminante è circoscritta ai casi in cui il consenso ha ad oggetto
diritti disponibili. L’interesse alla repressione, infatti, viene meno solo se il consenso ha ad oggetto la
lesione di beni di pertinenza esclusiva del privato che ne è titolare. L’art. 50 non precisa, però, quali
siano i diritti disponibili per cui spetta all'interprete individuarli alla strega dell’intero ordinamento
giuridico e delle consuetudini.

Diritti disponibili
Comunemente si ritengono disponibili i beni che non presentano una immediata utilità sociale e che lo
Stato riconosce esclusivamente per garantire al singolo il libero godimento, tipicamente si parla di
diritti patrimoniali purché non eccedano i limiti stabiliti dalla legge ma anche gli attributi della
personalità, come onore, libertà personale, morale, sessuale, ecc. purché il consenso sia limitato a
lesioni circoscritte che non comportino il totale sacrificio dei predetti beni e che non autorizzi atti
contrari alla legge, al buon costume o all’ordine pubblico.

Tali limiti sono per ovvie ragioni influenzati dall’evoluzione dei valori socioculturali e dal tipo di
concezione di stampo individualistico o paternalistico dello Stato.

Rispetto al bene dell’integrità fisica è opinione dominante che la portata del consenso è strettamente
connessa e limitata a fronte dell’art. 5 c.c. secondo il quale gli atti di disposizione del loro corpo sono
vietati quando:
- cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica
- siano contrari alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume
per cui, è sicuramente lecita una trasfusione di sangue, mentre la lesione permanente è ammissibile
solo se finalizzata al miglioramento della salute psico-fisica del consenziente.
In questo senso vanno ritenuti compatibili con l’art. 5 tutti gli atti di disposizione che anche se
implicano una diminuzione permanente dell’integrità risultano funzionali al miglioramento
complessivo della salute del disponente.
È dubbio che possano ritenersi ammissibili i trapianti di ghiandole sessuali.

Diritti indisponibili
Sono indisponibili gli interessi che fanno capo allo Stato, agli enti pubblici e alla famiglia e, secondo
costante giurisprudenza, il consenso è privo di efficacia scriminante nell’ambito dei delitti di usura,
frode in commercio, reati contro la fede pubblica, ecc..
Va indubbiamente annoverato tra i beni indisponibili anche il bene della vita (es. omicidio
consenziente e istigazione al suicidio).

La legittima difesa

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L’art 52 cp stabilisce che “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla
necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta,
sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa” .
La legittima difesa rappresenta un residuo di autotutela che lo Stato concede al cittadino ove
l’intervento dell’autorità non può risultare tempestivo.
La ratio legis è da ravvisare nella prevalenza dell’interesse di chi sia ingiustamente aggredito rispetto
all’interesse di chi agisce aggredendo contra legem.
La struttura della legittima difesa, ruota attorno a una condotta aggressiva e a una condotta difensiva.

Caratteristiche dell’aggressione
La minaccia deve provenire da una condotta umana ma può scaturire anche da animali o cose, solo
se è individuabile un soggetto che esercita su di essi una vigilanza: in tal caso l’esimente opererà sia a
favore di chi reagisce con l’animale o la cosa, sia a favore di chi reagisce contro la persona gravata
dall’obbligo di custodia. Il pericolo può derivare anche da una condotta omissiva (es. integra
un’omissione rifiuto del proprietario di richiamare il cane mastino che sta aggredendo un bambino e
ciò giustifica il padre che impugni un’arma per costringere il proprietario a far allontanare l’animale).
La legittima difesa opera anche se l’aggressione a cui reagisce non è imputabile allo stesso aggressore ,
questo perché l'antigiuridicità della condotta dell’aggressore rileva in termini puramente oggettivi,
cioè, è sufficiente che l’aggressore ponga in essere un comportamento contrastante con l’ordinamento
giuridico nel suo complesso, anche se, la specifica illiceità penale viene meno per difetto di requisiti di
natura soggettiva.
L’attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui, dove per diritto si intende, non soltanto un diritto
soggettivo, ma qualsiasi interesse giuridicamente tutelato, indipendentemente dalla sua natura (inclusi
i diritti patrimoniali).
Il presupposto fondamentale della difesa legittima è che la lesione provochi un pericolo attuale di
offesa, cioè non si deve trattare né di un pericolo già corso (perché non si avrebbe necessità di
prevenire l’offesa) né di un pericolo futuro (perché in questo caso sarebbe possibile ricorrere
all’intervento dell’autorità).
È necessaria, dunque, la minaccia di una lesione incombente, per la quale, la reazione nei confronti
dell’aggressore, rappresenta l’unico mezzo per mettere a riparo il bene in pericolo.
Si ha un pericolo attuale anche nell’ipotesi di pericolo perdurante che si riscontra, non solo nei reati
permanenti, ma anche in quei casi in cui non si è del tutto esaurita l’offesa.

CASO 24 (vedi libro pag. 300/302 - ladro di cavolfiori)

La giurisprudenza e parte della dottrina, ritengono che l’esimente della legittima difesa non sia
operante nei casi in cui la situazione di pericolo è volontariamente cagionata dal soggetto che
reagisce: poiché in questo caso verrebbe meno o il requisito della necessità della difesa o quello
dell’ingiustizia dell’offesa. Per tale ragione, si esclude il ricorso alla legittima difesa nel caso di rissa,
in quanto si presume che tutti i partecipanti siano spinti da un reciproco intento aggressivo. Tuttavia, è
da rilevare che nell’art 52 c.p. l’involontarietà del pericolo non è indicata come presupposto della
scriminante e che, se il legislatore avesse voluto subordinare la difesa legittima alla produzione
involontaria del pericolo, lo avrebbe enunciato espressamente.
Per tali ragioni, si può concludere che l’esclusione della legittima difesa nei casi di sfida, è desumibile
dalla stessa ratio della scriminante: i contendenti, in quanto hanno concorso a creare un pericolo e che
sarebbe stato in loro potere non far sorgere, non possono essere considerati come coloro i quali
subiscono un’aggressione non potendo invocare tempestivamente il soccorso dell’autorità. D’altra
parte, la giurisprudenza, ha comunque ammesso l’operatività della scriminante anche in taluni casi di

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pericolo volontariamente cagionato da chi agisce, precisamente, quando la reazione della vittima della
provocazione risulti imprevedibile e sproporzionata rispetto all’offesa.

Relativamente al concetto di offesa ingiusta, l’interpretazione prevalente ravvisa l’ingiustizia


nell’antigiuridicità dell’offesa, cioè quella arrecata in violazione delle norme che tutelano l’interesse
minacciato. Se così si interpretasse il concetto di ingiustizia, lo si renderebbe pleonastico, per cui
appare più opportuno attribuire un significato più autonomo e pregnante, cioè quello secondo il quale
l’offesa è ingiusta quando l’aggressione, oltre a minacciare un diritto altrui, non è facoltizzata
dall’ordinamento.

Caratteristiche della reazione


La reazione è giustificata in presenza di due requisiti:
I.I necessità→ la difesa appare necessaria quando l’aggredito, di fronte all'alternativa tra agire e
subire, non può evitare il pericolo se non agendo contro l’aggressore, cioè quando la reazione
è inevitabile poiché non sostituibile da un’altra meno dannosa ma ugualmente idonea a
tutelare l’aggredito. Il giudizio di necessità ed inevitabilità non è assoluto ma deve tener conto
di tutte le circostanze del caso concreto, per cui una stessa reazione può risultare giustificata
per un individuo debole e non apparire più tale per una persona fisicamente robusta.
Tradizionalmente la necessità della legittima difesa viene valutata effettuando il paragone con
la fuga, nel senso che la reazione si ritiene legittima quando la fuga non è sufficiente a tutelare
l'aggredito, cioè quando la fuga esporrebbe i suoi beni personali o di terzi a rischi maggiori di
quelli incombenti sui beni del soggetto contro il quale agisce.
I.II proporzione tra difesa ed offesa→ secondo un orientamento ad oggi in via di superamento,
la proporzione dovrebbe intercorrere tra i mezzi difensivi a disposizione dell’aggredito e quelli
effettivamente impiegati, ma questa tesi va incontro ad obiezioni difficilmente superabili, in
quanto potrebbe giustificare, ad esempio, la difesa di un bene meramente patrimoniale con la
lesione di un bene personale come la vita o l’integrità fisica, per cui ciò di cui si deve tenere
conto non è soltanto il mezzo adoperato, ma soprattutto il tipo di bene aggredito tanto dalla
prima aggressione quanto dalla reazione. Ciò si coglie tanto dalla Costituzione quanto dalla
CEDU, alla stregua dei cui principi si può affermare che non è consentito aggredire la vita
altrui per difendere diritti meramente patrimoniali o comunque gerarchicamente inferiori alla
vita e all’integrità fisica della persona. Per tali ragioni, è necessario accogliere un altro
orientamento, quello secondo il quale il giudizio di proporzione deve essere operato tra beni in
conflitto e grado di pericolo. Nello specifico: se il conflitto intercorre tra beni omogenei
(integrità fisica contro integrità fisica) è ovvio che si dovrà porre in raffronto il rispettivo
grado di lesività dell’azione aggressiva e di quella difensiva; se, invece, il conflitto intercorre
tra beni eterogenei (vita vs patrimonio), al di fuori dei casi nei quali il rapporto gerarchico tra i
beni è particolarmente evidente, per determinare quale bene prevale dovrà farsi ricorso ad
indicatori quali l’eventuale rilevanza costituzionale del bene, la diversa entità della sanzione
prevista dalla legislatore penale, la valutazione operata da norme extrapenali, ecc… A questo
giudizio sull’importanza dei beni dovrà seguire quello che pone a confronto l’intensità
dell’offesa minacciata dall’aggressore e quella prodotta dall’aggredito.

→ vedi caso 24 dal libro

La legittima difesa domiciliare


La disciplina della legittima difesa è stata innovata dalla l. 59/2006, che ha aggiunto all’art. 52 due
nuovi commi destinati a regolamentare l’esercizio all’autotutela in un privato domicilio, con lo scopo

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di ampliare i presupposti della legittima difesa nei casi in cui l'aggressore sorprenda l’aggredito in casa
o in altro luogo assimilabile.
La maggiore novità introdotta consiste nella modifica di disciplina del requisito della proporzione, nel
senso che quando la reazione difensiva è diretta contro un intruso nella privata dimora il giudice è
dispensato dalla verifica in concreto della proporzione tra offesa e difesa essendo il requisito della
proporzione, in questi casi, presunto juris et de jure (non ammette prova contraria).
Si tratta di una riforma che ha suscitato delle critiche in dottrina: c’è chi ritiene legittima questa
concezione di legittima difesa allargata, che sembra confermare una risalente e diffusa tendenza
legislativa che respinge le incursioni nel domicilio tramite una maggiore estensione dei presupposti
della legittima difesa; altri autori hanno obiettato che il rischio sarebbe quello di diffondere un
messaggio fuorviante, ossia quello secondo cui i cittadini onesti possono farsi giustizia da sé ed inoltre
quello di produrre un effetto criminogeno in quanto i delinquenti sarebbero maggiormente aggressivi a
fronte dei maggiori spazi di aggressività difensiva concessi alle vittime.
A prescindere dagli obiettivi politico-criminali perseguiti, la modifica legislativa risulta fallimentare
sotto un profilo di tecnica normativa in quanto non indica in modo preciso ed univoco come può
legittimamente reagire il padrone di casa o del luogo ad essa assimilabile.

Il nuovo comma 2 dell’art 52 stabilisce che “nei casi previsti dall’art 614 c 1 e 2, sussiste il rapporto
di proporzione di cui al 1 comma dell’art 52, se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi
indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
- la propria o altrui incolumità;
- i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.”

Il nuovo comma 3 prevede che “la disposizione di cui al 2 comma si applica anche nel caso in cui il
fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività professionale o
imprenditoriale”.

La nuova disciplina lascia sussistere i presupposti tradizionali della necessità di difendersi e del
pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui.
Oltre alla presunzione di proporzione, ulteriori elementi di novità sono costituiti:
1. dallo specifico contesto situazionale in cui l’aggredito viene sorpreso
2. dalle condizioni concomitanti che devono essere presenti affinché la reazione armata o
comunque violenta risulti legittima e quindi scriminata.

Quanto al contesto occorre che la necessità di difesa sia provocata da un aggressore che commetta allo
stesso tempo una violazione di domicilio ex art 614. Deve trattarsi di un estraneo che si introduce
arbitrariamente nell'abitazione altrui, o di persona che vi si intrattiene contro la volontà dell’avente
diritto. E’ consentito contro l’intruso fare uso di un’arma o di un altro mezzo idoneo alla difesa purché
siano presenti le condizioni indicati dalle lettere a) e b) art 52, comma 2.
A. Analizza l’ipotesi in cui l’aggredito in una privata dimora attui una reazione violenta al fine di
difendere la propria o altrui incolumità. Dalla formulazione “al fine di” sembra diversi
ricavare che non basti una situazione oggettiva di pericolo, ma che sia altresì necessario
l’animus defendendi con il quale l’aggredito deve reagire. Tale difesa deve avere ad oggetto la
propria o altrui incolumità; quindi è chiaro il riferimento ai beni della vita e all’integrità
fisica(omogenei tra aggredito e aggressore). La novità riguarda la presunzione legale di
proporzione. Per evitare oppure attenuare esiti inaccettabili derivanti dall’applicazione di tale
disciplina(ad es. i due amanti che si incontrano nell’appartamento di uno dei due è poi a
seguito di una lite uno intima all’altro di andarsene, l’altro si oppone e l’amante proprietario

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per liberarsene gli spara contro colpi di arma da fuoco) alcuni autori propongono di
interpretare in modo rigoroso il requisito della necessità di difendersi alla stregua del quale è
da considerare davvero necessaria soltanto quella condotta difensiva che non è sostituibile con
una meno lesiva. Benché un tale orientamento appaia plausibile, si può comunque giungere
alla stessa conclusione più ragionevolmente interpretando in modo estensivo il criterio della
proporzionalità in concreto.
B. Difetti maggiori presenta la disciplina per cui si considera presuntivamente proporzionato
l’uso di un’arma, o di altro mezzo di reazione violenza, finalizzato allo scopo di difendere “i
beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione”. Sembrerebbe
che il legislatore anteponga la salvaguardia dei beni patrimoniali addirittura al valore della vita
è dell’integrità fisica di chi li aggredisce.
Se il senso della nuova formula normativa fosse quello di concedere una licenza di uccidere o ferire
l'intruso che si limiti ad aggredire beni patrimoniali altrui, essa risulterebbe assolutamente
inconciliabile sia col sistema dei valori costituzionali che dell’art 2 della CEDU. Ma così non è perché
la legittimità dell’impiego dell’arma è subordinata alle due condizioni consistenti nelle circostanze che
l’intruso aggressore non desista e che sussista un pericolo di aggressione.
La mancata d’esistenza consiste nell’astensione dall’interrompere la condotta offensiva(diretta
anzitutto contro i beni patrimoniali).
L’interpretazione più plausibile è che il pericolo di aggressione deve consistere in un pericolo che
trascende la sfera dei beni patrimoniali (già minacciati dall’azione intrapresa e non interrotta dal
malvivente) e che si proietta sulla vita e sull’integrità personale dell'aggredito. Qui soccorre il criterio
ermeneutico della compatibilità con la Costituzione italiana e con la CEDU. Il successivo quesito da
risolvere è il seguente: il pericolo di aggressione alla vita o all’integrità fisica della potenziale vittima
deve essere anch’esso attuale?
In prima battuta, si è ritenuta preferibile una soluzione interpretativa in senso affermativo, per cui, la
difesa armata sarà legittima soltanto in presenza di un pericolo di aggressione concretamente
incombente nella situazione data. Infatti, in presenza di un testo normativo generico va preferita
l'interpretazione costituzionalmente più conforme da cui si ricava che è lecito attaccare difensivamente
l’aggressore solo se, e nella misura in cui quest'ultimo stia per compiere effettivamente atti aggressivi.

Si è facilmente obiettato che una simile interpretazione vanifica il significato pratico della innovazione
legislativa, invece, si dovrebbe ritenere che oggi, la persona legittimamente presente in un domicilio
privato possa reagire già a fronte di una situazione di aggressione attuale al patrimonio che lascia
presagire una futura aggressione alla persona propria o di altro soggetto presente nel domicilio
(propendendo per un pericolo non attuale).
Tuttavia, una simile interpretazione rischia, a sua volta, di nullificare la rilevanza pratica proprio del
requisito del pericolo di aggressione: infatti, nella maggior parte dei casi concreti, in astratto non si
può mai escludere la possibilità che l’aggressore, una volta scoperto, attenti all’incolumità fisica della
persona o delle persone presenti nel domicilio. Epperò, da ciò ne deriva che si finisce quasi sempre
con l’autorizzare l’aggredito a reagire uccidendo o ferendo l’aggressore.
Vi è chi, in realtà, propone di controbilanciare l’interpretazione del pericolo di aggressione, come
pericolo anche eventuale, con una ricostruzione ristretta del requisito della necessità di difendersi
(necessitata è solo quell’azione difensiva non sostituibile).
Il maggiore inconveniente è dato dal non poter pretendere dall’aggredito la scelta del mezzo difensivo
comparativamente meno lesivo a fronte di una situazione di pericolo per la sua incolumità personale
che si prospetta solo come astrattamente possibile.

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Sulla base di quanto detto, perveniamo alla seguente conclusione: anche nell’ipotesi sub b), affinché
una reazione difensiva violenta risulti scriminata occorre la presenza di un pericolo incombente di
aggressione ai beni personali del soggetto che si difende (si riprende la concezione dell’attualità del
pericolo, ma il legislatore dispensa comunque la vittima dal compito di valutare un rapporto di
proporzione tra offesa e difesa).
in entrambe le ipotesi sub a) e sub b), la liceità del ricorso all’uso di un’arma o di altro mezzo idoneo
in funzione difensiva è subordinata a una duplice condizione di legittimità:
 che il soggetto che si difende deve essere presente legittimamente all’interno del luogo chiuso
ove subisce l’intrusione del malvivente;
 che l’arma usata deve essere legittimamente detenuta (questo requisito è espressivo del favor
per il cittadino onesto che abbia per primo adempiuto agli obblighi imposti dall’ordinamento
—> ad es porto d’armi).
Ove la difesa armata sia azionata da un soggetto che possiede l’arma illegittimamente, se verrà meno
la presunzione di proporzione, sarà pur sempre applicabile, se ne ricorrono tutti i presupposti, la
scriminante tradizionale della legittima difesa di cui all’art. 52 c.1 c.p., fatta salva la configurabilità di
illeciti penali relativi alla illegittima detenzione dell’arma.

CAPITOLO 3 – LA COLPEVOLEZZA

SEZIONE 1 – NOZIONI GENERALI


Il terzo elemento costitutivo del reato è la colpevolezza. Dal punto di vista antropologico, si muove dal
presupposto che l’uomo sia in grado di controllare gli istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno
in base a scelte tra diverse possibilità di condotta. Il ruolo centrale del principio di colpevolezza è
confermato dall’art. 27 c.1 Cost. secondo il quale, sulla base dell’interpretazione maggiormente
avallata, non vige soltanto un divieto di responsabilità per fatto altrui, ma una ben più pregnante
responsabilità per fatto proprio colpevole, cioè l’applicazione della pena presuppone l’attribuibilità
psicologica del singolo fatto di reato alla volontà anti-doverosa del soggetto. Come chiarito dalla Corte
Costituzionale, l’imputazione del fatto criminoso è veramente conforme al principio di personalità
solo se il fatto sia attribuibile all’autore, almeno a titolo di colpa, perché se è sganciato dal dolo o dalla
colpa, viene del tutto meno il carattere personale dell’addebito.
Il ruolo primario della colpevolezza è ricollegabile al finalismo rieducativo della pena (art. 27 c.3
Cost.). Infatti, l’assenza di un’imputabilità soggettiva di un fatto commesso (in quanto assente il
requisito minimo della colpa), si tradurrebbe in un’ingiusta intrusione dello Stato nella sfera personale
del cittadino. La stessa Corte Costituzionale ha affermato che non avrebbe senso la rieducazione di
chi, non essendo nemmeno in colpa, non ha certo bisogno di essere rieducato.

Punti di convergenza in seno alla dottrina


1. L’idea di colpevolezza presuppone il rifiuto della responsabilità cd. oggettiva, cioè
ogni forma di responsabilità per accadimenti dovuti al mero caso fortuito, per cui
l’imputazione penale si arresta, ove il soggetto non sia in grado di “signoreggiare” il
verificarsi degli eventi, cioè il rimprovero di colpevolezza implica che si presupponga
come esistente una possibilità di agire diversamente.
2. La colpevolezza riflette, la differenza tra dolo e colpa, cioè la volontarietà o
l’involontarietà del fatto, nello specifico: il dolo rappresenta la forma più gra di
colpevolezza, mentre la colpa la più lieve.
3. Vi è un rapporto di proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta
sanzionatoria: la reazione penale deve essere proporzionata o commisurata al grado
della partecipazione interiore del soggetto.

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4. Inammissibilità della figura della colpa d’autore
Nel nostro ordinamento, per colpevolezza si può intendere soltanto la colpevolezza per il fatto,
cioè per aver commesso un fatto lesivo di un bene penalmente protetto. È, invece,
inammissibile la figura della colpa d’autore, nella duplice versione della colpevolezza per il
carattere e della colpevolezza per la condotta di vita.
In particolare, la teoria della colpevolezza per il carattere, afferma che all’agente si possa
rimproverare il fatto di non aver represso le pulsioni anti-sociali, per evitare il formarsi di un
carattere malvagio e propenso a delinquere.
La teoria della colpevolezza per la condotta di vita, invece, incentra il giudizio di
disapprovazione sul modello e sulle scelte di vita del reo alla base della sua inclinazione a
delinquere.
Una colpevolezza così ancorata alla personalità dell’agente, in realtà, non è del tutto estranea
ai sistemi penali positivi, nonostante l’orientamento oggettivistico tipico del nostro diritto
penale imponga di individuare il nucleo centrale del disvalore penale nel fatto offensivo di un
interesse tutelato. Un esempio tipico di reati che sembrano infatti legati alla personalità
dell’agente è lo sfruttamento di prostitute, costituito dal modus vivendi dell’agevolare la
prostituzione o ancora, il caso di aggravamento del trattamento penale nelle ipotesi di
recidiva. Tuttavia, tali casi che presentano degli aspetti di ambiguità trovano giustificazione
nel nostro ordinamento in quanto rispondenti ad esigenze di tutela sociale e prevenzione.
Nonostante ciò, esistono comunque dei casi-limite rispetto ai quali sono fluidi i confini tra
colpevolezza per il fatto e colpevolezza per la condotta di vita, si pensi ad esempio alla colpa
incosciente, in cui all’agente viene rimproverato di non aver impersonato il ruolo sociale di
persona diligente e avveduta.
Parte della dottrina, tende ad includere nel giudizio di colpevolezza, l’atteggiamento
interiore di maggiore o minore disprezzo del soggetto nei confronti di valori penalmente
tutelati ad esempio nel caso di atteggiamenti come la brutalità, manifestati nella realizzazione
del fatto criminoso rendono più grave la colpevolezza e quindi il trattamento penale.

Tradizionalmente, la colpevolezza si contrappone alla pericolosità sociale, la prima che riguarda solo i
soggetti capaci di intendere e di volere, esprime un rimprovero per la commissione di un fatto
delittuoso; la seconda, privilegia la personalità dell’autore e, più che a un fatto di reato già commesso,
si riferisce alla probabilità che l’autore continui a delinquere in futuro. Corrispondentemente, la
colpevolezza costituisce presupposto dell’applicazione della pena in senso stretto, mentre la
pericolosità sociale, l’applicazione di una misura di sicurezza.

La distinzione rischia di confondersi nella concreta prassi giudiziaria. Infatti, da un lato è diffusa in
giurisprudenza, l’inclinazione ad emettere giudizi unitari e sintetici, oltre che spesso intuitivi
sull’autore del reato, che finiscono col non distinguere tra atteggiamento psicologico circoscritto al
singolo fatto di reato e personalità complessiva del soggetto. Dall’altro, esistono istituti “ibridi” che
possono essere ricostruiti privilegiando o il piano della colpevolezza o quello della pericolosità sociale
(es. capacità a delinquere di cui il giudice deve tener conto per la commisurazione della pena, detta
categoria, è stata, in dottrina, riportata ora alla colpevolezza, ora alla pericolosità sociale).
Tale tendenza ad una commistione tra i due piani è cresciuta con l’accentuarsi della funzione special-
preventiva della sanzione punitiva che ha utilizzato la pericolosità soggettiva come criterio per definire
il trattamento sanzionatorio sia in fase di accertamento giudiziale, sia in fase penitenziaria.
Spinte nella stessa direzione, si sono avute dalla legislazione dell’emergenza antiterroristica e
antimafiosa che hanno predisposto nuove strategie sanzionatorie sulla base della pericolosità sociale.

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La tendenza che valorizza maggiormente la pericolosità sociale, intaccando la colpevolezza,
compromette i principi di fondo del diritto penale del fatto, più conforme al nostro sistema
costituzionale.

Concezioni della colpevolezza


La concezione psicologica
La concezione psicologica della colpevolezza consiste in una relazione psicologica tra fatto e autore ed
assolve due funzioni: anzitutto, l’uso del concetto di colpevolezza esprime l’idea che la responsabilità
penale richiede necessariamente una partecipazione psicologica alla commissione del fatto. Per questo
motivo si costruisce la colpevolezza come concetto di genere che ricomprende il dolo e la colpa,
definendola come il rapporto psicologico tra l’agente e l’azione che cagiona un evento voluto, o non
voluto, in quanto non preveduto ma prevedibile.
La concezione psicologica circoscrive la colpevolezza all’atto di volontà relativo al singolo fatto di
reato, indipendentemente dalla valutazione della personalità complessiva dell’agente e del processo
motivazionale che sorregge la condotta.
Da questo punto di vista, la colpevolezza, quale rapporto psicologico tra fatto e autore, non ammette
graduazioni e non distingue in base alle caratteristiche personali del reo, ma rimane identica,
considerati gli individui tutti astrattamente uguali; la diversa gravità del reato, piuttosto, va valutata
facendo leva sull’entità del danno obiettivamente arrecato alla società (criterio oggettivo).
Sicché, la pena assolve la funzione di retribuire il singolo fatto commesso secondo una misura
proporzionata alla sua oggettiva e specifica gravità.
In questo quadro non si da rilievo all’inclinazione a delinquere del reo né tantomeno si previene la
recidiva, per tale ragione, parte della dottrina ha criticato quella previsione normativa che ha introdotto
un aumento di pena per i delinquenti recidivi, ritenendo che ciò integri una violazione della regola di
proporzione tra fatto e pena.

Questa impostazione è soggetta a due obiezioni: non riesce neppure a fornire un concetto superiore in
grado di ricomprendere il dolo e la colpa; sul piano funzionale, la concezione psicologica non
valorizza tutte le potenzialità della colpevolezza come elemento di graduazione della responsabilità
penale, in primis non tiene conto delle diverse motivazioni che inducono a delinquere.

Concezione normativa
La concezione normativa della colpevolezza supera gli inconvenienti della concezione psicologica.
Secondo questa concezione, è necessario dare rilievo ai motivi dell’azione e alle circostanze in cui
essa si realizzi, questo alla stregua del fatto che non tutte le azioni illecite volontarie meritano le stesso
rimprovero, per tali ragioni questa concezione funge anche da criterio per la commisurazione
giudiziaria della pena, fungendo così da ponte, tra il concetto di colpevolezza inteso come elemento
costitutivo dell'illecito e inteso come criterio di commisurazione della pena (es. l’appropriazione di
denaro commessa da un cassiere di un negozio ben retribuito, scapolo e abituato a svaghi costosi, non
può essere considerata colpevole alla stessa stregua dell’appropriazione della stessa somma di denaro
commessa da un fattorino con la moglie ammalata e molti bambini da mantenere).
La colpevolezza, secondo questa concezione, consiste nella rimproverabilità dell’atteggiamento
psicologico tenuto dall’autore. Il concetto di rimproverabilità potrebbe far pensare a delle valutazioni
di tipo morale ma è necessario distinguere la colpevolezza morale da quella giuridica, infatti, l’idea di
colpevolezza in senso penalistico assolve alla funzione di prevenzione generale e speciale che
prescinde del tutto da concezioni etiche.
Infatti, la colpevolezza deve tradursi semplicemente in un rimprovero per aver commesso azioni
socialmente dannose anche se potenzialmente conformi ad una concezione etica particolare.

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In definitiva, non vi è un orientamento univoco.

Orientamenti attuali
 L’attuale frattura tra l’idea di colpevolezza e la teoria retributiva della pena
Attualmente, si registra un’insuperabile frattura tra l’idea della colpevolezza e la teoria retributiva
della pena. In passato, la colpevolezza era legata alla teoria retributiva, in quanto la retribuzione,
concepita come reazione afflittiva al male commesso, presuppone una reazione da annullare. In
quest’ottica, ha senso compensare con una pena il male arrecato, in quanto si presupponga,
quantomeno, che l’agente abbia agito con colpa. L’entrata in crisi della teoria retributiva ha fatto
sorgere l’esigenza di trovare una nuova giustificazione della categoria della colpevolezza. Posta la
connessione tra la colpevolezza e la funzione del diritto penale, il quesito che sorge è quale sia la
funzione della colpevolezza all’interno di un diritto penale orientato nell’ottica della prevenzione.
La pena non è la conseguenza indefettibile di un’accertata colpevolezza, pur essendo quest’ultima una
condizione necessaria. Infatti, una volta accertata la colpevolezza, in tanto ha senso punire, in quanto
questo serva a distogliere altri dal commettere reati (prevenzione generale) oppure a impedire che lo
stesso autore del reato torni a delinquere (prevenzione speciale). Essendo l’inflizione della pena
condizionata da esigenze di prevenzione che si aggiungono all’accertamente della colpevolezza, sorge
l’interrogativo: la categoria della colpevolezza tradizionalmente intesa ha veramente senso all’interno
di un diritto penale della prevenzione, oppure la sua sopravvivenza è il frutto di un compromesso con
il vecchio diritto penale della teoria retributiva?
A riguardo, bisogna distinguere a seconda che ci si riferisca I. alla colpevolezza nella sua accezione di
elemento costitutivo del reato o II. quale criterio di commisurazione della pena.
I.III Secondo parte della dottrina, la legittimazione della colpevolezza, quale presupposto del reato,
va ravvisata nel suo rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventiva (rieducatrice)
della pena. Infatti, la pretesa dello Stato di promuovere il rispetto dei valori penalmente
tutelati in tanto è plausibile, in quanto nell’azione criminosa sia ravvisabile quantomeno la
colpa dell’autore, mentre non si potrebbe ravvisare un bisogno di rieducazione rispetto al
verificarsi di eventi incolpevoli. *
Posto che la minaccia della pena deve fungere da appello rivolto alla coscienza del potenziale
delinquente per indurlo a desistere dal commettere reati, una legge penale che punisse fatti
incontrollabili difficilmente potrebbe perseguire tale obiettivo.
Tuttavia, non pare ragionevole escludere il rischio di poter essere incriminati anche per le
conseguenze incontrollabili del proprio comportamento. Infatti, talvolta è possibile ravvisare
una funzione di prevenzione della pena con l’effetto di indurre a desistere del tutto dal
compimento di certe azioni oppure ed elevare gli standards di diligenza.

Se, però, è astrattamente ipotizzabile che, in certi casi, il ricorso a forme di responsabilità
oggettiva sia idoneo a rafforzare la funzione general-preventiva della pena, ne deriva che la
prevenzione generale non implica, quale condizione indefettibile, la colpevolezza quale
presupposto del reato. La scelta di non derogare al principio di colpevolezza (escludendo le
ipotesi di responsabilità oggettiva) deve basarsi sul bilanciamento tra le rispettive esigenze
della tutela preventiva dei beni giuridici da un lato e della salvaguardia delle libertà
fondamentali del singolo dall’altro. Il principio di colpevolezza è quindi inderogabile perché
svolge una funzione di garanzia a favore della certezza di libere scelte d’azione del privato
(controllo finalistico del soggetto).
 Anche la scelta della sanzione più adeguata in relazione al caso concreto subisce l’influenza
degli stessi scopi di prevenzione generale o speciale della pena. Tuttavia, il problema che
sorge è se la funzione preventiva possa assurgere ad unico criterio di giudizio nella

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commisurazione della pena, considerando così come secondario il rapporto di adeguatezza che
dovrebbe sussitere tra l’entità della pena e il ghradop di colpevolezza insita nel singolo fatto di
reato. Infatti, in prospettiva di una funzione generale, una misura di pena strettamente
connessa al grado di colpevolezza del reo, in alcuni casi, potrebbe apparire troppo blanda per
scoraggiare altri soggetti dal compimento di reati dello stesso tipo. Per cui il giudice potrebbe
essere indotto a infliggere una pena eccedente la giusta misura, in termini di rigore, che il reo
meriterebbe in relazione al singolo fatto.
Allo stesso modo, una graduazione della pena al di sopra del quantum corrispondente
all’entità della colpevolezza, potrebbe essere richiesta dalla finalità rieducativa del reo
(funzione di prevenzione speciale). Ma è legittimo sborrare sui bambini?
Ma è legittimo che, nel perseguire scopi di prevenzione generale e/o speciale, la pena
superi il limite corrispondente all’entità della colpevolezza individuale?
Nel caso di risposta positiva all’interrogativo, la prevalenza accordata all’esigenza di
prevenzione, sarebbe tale da far passare in secondo piano l’esigenza di salvaguardare il
singolo da interventi punitivi dello Stato che esorbitano dal grado di colpevolezza del reo. Con
una pena sproporzionata (in eccesso) si andrebbe, così, a ledere l’autonomia e la dignità della
singola persona.
Il principio di colpevolezza assume una funzione limitativa della punibilità in sede di
commisurazione giudiziale della pena, perché la sua osservanza vieta l’inflizione di PENE
sproporzionate per eccesso.

L’attuale disputa concerne anche la portata ed i limiti della possibilità di agire diversamente
come presupposto del rimprovero di colpevolezza, cioè si discute se il giudice debba accertare
il potere individuale di agire altrimenti del soggetto concretamente sottoposto a giudizio
oppure se la possibilità di agire altrimenti vada commisurata al potere di un uomo medio.
Verso quest’ultima alternativa propendono coloro che dubitano che, in sede di accertamento
giudiziale, si possa accertare la possibilità di autodeterminazione dell’agente concreto.
Per contro, propendono per la prima alternativa coloro che temono che il riferimento all’uomo
medio sottragga al giudizio di colpevolezza ogni fondamento reale, con la conseguenza di
trasformare la colpevolezza in una categoria vuota di contenuto, perché assoggettata ad
esigenze di prevenzione.

Struttura della colpevolezza

La colpevolezza in senso normativo presenta alcuni importanti presupposti:


1. imputabilità
2. dolo o colpa
3. conoscibilità del divieto penale
4. assenza di cause di esclusione della colpevolezza.
Quindi, può ritenersi colpevole un soggetto imputabile che ha realizzato, con dolo o colpa, la
fattispecie di un reato in assenza di circostanze che rendono necessitata l’azione illecita.
L’esame di queste componenti solleva varie questioni, una delle quali concerne il rapporto tra
colpevolezza ed imputabilità all’interno del reato.
Tradizionalmente prevale la tesi secondo la quale l’imputabilità costituisce una qualificazione
soggettiva rientrante nella teoria del reo piuttosto che in quella del reato. Per Antolisei, rappresenta
uno status della persona necessario affinché l’autore del reato sia assoggettabile a pena. Di
conseguenza, la mancanza di imputabilità è una causa personale di esenzione da pena.

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Questa impostazione teorica fa leva sul fatto che le norme del codice penale di cui all’art 222 e 224
c.p. (durata minima delle misure di sicurezza nell’ospedale psichiatrico e del riformatorio giudiziario
in base alla gravità dei reati commessi) contengono un implicito riferimento all’intensità del dolo e
della colpa; pertanto, secondo il legislatore, il dolo e la colpa sono anche riferibili ai non imputabili.
Da ciò, la dottrina deduce che l’imputabilità non può essere considerata presupposto della
colpevolezza,ma soltanto uno stato soggettivo che determina l’assoggettabilità alla pena.
Una simile impostazione, però, non tiene conto del legame che intercorre tra imputabilità ed illecito
penale, in quanto è proprio l’imputabilità, intesa come maturità psicologica del reo, che consente di
muovere un rimprovero al reato. Il concetto di colpevolezza non si risolve nel dolo e nella colpa, ma
richiede, nella prospettiva del rimprovero, anche l’imputabilità (ferma restando la possibilità di fare
riferimento al dolo e alla colpa in relazione alla condotta degli incapaci di intendere e di volere). Va
rilevato, infine, che dolo e colpa del soggetto inimputabile non coincideranno con dolo e colpa del
soggetto capace di intendere e di volere. Tali elementi sono qualificati come stati psichici: il dolo,
come volontarietà psichica del fatto nella sua materialità, può non ricomprendere la consapevolezza in
termini offensivi; inoltre, l’errore condizionato dalla malattia mentale può non escludere la
pericolosità del non imputabile, comportando, eventualmente, l'applicabilità di una misura di
sicurezza.

Nonostante sia concepita come presupposto della colpevolezza, l’imputabilità è distinta dalla
coscienza e volontà dell’azione, costituendo queste condizioni dell’attribuibilità psichica di una
singola azione od omissione al suo autore; mentre l’imputabilità riflette una qualità personale
dell’autore che permette di qualificare come colpevole un comportamento ascrivibile allo stesso come
cosciente e volontario (es. sentinella legata ad un albero).

SEZIONE II - IMPUTABILITA’

L’art 85 c.p. definisce l’imputabilità come capacità di intendere e di volere, ove la volontà può essere
intesa come quella condizione che soddisfa il soggetto che non soccombe passivamente agli impulsi
psicologici, ma riesce ad esercitare poteri di inibizione e controllo idonei a consentirgli scelte
consapevoli tra motivi antagonistici.
L’imputabilità come categoria penalistica ha uno stretto rapporto con la colpevolezza nella misura in
cui la disapprovazione e la stessa pena non avrebbero senso se rivolte a soggetti privi della possibilità
di agire diversamente. Infatti, se la minaccia della sanzione punitiva deve esercitare una efficacia
preventiva distogliendo i potenziali rei dal commettere reati, un necessario presupposto è che i
destinatari siano psicologicamente in grado di lasciarsi motivare e di subire gli effetti della minaccia.
Inoltre, se l’esecuzione concreta della pena deve rieducare il reo, è necessario che il condannato sia
psicologicamente capace di cogliere il significato del trattamento punitivo.
Tuttavia, sono emerse delle tendenze che hanno reso più problematica la distinzione tra soggetti
imputabili ed imputabili. Nello specifico, in una prima fase si è tentato si soppiantare l’idea di
colpevolezza e punizione con quelle di anomalia psicologica e trattamento curativo-riabilitativo.
Successivamente, ci si è spinti oltre a tal punto da considerare gli infermi psichici dei soggetti
parzialmente responsabili così da promuoverne il senso di responsabilità. Infine, si è avanzata la
proposta radicale di eliminare la categoria della imputabilità applicando lo stesso trattamento penale
dei soggetti sani a quelli psichicamente malati con il fine, soprattutto, di abbandonare l’arcaico
trattamento ancora oggi riservato agli infermi di mente. Tuttavia, non appare possibile raggiungere la
finalità di responsabilizzazione o di conferimento di dignità al malato di mente, autore di reato,
attraverso un’artificiosa e rigida affermazione di piena capacità d’intendere e di volere.

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Piuttosto,sarebbe ragionevole una ridefinizione del concetto di imputabilità attraverso la
valorizzazione delle più aggiornate conoscenze scientifiche.

Capacità d’intendere e di volere


La capacità di intendere e di volere di cui all’art 85cp deve sussistere al momento della commissione
del fatto che costituisce reato.
Il legislatore detta alcuni parametri predeterminati al fine di valutare la sussistenza di questa
condizione come ad es. l’età del soggetto, l’assenza di infermità mentale o di altre condizioni capaci di
incidere sulla autodeterminazione dell’agente. Questi, però, non sono tassativamente elencati in quanto
la capacità di intendere e di volere può anche essere esclusa dalla presenza di altri fattori come nel
caso di soggetto non malati di mente in senso stretto, ma che presentino uno sviluppo intellettuale
meramente deficitario(perché tenuto in segregazione durante l’infanzia o in uno stato di isolamento
socio culturale).
L’imputabilità è connessa alla sussistenza di entrambe le condizioni (sia capacità di intendere sia
capacità di volere) ed, infatti, l’imputabilità difetta se manca anche una sola capacità. Si è, però ,
obiettato che le funzioni psichiche rilevanti ai fini della imputabilità non possono essere circoscritte
alla sola sfera intellettiva e volitiva, in quanto il comportamento umano è, in larga misura,
condizionato anche dai sentimenti e dagli affetti. Nella prassi applicativa la capacità di intendere è
definita come l’attitudine ad orientarsi nel mondo esterno comprendendo il significato del proprio
comportamento e delle possibili ripercussioni positive o negative sui terzi.
La capacità di volere consiste, invece, nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di scegliere in
modo consapevole tra motivi antagonistici. In questa prospettiva, la capacità di volete presuppone
necessariamente la capacità di intendere il significato dei propri atti.

Minore età
Il legislatore ha inteso collegare la capacità di intendere e di volere a classi di età. L’art. 97 c.p.
dispone che “non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i
quattordici anni”, introducendo così una presunzione di capacità di natura assoluta, non essendo
ammessa prova contraria.
Rispetto ai minori compresi tra i quattordici e i diciotto anni, l’art. 98 c.1 c.p. dispone che “ è
imputabile chi al momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni ma non
ancora i diciotto, se aveva capacità di intendere e di volere; ma la pena è diminuita”. Non sussiste,
quindi, alcuna presunzione legale né di capacità né di incapacità, ma è il giudice a dovere di volta in
volta accertare in concreto se il minore risulti o no imputabile.
L’incapacità minorile non presuppone necessariamente l’infermità mentale, ma si fonda sul concetto
di maturità inteso in senso globale, cioè comprensivo sia delle capacità conoscitive, sia della capacità
d’intendere il significato etico sociale del proprio comportamento. La maturità del minore deve, però,
essere concretamente accertata caso per caso, in relazione alla natura del reato commesso, infatti, con
riferimento a quei reati dal disvalore facilmente percepibile come delitti contro la persona, ai fini
dell’imputabilità al minore, si ritiene sufficiente un minimo sviluppo mentale ed etico. La capacità
d’intendere e di volere risulta presunta dal legislatore, al compimento del diciottesimo anno di età, pur
ammettendo prova contraria.

Infermità di mente
Art 88 c.p. stabilisce che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per
infermità in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere”. Il nostro codice ha
così accolto l’indirizzo secondo cui non basta accertare che l’agente sia affetto da una malattia mentale

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per dedurne automaticamente l’inimputabilità, ma occorre appurare concretamente se ed in quale
misura la misura ne abbia compromesso la capacità di intendere e di volere. Il rapporto tra infermità
incidente sullo stato mentale ed inimputabilità solleva problemi interpretativi anche a fronte del fatto
che nella stessa scienza psichiatrica il concetto di malattia mentale non è univoco. Esso può essere
inteso da un punto di vista strettamente medico (è malattia solo il disturbo con substrato organico o
biologico) o psicologico (è malattia anche la semplice disfunzione psichica) o sociologico (è malattia
anche un disturbo di origine sociale derivante dalle relazioni personale inadeguate).
È necessario stabilire se il termine “infermità” sia o no equivalente a quello di malattia. In realtà il
concetto di infermità è più ampio in quanto comprende nel suo ambito anche disturbi psichici non
patologici. L’infermità può anche avere origine da una malattia fisica a carattere transitorio (ad es.
stato febbrile con conseguente confusione mentale) purché produttiva di un vizio di mente. Ciò detto si
può affermare che l’art 88cp si riferisce al concetto di infermità in termini generici, intendendo cioè
quella condizione che provoca uno stato di mente che esclude la imputabilità.
Vi sono vari indirizzi giurisprudenziali:
1. Modello medico: Uno ancora oggi diffuso definisce infermità mentale come quel disturbo
psichico che poggia su una base organica o possiede caratteri patologici tali da poter essere
ricondotto ad un preciso quadro nosografico-clinico. Questo orientamento esclude, quindi,
dall’area della inimputabilità le semplici anomalie psichiche ed, impedendo una eccessiva
dilatazione dei casi di ritenuta inimputabilità, garantisce al meglio il valore della certezza
giuridica.
2. Un indirizzo minoritario, invece, ritiene che anche il disturbo psichico che non rientra in uno
specifico quadro clinico, se concretamente in grado di compromettere la capacità di intendere
e di volere, integra il concetto di infermità di mente ai sensi dell’art. 88cp e quindi esclude la
imputabilità. Questo indirizzo fa un preciso riferimento alle psicopatie, cioè disarmonie della
personalità che, in presenza di condizioni di particolare gravita, bloccano le controspinte
inibitorie del soggetto e gli impediscono di rispondere in maniera critica agli stimoli esterni.
Così equiparando la semplice psicopatia alla malattia di mente si potrebbe giungere alla
sconveniente conseguenza di indurre i soggetti già affetti da disturbi della personalità ad
allentare ulteriormente i loro deboli freni inibitori. Tuttavia, tale equiparazione appare
comunque opportuna nella misura in cui le anomalie della personalità (psicopatie) possono
incidere sulla capacità di intendere e di volere fino ad escluderla del tutto. Per questa ragione
la Corte di Cassazione ha più volte affermato che, anche quei disturbi non inquadrabili nel
ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché
siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di
intendere e di volere e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta
criminosa, per effetto del quale il reato sia ritenuto causalmente determinato da disturbo
mentale.

Stati emotivi e passionali


L’art 90 stabilisce che “gli stati emotivi o passionali non escludono nè diminuiscono l’imputabilità”
questa disposizione si spiega con la preoccupazione di evitare di dichiarare incapace di intendere e di
volere ogni autore di delitto impulsivo ma non tiene conto del fatto che anche le passioni violente
possono menomare la capacità di autocontrollo per cui tale articolo è andato incontro alle critiche della
dottrina.
in conclusione, la scusante degli stati emotivi e passionali può essere ammessa in presenza di due
condizioni essenziali:
a. che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifesti in una personalità già debole
b. che lo stato emotivo passionale assuma valore di infermità sia pure transitoria

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Il codice distingue diversi gradi del vizio di mente:
Vizio di mente totale
È totale se l’infermità di cui il soggetto soffre al momento della commissione del reato è tale da
escludere del tutto la capacità di intendere e di volere.
Ci si è chiesti se, con riferimenti ai casi in cui la malattia mentale investe una parte della personalità,
debba sussistere un rapporto eziologico diretto tra il reato commesso e il settore della mente
specificamente interessato dal disturbo (es. mania di persecuzione e omicidio del presunto
persecutore) oppure se questo rapporto possa mancare.
L’orientamento dominante propende per la seconda soluzione sul presupposto che l’art 88 rapporta
l’incapacità alla condizione del soggetto al momento del fatto e non allo specifico fatto commesso.
La capacità di intendere e di volere può essere completamente esclusa anche a causa di una infermità
transitoria purché sia tale da far venir meno i presupposti dell’imputabilità. Invece nella prassi
applicativa, ad esempio in tema di epilessia, si propende per una possibile affermazione di
responsabilità nei cd. intervalli di lucidità.
infine, a seguito dell’abolizione della pericolosità presunta, all’imputato prosciolto per vizio totale di
mente una misura di sicurezza può essere applicata soltanto previo accertamento concreto della sua
pericolosità sociale.

Vizio di mente parziale


la capacità di intendere di volere è diminuita in totale di un vizio parziale di mente per cui a norma
dell’art 89 c.p. “colui che nel momento in cui ha commesso il fatto era per infermità in tale stato di
mente da scemare grandemente senza escluderla, la capacità di intendere e di volere, risponde del
reato commesso; ma la pena è diminuita”.
la distinzione tra il vizio totale e il vizio parziale si opera secondo un criterio quantitativo in quanto la
legge prende in considerazione il grado e non l’estensione della malattia.
Vizio parziale non è l’anomalia che interessa un solo settore della mente ma quella che investe tutta la
mente ma in misura meno grave. Ai fini dell’accertamento dell’imputabilità diminuita,
l’apprezzamento quantitativo dell’infermità deve essere effettuato in concreto caso per caso tenendo
conto delle caratteristiche del disturbo e dell’esperienza soggettiva del singolo nei confronti del
particolare delitto che viene in questione.

Non è sempre facile tracciare i confini del concetto di vizio parziale di mente coincidenti da un lato
con la totale incapacità di intendere e di volere e dell’altro con condizioni di anomalia compatibili con
uno stato di sostanziale normalità. da qui il rischio che tale vizio possa essere invocato dagli imputati
in modo strumentale per ottenere il vantaggio di un trattamento penale più mite.
Attualmente si assiste ad un tentativo di rivalutazione della semi infermità, sul presupposto che la via
di mezzo della non imputabilità ridotta costituisce una modalità per non deresponsabilizzare
penalmente il malato che ha compiuto un delitto.

Secondo la giurisprudenza il vizio parziale di mente risulta compatibile con le aggravanti della
premeditazione e dei motivi abietti e futili così come con l’attenuante della provocazione e con le
circostanze attenuanti generiche.
sul piano del trattamento sanzionatorio il vizio parziale di mente comporta una diminuzione della
pena; se il soggetto semi infermo è giudicato come socialmente pericoloso, gli si applica la misura di
sicurezza dell’assegnazione ad una casa di cura e di custodia.

Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti

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Il codice prevede un trattamento articolato in base alla causa dello stato di ubriachezza o
intossicazione da stupefacenti.
1. Ubriachezza accidentale
L’ubriachezza si definisce accidentale se dovuta da caso fortuito o forza maggiore, se in questi
casi provoca una perdita totale della capacità d’intendere e di volere, l’imputabilità è esclusa.
Se, invece, la perdita è parziale, la pena è diminuita.
2. Ubriachezza volontaria
L’ubriachezza volontaria o colposa, invece, non fa scemare né esclude l’imputabilità.

La disciplina relativa all’ubriachezza volontaria è quella che ha dato più luogo a discussioni a causa
del suo eccessivo rigorismo, che cozza con un dato di fatto: cioè che l’ubriaco al momento della
commissione del reato è un soggetto incapace.

Una parte della dottrina meno recente, sosteneva che, per accertare l’elemento psicologico del reato
commesso dall’ubriaco, occorresse risalire al momento in cui si pone in condizione di ebrietà: per
cui il reato sarebbe doloso o colposo, a seconda che l’ubriaco, prima di commetterlo si sia ubriacato
volontariamente o involontariamente.
Il rischio, in questo caso, è quello di confondere lo stato psicologico che provoca la condizione di
ubriachezza, con quello sussistente al momento della commissione del reato, e di punire come colposi
i delitti commessi volontariamente e viceversa.

Al contrario, l’orientamento oggi dominante, ritiene che il dolo o la colpa dell’ubriaco vadano
accertati con riferimento al momento della commissione del reato, ma anche nei confronti di questo
orientamento è opponibile un’obiezione che trae origine dal primo comma dell’art. 92, che introduce
una funzione di imputabilità: l’ubriaco, infatti, al momento della commissione del reato, si trova in
una condizione psicologica che non gli consente una sufficiente capacità di autocontrollo. Per tale
ragione, vi è da chiedersi se ha senso distinguere tra dolo e colpa, considerando che il dolo
dell’ubriaco equivarrà ad una volontà cieca, non tanto ad una volontà consapevole che integra il dolo
autentico. Allo stesso modo, la colpa si ridurrà ad una mera violazione del dovere di diligenza. In
sostanza, la funzione di imputabilità finisce col ridursi ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva
occulta.

* PAGINA 362 TERZA STRADA? *

3. Ubriachezza preordinata
L’ubriachezza è preordinata, e comporta un aumento di pena, quando è provocata al fine di
commettere il reato o di prepararsi una scusa. Questa ipotesi è prevista dall’art. 92 c.2 c.p. che
esprime il principio secondo cui l’incapacità preordinata deroga alla regola della coincidenza
temporale tra imputabilità e commissione del fatto criminoso (perché l’ubriaco è di fatto
incapace di intendere e di volere quando agisce). La differenza con la situazione prevista al
primo comma, consiste nel fatto che, nell’ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa, il
soggetto, in un primo momento, si ubriaca (volontariamente o involontariamente) e
successivamente commette un reato (non programmato in anticipo al momento del porsi in
stato di ubriachezza); mentre, nel caso dell’ubriachezza preordinata, il soggetto si ubriaca
proprio allo scopo di commettere un reato per commettere un fatto criminoso che non
sarebbe in grado di commettere o che commettere con più difficoltà in uno stato di normalità.

4. Ubriachezza abituale

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Essa, non solo non esclude o diminuisce l’imputabilità, ma comporta un aumento di pena,
nonché la possibilità di applicare una misura di sicurezza.
L’abitualità è subordinata al ricorrere di due presupposti:
 dedizione all’uso eccessivo di bevande
 frequente stato di ubriachezza o di intossicazione.
Questo rigorosissimo trattamento penale si fonda sulla concezione, assai discutibile
dell’ubriaco abituale che viene visto in parte come un vizioso che deve rispondere per la stessa
condotta di vita (colpevolezza per la condotta di vita) e in parte come un soggetto non
bisognoso di trattamento riabilitativo.

5. Cronica intossicazione da alcol o da psicofarmaci


Con riferimento all’alcol, è definibile intossicazione cronica quella che provoca alterazioni
patologiche permanenti, ossia una vera e propria malattia psichica (es. psicosi alcolica di
Korsakoff).
Nella prassi, la distinzione tra vera e propria intossicazione (che esclude dell’imputabilità) e
ubriachezza abituale, non è agevole.
Inoltre, appare criticabile l’equiparazione legislativa tra cronica intossicazione da alcol e
cronica intossicazione da sostanze stupefacenti. In quest’ultimo caso, ciò che manca in realtà,
è un’alterazione patologica di tipo permanente in quanto la capacità di intendere e di volere
del tossicodipendente è già gravemente compromessa nella situazione di dipendenza.

Sordismo (art.96 c.p.)


L’art 96 c.p. stabilisce il principio per cui sia l’incapacità che la capacità devono formare oggetto di
concreto accertamento in giudizio, ciò significa che se il sordo al momento della commissione del
fatto era capace, l’imputabilità non è esclusa; mentre lo è in caso contrario.
Il sordismo necessita la sussistenza sia del mutismo che della sordità. Si ritiene, inoltre, che la
disposizione in esame faccia riferimento al sordismo congenito o precocemente acquisito e non a
quello tardivamente acquisito che, a differenza del primo, sorgendo in una fase successiva
all’apprendimento del linguaggio, può lasciare integro il patrimonio linguistico.

Actio libera in causa (art. 87 c.p.)


L’art. 87 c.p. disciplina lo stato preordinato d'incapacità di intendere e di volere e stabilisce “la
disposizione della prima parte dell’art. 85 (secondo cui l’imputabilità deve sussistere al momento
della commissione del reato) non si applica a chi si è messo in stato d’incapacità d’intendere e di
volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa”. Il principio riceve
un’esemplificazione codicistica al secondo comma dell’art. 92 c.p. relativo all’ubriachezza preordinata
e all’art. 93 c.p. per il caso di uso preordinato di stupefacenti.
Nel caso dell’incapacità procurata, il legislatore deroga alla regola della necessaria corrispondenza
temporale tra imputabilità e commissione del fatto cioè il soggetto preordinatamente incapace ha
già perduto il pieno autocontrollo dei propri atti nel momento in cui realizza il fatto.
Come si spiega che il soggetto risponde ugualmente del fatto commesso se al momento del fatto era
imputabile?
 Parte della dottrina ha sostenuto che l'attività esecutiva del reato inizia già nel momento in cui
egli si pone volontariamente in condizioni d’incapacità. Questa tesi, però, finisce col far
rientrare nel concetto di esecuzione del reato anche una condotta precedente al fatto.
 Un altro orientamento, fa rinvenire il fondamento della responsabilità nel fondamento causale,
cioè, colui che determina una situazione dalla quale poi deriva un evento lesivo, deve
rispondere dell’evento lesivo stesso.

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Tale tesi è criticabile perché si basa su un criterio puramente oggettivo di attribuzione della
responsabilità che cozza con la colpevolezza.
 La soluzione più appagante è quella data dall’orientamento che riconduce anche le ipotesi di
incapacità procurata nell’alveo della colpevolezza; al soggetto, quindi, può muoversi il
rimprovero di essersi messo nella condizione d’incapacità, che gli ha reso più agevole la
realizzazione del reato programmato. Infatti, ai fini della punibilità, occorre che il reato
commesso sia del tipo di quello programmato. Di conseguenza, la responsabilità esula se il
fatto illecito non costituisce effettiva attuazione del programma criminoso anteriore (fidanzato
vuole uccidere la fidanzata).

SEZIONE III - STRUTTURA E OGGETTO DEL DOLO

Il delitto doloso costituisce il tipico modello di illecito penale, rappresentando il normale criterio di
imputazione soggettiva. Tale fondamento si coglie nell’art. 42 c.2 c.p., il quale afferma che “Nessuno
può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo”. Gli
altri criteri di imputazione soggettiva, cioè colpa e preterintenzione, operano, invece, solo nei casi
espressamente previsti dalla legge.
Il dolo ha diverse funzioni nel processo di imputazione penale.
1. Anzitutto rappresenta l’elemento costitutivo del fatto tipico, in quanto, nel diritto penale, la
volontà criminosa assume rilievo solo se si realizza; determina, inoltre, la lesività dell’azione;
2. Connota la forma più grave di colpevolezza: chi agisce con dolo aggredisce il bene protetto in
modo più intenso rispetto a chi agisce con colpa. La maggiore aggressività dell’azione dolosa
viene percepita, non solo dalle singole vittime del fatto delittuoso, ma anche dalla collettività.

Il concetto di dolo viene definito nell’art. 43 c.1 c.p. il quale stabilisce “il delitto è doloso quando
l’evento dannoso o pericoloso è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria
azione o omissione”. Secondo questa definizione legislativa, la nozione di dolo si incentra su tre
elementi: previsione, volontà ed evento dannoso o pericoloso.
I primi due elementi sono di natura strutturale, mentre il terzo attiene all’oggetto.
Nella definizione strutturale, l’intenzione viene scissa in previsione e volontà, questo rappresenta
una forma di compromesso tra due teorie contrastanti già in sede di redazione del codice Rocco.
La teoria della rappresentazione concepisce volontà e previsione (rappresentazione) come due
fenomeni distinti, in quanto, la volontà può avere ad oggetto soltanto il movimento corporeo
dell’uomo (es. atto fisico dell’uomo che preme il grilletto), mentre la previsione può avere ad oggetto
le modificazioni del mondo esterno provocate dall’azione (uccisione della vittima).
La teoria della volontà, secondo la quale, la previsione (rappresentazione) è un presupposto implicito
della volontà.
Il compromesso risultante dalla lettura combinata di queste due teorie comporta che la volontà
criminosa investa l’intero fatto di reato, tale per cui il diritto penale moderno considera voluto ad
esempio, non soltanto l’atto materiale di premere il grilletto ma anche l’evento letale conseguente a
tale atto.
Per quanto riguarda l’oggetto del dolo, l’art. 43 c.p. fa riferimento all’evento dannoso o pericoloso.
Tuttavia, il concetto giuridico penale di evento è molto controverso ed in ogni caso la definizione
contenuta dall’art., 43 c.p. è solo parziale, in quanto la disciplina normativa del dolo si ricava dal
complesso delle disposizioni che in positivo o in negativo attribuiscono rilevanza alla conoscenza
degli elementi costitutivi delle fattispecie.

Struttura del dolo

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Il dolo si articola in rappresentazione e volontà.
Il dibattito tra i sostenitori della teoria della rappresentazione e quelli della teoria della volontà è
riemerso in forma aggiornata nel corso degli ultimi anni, portando al sorgere di un orientamento in
controtendenza rispetto alla nostra dottrina che ha ridimensionato il ruolo della volontà. Questo perché
la volontà come fenomeno empirico compare sempre meno tra gli argomenti presi in considerazione
nei trattati scientifici, quindi appare complesso riuscire a determinarla. Inoltre, questa rappresenta un
requisito di difficilissima prova sul terreno processuale per cui i giudici hanno adottato degli schemi di
tipo presuntivo, cioè oggettivizzando i requisiti strutturali del dolo cosicché, dall’esame delle
caratteristiche esteriori del fatto, si può sicuramente concludere che il fatto non poteva non essere
voluto. In altri termini, la consapevolezza da parte dell’agente, della pericolosità oggettiva delle
proprie azioni, dimostrerebbe implicitamente che egli ha agito a titolo di dolo.

Esistono elementi di fattispecie che possono costituire oggetto tanto di rappresentazione quanto di
volontà (es. azione tipica), ed elementi che possono essere suscettivi di rappresentazione ma non
anche di volontà in senso strettamente psicologico (es. precedente matrimonio nel reato di bigamia).

Elemento intellettivo del dolo


La rappresentazione intesa come conoscenza di elementi costitutivi della fattispecie oggettiva integra
l’elemento intellettivo del dolo. Di conseguenza, se il soggetto non conosce un requisito del fatto
tipico, la punibilità è esclusa per mancanza di dolo (es. se non è a conoscenza che il soggetto con cui
ha un rapporto sessuale è suo parente).
Si può studiare di elemento intellettivo del dolo, sia con riferimento agli elementi descrittivi, sia con
riferimento a quelli normativi. Nel primo caso, è sufficiente che il soggetto sia a conoscenza degli
elementi del mondo esterno così come appaiono nella loro dimensione naturalistica; nel secondo caso,
ciò che rileva è la conoscenza delle situazioni di fatto richiamate dalla fattispecie. L’autore del reato di
falso documentale, deve avere presente, la funzione certificante o probatoria connessa a quell’oggetto
materiale, ciò non vuol dire che l’autore per rispondere di dolo, debba conoscere l’esatto significato
giuridico dell’elemento normativo in questione, ma è sufficiente che conosca a grandi linee la sua
funzione certificativa.
L’elemento intellettivo coincide con la previsione dell’evento lesivo che consegue alla condotta
criminosa come suo risultato.
Il caso di stato di dubbio si ha ad esempio quando un soggetto dubita che il bene di cui si impossessa
può essere di altri; si può affermare che tale soggetto debba rispondere a titolo di dolo, quando egli,
agendo in stato di incertezza, finisce con l’accettare il rischio di una commissione del reato, come da
esempio: impossessarsi di un bene altrui.
Si esclude che lo stato di dubbio possa integrare il dolo se la particolare struttura della fattispecie
incriminatrice esige la piena conoscenza di uno o più elementi di reato, si pensi ad esempio alla
fattispecie di calunnia, che è realizzata soltanto a condizione che l’agente sappia senza incertezze che
l’incolpato è in realtà una persona innocente.

In sede di analisi della componente della rappresentazione, ci si deve chiedere se questa debba essere
attuale, in relazione a tutti i requisiti del fatto delittuoso, o è sufficiente, per determinati elementi della
fattispecie, una conoscenza soltanto potenziale. E’ da respingere, perché astratta e razionalistica, la
pretesa che il dolo presupponga che l’agente pensi esplicitamente a ogni singolo elemento costitutivo
del reato. L’agente, può considerarsi cosciente (e quindi è possibile rilevare il dolo) in una circostanza
se questa, seppur non oggetto di un pensiero esplicito al momento dell’azione, fa parte di un
complesso di circostanze che egli potrebbe immediatamente richiamare, se vi riflesse per un attimo.

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Il dolo esulerebbe, invece, se il passaggio da una rappresentazione potenziale a una rappresentazione
attuale presupponesse non un semplice attimo di attenzione ma un processo di deduzione logica del
dato attualmente ignoto da circostanze precedentemente note.

Elemento volitivo
Il dolo non è semplice rappresentazione degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, ma
volontà consapevole di realizzare il fatto tipico. La volontà investe l’azione come movimento
corporeo, quindi finisce anche con l’abbracciare tutti gli altri elementi del fatto diversi dalla condotta;
se manca la volontà di realizzare il fatto, però, a nulla bastano ad integrare il dolo desideri, speranze,
proponimenti, tendenze, inclinazioni, ecc. Cosa diversa dal dolo è il motivo o movente dell’azione
delittuosa, che consiste nell’impulso o stimolo di natura affettiva che spinge il soggetto ad agire (es.
odio, vendetta, cupidigia).
Affinché un fatto sia punibile a titolo di dolo, però, è necessario che esso si traduca in realizzazione e
non resti sul piano della semplice ideazione, realizzazione almeno nello stadio del tentativo punibile
(es. se Tizio decide di collocare una bomba per provocare una strage ma non fa seguire a questa idea
nessun atto di concreta realizzazione. tutto rimane nella sua sfera personale di ideazione ed è
irrilevante sotto un profilo penale).
Per le ragioni di cui sopra, è irrilevante sia il dolo antecedente che quello susseguente: occorre che il
dolo sussista al momento del fatto e perduri per tutto il tempo in cui la condotta rientra nel potere di
signoria dell’agente: sicché ai fini della configurabilità del dolo, la volontà deve abbracciare la
condotta tipica fino all’ultimo atto. Da ciò ne deriva che l’eventuale venir meno della volontà in senso
strettamente psicologico è irrilevante: es. se piazzo una bomba ad orologeria e poi me ne pento
risponderò comunque a titolo di dolo perché il dolo sussisteva al momento in cui l’ordigno è stato
collocato nella sala d’attesa della stazione.

Intensità del dolo


Il dolo può presentare un’intensità diversa in rapporto alla diversa consistenza della componente
rappresentativa e/o volitiva e di questo il giudice tiene conto quando deve commisurare la pena (ex.
art. 133 si rapporta la gravità del fatto di reato anche all’intensità del dolo).
 componente conoscitiva→ la graduabilità dipende dal livello di chiarezza e certezza con cui il
soggetto si rappresenti il fatto di reato; rileva anche il grado di consapevolezza del carattere
penalmente illecito del fatto.
 componente volitiva→ si rapporta al grado di adesione psicologica del soggetto al fatto e alla
complessità e durata del processo deliberativo, per cui:
 dolo d’impeto = deliberazione criminosa assume minore gravità o pericolosità
allorché si traduca immediatamente ed improvvisamente in azione;
 dolo di proposito = indice di maggiore gravità perché caratterizzato da un rilevante
stacco temporale tra il momento della decisione e quello dell’esecuzione;
 premeditazione→ sottospecie aggravata del dolo di proposito ex art. 577
comma 1, n.3 e art. 582, che si configura quando il proposito criminoso non
solo perdura per un lasso rilevante di tempo ma tradisce una ostinazione
criminosa particolarmente riprovevole.

Oggetto del dolo


L’art. 43 comma 1 riferisce la volontà colpevole all’evento dannoso o pericoloso; questa scelta
legislativa è poco felice perché rimette tutto alla nozione di evento, particolarmente controversa.

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Infatti, se si allude all’evento in senso naturalistico si dovrebbe pervenire alla inaccettabile
conseguenza di escludere i reati di mera condotta; se si considerasse l’evento in senso giuridico,
dovrebbero restare esclusi i reati di creazione legislativa (es. reato di inosservanza del provvedimento
del giudice che reprime la condotta antisindacale), secondo l’obiezione che rileva che in questi reati la
consapevolezza del carattere lesivo del fatto non può prescindere dalla conoscenza effettiva del divieto
penale, a cui si frappon l’art. 5 secondo cui l’ignoranza evitabile della legge penale non scusa.
Per queste ragioni, deve intendersi che oggetto del dolo non è né l’evento in senso naturalistico né in
senso giuridico, bensì il fatto tipico; solo questa tesi consente di ricomprendere sia i reati di azione
che quelli di evento.
Questa conclusione trova, inoltre, preciso riscontro normativo nell’art. 47 che stabilisce che il dolo è
escluso dall’errore sul fatto che costituisce reato (quindi conferma implicitamente che la
rappresentazione e la volontà devono avere ad oggetto il fatto tipico).
Di conseguenza, il dolo deve abbracciare le diverse componenti in cui può articolarsi il fatto tipico:
condotta, circostanze antecedenti o concomitanti all’azione tipizzate dalla norma incriminatrice,
l’evento naturalistico.

Perché l’azione sia imputabile a titolo di dolo occorre distinguere a seconda che si tratti di reati a
forma libera o di reati a forma vincolata:
 nei reati a forma vincolata è necessario che coscienza e volontà abbiano ad oggetto le
specifiche modalità di realizzazione del fatto tipizzate dalla fattispecie incriminatrice;
 nei reati a forma libera, posto che il legislatore attribuisce rilevanza a qualsiasi modalità di
aggressione del bene, il dolo deve accompagnare l’ultimo atto compiuto prima che il decorso
causale sfugga alla capacità di dominio personale dell’agente.
Per quanto attiene al nesso causale, basta di regola che l’agente se ne prefiguri lo svolgimento nei
tratti essenziali rilevanti ai fini della valutazione penalistica, per cui non è necessario che la
corrispondenza tra decorso causale preveduto e decorso causale effettivo abbracci anche i dettagli
secondari (es. se Tizio nel gettare Caio da un ponte voleva ucciderlo per annegamento ma Caio muore
perché sbatte la testa su un masso, comunque Tizio risponde a titolo di omicidio).
Le specifiche modalità di causazione dell’evento, invece, acquistano rilevanza nei casi in cui siano
legislativamente predeterminate (es. dolo nel reato di epidemia che deve avvenire nelle modalità
previste dal legislatore).

Il dolo deve investire gli elementi normativi della fattispecie, cioè quegli elementi la cui
determinazione presuppone il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice (es. delitto di furto
non si configura, per mancanza della volontà colpevole, se l’agente non si rende conto che la cosa di
cui si appropria è altrui a causa di una erronea interpretazione delle norme sulla proprietà). La
conferma di ciò deriva anche dall’art. 47 ult. comma che stabilisce che l’errore su una legge diversa
da quella penale esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato.

Analoga è la soluzione rispetto alle ipotesi di antigiuridicità o illiceità speciale nelle quali la stessa
norma incriminatrice esige che il fatto sia realizzato abusivamente, illegittimamente, indebitamente,
per cui il dolo si configura solo se l’agente è a conoscenza della illiceità speciale (extrapenale) del
fatto commesso.
Complessa e dibattuta è la questione se rientrino nel dolo anche le qualifiche soggettive che ineriscono
l’autore nei reati propri: sono da respingere le concezioni che fanno dipendere la soluzione dal
concetto dogmatico di reato, perché il problema va risolto tenendo conto dei principi generali in tema
di dolo.

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Nei casi in cui la qualifica soggettiva non sia totalmente scissa dal fatto di reato ma si riverberi su di
esso, l’ignoranza o erronea conoscenza della qualifica impedisce al soggetto di cogliere il significato
criminoso del fatto; occorre avere conoscenza dei substrati di fatto della qualifica soggettiva, che sono
quelli che assumono vera rilevanza ai fini del dolo (es. bancarotta, il soggetto risponde penalmente se
è consapevole di dissipare il proprio patrimonio nell’esercizio di un'attività economica anche se non sa
che la legge penale gli attribuisce la qualifica di imprenditore; analoga soluzione nel caso del soggetto
che non sa di rivestire la qualifica formale di pubblico ufficiale ma che si rende conto di star
distraendo denaro pubblico).
Esula dal dolo la conoscenza della fonte giuridico-penale delle qualifiche stesse, che è irrilevante.

Dolo e coscienza dell’offesa


Uno dei punti più problematici della teoria del dolo concerne se il dolo includa la coscienza
dell’offesa.
Il concetto di “offesa” può assumere vari significati:
 antigiuridicità/illiceità penale del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice della
quale si presuppone la conoscenza.
 idoneità del fatto a ledere o a esporre a pericolo beni socialmente rilevanti, a prescindere dalla
conoscenza dell’esistenza o del contenuto della norma incriminatrice.

La dottrina ha da sempre discusso su queste due definizioni muovendo dal principio dell’inescusabilità
dell’ignoranza della legge penale sancito dall’art. 5 c.p. prima dell’intervento della Corte
Costituzionale. Questo principio escludeva che il dolo potesse abbracciare la conoscenza dell’illiceità.
Per attenuare il rigore dell’art. 5 c.p., una parte della dottrina ha privilegiato una nozione di offesa
scissa dall’antigiuridicità penale in senso stretto definendola come lesione dell’interesse protetto
cosicché il dolo possa ricomprendere nel suo oggetto almeno la consapevolezza che il fatto è dannoso
perché pregiudica interessi socialmente rilevanti di cui l’agente non può non avere percezione. La
Corte Costituzionale (sent. 364/88) è intervenuta dichiarando parzialmente incostituzionale l’art. 5
c.p., per cui oggi risulta possibile, a certe condizioni, ammettere che l’ignoranza della stessa
antigiuridicità può essere scusabile e quindi escludere le responsabilità penale.

Se si considera l’offesa come antigiuridicità/illiceità penale, si è al di fuori dall’oggetto del dolo, in


questi termini l’offesa può venire in questione soltanto in senso sostanziale o fattuale, cioè come
pregiudizio ad interessi protetti. Questa teoria si basa sul fatto che l’agire incriminato è intimamente
connesso alla lesione dei beni giuridici protetti, tipizzati nel nostro ordinamento. Alla stregua di ciò, il
dolo, che rappresenta la forma più grave di colpevolezza, non può non includere la coscienza della
lesività del fatto tipico.

Tuttavia, parte della dottrina italiana, ritiene che tale coscienza o consapevolezza deve avere ad
oggetto, il carattere antisociale del fatto alla stregua dei criteri valutativi dominanti nella comunità
sociale di riferimento, e non anche tutti i profili di disvalore del fatto. Una simile impostazione, però,
risulta ragionevole soltanto se, al giudizio di disvalore penale preesiste sempre una forma manifesta di
antisocialità o disapprovazione sociale, ma, una volta riconosciuta l’autonomia della sfera giuridica da
quella etico-sociale, la contrarietà a preesistenti norme etiche non può ritenersi il momento costitutivo
dell’illecito giuridico penale.

Altra parte della dottrina ha, invece, ritenuto che il dolo include la coscienza dell’offesa dell’interesse
protetto, e cioè, l’offesa viene considerata alla stregua dell’interesse che lede, e non come risultato di
una qualificazione giuridico-penale che può essere ignota all’agente.

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Tuttavia, l’assunto teorico secondo il quale il dolo coincide con la coscienza dell’azione è soltanto in
parte compatibile con l’attuale sistema delle incriminazioni.
Infatti, in alcuni casi esemplificati da classiche figure di reato con evento naturalistico (es. omicidio,
lesioni personali) la compenetrazione tra fatto materiale e lesione del bene tutelato è così immediata ed
evidente che il disvalore del fatto difficilmente può sfuggire alla coscienza di chi agisce. In altri casi,
cioè con riferimento ai reati di pura creazione legislativa, mancando spesso un contenuto di disvalore
evidente e facilmente percepibile, la consapevolezza della lesione dell’interesse protetto manca se non
vi è conoscenza della disposizione incriminatrice.

Ciò detto, se si volesse applicare pienamente il principio secondo il quale dolo = coscienza, sarebbe
necessaria una riforma dell’ordinamento penale vigente con la previsione di norme incriminatrici che
abbiano ad oggetto solo fatti il cui disvalore è tendenzialmente percepibile già prima della
qualificazione giuridico-penale.

Forme del dolo


L’elaborazione dogmatica ha individuato varie forme di dolo:
Dolo intenzionale
Il dolo si definisce intenzionale quando il soggetto ha di mira proprio la realizzazione della condotta
criminosa (reato d’azione) o la causazione dell’evento (reato di evento).
Questa forma di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della volontà che raggiunge l’intensità
massima.
L’intenzione non deve essere valutata necessariamente in termini di certezza ma anche in termini di
semplice possibilità; infatti, risponde a titolo di dolo intenzionale ad es. il tiratore inesperto che,
agendo al fine di provocare un evento mortale, non sa se effettivamente riuscirà a cagionarlo.

Dolo diretto
Il dolo è diretto quando la realizzazione del reato non è l’obiettivo che dà causa alla condotta ma
costituisce soltanto lo strumento necessario perché l’agente realizzi lo scopo perseguito (es. terrorista
che per sequestrare un uomo politico spara contro gli uomini della scorta, con la quasi certezza di
provocarne la morte).
Parte della dottrina ha anche parlato di dolo indiretto in questi casi, cioè quando l’evento lesivo
rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente connessa alla realizzazione del fatto
principale (es. caso sig. Thomas che per intascare il premio di assicurazione fa esplodere un battello di
sua proprietà ammazzando l’intero equipaggio).
Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione poiché l’agente si
rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie e si rende conto che la sua condotta la
integrerà.

Dolo eventuale
Si ha dolo eventuale quando l’agente agisce senza il fine di commettere reato e la commissione del
reato si rappresenta come conseguenza possibile di una condotta diretta ad altri scopi, ad es. Tizio che
lancia dal balcone una bottiglia di vetro contro un gruppo di ragazzi che schiamazzano pur prevedendo
possibili ferimenti e colpendo di fatto un ragazzo.

È pacifico che al momento dell’azione l’agente preveda la concreta possibilità del verificarsi di un
evento lesivo ma sono sorte varie teorie che articolano diversamente questo requisito.

78
La prima teoria è quella della possibilità, secondo la quale chi agisce prevedendo la concreta
possibilità di provocare la lesione di un bene giuridico agisce senza dubbio con dolo.
La seconda teoria è quella della probabilità, secondo cui affinché ci sia dolo la verificazione
dell’evento lesivo non deve semplicemente essere possibile ma deve essere probabile al momento
della commissione del fatto.
La terza teoria è quella del consenso: se si muove dal presupposto che il dolo è caratterizzato
dall'elemento volitivo, le predette teorie appaiono insufficienti, per cui questa teoria richiede, ai fini
della sussistenza del dolo, l’esistenza ulteriore di una approvazione interiore della realizzazione
dell’evento preveduto come possibile.
La quarta teoria è quella dell'accettazione del rischio (teoria dominante in dottrina e giurisprudenza
attualmente), secondo la quale affinché ci possa essere volizione tale da fare sorgere dolo eventuale
non è sufficiente una accettazione del pericolo ma occorre una volontaria accettazione dello stesso
verificarsi dell’evento lesivo.
Questa differenza tra accettazione del pericolo e accettazione del verificarsi dell’evento lesivo
difficilmente si presta ad un accertamento probatorio differenziato in sede processuale.
Quando, invece, l'agire del soggetto non sia caratterizzato da volizione ma questi, semplicemente, si
rappresenti la possibilità dell’evento lesivo accettandone il rischio, si avrà colpa cosciente o con
previsione.

La teoria dell’accettazione del rischio va incontro a difficoltà nelle ipotesi in cui l’agente, pur
prospettandosi la possibilità di provocare un evento criminoso, agisca in modo superficiale, non
prendendo sul serio tale possibilità in quanto sarebbe eccessivamente rigoroso attrarre questi casi
nell’ambito del dolo.
In ogni caso, tutte le diverse teorie in certa misura portano agli stessi risultati applicativi e, tra l’altro,
l’accertamento del dolo eventuale dà luogo a gravi difficoltà in sede processuale in quanto il giudice si
trova ad esplorare complessi processi psicologici la cui traccia spesso non è visibile nella realtà
esterna.
Per tali ragioni, nella pratica i giudici spesso ricorrono a regole generali e di esperienza secondo le
quali il dolo eventuale di solito si esclude nel caso di rischi lievi o ordinari, mentre, si ritiene
persistente in presenza di rischi gravi e tipici.

nonostante si tratti di una forma di dolo strutturalmente molto complessa e di difficile accertamento
processuale ha trovato negli anni una grande applicazione nella prassi principalmente per ragioni
general preventive e repressive soprattutto in casi emblematici di responsabilità colposa come
incidenti stradali e infortuni sul lavoro.

Dolo alternativo
il dolo alternativo non va considerato come una forma di dolo autonoma ma riflette le situazioni in cui
un soggetto, agendo con dolo diretto o eventuale, prevede come conseguenza certa o possibile della
sua azione il verificarsi di due o più eventi tra loro incompatibili. es. Tizio aggredisce Caio con diverse
forme di pugnale volendo indifferentemente il ferimento grave o la morte.

Dolo generico e dolo specifico


Dolo generico
Rappresenta la nozione tipica di dolo cioè la coscienza e la volontà di realizzare gli elementi costitutivi
di un reato che trova realizzazione nella realtà fattuale.

Dolo specifico

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consiste in una finalità ulteriore che l’agente deve prendere di mira ma che non è necessario che si
realizzi effettivamente perché il reato si configuri. es. nel diritto di associazione per delinquere non
basta ai fini dell’imputabilità la finalità di associarsi ma occorre che gli associati perseguano lo scopo
di commettere delitti pur non essendo necessario che tali delitti vengano concretamente compiuti.
il dolo specifico può assolvere a diverse funzioni. una più generica che è quella di restringere l’ambito
della punibilità perché questa viene meno senza il perseguimento della particolare finalità indicata
dalla legge. questo effetto restrittivo però opera realmente se il dolo specifico si aggiunge ad un fatto
base già illecito e quindi incriminabile come tale (es. furto come sottrazione della cosa mobile altrui)
un’altra funzione può essere quella di punire un fatto altrimenti lecito (es. associazione per delinquere)
terza funzione quella di produrre un mutamento del titolo di reato (es. sequestro di persona a scopo di
terrorismo da quello a scopo di estorsione.

La dottrina più recente ha criticato la figura del dolo specifico nelle fattispecie di reato nelle quali il
dolo specifico funge da elemento decisivo a rendere illecito un fatto di per sé illecito in quanto il
rischio è quello di incriminare in senso esasperatamente soggettivo in contrasto con la concezione
tipica del nostro ordinamento che identifica il reato non in un semplice atteggiamento psicologico ma
in un fatto offensivo di un bene protetto

Un’altra distinzione è quella tra dolo di danno che consiste nella volontà di realizzare un fatto che
provoca la completa lesione dell’interesse protetto e il dolo di pericolo che consiste nella volontà di
provocare la semplice esposizione a pericolo del bene.

Accertamento del dolo


Il dolo, al pari degli altri elementi costitutivi del reato, deve essere provato senza la possibilità di
ricorrere a criteri prefissati di accertamento in quanto il giudice deve tener conto di tutte le circostanze
che possono essere sintomatiche della volontà colpevole.
l’esperienza giurisprudenziale insegna che la prova dell’esistenza del dolo può essere desunte dalle
modalità estrinseche della condotta, dal comportamento tenuto dal colpevole dopo la commissione del
reato ecc.

Inammissibilità del ricorso a schemi presuntivi


se il ricorso a massime di esperienze è legittimo perché altrimenti la prova del dolo sarebbe una
probatio diabolica, d’altra parte è inammissibile l’utilizzazione di schemi presuntivi.
Infatti, anche se vi sono delle fattispecie legali soggettivamente pregnanti come la bancarotta
fraudolente nelle quali la volontà colpevole sembra implicita, il principio di reale accertamento del
dolo deve comunque essere rispettata (es. in tema di reato di falso la volontà di falsificare non può mai
ritenersi implicita nella falsificazione realizzata ma deve essere sempre puntualmente provata in
quanto il documento può essere falsificato per leggerezza o addirittura per scherzo).

SEZIONE IV - LA DISCIPLINA DELL’ERRORE

Nell’ambito della colpevolezza assume un ruolo importante l’errore, infatti, se la volontà colpevole
presuppone la conoscenza degli elementi costitutivi del fatto criminoso, la mancata o falsa
rappresentazione di questi, può escludere la punibilità.
È anzitutto da distinguere errore di fatto, che consiste in una mancata o errata percezione della realtà,
ed errore di diritto, che consiste nell’ignoranza o erronea interpretazione di una norma giuridica
penale o extrapenale.

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All’errore viene equiparata l’ignoranza, poiché sia la mancanza di conoscenza di un dato elemento
che la sua erronea conoscenza impediscono all’agente di rendersi conto di commettere un fatto di
reato.
Distinto dall’errore e dell’ignoranza è lo stato di dubbio, che sussiste quando il soggetto versa
nell’incertezza circa la presenza dei requisiti della fattispecie incriminatrice e che di regola non può
essere invocato come causa di esclusione della punibilità.

L’errore di diritto si distingue in:


 errore sul precetto penale: ricade sulla norma incriminatrice e vi è quando l’agente per
ignoranza o errata interpretazione di questa non si rende conto di realizzare un fatto
penalmente illecito (es. venditore ambulante residente in Francia trasposta per un breve tratto
nel territorio italiano una carabina ad aria compressa senza rendersi conto che
nell’ordinamento italiano, a differenza di quello francese, questo costituisce reato).
Nella disciplina di questo errore, il legislatore opera un bilanciamento tra l’applicazione del
principio di colpevolezza e l’esigenza general preventiva. La stessa Corte Costituzione con la
sent. n. 364/88, ha affermato che l’errore sul precetto penale è irrilevante, a meno che non si
tratti di errore inevitabile e perciò scusabile.
 errore di una norma extrapenale: ricade su una norma diversa da quella incriminatrice (es.
Caio errando nell’interpretazione delle norme sulla proprietà, si impossessa di una cosa che
ritiene res nullius e perciò non è consapevole di sottrarla arbitrariamente).
Affinchè questa fattispecie di errore possa ritenersi scusabile è necessario che l’errore verta
sul fatto di reato, cioè che l’agente non sia consapevole di compiere un fatto materiale
conforme a quello previsto dalla legge come reato.
Ove l’errore sulla norma extrapenaole si limiti a suscitare, senza sfociare in un errore sul fatto
tipico, nell’agente l’erronea convinzione che il fatto realizzato sia penalmente lecito perchè
non rientrante nella norma incriminatrice (errore sul precetto), l’errore è irrilevante, quindi
non scusabile.

Errore di fatto sul fatto


Se l’agente non conosce uno o più elementi del fatto concreto egli non agisce dolosamente e il reato
viene meno. L’errore può derivare da ignoranza o falsa rappresentazione della situazione di fatto che
impediscono all’agente di rendersi conto del significato della sua condotta. Questa forma di errore,
influendo sul processo di formazione della volontà, viene anche definito errore motivo, che si
distingue dall’errore inabilità.

Errore sugli elementi essenziali del fatto


L’art. 47 c.1 c.p. prevede che “l’errore sul fatto che costituisce reato esclude la punibilità
dell'agente” se si tratta di errore determinato da colpa, il soggetto è punibile se il fatto è previsto dalla
legge come delitto colposo. Sia l’errore che l’ignoranza, ad esso equiparata, devono vertere su
elementi essenziali del fatto, la mancata conoscenza dei quali impedisce che il soggetto si rappresenti
un fatto corrispondente al modello legale (es. bracconiere che dirige l’azione contro un uomo
pensando di agire contro un cinghiale, non è punibile per omicidio doloso, in quanto un elemento
essenziale è la consapevolezza di agire contro un uomo).

Sono, invece, irrilevanti gli error in persona ed error in obiecto che rivestono una posizione
equivalente sul piano della fattispecie incriminatrice, così ad esempio si avrebbe un errore irrilevante
se un omicida scambiasse solo l’identità della vittima o se un danneggiante aggredisse una cosa di C
ritenendola di S. Nel caso in cui lo scambio concerna persone od oggetti che occupano un rango

81
diverso di fronte al diritto, l’errore può far venir meno il reato (es. tizio si impossessa erroneamente
della bicicletta di un altro in quanto identica alla propria) o rendere applicabile una diversa figura
criminosa (es. violenza privata piuttosto che resistenza a pubblico ufficiale) o di incidere sul regime
delle circostanze aggravanti o attenuanti.

Sono altresì irrilevanti gli errori sul nesso causale tranne che la divergenza tra decorso causale
prefigurato e decorso causale effettivo non sia tale da far escludere che l’evento costituisca
realizzazione del rischio specifico insito nell’azione del soggetto.

Errore determinato da colpa


L’errore sul fatto che esclude il dolo non fa necessariamente venir meno il reato se è possibile
individuare una responsabilità a titolo di colpa, purché vi sia un errore rimproverabile, cioè dovuto
all’inosservanza di norme precauzionali di condotta imputabili all’agente e che il fatto sia
espressamente preveduto dalla legge come delitto colposo.

Errore del soggetto inimputabile


È problematica la disciplina dell’errore commesso da un soggetto inimputabile che può essere
condizionato dall'infermità mentale o del tutto indipendente da questa. In mancanza di indicazioni
normative è da ritenere che l’errore condizionato non abbia rilevanza scusante, in quanto, altrimenti, si
renderebbe inapplicabile la misura di sicurezza proprio nei casi in cui il soggetto, a causa della sua
malattia, risulti socialmente pericoloso.
Invece, l’errore incondizionato ha efficacia scusante se, è stato determinato da circostanze di fatto che
avrebbero presumibilmente tratto in inganno anche una persona capace.

Errore aetatis
Vale a dire l’errore circa l’età della persona offesa che assume particolare rilievo in materia di reati
sessuali. Secondo l’originaria disciplina codicistica, una tale forma di ignoranza o errore era del tutto
irrilevante quando il reato fosse stato commesso ai danni di una persona minore di quattordici anni, al
fine di salvaguardare la sana evoluzione psicosessuale dei minori infraquattordicenni. Tale rigore si è
poi attenuato e, infatti, la Corte Costituzionale con la sent. n. 322/2007 ha riconosciuto la rilevanza
scusante dell’errore sull'età della persona offesa purché questo sia incolpevole. Questa soluzione è
stata recepita normativamente con la legge n. 172/2012 che ha modificato l’art. 609 sexies c.p.

L’art. 47 c.2 c.p. afferma che "l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la
punibilità per un reato diverso”, cioè, anche se è caduto in errore, l’agente continua a rispondere dei
reati che ha effettivamente posto in essere (es. se l’agente non sa che il destinatario della violenza
minaccia un pubblico ufficiale non vi sarà il reato di resistenza a pubblico ufficiale ma sussisterà il
delitto di violenza privata).

Errore sugli elementi degradanti del titolo di reato


Es. se un soggetto ritenga erroneamente che un soggetto abbia prestato il proprio consenso ad essere
ucciso, la sua uccisione gli sarà imputabile a titolo di omicidio semplice o di omicidio colposo? Non
essendo rilevabile un’esplicita presa di posizione legislativa, sono sorti più orientamenti. La soluzione
più rigorosa imporrebbe di attribuire maggior rilevanza alla sussistenza degli estremi materiali e
psicologici corrispondenti alla figura criminosa di fatto realizzatasi. Un'altra teoria dà maggiore
rilevanza all’effettivo atteggiamento psicologico dell’agente e propende per l’applicazione della
fattispecie ipotizzante il reato meno grave. (nell’esempio, omicidio del consenziente).

82
Errore sul fatto determinato da errore su legge extrapenale
L’art. 47 c.3 c.p. stabilisce che “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità,
quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Si pensi ad esempio all’ipotesi in cui l’agente si impadronisce di una cosa che crede propria non
perché la confonde con una che gli appartiene (errore cd. di percezione) ma perché erra
nell’interpretazione della legge civile che disciplina il rapporto di proprietà (errore cd. di valutazione),
ad esempio, crede che la proprietà si trasferisca non con il mero consenso ma con l’effettiva consegna
della cosa.
Come mai un errore che verte su una norma extrapenale si converte in un errore sul fatto materiale
idonea a escludere il dolo?
Se si ritiene che l’errore su legge extrapenale dia luogo ad ipotesi di errore di diritto, sorge il
problema del rapporto dell’art. 47 c.p. con l’art. 5, si individuano due orientamenti:
- Secondo un primo orientamento giurisprudenziale bisogna distinguere tra norme extrapenali
che integrano la norma penale incriminatrice, per cui, costituendone necessario presupposto e
incorporandosi con quest’ultima, l’errore che le coinvolge non scusa, e norme extrapenali che
non integrano la norma incriminatrice, rimanendo distinte, per cui un errore su di esse scusa
come un errore sul fatto.
Pur registrandosi questa distinzione, la Cassazione, tradizionalmente, ha di fatto interpretato la
stessa come una sostanziale abrogazione dell’art. 47 c.3 c.p., nel senso di prediligere la tesi
dell’integrazione tra norma penale ed extrapenale, e, consequenzialmente, negando efficacia
penale all’errore.
Questo orientamento rigoristico scaturente dalla preoccupazione di evitare il rischio di
indebolimento del sistema punitivo in conseguenza di facili assoluzioni subisce un parziale
temperamento con la sentenza Cost. n. 364/1988, la quale ha attribuito rilevanza scusante ai
fatti di irrilevanza o errore inevitabile sulla legge penale, così potendo pervenire ugualmente
ad un’esenzione da responsabilità penale ove si ritenesse che l’errore in cui l’agente è incorso
presenta i caratteri dell’inevitabilità-scusabilità. Così l’impunità conseguirebbe non alla
mancanza del dolo del fatto ma al venir meno della conoscibilità della legge penale.

- Un secondo orientamento dottrinale muove dalla premessa che le norme extrapenali


richiamate da quella penale integrano sempre la fattispecie incriminatrice, per cui un errore su
queste si traduce in un errore su portata e limiti delle seconde, quindi, così, l’errore sulla legge
extrapenale finirebbe col trasformarsi in un errore sulla legge penale. Ciò nonostante, questo
errore avrebbe efficacia scusante in quanto l’art. 43 c.3 c.p. introdurrebbe una deroga espressa
all’art. 5, stante la natura marginale delle ipotesi di errore su legge extrapenale e il minor
valore social del fatto commesso in conseguenza di tale forma di errore.
Questa seconda impostazione trascura le ipotesi nelle quali l’art. 47 c.3 c.p. opera anche in
assenza di integrazione tra norme extrapenali e penali (es. il datore di lavoro che per ottenere
la restituzione di somme anticipate esibisce ad un ente pubblico un elenco di dirigenti per i
quali crede di avere diritto al rimborso, sulla base di una erronea interpretazione delle norme
attributive della qualifica di dirigente, ma in realtà non ce l’ha). Questa presunta truffa
commessa dal datore di lavoro troverebbe causa in un errore di valutazione di una norma
extrapenale ma che non è affatto richiamata dalla fattispecie incriminatrice di truffa.
Per spiegare l’ipotesi di errore contemplata dall’art. 47 c.3 è sufficiente fare riferimento
all’esperienza del Codice penale dell’89, nel quale veniva riconosciuta efficacia scusante
dell'errore su legge extrapenale, nonostante nel codice mancasse una disposizione analoga al
47 c.3 e fosse già stato riconosciuto il principio dell’inescusabilità dell’errore su legge penale.

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A questa interpretazione si perveniva facendo applicazione dei principi generali che
presiedono alla responsabilità dolosa perché, stante il fatto che il dolo presuppone la
conoscenza di tutti gli elementi del fatto che corrispondono alla fattispecie astratta, se
quest’ultima contiene elementi giuridicamente qualificati da norme extrapenali, bisogna
concludere che anche questi elementi devono riflettersi nella mente dell’agente nel loro esatto
significato giuridico. Di conseguenza, chi incorre in un errore sul fatto determinato dalla
inesatta interpretazione di una norma extrapenale è nella stessa situazione di chi agisce sulla
base di una falsa percezione di un dato reale, cambio solo la fonte dell’errore, originato
nell’un caso da un’errata valutazione giuridica, nell’altro da una falsa rappresentazione della
realtà materiale.
pur in mancanza di una disposizione esplicita sul punto, parte della dottrina e della
giurisprudenza ritengono che, anche nel caso di errore su legge extrapenale. può residuare una
responsabilità a titolo di colpa, sempre che l’errore sia dovuto a colpa e il fatto sia preveduto
dalla legge come delitto colposo (questa tesi fa sospettare di essere frutto di un’interpretazione
analogica in malam partem).

Caso 33: genitore che presenta una dichiarazione non veritiera sul reddito familiare per fare ottenere
alla figlia il presalario: viene imputato per truffa all’Università e si discende sapendo che queste
dichiarazioni dipendono dalla errata interpretazione delle norme fiscali che regolano la concessione
dell’assegno di studio.
Questo errore è scusabile stante il fatto che rientra nell’ipotesi di errore su legge extrapenale che
provoca errore sul fatto costitutivo del reato di truffa; diverso sarebbe il caso in cui il genitore, pur
consapevole di aver reso dichiarazioni false per percepire l’assegno, fosse convinto che queste non
costituiscono artifici o raggiri nel senso del delitto di truffa (qui errore inescusabile).

Ambito di operatività dell’art. 47 comma 2


Circa il significato di legge extrape ale, è prevalente l’opinione per cui l’ult. comma dell’art. 47
richiami non soltanto norme di natura non penale ma anche norme penali diverse da quella
incriminatrice che viene in questione nel caso concreto, ad es. nel delitto di calunnia, un errore del
presunto calunniatore sulla norma penale che prevede il reato oggetto di incolpazione per cui egli
attribuisce a un terzo un fatto che, in realtà, non costituisce reato.
Ci sono quattro tipologie di errore su legge extrapenale:
- l’errore sulla legge extrapenale avrà sempre efficacia scusante qualora si tratti di errore sui cd.
elementi normativi della fattispecie penale, cioè elementi per la definizione dei quali si opera
il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice considerata; es. delitto di furto, l’errore
sulla norma civile che disciplina l’altruità della cosa.
Analoghe considerazioni riguardano l’errore sulla cd. illiceità speciale, che ricorre quando la
norma incriminatrice contiene espressioni quali <<illegittimamente>>, <<abusivamente>>,
ecc… che introducono una qualificazione di antigiuridicità ulteriore rispetto alla normale
antigiuridicità obiettiva, la cui determinazione concettuale rinvia a norme appartenenti ad altro
ramo dell’ordinamento.
- Stesso discorso vale per gli elementi normativi di natura etico-sociale: se qualcuno, quindi,
ritiene il proprio comportamento conforme al comune sentimento del pudore, a causa di una
erronea valutazione della morale sociale dominante, non potrà rispondere dell’illecito per la
mancanza di coscienza di un fondamentale requisito della fattispecie (es. turista straniera che
non sa che in Italia non è socialmente tollerato prendere il sole completamente nudi).
- L’errore può escludere la responsabilità anche quando ricada su una norma extrapenale
integratrice di una norma penale in bianco, poiché l’art. 47 non fa distinzione in ordine
all’ampiezza della norma extrapenale richiamata. Tuttavia, parte della dottrina, pur

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ammettendo questa fattispecie di errore, propende per un orientamento restrittivo distinguendo
due ipotesi a seconda che:
 la norma penale in bianco contiene un precetto generico ma sufficientemente
determinato.
 la norma penale in bianco è così indeterminata da rinviare interamente alla
norma extrapenale richiamata.
L’errore è ritenuto rilevante nel primo caso e non nel secondo in quanto, in
quest’ultimo caso, cadrebbe su una norma che conferisce al precetto penale
tutto il suo contenuto convertendosi, quindi, in un errore sullo stesso precetto
penale irrilevante ex art. 5, tranne se è inevitabile o scusabile.
- L’errore può ricadere su una norma extrapenale che rileva in concreto ai fini della valutazione
del significato di un elemento costitutivo della fattispecie, seppur non richiamato
espressamente (es. caso 33 del genitore e delle norme fiscali).

Errore determinato dall’altrui inganno


L’art. 48 stabilisce “Le disposizioni dell’art. precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che
costituisce reato è determinato dall’altrui inganno: ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona
ingannata chi l’ha determinata a commetterlo”.
L’errore deve ricadere su un elemento costitutivo del reato, altrimenti esso non escluderebbe il dolo e,
di conseguenza, la responsabilità permarrebbe.
L’inganno deve consistere nell’impiego di mezzi fraudolenti, ciò che conta è che provochi nel
deceptus una falsa rappresentazione della realtà.
Es. Tizio uccide una persona dopo che Caio gli ha detto che dietro il cespuglio c’era una selvaggina.
Secondo una parte della giurisprudenza, il legame causale tra la condotta del decipiens e l’errore del
deceptus verrebbe meno se l’errore fosse evitabile con l’uso della normale diligenza.
Tale orientamento non sembra, però, condivisibile in quanto introduce una arbitraria limitazione alla
sfera di operatività dell’art. 48. È evidente, infatti, che la legge ammetta la possibilità che l’inganno
del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa rappresentazione e che, di
conseguenza, quest’ultimo debba eventualmente rispondere a titolo di colpa.
L’art. 48 non descrive due condotte del decipiens, ossia una volta a provocare l’errore e l’altra a
determinare l’agente a commettere il reato, bensì una sola: la condotta ingannatrice.

Secondo la dottrina tedesca, l’art. 48 configura un’ipotesi di autoria mediata, quindi il decipiens si
servirebbe del deceptus come strumento esecutivo del reato. Così, l’unico autore del fatto criminoso
sarebbe l’autore dell’inganno (autore mediato). Questa ipotesi viene respinta dalla dottrina italiana che
ritiene che le ipotesi o i casi di fatto commesso per errore determinato dall’altrui inganno siano più
correttamente inquadrabili nell’ambito del concorso di persona.

Reato putativo
L’art. 49 c.1 c.p. stabilisce che “non è punibile chi commette un fatto non costituente reato, nella
supposizione erronea che esso costituisca reato”.
Questa situazione viene denominata di reato putativo, ossia il compimento di un fatto ritenuto da chi
agisce criminoso. Il soggetto compie un errore di valutazione che può derivare da un errore di fatto o
da un errore di diritto.
L’errore sul fatto può derivare o da un errore di fatto (come nel caso di Tizio che ritenga di
impossessarsi di un oggetto di altri ma si impossessa di una cosa propria) o da un errore su legge
extrapenale (es. Caio che, errando nell’interpretazione della legge civile che disciplina il matrimonio

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precedentemente contratto ma, in realtà, invalido crede, contraendo nuove nozze di commettere
bigamia).
L’errore di diritto si ha quando un soggetto, ad es. un soggetto continua a ritenere reato l’adulterio.
La natura putativa del reato può anche derivare dall’ignoranza di commettere un fatto in presenza di
una causa di giustificazione (es. legittima difesa).
In tutte queste ipotesi, la convinzione dell’agente di commettere un fatto di reato è priva di rilevanza.

SEZIONE V - IL REATO ABERRANTE

Errore-inabilità
La divergenza tra voluto e realizzato può dipendere non solo da un errore che incide sulla volontà ma
anche da un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o da un errore dovuto ad altra
causa: es. A vuole uccidere B ma per un errore nella mira fallisce il bersaglio e colpisce
erroneamente C.
L’art. 82 comma 1 stabilisce che “quando, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per
un’altra causa, è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta, il
colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere,
salve, per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell’art. 60”.
Questa è l’ipotesi dell’aberratio ictus monolesiva, che si verifica quando, a causa di un errore
esecutivo, mutano l’oggetto materiale dell’azione e il soggetto passivo, ma l’offesa permane
normativamente identica e, di conseguenza, non muta il titolo di reato.

La figura dell’aberratio ictus solleva problemi dal punto di vista dell’attribuzione della responsabilità:
ci si chiede se l’art. 82 comma 1 introduca una deroga ai normali principi della imputazione dolosa.
ci sono due indirizzi differenti:
- Secondo l’indirizzo dominante, la norma in esame sarebbe superflua in quanto conforme ai
principi generali sull’elemento psicologico: si osserva che l’offesa in concreto realizzata è
normativamente equivalente a quella voluta dall’agente e per questo il dolo permane, perché
per la sua configurazione basta che l’agente si rappresenti gli elementi di fatto rilevanti ai
sensi della fattispecie incriminatrice considerata (quindi, sufficiente che si rappresenti la morte
di un uomo e l’averla di fatto cagionata, restando indifferente se ha ammazzato B invece di
A).
- Secondo un altro indirizzo, che contesta il primo privilegiando una ricostruzione del dolo che
ne esalti la concreta dimensione psicologica, non sarebbe veramente decisivo fare leva sul
principio della irrilevanza normativa della individualità specifica del soggetto passivo o sulla
contestazione che un soggetto voleva uccidere qualcuno e l’ha fatto: non si deve dimostrare
che esiste un dolo astratto, riferito cioè ad un qualsiasi evento dello stesso tipo previsto dalla
fattispecie incriminatrice. ma qualificare come dolosa la causazione di un determinato evento
concreto→ il presupposto di questa qualificazione è la congruenza tra voluto e realizzato e
questa sembra difettare nell’aberratio ictus. Qui conformi sono l’evento materiale in sé
considerato e l’atteggiamento psicologico, ma manca la congruenza tra questo atteggiamento
psicologico e l’evento concreto, la quale sarebbe necessaria per considerare l’evento come
concretizzazione della volontà dell’agente.

Sulla base dell’osservazione per cui il dolo andrebbe ricostruito in base all’esatta corrispondenza tra
voluto e realizzato (di fatto), l’art. 82 comma 1 finirebbe col mascherare una ipotesi di responsabilità
oggettiva: da qui l’opportunità di un intervento riformatore che elimini la discrasia tra la disciplina
attuale dell’aberratio e i principi dell’imputazione dolosa.

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In attesa dell’auspicata riforma legislativa, parte della dottrina prospetta una reinterpretazione
dell’aberratio ictus volta a renderlo più compatibile col principio di colpevolezza, a anche alla luce dei
principi affermati dalla Corte Cost. nelle sent. 364/1988 e sent. 1085/1988. Secondo questa
interpretazione, ciascun elemento che incide sul disvalore della fattispecie penale deve essere
soggettivamente collegabile all’agente almeno a titolo di colpa: per evitare che l’evento possa essere
attribuito a titolo di responsabilità oggettiva e per far sì che tale attribuzione risulti minimamente
compatibile col principio di colpevolezza, occorre che l’agente abbia in concreto violato una norma
cautelare. Tale orientamento, però, non riesce a concepire l’autonoma violazione di regole cautelari
come un requisito fondamentale della colpa in senso proprio, in contesti di illeciti incentrati su un
agire doloso: è come se il legislatore imponesse da un lato di astenersi dalla condotta lesiva ma
dall’altro di realizzarla correttamente!
Condividendo questa obiezione e per scongiurare la responsabilità oggettiva, si può richiedere che il
giudice accerti, non tanto la violazione di regole cautelari, ma la mera prevedibilità in concreto, da
parte dell’agente, dell’evento cagionato a persona diversa; si richiede un requisito minimo di
colpevolezza che, seppur non identico in tutto e per tutto alla colpa, a questa può essere assimilato.

Si riconosce che il vero elemento di novità introdotto dall’art. 82 comma 1 è il richiamo all’art. 60 che
fa salve le circostanze attenuanti ed aggravanti, applicando una disciplina delle circostanze orientata al
principio della prevalenza del putativo sul reale.

Aberratio ictus plurilesiva


L’art. 82 comma 2 stabilisce che “qualora, oltre alla persona diversa, sia offesa anche quella alla
quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata
fino alla metà”.
Questa disposizione si riferisce alla aberratio ictus plurilesiva, cioè alle situazioni nelle quali l’errore
provoca un evento lesivo ulteriore rispetto a quello preso di mira dall’agente, ad es. Tizio aggredisce
mortalmente Caio amante della moglie e, per errore, infligge colpi a Sempronio intervenuto per
separarli.
Anche in questo caso si pone il problema relativo ai criteri di attribuzione della responsabilità; la
soluzione prevalente è nel senso di ritenere che l’agente risponde a titolo di dolo nei confronti della
vittima designata e in modo “oggettivo” nei confronti della persona erroneamente colpita, in quanto la
norma non richiede che si accerti l’esistenza di un agire colposo.

Anche in questo caso, una parte della dottrina prospetta una interpretazione correttiva volta a rendere
compatibile questo tipo di aberratio col principio di colpevolezza, richiedendo che l’offesa ulteriore sia
in concreto dovuta ad un atteggiamento colposo dell’agente.

Il trattamento penale dell’aberratio plurilesiva appare eccessivamente rigoroso in quanto la sanzione


complessiva risultante dall’aumento fino alla metà della pena stabilita per il reato più grave (cioè
quello attribuito a titolo di dolo), è di regola superiore a quella che si applicherebbe nel caso di
concorso formale di un delitto doloso e di uno colposo.

Sorge il problema di stabilire quale sia il trattamento applicabile quando, oltre alla persona presa di
mira, si ledano più persone diverse ovvero, mancata la vittima designata, rimangano lese soltanto più
persone diverse.

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Secondo un indirizzo interpretativo, si dovrebbero applicare tanti aumenti di pena sino alla metà
quante sono le offese arrecate ai soggetti non designati; secondo un altro orientamento dovrebbe essere
applicato un secondo aumento di pena a prescindere dal numero delle persone offese; secondo un altro
ancora, all’offesa non voluta più simile a quella voluta si applicheranno le norme sull’aberratio,
mentre alle altre la disciplina relativa alla responsabilità per colpa se ne sussistono i requisiti.
In ogni caso, in considerazione della natura anomala e derogatoria di questa disciplina si dovrebbe
applicare alle ipotesi espressamente previste, pena la violazione del divieto di analogia in malam
partem.
Così, nel caso in cui insieme o senza la persona designata, rimangano colpiti anche altri soggetti, è da
ritenere che debba applicarsi il più benevolo regime del concorso formale del reato doloso con
eventuali delitti colposi, sempreché le offese non volute siano dovute a colpa dell’agente che erra
nell’esecuzione del reato.

Aberratio delicti
L’art 83, comma 1 stabilisce che fuori dai casi preveduti dalla norma precedente, se per errore nei
mezzi di esecuzione del reato o per altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto il
colpevole risponde a titolo di colpa dell’evento non voluto quando il fatto è preveduto dalla legge
come delitto colposo.
si tratta della figura dell’aberratio delicti che ricorre quando l’agente per inabilità nell’esecuzione
realizza un reato che lede beni o interessi diversi rispetto a quelli presi di mira ad esempio scioperante
lancia un sasso contro un autobus ma a causa di un errore nel tiro colpisce in testa un passante. in
questi casi il dolo esula perché manca nel soggetto la volontà dell’evento diverso e si afferma che
quest’ultimo risponde a titolo di colpa, ma in che senso?
1. la formula a titolo di colpa esprime l’intento di subordinare la punibilità all’accertata
violazione di norme di condotta a contenuto preventivo così che la colpa si atteggerebbe a
effettiva componente strutturale del fatto?
2. la locuzione a titolo di colpa si limita a stabilire che l’evento non voluto viene punito come se
fosse colposo (e quindi il fondamento della responsabilità sarebbe obiettivo mentre la colpa
rileva sul piano delle conseguenze sanzionatoria)?

Considerato che la norma non richiede che la produzione dell’evento sia determinato da colpa è più
conforme alla volontà del legislatore la tesi che fonda l’imputazione dell’evento non voluto sul criterio
della responsabilità oggettiva.
L’art 83 ricomprende sia ipotesi in concreto negligenti o imprudenti che casi in cui l’evento non
voluto è una conseguenza meramente accidentale dell’erronea condotta dell’agente.
non si può dire che la colpa è presunta sul presupposto che si sia agito per inosservanza di leggi e che
quindi l’evento non voluto si verifica come conseguenza di un’azione diretta a violare una legge
penale perché se è vero che tutte le norme penali hanno una finalità genericamente preventiva è
altrettanto vero che non tutte sanzionano la violazione di regole cautelari come quelle necessarie ad
integrare la responsabilità colposa.
Perché l’evento diverso sia attribuibile al soggetto è necessario che ne sia esplicitamente sanzionata la
realizzazione colposa (quindi ad esempio se l’evento che volevo cagionare era una lesione personale
col lancio del sasso ma in realtà causo un danneggiamento non posso essere punito a titolo di colpa
perché il danneggiamento è punibile solo a titolo di dolo).
sempre l’articolo 83 prevede che “se il colpevole ha cagionato altresì l’evento voluto si applicano le
regole sul concorso di reati”
l’agente risponde di due reati, uno doloso e uno colposo (es. un giovane che si congiunge carnalmente
con una minore di 14 anni e le procura lesioni personali).

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si riconduce di solito allo schema dogmatico dell’aberratio delicti con pluralità di eventi il caso ex art
586 che contempla l’ipotesi che da un fatto preveduto come delitto doloso derivi come conseguenza
non voluta la morte o la lesione della persona.

Anche nel caso dell’aberratio delicti parte della dottrina suggerisce una interpretazione dell’art 83
costituzionalmente orientata e tale da scongiurare la responsabilità oggettiva per rendere l’art 83
compatibile col principio di colpevolezza: si richiede che il giudice accerti in concreto la colpa o un
quid assimilabile in relazione all’evento non voluto.

SEZIONE VI – LA COSCIENZA DELL’ILLICEITA’

La possibilità di conoscere il precetto penale


Nell’ambito della colpevolezza gioca un ruolo determinante la coscienza dell’illiceità concepita come
elemento costitutivo autonomo come requisito distinto dalla colpa o dal dolo.

Essendo un elemento autonomo non dipende dalla sussistenza del dolo e del resto il dolo non include
la conoscenza dell'illiceità del fatto, può tutt’al più riguardare la coscienza della dannosità del fatto.

Infatti, se la colpevolezza esprime un rimprovero per il fatto criminoso commesso questi, se la


colpevolezza esprime un rimprovero per il fatto criminoso commesso questo sarà più giustificato se il
reo sarà consapevole del disvalore del comportamento realizzato che tra l’altro integra un fatto
contrastante con l’ordinamento giuridico.

Quest’affermazione rimane valida sia che si privilegi l’aspetto rieducativo della pena sia che si
privilegi la sua finalità rieducativa, in quanto chi non sa di aver commesso un fatto contrario alle
esigenze dell’ordinamento giuridico non è in grado di sentire la pena né come una giusta retribuzione
per il danno arrecato né come uno strumento necessario a favorire il processo di risocializzazione.

L’aspetto nodale concerne però la portata e i limiti dell’affermazione secondo cui non esiste
colpevolezza senza coscienza dell’illiceità.
Sembra contrastante con tale principio, l’art 5 c.p. che accoglie il tradizionale principio ignorantia
legis non excusat che trovava la sua ratio nell’incondizionata prevalenza della legge e degli interessi
pubblici nell’ambito di uno statualismo accentratore e autoritario.
L’ordinamento penale moderno però, accanto al tradizionale nucleo dei diritti naturali cioè lesivi dei
valori etico-sociali, ricomprende una serie crescente dei delitti di pura creazione legislativa, cioè tipi di
illecito penale che sono tali per volontà del legislatore, senza che ad essi preesista una disapprovazione
sociale. Tutto ciò pone non di rado il cittadino in una condizione che obiettivamente favorisce
l'ignoranza e/o l’erronea conoscenza della norma incriminatrice.
Per tale ragione la Corte Costituzionale ha poi affermato che a legittimare questo principio nel nostro
ordinamento democratico fosse sufficiente la semplice possibilità di conoscere la norma penale
garantita dalla pubblicazione della legge.

Non a caso la stessa giurisprudenza ha riconosciuto efficacia scusante alla buona fede nelle
contravvenzioni a condizione che la mancanza di conoscenza della illiceità del fatto derivasse non
dalla semplice ignoranza della legge ma da un elemento positivo consistente in una circostanza che
inducesse alla liceità del comportamento tenuto (es. concessione edilizia).

Alla luce di queste aperture necessario interpretare l’art 5 c.p. anzitutto alla luce

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- dell’art 27 comma 1 Cost. il quale, sancendo il carattere personale della responsabilità penale,
impedisce di ritenere irrilevante la mancata percezione del disvalore penale;
- dell’art 27 comma 3 Cost. che, sancendo la funzione rieducativa della pena, comporta che la risposta
punitiva deve operare nei confronti di un soggetto che si trovi in condizione di avvertire il disvalore
penale del fatto realizzato.
Tuttavia, per soddisfare queste esigenze non è necessario richiedere l’effettività conoscenza da parte
dell’agente del carattere criminoso del comportamento perché altrimenti se nel corso di un processo
l’accusa fosse sempre gravata della prova che l’autore del reato era ben consapevole di violare una
norma penale incriminatrice si appesantirebbero le già notevoli difficoltà probatorie del reato e d’altro
canto i delinquenti sarebbero indotti ad indurre false giustificazioni a sostegno della loro ignoranza
della legge penale.
Per tale ragione ai fini del rimprovero di colpevolezza diventa sufficiente la conoscibilità del carattere
illecito del fatto che rende evitabile e quindi inescusabile l’ignoranza o l’errore dell’agente. In altri
termini se l’agente nella situazione concreta poteva evitare di rimanere in uno stato di
inconsapevolezza, questa possibilità basta per muovergli un rimprovero di colpevolezza.
Il concetto di “possibilità di conoscenza” della legge penale richiama:
1. evitabilità-inescusabilità dell’ignoranza, con conseguente riconoscimento della colpevolezza e
affermazione della responsabilità penale
2. inevitabilità-scusabilità dell’ignoranza cui consegue l’assenza di colpevolezza e l’esclusione
della punibilità.
Questa tesi ha ricevuto l’autorevole avallo della Corte Cost nella sentenza 364/88 con la quale ha
dichiarato parzialmente illegittimo l’art 5 c.p. nella parte in cui non escludeva dal principio
dell’inescusabilità dell'ignoranza della legge penale i casi di ignoranza inevitabile e quindi scusabile.
I giudici si sono altresì preoccupati di definire i cd. doveri strumentali che incombono sui privati in
vista dell'osservanza dei precetti penali cioè doveri di informazione e conoscenza aventi finalità
strumentali a prevenire la trasgressione delle leggi penali.

Ma quando la possibilità di conoscenza della legge penale è esclusa e quindi l’ignoranza dalla legge
risulta inevitabile?
È possibile prospettare una serie di criteri:
 criteri soggettivi puri > fanno leva sulle caratteristiche personali del soggetto agente come il
livello di maturazione della personalità, il grado di scolarizzazione, di cultura, ambiente
sociale di provenienza ecc.
Questi criteri consentono di personalizzare il giudizio di colpevolezza tenendo il più possibile
conto delle caratteristiche dell’agente che però secondo la Corte dovrebbero essere utilizzati in
ipotesi marginali e circoscritte a ipotesi nelle quali i deficit di personalità dell’agente
emergono in maniera corposa e incontrovertibili come nel caso di soggetti carenti di un livello
minimo di socializzazione e cultura (emarginati o stranieri extracomunitari).
 criteri oggettivi puri > fanno leva sulle cause che rendono impossibile la conoscenza della
legge penale da parte di ogni consociato, indipendentemente dalle caratteristiche personali.
Si parla ad esempio dell’assoluta oscurità del testo legislativo che impedisce al cittadino di
cogliere il reale contenuto precettivo della norma penale. In questo caso, in realtà, ancor
prima della colpevolezza viene meno l’esistenza di un precetto penale giuridicamente
vincolante in quanto il legislatore ha violato il principio di legalità e sufficiente
determinatezza della fattispecie penale.
O ancora, dell’improvviso mutamento dell’orientamento giurisprudenziale in merito
all’interpretazione di norme penali. In questo caso, invece, ancor prima della colpevolezza

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viene meno ciò che nella sostanza risulta violato in quanto vige il principio di non retroattività
delle incriminazioni.

 criteri misti > tengono conto contemporaneamente delle circostanze oggettive che inducono a
ignorare la legge penale e delle caratteristiche personali del soggetto agente.
L’adozione di questi criteri si preoccupa di bilanciare in modo equilibrato esigenze
individualgarantistiche e generalpreventive.

Si fa riferimento, contestualmente, ad esempio dal punto di vista oggettivo alle autorizzazioni


amministrative delle autorità competenti e dal punto di vista soggettivo anche la cerchia
professionale di appartenenza dell’agente.
Facendo un esempio concreto: un medico, detentore di due pistole regolarmente denunciate,
si presenta all’autorità competente per denunciarne il possesso, dichiarando il numero
complessivo delle armi possedute e l’autorità competente lo assicura che questa denuncia è
sufficiente ai sensi dell’attuale normativa in materia di armi, anche se in realtà costituisce
reato detenere più di due armi da sparo senza licenza di collezione rilasciata dal questore.
In questo caso, il soggetto non si rende conto di commettere il reato preveduto dalla vigente
normativa sulle armi, non perché personalmente convinto della liceità del fatto, ma perché
indotto in errore da una causa oggettiva, cioè l’autorità competente. D’altra parte, considerato
che l’agente esercitava la professione di medico, può apparire giustificato che egli confidasse
nel giudizio di organi qualificati nella materia specifica. Diversa sarebbe la soluzione se
l’agente fosse stato un avvocato penalista, in considerazione appunto della maggiore vicinanza
tra il ruolo professionale e la natura della materia in questione.
In ogni caso, la Cassazione applica in modo rigoroso la regola secondo la quale chi esercita
una particolare attività professionale è tenuto ad informarsi sulle leggi che ne disciplinano lo
svolgimento. Per cui ad esempio la scusabilità dell’ignoranza è stata esclusa nel caso di un
imprenditore nel settore della panificazione che aveva ignorato il divieto di impiegare additivi
chimici.
Rari sono invece i casi di riconoscimento dell’inevitabilità, con conseguente esenzione da
responsabilità.

Il principale interrogativo è se e in qual misura il giudizio relativo alla rimproverabilità


dell’ignoranza debba tener conto dei processi psicologici dell’agente.
Può infatti accadere che:
- l’autore del fatto, prima di agire, si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo
comportamento sia antigiuridico e che, ciononostante, lo realizzi senza adempiere
preventivamente l’obbligo di maggiore informazione.
La rimproverabilità, in questo caso, trova il proprio fondamento proprio nel processo
psicologico che si è sviluppato nell’autore, cioè il fatto di essersi rappresentata la possibilità di
compiere un atto illecito. Già questo è censurabile.
- l’autore del fatto può non rappresentarsi la possibilità che il suo comportamento sia
antigiuridico perché nessun dubbio affiora alla sua mente circa il carattere lecito o illecito del
fatto da realizzare.
Questo caso è più problematico in quanto il rimprovero da rivolgere al soggetto per aver
ignorato il carattere illecito del fatto è privo di una base psicologica reale perché nella sua
psiche non si è mai affacciata la possibilità che il fatto fosse illecito. Ciò che si può

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rimproverare al soggetto è di aver violato gli obblighi di informazione giuridica che sono alla
base di ogni convivenza civile pur essendo egli in grado di adempiere agli obblighi suddetti.

Questo modello di soluzione è il frutto di un compromesso tra riconoscimento del principio di


colpevolezza e il soddisfacimento di esigenze generalpreventive ineludibili. In questo modo il
giudizio di colpevolezza presenta un carattere ibrido cioè un misto di dolo e colpa in quanto
nei casi di ignoranza evitabile-inescusabile il rimprovero penale ha a fondamento il dolo con
riferimento al fatto tipico e la colpa juris per non aver evitato l’ignorantia legis che avrebbe
potuto e dovuto evitare. Questo atteggiamento psicologico “doloso-colposo” sembra
configurare una forma intermedia di responsabilità oggettiva che si colloca per gravità tra il
dolo e la colpa.

SEZIONE VII - CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA


Dolo e normalità del processo motivazionale: la cd. inesigibilità
Parte della dottrina, allo scopo di tenere conto dell’influenza esercitata dalle circostanze anormali sul
processo motivazionale dell’agente, ha individuato come causa generale di esclusione della
colpevolezza la cd. inesigibilità, cioè l’impossibilità di pretendere, in presenza delle circostanze
concrete in cui l’agente ha operato, un comportamento diverso da quello effettivamente tenuto.
In questo modo, si consente l’applicazione di cause di discolpa anche non espressamente codificate,
ma che si applicano in situazioni analoghe a quelle normativamente previste.

La dottrina, tra le cause di esclusione di colpevolezza per inesigibilità, considera lo stato di necessità e
coazione morale, codificate come scusanti. In entrambi i casi l’agente si trova sotto la pressione di
circostanze esterne che, impedendogli, dal punto di vista psicologico di assumere un comportamento
diverso da quello effettivamente tenuto, fanno apparire come non più rimproverabile il fatto
commesso.

Però, all’inesigibilità si vuole assegnare un carattere aperto e analogico idoneo ad operare anche quale
canone extra legislativo di giudizio, cioè come categoria valida ad escludere la colpevolezza pure in
ipotesi non esplicitamente previste dalla legge.
Un esempio di applicazione analogica del principio di inesigibilità è quello del medico condotto che si
rifiuta di recarsi di notte a visitare un infermo, adducendo stanchezza fisica che gli impedisce di
raggiungere il malato a seguito di una marcia notturna di quattro ore fra la neve. Anche se in questo
caso si sarebbe fuori dallo stato di necessità, perché manca il requisito dell’attualità del pericolo per la
vita o per la salute del medico, ricorre la stessa ratio e quindi si parla di inesigibilità.

Un’altra applicazione analogica del principio di inesigibilità è configurabile nel caso di conflitto di
doveri, che è l’ipotesi in cui un soggetto, titolare di due o più obblighi giuridici di pari rango,
impossibilitato a compierli entrambi, ne compie solo uno (il medico che deve decidere a quale
ammalato applicare l’unico apparecchio cuore-polmone).

A questa stessa ipotesi è riconducibile il caso di conflitto tra norme di condotta appartenenti a sfere
normative diverse e autonome (es. ordinamento giuridico da un lato e sistema morale e/o religioso
dall’altro). In questo senso si parla anche di illecito per convinzione (es. Testimoni di Geova che
omettono di procedere ad una trasfusione di sangue per la figlia malata di talassemia, così non
impedendone la morte).
Benché, l’inesigibilità rende più elastiche e umane le regole che presiedono all’imputazione penale, è
da escludere che la stessa possa avere un ruolo ampiamente scusante. Piuttosto, appare a volte come

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una clausola vuota perché non riesce ad indicare i criteri che dovrebbero veramente presiedere alla
soluzione dei diversi casi concreti, né ad individuare il motivo per cui l’agente non avrebbe potuto, al
momento della commissione del fatto, adottare un comportamento diverso.

Possono essere sollevate altre obiezioni: se si dà eccessivo rilievo alle passioni dei singoli,
immedesimandosi nella loro particolare situazione psicologica, il rischio è di capitolare la società di
fronte al delinquente (es. scusare il gesto omicida della ragazzina siciliana che ammazza gli zii; lo zio
con cui aveva una relazione e la zia, che ne era al corrente, lo rivela al poi marito della ragazza per
vendetta), al contrario, se si ricorre alla figura dell’uomo medio per valutare in che modo si sarebbe
dovuto agire in alternativa, il concetto di inesigibilità risulterebbe eccessivamente vago, e come tale,
esposto al rischio di applicazioni arbitrarie ed incompatibili con i principi di legalità ed uguaglianza.

Per queste ragioni, la categoria dell'inesigibilità è stata messa in discussione anche dalla dottrina
tedesca nella quale aveva trovato il più ampio riconoscimento. Questa non può, quindi, essere ritenuta
una causa generale di discolpa applicabile indipendentemente da specifiche previsioni di legge. Ciò
vale soprattutto per i reati commissivi dolosi, mentre trova applicazione nell’ambito dei reati colposi e
di quelli omissivi.

D’altra parte, non ha senso parlare di inesigibilità come causa di esclusione della colpevolezza,
neanche nei casi di conflitto di doveri e di conflitto motivazionale, provocato dal contrasto tra norme
penali e norme etico-religiose, in quanto, in quanto in entrambi i casi, la punibilità può comunque
essere esclusa. Nel primo caso, si può sostenere che per qualificare illecito un comportamento, è
necessario che l'obbligo di condotta violato sia chiaro ed inequivoco. Nel caso contrario non sussiste
neppure l’illecito. Nel secondo caso, non ha senso parlare di esclusione di colpevolezza per
inesigibilità, in quanto l’esercizio del diritto alla libertà religiosa, non può assurgere a causa di
giustificazione o esclusione della colpevolezza, tanto meno se porti alla commissione di fatti
socialmente dannosi, lesivi di beni giuridici di rango primario.

Tuttavia, nell’ambito dei reati dolosi, le circostanze anormali concomitanti che hanno portato la
dottrina ad elaborare la categoria dell’inesigibilità, possono portare ad un’attenuazione del rimprovero
e quindi incidere sulla commisurazione della pena.
La graduabilità in senso attenuante potrà essere invocata in tutti quei casi in cui le circostanze
anormali concomitanti rendono psicologicamente poco esigibile un comportamento lecito.

Scusanti legalmente riconosciute


Si è escluso che la inesigibilità possa assurgere a causa generale di esclusione della colpevolezza.
Questo non impedisce di ritenere questo principio applicabile limitatamente a quelle ipotesi in cui lo
stesso assurge a fondamento di cause di esclusione della colpevolezza espressamente previste dal
legislatore, che si differenziano da quelle di giustificazione in quanto lasciano integra l’antigiuridicità
del fatto facendo venire meno solo la sua imputabilità e, di conseguenza, si possono applicare soltanto
ai soggetti cui si riferiscono e non sono estensibili ad eventuali concorrenti.
In particolare, si fa riferimento a:
- stato di necessità scusante (o cogente) e coazione morale→ lo stato di necessità si riferisce
all’ipotesi in cui il pericolo di un danno grave alla persona incomba sullo stesso agente o su un
prossimo congiunto. Solo in questo caso si può ritenere che una condotta diversa fosse
psicologicamente inesigibile da parte di chi ha agito. Di converso, nella fattispecie di soccorso
di necessità, ove l’azione necessitata è finalizzata a salvare un terzo, l’unica ratio dello stato di

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necessità si ravvisa nel bilanciamento di interessi in conflitto e, quindi, inquadrabile solo come
causa di giustificazione.
- ordine criminoso insindacabile dalla pubblica Autorità→ a differenza di un ordine
legittimo che costituisce causa di giustificazione, l’adempimento di un ordine criminoso
insindacabile da parte di chi lo esegue non esclude l’illiceità del fatto commesso. Per esentare
da responsabilità penale il subordinato che commette un reato ottemperando a un ordine
illegittimo del superiore al quale non può disobbedire, bisogna far leva sulla situazione di
forte pressione psicologica in cui questi si trova.
- ignoranza (o errore) inevitabile-scusabile della legge penale dopo sentenza 364/1988→
essendo l’ignoranza inevitabile, l’agente non era in condizione di comportarsi in modo di non
incorrere nella commissione di un fatto di reato.

SEZIONE VIII – LA COLPEVOLEZZA NELLE CONTRAVVENZIONI


Il Codice penale prevede una particolare disciplina dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni,
disponendo l’art. 42 comma 4 che “nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od
omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.
L’art. 43 ult. comma aggiunge poi che “la distinzione tra reato doloso e colposo, stabilita per i delitti,
si applica anche alle contravvenzioni ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere da
tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.
Circa l’interpretazione dell’art. 42 comma 4, si è avuto un contrasto di opinioni, anche se risulta ormai
superata quella tesi che riteneva sufficiente la mera coscienza e volontà della condotta,
indipendentemente dal dolo o dalla colpa (ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico nelle
contravvenzioni).
Contro questa tesi si è obiettato che essa introduce una forma celata di responsabilità oggettiva.
L’art. 42 ult. comma sta a significare non tanto che la punibilità delle contravvenzioni possa
prescindere dal dolo o dalla colpa, quanto che è indifferente la presenza dell’una o dell’altra specie di
colpevolezza, ritenendo almeno sufficiente la colpa (mentre nei delitti il dolo è criterio generale di
imputazione e la colpa è l’eccezione, presente solo nei casi espressamente previsti dalla legge).
Tuttavia, contrasti si registrano circa la tecnica di accertamento giudiziale dell’elemento soggettivo
nelle contravvenzioni.
Parte della dottrina sostiene l’esistenza di una presunzione juris tantum di colpevolezza a favore del
giudice, dispensato, quindi, dall’accertamento dell’elemento soggettivo, addossando, invece, l’onere
della prova contraria all'agente.
Secondo altri, invece, è sufficiente il ricorso alle comuni regole di esperienza, per cui si potrà
condannare solo quando non vi siano circostanze in grado di evidenziare una situazione eccezionale in
cui il soggetto abbia realizzato il fatto senza dolo o senza colpa.
Tuttavia, non vi è alcuna disposizione che consente esplicitamente di derogare ai principi generali in
tema di accertamento dell'elemento soggettivo.
Inoltre, attribuendo l’art. 43 comma 2 rilevanza alla distinzione tra dolo e colpa anche in ambito di
contravvenzioni ogni qualvolta da questa distinzione derivino conseguenze giuridiche, ammette che
dell’intensità del dolo e del grado della colpa il giudice debba tenere conto ai fini della
commisurazione della pena.
Vi è, poi, un’ulteriore precisazione: alcune contravvenzioni, in considerazione della loro natura o della
tecnica legislativa con cui sono state configurate, possono essere commesse solo con dolo o solo con
colpa.
Infine, la distinzione tra dolo e colpa rileva anche agli effetti dell’abitualità, dell'amnistia limitata ai
reati colposi, ecc.

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CAPITOLO 4 - CIRCOSTANZE DEL REATO
Le circostanze del reato sono quegli elementi che stanno intorno o accedono a un reato già perfetto, e
la cui presenza determina soltanto una modificazione della pena, o in termini quantitativi (aumento o
diminuzione) o in senso qualitativo. Tali circostanze vengono anche definite accidentalia delicti, per
sottolineare che possono mancare senza che il reato venga meno, a differenza degli elementi
essenziali. All’interno del codice penale vi è una disciplina ampia e dettagliata sulle circostanze del
reato che tipizza:
 circostanze attenuanti comuni > circostanze attenuanti di pena riferibili a tutti i tipi di reati
 circostanze aggravanti speciali > circostanze aggravatrici di pena riferibili a ipotesi tipiche di
reato
 circostanze aggravanti comuni > circostanze aggravatrici di pena applicabili a tutti i reati
In questo modo, il legislatore ha permesso da un lato di adeguare meglio le pene ai singoli e variegati
casi criminosi e dall’altro di privare il giudice di un potere discrezionale relativamente a tale
adeguamento, che invece si attua all’interno di confini legislativamente predeterminati.

Con riferimento alle circostanze del reato, sorgono vari problemi: uno dei quali riguarda il dubbio
relativo alla possibilità che l’elemento circostanziale integri una fattispecie autonoma o se,
combinandosi con gli elementi costitutivi del reato, dia luogo ad una fattispecie penale complessa.
Questa questione appare, però, priva di reale rilevanza pratica; più importanti appaiono invece il
problema relativo alla distinzione tra elementi essenziali e circostanze del reato e quello che riguarda
il rapporto tra le circostanze in senso stretto e i criteri di commisurazione della pena.

La disciplina delle circostanze di reato è stata innovata dalla legge n.251/2005 e legge n. 354/1975,
con le quali, la maggioranza politica del tempo ha verosimilmente imitato l'ideologia punitiva
statunitense della cd. tolleranza zero, generatrice di una sorta di doppio binario: uno più mite e
destinato ai rei primari (incensurati che delinquono per la prima volta) e l’altro più severo destinato ai
delinquenti recidivi (provenienti per lo più dalle classi subalterne), identificati come nemici
dell’ordine costituito da isolare e neutralizzare.

Classificazione delle circostanze


Le circostanze possono essere classificate sotto diverse angolazioni:
 Circostanze aggravanti > comportano un aumento della pena in modo o quantitativo o
qualitativo (ad es. passaggio da una pena pecuniaria ad una pena detentiva);
 Circostanzi attenuanti > comportano diminuzione quantitativa della pena oppure una
modifica qualitativa a vantaggio del reo (ad es. passaggio da una pena detentiva ad una pena
pecuniaria).

 Circostanze comuni > potenzialmente applicabili ad un insieme non predeterminabile di


reati;
 Circostanze speciali > previste soltanto in rapporto a specifiche figure di reato.

 Circostanze oggettive (art. 70 c.p.) > riguardano natura, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni
altra modalità dell’azione;
 Circostanze soggettive > riguardano l’intensità del dolo, il grado della colpa, le qualità o
condizioni personali del colpevole, il rapporto tra colpevole ed offeso (es. recidiva).

 Circostanze tipiche > previste espressamente dal legislatore;


 Circostanze generiche > indicate dal legislatore in forma assai generica.

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Nella maggior parte dei casi le circostanze sono oggetto di puntuale descrizione normativa (ad es.
l’uso di sostanze venefiche come aggravante dell’omicidio), non mancano però casi nei quali il
legislatore indica elementi circostanziali in forma assai generica e spetta al giudice concretizzarli (ad
es. l’espressione fatto di “rilevante gravità” nella norma che incrimina l’abusiva riproduzione di opere
cinematografiche).
Con riferimento alle aggravanti indefinite, è denunciabile un deficit di tassatività che si pone in
contrasto con l’art. 25 c.2 Cost. Lo stesso, però, non vale con le attenuanti indefinite che risultano
compatibili con tale disposizione poiché il principio di tassatività viene in questione soltanto quando si
tratti di restringere la sfera di libertà del reo e non quando l’effetto giuridico va a suo beneficio.

Criteri di identificazione delle circostanze


Talvolta non è chiaro se determinati elementi integrino una circostanza del reato oppure un elemento
essenziale di una diversa e autonoma figure di reato, differenza che comporta delle importanti
conseguenze pratiche sul piano della disciplina adottabile. La differenza teorica sta nel fatto che: le
circostanze non condizionano l’esistenza del reato ma si limitano a comportare una modificazione
quantitativa o qualitativa della pena prevista dal reato semplice; dalla presenza di un elemento
essenziale dipende invece la sussistenza dello stesso reato.
In assenza di criteri di differenziazione forniti dal legislatore, è stata la dottrina a tentare di elaborarli.
Oggi prevale un criterio discretivo che fa leva sull'esistenza di un rapporto di specialità tra l’ipotesi
circostanziata e l’ipotesi di semplice reato, nel senso che la prima deve porsi in relazione specie a
genere rispetto alla seconda, cioè deve includere tutti gli elementi della prima con l’aggiunta di uno o
più requisiti specializzanti. La specialità è, però, una condizione necessaria ma non sufficiente, in
quanto, anche una figura autonoma di reato, può risultare speciale rispetto ad un’altra.
Per queste ragioni, tutt’oggi si richiamano dei criteri ausiliari costituiti dal nomen iuris, dai precedenti
storici, dalla rubrica legislativa, ecc. Mancando comunque dei criteri di distinzione veramente sicuri,
l’individuazione degli elementi circostanziati finisce col rappresentare un problema interpretativo da
risolvere caso per caso.

Criterio di imputazione delle circostanze


In passato, le circostanze venivano attribuite in base ad un criterio puramente obiettivo, cioè
operavano in virtù della loro effettiva presenza, senza che fosse necessario che il soggetto se le
rappresentasse; e se, il soggetto si rappresentava per errore come esistente una circostanza, questa non
veniva valutata né a suo carico, né a suo favore. Con la legge n.19/1990, il legislatore ha modificato il
modello di imputazione delle sole aggravanti, sottoponendole ad un regime di imputazione
soggettiva e, infatti, il nuovo dell’art. 59 c. 2 stabilisce che “le circostanze che aggravano la pena
sono valutate a carico dell’agente solo se da lui conosciute o ignorate per colpa”. Per effetto di questa
nuova disciplina, affinché le circostanze che aggravano la pena possano essere accolte, occorre un
coefficiente soggettivo, costituito o dalla effettiva conoscenza o dalla loro colpevole ignoranza.
Lo stesso non si applica alle circostanze attenuanti, alle quali continua ad applicarsi il regime di
imputazione oggettiva, incidendo queste favorevolmente sul trattamento punitivo.
Secondo una certa interpretazione, l’effettiva conoscenza dell’elemento circostanziale è richiesta
soltanto rispetto ad un illecito attribuito a titolo di dolo; mentre, rispetto al reato colposo, ai fini
dell’attribuibilità dell’aggravante, sarebbe sufficiente che il reo, pur potendola conoscere, non abbia
conosciuto per colpa l’esistenza.
Tuttavia, l’interpretazione dominante ritiene che, ai fini dell’imputazione della circostanza aggravante,
basti che il reo ne abbia ignorato per colpa l’esistenza, indipendentemente dal fatto che la circostanza

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attenga ad un reato colposo o doloso, quindi il coefficiente minimo di imputazione sarà la semplice
colpa.
Nel caso di lesioni gravi o gravissime, ai fini dell’attribuibilità della circostanza aggravatrice è
sufficiente che l’agente si rappresenti la lesione come possibile conseguenza della condotta. Ad
esempio, Tizio reagisce all'ingiuria di Caio con un violento schiaffo che gli provoca una grave
scoliosi del setto nasale e disturbi alla respirazione nasale.

Già in passato, sotto il vigore del precedente testo dell’art. 59 c.p., la regola dell’imputazione obiettiva
subiva delle deroghe: in quei casi in cui la struttura dell’aggravante fosse di per sé incompatibile con
un criterio di attribuzione che prescindesse da coefficienti soggettivi, e poi, anche in presenza di
circostanze strutturalmente compatibili con imputazioni di tipo oggettivo, la giurisprudenza ha finito
col tenere conto dell’effettivo atteggiamento psicologico per la concreta determinazione dell’aumento
di pena.
Sussistono comunque circostanze aggravanti pensate in ottica di attribuzione soggettiva, come la
recidiva, la cui ratio aggravatrice si fonda su presupposti che prescindono dalla conoscenza o
conoscibilità che il reo ne possa avere.

Errore sulla persona offesa


L’art. 60 c.p. dispone che “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a
carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona
offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a suo favore, le circostanze attenuanti,
erroneamente supposte, che concernono le condizioni. le qualità e i rapporti predetti”.
Ad esempio: A ritiene di uccidere un nemico ma, a causa di un errore, uccide suo padre. In questo caso
A non risponde di parricidio nonostante sussista un rapporto di parentela (previsto come aggravante
dall’art.577 c.p.), ma di omicidio semplice in quanto, ai fini dell’applicabilità della norma sul
parricidio, è necessaria l’effettiva consapevolezza di indirizzarla contro il padre, non basta
l’eventuale colposa ignoranza. L’art. 60 c.p. prospetta così l’applicazione di una regola di imputazione
soggettiva delle circostanze aggravanti rispetto ai casi di errore sulla persona offesa.
Una conclusione analoga vale nel caso di supposizione erronea dell’esistenza di una circostanza
aggravante, in deroga alla regola generale secondo la quale le circostanze attenuanti sono applicabili a
prescindere dal livello di consapevolezza che il reo ne abbia (ad es. Tizio che vuole aggredire il
provocatore, per errore, rivolge l'azione contro un altro soggetto e lo uccide: in questo caso, beneficerà
dell’attenuante della provocazione come se avesse davvero ucciso il provocatore). Se però l’errore
riguarda circostanze che attengono età o altre condizioni psichiche o fisiche della persona offesa, l’art.
60 ult. comma ripristina i criteri generali di imputazione ex art. 59 c. 2 c.p.

Differenza tra circostanze ad effetto comune e circostanze ad effetto speciale


Le circostanze ad efficacia comune sono caratterizzate dal fatto che, nel caso di concorso tra
circostanze, l’aumento o la diminuzione di pena è dipendente dalla pena ordinaria, nel senso che si
effettua una variazione frazionaria (fino a ⅓) della pena prevista per il reato semplice.
Le circostanze ad efficacia speciale (art 63 comma 3) sono quelle che comportano o un aumento o
una diminuzione della pena superiore ad ⅓.
L’art 63 comma 3 stabilisce inoltre che se interviene una circostanza ad efficacia speciale o una
circostanza che determina una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e contestualmente
interviene un’altra circostanza (attenuante o aggravante), questa comporterà l’aumento o la
diminuzione della pena già stabilita dalla circostanza ad efficacia speciale o da quella che ha
determinato una pena di specie diversa da quella ordinaria.

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Concorso tra circostanze
Si può avere concorso omogeneo (compresenza di più circostanze o tutte aggravanti o tutte attenuanti)
o concorso eterogeneo (compresenza di più circostanze aggravanti e attenuanti insieme).
Nel caso di concorso omogeneo è necessario distinguere tra circostanze ad efficacia speciale e
circostanze ad efficacia comune:
- Nel caso di circostanze ad efficacia comune, l’art 63 comma 2 afferma che l’aumento o la
diminuzione si opera sulla quantità di pena risultante dall’aumento o dalla diminuzione
precedente.
Fatti salvi i limiti previsti dall’art. 66, secondo il quale, se concorrono più circostanze
aggravanti, la pena da applicare per effetto degli aumenti non può superare il triplo del
massimo stabilito dalla legge e, in ogni caso, non può eccedere il limite di anni 30 di
reclusione e anni 5 di arresto. Se concorrono più circostanze attenuanti, la pena non può
essere inferiore a 10 anni se la pena prevista era l’ergastolo, mentre negli altri casi non può
essere inferiore a ¼.
- Nel caso di circostanze ad efficacia speciale, l’art. 63 c.4 stabilisce che se sono aggravanti si
applica la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla; il comma 5
dello stesso articolo dispone che se sono attenuanti si applica la pena meno grave, ma il
giudice può diminuirla.
Se il concorso omogeneo comprende alcune circostanze ad efficacia comune e altre ad
efficacia speciale, si applica l’art. 63 c.3 c.p.
Fuori dai casi di specialità, l’art. 68 c.p. dice che “quando una circostanza aggravante
comprende in sé un'altra circostanza aggravante, ovvero una circostanza attenuante
comprende in sè un’altra circostanza attenuante, è valutata a carico o a favore del colpevole
soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa,
rispettivamente, il maggiore aumento o la maggiore diminuzione di pena”.

Si ha concorso eterogeneo quando, ad un medesimo fatto di reato, accedono contemporaneamente


circostanze aggravanti e attenuanti.
L’originale formulazione dell’art. 69, a tal proposito, attribuiva al giudice il compito di procedere ad
un giudizio di prevalenza o equivalenza tra le circostanze eterogenee, applicando le sole circostanze
ritenute prevalenti o la sola pena che sarebbe stata inflitta in assenza di circostanze.
Questo giudizio di bilanciamento è stato previsto per consentire al giudice di avere una visione
completa del colpevole e del reato commesso, potendo così personalizzare la pena. Tuttavia, ciò era
limitato alle sole circostanze ad efficacia comune, in quanto quelle ad efficacia speciale erano già state
oggetto di valutazione da parte del legislatore. Dopo la riforma del ‘74 questo limite è venuto meno in
quanto oggi l’art. 64 afferma che le disposizioni relative al giudizio di prevalenza, si applicano anche
alle circostanze ad effetti speciali.

Tale mutamento, in termini dilatatori, ha trovato il suo fondamento nella volontà di attenuare
l’eccessivo rigore sanzionatorio di alcune fattispecie, tra cui i furti aggravati da circostanze speciali, in
origine esclusi da tale giudizio di prevalenza o equivalenza. Con tale riforma il legislatore ha delegato
al giudice il compito di adeguare il trattamento sanzionatorio alla mutata sensibilità sociale.

Il legislatore ha, però, omesso di indicare i criteri che devono guidare il giudice nel giudizio di
bilanciamento. Secondo l’orientamento prevalente, tali criteri dovrebbero essere ricavati dai parametri
di cui all’art. 133 utilizzati dal giudice in sede di commisurazione della pena, però, tale articolo
enuncia dei criteri senza fissare una gerarchia nell’eventualità di conflitto tra gli stessi. Sarebbe,
pertanto, da preferire l’opinione di minoranza secondo la quale il giudizio di comparazione andrebbe

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effettuato mettendo a reciproco confronto le circostanze eterogenee considerate in concreto e caso per
caso. Tale tendenza però, non consentendo un’applicazione generale, omogenea e certa dei criteri di
fonte normativa, finisce con l’attribuire al giudice un potere discrezionale eccessivamente ampio nella
valutazione delle circostanze.
Il legislatore, nel 2005, proprio allo scopo di vincolare il giudizio ad un maggiore rigore repressivo in
sede di comparazione, è intervenuto sull’art. 69 c.p. e, pur conservando il giudizio di equivalenza tra
circostanze equivalenti, ha introdotto un espresso divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti
su quelle aggravanti in due ipotesi:
 casi di recidiva reiterata;
 casi relativi alla determinazione al reato di persone non imputabili o non punibili.
Questa nuova regola ha suscitato forti riserve di ordine costituzionale, in quanto, impedisce, nei casi
considerati, di tener conto della personalità del colpevole, per un migliore adattamento della pena al
caso concreto, ed inoltre, escludendo arbitrariamente i recidivi reiterati da tale adeguamento, lede i
principi di uguaglianza e di individualizzazione del trattamento punitivo (ex art. 27 Cost.).

Circostanze attenuanti generiche

[Commisurazione della pena -> Il giudice commisura la sanzione anzitutto tra un minimo e un
massimo edittale secondo i criteri di cui all’art 133 c.p.
Successivamente, se vi sono delle circostanze attenuanti o aggravanti, determina l’entità della
variazione di pena connessa alla circostanza.
Per cui si può parlare di una struttura bifasica del meccanismo della determinazione della pena in
concreto.
Il giudice non può valutare doppiamente gli stessi elementi una volta ex art 133 e una volta a titolo di
circostanza altrimenti viola il principio del ne bis in idem sostanziale.]

L’art 62 c.p. elenca le circostanze attenuanti comuni e l’art 62 bis c.p. disciplina le circostanze
attenuanti generiche e dispone che “il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute
dall’art 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse qualora le ritenga tali da
giustificare una diminuzione della pena (…)” .
Secondo l'orientamento più tradizionale, l’art 62 bis rappresenterebbe un’appendice del 133 c.p.,
diretto a consentire una riduzione del minimo edittale della pena se questo si rileva sproporzionato
rispetto alla gravità del fatto e della personalità del colpevole.
Questa impostazione però va a vanificare la funzione autonoma dell’art 62 e lo rende un doppione
dell’art 133.
Per tale ragione va preferita l’opinione che attribuisce all’art 62 bis una funzione autonoma,
consistente nel permettere al giudice di cogliere un valore positivo del fatto nuovo o diverso rispetto a
quelli tipizzati dall’art 62 e non tipicizzabile a priori in linea astratta, ma desumibile solo dai casi
concreti.
Avendo una funzione autonoma, l’art 62 bis può essere applicato anche se la pena base è stata irrogata
in misura superiore al minimo e il fatto criminoso sia grave.
Anche in questo caso si applica il divieto della doppia valutazione per cui se un valore è già stato
preso in considerazione come criterio di commisurazione della pena ex art 133 non potrà essere
valutato anche come circostanza generica ex art 62 bis.

Alle attenuanti generiche si applicano tutte le norme che presiedono la disciplina delle circostanze in
senso tecnico e anche in presenza di più circostanze generiche queste vengono considerate sempre
come una sola circostanza soggetta al principio di bilanciamento.

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Restando inelencabili le circostanze attenuanti generiche, esemplificamente si più fare riferimento al
caso di una situazione nella quale non è applicabile la circostanza attenuante della speciale tenuità
perché il danno è modesto e non lievissimo oppure al caso di chi commette un reato in situazione di
bisogno economico.
La legge di riforma del 2005 ha introdotto un secondo comma all’art 62 bis che però è stato
dichiarato parzialmente incostituzionale dalla Corte Cost nel 2011.
Questo secondo comma prevede che nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche il giudice
non può tener conto dell’intensità del dolo o del grado della colpa (art 133, 1 comma n.3) o della
capacità a delinquere del soggetto (art 133, 2 comma) nel caso di recidiva reiterata (art 99, comma 4)
con riferimento ai reati di cui all’art 407, 2 comma c.p.p. (strage, guerra civile, ecc).

In questo modo il legislatore ha voluto ridurre la discrezionalità valutativa del giudice escludendo
di fatto la possibilità di tener conto dei criteri di tipo soggettivo e dando allo stesso la possibilità di
valutare soltanto i parametri di carattere oggettivo come la gravità del danno, natura del reato, mezzi
utilizzati ecc.
Questa scelta appare criticabile perché da un lato appare irragionevole, in quanto non si comprende
quale sia la logica che consente di derogare la regola generale secondo la quale il legislatore fa
dipendere la valutazione giudiziale della gravità del reato dall'utilizzo di criteri sia di carattere
oggettivo che di carattere soggettivo; dall’altro sembra in contrasto con il principio di rieducazione
nella parte in cui fa divieto di utilizzare il criterio del comportamento tenuto dopo la commissione del
fatto di reato ai fini della concessione delle circostanze generiche al recidivo reiterato. Per queste
ragioni e con riferimento a questi punti è stato dichiarato parzialmente incostituzionale.

Il decreto sicurezza del 2008 ha poi introdotto un terzo comma all’art 62 bis, secondo il quale
l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato (la sua incensuratezza) non
può, solo per ciò, rappresentare il fondamento della concessione delle circostanze di cui al primo
comma.
In questo modo il legislatore ha sollecitato i giudici ad un maggior impegno nel motivare le ragioni
che giustificano le diminuzioni di pena, limitandone la discrezionalità in chiave anticlemenzialistica
nell’ambito di una generale tendenza all’inasprimento repressivo che caratterizza tale decreto.

La recidiva
Il testo originario dell’art. 69 c.p. stabiliva l’inflizione di un aumento di pena a chi, dopo essere stato
condannato per un reato, ne commetteva un altro.
Questo istituto è stato modificato dalla legge n.251 del 2005, al fine di evitare un eccesso di clemenza
dovuto al fatto che l'applicazione dell’istituto era rimessa discrezionalmente al giudice. Per tale
ragione, sono stati previsti aumenti di pena consistenti, ulteriori effetti giuridici e la recidiva è stata
trasformata da facoltativa in obbligatoria, seppur nel solo caso della recidiva reiterata obbligatoria,
restando, negli altri casi, nel potere discrezionale del giudice l’applicazione di tali aumenti di pena.
Questo istituto si applica soltanto ai delitti non colposi, con esclusione sia degli illeciti colposi che di
quelli contravvenzionali.
Se ci si interroga sul fondamento dell'istituto non è facile trovare delle risposte univoche.

Il fenomeno del recidivismo ha destato allarme soprattutto nella seconda metà dell’800, ma l'istituto ha
tardato ad affermarsi perché portava ad un’alterazione dell’equilibrio nel rapporto tra la pena e la
gravità del reato, sul quale insisteva la tradizionale dottrina ottocentesca. La recidiva è stata poi
prevista per soddisfare esigenze di prevenzione speciale ed infatti, l'aumento di pena trova

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giustificazione nel fatto che la misura della pena precedentemente inflitta si è rivelata insufficiente
nel distogliere il reo dal commettere nuovi reati.

La recidiva è stata anche intesa come indice della maggiore capacità a delinquere del soggetto;
quindi il reo recidivo, per il fatto stesso di persistere nell’illecito, dimostrerebbe una maggiore
insensibilità ai dettami dell’ordinamento e una maggiore propensione a delinquere in futuro.

Oggi è l’art. 99 c.p. a disciplinare la recidiva e ne prevede varie forme:


1. La recidiva semplice (art 99 comma 1) consiste nella commissione di un delitto non colposo a
seguito della condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo, indipendentemente dal
tempo trascorso dalla precedente condanna. L’aumento di pena previsto per questo tipo di
ipotesi è di ⅓ e non risulta più modificabile dal giudice. Presupposto necessario è che il
precedente sia stato accertato con sentenza definitiva di condanna e a nulla rileva il fatto che
la pena sia stata già effettivamente scontata. Ai fini della sussistenza della recidiva si tiene
conto anche delle precedenti condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione del
reato o della pena, come la prescrizione della pena o l’amnistia impropria, mentre non si
considerano le precedenti condanne per le quali sono intervenute cause estintive di tutti gli
effetti penali (es. riabilitazione).
2. La recidiva aggravata (art 99 comma 2) sussiste se il nuovo delitto non colposo è della stessa
indole (recidiva specifica) o è stato commesso entro 5 anni dalla condanna precedente (cd.
infraquinquennale) oppure è stato realizzato durante o dopo l’esecuzione della pena o
durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena. In
queste ipotesi la pena “può” (discrezionalità del giudice) essere aumentata fino alla metà e non
più fino ad un terzo.
Nel caso in cui, invece, concorrano più circostanze tra quelle che fanno da presupposto alla
recidiva aggravata, l’aumento di pena è (in questo caso obbligatorio, non facoltativo) della
metà.
 Si parla di recidiva aggravata specifica nel caso di reati della stessa indole. Sono
considerati tali non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di legge, ma
anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizioni diverse del codice o di leggi
diverse, per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinarono,
presentano, nei casi concreti, caratteri fondamentali comuni (art 101 c.p.).
Nell’ultimo caso, i caratteri fondamentali comuni vanno desunti da un confronto
tra i reati operato sotto un duplice aspetto:
I. natura dei fatti che li costituiscono: occorre accertare una sostanziale (e non
astratta) omogeneità dei fatti concreti considerati nelle effettive modalità di
realizzazione e nei risultati lesivi che ne conseguono (es. truffa-frode in commercio-
bancarotta fraudolenta);
II. motivi: occorre verificare se alla base dei diversi fatti criminosi vi sia una identica o
analoga motivazione psicologica (esempio: danneggiamento ed omicidio determinati
da uno spirito di vendetta mafiosa)
3. Si parla di recidiva reiterata (art 99 comma 3) quando il nuovo delitto non colposo è
commesso da chi è già recidivo. Sono previsti aumenti di pena:
- della metà in caso di recidiva reiterata semplice;

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- di ⅔ in caso di recidiva reiterata aggravata specifica o se è infraquinquennale o si riferisce
ad un delitto non colposo commesso durante o dopo l’esecuzione della pena oppure durante il
tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena stessa (ad es:
niko pandetta).

4. La l 251/2005 ha poi introdotto la nuova forma di recidiva reiterata obbligatoria (art 99


comma 5) che si riferisce al soggetto recidivo che commette uno dei delitti di cui all’art 407
comma 2 lett a) cpp (ad es. strage, guerra civile, associazione di tipo mafioso, ecc).
In questo modo, si pone una norma di diritto processuale a fondamento della disciplina di un
istituto di diritto sostanziale, senza un’apparente ragionevole motivazione politico-criminale.
Per tale ragione questo istituto desta perplessità, in particolare perché richiamando il 407
comma 2 fa riferimento alla recidiva anche nell’ipotesi di non omogeneità tra delitti
precedenti e quelli successivi e, d’altro canto, la pericolosità alla quale viene collegata
l’obbligatorietà della recidiva non è scientificamente sostenibile e non può riscontrarsi in tutti
i casi considerati.
Se i delitti di cui all’art 407 comma 2 lett. a) cpp vengono posti in essere nell’ambito delle
ipotesi di recidiva aggravata (di cui al 3 comma art 99 cp) allora l’obbligatorietà sta nel fatto
che l’aumento della pena, per il nuovo delitto, non può essere inferiore ai ⅔.

L’art. 99 comma 6 stabilisce, infine, che “in nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva
può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo
delitto non colposo”.

Per quanto riguarda la natura giuridica dell’istituto, la dottrina già in passato aveva contestato la
collocazione codicistica della recidiva tra le circostanze, sul presupposto che è concettualmente
difficile concepire come circostanze del fatto di reato uno status personale del soggetto derivante da
una precedente condanna per un altro reato. Infatti, tale carattere renderebbe la recidiva una sorta di
indice per la commisurazione della pena analogamente a quanto previsto dall’art 133 c.p.
L’orientamento prevalente in giurisprudenza, tra l’altro, limita la facoltatività al solo aumento di pena
ritenendo invece prodotti in automatico gli altri effetti minori in tema di liberazione condizionale
ecc., anche nel caso in cui venga meno l’aggravamento sanzionatorio.
Parte della dottrina, però, critica aspramente questo orientamento e sottolinea come sia poco
ragionevole ammettere che il giudice possa escludere l’effetto principale della recidiva ma, nello
stesso tempo, tenerne conto per gli effetti minori.

CAPITOLO 5 - DELITTO TENTATO


Premessa
Il concetto di consumazione esprime la compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di una
fattispecie criminosa: si è in presenza di un reato consumato tutte le volte in cui il fatto concreto
corrisponde interamente al modello legale delineato dalla norma incriminatrice.
Nei reati di mera condotta la consumazione coincide con la compiuta realizzazione della condotta
vietata (es. furto).
Nei reati di evento la consumazione presuppone, oltre al compimento dell’azione, anche la produzione
dell’evento (es. omicidio).
La determinazione del momento consumativo del reato assume rilevanza sotto diversi profili:
 individuazione della norma da applicare nel caso di successione di leggi penali nel tempo;
 inizio della decorrenza del termine di prescrizione;

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 amnistia e indulto, di solito concessi limitatamente ai fatti commessi fino al giorno precedente
la data della legge;
 competenza territoriale;
 applicazione della legge penale italiana rispetto a quella straniera.
Il concetto di consumazione funge anche da termine di riferimento rispetto alla figura del tentativo.

Delitto tentato
Il delitto tentato sussiste nei casi in cui l’agente non riesce a portare a compimento il delitto
programmato, ma gli atti parzialmente realizzati sono tali da esteriorizzare l’intento criminoso,
diversamente ci si troverebbe davanti un mero proposito delittuoso.
Il fondamento della punibilità del tentativo è costituito dall’esigenza di prevenire l’esposizione a
pericolo dei beni giuridicamente protetti > teoria cd. oggettiva. Risultano, invece, prive di
legittimazione teorica e politico criminale la teoria cd. soggettiva e le teorie cd. miste.

Le teorie soggettive, da un lato, sostennero che i fondamenti della punibilità andassero spostati dal
fatto materiale offensivo alla personalità dell’autore (come sintomo di pericolosità criminale).
Dall’altro, ricollegandosi ad una concezione tipica dei regimi totalitari, assumono a punto di
riferimento della punibilità la manifestazione di una volontà individuale ribelle alla volontà generale
dello Stato (l’azione tentata costituisce indice di una volontà ribelle).
Le teorie miste o eclettiche fanno convergere le due motivazioni soggettiva e oggettiva: il tentativo
risulta espressione di una volontà ribelle, ma vengono ritenute meritevoli di protezione soltanto quelle
manifestazioni di volontà ribelle in grado di scuotere la fiducia dei consociati nell’ordinamento penale.
Sviluppando queste concezioni si finirebbe col ritenere punibile il tentativo inidoneo, di fatto privo di
pericolosità.

La teoria oggettiva del fondamento della punibilità risulta preferibile perché legata all’esigenza che il
proposito criminoso si traduca in un comportamento materiale che, a sua volta, produca un’effettiva
lesione, o almeno una messa in pericolo del bene protetto obiettivamente accertabile.
A tal proposito, l’art. 56 individua il requisito dell’idoneità dell’azione, rapportando la stessa
all’attitudine della condotta materiale ad aggredire il bene tutelato. Contrariamente, è l’art. 49 a parlare
di reato impossibile per inidoneità dell’azione, confermando che non trova riscontro nel nostro
ordinamento (“la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per la inesistenza
dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso”).
Dal punto di vista dell'incidenza sugli interessi penalmente tutelati, la consumazione riflette la lesione
effettiva, mentre il tentativo la lesione potenziale del bene oggetto di protezione, giustificando la
minore severità del trattamento penale di quest’ultimo alla luce del minor grado di aggressione al
bene. Il delitto tentato, pur presentando tutti gli elementi necessari per l’esistenza del reato (fatto
tipico, antigiuridicità e colpevolezza), in conseguenza del minore livello di offensività nell'esposizione
a pericolo del bene, rappresenta, rispetto al delitto consumato, un delitto di minore grado. La
configurazione del delitto tentato come titolo autonomo di reato nasce dalla combinazione della
norma incriminatrice di parte speciale che eleva a reato un determinato fatto con l’art. 56 che svolge
una funzione estensiva della punibilità perché reprime fatti che si mantengono al di sotto della soglia
della consumazione.

L’inizio dell’attività punibile


Particolari problemi solleva la determinazione dell’inizio dell’attività punibile poiché quanto più la
soglia della punibilità (cronologicamente) arretra, tanto più vi è il rischio di considerare penalmente

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rilevanti comportamenti innocui o meri propositi delittuosi; viceversa, si va incontro al rischio opposto
di frustrare le esigenze preventive che l’istituto del tentativo dovrebbe soddisfare.
Ma se la soglia della punibilità sarà raggiunta soltanto in coincidenza con la messa in pericolo del bene
protetto, quando una manifestazione di volontà criminosa produce una situazione di pericolo per un
bene tutelato?
Nell’ottocento liberale si cercò di dare una risposta ispirata alla massima garanzia della libertà
individuale, prospettando un criterio di distinzione tra atti meramente preparatori ed atti esecutivi. Il
codice Zanardelli identificava il tentativo col “cominciamento dell’esecuzione” del delitto
programmato, considerando dunque penalmente irrilevanti tutti gli atti preparatori in quanto non
ancora aggressivi del bene protetto.
Tuttavia, nella prassi giudiziaria la distinzione tra atti preparatori (non punibili) ed esecutivi (punibili
come tentativo) si rivelò incerta (ad es: nel delitto di omicidio, l’atto esecutivo coincide col momento
in cui l’agente si apposta, con quello in cui prende la mira o con quello in cui preme il grilletto?)
Per risolvere detto problema sono stati proposti criteri diversi, nessuno dei quali però in grado di
pervenire a risultati applicativi sempre soddisfacenti.

In particolare, tre sono i criteri di maggior interesse:


 dell’univocità > che definisce esecutivi solo gli atti univoci mentre ritiene preparatori tutti gli
atti che, sebbene idonei rispetto alla commissione del reato, sono contrassegnati da una
perdurante equivocità;
 dell’aggressione della sfera del soggetto passivo > che considera preparatori tutti gli atti che
rimangono nella sfera del soggetto attivo ed esecutivi quelli che riescono ad invadere la sfera
personale del soggetto passivo.
Tuttavia, da un lato risulta assai generico lo stesso concetto di sfera del soggetto passivo,
dall’altro detta sfera manca fin dall’inizio nell’ambito dei reati a soggetto passivo pubblico o
indeterminato.
 dell’azione tipica (o della teoria formale oggettiva) > che qualifica esecutivi solo gli atti che
danno inizio all’esecuzione della condotta descritta dalla fattispecie di parte speciale.
Questa teoria solleva però delle obiezioni in quanto, da un lato, si finisce restringere troppo
l’ambito di punibilità del tentativo, e, dall’altro, con riferimento ai reati causali (come
l’omicidio), non è agevole individuare quando abbia inizio l’azione tipica.
Per questo motivo la teoria della tipicità è stata revisionata ad opera della cosiddetta “teoria
materiale oggettiva”, secondo la quale sono puniti a titolo di tentativo anche gli atti prossimi
o contigui a quelli tipici oppure gli atti strettamente connessi od omogenei e coerenti rispetto a
quelli tipici. Si tratta però, ancora, di una teoria di difficile applicazione nel settore
problematico dei reati causalmente orientati come l’omicidio, essendo pressoché impossibile
distinguere tra atti preparatori e atti prossimi all’azione tipica nella serie causale che conduce
all’evento morte.

A causa delle difficoltà riscontrate in ordine alla differenziazione tra atti preparatori ed atti esecutivi, il
legislatore del 1930 ha abbandonato il criterio tradizionale dell’inizio dell’esecuzione.
L’art 56 cp dispone che “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un
delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione o l’evento non si verifica”.
L’attuale definizione del delitto tentato fa leva sul duplice requisito dell’idoneità e dell'univocità degli
atti. La questione, però, non è risolta, in quanto non è sufficiente stabilire se l’art 56 c.p. abbia
superato il problema della distinzione tra atti preparatori ed atti esecutivi; il vero punto dolente
dell’incriminazione del tentativo sta nella preoccupazione che l’istituto possa essere manipolato in

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senso illiberale: cioè è necessario domandarsi, caso per caso, se l’azione posta in essere sia idonea a
comportare una plausibile esposizione a pericolo del bene protetto.

Idoneità degli atti


L’art. 56 comma 1 stabilisce che si ha tentativo se “l’azione non si compie” (ad es. omicida sorpreso
mentre sta per pugnalare) o "l'evento non si verifica” (ad es. non si verifica l’omicidio a causa di un
errore di mira).
La duplice previsione allude alla contrapposizione tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto.

La ricostruzione del tentativo si fonda sulla determinazione del significato non equivoco da attribuire
alla espressione “atti idonei diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto”.
A differenza che nel codice del 1889, l’idoneità è riferita non al mezzo ma all’atto:
 mezzo→ strumento utilizzato per commettere un delitto
 atto→ impiego del mezzo
Così, ad un mezzo in astratto idoneo può corrispondere un atto inidoneo e viceversa (uno spillo è
inidoneo ad uccidere un uomo a meno che non si tratti di un emofiliaco).

Rimane da capire come intendere il concetto di idoneità dell’atto.


Il requisito dell’idoneità è ormai riconosciuto, unanimemente, come requisito avente natura oggettiva,
seppur non sempre si converga sul suo preciso contenuto.
In passato si era soliti risolvere il concetto di idoneità in quello di efficienza causale: gli atti realizzati
dovrebbero essere capaci di cagionare l’evento del reato preso di mira.
Ma l’idoneità a produrre l'evento non si può intendere in senso stretto causale perché nel delitto tentato
manca l’evento del corrispondente delitto consumato, per cui viene a mancare uno dei presupposti
necessari per l’esistenza di un rapporto eziologico.
Se si adottasse un ottica di tipo causale, il giudizio sull’idoneità dovrebbe compiersi ex post → non vi
sarebbe tentativo punibile proprio perché il mancato verificarsi dell'evento dovrebbe costituire prova
dell’inidoneità degli atti compiuti per cagionarlo.
Peraltro, il concetto di idoneità in chiave causale presupporrebbe che tutti i reati presentino nella loro
struttura un evento naturalistico, ma allora i reati di mera condotta?

Oggi si concorda nel ritenere che il parametro di accertamento dell’idoneità consiste in un giudizio
ex post e in concreto: il giudice deve, collocandosi idealmente nella stessa posizione dell’agente
all’inizio dell’attività criminosa, accertare - sulla base di una valutazione operata in base alle
conoscenze dell’uomo medio, arricchite eventualmente delle maggiori conoscenze dell’agente
concreto - se gli atti erano in grado di sfociare nella commissione del reato: è il criterio della cd.
prognosi postuma. Il giudizio viene effettuato dopo la commissione degli atti del tentativo ma
ponendosi con la mente nel momento iniziale dell’attività delittuosa, perché solo così è possibile
accertare se l'agente in concreto sia in possesso di conoscenze ulteriori rispetto a quelle dell’uomo
medio (es. se sapeva che l'uomo a cui ha dato un cucchiaino di zucchero, uccidendolo, era diabetico).
Il criterio della prognosi postuma può essere applicato effettuando il giudizio di idoneità o su base
parziale o su base totale:
I Il giudizio di idoneità su base parziale → accolto dall’orientamento maggioritario, secondo
cui il giudizio tiene conto solo delle circostanze conosciute e conoscibili al momento
dell’azione, da un uomo avveduto pensato al posto dell’agente concreto e non tiene conto
delle circostanze eccezionali oggettivamente presenti sin dall’inizio, ma conosciute dopo (es.
il borseggiatore con la mano nella tasca della vittima risponde di tentativo di furto anche se
non sapeva che la tasca fosse vuota).

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Questo criterio tende a contemperare la dimensione di pericolosità del tentativo con l’esigenza
di prevenzione generale, evitando che il reo possa beneficiare dell’impunità per effetto di
circostanze difficilmente conoscibili o prevedibili al momento del fatto e che fanno venire
meno la pericolosità dell’azione tentata.
II. Il giudizio di idoneità su base totale → secondo un orientamento minoritario, per accertare
l’idoneità dell’azione occorre prendere in esame tutte le circostanze già presenti al momento
del fatto, anche se conosciute in un momento successivo, coerentemente con la tesi che
ravvisa il fondamento della punibilità nell’esigenza di prevenire l’effettiva esposizione a
pericolo dei beni protetti (es. borseggiatore non verrebbe punito nel caso di cui sopra).

Non c’è unitarietà di vedute circa il grado o livello di idoneità necessario ai fini della configurazione
del tentativo punibile.
Le posizioni emergenti al riguardo si differenziano in base alla diversa misura di idoneità richiesta:
 atti posti in essere rendono meramente possibile il verificarsi dell’evento
 ci si appaga di una ragionevole possibilità di raggiungere il risultato
 idonea l’azione adeguata rispetto all’evento voluto
 verosimile la capacità dell’atto rispetto allo scopo criminoso
 probabilità di verificazione del reato

Considerato nella sua portata lessicale, il termine idoneità può essere identificato sia con la semplice
possibilità che con la probabilità di verificazione del risultato delittuoso preso di mira.
Per giungere alla soluzione più corretta, il ragionamento si deve muovere a partire dall’esigenza di
impedire la messa in pericolo del bene giuridico. Coerenza impone, allora, di escludere che il grado di
sufficienza dell’idoneità coincida con la semplice non impossibilità di consumazione del fatto
delittuoso perché, posto che il pericolo presuppone la probabilità di verificazione dell’evento lesivo,
per potere plausibilmente sostenere che gli atti di tentativo realizzato pongono in pericolo il bene
protetto, è necessario accertare la rilevante attitudine a conseguire l’obiettivo, la quale deve essere
più vicina alla probabilità che alla mera non impossibilità.

Chiarito come debba intendersi il parametro dell’idoneità degli atti, rimane il problema di specificarne
e concretizzarne la portata sia in rapporto alle diverse fattispecie delittuose che alle ipotesi concrete
che vengono al vaglio dei giudici.
Ne reati causalmente orientati come omicidio e lesioni personali, il giudizio di idoneità della condotta
esecutiva viene effettuato alla stregua di criteri di esperienza relativi alla realtà fisica.
Caso 40: la figlia, che nutre rancore verso il padre contadino, versa delle dosi di veleno nella bottiglia
del suo vino (in misura sufficiente a cagionarne la morte); il contadino ne ingerisce alcuni sorsi ma
accorgendosi dell’aspetto torbido e del gusto leggermente diverso, lo travasa in un altro recipiente per
fargli acquistare l'originaria limpidezza. In conseguenza della dose bevuta accuserà solo dolori allo
stomaco. In questo caso è ovvio che il veleno sia un mezzo idoneo allo scopo e non vi sono nemmeno
alterazioni all’aspetto del vino così manifeste da fare obiettare che sarebbe stato facilmente percepibile
l’avvelenamento; si potrebbe replicare che l’intorbidimento e la lieve diversità del gusto non sono
circostanze così allarmanti da ingenerare ragionevoli sospetti di avvelenamento. In questo caso
bisogna, però, tenere conto non solo delle circostanze relative all’avvelenamento ma anche di quelle
che riguardano soggettivamente le abitudini di vita del soggetto passivo.
L’idoneità della condotta va esclusa ni casi in cui ad es. per compiere un omicidio si usi una pistola a
salve.

Univocità degli atti

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La funzione di univocità degli atti come ulteriore requisito strutturale del delitto tentato viene delineata
dall’art. 56 che, col richiedere il requisito dell’univocità o non equivocità degli atti, tende ad impedire
l’eccessiva dilatazione dell’istituto del tentativo, nella quale si ricadrebbe qualora si punissero atti
privi dell’attitudine a esprimere una chiara intenzione criminosa.

Quando un atto è diretto in modo non equivoco a commettere un reato?

Si registrano più orientamenti.

Secondo la concezione cd. soggettiva, il requisito dell’univocità fa riferimento ad un criterio di prova,


indicando l’esigenza che, in sede processuale, sia raggiunta la prova del proposito criminoso. La prova
in questione può essere desumibile oltre che dall’atto in sé considerato, anche in altro modo (dai
precedenti e dalla personalità, dell’eventuale confessione, ecc.).

Tuttavia, si obietta che in questo modo l’esigenza di provare la volontà criminosa discenderebbe
comunque dalle regole generali in tema di elemento soggettivo del reato, mentre il requisito della
inequivocità cui allude l’art. 56 si riferisce alle sole ipotesi di delitto tentato.

Secondo la concezione cd. oggettiva, il requisito dell’univocità va considerato come una caratteristica
oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono possedere, a fronte del contesto
in cui sono inseriti, l’attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito.

Concependo l’univocità in tal senso, si rischia di restringere l’ambito di operatività del tentativo, dato
che soltanto in una minoranza di casi gli atti realizzati porterebbero, in se stessi, i segni del delitto
programmato.

Si deve precisare che non si esclude che la prova del fine delittuoso possa essere desunta in qualsiasi
modo, applicando i canoni probatori in tema di elemento soggettivo del reato. Solo che, una volta
conseguita la prova del fine verso cui tende l’agente, è necessaria una seconda verifica: bisogna
accertare se gli atti riflettono in maniera congrua la direzione verso la quale tende il fine criminoso.

Ad esempio, nel caso relativo al venditore ambulante, non è sufficiente, ai fini della configurazione
del tentativo di truffa, l’ammissione dell’ambulante di voler destinare alla vendita le false scatole di
sigarette, ma che le stesse siano effettivamente tolte dall’automobile e offerte in vendita; solo in
questo caso il proposito potrebbe tradursi in un atto diretto a trarre in inganno i potenziali
compratori.

L’univocità degli atti sarebbe in re ipsa nel caso in cui non ci sia bisogno di un previo accertamento
della volontà criminosa (caso 42 > rapina in banca), dato che dalle modalità di esecuzione del fatto si
evince la volontà criminosa (calze per mascherarsi, guanti per non lasciare impronte, sacchi per riporvi
la refurtiva ecc.)

Per accertare l’univocità è possibile seguire la cd. teoria materiale oggettiva individuale che fa
riferimento al concreto piano criminoso dell’agente, cioè considera univoci quegli atti che, secondo il
programma criminoso ideato dall’agente nella situazione concreta, si collocano come prossimi o
contigui all’azione esecutiva del reato. Questa impostazione rende necessaria una verifica processuale
(non sempre agevole) del piano delittuoso di volta in volta elaborato, essendo comunque normalmente
individuabili criteri generali orientativi riferibili ai vari tipi di reato che vengono in questione. Per
esempio, non costituisce ancora tentativo punibile il semplice procacciamento degli strumenti con cui

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si agirà (come l’acquisto della pistola con cui si ucciderà o l’automobile che si utilizzerà nell’ambito di
una rapina).

Lo stesso vale con riguardo alla ricerca del luogo adatto all’esecuzione del reato o all’eliminazione
degli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione: ad es non può essere considerato furto
punibile a titolo di tentativo il fatto che Tizio si sia recato nei pressi della banca il giorno prima della
rapina.

Elemento soggettivo

Nel nostro ordinamento il tentativo è punibile solo a titolo di dolo e non anche a titolo di colpa,
perché se si muove dal concetto di tentativo come atto intenzionalmente diretto ad un risultato,
ipotizzare un tentativo involontario appare incongruente sotto un profilo logico.

Ci si chiede se il dolo del tentativo sia lo stesso del dolo della consumazione: questa considerazione
ha importanti rilievi pratici se si considera che, accogliendo la tesi dell’identità strutturale tra i due tipi
di dolo, questo comporterebbe che anche il tentativo è realizzabile con tutte le forme di dolo che si
configurano nella consumazione, compreso quello eventuale: es. Tizio dà fuoco ad una palazzina
prevedendo ed accettando il rischio che nella stessa vi dorma in quel momento una persona anziana;
può rispondere di tentato omicidio? Sempronio, per sfuggire alla cattura, spara alle gambe di un
agente pur presentandosi la possibilità che possa colpirlo mortalmente: risponde di tentato omicidio
o solo di lesione personale?

Ci sono due diversi orientamenti:

I. parte minoritaria della dottrina e giurisprudenza dominante, in passato, ritenevano che il nostro
ordinamento non contiene nessuna norma che distingue esplicitamente questi due tipi di dolo e che,
pertanto, essendo la differenza tra tentativo e consumazione circoscritta al solo piano della struttura
oggettiva, si dovrebbe concludere che dolo del tentativo e della consumazione sono identici.

Sulla base di una concezione oggettiva dell’univocità, si osserva che, essendo la direzione non
equivoca degli atti una caratteristica che inerisce solo il tentativo, essa non dovrebbe riflettersi anche
nel dolo sotto forma di intenzione diretta a commettere il reato.

Si è adottato questo orientamento rigoristico anche perché:

 rispondeva ad esigenze generalpreventive che portavano la giurisprudenza a preferire il


trattamento sanzionatorio più rigoroso;
 sul piano probatorio c’era una semplificazione nelle ipotesi in cui ci si trovava davanti a
comportamenti equivoci, così dispensando i giudici dalla ricerca della effettiva intenzione
dell’agente e accontentandosi della presunzione secondo la quale l’agente fosse ben
consapevole della possibilità di causare eventi lesivi più gravi di quelli voluti.

II. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza più recente accolgono la tesi secondo la quale
tentativo e dolo eventuale sono incompatibili: se si riduce l’univocità all'esigenza di provare in
giudizio l’intenzione criminosa dell’agente, la non equivocità della condotta finisce col coincidere con
la prova di una volontà intenzionalmente diretta a commettere il reato.

Due argomentazioni:

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 la fattispecie del tentativo è strutturalmente autonoma rispetto alla corrispondente fattispecie
del reato consumato, per cui il dolo del tentativo non può che essere diverso da quello del
reato consumato.
 rimane ferma l’incompatibilità strutturale del dolo del tentativo con quella del dolo del reato
consumato perché nel tentativo è insita una tendenza diretta verso uno scopo e non la mera
accettazione del rischio che un evento si possa verificare. Il comportamento materiale deve
essere necessariamente correlato al corrispondente atteggiamento psicologico, una volontà
diretta a conseguire il risultato criminoso preso di mira; la direzione finalistica deve essere
certa, mentre non può certo dirsi univoco il comportamento che l’agente realizza senza tendere
a realizzarlo ma solo accettando il rischio della sua verificazione.

Il problema della configurabilità del tentativo nell’ambito delle varie tipologie delittuose

La configurabilità del delitto tentato dipende dalla possibilità di rendere compatibili i requisiti dell’art.
56 con le caratteristiche oggettive dei vari tipi delittuosi presi in considerazione.

1. Contravvenzioni: il tentativo, per espressa disposizione di legge, non è ammissibile (l’art. 56


parla solo di delitti); a fondamento di questa conclusione vi sono motivazioni di ordine
politico-criminale, riferite alla minore gravità delle contravvenzioni che rende inopportuna la
loro perseguibilità anche a titolo di tentativo.
2. Delitti colposi: tentativo inammissibile per motivi strutturali. Se la colpa si connota per
l’assenza di volontà delittuosa, sarebbe contraddittorio ammettere che il tentativo possa
coesistere con l’assenza dell'intenzione di commettere il reato.
3. Reati omissivi: controversa ammissibilità.
4. Delitto preterintenzionale: inammissibile perché se il soggetto passivo sopravvive, la
responsabilità rimane circoscritta alla lesione o percosse in assenza di volontà omicida.
5. Reati unisussistenti: non consentono la frazionabilità del processo esecutivo in più atti perché,
compiuto l’unico atto che costituisce il delitto, l’azione criminosa è completa.
6. Delitti di attentato o delitti a consumazione anticipata (strage): in questi modelli delittuosi il
tentativo equivale già a consumazione e sarebbe un nonsenso ipotizzare atti idonei diretti in
modo non equivoco a commettere atti diretti a…
7. Reati di pericolo: discussa la configurabilità del tentativo; anche se parte della dottrina ritiene
prospettabile la realizzazione in forma tentata di alcun reati di pericolo (es. minaccia tentata
che consiste nella spedizione di una lettera minatoria intercettata dopo la spedizione), si deve
condividere la tesi negativa sul presupposto che punire il tentativo di un reato di pericolo
equivarrebbe a reprimere il pericolo di un pericolo, finendo così ad anticipare eccessivamente
la soglia della punibilità.
8. Reati aggravati dall’evento: tentativo ipotizzabile le volte in cui l'evento ulteriore può
realizzarsi indipendentemente dall’esaurimento della condotta vietata (es. morte della donna in
seguito a tentativo di aborto).
9. Reati condizionati: la configurazione del tentativo dipende dal verificarsi della condizione
obiettiva di punibilità indipendentemente dal perfezionarsi della condotta tipica.
10. Reati abituali: tentativo escluso perché le singole azioni non assumono rilevanza penale
autonoma.
11. Reati permanenti: tentativo possibile a condizione che la condotta positiva sia frazionabile.

Tentativo e circostanze

Dibattuta è la questione dei rapporti tra tentativo e circostanze. Alcuni fanno una distinzione tra:

109
 tentativo circostanziato di delitto → quando le circostanze si realizzano compiutamente (o in
parte) nel contesto della stessa azione tentata; qui non c’è nessun dubbio di compatibilità tra
tentativo e circostanze (es. si applica l’aggravante del rapprto di parentela anche nel caso di
tentato omicidio perché la parentela preesiste sia al tentativo che alla consumazione).

Le riserve sembrano già più giustificate se si considera l’ipotesi di tentativo circostanziato di delitto
caratterizzato da una realizzazione solo parziale delle circostanze (es. omicidio tentato accompagato
da atti diretti a seviziare).

 tentativo di delitto circostanziato → quando un delitto, se fosse giunto a consumazione,


sarebbe stato qualificato dalla presenza di una o più circostanze.

Questa figura è stata riconosciuta dalla giurisprudenza soprattutto a proposito delle circostanze del
danno patrimoniale di rilevante gravità o di speciale tenuità, in base alla valutazione prognostica che
l’iter consumativo del reato avrebbe realizzato con certezza gli elementi costitutivi della circostanza.

Le riserve trovano fondamento sia nel fatto che il principio di legalità impone che le circostanze
vadano applicate solo in presenza di presupposti esplicitamente previsti dalla legge e sia nei limiti di
carattere strutturale, perché le circostanze relative all’evento consumativo sono compatibili solo con la
compiuta realizzazione dell’illecito (come conosco l'entità del danno al patrimonio se il danno non si
è verificato?).

Si deve concludere, pertanto, che le uniche circostanze compatibili col tentativo sono quelle che si
realizzano compiutamente nello stesso contesto dell’azione tentata.

Desistenza e recesso attivo


Ad impedire la consumazione del reato può essere anche un’iniziativa dello stesso agente che,
mutando proposito, recede dall’azione criminosa già intrapresa. Al riguardo l’art. 56 c. 3 stabilisce che
“se il colpevole volontariamente desiste dall’azione soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti
qualora questi costituiscano di per sé un reato diverso” (desistenza volontaria); l’art. 56 c. 4
stabilisce che “se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto
tentato, diminuita da ⅓ alla metà” (recesso attivo).
Entrambi, secondo la nostra dottrina, trovano fondamento politico criminale nella teoria del cd. ponte
d’oro, cioè l’ordinamento fa leva sulla promessa di impunità, nel caso di desistenza, o di riduzione di
pena, nel caso di recesso attivo, come controspinta psicologica alla spinta criminosa.
A questa teoria sono state mosse due obiezioni di fondo:
1. la funzione di incentivo per l’interruzione dell’attività criminosa, presuppone che tutti i rei
conoscano la norma sulla desistenza;
2. Il soggetto che delinque è solitamente spinto da motivi di natura diversa e, spesso, non è
capace di valutare razionalmente i pro e i contro delle sue azioni.
Questa obiezione, però, non fa destituire di ogni fondamento la teoria, perché, se si dicesse che le
motivazioni di chi delinque non corrispondono mai a calcoli razionali, si dovrebbe escludere già in
partenza la soluzione deterrente della minaccia penale.
Il fondamento della desistenza può essere ravvisato, sul piano sostanziale, nel principio della
prevenzione generale: chi ritorna di sua iniziativa sui suoi passi, non rappresenta un esempio

110
pericoloso per gli altri, e nel principio della prevenzione speciale: mostra inoltre di non possedere una
volontà criminosa di tale intensità da giustificare il ricorso ad una pena rieducativa.
Per affermare che la desistenza escluda la pena è necessario che questa sia volontaria, cioè espressione
di un autentico ravvedimento, e non semplicemente libera da costrizioni esterne.
La distinzione tra desistenza e recesso si basa sulla separazione tra tentativo compiuto e tentativo
incompiuto: si ha desistenza volontaria quando l’agente recede da un’azione che non ha ancora
completato il suo iter esecutivo (es. il ladro che interrompe l’azione furtiva prima di impossessarsi
materialmente degli oggetti presi di mira); si ha, invece, recesso attivo tutte le volte in cui l’azione
criminosa sia realizzata ma l’agente riesce ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo (es. tizio ferisce
gravemente Caio ma ne impedisce la morte chiedendo l’intervento di un medico).
Questo criterio che distingue desistenza e recesso attivo sulla base dell’esaurimento o no dell’azione
esecutiva è applicabile ai casi normali ma desta perplessità con riferimento ad alcuni casi-limite: ad
esempio, il caso della donna che si sottopone ad un trattamento a fini abortivi e in un secondo
momento, si sottrae volontariamente allo stesso, evitando che l’aborto si verifichi. In questa ipotesi la
Cassazione ha sostenuto talvolta che si tratti di desistenza non punibile e talvolta di recesso attivo
meritevole di una semplice attenuazione di pena.
Un altro caso criticare è quello della donna che, spinta dal proposito di uccidere il marito dormiente,
apre il rubinetto del gas ed esce di casa; pentitasi poco dopo, avverte la polizia che riesce a salvare
l’uomo in quanto il gas non aveva ancora prodotto i suoi effetti nocivi. Benché in questo caso l’azione
criminosa si è completata e quindi si dovrebbe parlare di recesso attivo (riduzione di pena), il
pentimento della donna non denota una meritevolezza minore di quella riscontrabile nel caso di
mancato completamento dell’iter esecutivo. Apparirà, quindi, applicabile il criterio della d’esistenza
(impunità). Di queste situazioni limite particolarmente complesse s è resa conto la giurisprudenza,
tentando di rimediare tramite artifici argomentativi; risulta però auspicabile una riforma legislativa.
Desistenza e recesso attivo per essere efficaci devono verificarsi volontariamente. Secondo dottrina e
giurisprudenza. Quasi all'unanimità, il requisito della volontarietà prescinde dal giudizio sulla
meritevolezza dei motivi che inducono l’agente a mutare proposito, cioè è sufficiente che la rinuncia
all’azione criminosa dell’agente non sia imposta da circostanze esterne (es. resistenza della vittima,
intervento della polizia) e non che sia necessariamente espressione di un autentico ravvedimento. E’
necessario, però, individuare i criteri da adottare per determinare quando la scelta dell’agente sia libera
o imposta dall’esterno. Nella prassi si afferma che, talvolta, la libertà è esclusa da fattori esterni che
rendono irrealizzabile l’impresa criminosa; talvolta, che la scelta è coartata quando la situazione
appare talmente rischiosa, che nessuna persona ragionevole sarebbe disposta ad andare fino in fondo.
Tentativo ed attentato
I delitti di attentato sono caratterizzati dal fatto che il legislatore ha considerato reato perfetto il
compimento di “atti diretti” ad offendere un bene ritenuto meritevole di protezione anticipata, in
quanto di rango particolarmente elevato. Si utilizza la figura dell’attentato soprattutto nell’ambito dei
delitti contro la personalità dello Stato.
In mancanza di una disposizione di parte generale che lo regoli, ci si chiede se il delitto di attentato
punisca già l’attività preparatoria oppure subordini la rilevanza penalistica alla presenza degli elementi
strutturali del tentativo (e cioè anche “all'idoneità” degli atti medesimi).
Il codice Zanardelli considerava irrilevanti gli atti preparatori, mentre solo quelli esecutivi potevano
configurare sia l’uno che l’altro tipo delittuoso. Il codice Rocco, invece, in aderenza alla sua logica
repressiva, ha fatto retrocedere la soglia della punibilità ad una fase precedente equiparando, a livello

111
di attività preparatoria, la punibilità del tentativo e dell’attentato. Tuttavia, mentre per il tentativo si
è imposta una interpretazione restrittiva che richiede per la sua punibilità un’attività sostanzialmente
esecutiva, per l’attentato, invece, conferendogli l’autonomia strutturale rispetto al tentativo, tende a
colpire anche gli atti più remoti, purché espressione di una volontà intesa a ledere il bene protetto.
Successivamente, una volta riaffermato il principio di offensività, dottrina e giurisprudenza hanno
interpretato la formula “fatto diretto a” come “fatto idoneo diretto a” e la formula “chiunque attenta a”
come equivalente dell’altra “chiunque compie atti idonei a”, valorizzando il requisito dell'idoneità
presente nella struttura del tentativo.
Per concludere, oggi l’opinione dominante rileva una omogeneità strutturale tra tentativo ed attentato e
che, per la punibilità dell’attentato, occorre che l’attività sia anche essa idonea a ledere il il bene
protetto (con esclusione quindi delle mere attività preparatorie).
Reato impossibile
L’ art 49, comma 2, stabilisce che la punibilità è esclusa “quando, per la inidoneità dell’azione o per
la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. L’ultimo comma
aggiunge che “il giudice può ordinare che l’imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza”
(libertà vigilata).
Secondo l’interpretazione tradizionale questa disposizione è superflua perché esprime in negativo i
requisiti già richiesti per la punibilità del tentativo, in quanto il reato impossibile altro non sarebbe che
un tentativo impossibile.
Non pochi autori ritengono, però, di poter desumere dall’arresto 49 c.p. un principio non limitato al
campo del tentativo, ma di portata generale che funge da criterio ispiratore della concezione (cd.
realistica) per la quale non può esservi reato senza una lesione o una messa in pericolo effettiva del
bene protetto. Pertanto, di fronte a condotte formalmente conformi alla fattispecie incriminatrice, ma
di fatto innocue perché assolutamente incapaci di ledere l’interesse protetto, il ricorso al 2º comma dell
art 49 porta ad escludere l’esistenza del reato con conseguente punibilità del fatto.
Secondo altri il reato impossibile è un istituto che presenta elementi autonomi, in quanto:
- l’idoneità di cui all’art 49 non si riferisce agli atti come nell’art 56 c.p., ma all’azione (es. omicidio:
è reato impossibile se ti sparo con una pistola a salve; è tentato omicidio se ti sparo mancando la
mira)
- non si spiega come mai, considerato che l’art. 56 non contempla le contravvenzioni, chi commette
atti diretti in modo non equivoco a commettere una contravvenzione può subire una misura di
sicurezza ex art. 49 ult. comma e non risponde di tentativo (perché il 49 è applicabile alle
contravvenzioni e il 56 no.
Tuttavia, detta tesi subisce due obiezioni:
Anzitutto, l’art 49 c.p. non individua quando sussiste la lesione o la messa in pericolo del bene
protetto, in quanto non si esprime sulla natura degli interessi tutelati, così divenendo necessario
desumerli dalle singole fattispecie incriminatrici.
Ciò posto, emerge la seconda obiezione: se il bene protetto deve essere desunto dalle singole
fattispecie incriminatrici, come può una condotta integrare la fattispecie incriminatrice ma, allo stesso
tempo, non essere lesiva di quel bene che la fattispecie ha voluto proteggere?
Così facendo, però, si metterebbe a rischio lo stesso stato di diritto perché il giudice, che di regola
deve limitarsi all’applicazione delle norme, dovrebbe spingersi sino a valutare la effettiva lesività di

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una condotta, di per sé conforme ad una fattispecie incriminatrice (valutazione di offensività di
pertinenza del legislatore), così confondendo le funzioni giudiziaria e legislativa.
Per comprendere la vera funzione dell’art 49 c.p. si devono considerare le ragioni storiche che ne
hanno determinato l’introduzione. Il legislatore del 1930 ha, infatti, fugato ogni dubbio in merito alla
irrilevanza penale del tentativo assolutamente inidoneo in concreto a mettere in pericolo il bene
protetto, a fronte del fatto che il pericolo insito nel tentativo deve essere veramente esistito come fatto,
cioè come possibilità reale di offesa. Se ne ricava che quando un fatto astrattamente idoneo a
raggiungere l’obiettivo criminoso perseguito, non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto
consumato sulla base di circostanze che ne rendono impossibile la realizzazione implica che non si
possa parlare di tentativo.
Per accertare se il bene abbia corso un reale pericolo non si può effettuare un giudizio prognostico su
base parziale ex art 56 che tiene conto solo del soggetto agente, ma è necessario tenere conto di tutte
le circostanze presenti nella situazione data, quale che sia il momento in cui vengono conosciute
(giudizio prognostico su base totale).
Sulla base di ciò, il gesto del borseggiatore che introduce la mano nella tasca dell’abito della vittima
senza riuscire ad impossessarsi del denaro perché la tasca era vuota, considerando il fatto sul versante
della vittima, deve essere ritenuto inidoneo a commettere il furto in quanto manca l’oggetto
dell’azione e non importa se il borseggiatore ottiene conoscenza di ciò successivamente.
I casi di tentativo inidoneo anche se non mettono in pericolo il bene protetto rappresentano indici di
pericolosità sociale dell’agente, motivo per cui il giudice può ordinare che il prosciolto sia sottoposto
alla misura di sicurezza della libertà vigilata.

CAPITOLO 6 - CONCORSO DI PERSONE

Premessa

L’istituto del concorso di persone nel reato disciplina i casi in cui più persone concorrono alla
realizzazione di uno stesso reato, un fenomeno sempre più tipico anche per effetto del costante
incremento delle forme di c.d. criminalità organizzata. Da ciò emerge l’esigenza di fissare criteri di
demarcazione rispetto alla distinta figura criminosa dell’associazione a delinquere nelle sue diverse
versioni.
Secondo un orientamento consolidato, i diversi tipi di associazione a delinquere presuppongono un
vincolo stabile tra più soggetti ed un programma criminoso riferito ad un insieme indeterminato di
fatti delittuosi; il concorso di persone nel reato, invece, determina un vincolo occasionale (o
contingente) tra più persone circoscritto alla realizzazione di uno o più reati determinati.
Il concorso di persone viene qualificato in
eventuale al fine di distinguerlo dalla diversa figura del concorso necessario che ricorre quando è la
stessa fattispecie incriminatrice di parte speciale a richiedere la presenza di più soggetti per
l’integrazione del reato (ad es. reato di rissa, associazione per delinquere, ecc.).

Il problema dei modelli di disciplina del concorso criminoso


Le fattispecie incriminatrici dei codici moderni si modellano sulla figura dell’autore individuale;
quindi, non sono direttamente applicabili a quei concorrenti che apportano un contributo alla
realizzazione del fatto, ma si limitano a porre in essere atti da soli non sufficienti ad integrare la figura
del reato. Le norme sul concorso di persone assolvono la funzione di rendere punibili anche
113
comportamenti che non lo sarebbero sulla base delle singole norme incriminatrici, integrando le
singole disposizioni di parte speciale.
In astratto sono prospettabili diversi modelli di disciplina di concorso: un modello differenziato e uno
unitario di tipizzazione del fatto.
1. Modello differenziato: il legislatore si sforzerà di tipizzare in maniera autonoma le diverse
forme di partecipazione, distinguendole in funzione dei ruoli rispettivamente rivestiti dai vari
concorrenti (es. autore, determinatore, istigatore, complice), differenziando la responsabilità di
ciascun concorrente e di conseguenza diversificandone il trattamento sanzionatorio. In questo
modo, il legislatore, determinando con precisione la figura di autore, partecipe, complice,
ecc.., definisce i presupposti della punibilità delle condotte secondarie di partecipazione ed
evita di appiattire le responsabilità individuali, tenendo conto del tipo di contributo arrecato da
ciascun concorrente. Tuttavia, le formule normative di tipizzazione mantengono margini più o
meno ampi di genericità e consentono alla giurisprudenza manipolazioni che reprimono i
contributi partecipativi più atipici.
2. Modello unitario: Il legislatore propenderà per la cd. tipizzazione causale, cioè riconducendo
alla fattispecie concorsuale tutte le condotte legate da un rapporto eziologico all’evento lesivo,
a nulla rilevando la partecipazione primaria o secondaria del concorrente (contributo), la quale
rileverà solo in sede di commisurazione della pena.
Il legislatore italiano del 1930, a differenza del codice Zanardelli, ha optato per il secondo modello
della tipizzazione unitaria basata sul criterio dell’efficienza causale della condotta di ciascun
concorrente. Infatti, l’art. 110 c.p. senza diversificare i vari ruoli stabilisce che “quando più persone
concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita”: concorre a
pari titolo chi apporta un contributo qualsiasi alla realizzazione collettiva del fatto, purché dotato di
rilevanza causale.
Nel 1930 si è assistito ad un cambio di rotta rispetto al passato: prevaleva, infatti, un modello
differenziato di disciplina concorsuale. Le ragioni si rinvengono nelle sollecitazioni provenienti dalla
prassi, in quanto si lamentava la mancanza di sicuri criteri di demarcazione che consentissero di
distinguere con certezza tra le diverse forme di partecipazione. La dottrina italiana ha sostenuto anche
a livello manualistico la maggiore praticabilità della tipizzazione unitaria, orientata in senso causale,
sostenendo che corrisponde all’essenza del concorso criminoso e che si rileva anche più flessibile per
le esigenze della prassi.
La distinzione tra compartecipazione primaria e compartecipazione secondaria, seppur non richiamata
nell’art. 110 c.p., emerge dall’art. 114 c.p. disponendo che “se il giudice ritiene che l’opera prestata
da talune persone concorse nel reato ha avuto minima importanza nella preparazione o esecuzione
del reato, può diminuire la pena”: parlare di contributo di minima importanza di fatto equivale a
respingere il principio dell’appiattimento delle responsabilità individuali e recuperare in parte la
distinzione tra principi primari e secondari. Rinunciare ad una distinzione analitica da un lato ha
comportato il venir meno della necessità di impelagarsi nella distinzione tra i vari tipi di concorrenti,
ma dall’altro lato ha comportato una eccessiva dilatazione della responsabilità a titolo di concorso,
favorita anche da una tendenza giurisprudenziale a sorvolare sui requisiti oggettivi minimi di una
legittima responsabilità concorsuale.
Le teorie sul concorso criminoso
Per spiegare il fondamento della punibilità delle condotte concorsuali atipiche rispetto alla fattispecie
incriminatrice di parte speciale, la dottrina penalistica ha escogitato diverse teorie:

114
 Teoria dell’accessorietà: la condotta atipica del semplice partecipe non ha rilevanza penale
autonoma, ma la acquista nella misura in cui accede alla condotta principale o tipica
dell’autore (la partecipazione criminosa ha natura accessoria). Ad esempio: A fornisce a B uno
strumento da scasso per compiere un furto: questa condotta non assume rilevanza finchè
l’esecutore materiale non avrà realizzato gli estremi di un’azione furtiva tipica.
La teoria dell’accessorietà ha ricevuto formulazioni diverse:
1. Accessorietà estrema > la punibilità della condotta di partecipazione dipende dalla
realizzazione di una condotta principale punibile in concreto.
2. Accessorietà limitata > il concorrente sarebbe punibile anche se l’esecutore materiale
non fosse in concreto assoggettabile a pena, perchè ad esempio inimputabile, in
quanto basta che l’azione principale sia obiettivamente antigiuridica.
La teoria dell’accessorietà è andata incontro a un’obiezione da parte della dottrina italiana: la prima
riguarda i casi di esecuzione frazionata, nei quali nessuno realizza un’azione qualificabile come
principale, mentre l’azione tipica risulta soltanto dall’incontro dei diversi contributi dei singoli
compartecipi (es. rapina in cui A minaccia con la pistola e B si impossessa del portafoglio). A questo
inconveniente si potrebbe ovviare sostenendo che l’accessorietà è reciproca, nel senso che ciascun
contributo, per acquistare rilievo giuridico, ha bisogno di venire accostato ad un altro complementare,
quindi nell’esempio di cui sopra, la condotta di chi minaccia e quella di chi sottrae il portafoglio
integrano la tipicità. Lo schema dell’accessorietà permane ma non viene più riferito ad una condotta
principale e ad una secondari, bensì a due condotte, entrambe non tipiche o solo parzialmente tipiche.
 Teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale: la fattispecie del concorso di persone è
nuova e autonoma rispetto a quella diversa di parte speciale modellata sul singolo autore.
Nasce dalla sintesi tra l’art. 110 c.p. e una delle disposizioni incriminatrici di parte speciale,
creando un’entità nuova. All’idea della fattispecie plurisoggettiva eventuale si accompagna un
nuovo concetto di tipicità, rapportato all’intero fatto realizzato in concorso, pertanto, ciascuna
condotta sarà considerata tipica o atipica rispetto alla nuova fattispecie concorsuale, risultante
dall’incontro dell’art. 110 con la singola norma incriminatrice.
Un’obiezione è riferibile all’ipotesi di concorso nel reato proprio. posto che in questa ipotesi la
condotta principale non potrebbe che essere realizzata dal soggetto che riveste la qualifica soggettiva
(es. pubblico ufficiale nel reato di peculato), si dovrebbe rinunciare all’incriminazione a titolo di reato
proprio, ove, a porre in essere la condotta esecutiva fosse un extraneus privo di qualifica (es.
inserviente che, d’accordo col capo dell’ufficio, si appropria materialmente di denaro pubblico).
Esigenze repressive postulerebbero l’incriminazione a titolo di reato proprio anche a carico
dell’extraneus che ha realizzato la condotta esecutiva, tuttavia, l’art. 117, nell’ammettere il fenomeno
del mutamento del titolo di reato, non ne specifica le condizioni. Pertanto, sembrerebbe lecito ritenere
che acquisti rilevanza decisiva il riferimento alla norma incriminatrice di parte speciale, cosicché
l’intraneus svolgerebbe nella fattispecie di concorso lo stesso ruolo rivestito nella fattispecie
monosoggettiva. Quindi, nell’esempio di cui sopra, se ad appropriarsi di pubblico denaro non è il capo
dell’ufficio ma un inserviente, non si configurerà un concorso in peculato, ma un concorso in furto o
in appropriazione indebita.
 Teoria della fattispecie plurisoggettiva differenziate: secondo questa teoria, dall’incontro di
norme di parte speciale con le norme sul concorso non ne nascerebbe una sola fattispecie
plurisoggettiva eventuale, ma discenderebbero tante fattispecie plurisoggettive differenziate
quanti sono i soggetti concorrenti, che avrebbero in comune il medesimo nucleo di

115
accadimento materiale, ma che si distinguerebbero tra loro per l’atteggiamento psichico e per
taluni aspetti esteriori.
Posto che la fattispecie concorsuale dà vita ad una nuova tipicità alla quale vanno rapportate le forme
di partecipazione che da sole non integrerebbero le fattispecie incriminatrici di parte speciale rimane
ancora insoluto il problema della determinazione dei criteri idonei a stabilire la rilevanza delle
semplici condotte di partecipazione nei confronti della semplice fattispecie concorsuale autonoma e
diversa rispetto alla fattispecie monosoggettiva. In mancanza di una tipizzazione legale delle varie
forme di concorso, la fissazione dei requisiti minimi della partecipazione penalmente rilevante resta
affidata a dottrina e giurisprudenza.
Struttura del concorso criminoso
I requisiti strutturali del concorso di persone nel reato sono:
1. la pluralità agenti
2. La realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato
3. Il contributo di ciascun concorrente alla realizzazione del reato comune
4. L’elemento soggettivo

Pluralità di agenti
È chiaro che in tanto si può parlare di concorso, in quanto il reato sia commesso da più soggetti.
Oggi si è concordi nel distinguere il carattere plurisoggettivo della fattispecie concorsuali dalla diversa
questione della concreta punibilità dei singoli concorrenti, sicché il concorso si configura anche se
taluno di essi non è punibile per ragioni inerenti la sua persona (ad es per mancanza di imputabilità).
Questo assunto trova riscontro negli artt. 112 e 119 c.p.
L’art 112 ultimo comma stabilisce che gli aggravamenti di pena da esso previsti si applicano anche se
taluno dei partecipanti al fatto non è imputabile o non è punibile.
L’art 119, comma 10 afferma che “le circostanze soggettive, le quali escludono la pena per taluni di
coloro che sono concorsi nel reato, hanno effetto soltanto con riguardo alla persona cui si
riferiscono”. Poiché tra tali circostanze (in senso atecnico) sono da ricomprendere ad es. anche
l'inimputabilità o la mancanza di dolo, si desume, infatti, che la pluralità di soggetti sussiste anche se
taluno sia incapace di intendere o di volere o agisca senza volontà colpevole.
Diverse sono le ipotesi riconducibili al concorso criminoso:
1. costringimento fisico a commettere un reato
2. Reato commesso per un errore determinato dall’altrui inganno
3. Costringimento psichico a commettere un reato o coazione morale
4. Determinazione in altri dello stato di incapacità al fine di far commettere un reato
5. Determinazione al reato di persona non imputabile o non punibile

La realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato


I contributi dei singoli concorrenti devono, innanzitutto, confluire nella realizzazione comune della
fattispecie oggettiva di un reato.

116
Il fatto collettivo può essere realizzato da più coautori o da un singolo autore con l’ausilio di uno o più
complici, da più soggetti ciascuno dei quali si limita a porre in essere una frazione del fatto tipico (cd.
esecuzione frazionata).

Non occorre che il fatto collettivo giunga a consumazione ma è sufficiente che la realizzazione
comune si traduca in atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto → si avrà, così,
concorso di persone in un delitto tentato.

L’art. 115, esprimendo l’esigenza che siano almeno realizzati gli estremi oggettivi del delitto tentato,
stabilisce che, salvo che la legge disponga diversamente, nessuno è punibile:

- per il semplice fatto di essersi accordato con altri qualora all’accordo non segua la messa in
atto del fatto programmato;
- per il semplice fatto di avere istigato altri (sia che l’istigazione sia stata accolta sia che non sia
stata accolta) qualora il renon sia stato commesso.

Poiché sia l’accordo che l’istigazione possono assurgere a indici di pericolosità sociale, l’art. 115
attribuisce al giudice la facoltà di applicare la misura di sicurezza della libertà vigilata.

Contributo di ciascun concorrente


Concorso materiale
Si ha quando si interviene personalmente nella serie degli atti che danno vita all’elemento materiale
del reato. Può essere prestato assumendo ruolo di rango diverso, distinguendo al riguardo tra:
 autore: colui che compie gli atti esecutivi del reato;
 coautore: colui che interviene insieme con altri nella fase esecutiva (es. due assassini che
sparano contemporaneamente);
 ausiliatore o complice: quel partecipe che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto materiale
nella preparazione o nella esecuzione del reato (es. chi fornisce veleno per un omicidio
commesso da altri). Bisogna evidenziare come la prestazione di aiuto del complice, quale che
sia la modalità in cui si manifesta, ricade sempre al di fuori della fattispecie incriminatrice di
parte speciale. Tuttavia, si dibatte sui coefficienti minimi che giustificano l’incriminazione del
complice a titolo di concorrente nel reato.
L’opinione tradizionale richiede che l’azione del compartecipe costituisca condicio sine qua non del
fatto punibile), obiettandosi però che il ricorso alla teoria condizionalistica presenta l’inconveniente di
restringere l’area del concorso, in quanto vi sarebbero delle forme di complicità meritevoli di
punizione nonostante non siano strettamente indispensabili ai fini della realizzazione dell’impresa
criminosa (cd. partecipazione non necessaria) . Si pensi ad un furto con scasso in cui un complice
fornisce una chiave al soggetto intento ad aprire la cassaforte con un trapano (con cui impiegherebbe
più tempo) grazie alla quale riesce a completare l’opera più velocemente. In questo caso, eliminando
mentalmente la condotta del complice che fornisce la chiave, il reato di furto non verrebbe meno, ma
si consumerebbe ugualmente (anche se in tempi diversi).
Per superare questi ostacoli, parte della dottrina ha proposto un nuovo modello di causalità cd.
adeguatrice o di rinforzo che porta a ritenere penalmente rilevante non solo l'ausilio necessario, lo che
non può essere mentalmente eliminato senza che il reato venga meno, ma anche quello che si limita ad

117
agevolare il conseguimento dell’obiettivo finale. Questa forma di influsso sarebbe ad.es ravvisabile nel
caso del complice che fornisce la chiave, mentre si riteneva escluso sulla base della teoria
condizionalistica in quanto non considerato un ausilio necessario.
Giova evidenziare, però, che nella prassi giudiziaria è consolidata la tesi secondo cui il contributo
concorsuali assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione
dell’evento lesivo, ma anche quando assume la forma di un contributo agevolatore, cioè quando il
reato senza la condotta di agevolazione sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori difficoltà.
Da ciò se ne desume che, ai fini della punibilità, è sufficiente che la condotta di partecipazione si
manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla
commissione del reato e che il partecipe, tramite il contributo agevolatore, abbia aumentato le
possibilità di produzione del reato.
Altri autori, invece, negano che il modello della causalità agevolatrice sia dotato di validità generale in
quanto vi sarebbero ulteriori casi di partecipazione non necessaria sempre meritevoli di pena, sebbene
manchi non solo il nesso condizionalistico con l’evento, ma anche ogni influsso causale sia pure nella
forma attentata attenuata dell’efficacia agevolative. Si ipotizzi il caso di un soggetto che fornisce uno
strumento che non viene poi utilizzato dall’ esecutore materiale.
Si propone in realtà di abbandonare il metodo di approccio causale e di sostituirlo con un giudizio di
semplice prognosi, essendo sufficiente che l’azione del partecipe appaia ex ante idonea a facilitare la
commissione del reato accrescendone le probabilità di verificazione. Si tende ad individuare un
sostegno normativo nella norma sul tentativo nella parte in cui richiede l’idoneità degli atti per la loro
rilevanza giuridica.
Si obietta, però, che questa impostazione trascura un dato essenziale: le forme di complicità cui si fa
riferimento accedono ad un fatto collettivo che giunge a consumazione a prescindere dall’ausilio poi
rilevatosi inutile. Di conseguenza l’art 56 c.p. non è invocabile non comprendendosi come una norma
che disciplina atti idonei ed univocamente diretti a commettere un delitto che di fatto non si realizza,
possa legittimare la punibilità di atti di partecipazione che si inseriscono in una realizzazione collettiva
che giunge a compimento. Pertanto, ritornando all’esempio del ladro che fornisce uno strumento poi
non utilizzato (nonostante l’avvenuta realizzazione del reato), la punibilità è da escludere perché si
tratta di forme di partecipazione soltanto potenziali ove l’ausilio non si presta a convertirsi in un
effettivo apporto che possa influire concretamente sulla realizzazione del fatto.
Bisogna ora precisare portata e limiti del contributo materiale del complice.
Secondo la formula della causalità agevolatrice assume rilevanza penale non solo la condotta di
partecipazione che rende possibile la perpetrazione del fatto, ma anche quella che si limita ad
agevolarne la realizzazione. Ciò che rileva ai fini dell’esistenza di un nesso eziologico è la sussistenza
di una catena causale tra un antecedente e un evento concreto, risultando irrilevante che un evento
analogo avrebbe potuto verificarsi come conseguenza di fattori ipotetici rimasti di fatto inoperanti.
In sede di accertamento del contributo causale della condotta di partecipazione, bisogna
considerare il fatto, nella sua modalità concreta, prescindendo dalle cause alternative (apertura con
l’uso del trapano) che non hanno avuto sviluppo (es. complice che fornisce la chiave allo scassinatore,
intento a lavorare col trapano, permettendogli di anticipare l’apertura). In questo caso, la consegna
della chiave assume efficacia determinante ai fini del successo del furto, a nulla rilevando il fatto che
la cassaforte sarebbe stata aperta col trapano minuti dopo. Allo stesso modo, prendendo come esempio
il caso del passante, che durante l’azione furtiva fa da palo ad un ladro che sta rubando, limitandosi la
sua attività ad una mera presenza, esula una partecipazione punibile perché il palo non arreca alcun
contributo alla realizzazione del furto, il reato si sarebbe infatti realizzato comunque.

118
Concorso morale
Il contributo del partecipe può anche manifestarsi sotto forma di impulso psicologico ad un reato
materialmente commesso da altri. Nell’ambito di questa forma di compartecipazione (concorso morale
o partecipazione psichica) distinguiamo:
 il determinatore, cioè il compartecipe che fa sorgere in altri (autore) un proposito criminoso
prima inesistente, assumendo, nei confronti della lesione del bene, un ruolo decisivo;
 l’istigatore, cioè colui il quale si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso
già esistente.
Nel codice italiano, il termine “istigazione” viene impiegato come espressione comprensiva di ogni
forma di partecipazione psichica, assumendo rilevanza, non soltanto le condotte istigatorie che
pongono un antecedente causale del reato commesso dall’esecutore (determinatore), ma anche quelle
che determinanti non sono, perché si limitano a rinforzare l’altrui proposito criminoso (istigatore).
Si dibatte se la causalità psicologica sia una vera e propria forma di causalità. Parte della dottrina e
della giurisprudenza propende per giudizi di tipo prognostico, valutando ex ante l’idoneità della
condotta a rinforzare l’altrui proposito criminoso. Si obietta però che, come non può configurarsi
concorso materiale senza un'effettiva partecipazione, così non può esservi concorso morale se non
sussiste un’effettiva influenza sulla psiche dell’esecutore materiale del reato.
È da escludere che integri complicità morale l’adesione psichica, sia pure riconoscibilmente
manifestata a chi esegue il reato, come pure è da escludere che sia sufficiente la mera presenza sul
luogo del delitto.

Può accadere che si verifichi una divergenza tra il fatto oggetto di istigazione e il fatto concretamente
realizzato, la quale può riguardare sia il tipo astratto di reato sia l’oggetto materiale dell’azione.

La prima ipotesi è disciplinata dall’art 116.

La seconda solleva il problema se, ai fini della punibilità della condotta istigatoria, occorre un’identità
tra la volizione dell’istigatore e il fatto concretamente realizzato dall’istigato, fino ad estendersi
all’oggetto materiale dell’azione. Può, infatti, sostenersi che l’esecuzione volontaria da parte del
soggetto istigato di un fatto diverso, anche solo nell’oggetto, materiale può spezzare il legame che
tiene insieme le condotte dell’esecutore ed istigatore, dovendo escludere la responsabilità del secondo.
Tuttavia, nel nostro ordinamento questa conclusione può andare incontro all’iniezione di lasciare
scoperte esigenze repressive.

Una particolare forma di istigazione è quella realizzata dal cd. agente provocatore, cioè colui il quale
provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia.

Tale figura, nel corso del tempo, ha finito col ricomprendere sia i casi in cui l’agente provocatore
assume la veste di soggetto passivo del reato, sia quelli in cui il soggetto passivo si infiltra in
un’organizzazione criminale allo scopo di scoprirne la struttura e denunciarne i partecipanti. Si sono
susseguiti svariati interventi normativi che hanno introdotto nel nostro ordinamento figure assimilabili
all’agente provocatore (es. Testo unico in materia di sostanze stupefacenti che prevede la non
punibilità degli ufficiali di polizia giudiziaria delle unità antidroga; Legge n. 302/1990 all’art. 12
prevede la non punibilità per gli ufficiali di polizia giudiziaria della direzione investigativa antimafia).

Si tratta di stabilire se lo scopo perseguito dall’agente penalizzi la rilevanza penale, a titolo di


concorso, di una condotta che mantiene la natura istigatrice. Secondo un orientamento rigoristico, il

119
fine di perseguire i rei non potrebbe giustificare un comportamento che ha contribuito a mettere in
pericolo o ledere un bene giuridico. Sulla stessa linea, la giurisprudenza affermava che l’opera
dell’agente provocatore esclude la punibilità nelle ipotesi di attività di osservazione, controllo e
contenimento delle azioni illecite altrui.

La dottrina oggi dominante afferma che l’agente provocatore non può essere punito, per mancanza di
dolo, tutte le volte in cui abbia agito con lo scopo di assicurare i colpevoli alla giustizia. E’, inoltre,
autorizzato l'inquadramento degli ufficiali di polizia giudiziaria che agiscono allo scopo di
scompaginare le organizzazioni criminali, di reprimere lo spaccio di droga, il riciclaggio o il traffico di
armi, sotto il paradigma della causa di giustificazione come ipotesi speciali di adempimento di un
dovere.

Elemento soggettivo del concorso criminoso

L’elemento soggettivo del concorso criminoso è costituito da due componenti: coscienza e volontà del
fatto criminoso (non differisce dal dolo del reato monosoggettivo); volontà di concorrere con altri alla
realizzazione di un reato comune. Oggi si esclude che questo secondo tipo di volontà debba
presupporre un previo accordo o la consapevolezza reciproca dell’altrui concorso, ma è sufficiente che
vi sia coscienza unilaterale che può manifestarsi come previo accordo, intesa istantanea o come
semplice adesione all’opera di un altro che ne rimane ignaro. Se però, tutti operano all’insaputa l’uno
dell’altro, si configurano distinti e autonomi reati monosoggettivi. Quando la fattispecie incriminatrice
richiede la presenza del dolo specifico, ai fini della configurabilità di un dolo punibile è sufficiente che
la particolare finalità di dolo specifico sia perseguita da almeno uno dei soggetti concorrenti.

1. Concorso doloso a delitto colposo

È controversa l’ammissibilità di una partecipazione dolosa a delitto colposo, in quanto se questa si


negasse, rimarrebbero ingiustificatamente impuniti coloro che concorrono nell’altrui fatto colposo. Ad
esempio, se Tizio spinge Caio, già in errore colposo inescusabile sulla natura tossica di una sostanza,
a immetterla in acque destinate all’alimentazione allo scopo di provocare un avvelenamento che poi
si verifica. L’unico modo per punire il comportamento del Tizio consisterebbe nel configurarlo come
partecipazione dolosa incriminabile in quanto concorrente con un delitto colposo altrui. D’altro
canto, contro l’ammissibilità della punibilità della partecipazione dolosa, vi sono vari argomenti:

 l’art. 110 c.p. definisce il fenomeno concorsuale riferendosi ad un medesimo reato secondo
una concezione unitaria e quindi, imputare il medesimo fatto a titoli soggettivi diversi sarebbe
da escludere perché porterebbe ad accogliere una concezione pluralistica del concorso;
 il legislatore ha riconosciuto in maniera esplicita i casi in cui i compartecipi possano
rispondere dello stesso reato a titoli diversi, per cui, ove non previsto, si dovrebbe escludere.

1. Concorso colposo nel delitto doloso

Ancora più problematico appare l’accoglimento della figura del concorso colposo nel delitto doloso,
prendiamo ad esempio il caso di Tizio che, pur essendo a conoscenza del proposito omicida di una
donna sua conoscente, le consegna un veleno topicida nella supposizione che serva a uccidere i ratti, la
donna invece utilizza il veleno per uccidere il marito. Alle argomentazioni già accennate con
riferimento alla partecipazione colposa nel delitto doloso che sembrano convincere ad escluderne
l’ammissibilità, se ne aggiungono altre relative al carattere colposo di questa forma di concorso.
Infatti, secondo un principio generale, la responsabilità colposa deve sempre presupporre un’espressa

120
previsione legislativa e ne costituisce conferma l’art. 113, il quale, ammettendo espressamente la sola
cooperazione nel delitto colposo, sembra escludere implicitamente la cooperazione colposa nel delitto
doloso. A questo si aggiunge che il codice prevede delle espresse ipotesi tassative di agevolazione
colposa di un altrui fatto doloso. Inoltre, va rilevato che, a fronte della più recente evoluzione della
teoria della colpa penale, ognuno deve evitare solo il pericolo derivanti dalla propria condotta e non si
ha l’obbligo di impedire comportamenti pericolosi di terze persone. Pertanto, non possono essere
definite colpose, in base alla mera prevedibilità dell’evento, quelle azioni pericolose, non in sé, ma
semplicemente perché forniscono ad altri l’occasione di delinquere.

Il concorso nelle contravvenzioni

L’art. 110 c.p. disciplina il concorso di reato riferendosi ugualmente ai delitti e alle contravvenzioni
imputabili a titolo di dolo. Essendo le contravvenzioni punibili indistintamente a titolo di dolo o di
colpa, sorgono delle questioni rispetto alle contravvenzioni colpose, in quanto è incerta l’applicazione
della disciplina del concorso rispetto a queste. Secondo l’orientamento prevalente, si applica la
disciplina di cui all’art. 110 c.p. anche alle contravvenzioni colpose, in quanto sii ritiene che il
riferimento al concetto generico di reato implicherebbe il richiamo dei criteri soggettivi di imputazione
delle contravvenzioni posti dall’art. 42 ultimo comma.

Esistono, però, delle ragioni che militano a favore dell’esclusione del concorso colposo nelle
contravvenzioni. Si fa riferimento, anzitutto, ad una ragione di politica-criminale in quanto, ritenendo
incriminabile il concorso colposo nelle contravvenzioni, si finisce per punire maggiormente le
contravvenzioni colpose rispetto ai delitti colposi, nonostante gli illeciti colposi contravvenzionali
siano tendenzialmente caratterizzati da un minor disvalore penale. Inoltre, in conseguenza di ciò, le
circostanze aggravanti di cui ai numeri 1-2 dell’art. 112 c.p. verrebbero applicate alle contravvenzioni
colpose ed escluse ai delitti colposi, nonostante questi ultimi siano comparativamente più gravi. In
conclusione, così facendo si desume in via indiretta dall’art. 110 una norma con una vasta portata
incriminatrice che, se veramente voluta dal legislatore, dovrebbe essere disciplinata esplicitamente.

Le circostanze aggravanti

L’applicazione delle circostanze aggravanti è obbligatoria.

1. L’art 112 stabilisce un aggravamento di pena per l’ipotesi in cui il numero di persone, che
sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti. La ratio si
ravvisa nel maggiore allarme sociale e nella maggiore capacità a delinquere dimostrata dai
concorrenti che agiscono in gruppi di cinque o più. Il calcolo del numero di persone, inoltre,
prescinde dalla colpevolezza, imputabilità o punibilità dei singoli concorrenti;
2. La seconda aggravante si applica a chi ha promosso, organizzato o diretto la partecipazione al
reato. Il legislatore, pertanto, ha voluto punire con maggior rigore chi assume una posizione di
preminenza e/o direzione nella preparazione o nell’esecuzione dell impresa delittuosa.
Promotore è colui che ha ideato l’impresa criminosa prendendo l’iniziativa; organizzatori chi
predispone il progetto esecutivo, scegliendo i mezzi e le persone che devono attuarlo;
direttore chi assume una funzione di guida ed amministrazione.
3. Un’altra aggravante si applica a chi, nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha
determinato a commettere il reato persone ad esso soggetto. Si ritiene che per la
configurazione dell’aggravante non è sufficiente che si instauri una forma qualsiasi di
soggezione psicologica, ma è necessario che la persona dotata del potere di supremazia abbia
realizzato una vera e propria coazione psicologica sul soggetto sottoposto.

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4. Un’ultima aggravante è prevista per chi ha determinato a commettere il reato un minore di 18
anni o una persona in stato di infermità o deficienza psichica oppure si è comunque avvalso
degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per cui è previsto
l’arresto in flagranza (art 112 comma 10).

In tema di criminalità organizzata sono state previste due nuove aggravanti:

 La pena è aumentata fino alla metà per chi si è avvalso di persona non imputabile o non
punibile; a cagione di una condizione, o qualità personale, nella commissione di un delitto per
cui è previsto l’arresto in flagranza.
 La pena è aumentata fino alla metà o fino a due terzi se chi ha determinato altri a commettere
il reato o si è avvalso di altri nella commissione del delitto ne è il genitore esercente la
potestà.

Le circostanze attenuanti ed in particolare il contributo di “minima importanza”

L’applicazione delle circostanze attenuanti è facoltativa. L’art 114 ne prevede due:

 Il comma 1 stabilisce che il giudice può diminuire la pena qualora ritenga che l’opera prestata
da uno dei concorrenti abbia avuto “minima importanza nella preparazione o
nell’esecuzione del reato” (tranne che ricorra una delle circostanze aggravatrici).

Secondo l’opinione dominante, la determinazione della minima importanza richiede una valutazione
giudiziale dell’efficienza dell’apporto causale arrecato da ciascun singolo concorrente. Cioè, una
volta accertato il nesso causale tra un certo contributo ed il fatto concorsuale nelle sue modalità
concrete, occorre verificare il grado di imprescindibilità in rapporto ai fattori ipotetici rimasti
concretamente inoperanti, ma che avrebbero potuto egualmente condurre al risultato in assenza della
condotta in questione. Quindi la considerazione dei fattori ipotetici, irrilevante in sede di accertamento
del nesso causale, diventa invece rilevante al momento della valutazione del diverso grado di
contributo ai fini della commisurazione della pena. Oggi si ritiene che la “minima importanza” ricorre
soltanto quando l’azione del correo può essere facilmente sostituita con l’azione di altre persone
oppure con una diversa distribuzione dei compiti.

Tuttavia, la giurisprudenza propende per una intepretatio abrogans della circostanza in esame,
tendendo ad escluderla nella quasi totalità dei casi.

 La seconda attenuante prevista dal l’art 114 comma 3 è detta della minorazione psichica ed è
stabilità a favore di chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato,
quando concorrono le condizioni della coercizione esercitata da un soggetto autorevole oppure
della minorità o infermità mentale.

La responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto

L’art 116 stabilisce che qualora “il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti, anche questi ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione” e che
“se il reato commesso è più grave di quello voluto”, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato
meno grave. Trattasi di un’ipotesi particolare di aberractio delicti, che si distingue da quella in senso
stretto in quanto l’evento diverso deve essere “voluto” da uno dei concorrenti, mentre nel caso dell’art
83 c.p. l’evento diverso che si realizza deve essere il risultato di un errore nell’uso dei mezzi di

122
esecuzione del reato o effetto di altra causa. Inoltre, nell’ipotesi di cui all’art 83 c.p. non si richiede
che l’evento sia prevedibile.

L’art 116, attribuendo al concorrente la responsabilità per l’evento diverso non voluto sulla base del
mero nesso condizionalistico, configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, che quindi prescinde
dal dolo o dalla colpa.

Per attenuare il rigore eccessivo di una tal forma di responsabilità, la giurisprudenza minoritaria
dell'immediato dopoguerra subordinava la punibilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto
all’ulteriore requisito della previsione dell’evento medesimo. Ciononostante, e con la progressiva
valorizzazione del principio della personalità della responsabilità penale, si giunse ad eccepire il
contrasto dell’art 116 con l’art 27, comma 1 Cost.

La CC, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha tuttavia respinto l’eccezione, affermando come la
responsabilità ex art 116 si fonda, oltre che sul rapporto di causalità materiale, anche su uno di
causalità psichica, concepito nel senso che il reato diverso più grave commesso dal concorrente deve
potersi rappresentare alla psiche dell’agente come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello
voluto, risultante in tal modo necessaria la presenza di un coefficiente di colpevolezza.

Pertanto, oggi la giurisprudenza ordinaria ravvisa due presupposti della responsabilità ex art 116:

 il rapporto di causalità tra l’azione di ogni partecipe ed il reato diverso da quello


programmato;
 la prevedibilità di tale reato diverso non voluto.

In ordine al secondo dei due requisiti si registrano due diverse interpretazioni. Secondo un primo
orientamento, è sufficiente la prevedibilità in astratto, nel senso che l’illecito non voluto deve
appartenere al tipo astratto di quelli che, in linea puramente logica, si prospettano come sviluppo del
reato originariamente voluto, sulla base quindi di una valutazione aprioristica (ad.es furto-rapina e
lesioni personali-omicidio).

Un secondo orientamento richiede una prevedibilità in concreto, sulla base della quale per stabilire
se il reato diverso effettivamente realizzato rappresenti un prevedibile sviluppo di quello
originariamente programmato, bisogna tenere conto di tutte le circostanze relative alla singola vicenda
concreta. Pertanto, risulta necessario individuare, anzitutto, il concreto piano di azione dei concorrenti
e, poi, verificare se le modalità concrete di svolgimento del fatto lascino prevedere un esito deviante di
quello avveratosi.

Sulla base di ciò, la responsabilità ex art 116 tende ad orientarsi più verso un modello di imputazione
colposa (e non più oggettiva), pur non integrandone tutti i requisiti (non essendo richiesta la prova
della violazione del dovere obiettivo di diligenza).

È poi dominante l’opinione per cui l’art 116 si applichi non solo in presenza di un (solo) reato diverso
da quello voluto, ma anche quando insieme col reato concordato se ne commetta un altro che
costituisce un prevedibile sviluppo del primo (fermo restando che diverso è quel reato avente diverso
nomen iuris e non ad es. un reato aggravato realizzato in luogo d'uno semplice).

Caso 51: un gruppo di correi concorda inizialmente di commettere un furto: mentre uno dei partecipi si
limita a fare da basista e palo, gli esecutori materiali commettono - in difformità dell’accordo iniziale -
una rapina e un sequestro ai danni del soggetto rapinato → qui è pcifico che sussiste la prevedibilità

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astratta del reato diverso, posto che la rapina si colloca su un piano di omogeneità rispetto al furto, ma
lo stesso non può dirsi rispetto al furto e il sequestro di persona (la responsabilità per il sequestro
dovrebbe essere esclusa)

L’art 116 c. 2 precisa che la disciplina ora esplicata si applica a prescindere dalla maggior o minore
gravità del reato non voluto rispetto a quello voluto. Tuttavia, nel caso di maggiore gravità del reato
diverso, il giudice deve obbligatoriamente applicare una diminuzione di pena rispetto a chi volle il
reato meno grave (trattasi di una circostanza attenuante).

Concorso nel reato proprio e mutamento del titolo di reato per taluno dei concorrenti

Si ha concorso nel reato proprio quando un soggetto privo della qualità personale (extraneus)
concorre alla commissione di un reato realizzabile soltanto da un soggetto qualificato (intraneus), ad
es. il cittadino comune che istighi un militare alla diserzione. Questo tipo di concorso rientra nella
disciplina di cui all’art. 110 c.p.

Secondo i principi generali dell'imputazione dolosa, la responsabilità dell’extraneus presuppone la sua


consapevolezza di concorrere ad un reato proprio, ad es. nel caso di cui sopra è necessario che il
cittadino conosca la qualifica del militare.

Può accadere che la qualifica posseduta da uno dei concorrenti non sia determinante ai fini
dell’esistenza del reato, come nel caso della diserzione, ma comporti solo la diversa qualificazione
giuridica del fatto che già, di per sé, costituisce reato seppur ad altro titolo (ad. caso di un soggetto che
convince un pubblico ufficiale ad appropriarsi di denaro pubblico: questo fatto sarebbe qualificabile
come appropriazione indebita sul versante dell’extraneus e come peculato sul versante del pubblico
ufficiale).

In un caso del genere, se l’estraneo è a conoscenza della qualifica posseduta dall’intraneus nulla
questio: si applica l’art. 110 e si configura un concorso nel reato proprio.

Se, invece, tale qualifica è ignota all’estraneo, si applica l’art. 117 c.p., il quale afferma che “se per le
condizioni o le qualità personali del colpevole o per i rapporti tra il colpevole e l’offeso muta il titolo
del reato per taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato”. In
questo modo il legislatore ha voluto evitare che alcuni concorrenti rispondano di un certo reato ed altri
di un reato diverso solo perché interferiscono particolari qualità o rapporti di un concorrente con la
persona offesa. La norma in esame finisce con l’introdurre una forma di responsabilità oggettiva che,
però, sembra contrastare con i principi dell’imputazione dolosa (o della colpevolezza).

A conferma della natura oggettiva della responsabilità in esame è invocabile l’art. 1081 del codice
della navigazione che stabilisce che “fuori dal caso di cui all’art. 117, quando per l’esistenza di un
reato è richiesta una particolare qualità personale coloro che sono concorsi nel reato ne rispondono
solo se hanno avuto conoscenza della qualità personale del colpevole”.

Parte della dottrina, per rendere compatibile l’art. 117 col principio di colpevolezza, ha ipotizzato il
carattere determinante della conoscenza della qualifica dell’intraneo ad opera dell’estraneo sia nel caso
in cui la qualifica sia determinante per la configurazione del reato sia quando essa comporti solo un
mutamento del titolo. Ma, rimanendo sul terreno del diritto vigente, si può reinterpretare l’art. 117 in
maniera conforme al principio di colpevolezza ritenendolo applicabile solo nei casi in cui la qualifica

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soggettiva, sebbene ignorata dal partecipe, fosse, però, conoscibile in base ai parametri di un uomo
ragionevole.

Discusso è se l’art. 117 presuppone una determinata distribuzione di ruoli tra intraneo ed estraneo;
l’art. 117, in realtà, omette di specificare quali debbano essere le circostanze nella quali ha luogo il
mutamento del titolo del reato, per cui è necessario farsi guidare dalle norme incriminatrici di parte
speciale di volta in volta considerate. Così, nel caso del reato di peculato, per la sua configurazione è
necessario che ad eseguire l’azione sia il soggetto qualificato, per cui se il pubblico ufficiale si limita
ad agevolare il furto di un terzo sprovvisto di qualifica, il mutamento del titolo darà escluso e si
configurerà un semplice concorso in furto. Tuttavia, se il PU mantenesse il controllo effettivo del fatto
delittuoso, tornerebbe a configurarsi un concorso in peculato per mutamento del titolo dei reati ex art.
117 (è importante il dominio dell’accadimento).

L’art. 117 stabilisce, inoltre che, se il reato di cui l’estraneo è chiamato a rispondere a causa del
mutamento del titolo è più grave, il giudice, facoltativamente, può diminuirne la pena. Secondo
l'orientamento prevalente, tale attenuante si applica solo se l’estraneo è ignaro della qualifica
soggettiva che comporta il mutamento del titolo di reato.

La comunicabilità/estensibilità delle circostanze

Prima della riforma del 1990, il codice prevedeva una disciplina differenziata del carattere “oggettivo”
o “soggettivo” (art 70 cp) delle circostanze attenuanti e aggravanti.

L’art 118, 1º comma cp disponeva che le circostanze oggettive, tanto attenuanti che aggravanti, erano
valutate a favore/a carico di tutti i concorrenti, anche se non conosciute da taluno dei compartecipi.

L’art 118, 2º comma cp disponeva che le circostanze soggettive, non si estendevano ma si applicavano
ai singoli concorrenti ai quali si riferivano. Vi era però un'importante eccezione: si estendevano a tutti i
compartecipi le aggravanti soggettive che fossero servite ad agevolare l’esecuzione del reato. Non si
estendevano mai, invece, la recidiva e l’imputabilità.

Dopo la riforma, l’art 118 cp postula la regola dell’inestensibilità, affermando che “le circostanze che
aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado
della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla
persona a cui si riferiscono.”

Il problema si pone con riferimento alle altre circostanze che non sono espressamente menzionate
nell’art 118. La soluzione più corretta appare quella di ritenere applicabile l’art 59 cp secondo il
quale:

 le circostanze attenuanti, avendo rilevanza oggettiva, sono estensibili a tutti i compartecipi.


 le circostanze aggravanti possono essere applicate solo se conosciute o conoscibili dai
compartecipi.

Rispetto al passato, diventano estensibili tutte le circostanze soggettive (eccettuate quelle previste dal
118) purché conosciute o conosciute, anche se non hanno agevolato l’esecuzione del reato come
prevedeva il vecchio testo.

La comunicabilità/estensibilità delle cause di esclusione della pena

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Le circostanze oggettive di esclusione della pena (scriminanti ed art 50 ss) si applicano a tutti i correi,
in quanto le cause di giustificazione fanno venir meno il contrasto tra il fatto tipico e l’ordinamento
giuridico, rendendo lecito il fatto medesimo e, di conseguenza, tutte le condotte che concorrono alla
sua realizzazione.

Le circostanze soggettive di esclusione della pena non si estendono a tutti i correi, ma si applicano
solamente a coloro cui si riferiscono personalmente (ad es. eventuale vizio di mente dell’esecutore
materiale non potrà avvantaggiare il partecipe). Ciò accade perché se le cause soggettive lasciano
sussistere l’illiceità del fatto e fanno venir meno la punibilità per ragioni che concernono la persona
del singolo reo, sarebbe del tutto ingiustificato estenderne gli effetti agli altri partecipanti.

Desistenza volontaria e pentimento operoso nel concorso


La desistenza del correo può presentare modalità di manifestazione diverse, a seconda del ruolo che
egli assume nella realizzazione collettiva.
Se il soggetto che desiste riveste la posizione di esecutore materiale, la desistenza si manifesterà in
forma negativa in quanto colui il quale realizza atti esecutivi, che possiede il massimo dominio
sull’accadimento, è in grado di sottrarsi alla commissione del fatto semplicemente interrompendo
l’attività già iniziata.
Se il soggetto riveste la posizione di complice, tendenzialmente ha già fornito il suo apporto ancor
prima che la realizzazione collettiva raggiunga la soglia del tentativo, per cui, al fine di desistere,
dovrá necessariamente attivarsi per neutralizzare le conseguenze della collaborazione già prestata, con
una attività positiva. Il problema è comprendere in che modo deve articolarsi questa attività positiva:
ad esempio se A, che ha già fornito lo strumento di scasso a B, che lo impiega per compiere un furto,
si pente successivamente e vuole sfuggire alla pena, potrà limitarsi a riprendere lo strumento oppure
impedire che B consumi il furto?
In aderenza al principio della personalità della responsabilità penale, è da ritenere che la d’esistenza
del partecipe si possa configurare anche quando egli si limiti a privare del proprio apporto la
realizzazione del reato, in quanto si emancipa dalla commissione di un fatto che non può più essere
considerato opera sua, non contenendo più nulla di riconducibile a lui.

La desistenza esime da responsabilità soltanto i soggetti cui si riferisce, essendo una causa personale
di esclusione della pena.

La configurabilità del pentimento operoso presuppone, invece, che l’azione collettiva sia giunta ad
esaurimento e che uno dei concorrenti riesca ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo: ad es. A e B
infliggono coltellate a C con volontà omicida, ma B colto da pentimento porta C in ospedale riuscendo
ad impedire il decesso.
Il pentimento operoso ha natura di circostanza attenuante soggettiva.

Estensibilità della disciplina del concorso eventuale al concorso necessario

Ricorre la figura del concorso necessario e del reato necessariamente plurisoggettivo quando è la
stessa disposizione incriminatrice di parte speciale a richiedere la presenza di più soggetti per
l’integrazione del reato.

Si è soliti distinguere in reato plurisoggettivi propri e impropri:

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- i primi sono caratterizzati dal fatto che vengono puniti tutti i coagenti( ad es. associazione per
delinquere, rissa);
- i secondi dal fatto che la norma incriminatrice dichiara punibili soltanto uno o alcuni dei
partecipanti al fatto( ad es. corruzione di minorenni, usura).

Nell’ambito dei reati plurisoggettivi impropri sorge il problema se il concorrente necessario, esentato
da sanzione dalla norma di parte speciale, possa essere ritenuto responsabile in applicazione delle
norme sul concorso eventuale.

Secondo alcuni, il problema andrebbe risolto tenendo in considerazione la voluntas legis, escludendo
una responsabilità a titolo di concorso eventuale del coagente necessario nelle fattispecie criminose in
cui la norma incriminatrice tende alla protezione anche dei concorrenti necessari non dichiarati
punibili (come nell'usura o nella corruzione di minorenne).

Altri propendono per l’opinione tradizionale che nega la punibilità del concorrente non espressamente
incriminato dalla norma di parte speciale, in quanto punire a titolo di concorso eventuale un soggetto
esentato da sanzione violerebbe il principio nullum poena sine lege.

Un secondo problema riguarda l’applicabilità ai concorrenti necessari punibili in base alla norma di
parte speciale, delle norme sul concorso eventuale relative alle circostanze aggravanti e attenuanti,
nonché alla comunicabilità (cioè, estensibilità) sia delle circostanze medesime sia delle cause di
esclusione della pena. La dottrina oggi dominante ritiene dette norme applicabili anche al concorso
necessario, a meno che non siano espressamente derogate dalle disposizioni di parte speciale che
configurano i diversi reati necessariamente plurisoggettivi.

Infine, si può configurare un concorso eventuale anche nell’ambito di un concorso necessario, cioè la
partecipazione eventuale si potrà configurare da parte di soggetti diversi dai concorrenti necessari
(come chi istiga altri ad una rissa).

Concorso eventuale e reati associativi

Le questioni maggiormente rilevanti relative al rapporto tra concorso eventuale e reati associativi sono
due:

- La prima concerne la determinazione delle condizioni in presenza delle quali coloro che
rivestono ruoli di vertice nell’ambito di un’associazione criminosa possano rispondere a titolo
di concorso eventuale dei reati materialmente eseguiti dagli altri associati. Con riferimento a
questo problema, bisogna evitare il rischio di attribuire una sorta di responsabilità di
posizione ai capi delle associazioni criminali, ritenendoli, cioè, automaticamente concorrenti
morali nei singoli delitti. In applicazione delle regole generali che disciplinano il concorso
morale occorrono, infatti, alcuni presupposti minimi da accertare caso per caso affinché i
vertici delle organizzazioni criminose possano essere ritenuti determinatori o istigatori degli
illeciti posti in essere dagli altri associati. Nello specifico, è necessario che le direttrici
generali del programma criminoso fissate dai capi contengano i tratti essenziali dei singoli
comportamenti delittuosi realizzati dai compartecipi. Una responsabilità concorsuale a titolo
di dolo si dovrebbe, quindi, riconoscere anche nel caso di inviti all’azione lanciati dai vertici
idonei a concretizzarsi in un numero circoscritto di reati.
- La seconda riguarda la determinazione delle condizioni in presenza delle quali è possibile
configurare un concorso esterno ex art. 110 ad un’associazione criminosa da parte di soggetti

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estranei alla stessa. Si fa riferimento, nello specifico, a soggetti che, pur non facendo parte
integrante di un'organizzazione criminale, intrattengono rapporti con questa realizzando
comportamenti che vanno a vantaggio dell’associazione stessa. Importante per parlare di
concorso esterno nel reato associativo è definire il ruolo di associato interno, in quanto se si
adotta un concetto ampio di partecipe, svincolato da formali rituali di affiliazione, l'ambito
applicativo da riservare alla figura del concorrente esterno si restringe (e viceversa). La
Cassazione in quattro pronunce a Sez. Unite si è espressa sul punto definendo partecipe
interno (associato) colui che è legato da un rapporto stabile al tessuto organizzativo
dell’associazione criminale e che riveste un ruolo dinamico e funzionale rimanendo a
disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni scopi criminosi, essendo irrilevante la
previa sottoposizione ad un rituale di affiliazione. Per converso, si definisce concorrente
esterno il soggetto che, pur non essendo inserito stabilmente nella struttura organizzativa
dell’associazione, fornisce ad essa un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario
che, inoltre, rappresenti condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento
dell’associazione. La Cassazione ha, inoltre, precisato che l’efficacia causale del contributo
fornito dall’extraneus in termini di conservazione o rafforzamento deve essere accertato ex
post. In ogni caso, non è facile distinguere in modo univoco contributi dotati rispettivamente
di tale efficacia condizionalistica per cui, per evitare un eccesso di discrezionalità giudiziaria,
sarebbe auspicabile un intervento legislativo diretto a precisare le forme di contiguità davvero
meritevoli di repressione penale.

PARTE TERZA
CAPITOLO 1 – REATO COMMISSIVO COLPOSO
SEZIONE I – TIPICITA’
Premessa
La dottrina più recente ha costruito la fattispecie colposa in modo separato ed autonomo rispetto al
modello doloso di reato. Diversamente da come si è spesso sostenuto, infatti, il reato colposo non
costituisce solo una seconda e meno grave forma di colpevolezza da affiancare al dolo ma rappresenta
un modello specifico di illecito penale.

Inoltre, l’evoluzione della responsabilità colposa ha evidenziato l’esistenza di varie tipologie di colpa
che si connotano in modo differente in base ai diversi settori che vengono di volta in volta in rilievo:
colpa medica, colpa del datore di lavoro, stradale, sportiva etc. Il problema di fondo è, dunque, quello
di fissare presupposti minimi e comuni da porre a fondamento di ogni fatto colposo penalmente
rilevante.

Il fatto commissivo colposo tipico: azione


Il vero significato pratico del concetto di azione consiste nella sua funzione selettiva dei
comportamenti penalmente rilevanti, nel senso che tale concetto serve ad escludere le “non azioni”
dall’area del penalmente sanzionabile.

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Nel delitto colposo assumono rilevanza penale però anche comportamenti che non corrispondono al
concetto di azione quale dato sorretto dalla coscienza e volontà come coefficienti psicologici effettivi
(cd. colpa incosciente).

Nel campo del delitto colposo è azione penalmente rilevante finché è possibile muovere un rimprovero
per colpa. Nei reati dolosi la coscienza e la volontà consistono in un coefficiente psicologico effettivo,
mentre nei delitti colposi tale requisito si identifica talvolta in un dato psicologico (cd. colpa
cosciente), talaltra in un dato normativo (cd. colpa incosciente). In quest’ultimo caso, l’azione si
considera voluta anche quando risulta soltanto dominabile dal volere e quindi ciò che si rimprovera
all’agente è di non aver attivato quei poteri di controllo che doveva e poteva attivare per scongiurare
l’evento lesivo.

Inosservanza delle regole precauzionali di condotta


L’art 43 cp definisce il delitto “colposo, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente, e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di
leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Questa disposizione richiama sia requisiti di natura psicologica (negligenza, imprudenza, imperizia)
sia requisiti a carattere normativo (inosservanza leggi, regolamenti ecc). La violazione delle norme a
contenuto precauzionale, infatti, oltre ad integrare una specifica forma di colpevolezza, rileva sul piano
della tipicità, in quanto ogni illecito colposo si conforma sulla base del rapporto intercorrente tra la
trasgressione del dovere oggettivo di diligenza ed i restanti elementi delle fattispecie incriminatrici.
Sicché, il contenuto del dovere di diligenza muta in funzione del tipo di fattispecie che viene in
questione.

Con riferimento al reato causalmente orientato con evento naturalistico (il contenuto si specifica in
base all’evento da evitare), l’azione tipica sarà quella che per prima dà luogo ad una situazione di
contrarietà con la regola di condotta a contenuto preventivo.

L’art 43, quindi, collega la commissione del fatto colposo all'inosservanza del dovere obiettivo di
diligenza che si rintraccia nelle leggi, regolamenti ecc. In questo modo si parla di una sorta di
responsabilità oggettiva che da un lato, riduce il rilievo della causazione materiale dell’evento e,
dall’altro, l’enucleazione di una misura oggettiva di diligenza, rafforza la funzione di tutela dei beni
giuridici tipicamente spettante alla norma penale: pretendere una misura oggettiva equivale, infatti, ad
esigere da parte di tutti i consociati un livello minimo e irrinunciabile di cautele nello svolgimento
della vita sociale.

Criteri di individuazione delle regole di condotta: prevedibilità ed evitabilità dell’evento.


Il limite del caso fortuito
Nell’ambito della colpa cd. generica, cioè quando l’evento si verifica a causa della negligenza,
imperizia e imprudenza dell’agente, il modo in cui l’agente avrebbe dovuto agire si ricava dalle norme
precauzionali connesse alle regole di esperienza che a loro volta si desumono dai giudizi ripetuti nel
tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti e sui mezzi più adatti ad evitarne le
conseguenze.

Nelle situazioni di pericolo già da tempo sperimentate, l’agente potrà ricorrere all’adozione di regole
di condotta socialmente diffuse che suggeriscono l’adozione di comportamenti per prevenire o ridurre
determinate conseguenze dannose. Tuttavia, si evidenzia come non basta la semplice osservanza di
dette regole per esentarsi da responsabilità. Puó, infatti, accadere che si tratti di regole di fatto

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inadeguate al caso concreto (perché ad es. superate dalla successiva evoluzione delle conoscenze).
Pertanto, l’agente dovrà di volta in volta emettere un rinnovato giudizio di prevedibilità ed
evitabilità (come diceva l’Antolisei: se il risultato non poteva essere previsto, nessun rimprovero può
muoversi all’agente).

Vi sono poi situazioni in cui l’uso sociale non si è ancora pronunciato: si pensi ad es. ai pericoli inediti
connessi ad attività di sperimentazione nei laboratori scientifici. Nell’ambito di queste attività, proprio
perché mancano norme preesistenti di condotta, il soggetto dovrà effettuare ex novo un giudizio
prognostico relativo alla pericolosità della condotta sulla base delle conoscenze possedute nell’ambito
di sperimentazione.

Inoltre, nelle società contemporanee, in quanto particolarmente rischiose, la pericolosità di determinate


attività risulta ancora scientificamente incerta, per cui viene in rilievo il principio di precauzione che
funge da criterio che sollecita un rafforzamento dei doveri di attenzione ed informazioni.

Il rispetto di tali regole precauzionali trova un limite in quelle attività rischiose, ma consentite
dall’ordinamento per la loro utilità sociale, in quanto le cautele non posso spingersi fino a
pregiudicare nei suoi aspetti essenziali il comportamento autorizzato.

Il criterio della prevedibilità ed evitabilità dell’evento opera anche nell’ambito della colpa cd.
specifica, dovuta all'inosservanza di regole di condotta, ma in questo caso il giudizio prognostico è già
stato effettuato dal legislatore.

Infine, il limite negativo della colpa è rappresentato dal caso fortuito, che la esclude, in quanto
consiste in un accadimento imprevedibile.

Fonti e specie delle qualifiche normative relative alla fattispecie colposa


Le regole precauzionali hanno una fonte sociale o giuridica.

1. Sono qualifiche normative sociali la negligenza, l’imperizia e l’imprudenza che si ricavano


dall'esperienza della vita sociale e non sono predeterminate dalla legge o da altra fonte
giuridica.
 negligenza: se la regola violata prescrive un’attività positiva.
 imprudenza: trasgressione di una regola di condotta da cui discende l’obbligo di non
realizzare una determinata azione oppure di compierla con modalità diverse da quelle
tenute
 imperizia: forma di imprudenza/negligenza qualificata e si riferisce ad attività che
esigono particolari conoscenze tecniche (ad es. attività medico-chirurgica).

2. Le regole cautelari possono anche essere di fonte giuridica: a ciò allude l’art 43 quando parla
di inosservanza di “leggi, regolamenti, ordini o discipline” (colpa cd. specifica). Nel mondo
moderno si assiste proprio ad una crescente positivizzazione delle regole di prudenza, dirette a
disciplinare e risolvere le situazioni di pericolo più tipiche.

 leggi: per quanto riguarda le leggi, è necessario comprendere se tra queste si devono
considerare le leggi penali genericamente intese. Qualche autore ha sostenuto che,
data la funzione repressiva e preventiva della norma penale, da questa si possono
desumere regole di comportamento. Da ciò, però, deriva un paradosso in quanto non
appare plausibile che la norma che vieti ad esempio un omicidio doloso
contestualmente inviti ad uccidere “con cautela”. Piuttosto, è necessario attribuire al
concetto di leggi di cui all’art. 43 c.p. il significato di legge penale avente una

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specifica finalità cautelare, cioè avente a contenuto l’impedimento di eventi
involontari connessi allo svolgimento di attività lecite.
 regolamenti: si intendono quelle norme a carattere generale predisposte dall’autorità
pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività (regolamento di
esecuzione del codice della strada).
 ordini e discipline: contengono norme indirizzate ad una cerchia specifica di
destinatari e possono essere emanati sia da autorità pubbliche che da privati.

In generale, la responsabilità colposa non viene meno se la regola violata è contenuta in una
fonte normativa affetta da invalidità formale, purché la regola di condotta violata sia adatta al
caso concreto.

Le regole di prudenza normativizzate dal legislatore garantiscono la certezza del diritto più
delle norme di fonte sociale ma, d’altro canto, la colpa specifica presenta un grave
inconveniente, in quanto non considera che nei reati di evento la responsabilità dell’agente
non può essere determinata soltanto sulla base della violazione delle regole di prudenza ma è
altresì necessario verificare che vi sia un nesso causale tra azione-evento e la violazione della
regola.

In ogni caso, la certezza che presentano tali norme dipende dalla maggiore o minore
precisione delle stesse nella descrizione delle condotte da tenere. Non mancano, infatti, casi di
fonti giuridiche espresse che indicano le cautele da osservare in modo così poco preciso da
riprodurre la stessa indeterminatezza della colpa generica. Alla luce di questo, si può ritenere
sussistente una colpa specifica solo nel caso in cui ad essere violata è una misura cautelare
normativamente prevista in modo espresso e di contenuto sufficientemente determinato.

L’osservanza delle regole giuridiche di prudenza esclude la responsabilità penale se tali le


norme giuridiche esauriscono la misura di diligenza richiesta all’agente, nei casi concreti.
Ove invece residui uno spazio di esigenze preventive non coperte dalla disposizione scritta, il
giudizio di colpa si baserà sull’inosservanza di una generica misura precauzionale.

Ad es. un motociclistica che osserva il limite massimo di velocità pur accorgendosi che, nelle
immediate vicinanze, ci sono dei bambini che salgono e scendono pericolosamente dai
marciapiedi (situazione di pericolo riconoscibile e scongiurabile), deve anche rispettare delle
misure ulteriori rispetto alla mera osservanza del limite massimo di velocità.

Le norme giuridiche a contenuto prudenziale si distinguono inoltre in elastiche, che


predeterminano in modo assoluto la regola di condotta da osservare, e rigide, che per essere
applicate necessitano di specificazioni in base alle circostanze del caso concreto.

Colpa medica

Un orientamento tradizionale distingueva la responsabilità nei vari casi di negligenza, imprudenza e


imperizia. Nello specifico, nei primi due casi la colpa del medico avrebbe dovuto essere accertata in
base alle regole generali con la conseguenza di una possibile rilevanza penale anche della colpa lieve.
Nell’ipotesi di imperizia, invece, l’errore del medico sarebbe stato penalmente censurabile solo nel
caso di colpa grave: si faceva in tal senso leva sull’art 2236 cc che stabilisce che il prestatore
d’opera,nel caso di problemi di speciale difficoltà, risponde dei danni soltanto in caso di dolo o colpa
grave.

131
Successivamente, a questo orientamento particolarmente favorevole per il medico era seguito un
orientamento più rigoroso (più con funzione di tutela dei diritti del paziente-vittima) che applicava alla
colpa medica i comuni criteri di valutazione della colpa penalmente rilevante ex art 43 cp.

Dopo ancora, ha trovato rilievo un orientamento più equilibrato che,pur escludendo che il principio
dell’art 2236 potesse automaticamente applicarsi alla colpa penalmente rilevante, si riconosceva
tuttavia che nel caso di imperizia la valutazione giudiziale dell’operato del medico dovesse comunque
tenere conto della complessità del tipo di intervento richiesto.

Più di recente, in considerazione delle peculiarità dell’attività sanitaria, il legislatore ha introdotto una
disciplina specifica della responsabilità colposa del medico, prima con Legge Balduzzi del 2012, poi
con quella Gelli-Bianco del 2017, entrambe accomunate dall’obiettivo di ridurre il rischio penale
gravante sui medici e dalla volontà di contrastare il fenomeno della medicina cd. difensiva (cioè la
pratica con cui il medico difende preventivamente se stesso contro eventuali azioni di responsabilità
astenendosi dal compiere interventi ad alto rischio di insuccesso o prescrivendo una quantità eccessiva
di esami diagnostici non necessari).

 La legge Balduzzi prescrive che il medico se nello svolgimento della propria attività si attiene
a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica ,non risponde penalmente
per colpa lieve. La ratio è ravvisabile nella volontà di esentare da responsabilità il medico, che
risulti nel complesso un professionista affidabile, quando agisce con colpa lieve, mentre è
inescusabile la colpa grave. In ordine a quest’ultima sono sorti problemi definitori. La
cassazione ha ritenuto la sussistente la colpa grave in presenza di una significativa divergenza
tra la condotta effettivamente tenuta dal medico e quella che avrebbe dovuto tenere nella
situazione concreta (ad es. si potrà avere colpa grave, nonostante il medico si attenga a linee
guida, allorché egli erri in maniera macroscopica nell’ adattarle al caso concreto).

 La legge Gelli-Bianco, al fine di ridurre effettivamente il rischio penale gravante sulla classe
medica, ha previsto un nuovo sistema di linee-guida e di buone pratiche mediche sottoposto
ad una verifica di conformità ad opera del ISS. Tale nuovo sistema ha come scopo di guidare
ex ante la condotta dei medici attraverso criteri di orientamento sicuro e, nel contempo, di
fornire ai giudici parametri certi da applicare ex post per l’individuazione concreta delle
ipotesi di colpa penalmente rilevante. Tale legge ha introdotto l’art 590 sexies nel cp
(intitolato Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario), che
stabilisce che nel caso di omicidio colposo e lesioni personali colpose commesso
nell’esercizio della professione sanitaria, la punibilità è esclusa se l’evento si è verificato a
causa di imperizia, ma sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o, in
mancanza, le buone pratiche clinico assistenziali, purché adeguate alla specificità del caso
concreto.

Le innovazioni della nuova disciplina sono le seguenti:

 essa è circoscritta alle sole ipotesi di omicidio colposo e lesioni personali;


 si applica solo nei casi di colpa per imperizia, ma la giurisprudenza ha incluso anche i
casi di negligenza ed imprudenza
 non si riferisce ai gradi della colpa
 le linee guida richiamate sono quelle riconosciute ufficialmente dall’ISS
 le buone pratiche hanno un rilievo residuale rispetto alle linee guida.

Le differenze delle due discipline hanno portato ad interpretazioni contrastanti. In particolare, la


Cassazione ha, talvolta, rinnegato l’effettiva portata innovativa della legge Gelli contestando

132
l’introduzione di una nuova causa di non punibilità, talaltra ha ritenuto di individuare il novum della
riforma nella irrilevanza penale attribuita agli eventuali errori medici commessi nella esecuzione di
linee-guida preventivamente selezionate in maniera corretta.

Importante in tal senso è stato il Caso Mariotti.

Con una motivazione compromissoria le Sezioni Unite da un lato hanno avallato la tesi che l’art 590
sexies c.2 ha introdotto una nuova causa di esclusione della punibilità di eventi colposi dovuti ad
imperizia, dall’altro hanno riesumato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave di cui la Legge Gelli
non fa minimamente accenno.

La Cassazione ha stabilito che l’esercente la professione sanitaria potrà essere chiamato a rispondere a
titolo di colpa se:

1. l’evento si è verificato per colpa da negligenza o imprudenza a


2. l’evento si è verificato per colpa da imperizia quando il caso concreto non è regolato da linee
guida o buone pratiche cliniche
3. l’evento si è verificato per colpa da imperizia nella scelta di linee guida o buone pratiche
cliniche non adeguate alla specificità del caso concreto
4. l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di
linee guida o buone pratiche cliniche adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e
delle difficoltà dell’atto medico.

Vi sono dubbi in merito alla distinzione non agevole tra fase selettiva (sub 3) e fase esecutiva (sub 4),
in quanto la specificità della attività sanitaria suole prendere le mosse da ipotesi congetturali e
procedere per tentativi ed errori, apportando aggiustamenti successivi e talora compiendo anche
radicali mutamenti di rotta imposti dall’ evolvere della condizione patologica dei pazienti (ad es. il
farmaco scelto inizialmente dal medico può risultare inizialmente adeguati al caso concreto, ma poi
meno adatto in considerazione dell’evolversi della condizione del paziente).

La stessa pronuncia dimostra quanto la giurisprudenza guardi ancora con favore all’applicazione
dell’art 2236 cc con riferimento alla colpa rilevante in ambito penale.

Contenuto della regola di condotta


In alcuni casi il dovere obiettivo di diligenza impone al soggetto di astenersi dal compimento di una
determinata azione, perché il compierla porterebbe con sé un rischio troppo elevato di realizzazione
della fattispecie colposa (es. automobilista colto da un malore che prima di rimettersi in macchina
deve attendere che il malore sia passato). Analogo obbligo di astensione grava su coloro i quali non
siano sufficientemente esperti per espletare mansioni che richiedono cognizioni tecniche particolari
(es. medico inesperto che deve delegare ai colleghi più esperti un’operazione particolarmente delicata
(se non lo fa ed opera risponde della morte del paziente se è causa di un suo errore - cd. colpa per
assunzione).

Nella maggior parte dei casi, il dovere di diligenza impone di realizzare l’azione in questione
adottando determinate misure cautelari (es. guida di automobili in centri abitati consentita solo a certe
velocità; uso di materiali pericolosi è lecito solo se si osservano particolari cautele). In questi casi la
norma cautelare si atteggia a regola modale, per cui il soggetto adempie al dovere di diligenza se
adotta quelle modalità comportamentali definite dalla norma.

Parte della dottrina più recente suole distinguere le regole cautelari in proprie ed improprie, in
funzione del diverso grado di evitabilità dell’evento lesivo:

133
- sono proprie quelle misure la cui osservanza assicura il mancato verificarsi dell’evento;
- sono improprie quelle misure che si limitano soltanto a garantire una riduzione del rischio di
verificazione di eventi dannosi.

Il dovere di diligenza può avere un contenuto anche un obbligo di preventiva informazione: es.
l’automobilista che intende compiere un viaggio all’estero deve prendere conoscenza delle norme del
codice della strada vigente nel paese in cui andrà; l’imprenditore che si accinge ad avviare un’attività
produttiva deve prendere preventiva cognizione delle misure di sicurezza prescritte al fine di evitare
che da quella attività derivino conseguenze dannose a carico di operai o terzi.

Dal principio della divisione del lavoro consegue che colui il quale riveste una posizione
gerarchicamente sovraordinata è anche titolare dell’obbligo di scegliere con avvedutezza propri
collaboratori, di istruirli e di controllarne l’operato; i dipendenti, invece, devono attenersi
scrupolosamente alle istruzioni loro impartite.

Standard oggettivo del dovere di diligenza


Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento deve essere effettuato ex ante in base a un
parametro “oggettivo” secondo il quale la misura della diligenza, della perizia e della prudenza dovute
sarà quella del modello di agente che svolge la stessa professione o stesso mestiere, lo stesso ufficio, la
stessa attività dell’agente reale.

All’interno di una stessa categoria sociale di appartenenza è enucleabile una pluralità di tipi di agenti-
modello: es. la misura della perizia oggettivamente richiesta nell’espletamento dell’attività sanitaria è
graduabile a seconda della cerchia di appartenenza del medico (chirurgo. generico, cattedratico).

L'utilizzazione di un tipo oggettivo di agente-modello non impedisce i certi casi di individualizzare


ulteriormente la misura della diligenza imposta: così, se l’agente reale possiede delle conoscenze
superiori rispetto a quelle proprie del tipo di appartenenza, queste dovranno essere tenute in conto nel
ricostruire l’obbligo di diligenza da osservare. Diversamente, i soggetti dotati di conoscenze particolari
avrebbero concesso il privilegio di non rispondere dei loro atti negligenti o imprudenti (es. ricercatore
scientifico che lavora con sostanze chimiche la cui pericolosità è solo a lui nota).

Qualche autore distingue tra maggiori conoscenze causali (es. automobilista che conosce la
particolare pericolosità di un incrocio vicino alla sua abitazione) e speciali capacità (es. automobilista
esperto pilota da corsa). Mentre il primo implicherà un innalzamento dello standard di diligenza
richiesta nella situazione concreta, il secondo no perché il diritto penale non può imporre al soggetto
sempre e comunque lo sfruttamento integrale di una sua dote eccezionale sotto la minaccia della
sanzione.

La previa individuazione del tipo di agente-modello corrispondente al caso concreto oggetto di


giudizio costituisce il presupposto per specificare le misure cautelari da adottare allo scopo di
neutralizzare o ridurre il rischio di verificazione di eventi lesivi. L’alternativa che si profila è tra
un orientamento sociologico e un orientamento deontologico:

a) orientamento sociologico → rinvenibile nella Sent. Cost. 312/1996 in materia di


esposizione ad attività lavorative rumorose, l’agente-modello, nel ruolo di
imprenditore, è tenuto ad adottare le medesime misure preventive che gli imprenditori
adottano nello stesso tipo di attività produttiva. Questo comporta un duplice
vantaggio:
 evita gli elevati costi economici di misure tecnologiche più all’avanguardia

134
 consente di predeterminare in misura più certa e prevedibile il contenuto dei doveri
incombenti sull’agente-modello
b) orientamento deontologico → posto che l'orientamento sociologico si espone
all’obiezione di depotenziare la funzione preventiva in presenza della tutela di beni
giuridici primari, soccorre in sostituzione questo diverso orientamento utilizzato da
giurisprudenza e dottrina dominanti, il quale sostiene che l’agente-modello è tenuto ad
adottare le misure preventive tecnologicamente più evolute ed efficaci disponibili al
momento, anche se si tratta di misure economicamente più costose e non ancora
generalmente diffuse nel settore di attività in questione.
Parte della dottrina sostiene che l’accertamento della colpa deve seguire due fasi → doppia misura
delle colpa:

- in sede di tipicità si accerta la violazione del dovere obiettivo di diligenza commisurato alla
stregua dell’agente-modello;
- in sede di colpevolezza si verifica se il soggetto che ha agito in concreto era in grado di
impersonare il tipo ideale di agente collocato nella situazione data

Limiti del dovere di diligenza: a) rischio consentito


Quasi tutte le attività umane presentanti margini ineliminabili di rischio, soprattutto con riguardo alle
attività definite come intrinsecamente pericolose, che però l’ordinamento giuridico tollera in
considerazione della prevalente utilità sociale o perché trattasi di attività indispensabili alla vita di
relazione( ad es. la circolazione automobilistica, la produzione di materiali esplosivi.

Per queste ragioni il giudizio di colpa presuppone che sia oltrepassato il limite del rischio consentito
nell’ambito delle diverse attività umane, rendendosi necessario operare un bilanciamento tra il grado
di pericolosità di certe azioni o attività e la libertà di realizzarle in base ai vantaggi che se ne possono
ricavare.

Comunemente si sostiene che, qualora un danno si verifichi nonostante il diligente svolgimento delle
suddette attività, ciò che manca è il disvalore tipico dell'illecito colposo. Tuttavia, una tale conclusione
non chiarisce i criteri idonei ad individuare il punto di equilibrio tra l’esigenza della protezione dei
beni giuridici minacciati dalle attività rischiose e la contrapposta esigenza della libertà di azione.
La soluzione a un tale bilanciamento diventa impegnativa in materia di responsabilità per il tipo di produzione,
laddove si tratti di attività pericolosa e laddove sia, da un lato, assente la previsione legale di misure
precauzionali e sia carente il sistema di controllo preventivo da parte dell’autorità amministrativa. In questi casi
se l'osservanza dell’obbligo della necessaria prudenza imponga addirittura la rinuncia a realizzare l’attività
produttiva pericolosa, è giudizio che resta infatti affidato al giudice e che può essere emesso soltanto in base a
complessi bilanciamenti di interessi, che tengano contemporaneamente conto della tutela della salute, delle
esigenze occupazionali e delle esigenze dell’economia.

In realtà si opera una valutazione spesso operata secondo criteri meramente fattuali: cioè si ritiene
consentito ciò che di fatto viene tollerato dalla comunità sociale con la conseguenza di legittimare una
prassi il cui grado di pericolosità dei comportamenti tollerati superi il grado di utilità che essi
producono per la collettività.

Un criterio giuridicamente più vincolante di individuazione preventiva dell’area del rischio consentito
può essere, invece, offerto dal riferimento alle autorizzazioni amministrative, che rendono
esplicitamente lecito lo svolgimento di determinate attività, subordinandone l'esercizio al rispetto di
precise norme cautelari.

135
b) Principio dell’affidamento e comportamento del terzo
Ci si chiede se a carico di ciascun consociato, oltre al dovere obiettivo di diligenza, sorgano obblighi a
contenuto cautelare relativi alla condotta di terze persone. Nel caso in cui la regola di condotta violata
da terzi sia una norma scritta nella quale rientri anche l’impedimento di eventi cagionati da terze
persone, il soggetto risponderà nei casi previsti dalla legge (es. se un agente di polizia ha l’obbligo di
perseguire tutti coloro che si avvicinano a un uomo politico e, causa di una perquisizione effettuata
male, l’uomo politico subisce un’aggressione, può incombere sull’agente una responsabilità per
omicidio o lesioni personali anche se cagionate da terzi. Se invece la norma violata è desumibile dagli
usi sociali è necessario distinguere a seconda che la condotta del terzo dia luogo a responsabilità
colposa o dolosa.

1. Responsabilità colposa > si applica il principio dell’affidamento: ogni consociato può


confidare sul fatto che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente
riferibili al modello di agente proprio dell’attività che viene svolta. Il rispetto di questo
principio è imposto dall’esigenza di circoscrivere il dovere obiettivo di diligenza incombente
su ciascuno in modo tale da renderlo compatibile col carattere personale della responsabilità
penale: ognuno deve evitare soltanto i pericoli scaturenti dalla propria condotta e non può
avere l'obbligo di impedire che terze persone, capaci di scelte responsabili, realizzino
comportamenti pericolosi.

Questo principio generale subisce delle eccezioni:

 nei casi in cui particolari circostanze lascino presumere che il terzo non sia in grado
di scelte responsabili (es. Caio presta la propria auto a Tizio nonostante sia a
conoscenza del fatto che Tizio è privo di patente, nel caso di incidente provocato da
quest'ultimo Caio non potrà invocare il principio dell’affidamento a propria discolpa);
 ipotesi nelle quali l’obbligo di diligenza si innesta sulla posizione di garanzia nei
confronti di un terzo incapace di provvedere a se stesso (es. infermiere che ha
l’obbligo di impedire che il pazzo a lui affidato compia azioni pericolose);

Merita attenzione il problema relativo alla responsabilità medica nelle attività di


equipe: ogni partecipante risponde solo del corretto adempimento dei doveri di
diligenza e di perizia inerenti ai compiti che gli sono affidati. Per stabilire se vi è un
obbligo di controllo e sorveglianza dell’operato altrui è necessario tener conto della
posizione gerarchica che ciascun partecipante occupa in seno all’équipe e dall’altro,
dall’esistenza di ragioni oggettive/soggettive che fanno dubitare del fatto che il terzo
tiene un comportamento conforme a diligenza.

2. Responsabilità dolosa > vale a maggior ragione il principio dell’autoresponsabilità: essendo


l’azione dolosa frutto di una libera scelta dell’agente, ciascuno risponde delle proprie azioni
deliberate liberamente.

Il principio dell’autoresponsabilità non è illimitato ma patisce delle eccezioni:


 nei casi in cui il soggetto riveste una posizione di garanzia per la difesa di beni
rispetto alle aggressioni dolose di terzi (es. guardia del corpo assunta per proteggere
da aggressioni di terzi);
 l’ipotesi in cui un soggetto mette a disposizione di un terzo delle fonti di pericolo in
circostanze nelle quali vi è un’elevata probabilità che il terzo se ne possa servire per
commettere un illecito doloso (es. caio da a tizio una pistola, previa sua richiesta, pur

136
sapendo che tizio si trova in uno stato di violenta agitazione e che è solito picchiare la
moglie).

Il principio dell’affidamento, tuttavia, riceve in giurisprudenza un riconoscimento abbastanza limitato


e un ridotto spazio di operatività:
 circolazione stradale > è consolidato l’orientamento rigoroso secondo il quale il conducente è
obbligato a tener conto delle prevedibili scorrettezze altrui; tale indirizzo ha ricevuto un
temperamento in pochi casi nei quali è stato apposto il limite dell’imprevedibilità;
 attività di equipe > la premessa da cui i giudici sono soliti prendere le mosse è costituita dal
rilievo che la divisione del lavoro costituisce un fattore di sicurezza, in quanto ciascuno è
posto nelle condizioni di profondere tutta la sua attenzione nell’attività di sua stretta
competenza. nel contempo però, la stessa attività è soggetta a rischi di coordinamento,
informazione, comprensione, ecc.., sicché, quando si verificano circostanze che mettono in
evidenza la negligenza altrui, ciascuno dei componenti dell’equipe dovrebbe farsi carico di
questi rischi per correggere l’operato altrui, indipendentemente dall’esistenza di rapporti
gerarchici o posizioni di garanzia).

Nesso di rischio tra colpa ed evento


Nel reato colposo di evento, l’evento lesivo deve rappresentare la conseguenza della condotta illecita,
cioè della violazione della regola di condotta, il nesso di causalità si accerta secondo la teoria
condizionalistica. Ciò si coglie dallo stesso art 43 cp che definisce delitto colposo quello che si
verifica “a causa” di negligenza, imprudenza, imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti,
ordini o discipline.

Si parla di causalità della colpa, in quanto si esige che la violazione della norma cautelare sia causa
dell’evento o, più specificamente, di nesso di rischio, in quanto nell’evento lesivo deve appunto
concretizzarsi lo specifico rischio o pericolo che l’agente avrebbe dovuto neutralizzare adottando le
cautele doverose di fatto omesse. Il nesso di rischio ha una duplice implicazione:

- Scopo di tutela. l’evento lesivo colposo deve rientrare nello scopo di tutela perseguito dalla
regola cautelare violata, cioè deve appartenere a quel tipo di eventi che la regola ex ante era
finalizzata a prevenire.

Ad esempio, l’obbligo di stop al semaforo rosso ha come specifico scopo quello di prevenire
potenziali collisioni nel circoscritto contesto spazio-temporale delimitato dalla presenza del
semaforo, motivo per cui, se un automobilista non rispetta il rosso e ad un centinaio di metri di
distanza investe mortalmente un bambino che attraversa improvvisamente la strada, la morte
del bambino non rappresenta un evento rientrante nel tipo di quelli che la norma, relativa
all’obbligo di rispettare il rosso, tendeva a prevenire. L’automobilista non può rispondere per
delitto colposo sulla base della violazione dell’obbligo di rispettare il semaforo rosso,
nonostante sia probabile che se si fosse fermato, sarebbe arrivato al luogo dell’incidente in un
momento più tardo e verosimilmente non avrebbe investito il bambino.

- * Evitabilità in concreto dell’evento. Secondo la dottrina più avveduta e la giurisprudenza


più recente, è altresì necessario effettuare a posteriori un giudizio volto ad accertare l’efficacia
preventiva concreta della regola cautelare. Bisogna cioè valutare a posteriori se, nella
situazione data, l’evento lesivo si sarebbe comunque verificato qualora la regola fosse stata
rispettata. Nel caso di esito affermativo, mancherebbe la cosiddetta causalità della colpa, in
quanto l’evento, pur essendo cagionato dalla condotta materiale, non sarebbe al tempo stesso

137
conseguenza della sua natura colposa. In altre parole, verrebbe meno la connessione di rischio
tra la condotta colposa e l’evento proprio. A voler, invece, ritenere che la responsabilità penale
sussista a prescindere dall’evitabilità concreta dell’evento, si finirebbe col ridurre la
distinzione tra responsabilità colposa e responsabilità oggettiva; ci si accontenterebbe, così, di
accertare soltanto la violazione di una regola astrattamente idonea a prevenire eventi di un
certo tipo.

Un esempio rappresentato dei medici che, nel corso di un’operazione, somministrano al


paziente cocaina al posto di novocaina, provocandone la morte. Si accerta che il paziente
sarebbe comunque morto a causa della sua ipersensibilità nei confronti di ogni tipo di
narcotico (anche di novocaina). In questo la giurisprudenza tedesca ha ritenuto mancante il
nesso di rischio perché la particolare condizione del paziente ne avrebbe comunque
comportato la morte, anche se il medico avesse somministrato la sostanza corretta, escludendo
così la responsabilità colposa.

Oggi in dottrina rimane ancora aperto un problema ampiamente dibattuto, è necessario


stabilire se il nesso di rischio tra colpa ed evento, e di conseguenza la responsabilità colposa,
vanno esclusi soltanto quando è certo che il comportamento conforme alla regola preventiva
sarebbe risultato idoneo ad impedire l’evento o anche quando è probabile o semplicemente
possibile.

Parte della dottrina colloca tale problema nella categoria della causalità concepita in senso
giuridico e ritiene che, ai fini dell’esclusione della responsabilità occorre dimostrare che con
una probabilità vicina alla certezza, l’azione conforme alle regole cautelari sarebbe valsa a
evitare l’evento lesivo. Nei casi in cui rimane dubbia l'evitabilità dell’evento, perché non è
esclusa la possibilità che questo si verifichi ugualmente, nonostante l’osservanza della misura
cautelare, il principio in dubio pro-reo induce a negare la responsabilità penale.

Ci si chiede, però, se sia giusto privilegiare a tal punto le ragioni dell’imputato in base al
principio in dubio pro-reo, da escludere la responsabilità colposa nel momento in cui sia
ipotizzabile che l’osservanza della regola cautelare avrebbe avuto almeno serie probabilità di
evitare l’evento. Si pensi al settore medico, caratterizzato spesso da incertezza, sicchè la stessa
osservanza dei doveri professionali spesso non assicura il salvataggio del paziente.

E’ ragionevole punire il medico soltanto nei casi in cui l’intervento terapeutico corretto
avrebbe quasi certamente avuto buon esito?

Alla luce di queste considerazioni, la dottrina maggioritaria, perseguendo esigenze di


prevenzione generale, opta per un inquadramento della questione nell’ambito della colpa, in
combinazione con il criterio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio.
Relativamente ai reati commissivi colposi, una volta verificato il nesso di causalità materiale
tra l’azione illecita e l’evento lesivo, ai fini del giudizio di colpa è sufficiente supporre che il
comportamento alternativo lecito avrebbe diminuito il rischio di verificazione dell'evento
offensivo. Nel caso di reati omissivi colposi, trattandosi di mancato impedimento dell’evento
lesivo, l’accertamento della causalità e quello della colpa finiscono col sovrapporsi e
coincidere. Di conseguenza, l’affermazione della responsabilità presuppone la quasi certa
idoneità della condotta ad evitare l’evento.

Nella dottrina più recente vi sono anche autori favorevoli ad applicare la teoria del rischio
all’ambito dei reati omissivi colposi, ritenendo che, in ogni caso, l’imputazione colposa
dell’evento debba basarsi su criteri probabilistici ancora al paradigma del rischio.

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La scelta di inquadramento dogmatico appare però come un tentativo di razionalizzazione,
volto a privilegiare soluzioni ritenute più corrette in ambito valutativo e politico-giuridico. La
questione davvero decisiva consiste nel comprendere se sia giusto procedere all’imputazione
penalistica dell’evento sulla base dei criteri quali l’aumento o la mancata diminuzione del
rischio, piuttosto che prendere in considerazione i criteri della causalità o della colpa.

SEZIONE 2 - ANTIGIURIDICITA’
Premessa

Nell’ambito del reato colposo, la dottrina italiana ha lasciato quasi supporre che l’antigiuridicità
obiettiva del fatto tipico si atteggi allo stesso modo che nel reato doloso. Tuttavia, è fondato ritenere
che la diversità strutturale tra i due tipi di illecito condizioni in qualche modo l’operatività delle cause
di giustificazione, almeno nel senso che nel reato colposo forse non sono prospettabili tutte le
scriminanti esimenti.

Consenso dell’avente diritto


La giurisprudenza prevalente tende ad escludere l’efficacia scriminante del consenso nei reati
colposi in quanto, da un lato, non scriminerebbe a causa della natura indisponibile dei beni della vita e
della integrità fisica e, dall’altro, sussisterebbe incompatibilità tra il consenso concepito come volontà
di lesione ed il carattere involontario del reato colposo. In questo senso il consenso dell’avente diritto
opererebbe soltanto nell’ambito di reati dolosi (consenso come manifestazione di volontà).

Tuttavia, l’argomento che fa leva sul carattere indisponibile degli interessi oggetto di tutela dimostra
soltanto che la tesi della compatibilità ha una portata assai limitata, ma non del tutto escludente con
riguardo ai reati colposi.

Quanto al secondo argomento, cioè quello basato sul contrasto tra volontà di lesione sottesa al
consenso e involontarietà dell’offesa quale requisito della colpa, si obietta che si può consentire ad una
attività pericolosa, senza per questo voler l’effettiva verificazione dell’evento lesivo. Ad esempio, se
tre giovani salgono sulla motocicletta di un amico pur consapevoli che la strada sconnessa può
provocare una caduta e la caduta poi si verifica cagionandogli leggere ferite, non si dubita che il
conducente potrà beneficiare dell'esimente di cui all’art 50.

Tradizionalmente, la scriminante del consenso ha esercitato un ruolo per circoscrivere la responsabilità


colposa negli importanti settori dell’attività medica e dell’attività sportiva, ma la dottrina oggi
prevalente tende a ridimensionare la funzione scriminante rinvenendo il fondamento della liceità delle
due attività nell’art 51 cp, quali attività giuridicamente autorizzate. Pertanto, al consenso rimane uno
spazio residuale, cioè esso costituisce solo una condizione aggiuntiva della legittimità di una attività
già lecita nel suo fondamento (si pensi al consenso del paziente nell’attività terapeutica) oppure serve
a rendere legittime condotte che fuoriescono dallo schema delle attività autorizzate.

Legittima difesa
Parte della dottrina nega l'applicabilità della legittima difesa che presuppone la volontà di ledere
l’aggressore, mentre nel reato colposo fa difetto proprio la volontà dell’offesa. Altri, però, ritengono
legittimo provocare anche un evento lesivo che l’agente in realtà non ha voluto e che avrebbe potuto
evitare con l’uso della diligenza dovuta.

Si pensi al caso di Tizio che, accerchiato da alcuni giovani che stanno per percuoterlo, estrae un’arma
e li minaccia, ma i giovani tentano di disarmarlo e, nel corso di una colluttazione che ne consegue,
parte involontariamente un colpo che uccide uno degli aggressori. Anzitutto, va escluso che si

139
configuri un’ipotesi di eccesso colposo punibile ex art 55 (il quale presuppone un’azione difensiva
volontariamente diretta contro l’aggressore, mentre nel caso in esame manca la volontà di aggredire).
Va altresì escluso che il fatto integri omicidio colposo: infatti, se il colluttare per difendere il possesso
dell’arma è un agire che non va oltre i limiti di quanto è necessario fare al fine di difendersi,
apparirebbe contraddittorio definire imprudente una azione necessitata nell’accezione di cui all’art
52.

Stato di necessità
Dottrina e giurisprudenza generalmente ammettono lo stato di necessità nel delitto colposo. Si pensi
al caso di un genitore che, uscendo con la propria automobile da un cortile privato e vedendo il proprio
figlio di pochi anni camminare pericolosamente su di un argine, arresta all’improvviso la vettura nel
mezzo della strada e, così facendo, procura delle lesioni personali ad un motociclista che si scontra
contro il veicolo imprudentemente abbandonato.

È da precisare che lo stato di necessità ricorre veramente solo quando l’azione necessitata viola il
dovere obiettivo di diligenza (come nel caso del genitore).

In altre ipotesi, invece, l’azione necessitata viola soltanto apparentemente il dovere di diligenza. Si
pensi al conducente di un autobus che effettua una brusca frenata per evitare lo scontro con un
autocarro e così provoca delle lesioni ai passeggeri. In questo caso gli offesi sono contestualmente
tutelati da una offesa maggiore grazie alla condotta dell’automobilista, il quale, dunque, realizza in
concreto il migliore adempimento possibile del dovere generale di prudenza.

Il fatto che l’azione necessitata violi o no il dovere di diligenza si ripercuote, a sua volta, sull’esistenza
del fatto tipico, sicché non potrà riconoscersi il diritto all’indennità degli offesi, fissato ex art 2045
cc, quando il fatto tipico viene a mancare per la conformità del comportamento necessitato alla regola
precauzionale.

SEZIONE 3 - LA COLPEVOLEZZA
Struttura psicologica della colpa
Dal punto di vista psicologico la colpa presuppone, anzitutto, l’assenza della volontà diretta a
commettere il fatto.

Si continua ancora a riproporre la distinzione tra:

 colpa propria, caratterizzata dalla mancanza di volontà dell’evento, che rappresenta l’ipotesi
tipica della colpa;
 colpa impropria, che costituisce un’ipotesi eccezionale in quanto si configurerebbe nonostante
la volizione dell’evento (vi si fanno tradizionalmente rientrare ad es i casi di eccesso colposo
nelle cause di giustificazione, di erronea supposizione colposa di una scriminante e di errore di
fatto determinato da colpa).

La denominazione di colpa impropria è fraintendibile in quanto suscita l’impressione di essere di


fronte a fatti intrinsecamente dolosi, ma trattati come se fossero colposi sul piano delle conseguenze
sanzionatorie. In realtà si tratta di fatti strutturalmente colposi in quanto, nonostante la volizione in
senso psicologico dell’evento, il dolo non è configurabile perché manca la coscienza e volontà
dell’intero fatto tipico, considerata l’erronea rappresentazione di elementi non corrispondenti alla
realtà. Inoltre, ciò che si rimprovera all’agente non è di aver voluto l’evento, ma di averlo provocato
con negligenza o imperizia.

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Si distingue poi tra:

 colpa cosciente (o con previsione) quando l’agente non vuole commettere il reato, ma si
rappresenta l’evento come possibile conseguenza della sua condotta.
 colpa incosciente che ricorre nei casi (più frequenti) in cui il soggetto non si rende conto di
potere ledere o porre in pericolo beni giuridici altrui con il proprio comportamento. In questi
casi il rimprovero che si muove all’agente è di non aver prestato sufficiente attenzione alla
situazione pericolosa.

Nonostante si considera la colpa incosciente una delle forme tipiche dell’elemento psicologico, gran
parte dei casi di colpa incosciente difetta di coscienza e volontà come coefficienti psicologici reali
(come le azioni impulsive o automatiche), sicché il giudizio di imputazione diventa di natura
normativa e l’accertamento della colpa tende a coincidere con la possibilità di muovere al soggetto un
rimprovero per non aver osservato le norme di comportamento necessarie a prevenire la lesione di
beni giuridici.

Se così è, la responsabilità tende ad assumere una dimensione eccessivamente oggettivistica, motivo


per cui la dottrina più sensibile propone di limitare l’ambito di rilevanza penale della colpa
incosciente, suggerendo a tratti anche la depenalizzazione di tutti i fatti riconducibili a tale tipo di
coefficiente soggettivo.

La misura soggettiva del dovere di diligenza


La dottrina ha introdotto un criterio di doppia misurazione del dovere di diligenza per riuscire a
personalizzare il più possibile il giudizio di colpa. Questa si articola attraverso un primo accertamento
relativo alla violazione del dovere di diligenza (enucleato sulla base dell’uomo della stessa professione
e condizione, per evitare una determinazione troppo generale ed astratta del dovere di diligenza) e un
secondo accertamento volto a valutare l’attitudine del soggetto che ha in concreto agito ad uniformare
il proprio comportamento alla regola di condotta violata, che tiene conto del livello individuale di
capacità, esperienza e conoscenza del singolo agente.

Non è però possibile considerare tutte le caratteristiche personali dell’agente concreto, perché
altrimenti si finirebbe con il giustificare ogni azione colposa perché si sarebbe indotti a concludere
che, proprio in considerazione delle attitudini dell’autore, non era umanamente esigibile un
comportamento diverso. Da ciò si ricava che è necessario escludere alcune caratteristiche in sede di
personalizzazione del giudizio di colpa. Ad esempio, è da escludere che possano assumere rilevanza
tratti caratteriali o emotivi come l’indifferenza, l’insensibilità ecc.

Il problema consiste allora nel determinare le qualità personali che devono rientrare nella base del
giudizio di colpa. Più specificamente, la disputa tra “oggettivisti” e “soggettivisti” riguarda lo stabilire
se, ai fini del giudizio di colpa, assumano rilevanza le caratteristiche fisiche e/o intellettuali come:
difetti, menomazioni o cattive condizioni di salute, livello di socializzazione e scolarizzazione etc.

In una prospettiva di equilibrato bilanciamento tra difesa sociale e principio di colpevolezza, è giusto
evitare che si risponda penalmente al di là dei limiti fisico- intellettuali di ciascuno. Si consideri il caso
di un principiante che, pur compiendo un’esercitazione di guida nel rispetto di tutte le precauzioni
imposte dal codice della strada, si venga improvvisamente a trovare in una situazione di emergenza e
che, a causa dell’inesperienza, non riesca a realizzare la manovra necessaria ad impedire il ferimento
di un terzo. In un’ipotesi del genere è da ritenere che la colpa venga meno per mancanza di
rimproverabilità soggettiva del conducente principiante, incapace di affrontare una situazione di

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emergenza poiché privo soprattutto di quelle conoscenze pratiche per farvi fronte in maniera
tempestiva.

Il grado della colpa


L’art. 133 c.p. menziona il grado della colpa tra gli indici di commisurazione della pena ammettendo
una possibile graduazione della colpa, anche se non esplicita i criteri in base ai quali il giudice deve
effettuare tale valutazione. Per stabilire quanto grave sia la colpa, dovrà accertarsi la misura di
divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e la condotta che era invece da attendersi in base alla
norma cautelare cui ci si doveva attenere nel caso di specie, si tratta quindi di individuare criteri di
graduazione coerenti con la colpa penale. In sede di verifica del grado di divergenza si integreranno
reciprocamente un criterio oggettivo, nell’ambito del quale si accerterà quanto il comportamento
realizzato si allontani dallo standard oggettivo della diligenza richiesta, e un criterio soggettivo,
destinato alla verifica delle cause soggettive che hanno fatto sì che l’agente non osservasse la misura
prescritta di diligenza.

Prendiamo in considerazione il caso di un autista di pullman che superi il limite di velocità per fare
rientro a casa a fine turno ma, a causa dell’eccessiva stanchezza, non si accorge di un segnale di stop e
provoca un incidente non riuscendo a frenare in tempo. In questo caso, va contemperata la divergenza
tra limite di velocità prescritto e velocità concretamente tenuta, attribuendo valore attenuante allo stato
di stanchezza.

Cause di esclusione della colpevolezza


Vi possono essere, in concomitanza all’agire colposo, delle circostanze anormali capaci di incidere
sullo stesso an della punibilità.

L’esigenza di riconoscere efficacia scusante alle circostanze anormali è da molti condivisa, ma


questioni sorgono in merito alla necessità di una loro tipizzazione legislativa.

Secondo parte della dottrina, il legislatore del 1930 si è già occupato di tipizzare queste circostanze
esimenti nel caso di delitti colposi attraverso gli artt. 45 e 46 che elaborano le categorie di “caso
fortuito”, “forza maggiore” e “costringimento fisico”, quali ipotesi di circostanze anormali che
impediscono all’agente di conformare il proprio comportamento alle regole di diligenza da osservare
nel caso concreto.

Ma, come la dottrina maggioritaria ha evidenziato, la vera importanza delle circostanze anormali non
si manifesta con riguardo alle ipotesi previste dagli artt 45 e 46, bensì con riferimento alle circostanze
anomale che sono in grado di inibire le capacità psicofisiche dell’agente, senza tuttavia integrare tutti
gli estremi delle circostanze tipizzate. Il rilievo e la portata scusante di tali ulteriori circostanze si
possono desumere dell’art 42 cp, nella parte in cui dice “nessuno può essere punito per un’azione od
omissione prevista dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”,
espressione che funge da clausola generale comprendente tutte le circostanze anormali innominate
capaci di escludere la colpevolezza perché inibiscono i poteri di orientamento cosciente e volontario
dell’agente (come stati di terrore, stordimento, stanchezza eccessiva, paura, costernazione ecc.)

SEZIONE IV – LA COOPERAZIONE COLPOSA


L’art 113 cp dispone: “Nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di
più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è aumentata
per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto”.

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La disposizione disciplina l’istituto del concorso di persone nel reato colposo, denominato
cooperazione colposa.

La ratio si rinviene nell’intento del legislatore del 1930 di risolvere la disputa dottrinale relativa
all’ammissibilità della compartecipazione criminosa sul terreno del reato colposo, figura rispetto alla
quale si obiettava facendo leva su un contrasto (incompatibilità) tra il requisito del “ previo accordo”
(allora ritenuto elemento necessario del concorso) e il carattere involontario della colpa.

Risolto il problema dell’ammissibilità per il tramite dell’art 113, l’attenzione della dottrina si è
concentrata sui criteri atti a distinguere la compartecipazione colposa dal concorso di cause colpose
indipendenti.

La dottrina tradizionale ravvisa il criterio di distinzione tra le due figure a seconda dell’esistenza o
meno di un legame psicologico tra i diversi soggetti agenti: così, ad esempio, si avrebbe cooperazione
colposa nell’ipotesi del proprietario dell’auto che istighi il conducente a tenere una velocità eccessiva,
qualora ne consegua un investimento; mentre, si avrebbe concorso di fatti colposi indipendenti ad es.
nel caso di due automobilisti che, l’uno all’insaputa dell’altro, concorrano a provocare uno stesso
incidente.
Secondo alcuni autori è sufficiente che questo legame psicologico consista nella consapevolezza di
collaborare con la propria condotta all’azione materiale altrui (chiaramente senza la volontà di
cagionare l’evento lesivo); secondo altri, invece è necessaria l’ulteriore consapevolezza del carattere
colposo della condotta altrui. In questo modo si incrimina una condotta di cooperazione che, in se
stessa considerata, può non essere in contrasto con le regole cautelari, e che riceve la qualifica di
colposa soltanto per riflesso dell’altrui negligenza, imprudenza o imperizia a cui si aderisce
volontariamente.
L’art. 113 assolve:
 funzione di disciplina, assoggettando ad un particolare trattamento penale fatti che sarebbero
già reprimibili autonomamente in base alle fattispecie di parte speciale;
 funzione incriminatrice, attribuisce rilevanza penale a comportamenti colposi non tipizzati
nelle fattispecie monosoggettive di parte speciale, e come tali non punibili in assenza di una
norma estensiva della punibilità.
Questa impostazione va incontro a diverse obiezioni:
1. In linea di principio non si comprende perché la semplice consapevolezza di concorrere con
altri sia sufficiente a rendere incriminabile una condotta che in sé sarebbe lecita perché non
direttamente contrastante con le regole di diligenza, prudenza e imperizia.
2. Il rilievo attribuito all’elemento psicologico della consapevolezza appare incompatibile con la
più recente evoluzione della teoria della colpa morale, secondo la quale, quello di colpa è un
concetto strettamente normativo, e la colposità delle singole condotte di cooperazione deve
essere accertata sul terreno dell’elemento materiale, cioè in uno stadio che precede quello
dell’elemento psicologico.
3. La funzione incriminatrice di cui all’art. 113 viene messa in dubbio in relazione alla categoria
degli illeciti causalmente orientati, nei quali il disvalore penale si accentra nella causazione
dell’evento lesivo, mentre appaiono indifferenti le specifiche modalità comportamentali che
innescano il processo causale. Con riferimento a questi illeciti, la condottaò penalmente
rilevante sarà tipica se avrà efficacia causale rispetto al verificarsi dell’evento e se si porrà in
contrasto col dovere obiettivo di diligenza.
Sulla base di questo, l’istituto della cooperazione ex art. 113 può apparire superfluo, essendo
tutte le condotte potenzialmente in grado di rappresentare l’antecedente causale dell’evento
lesivo tipizzate nelle fattispecie monosoggettive di parte speciale.

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Esemplificativamente, il proprietario dell’automobile che affida il proprio veicolo ad un
soggetto pur sapendo che è privo di patente. Se quest’ultimo guidando provoca lesioni a terzi,
di tali lesioni risponderà ex art 590 anche lo stesso proprietario, essendo la sua condotta
condicio sine qua non dell’incidente.
Con riferimento a questo tipo di delitti l’art 113 ha solo la funzione di assoggettare delle
fattispecie già incriminate ad un regime penale diverso da quello che si avrebbe applicando le
fattispecie monosoggettive di parte speciale (funzione di disciplina).
 Si può recuperare la funzione incriminatrice dell’art. 113 sul terreno dei reati
causalmente orientati, facendo riferimento a quei comportamenti che non sono
tipizzati nelle fattispecie colpose di parte speciale, seppur rilevanti causalmente
rispetto alla produzione dell’evento e in contrasto con obblighi di natura cautelare.
Questi comportamenti atipici di cooperazione contrasterebbe con i cd. obblighi
cautelari di natura secondaria, ossia quegli obblighi che impongono di verificare,
controllare o impedire eventuali attività colpose da parte di terzi. Neppure questa
impostazione convincerebbe, perché il disvalore connesso alla violazione di questi
obblighi (di controllo o sorveglianza nei confronti di un contegno altrui) è quello che
tipicamente connota i reati omissivi impropri colposi (art. 40 cp), senza che al
riguardo muti qualcosa a seconda che l’obbligo di condotta disatteso abbia
direttamente causato l’evento lesivo oppure abbia comportato la causazione da parte
di altri.
Si può attribuire una reale funzione incriminatrice all’art. 113 soltanto con riferimento alle fattispecie
colpose cd. a forma vincolata, cioè che reprimono un’offesa soltanto se realizzata mediante specifiche
modalità comportamentali. Infatti, è proprio con riferimento alle condotte colpose che non giungono
ad integrare gli estremi del fatto così come dettagliatamente previsti dal legislatore che l’art. 113
svolge anche una funzione incriminatrice, perché estende la punibilità a condotte altrimenti non
punibili, ma anche questo meccanismo appare dubbio. Se il legislatore per la tutela di certi beni ha
fatto ricorso a fattispecie a forma vincolata, cioè tutelandoli in modo frammentario, appare
ragionevole conferire una tipicità indiretta a forme di collaborazione prestate anche in altro modo
rispetto a come il legislatore ha prospettato la tutela relativamente alle fattispecie di parte speciale.

PARTE QUARTA – IL REATO OMISSIVO

CAPITOLO 1 - IL REATO OMISSIVO


Premessa
Il modello tipico di illecito penale è costituito dal reato di azione. Fino a buona parte dell’ottocento, la
responsabilità per omissione ha costituito l’eccezione, in coerenza con la predominante ideologia
individualistico-liberale.
L’incremento di tale forma di responsabilità ha presupposto l’affermazione di un principio diverso,
quello solidaristico, che fa obbligo non tanto sull’astensione dal compimento di azioni lesive, quanto
su quello di attivarsi positivamente per la salvaguardia di beni altrui posti in pericolo.
Nei primi decenni di questo secolo comincia ad essere oggetto di trattazione monografica il reato
omissivo improprio, che rappresenta la figura più problematica di illecito di omissione.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘30 del secolo scorso, una certa attenzione viene anche
dedicata allo studio del reato omissivo proprio.
L’elaborazione dogmatica degli illeciti di omissione costituisce il riflesso del progressivo incremento
subito dagli obblighi di agire dotati di rilevanza penale: in vista dell'assolvimento di questi obblighi,
diventa sempre più frequente (soprattutto nella legislazione penale speciale, es. quella di prevenzione

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degli infortuni sul lavoro) l’imposizione di obblighi di attivarsi penalmente sanzionati nei confronti di
soggetti (come il datore di lavoro) che rivestono un ruolo preminente nell’attività socio-economica.
Gli approcci dottrinali più recenti mostrano che se da un lato fosse errato considerare i reati omissivi
come opposti a quelli commissivi, dall’altro sarebbe altrettanto errato ritenere che al reato di
omissione siano trasferibili, senza adattamento, le categorie dogmatiche tradizionalmente sviluppate
rispetto al reato di azione.
Particolare attenzione viene riservata al problema della responsabilità penale per omesso impedimento
dell’evento, non solo sotto il profilo delle condizioni che giustificano l’equiparazione tra il cagionare e
il non impedire un evento lesivo, ma anche dal punto di vista della possibilità di usare tale forma di
responsabilità come moderno strumento di politica criminale.

Diritto penale dell’omissione e bene giuridico


Il sempre più frequente ricorso alle fattispecie omissive proprie per soddisfare finalità di natura
collettiva e solidaristica ha finito col sollevare la questione della compatibilità tra la punibilità delle
omissioni e l’idea della protezione dei beni giuridici.
Mentre il diritto penale dell’azione reprime la modificazione in peggio di una situazione preesistente
scaturente dalla lesione di un (preesistente) bene giuridico, il diritto penale dell’omissione tenderebbe,
invece, a promuovere il progresso e il benessere collettivo.
Ciò premesso, si capisce come parte della dottrina è incline a degradare il reato omissivo puro a
illecito di pura disobbedienza. C’è chi sostiene, analogamente, che il disvalore dell’illecito omissivo
proprio consiste non tanto nella lesione di un bene giuridico preesistente quanto nella mancata
produzione di un bene o di una utilità futura. Questo orientamento, però, generalizza troppo senza
distinguere quelle ipotesi nelle quali le fattispecie omissive sono poste a presidio di un quid che è
assimilabile a un bene giuridico: è questo il caso, ad es., dei cd. beni di prestazione, ossia le
disponibilità economico-finanziarie che sono necessarie per assolvere le funzioni tipiche statuali della
riscossione dei tributi, leso dall’omesso pagamento da parte dei cittadini dei tributi.
Il problema è verificare, di volta in volta, se l’interesse che si tutela tramite una fattispecie omissiva
sia tale da fare apparire necessario il ricorso alla tutela penale.

La bipartizione dei reati omissivi in “propri” e “impropri”


I reati omissivi si suddividono in due gruppi, il tradizionale criterio discretivo fa leva sulla necessaria
presenza o no di un evento come requisito strutturale del fatto di reato:
1. Sono definibili reati omissivi propri quelli che consistono nel mancato compimento di
un’azione che la legge penale comanda di realizzare (es. omissione di soccorso che incrimina
la semplice omissione di assistenza occorrente ad una persona che si trova in pericolo). Poichè
la legge incrimina solo il non aver posto in essere l’azione doverosa e non anche il non aver
impedito il verificarsi degli eventuali risultati dannosi connessi alla condotta omissiva, nel
caso di cui sopra, nel caso di morte del soggetto bisognoso di aiuto, l’omittente non risponde
di omicidio, ma si applica solo un’aggravante.
Altri esempi di reati omissivi propri sono il rifiuto di atti d’ufficio (art. 328), l’omessa
denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (art. 361) e altri contenuti nella legislazione
speciale. Come i reati di mera azione consistono nel compimento di un'azione vietata dalla
legge, così i reati omissivi propri consistono nel mancato compimento di un’azione prescritta
dalla legge.
2. Sono definibili reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione) quelli che
consistono nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di
una fattispecie commissiva-base. In questo caso, l'omittente assume la funzione di garante
della salvaguardia del bene protetto e risponde anche dei risultati connessi al suo mancato

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attivarsi (es. madre che non presta soccorso al figlio in pericolo risponde di omicidio mediante
omissione).
In questi casi l’evento lesivo appartiene strutturalmente al tipo delittuoso in questione, così
come nel caso dei reati di evento commessi mediante azione.
Questa distinzione appare plausibile se si considera il carattere convenzionale delle scelte
classificatorie ma, rimanendo fedeli all'origine storica della categoria dogmatica del reato omissivo
improprio, dovrebbe essere attribuita rilevanza decisiva non tanto alla presenza di un evento nella sua
struttura, quanto al fatto che, mentre i reati omissivi propri sono configurati come tali dal legislatore
penale (tipizzati), quelli impropri sono frutto del combinarsi della clausola generale contenuta nell’art.
40 c.p. (nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se l’evento dannoso
[...] non è conseguenza della sua azione od omissione) con le norme di parte speciale direttamente
incentrate sul reato di azione e trasformate, per via di interpretazione giudiziale, in fattispecie
omissive. La distinzione tra reati omissivi propri e impropri, così come sopra descritta, parrebbe,
quindi, in funzione della diversa tecnica di tipizzazione.

SEZIONE II – STRUTTURA DEL REATO OMISSIVO


 Tipicità
1. La fattispecie obiettiva del reato omissivo proprio

Situazione tipica
La figura del reato omissivo proprio è, anzitutto, costituita dalla situazione tipica, cioè dall’insieme
dei presupposti da cui scaturisce l’obbligo di attivarsi. Così, ad es. nel delitto di omissione di soccorso
la situazione tipica è costituita dalla condizione di pericolo in cui versa il soggetto bisognoso di aiuto.
Nel descrivere la situazione tipica, la norma incriminatrice indica anche il “fine” cui deve tendere il
compimento dell’azione comandata. Il contenuto dell’obbligo di agire talora è specificato (ad es. fare
referto ex art 365), talaltra è stabilito in forma generica (ad es. art 593 impone di prestare assistenza,
rinviando alle particolarità dei casi concreti per la specificazione del tipo di soccorso).
La descrizione legislativa della situazione tipica può far uso di elementi descrittivi che rinviano alla
realtà naturalistica (ad es. omissione di soccorso) o di elementi normativi giuridici (come ad es nei casi
di omissione di un atto di ufficio, omessa denuncia di reato). Da tempo risulta aumentato il ricorso a
questo secondo tipo di elementi, motivo per cui il settore dei reati omissivi propri si è connotato come
un terreno privo di immediate connessioni con la realtà naturale e sociale e fitto di richiami a dati
tecnici e concetti giuridici anche di matrice extra-penale, da cui è scaturita una certa artificiosità e le
cui ripercussioni si sono viste nel piano della colpevolezza ponendo il problema della configurazione
del dolo a prescindere dalla previa conoscenza della norma che obbliga di agire in un determinato
modo.
Con riferimento alla problematica relativa all’oggetto della volontà colpevole, le fattispecie omissive
proprie possono essere distinte in due sottocategorie:
1. se la situazione tipica è pregnante, l’obbligo di attivarsi ha per presupposto una realtà
naturalistica o sociale immediatamente percepibile dal soggetto che prescinde dalla
conoscenza che questi ha dell’obbligo giuridico di agire
2. se la situazione tipica è neutra è difficile che il soggetto possa riconoscere di trovarsi nella
situazione che lo obbliga di attivarsi in un determinato modo se egli previamente non conosce
o non ha ragione di sospettare l’esistenza di una norma giuridica che ha generato l'obbligo di
agire.

Condotta omissiva tipica e possibilità di agire


Altra componente fondamentale è la condotta omissiva.

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L'orientamento dominante propende oggi per l’accoglimento della teoria cd. normativa secondo la
quale l’omissione è il non compimento da parte di un soggetto di una determinata azione che era da
attendersi in base ad una norma.
Condotta omissiva tipica è quella che consiste nel mancato compimento dell’azione richiesta in
presenza della situazione conforme alla fattispecie incriminatrice (es. omesso soccorso).
Il compimento dell’azione comandata presuppone che il soggetto abbia la possibilità di agire e va
intesa nel senso minimo di possibilità materiale di adempiere al comando la quale può essere esclusa
sia dall’assenza delle necessarie attitudini psicofisiche (es. non può rispondere di omissione di
soccorso chi non sa nuotare e non salva una persona che sta nuotando) che dalla mancanza della
condizioni esterne indispensabili per compiere l’azione doverosa (es. non si può dire che omette chi si
trova a grande distanza dal luogo del soccorso o è privo dei mezzi necessari per prestare aiuto ). Di
questi elementi bisogna tenere conto in sede di accertamento della colpevolezza.
Il reato viene altresì meno se il soggetto ha compiuto un serio sforzo di adempiere all'obbligo di
agire e l’insuccesso è dovuto a circostanze esterne (es. denuncia di un reato arriva tardivamente
all’Autorità per uno sciopero postale).
Qualora si tratti di doveri che incombono su più soggetti, l’attivarsi da parte di uno dei coobbligati
può fare venire meno il presupposto della situazione tipica e quindi può rendere penalmente irrilevante
l’omissione da parte di altri rimasti successivamente inattivi (es. se in una spiaggia ci sono più
bagnanti e uno soccorre quello che annega efficacemente, l’omissione degli altri non integra il reato
di omesso soccorso).

2. La fattispecie obiettiva del reato omissivo improprio


Premessa: autonomia della fattispecie omissiva impropria e principio di legalità

Il reato omissivo improprio contravviene all’obbligo di impedire il verificarsi di un evento lesivo.


L’evento, del cui mancato impedimento si è chiamati a rispondere, è quello tipico ai sensi di una
fattispecie commissiva, cioè sorta per incriminare un fatto basato su un comportamento positivo (ad
es. omicidio). Tuttavia, si è storicamente ritenuto che in alcuni casi (ad es. omicidio), il non impedire
sostanzialmente corrisponda alla commissione del reato tramite azione positiva, motivo per cui questi
reati sono anche definiti di “commissione mediante omissione”. A differenza dei reati di mera
omissione (propri), che contravvengono ad un comando di agire, i reati omissivi impropri
violerebbero pur sempre il divieto di cagionare l’evento che dà vita alla fattispecie commissiva:
l’unica particolarità consisterebbe nel fatto che qui il divieto si specifica nel divieto di cagionare,
tramite la propria omissione, l’evento tipico.
Se si parte dal dato che il legislatore non è in grado di prevedere una volta per tutte i molteplici e
mutevoli casi di equivalenza tra azione causale ed omissione non impeditiva, si comprende come il
codice penale si limiti a regolamentare l’illecito omissivo improprio nella sola “parte generale”,
mediante la previsione di una cd. clausola di equivalenza che stabilisce che “non impedire un evento,
che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” (art 40). In questo modo, il reato
omissivo improprio viene ricostruito in base alla combinazione tra l’art 40 e le norme di parte
speciale che prevedono le ipotesi di reato commissivo suscettive di essere convertite in corrispondenti
ipotesi omissive. Per effetto di un simile innesto, sorge una nuova fattispecie incentrata sul mandato
impedimento dell’evento che, d’altra parte, finisce col sollevare dubbi sulla compatibilità di questa
figura di illecito con i principi di legalità e sufficiente determinatezza della fattispecie. Infatti, gli
elementi di cui si compone la nuova ed autonoma fattispecie omissiva impropria vengono per lo più
ricostruiti dal giudice cui spetta il delicato compito di selezionare le fattispecie di azione legalmente
tipizzate da convertire in corrispondenti ipotesi omissive e di individuare gli obblighi di agire, la cui
violazione giustifichi veramente una responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento.

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La preoccupazione che la previsione legale espressa degli illeciti omissivi impropri comporti lacune di
tutela non sembra così decisiva da scoraggiare ogni intervento del legislatore, continuando a rimettere
l'individuazione del confine tra punibile e non punibile al giudice. Il diritto penale è per sua natura
frammentario e questo consente di rendere il più possibile compatibili controllo penale e principio di
legalità.

La sfera di operatività dell’art 40 cpv c.p.


L’art 40, stabilendo un’equivalenza tra il non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di
impedire ed il cagionarlo, realizza un fenomeno di estensione della punibilità.
Tuttavia, in dottrina vi è chi ritiene che una indiscriminata applicazione del principio dell’equivalenza
a tutte le fattispecie commissive disattenderebbe le scelte legislative di politica criminale; per cui, è
necessario delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 40 c.p.
Considerando la funzione dell’art. 40, ossia quella di incriminare alcuni comportamenti omissivi non
espressamente tipizzati nelle fattispecie di parte speciale, ne consegue che la sua applicazione è
esclusa quando vi è una norma incriminatrice che fa menzione proprio della condotta omissiva o in via
esclusiva (reati omissivi propri) o accanto all’azione in senso stretto → primo tentativo di
delimitazione.

L’applicazione dell’art. 40 è esclusa con riferimento a tutte quelle fattispecie penali che presentano
una struttura particolare in quanto presuppongono un’azione positiva del reo (es. furto, rapina). Altri
casi particolari sono:
 delitti di mano propria → es. incesto: la fattispecie presuppone un atto positivo di carattere
necessariamente personale.
 reati abituali → es. sfruttamento della prostituzione: presuppongo una condotta di vita
risultante da una reiterazione di comportamenti positivi.

Invece, in tutti i casi in cui la norma incriminatrice faccia riferimento a concetti normativi, ai fini della
rilevanza della condotta omissiva va attenzionato il contenuto degli obblighi comportamentali
desumibili dalle norme di condotta richiamate dagli elementi normativi. Alla luce di quanto detto,
individueremo fattispecie indifferentemente realizzabili mediante azione od omissione; questo si
spiega considerando che in questi casi a fondamento dell’incriminazione vi sarebbe la violazione di
obblighi comportamentali (es. art. 380 c.p. patrocinatore o consulente tecnico, la cui infedeltà ai doveri
professionali si ha indifferentemente tramite azione od omissione, che può manifestarsi, ad es., come
dolosa astensione del patrocinatore da una doverosa attività processuale).

Quando si applica, invece, l’art. 40 c.p.?


Il campo d’azione della fattispecie di cui sopra va limitato ai casi in cui emerge il problema del nesso
causale tra condotta ed evento lesivo riconoscendo, così, che la regola di cui all’art. 40 c.p. risulta
applicabile solo limitatamente ai reati di evento.
Per delimitare in modo ancora più puntuale la sfera di operatività dell’art. 40 c.p., occorrerebbe altresì
scartare dal novero dei reati di evento quelli connotati da elementi strutturali che caratterizzano solo
condotte positive e, quindi, insuscettibili di conversione in fattispecie omissive (es. truffa, nella quale
l’induzione in errore, che rappresenta l’evento costitutivo del reato, deve essere cagionata da artifici
o raggiri, ossia comportamenti che presuppongo un effettivo attivarsi per ingannare la vittima presa
di mira).

148
L’ambito di operatività residuato all’art. 40 c.p. è quello dei reati causali puri, cioè reati di evento, la
cui carica di disvalore si concentra tutta nella produzione del risultato lesivo, mentre appaiono
indifferenti le modalità comportamentali che innescano il processo causale.
Due sono le ipotesi tipiche:
 delitti contro la vita e l’incolumità individuale (es. omicidio)
 reati contro l’incolumità pubblica

Non è da escludere che siano rinvenibili altri esempi di reati causali puri: es. delitto di
danneggiamento (art. 635 c.p.). In questo caso, ciò che rileva, è considerare alternativamente gli
elementi su cui si basa la fattispecie incriminatrice o come modalità di realizzazione del fatto legata ad
una specifica forma di condotta, oppure riconducibili, indifferentemente, ad una condotta tanto attiva
quanto omissiva.
Per rispondere al quesito circa l’ammissibilità di un danneggiamento mediante omissione ex art. 40
c.p., occorre tenere conto oltre che delle caratteristiche strutturali anche della funzione assolta dalle
fattispecie omissive improprie nel nostro ordinamento. La costituzione di garanti posti a presidio del
mancato impedimento di un evento lesivo ha senso nella misura in cui si vogliano tutelare beni dotati
di particolare rilevanza. Il patrimonio è un bene di particolare rilevanza? Considerato che nell’ambito
di applicazione dell’art. 635 sono annoverabili anche danneggiamenti di modesta entità, forse
l'ammissibilità di un danneggiamento mediante omissione andrebbe plausibilmente limitata ai soli casi
di gravi lesioni ad interessi patrimoniali determinanti per il buon funzionamento dell’intera economia
collettiva.

→ Concorso mediante omissione ad un reato materialmente commesso da altri: secondo


un'opinione dottrinale e giurisprudenziale abbastanza pacifica, l’art. 40 non dovrebbe essere applicato
ai soli reati causali puri a fronte del fatto che il titolare dell’obbligo di impedire l’evento (reato) può
partecipare, mediante omissione, alla commissione di qualsiasi illecito penale a prescindere dalla
presenza nella fattispecie di un evento in senso naturalistico.
In questo modo, però, l’ambito di operatività dell’art. 40 sarebbe ora più esteso e ora più ristretto a
seconda che si tratti di reato monosoggettivo o di concorso, conseguendo una diversa estensione dei
beni assumibili a oggetto di una più rafforzata tutela. ciò posto, parte minoritaria della dottrina,
assumerebbe la tesi secondo cui la limitazione del giudizio di equivalenza alle sole fattispecie causali
pure troverebbe applicazione anche nei casi di concorso mediante omissione.

La situazione tipica
Per “situazione tipica” si intende il complesso dei presupposti di fatto che danno vita ad una situazione
di pericolo per il bene da proteggere che rendono “attuale” l’obbligo di attivarsi del “garante” (ad es.
la presenza di un nuotatore inesperto che si trova in difficoltà obbliga il bagnino ad impedire l’evento-
morte o altri eventi lesivi). Considerata, però, la mancanza di una previsione legale espressa di tutte le
componenti costitutive del reato omissivo improprio, il contenuto e lo scopo del dovere di agire del
garante si specificano differentemente a seconda delle circostanze del caso concreto.

Omesso impedimento dell’evento ed equivalente normativo della causalità


Gli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria sono:
 la condotta omissiva di mancato impedimento;
 l’evento non impedito > rappresentato, nelle fattispecie monosoggettive, dall’evento
naturalistico; nei casi di concorso mediante omissione, dal reato che si aveva l’obbligo di
impedire.

149
Per attribuire all’omittente la responsabilità per l’evento occorre dimostrare l’esistenza di una
connessione tra la condotta omissiva e l’evento.

Parte della dottrina insiste ancora col ritenere che il rapporto in questione rientri nella tradizionale
categoria realistica della causalità.
La versione aggiornata di questo orientamento ritiene che la vera causa dell’evento non sia l’omissione
in sé ma la condotta omissiva in quanto doppiamente impeditiva, in quanto ha ostacolato il verificarsi
di un'azione che se realizzata avrebbe impedito l’evento. Questo ragionamento non usa più dati reali
ma torna a far leva su dati ipotetici.

La dottrina in atto dominante nega che nei reati omissivi sia riscontrabile un rapporto di causalità
eguale a quello esistente nei reati di evento commessi mediante azione, perché nei reati commissivi è
necessario stabilire un nesso di derivazione tra dati reali del mondo esterno (come l’evento sia
derivato dall’azione), mentre nell’ambito delle fattispecie omissive improprie il problema è verificare
se e in che modo l’eventuale compimento dell’azione dovuta avrebbe inciso sul corso degli
accadimenti e, in particolare, se sarebbe valso ad evitare la verificazione dell’evento lesivo.
L’organo giudicante nei reati omissivi (per determinare il nesso omissione-evento) deve svolgere un
giudizio prognostico, cioè deve supporre mentalmente come realizzata l’azione doverosa omessa e
chiedersi se l’evento lesivo, in presenza di essa, sarebbe venuto meno. Per effettuare una simile
prognosi deve fare riferimento al modello della sussunzione sotto leggi (es. se deve accertare il
collegamento tra l’omissione del medico del PS, che non ha praticato l’iniezione antitetanica, e la
morte del paziente, provocata da infezione tetanica, deve prima verificare l’esistenza di una legge
biologica la quale asserisce che l’inoculazione del siero rende generalmente inattiva l’infezione).
Dopo aver individuato la legge di copertura, il giudice potrà applicare la formula della condicio sine
qua non come test di controllo, cioè deve verificare che l’omissione non possa essere mentalmente
sostituita dall'azione doverosa senza che l’evento venga meno.

Ciò detto, il rapporto intercorrente tra la condotta omissiva e l’evento lesivo non è un vero e proprio
rapporto causale, benché si parli di causalità ipotetica o di causalità in senso normativo, ma si tratta
di un suo equivalente ai fini dell’imputazione giuridica al soggetto garante dell’evento non impedito.

Quanto al problema del grado di certezza raggiungibile nell’accertamento della causalità omissiva, è
necessario comprendere se si deve pretendere lo stesso rigore esigibile nell’accertamento del nesso
causale vero e proprio o se è sufficiente che l’azione doverosa, ove compiuta, vada ad impedire
l’evento con una probabilità vicino alla certezza.
La dottrina maggioritaria accoglie questa seconda tesi argomentando che dal giudizio prognostico che
il giudice deve effettuare esula per definizione ogni certezza assoluta. Tuttavia, ci sono dei casi di
responsabilità omissiva in cui lo stesso giudizio prognostico non ha bisogno di accontentarsi di una
probabilità vicina alla certezza: ad es. se una baby sitter lascia che il bambino a lei affidato giochi da
solo nei pressi dello stagno del parco nel quale il bambino cade e muore, non vi sono dubbi che
sarebbe bastato esercitare la semplice sorveglianza per scongiurare con certezza l’evento letale.
Se, invece, si accoglie la tesi da alcuni proposta della struttura probabilistica del nesso causale nei reati
commissivi, la differenza tra causalità reale ed omissiva di riduce.

La dottrina ha dibattuto in merito alla causalità omissiva su 3 questioni principali:


1. criteri di distinzione tra azione ed omissione e, quindi, causalità commissiva ed omissiva;
2. rapporti e confini tra causalità commissiva, omissiva e colpa;
3. il modo di concepire la causalità omissiva.

150
In merito al punto 3, gli approfondimenti della dottrina si sono sviluppati principalmente nell’ambito
medico, caratterizzato dall’assenza di certezze e connotato dalla logica della probabilità, in quanto
quasi mai si è nelle condizioni di asserire che l’intervento medico corretto avrebbe con certezza
salvato il paziente; nella stragrande maggioranza dei casi le chances di salvataggio sono ipotizzabili
secondo i coefficienti di maggiore o minore probabilità. Per tali ragioni ci si trova dinanzi ad una
duplice alternativa: o continuare a pretendere, ai fini dell’affermazione del nesso causale, che la
condotta doverosa avrebbe evitato l’evento con una probabilità confinante con la certezza oppure
flessibilizzare la causalità omissiva ricostruendola in una prospettiva probabilistica legata alla
teoria del rischio.
1. Quest’ultima alternativa ha subito un percorso evolutivo fino ad accontentarsi, ai fini
dell’imputazione dell’evento, della prognosi che l’intervento del medico avrebbe avuto
apprezzabili possibilità di salvezza del paziente > sostituzione del nesso causale in senso
condizionalistico con il criterio dell’aumento o della mancata diminuzione del rischio (è
sufficiente la valutazione che l’attività omessa sarebbe stata in grado di diminuire il rischio di
verificazione dell’evento lesivo). I giudici hanno fatto applicazione di tale criterio sulla base
di considerazioni a carattere valoriale: sono sufficienti poche possibilità di salvataggio del
paziente, ai fini della punibilità, quando è in gioco un bene di rango particolarmente elevato
come la vita umana. Obiettando a tale tesi si sostiene che la concezione della causalità
penalmente rilevante deve essere basata su criteri generali e non su criteri legati alla rilevanza
che i beni giuridici assumono di volta in volta.
2. Le critiche mosse nei confronti di questo orientamento hanno fatto sì che venisse recuperata
la teoria della causalità in senso rigorosamente condizionalistico, comportando, in alcune
sentenze, la pretesa estremista di richiedere coefficienti probabilistici vicino a 100, facendo
riferimento non solo alla probabilità statistica, ma anche a quella logica.
3. Poniamo l’attenzione sulla sentenza a Sezioni Unite Franzese che nasce dall’intenzione di
elaborare un modello rigoroso ma contemporaneamente rispettoso delle esigenze punitive
della prassi. Tale sentenza costituisce un punto di riferimento in materia di causalità, con
riferimento alle condizioni di impiego della causalità generale (probabilità empirica) e della
causalità individuale (probabilità logica). Ai fini della verifica del nesso di condizionamento
tra la condotta e l’evento concreto, ciò che conta è la possibilità di confidare nel fatto che la
legge statistica di copertura trovi applicazione anche nel singolo caso oggetto di giudizio,
stante l’alta probabilità logica che, nella situazione concreta, siano da escludere fattori causali
alternativi. Nel silenzio ci si chiede, dato il silenzio sul punto della sentenza, se tali fattori
debbano essere intesi come alternativi
 rispetto alla condotta omissiva (altre omissioni di soggetti diversi)
 rispetto alle cause naturalistiche assumibili ad antecedenti positivi dell’evento

A differenza della causalità commissiva, in merito alla quale occorre spiegare cosa sia
realmente accaduto per effetto dell’azione di un soggetto, nel caso della causalità omissiva,
dato il suo carattere ipotetico, si tratta di immaginare come sarebbero andate le cose se il
garante avesse agito. Ciò porta a congetturare scenari immaginari inevitabilmente intrisi di
incertezza e a far apparire quasi come illusorio il concetto di “quasi certezza” su cui si fonda
l’orientamento tutt’oggi dominante.
La sentenza in esame ha quindi cercato di restaurare un modello condizionalistico di causalità,
ritenendo l’orientamento giurisprudenziale del criterio dell’aumento e di diminuzione del
rischio incompatibile con il diritto vigente.

151
Tuttavia, si ha l’impressione che la giurisprudenza non stia seguendo realmente i principi
generali fissati da tale sentenza, in quanto di fatto continua a seguire un iter motivazionale
ancorato al criterio dell’aumento e diminuzione del rischio.
Ed effettivamente, l’orientamento prospettato da tale sentenza risulta troppo pretenzioso per poter
essere applicato nella prassi giudiziaria ed in particolare nel caso di responsabilità medica o del datore
di lavoro, connotati da un elevato livello di incertezza quanto si meccanismi causali coinvolti nella
genesi degli eventi lesivi.

→ Caso della bambina affetta da talassemia omozigote: i genitori della bambina, per non violare un
divieto religioso del culto dei testimoni di Geova, decidono di interrompere la terapia emotrasfusionale
cui la figlia veniva sottoposta; quest’ultima, in seguito al sopraggiungere di uno stato di grave anemia,
perde la vita.
Qui assume rilevanza decisiva la prognosi circa l’attitudine della prosecuzione della pratica delle
trasfusioni ad impedire la morte per anemia della bambina. La Corte d’Assise di Cagliari ha affermato
che non è possibile stabilire con certezza quale sarebbe stata la vita della bambina e quale sarebbe
stato il decorso della sua malattia se avesse continuato la terapia. Il punto decisivo della questione non
è stabilire se la terapia avrebbe in futuro consentito la sicura sopravvivenza della bambina perché, ai
fini dell’accertamento della responsabilità penale dei genitori, è sufficiente che l’omissione della
terapia abbia favorito l’accelerazione del decesso, perché la terapia avrebbe impedito l’evoluzione così
rapida del male.
Il nesso di condizionamento, dunque, va stabilito non già tra l’interruzione della terapia e la morte
come evento astratto, ma tra l’interruzione della terapia e la morte così come si è verificata hic et nunc.
La terapia, in poche parole, avrebbe impedito quella morte consentendo il non deterioramento in così
breve tempo dei suoi organi.

La posizione di garanzia

Perché la causazione e il mancato adempimento di un evento risultino penalmente equivalenti, non


basta accertare il nesso di causalità ipotetica tra l’evento e la condotta omissiva, perché è altresì
necessario che si ponga in essere la violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento così come
richiede il disposto dell’art. 40 c.p. Per questa ragione, nessun cittadino può essere chiamato a
rispondere per il semplice fatto che un suo intervento soccorritore avrebbe scongiurato la lesione di
beni giuridici altrui perché, per pretendere un comportamento di tal fatta è necessario che questo
scaturisca da un obbligo giuridico. È questa la sola ammissibile eccezione alla libertà di movimento di
ciascuno.
Il problema, allora, riguarda l'individuazione degli obblighi giuridici di attivarsi in presenza della cui
violazione è possibile affermare la responsabilità penale in capo a qualcuno.
L’art. 40 c.p. non fornisce alcuna indicazione in merito all’indicazione degli obblighi giuridicamente
rilevanti, la cui individuazione resta rimessa a dottrina e giurisprudenza, con la conseguenza che si
producono un vantaggio ed uno svantaggio:
 vantaggio → la mancanza di un numero chiuso di obblighi di attivarsi consente di fare fronte
alle nuove esigenze di tutela eventualmente emergenti nel tessuto sociale
 svantaggio → questa rimessione alla prassi comporta che il settore dei reati omissivi impropri
oscilli tra limiti incerti

La dottrina tradizionale si è limitata a richiamare la teoria formale dell’obbligo di impedire l’evento,


concezione che individua le situazioni tipiche di obbligo penalmente rilevanti (cd. posizioni di
garanzia) in base alla fonte formale richiamata alla stregua dell’intero ordinamento.

152
Nella sua formulazione originaria, questa teoria prevedeva che l’obbligo di attivarsi potesse derivare
da:
- legge → sia essa penale che extrapenale (come gli obblighi che nascono dal diritto di
famiglia)
- contratto → come il caso della babysitter che si impegna contrattualmente alla custodia di un
bambino in assenza dei genitori
- precedente azione pericolosa → secondo cui, chi compie un’azione pericolosa dopo assume,
per questo fatto, l’obbligo di impedire le possibili conseguenze dannose in capo ai terzi (es.
chi apre una buca in una pubblica via)
- negotiorum gestio
- consuetudine

Questa teoria è andata incontro a rilievi critici che hanno dimostrato che questa concezione non è in
grado di spiegare in modo appagante perché il diritto penale assimila l’omissione non impeditiva
all’azione causale.
1. Rispetto agli obblighi che nascono da fonte extrapenale di attivarsi → non tutti gli obblighi di
attivarsi sono suscettibili di convertirsi in obbligo di impedire l’evento rilevante ai sensi di una
fattispecie omissiva impropria, considerato che le esigenze di tutela del diritto penale non sono
sempre assimilabili a quelle degli altri settori dell’ordinamento.
2. Rispetto all’obbligo nascente da una precedente azione pericolosa → la teoria entra in
contraddizione con sé stessa perché non esiste alcuna norma giuridica in base alla quale si può
affermare che il compimento di una precedente azione pericolosa dia vita al sorgere di obblighi di
contenuto impeditivo. Nell’ambito della responsabilità colposa questo richiamo è superfluo in
quanto, come nel caso dell’apertura della buca, ci si trova di fronte ad un normale obbligo a
contenuto precauzionale che si accompagna alla realizzazione di una condotta positiva pericolosa.

Preso atto delle insufficienze della teoria formale, la dottrina più recente si è sforzata di approfondire il
problema del fondamento penalistico della regola dell’equivalenza sancita nell'art. 40 c.p. con
approcci tendenti a sostituire od integrare i criteri giuridico-formali con criteri materiali (o
contenutistici) desunti dalla specifica funzione attribuibile alla responsabilità per omesso impedimento
dell’evento nel nostro sistema penale.

L’adozione di una simile prospettiva ha dato vita ad una serie numerosa di contributi sfociati nella
prospettazione di criteri di individuazione degli obblighi di garanzia di volta in volta diversi.
In ogni caso, posto che la vera funzione selettiva delle situazioni di garanzia penalmente rilevanti
viene pur sempre affidata all’impiego di criteri funzionali, decisivo in termini di legalità e certezza
risulterà il modo di ricostruire la funzione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento;
essendo in proposito insufficienti gli appigli forniti dall’art. 40 c.p., l'interprete spesso usufruisce di
ampi margini di discrezionalità.
Auspicabile sarebbe, anche in questo campo, un intervento legislativo.

7.2
A fondamento della responsabilità per omesso impedimento sta la necessità di assicurare una tutela
rafforzata a determinati beni, data dall’incapacità di offrirne un’adeguata protezione; da questo deriva
l’attribuzione a taluni soggetti della speciale posizione di garanti dell’integrità dei beni che si ha
interesse a salvaguardare. La posizione di garanzia nei confronti del bene protetto è definibile come
uno speciale vincolo di tutela tra un soggetto garante e un bene giuridico, determinato dall’incapacità
(totale o parziale) del titolare a proteggerlo autonomamente. La sua funzione è, quindi, quella di

153
riequilibrare eventuali situazioni di inferiorità di determinati soggetti, tramite l’instaurazione di un
rapporto di dipendenza a scopo protettivo. Prendiamo in considerazione l’esempio della madre che
lascia morire il bambino di inedia, in questo caso la relazione di dipendenza a contenuto protettivo ha
carattere originario e nasce dall’incapacità naturale del bambino.
La speciale natura del vincolo di tutela che sorge dalle situazioni di garanzia ha dei riflessi sulla natura
degli obblighi di attivarsi che discendono da tali situazioni: gli obblighi di garanzia hanno, infatti, un
carattere speciale perché incombono soltanto su alcuni soggetti (i garanti) e non sulla generalità dei
cittadini. È per questo motivo che ad esempio, da una fattispecie omissiva propria realizzabile da
chiunque (omissione di soccorso) non può sorgere un obbligo di attivarsi (è da escludere una
responsabilità a titolo di omicidio mediante omissioni a carico dei vicini sui quali incombe l’obbligo di
soccorso gravante, tendenzialmente, su tutti coloro che si imbattono in una persona in pericolo).
Obblighi di garanzia penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 40 c.2 c.p. possono derivare da una
fattispecie omissiva propria come l’omissione, imputabile al proprietario, di lavori in edifici a rischio
crollo. Ne deriva che, se dalla condotta omissiva scaturiscano eventi lesivi, il porprietario risponde
oltre che ai sensi dell’art. 677 anche di omicidio o di lesioni realizzate mediante omissione colposa.

7.3
In base ad una classificazione funzionale, possono essere individuati due tipi di posizione di garanzia:
posizione di protezione e posizione di controllo.
La posizione di protezione ha per scopo di preservare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che
possono minacciarne l’integrità (es. genitori nei confronti dei figli)
La posizione di controllo ha per scopo di neutralizzare determinate fonti di pericolo, in modo da
garantire l’integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati (es. proprietario
dell’edificio ha l’obbligo di evitare il verificarsi di eventi dannosi a carico di chiunque possa trovarsi
nelle vicinanze dell’edificio).

Le posizioni di garanzia possono altresì distinguersi in originarie e derivate.


Le posizioni originarie nascono in capo a determinati soggetti che ricoprono uno specifico ruolo o
posizione (genitori, proprietari di edifici).
Le posizioni derivate trapassano da colui che ricopre una posizione originaria ad un soggetto diverso
in genere tramite atti di trasferimento negoziale (genitori-> baby sitter).

In molti casi la delega delle funzioni da un titolare originario ad un soggetto diverso avviene tramite
contratto. Affinché un contratto possa assumere rilevanza ex art 40 c.p. devono sussistere determinate
condizioni:

1. È necessario l’intervento, in qualità di parte contraente, dello stesso titolare del bene
protetto ovvero di un garante a titolo originale.
Tale condizione non ricorre nel caso 59: terzo estraneo <<filantropo>> che prevedendo dei
pericoli in occasione di una gara di nuovo, incarica, dietro pagamento di somma di denaro, un
barcaiolo di intervenire in caso di necessità. Il barcaiolo, venendo meno all’impegno assunto,
non interviene.
In questo caso il contratto non è valido in quanto il terzo non è né il titolare del bene giuridico
in pericolo (vita) né può ritenersi titolare di legittimazione ad assumere il ruolo di garante nei
confronti dei nuotatori (soggetti autoresponsabilità). I nuotatori non si trovano in una
condizione di incapacità tipica per la quale l’ordinamento giustifica la predisposizione di
appositi garanti. Il barcaiolo, quindi, non può essere chiamato a rispondere a titolo di omicidio
colposo.

154
2. Oltre al vincolo contrattuale stipulato, è necessario che il nuovo garante assume in concreto
la funzione di tutela al cui assolvimento si è impegnato. Es. coppia di genitori incaricano
una bambinaia di presentarsi per prendere in custodia il loro bambino ma la bambinaia non si
presenta e il bambino muore perché abbandonato a sé stesso. La condotta posta in essere dalla
bambinaia integra soltanto una violazione contrattuale che non è un presupposto sufficiente
per far sorgere responsabilità penale. Alla promessa di prestazione del servizio non si è
accompagnata una effettiva sostituzione del garante originario (e la conseguente presa in
custodia del bene protetto).
3. L’eventuale invalidità del contratto è irrilevante. Ciò che conta è che, in base all’iniziale
accordo intervenuto tra le parti, si sia creata una situazione di effettivo affidamento del bene al
garante derivato, detta situazione permane anche in caso di invalidità del contratto.

Determinate situazioni di garanzia possono anche sorgere in seguito ad un'assunzione volontaria


della posizione di garante. In queste ipotesi il soggetto svolge spontaneamente compiti di protezione di
certi beni, stante l’incapacità dei relativi titolari.
Qualche autore inquadra le ipotesi in esame nell’istituto della gestione d’affari.
A prescindere da tali considerazioni è necessario, ai fini della rilevanza penalistica di questa tipologia
di posizione di garanzia, che l’intervento del garante determini o accentui un’esposizione a pericolo
del bene da proteggere ad es. perché tale intervento induce ad affrontare un pericolo che altrimenti non
si sarebbe corso (alpinista inesperto che decide di avventurarsi grazie all’aiuto spontaneo della guida)
o impedisce l’attivarsi di istanze di protezione alternative (la madre non allatta il bambino confidando
nell’intervento della vicina che si è offerta si allattarlo in sua vece).

7.4
Tra le ipotesi esemplificative di posizioni di protezione penalmente rilevanti vanno menzionate:
1. Posizioni di protezioni che trovano la loro fonte nella legge:
 vincolo di protezione tra genitori e figli minori: trova la sua ratio proprio
nell’incapacità naturale dei figli a difendersi in situazioni di pericolo; nonostante
l’assenza di reciprocità in questo senso, non vanno tralasciati i casi in cui anche il
figlio assume il ruolo di garante della vita dei genitori (malattia), mentre è da
escludere che sui genitori gravi l’obbligo di impedire danni a carico dei beni
patrimoniali di pertinenza dei figli stessi. La posizione di protezione implica il vincolo
all’impedimento di eventi lesivi sia derivanti da fatti naturali, che da aggressioni di
eventuali terzi.
Particolarmente controversa appare la configurabilità a carico del genitore di una
responsabilità in concorso mediante omissione nel reato di violenza sessuale o di
maltrattamenti nel caso in cui, qualora ne sia venuto a conoscenza, ometta di
denunciare l’abuso o chiedere l’intervento dell’autorità giudiziaria. In questo caso
emerge l’ulteriore problematica relativa ai presupposti di ammissibilità di una
responsabilità penale per mancato impedimento del reato commesso da altri. Risulta
preferibile la tesi che dà spazio a considerazioni di ordine psicologico relative
all’impossibilità di accertare se il genitore abbia tenuto un comportamento
intenzionale o sia rimasto inerte per altre motivazioni (rassegnazione, paura,
compiacimento).
 con riferimento ai coniugi, la legge prevede un obbligo di reciproca assistenza, che
può tramutarsi in un obbligo di garanzia penalmente rilevante, a condizione che tra i
coniugi sussista un rapporto di concreto affidamento relativo alla reciproca
protezione.

155
 posizione dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria a tutela dell'incolumità
e della vita dei detenuti e degli internati negli istituti di pena.
 posizione del medico nei confronti del paziente, trae giustificazione dall’incapacità
del paziente di proteggersi autonomamente dai pericoli per la propria salute ed
integrità.
2. Posizioni di protezione possono scaturire anche da un atto di autonomia privata quale il
contratto (es. genitori che affidano un figlio a una baby sitter).

7.5
Le posizioni di controllo su fonti di pericolo si configurano in tre casi.
1. Il primo ricorre al ricorrere di due condizioni:
a. che il titolare del bene si trovi nell’impossibilità di proteggere il bene medesimo;
b. che il garante abbia nella sua sfera di signoria la sorgente da cui si origina la
situazione di pericolo a carico di terze persone.

Esemplificando vengono in considerazione le ipotesi di responsabilità per eventi lesivi


connessi a fonti di pericolo che rientrano in una propria sfera di appartenenza -> ad es il
proprietario, possessore o custode di cose immobili o mobili potenzialmente lesive di beni
altrui è obbligato ad apprestare le misure di sicurezza idonee ad impedire il verificarsi di
eventi dannosi.
La ratio è evidente: chi è minacciato da pericoli scaturenti da cose che appartengono ad altri
non è in grado di proteggersi da solo in quanto ciò comporterebbe un’ingerenza in una sfera
altrui. Alla luce di ciò l’incolumità del soggetto minacciato dipende necessariamente da chi
esercita il proprio controllo sulla cosa pericolosa.

Alcune di queste posizioni di controllo sono previste dallo stesso legislatore penale, come
l’art 677 c.p. configura una posizione di controllo proprio in capo al proprietario di una
costruzione che minaccia rovina.

A questa categoria di posizioni di controllo sono riconducibili anche gli obblighi incombenti
sul datore di lavoro a tutela dell’incolumità dei lavoratori, che trovano il loro fondamento nel
fatto che la fonte di pericolo che deriva dall’attività in questione non è neutralizzabile dagli
stessi soggetti che ne sono minacciati, in quanto privi del potere di incidere
sull’organizzazione dell’attività medesima.

2. Il secondo caso in cui si configurano posizioni di controllo su fonti di pericolo è quello in cui
il garante è obbligato ad impedire l’agire illecito di un terzo.
Questa situazione può configurarsi al ricorrere di varie condizioni che possono mutare in base
ai settori coinvolti:
 quando il terzo (ad es per malattia mentale) non possa governare in modo
responsabile il proprio comportamento e a causa di ciò debba sottostare al potere di
controllo e vigilanza di un garante
 quando vi è un potere giuridico che pone certi soggetti in condizione di impedire la
commissione di reati ad opera di altri soggetti (amministratori e sindaci di società)
Una situazione controversa è quella relativa alla responsabilità delle forze dell’ordine.

156
La giurisprudenza ha infatti sempre affermato il principio secondo il quale il pubblico
ufficiale/agente di polizia giudiziaria concorre nel solito se assiste alla commissione di un
resto e non ne impedisce il compimento.
Un tale assunto, benché consolidato, è problematico.
Anzitutto la funzione di prevenzione che lo Stato esercita per mezzo delle forze dell’ordine
non muove dalla premessa per cui i cittadini devono sempre essere tenuti sotto controllo ma,
al contrario, gli strumenti a cui lo Stato ricorre per impedire la commissione di illeciti sono le
stesse norme penali.
Dall’altro lato, il dovere di impedimento dei reati gravante sugli appartenenti alla forza
pubblica è troppo generico per poter soddisfare quelle caratteristiche di determinatezza e
specialità che caratterizzano il rapporto di protezione posto a fondamento della posizione di
garanzia.
Viene così esclusa una generale posizione di garanzia degli appartenenti alle forze dell’ordine,
che potrà invece configurarsi in presenza di particolari condizioni che conferiscono maggiore
determinatezza agli obblighi impeditivi: ad es nel caso di un agente di scorta ad un uomo
politico che rimane volutamente inattivo di fronte ai suoi assassini.

3. Posizioni di controllo su fonti di pericolo possono anche derivare da un contratto o


dall'assunzione volontaria della relativa funzione.

La distinzione tra “agire” ed “omettere” nei casi problematici

Vi sono delle ipotesi in cui la condotta presenta una forma ambivalente, nel senso che potrebbe
essere considerata attiva od omissiva. Anzitutto, vengono in questione le ipotesi di illecito colposo
basate su un’azione: ad es. se Tizio guida a fari spenti e provoca a causa dell’oscurità un incidente
mortale, si può anche affermare che il sinistro è dovuto ad una condotta omissiva, cioè all'inosservanza
della regola che impone di guidare di sera con i fari accesi. Tuttavia, a voler portare ed estreme
conseguenze il dato per cui nella colpa è sempre insito un momento omissivo che consiste nella
mancata osservanza di una regola cautelare, si arriverebbe alla conseguenza di eliminare del tutto i
fatti commissivi colposi. Ciò, però, porterebbe ad ignorare la circostanza che il soggetto chiamato a
rispondere del fatto colposo non sempre riveste la posizione di garante della salvaguardia del bene
protetto. Ad es. se la condotta del medico che cagiona la morte di un paziente affidato alle sue cure per
un errore di attenzione durante l’intervento obbligatorio può essere indifferentemente qualificata come
azione od omissione, non allo stesso modo può dirsi rispetto al dovere di prudenza dell’automobilista
il quale non assurge a garante della circolazione.

Il problema della distinzione tra agire ed omettere ha assunto particolare rilievo in ambito di
responsabilità colposa del medico e del datore di lavoro per eventi lesivi legati all’attività di
impresa. Entrambi rivestono il ruolo di garanti e sono tenuti ad adottare modalità di comportamento
finalizzate a prevenire il verificarsi di eventi lesivi. Per questa ragione, in giurisprudenza è stata
ricostruita la condotta oggetto di imputazione per lo più in chiave omissiva per due motivi. Da un lato,
la condotta ad es. del medico viene valutata sulla base dello specifico ruolo professionale: in questo
senso, il medico è penalisticamente percepito sempre come garante di un trattamento corretto del
malato, per cui ció che è ritenuto penalmente rilevante è il mancato adempimento dell’obbligo di
garantire prestazioni appropriate (sia che si tratti di errore in un intervento diagnostico materialmente
compiuto sia della totale omissione di ogni intervento). Dall’altro, la propensione per la figura
dell’illecito omissivo meglio asseconda esigenze repressive avvertite come prevalenti, nel presupposto

157
che la causalità omissiva consente un rigore probatorio più attenuato rispetto alla causalità
commissiva.
Tuttavia, autorevole dottrina ha obiettato che la distinzione tra causalità commissiva e causalità
omissiva andrebbe mantenuta sia per esigenze garantistiche connesse al principio di tipicità sia perché
diverse sono le loro modalità di accertamento. Ad es. in dottrina si tende ad inquadrare nello schema
della causalità commissiva casi di mesotelioma/asbestosi provocati da espiazione lavorativa
all’amianto.

È, però, un dato inoppugnabile che soprattutto in ambito medico sono più frequenti situazioni
ambivalenti, in cui non è chiaro se l’imputazione abbia ad oggetto un intervento inappropriato oppure
un’omissione di intervento. Accade spesso, infatti, che il medico agisce, ma allo stesso tempo non fa
ciò che dovrebbe, sicché la sua prestazione professionale finisce col dispiegarsi in un condotta
caratterizzata da momenti attivi e momenti omissivi. Ad esempio, nel caso in cui il medico, dopo una
diagnosi corretta, prescriva tuttavia all’ammalato una terapia inefficace e quindi sbagliata (nonostante
non sia dannosa) con la conseguenza che il paziente perde la vita, l’indicazione della cura errata è
qualificabile come azione causativa dell’evento o come azione omissiva non impeditiva dello stesso.
In realtà, i dubbi e le incertezze che sorgono derivano dal fatto che la ricostruzione giudiziale dei
singoli casi risente di giudizi di valore rapportati a quello che viene di volta in volta percepito. In altre
parole, se la condotta viene dal giudice intesa quale indebita aggressione alla vita o alla salute del
paziente, egli qualificherà la stessa come commissiva; qualora, invece, la si intenda in termini di
mancata attivazione di strumenti salvifici, il giudice qualificherà la stessa come condotta omissiva.
Per queste ragioni, con riferimento al settore della responsabilità medica, la dottrina ha proposto un
criterio distintivo secondo cui avrebbe natura commissiva la condotta del medico che introduce nel
quadro clinico del paziente un nuovo fattore di rischio, che poi si concretizza nell’evento lesivo;
mentre, avrebbe natura omissiva la condotta del sanitario che si limita a non contrastare un fattore di
rischio già presente nel quadro morboso del malato.

Esempi di condotte ambivalenti si possono manifestare anche nell’ambito dei reati dolosi, come
tipicamente avviene nei casi di:
 “impedimento di azioni soccorritrici altrui” > caso in cui Caio con la pistola in pugno
minacci Sempronio a non portare in ospedale il ferito che ha caricato sulla macchina,
risponderà di omicidio mediante azione e non di semplice omissione di soccorso, perché con il
suo comportamento non si limita a non prestare aiuto a chi versa in pericolo, ma annulla
strumenti già messi in opera che hanno attenuato la situazione di pericolo iniziale.
 “interruzione di un personale intervento soccorritore” > caso in cui A, accorgendosi che B
è caduto in un pozzo, gli lancia una fune ma poco dopo se ne pente e la ritira. Si consideri, poi,
il caso di un medico di un ospedale che prima applica ad un paziente la macchina “cuore-
polmoni”, ma dopo poco tempo la disattivi senza una valida ragione. Nel primo caso si
configura omissione di soccorso se A ritira la fune prima che la stessa abbia raggiunto B,
mentre se la fune è sottratta nel momento in cui B sta già per servirsene, si realizza un
omicidio doloso mediante azione. Nel caso del medico, qualificare il fatto come azione od
omissione, invece, è indifferente in quanto egli è “garante” della salvezza dell’ammalato. Di
conseguenza, egli risponderebbe a prescindere di omicidio quale che sia il momento in cui si
verifica l’interruzione dell’intervento diretto a porre in salvo il bene minacciato.

II. Antigiuridicità
Anche nel reato omissivo, se sussiste una causa di giustificazione, l’omissione tipica non risulta
antigiuridica e la punibilità viene meno.

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È, però, vero che le cause di giustificazione più frequentemente applicate sul terreno dei reati di azione
(ad es. legittima difesa) accedono alla realizzazione di un reato omissivo soltanto a fronte di
circostanze assai particolari.
 legittima difesa realizzata mediante condotta omissiva: un soggetto tenuto a prestare soccorso
si trova di fronte ad un ferito che lo minaccia. In tal caso, il fatto di non prestare il soccorso
(pur riducendosi ad una mera inerzia) avrebbe dovuto acquistare il carattere di una reazione
difensiva giustificabile ex art 52 c.p.
 condotta omissiva giustificata da stato di necessità: un soggetto omette di prestare soccorso
perché l’azione di salvataggio porrebbe in pericolo la sua persona; oppure il casellante non
abbassa all’orario stabilito le sbarre del passaggio a livello, così provocando un incidente,
perché impegnato a difendersi da tentativo di rapina.

III. Colpevolezza

Premessa
La struttura della colpevolezza nei reati omissivi è fondamentalmente analoga a quella dei reati di
azione.
Con particolare riferimento ai reati omissivi impropri, il problema della equiparabilità del cagionare al
non impedire assume rilevanza ai fini della graduazione della colpa, cioè sotto il profilo del
trattamento sanzionatorio.
Parte minoritaria della dottrina ritiene che la minore quantità di energia fisica esplicantesi nel reato
omissivo ed il minor sforzo richiesto dalla decisione volta a lasciare le cose nello stato in cui si
trovano, implicano una carica di minore pericolosità, richiedendo quindi un trattamento punitivo
meno severo.

Dolo omissivo
Nell’ambito dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo risulta
complessa. Ciò vale, in particolare, con riferimento alle ipotesi omissive proprie, poiché caratterizzate
dall’assenza di una condotta positiva, ma anche di un evento naturalisticamente percepibile: sicchè è
l’essenza normativa del reato a destare problemi di interferenza tra il dolo e la conoscenza della legge
penale. Cioè il problema è fino a che punto è possibile avere la coscienza e volontà di omettere, senza
preventivamente conoscere la legge penale che impone di attivarsi in un determinato modo.
Al riguardo bisogna distinguere i reati omissivi propri in 2 categorie:
1. fattispecie con situazione tipica pregnante: in tale ipotesi, l’obbligo di attivarsi rinviene il
proprio presupposto nella realtà naturalistica o sociale immediatamente percepibile dal
soggetto e ciò indifferentemente dalla conoscenza di un obbligo di agire. Tipico esempio è
l'omissione di soccorso ove la situazione tipica esprime una sufficiente capacità ammonitrice
verso il soggetto tenuto a soccorrere.
2. fattispecie con situazione tipica neutra: esse riflettono fattispecie di pura creazione legislativa,
cioè tipi di illecito penale che sono tali solo per volontà del legislatore, senza che ad essi
preesista un disvalore socialmente percepibile o diffuso. In detti casi, il presupposto
dell’obbligo di agire si rinviene nella conoscenza o, anche, nella conoscibilità della norma
giuridica che ne attribuisce rilevanza (ad es. il proprietario di un deposito di carburante può
rendersi conto di omettere di farne denuncia all’autorità, in quanto sappia o abbia ragione di
dubitare che esiste una norma penale che lo obbliga in tal senso).

159
Per questo motivo, parte della dottrina ritiene che il dolo inglobi la conoscenza attuale del
comando penale, in deroga all’art 5cp.

Affinché l’omittente risponda a titolo di dolo occorre non solo la conoscenza dei presupposti
(situazione tipica) del dovere di attivarsi, ma anche la consapevolezza della possibilità di agire nella
direzione voluta dalla norma.

Parte della dottrina obietta che il dolo omissivo non sia dolo vero e proprio perché fa difetto il
momento “volitivo” in quanto all’omissione stessa (concepita come atto che “non si realizza”) sarebbe
estranea la volontà in quanto realizzazione. Tuttavia, sostenere ciò significa rimanere legati a
preconcetti astratti. Infatti, anche chi concepisce la volontà come forza direttrice della causalità
esterna, limitandosi a riconnetterla alla sola azione in senso stretto, finisce con l’ammettere che
l’omissione accompagnata dalla consapevolezza di non agire, per il diritto, ha il significato di una
risoluzione a favore del mantenimento della situazione preesistente.
Per quanto concerne la preoccupazione che l’inclusione della possibilità di agire nel contenuto
rappresentativo del dolo omissivo premierebbe i soggetti più insensibili che non rifletterebbero
neppure un momento sulla possibilità di attivarsi a difesa dei beni protetti, si obietta in questo modo: la
consapevolezza della possibilità di agire (necessaria per l’integrazione del dolo di omissione) non
corrisponde alla consapevolezza delle specifiche modalità di adempimento della azione doverosa, ma
è sufficiente una consapevolezza implicita o generica della possibilità di adempiere al dovere di
condotta.

Con riguardo all’illecito omissivo improprio, il dolo ricomprende anche i presupposti di fatto della
posizione di garanzia, la quale rappresenta un fondamentale elemento costitutivo del fatto tipico. Ad
es. una baby sitter che omette di sorvegliare il bambino affidatole, non risponde di omicidio doloso se
non riconosce che il bambino che sta per annegare è proprio quello affidatole. Talvolta, anche la
conoscenza dell’obbligo extrapenale di agire può costituire un presupposto indispensabile affinché il
soggetto si renda conto di rivestire una posizione di garanzia, sicché un errore in proposito può
sfociare in un errore sulla situazione tipica, con conseguente efficacia scusante ex art 47 ultimo
comma.
Invece, ai fini della configurabilità del dolo non si richiede che l’omittente sappia che la violazione
dell’obbligo di garanzia è penalmente sanzionata, in applicazione del principio “ignorantia legis non
excusat”.

Colpa
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi nelle fattispecie omissive.
Anzitutto, il difetto di diligenza può riferirsi al mancato riconoscimento della situazione tipica da parte
dell’omittente. Ad es. il datore di lavoro che, per superficialità, non si accorga che la natura del
processo produttivo impone di adottare determinate misure di sicurezza, può ben rispondere del delitto
di omissione colposa di cautele contro infortuni sul lavoro; ma il rimprovero della colpa può anche
riferirsi (soprattutto in ambito di omissioni improprie) all’errata scelta dell’azione doverosa da
compiere.
L’adempimento del dovere di diligenza presuppone, poi, che il soggetto obbligato abbia la possibilità
di agire, anzitutto intesa in senso fisico.
Inoltre, l’orientamento finalistico dell’azione comandata esige che il soggetto obbligato sia in grado di
dominare i fattori necessari al raggiungimento dello scopo. Sicché, si ritiene che i requisiti in cui si
articola la possibilità di agire sono 4:
1. conoscenza o riconoscibilità della situazione tipica;

160
2. possibilità obiettiva di agire;
3. conoscenza o riconoscibilità del fine dell’azione doverosa;
4. conoscenza o riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine stesso.
Al fine di accertare se la condotta omissiva contrasti col dovere oggettivo di diligenza, è sufficiente
valutare la possibilità di agire alla stregua di un modello di agente avveduto che, posto nella
situazione data, sia in grado di riconoscere la situazione tipica e di agire nel senso voluto
dall’ordinamento.
L’indagine ulteriore sulle capacità psicofisiche dell’omittente concreto va compiuta in sede di
colpevolezza, cioè sarà sufficiente accertare l’assenza di circostanze anormali capaci di rendere
eccezionalmente impossibile anche all’agente modello di comportarsi nel modo richiesto.
Questa verifica si basa sull’accertamento del comportamento effettivamente tenuto dall’omittente
perché, soltanto accertando le concrete modalità della condotta tenuta, è possibile stabilire se
sussistono eventuali fattori eccezionali capaci di incidere sulla volontarietà del comportamento
omissivo.
Il criterio di cui sopra risulta utile soprattutto nei casi di colpa incosciente esemplificati nelle omissioni
dovute a pura dimenticanza. Sebbene si sia soliti considerare la colpa incosciente come una delle due
forme tipiche dell’elemento psicologico del reato colposo, nella gran parte nei casi di colpa
inconsapevole c’è un difetto di coscienza e volontà come coefficienti psicologici reali. In questi casi, il
giudizio di imputazione ha natura schiettamente normativa e l’accertamento della colpa coincide con
la possibilità di muovere all’omittente un rimprovero per non avere agito nel senso richiesto.

Nell’ambito dei delitti omissivi impropri è da rilevare che dovere di diligenza ed obbligo di impedire
finiscono col coincidere, cioè il garante è tenuto a fare, per impedire la verificazione di determinati
eventi, quanto gli è imposto dall’osservanza delle regole di diligenza dettate dalla situazione
particolare.
Tuttavia, le due entità devono essere tenute concettualmente distinte per consentire che la loro portata
venga valutata più agevolmente.
La differenza concettuale consente di sostenere, in sede di accertamento giudiziale, che la misura di
diligenza esigibile dall’omittente, in quanto garante, non può oltrepassare la misura previamente
impostagli dalla legge.

Coscienza dell’illiceità
Nell’ambito dei reati omissivi, la coscienza dell’illiceità equivale alla conoscenza del comando di
realizzare una determinata azione. Nel settore dei reati omissivi, ai fini della sussistenza della
colpevolezza, è sufficiente la possibilità di conoscere il precetto penale costituito dal comando di agire
penalmente sanzionato, solo che tale possibilità di conoscenza deve essere accertata con criteri
particolari. Stante il fatto che l’obbligo di agire, di regola, non è percepito con la stessa intensità con la
quale si percepisce l’obbligo di non agire., nei reati omissivi la possibilità di non conoscere il precetto
penale va sempre presa in considerazione (a differenza che nei reati commissivi, della quale si tiene
conto soltanto in presenza di particolari circostanze). Particolarmente evidente è che, soprattutto nei
reati omissivi di pura creazione legislativa, si esula dall’ambito della coscienza morale media.

IV. Tentativo
Il tentativo
La dottrina è concorde nell’ammettere il tentativo nei delitti omissivi impropri, anche definiti
commissivi mediante omissione, in quanto strutturalmente si atteggiano a reati di evento. Infatti, è ben
possibile ipotizzare il tentativo nei casi in cui la condotta omissiva volontaria non si è perfezionata per
circostanze fortuite (es. ragazza madre che decide di sopprimere il neonato omettendo di nutrirlo, ma

161
l’intento non si realizza grazie all’intervento soccorritore di una vicina di casa). L’omissione tentata
assume rilevanza penale nel momento in cui il ritardo nell’azione di salvataggio provoca un pericolo
diretto per il bene tutelato o aggrava una situazione di pericolo preesistente.
La dottrina non è, invece, unitaria circa la configurabilità del tentativo nei delitti omissivi propri,
infatti fa leva su due argomentazioni:
 Se il termine utile per compiere l'azione prescritta non è scaduto, il non averla posta ancora in
essere non implica la violazione dell’obbligo; mentre se il termine è scaduto, il reato è già
perfetto. Appare, quindi, complesso determinare il momento a partire dal quale si ha un
tentativo di omissione.
 In base ad una seconda obiezione, l’omissione non è percepibile con i sensi, risultando
impossibile per l’osservatore riconoscere un’effettiva volontà diretta a non ottemperare
all’obbligo.
Si è registrato, però, un mutamento di tendenza da una parte della dottrina che ritiene ammissibile il
tentativo di reato omissivo proprio quando il soggetto non si limiti a non agire ma compia atti positivi
diretti in modo inequivocabile a rendere impossibile l’adempimento all’obbligo di azione (es. ipotesi
di pubblico ufficiale che si reca all’estero di proposito al fine di non essere presente nel tempo e nel
luogo in cui dovrebbe compiere un atto dell’ufficio) > ipotesi di inadempimento precostituito.
Questa sembrerebbe la tesi più accoglibile. La riconoscibilità della volontà di non adempiere appare
agevole tutte le volte in cui un soggetto precostituisce una situazione che rende impossibile
l’ottemperanza e, al contrario, è meno agevole di fronte alla realizzazione di comportamenti volti a
produrre l’impossibilità dell’inadempimento. In questo secondo caso, sarà opportuno applicare i
requisiti di idoneità e univocità previsti dall’art. 56 c.p.

V. Partecipazione criminosa

Partecipazione nel reato omissivo


La dottrina italiana ha implicitamente aderito all’idea che la disciplina del concorso di persone nel
resto sia applicabile, indifferentemente, tanto all’azione quanto all’omissione.

Possiamo distinguere:
Concorso mediante omissione in un reato omissivo, in merito al quale la dottrina ha rilevato che il
fenomeno è ammissibile quando più soggetti decidono, di comune accordo, che ciascuno non
adempirà al suo obbligo di condotta.
Ad esempio, più persone convengono di non prestare soccorso ad un ferito nel quale si sono per caso
imbattute.
Anche se questa figura di concorso non ha molta importanza pratica perché, per pervenire ad
un’affermazione di responsabilità, basterà tener conto della singola condotta omissiva che è già di per
sé idonea, da sola, ad integrare tutta la fattispecie di reato.

Concorso mediante azione in un reato omissivo , ad esempio il caso di Tizio che istiga Caio a non
soccorrere una persona in pericolo. Anche questa figura di concorso appare superflua, qualora ad
esempio anche l’istigatore sia in grado di soccorrere la persona in pericolo, perché anch’egli può
assumere direttamente il ruolo di “autore” del delitto di omissione di soccorso.

Si ha invece:
Concorso mediante omissione alla realizzazione di un reato commissivo soltanto a
condizione che l’omittente sia “garante” dell’impedimento dell’evento (in questo caso evento = reato
commesso da terzi soggetti). Il problema della partecipazione mediante omissione si risolve nella

162
individuazione dei presupposti in presenza dei quali si può affermare che sussista a carico di un
determinato soggetto l’obbligo di impedire un determinato reato.
Peraltro, dottrina e giurisprudenza nel ricondurre al concetto di “evento non impedito” anche il reato
commesso dal terzo prescindono dalla circostanza che un tale reato presenti un evento in senso
naturalistico.
E, in merito alla posizione di protezione, si ritiene che il soggetto che ne è titolare sia vincolato
all’impedimento di eventi lesivi del bene oggetto di protezione cagionati sia da fatti naturali che
dall’aggressione di terzi. Tuttavia, in giurisprudenza sono rinvenibili delle oscillazioni. Infatti, in un
caso di violenza carnale a danno di una minore di 16 anni la madre fu ritenuta responsabile di
compartecipazione dolosa per essere rimasta inerte; mentre in un caso di prostituzione di una minore,
di fronte al comportamento non impeditivo della madre, si affermò che “il dovere di generica
sorveglianza dei minori, attributo a chi su di loro esercita la patria potestà, non è sufficiente per farne
derivare una responsabilità penale”. In realtà, in casi come questi sussiste sempre il pericolo che il
giudizio sulla condotta del garante si stacchi dal singolo fatto di trasgressione e giunga a coinvolgere il
comportamento del garante nella sua globalità.

Non sono, tuttavia, mancate delle prese di posizione dottrinali che hanno denunciato su questo campo
eccessi rigoristici della giurisprudenza considerati aberranti ( caso padre 1935, pag 674). Per tale
ragione la dottrina ha proposto dei correttivi sul piano dell’elemento psicologico che la dottrina meno
recente ha ritenuto inefficaci, considerata l’enorme difficoltà di accertare se l’omittente sia stato
animato da volontà intenzionale. Tuttavia, a differenza del contesto dottrinale degli altri paesi, la
dottrina italiana sembra implicitamente aderire alla tesi secondo la quale il garante che si limiti a non
impedire un reato riveste una posizione secondaria rispetto a quella dell’esecutore materiale
assimilabile più a quella del complice che non a quella del coautore. Per tali ragioni, si accusa
l’eccesso rigoristico della giurisprudenza per non aver in alcuni casi (come quello del padre del 1935)
riconosciuto opportune graduazioni di responsabilità.

Nel diritto penale societario, la problematica del concorso mediante omissione ha provocato vivaci
contrasti. Tra i punti più controversi rientra quello dell’individuazione della portata e dei limiti della
posizione di garanzia in sede sia di amministratori sia dei sindaci, quale presupposto di obblighi di
impedimento di reati commessi da altri nell’ambito della compagine sociale. Mentre, la giurisprudenza
tende ad interpretare in chiave espansiva gli obblighi di impedimento gravanti sui garanti, la dottrina
sottolinea che è necessario un equilibrato bilanciamento tra poteri e doveri di impedimento.

CAPITOLO 1 – RESPONSABILITA’ OGGETTIVA

Premessa
L’art 42, dopo aver stabilito nel 2º comma che di un fatto delittuoso si risponde a titolo di solo i colpa,
aggiunge nel 3º che “la legge determina i casi in cui l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente,
come conseguenza della sua azione od omissione”. Con l’avverbio “altrimenti” il legislatore allude ad
un ulteriore parametro di imputazione, definito responsabilità oggettiva: una forma di responsabilità
in virtù della quale un determinato evento viene posto a carico dell’autore in base al solo rapporto di
causalità materiale, non richiedendosi né che l’evento costituisca oggetto di una volontà colpevole
(dolo), nè che sia conseguenza di una condotta contraria a regole di diligenza sociali o scritte(colpa).
Per questi motivi, i casi di responsabilità oggettiva rappresentano vistose eccezioni al principio di
colpevolezza. Per valutare se si tratti di eccezioni giustificabili, bisogna riflettere sulle funzioni

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politico-criminali che la responsabilità oggettiva è in grado di assolvere nell’ambito del sistema
penale.
Non poche delle attuali ipotesi di responsabilità oggettiva sono fatte tradizionalmente risalire al
vecchio principio “qui in re illicita versatur tenetur etiam pro casu” secondo il quale si riteneva che il
delinquenti dovesse rispondere di tutte le conseguenze oggettivamente cagionate dalla sua precedente
azioni criminosa, non importa se volute o non volute, se prevedibili o fortuite. Infatti, l’influenza del
principio si ravvisa oggi nelle ipotesi del delitto preterintenzionale e dei reati aggravati dall’evento, in
cui viene accollato all’agente (sulla base di un semplice nesso di causalità materiale), l’evento più
grave oggettivamente derivante da una precedente azione diretta alla realizzazione di un reato meno
grave.
A partire dall’epoca illuministica, lo stesso principio viene reinterpretato in chiave di prevenzione
generale, nel senso che la consapevolezza dell’autore potenziale che l’ordinamento gli addossa tutte le
conseguenze materialmente connesse alla sua azione illecita, dovrebbe costituire un fattore in grado di
inibire la spinta criminosa. Sulla base di questo convincimento, parte della dottrina attuale continua a
giustificare il mantenimento di alcune forme di responsabilità obiettiva. Si obietta, però, che trattasi di
un convincimento (quello general-preventivo) non suffragabile sul piano empirico, in quanto tutt’oggi
mancano indagini rigorosamente scientifiche idonee a dimostrare che la minaccia di un’attribuzione di
responsabilità su base puramente causale possa incrementare l’efficacia deterrente della sanzione
penale. In secondo luogo, è poco realistico ipotizzare che i potenziali rei siano tanto esperti in diritto
penale da poter cogliere la distinzione tra responsabilità colpevole e responsabilità obiettiva, con la
conseguenza di farsi maggiormente influenzare da una maggiore efficacia detergente di quest’ultima.
Al più, questa maggiore efficacia potrebbe ipotizzarsi nel settore della criminalità economica, sul
presupposto che i potenziali rei conoscono di regola i meccanismi giuridici di attribuzione della
responsabilità e calcolano razionalmente, in termini di costi e benefici, i possibili rischi di eventuali
condotte penalmente illecite.
In realtà, la deroga al principio di colpevolezza non apparirebbe neppure giustificabile in questo
settore, posto che il contrasto tra la responsabilità oggettiva e il principio costituzionale della
personalità della responsabilità penale è insuperabile:
Altri argomentano a favore dell’ammissibilità di una responsabilità oggettiva sostenendo che di essa ci
si possa servire per eliminare difficoltà probatorie con riferimento ai casi in cui risulta particolarmente
complesso l’accertamento giudiziale del dolo della colpa.

La tendenza a derogare all’accertamento della colpevolezza all’accertamento della colpevolezza, in


omaggio ad esigenze di economia probatoria, è emersa soprattutto con riferimento al settore degli
illeciti contravvenzionale, sicché un orientamento ermeneutico riteneva sufficiente (ai fini della
responsabilità in ambito contravvenzionale) la coscienza e volontà della condotta, indipendentemente
dalla prova del dolo o della colpa. Ma un tale orientamento era privo di sufficienti sostegni normativi,
dal momento che la disciplina codicistica dell’elemento soggettivo nelle contravvenzioni non contiene
esplicite deroghe ai principi generali di accertamenti della colpevolezza.

Le ragioni che hanno indotto il legislatore del 1930 a rinunciare a esplicite deroghe alla colpevolezza
motivate da esigenze probatorie appaiono oggi rafforzate dal crescente riconoscimento del carattere
costituzionalmente inderogabile del principio di colpevolezza.
Sebbene confliggente con il modello di responsabilità penale accolto dalla costituzione, la tendenza
processuale a presumere il solo o la colpa si manifesta in misura talvolta eccessiva nella prassi
giurisprudenziale, dando origine a forme di responsabilità oggettiva occulta. In particolare, accade che
il precetto penale di per sé richiede il dolo o la colpa quali presupposti dell’imputazione soggettiva, ma
che in sede di accertamento giudiziale queste ipotesi di normale responsabilità colpevole vengono

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arbitrariamente degradate a forme di responsabilità oggettiva in contrasto con la volontà del
legislatore.
Premesso tutto ciò, si può concludere affermando che né ragioni di prevenzione generale, né ragioni di
economia probatoria possono costituire motivi decisivi per giustificare deroghe al principio di
colpevolezza.

Responsabilità oggettiva e principi costituzionali

Per valutare la legittimità costituzionale della responsabilità oggettiva è necessario comprendere la


portata del principio del carattere personale della responsabilità penale sancito all’art 27 comma 1
Cost.

Secondo una prima interpretazione accolta, in passato, in molte sentenze della Corte Costituzionale,
il 1 comma dell’art 27 Cost si limita a sancire la sola responsabilità per fatto altrui, secondo la quale
non si può essere chiamati a rispondere del fatto delittuoso commesso da un altro soggetto.
Alla stregua di questa interpretazione la responsabilità oggettiva sarebbe perfettamente costituzionale
in quanto strettamente connessa alla condotta del destinatario della sanzione, attraverso il rapporto di
causalità materiale. Tuttavia, questa tesi non è condivisibile in quanto la premessa, secondo la quale la
norma deve attribuirsi una portata minima, ne mortifica il significato: il divieto di responsabilità per
fatto altrui appartiene già ai primordi della civiltà giuridica, rendendo inutile un riconoscimento
costituzionale.

Secondo un’altra autorevole dottrina, il principio della personalità dell’illecito richiede qualcosa in
meno di un vero e proprio nesso psichico tra il soggetto è il fatto che gli si attribuisce ma esige
comunque la possibilità materiale di controllare le conseguenze ultime della condotta tenuta (controllo
finalistico sul divenire causale). Alla luce di ciò, la responsabilità oggettiva supporrebbe la
“prevedibilità ed evitabilità” dell’evento lesivo senza però configurare un’ipotesi di colpa. Nel caso
di responsabilità colposa la prevedibilità ed evitabilità dell’evento bastano già a fondare la
responsabilità colposa, se si supera il limite del rischio consentito. Mentre, con riferimento ai casi di
responsabilità oggettiva, il limite del rischio consentito è inoperante in quanto l’ordinamento accolla
l’intero rischio al soggetto che compie l’attività in questione.
Tuttavia, neanche questa impostazione pare condivisibile perché anzitutto non appare ragionevole
applicare il criterio del rischio consentito in un terreno a cui è storicamente e funzionalmente estraneo.
Esso è stato da sempre adoperato per distinguere le azioni colpose da quelle lecite, per cui non può
fungere da criterio discretivo tra azioni comunque illecite ma punibili rispettivamente a titolo di colpa
o di responsabilità oggettiva. Inoltre, si ritiene che questa tesi che si sforza di usare il criterio della
prevedibilità e dell’evitabilità, in realtà crea solo un doppione della responsabilità colposa.

Se, invece, si dà una interpretazione espansiva all’art 27 comma 1 Cost, si comprende la


ragionevolezza di tutte le obiezioni di costituzionalità sollevate contro l’istituto della responsabilità
oggettiva. Per fondare un rimprovero di colpevolezza non è, infatti, sufficiente la sussistenza del mero
nesso di causalità materiale, ma è necessaria almeno la colpa.
A conclusioni non dissimili si giunge, se di prende in considerazione il comma 3 dell’art 27 Cost che
postula la funzione rieducativa della pena. Tale funzione, richiede infatti che il fatto addebitabile sia
psichicamente imputabile almeno a titolo di colpa al soggetto da rieducare, altrimenti non si potrebbe
muovere alcun rimprovero all’agente e quindi non avrebbe senso infliggere una pena rieducativa.

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Queste riflessioni sono state condivise anche dalla stessa Corte Costituzionale nelle sentenze 364/88 e
1085/88, che hanno segnato una svolta nella giurisprudenza costituzionale a favore della tesi
dell’incostituzionalità della responsabilità obiettiva.
Le argomentazioni fatte proprie dalla Corte muovono dal presupposto che se il principio di
colpevolezza funge da presidio garantistico a salvaguardia della libertà di programmazione di azioni
future, la responsabilità oggettiva è incostituzionale perché confliggente con questa libertà. Infatti, se il
soggetto è punibile anche in assenza di dolo o di colpa, la possibilità di incorrere in una sanzione
penale dipende da fattori incontrollabili dal soggetto.
A fronte di ciò, la Corte, soprattutto nella sentenza 1085/88, in modo esplicito è univoco afferma che
affinché sia rispettato l’art 27 Cost è indispensabile che tutti gli elementi che concorrono a
contrassegnare il disvalore della fattispecie siano collegati soggettivamente all’agente, cioè
investiti dal dolo o dalla colpa.

Partendo da questo assunto, dovrebbero essere ritenute costituzionalmente illegittime tutte le principali
ipotesi codicistiche di responsabilità obiettiva. È però possibile prospettare un’interpretazione più
conforme a Costituzione delle norme penali coinvolte. Così in tema di “preterintenzione” si è
sostenuto che l’istituto sia un misto di dolo e colpa. Però, coerenza impone di tentare una rilettura
adeguatrice di tutte le attuali ipotesi di responsabilità oggettiva.
È in questa direzione che si colloca la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, in
particolare con la sentenza del 22 gennaio 2009, con la quale la Corte ha affermato che la
responsabilità per l’evento non voluto presuppone, oltre al nesso di causalità, anche l’accertamento di
un elemento soggettivo in capo all’agente costituito dalla prevedibilità/evitabilità dell’evento, valutate
dal punto di vista di un agente modello, cioè di un uomo razionale, ma calato nel contesto concreto in
cui si è ritrovato il soggetto agente.

Questa reinterpretazione in chiave costituzionale è, però, meno risolutiva di quanto appaia perché la
disciplina ordinaria permane immutata e nulla garantisce che la prassi applicativa si adegui realmente
a tale orientamento. D’altro canto, non è unanime in dottrina il convincimento che una conversione
delle ipotesi di responsabilità oggettiva in responsabilità colposa corrisponda davvero alla scelta più
razionale.

Vi è, inoltre, chi auspica il mantenimento di un trattamento penale più severo per alcune ipotesi di
“delitto aggravato dall’evento”.

Casi di responsabilità oggettiva pura

Originariamente, il codice Rocco distingueva casi di responsabilità oggettiva pura da casi di


responsabilità oggettiva mista a dolo o colpa.
Responsabilità oggettiva pura:
 aberratio delicti: L’art 83 sancisce che “se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del
reato, o per un’altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole
risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preceduto dalla legge
come delitto colposo”.
La formula “a titolo di colpa” si riferisce non al piano degli elementi strutturali del fatto di reato, ma a
quello delle conseguenze sanzionatorie, con la conseguenza che si applicano le pene previste per il
reato colposo, ma il criterio di attribuzione della responsabilità rimane di natura obiettiva.
 Responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto: l’art 116 stabilisce che,
qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluni dei concorrenti, anche questi

166
ne risponde, se l’evento è conseguenza della sua azione. In questo caso, il legislatore
attribuisce il diverso reato realizzato anche al partecipe che non lo ha voluto, sulla base del
semplice nesso di causalità materiale.

Reati di stampa
L’art. 57 c.p. nella sua formulazione originaria chiamava a rispondere di omesso impedimento dei
reati commessi a mezzo stampa il direttore o il vicedirettore del giornale, sulla base del ruolo di
supremazia da loro rivestito.
Bastava il fatto oggettivo di una omissione di controllo da parte di questi soggetti, a prescindere dalla
prova del carattere colposo del comportamento omissivo medesimo.

La Corte Cost. sì, è pronunciata con sent. 3/56 sulla legittimità dell’art. 57, riformato con legge del 4
marzo 1958, n. 127.
Attualmente l’art. 57 dispone: “salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione, e fuori dai
casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto
del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione
siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso con la pena stabilità per tale
reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”.
Nonostante questa modifica legislativa, parte della dottrina continua a sostenere che l’art. 57 continua
a configurare una ipotesi di responsabilità oggettiva, stante anche il fatto che l’inciso <<a titolo di
colpa>> si riferisce non al fondamento della responsabilità ma alla disciplina del fatto come se fosse
colposo.
Dottrina e giurisprudenza prevalenti oggi configurano l’ipotesi di cui all’art. 57 come colposa a tutti
gli effetti: non basta accettare che il direttore ha violato l’obbligo di controllo, ma è necessario
verificare se tale omissione sia dovuta a negligenza.
Più precisamente, al direttore deve potersi rivolgere l’addebito o di non aver controllato, a causa di un
suo atteggiamento negligente, il contenuto dell’articolo oppure di averne valutato superficialmente la
liceità penale. Per evitare, però, che questa forma di responsabilità si trasformi in una sorta
responsabilità di posizione, occorre precisare portata e limiti dell’obbligo di controllo.
Anche se è il giudice che deve specificare, nel singolo caso concreto, il contenuto di tale obbligo,
sarebbe errato dire che al giudice spetta una delega in bianco per individuare la diligenza richiesta. Se
si asserisse che il direttore è tenuto a fare tutto il possibile per evitare che col mezzo della stampa si
commettano reati, si correrebbe il rischio di pretendere una diligenza eccessiva che contrasta con la
necessità di bilanciamento tra la repressione dei reati e il lasciare il giusto spazio di libertà
all’informazione giornalistica.
L’ambito dei doveri di controllo del direttore (o vicedirettore) deve essere circoscritto tenendo conto di
due fattori:
 modalità di funzionamento, struttura e articolazione dei ruoli nelle moderne aziende
giornalistiche (maggiormente complessa e articolata sarà la struttura organizzativa, tanto meno
si può pretendere un diffuso e capillare controllo personale del direttore);
 natura informativa e valutativa dello scritto da controllare (il controllo del direttore deve
essere più rigoroso rispetto alla veridicità di notizie e fonti e meno penetrante rispetto alle
valutazioni dell’autore dell’articolo aggiunte a commento dei fatti).

Controverso è se la responsabilità omissiva del direttore dia forma a una responsabilità autonoma
ovvero a concorso colposo nel fatto doloso direttamente commesso dall’autore dell’articolo.
Si deve rispondere affermando una responsabilità autonoma per due ragioni:
1. l’art. 57 teca la distinzione testuale “fuori dai casi di concorso”

167
2. mentre l’art. 58 bis stabilisce che la querela presentata contro direttore o vicedirettore ha
effetto anche nei confronti dell’autore dello scritto, viceversa non è così.

Si configura, invece, una normale ipotesi di concorso (doloso) del direttore nel fatto doloso
dell’autore dello scritto se l’omesso controllo del direttore dipende non da negligenza ma dalla
volontà di assecondare la pubblicazione di un articolo di contenuto illecito.

Casi di responsabilità oggettiva mista: la preterintenzione


La gran parte delle ipotesi di responsabilità oggettiva nel nostro ordinamento si innestano su una
precedente fattispecie per lo più incentrata su di una azione dolosa, anche se non mancano fattispecie
connesse ad ipotesi colpose.
Uno dei casi principali riguarda la preterintenzione.
L’art. 42 considera la preterintenzione al comma 2, come criterio autonomo di ascrizione di
responsabilità, distinto sia da dolo e colpa che dalla responsabilità oggettiva (di cui al comma 3 dello
stesso articolo).
Ci sono, nel nostro ordinamento, due specifiche ipotesi di preterintenzione:
 omicidio preterintenzionale (art. 584), che si verifica quando un soggetto, con atti diretti a
percuotere o ledere, realizza involontariamente la morte di un uomo;
 aborto preterintenzionale (l. 194/1978 art. 18 c.2), che ricorre quando, con azioni dirette a
provocare lesioni, si cagiona come effetto non voluto l’interruzione della gravidanza.
Il delitto preterintenzionale non delinea un nuovo modello di responsabilità, ma costituisce una ipotesi
di dolo misto a responsabilità oggettiva: secondo la definizione di cui all’art. 43 comma 2, il delitto
è “preterintenzionale o oltre l’intenzione, quando dall’azione o omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”. Alla stregua di questa definizione ne deriva una
combinazione tra una azione diretta a commettere un delitto meno grave di quello che si voleva
commettere da cui deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto; l’azione diretta
all’evento meno grave è voluta e, per questo, certamente dolosa. Quanto all’evento più grave non
voluto, la legge si limita a dire che deve essere conseguenza della condotta ma non richiede che sia
commesso con colpa, da cui si deduce che l’evento più grave viene accollato sulla base del nesso di
causalità materiale (responsabilità oggettiva).

Es.: A dà una spinta violenta a B facendolo cadere per le scale al solo fine di provocargli delle
lesioni, ma B muore in seguito alle ferite riportate nella caduta. Affinché A risponda di omicidi è
sufficiente che la morte sia riconducibile alla spinta diretta a ledere.

Tesi opposta: si ravvisa nella preterintenzionale un misto di dolo e colpa, nella specie, per
inosservanza di leggi.
L’evento più grave non voluto conseguirebbe alla violazione della norma penale che vieta l’azione
dolosa diretta a commettere il reato meno grave.
Obiezione: la colpa per inosservanza di leggi consegue alla violazione non di una legge qualsiasi ma
solo di quelle che hanno finalità precauzionali, aventi per scopo l’impedimento di eventi del tipo di
quello che si verifica.

Parte della dottrina più recente suggerisce, per evitare che l’evento più grave venga attribuito sulla
base del puro nesso di causalità, che il giudice accetti la colpa o, comunque, almeno la prevedibilità in
concreto dell’evento non voluto dall’agente.

168
Si dubita sull’opportunità di mantenere in vita la preterintenzione, nella prospettiva di una riforma
della responsabilità oggettiva, che non rappresenta altro che una filiazione del dolo indiretto,
concezione di dolo da molto tempo abbandonata.

Reati aggravati dall’evento


Si definiscono aggravati o qualificati dall’evento i reati che subiscono un aumento di pena per il
verificarsi un evento ulteriore rispetto ad un fatto base che già costituisce reato. Tale fenomeno è
riscontrabile nell’ambito dei reati commissivi dolosi (es. reato di avvelenamento di acque o di sostanze
alimentari è punito più gravemente se dal fatto deriva la morte di qualcuno); non mancano ipotesi di
reati omissivi (omissione di soccorso), di delitti colposi o di contravvenzioni. ll reato aggravatore
viene accollato all’agente in base al mero nesso causale, quindi a prescindere da qualsiasi requisito di
colpevolezza.
Oggi la categoria in questione si presenta particolarmente incerta e problematica.
Distinguiamo tradizionalmente due tipologie di reati aggravati dall’evento a seconda che sia
indifferente che lo stesso sia voluto o no o che la volontà dell’evento più grave comporti l’applicabilità
di una diversa fattispecie penale.
Tradizionalmente, distinguiamo due gruppi di reato aggravati dall’evento a seconda che:
 sia indifferente che l’evento aggravante sia voluto o no > delitto di calunnia che rimane tale
a prescindere dal fatto che l’evento aggravante (condanna alla reclusione) sia voluto o no;
delitti di falsità in valori pubblici, che rimangono tali a prescindere dalla volizione o mancata
volizione dell’evento aggravatore.
 la volontà dell’evento più grave comporti l’applicabilità di una diversa fattispecie penale.
In questo caso l’evento non deve essere voluto per evitare che si configuri una diversa
fattispecie di reato (es. delitto di aborto non consentito che si trasforma in omicidio o lesione
personale nel caso in cui l’evento aggravatore non sia voluto).

Questa distinzione consegue alla necessità di tenere in considerazione l’interferenza tra le fattispecie
in questione e le altre figure di illecito dell’ordinamento, venendosi così a configurare un concorso di
norme risolubile con i criteri della relativa disciplina.

Il problema che emerge è quello relativo alla natura giuridica dei reati in questione. Al momento di
emanazione del codice era fuori discussione che tutte le ipotesi di delitti aggravati dall’evento
rientrassero nel novero della responsabilità oggettiva: si attribuiva l’evento aggravatore all’agente
sulla base di un semplice nesso di causalità materiale. Il dibattito teorico ha poi finito con l’incentrarsi
sul problema relativo all’inquadramento dei reati in esame tra le figure di reato circostanziato o tra
le fattispecie autonome di reato. Concentrandoci sulla rilevanza sostanziale dei criteri di attribuzione
della responsabilità, si potrebbe propendere per la soluzione che tende a rendere i reati in questione
quanto il più possibile compatibili con il principio di colpevolezza (reati circostanziati). A partire dalla
riforma del 90, il regime di imputazione delle circostanze aggravatrici presuppone qualcosa di simile
alla colpa come coefficiente minimo di responsabilità, sotto forma di conoscenza o conoscibilità del
fatto integrante la circostanza. A questo regime vengono ricondotte anche le circostanze consistenti in
eventi futuri successivi (come nel caso dei delitti aggravati dall’evento), rispetto ai quali si richiedono
come requisiti soggettivi di imputazione, non tanto conoscenza o conoscibilità, quanto
rappresentazione/rappresentabilità o previsione/prevedibilità.
Ciò non implica che il modello in questione non susciti perplessità. In particolare, ci si chiede se possa
applicarsi la regola di bilanciamento prevista all’art. 69 anche a questa categoria di reati.
Nell’operazione di bilanciamento il giudice dovrebbe operare con molta cautela in modo da evitare

169
incongruenze legate all’equiparazione di circostanze molte differenti tra loro sotto il profilo
qualitativo.

Si auspica un intervento legislativo volto alla creazione di un nuovo modello di reato aggravato
dall’evento, strutturato in modo tale da eliminare o ridurre i rischi di contrasto col principio di
colpevolezza.
CAPITOLO 1 - CONCORSO DI REATI E CONCORSO DI NORME
Premessa
Normalmente ad una condotta umana corrisponde un reato e a più condotte più reati; può anche
accadere, però, che nei confronti di una stessa condotta confluiscano più norme incriminatrici →
questo può dare vita ad un concorso di reati o ad un concorso di norme.
Il concorso di reati si distingue in:
- concorso materiale → quando uno stesso soggetto, con più azioni od omissioni. realizza più
reati → tante pene quanti sono i reati
- concorso formale (o ideale) → quando uno stesso soggetto commette più reati con una sola
azione od omissione → (art. 81: si applica la pena prevista per la violazione più grave
aumentata fino al triplo).
Il concorso apparente di norme ricorre, invece, quando ad una medesima condotta solo in apparenza
risulta riconducibile a più fattispecie incriminatrici, ma in realtà integra un solo reato.
Unità e pluralità di azione
Bisogna anzitutto distinguere tra unità e pluralità di azione. Quando si è in presenza di un’unica
azione? Per rispondere a questa domanda occorre tenere in considerazione la fattispecie legale di volta
in volta considerata e come questa definisce il fatto di reato.
 Si avrà una azione allorquando si realizzino i presupposti minimi che integrano la fattispecie,
anche se la condotta tipica risulta dal compimento di più atti (es. un’azione omicida resta tale
anche se per ammazzare qualcuno lo pugnalo 24 volte).
 Unità di azione si ha anche quando la fattispecie astratta richiede la realizzazione di più
atti al fine della sussistenza del reato (es. rapina, la cui azione tipica è costituita
dall'impossessamento della cosa mobile altrui accompagnata da violenza e minaccia).
 Unità di azione si ha anche nei delitti di durata (es. nel sequestro di persona, che si realizza
mediante la reiterazione di comportamenti diretti ad impedire che la vittima riacquisti la
libertà).
Maggiori difficoltà comporta la distinzione nei casi di reiterazione della stessa azione tipica entro un
breve lasso di tempo (es. ladro che con molteplici e successivi atti di sottrazione si impossessa di tutti
gli oggetti contenuti in un magazzino). Per determinare il carattere unitario dell’azione si richiede il
duplice requisito della contestualità degli atti e dell’unicità del fine. In altri termini: più azioni in
senso naturalistico si ricompongono in un’azione giuridicamente unitaria se unico è lo scopo che le
sorregge e se si susseguono nel tempo senza apprezzabile interruzione. Nel caso del ladro di cui sopra
unico è il contesto e tendono tutti ad uno stesso scopo, anche se l’azione si concretizza in più atti di
sottrazione.
Unità di azione nei reati colposi e nei reati omissivi
 reati colposi → sussiste unità di azione se, nonostante la violazione di più obblighi di
diligenza, l’evento tipico si è verificato una sola volta. Se, invece, si sono verificati più eventi

170
tipici o si sia verificato lo stesso evento più volte, si avrà pluralità di azioni se l’autore, tra un
evento e l’altro, fosse in grado di adempiere all’obbligo di diligenza; in caso contrario, si avrà
unità di azione.
 reati omissivi impropri → sussiste unità di omissione se il garante poteva impedire diversi
eventi attivandosi contemporaneamente; se, invece, dopo il verificarsi del primo evento, gli
altri eventi potevano ancora essere impediti, si configura una pluralità di omissioni.
 reati omissivi propri → sussiste pluralità di omissioni se l'omittente viola
contemporaneamente più obblighi di condotta se tali obblighi potevano essere adempiuti uno
dopo l’altro.
Concorso materiale
Il concorso si definisce materiale quando un soggetto realizza più reati con più azioni od omissioni. Il
concorso può essere:
- omogeneo → quando il soggetto realizza più violazioni della stessa norma incriminatrice (es.
Tizio prima uccide A e poi B)
- eterogeneo → quando realizza più violazioni ma di diverse norme incriminatrici (es. Tizio
prima ruba un'arma e poi commette una rapina)
Al concorso materiale si riferiscono gli artt. 71 e 80 c.p.
L’art. 71 c.p. prevede l’ipotesi in cui si deve pronunciare condanna per più reati contro la stessa
persona con una sola sentenza o un solo decreto.
L’art. 80 c.p. fa riferimento all’ipotesi in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve
giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna
medesima, ovvero quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di
condanna.
Il codice prevede un rigoroso trattamento sanzionatorio del concorso materiale in base al quale le pene
previste per ciascuno dei delitti commessi si cumulano. Il legislatore ha, però, introdotto alcuni
temperamenti volti a stabilire dei limiti invalicabili di pena:
 concorso di reati che comportano l’ergastolo e di reati che comportano pene detentive
temporanee (art. 72 c.p.)
 concorso di reati che comportano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa
specie (art. 73 c.p.)
 concorso di reati che comportano pene detentive di specie diversa (art. 74 c.p.)
 concorso di reati che comportano pene pecuniarie di specie diversa (art. 75 c.p.)
Se i diversi reati commessi dallo stesso soggetto ottemperano al medesimo disegno criminoso, in
luogo del cumulo materiale delle pene subentra il più mite regime previsto per il concorso formale ex
art. 81 c.p.
Il concorso materiale non è un istituto autonomo di diritto sostanziale ma rileva solo nell’ottica
dell'unificazione in via esecutiva delle sanzioni applicabili al soggetto. Autonoma rilevanza
sostanziale assume il concorso nell’ipotesi di connessione di reati ex art. 61 n. 2 c.p., posto che il
collegamento tra i vari reati comporta l’applicazione di una circostanza aggravante.

Concorso formale: requisiti

171
Si ha concorso formale di reati nei casi in cui uno stesso soggetto commette una sola azione o
omissione ma dà vita a più violazioni.
Anche il concorso formale si distingue in:
 omogeneo -> la pluralità di violazioni ha per oggetto la stessa disposizione incriminatrice (ad
ese omicidio plurimo, automobilista che investe più persone in contemporanea);
 eterogeneo -> la pluralità di violazioni riguarda più disposizioni.

Il concorso formale può aversi sia riguardo agli illeciti dolosi sia riguardo agli illeciti colposi.
Non è sempre agevole, però, stabilire quando ad una medesima azione corrisponde veramente una
pluralità di reati.

Nel caso di concorso “eterogeneo”, una stessa condotta realizza contemporaneamente elementi
riconducibili a diverse fattispecie incriminatrici, ad esempio il caso del borsaiolo che effettua una
rapina impropria (esercita violenza sul derubato ex art 628, 2 comma) e resistenza a pubblico ufficiale
(art 337).
Affinché ci possa essere un concorso eterogeneo, è necessario accertare, tenendo conto della
valutazione penalistica del fatto, che la condotta integri effettivamente più fattispecie di reato,
altrimenti si ricadrebbe nell’opposta figura del conflitto apparente di norme (e quindi di unico reato).

Nel caso di concorso “omogeneo”, occorre verificare quante volte una medesima azione violi una
stessa disposizione incriminatrice.
Precisamente, se l’azione viola una fattispecie incriminatrice che tutela beni altamente personali (vita,
integrità fisica etc..) si configura una pluralità di reati se con una medesima azione si ledono soggetti
passivi diversi (caso di omicidio plurimo dell’automobilista).
Se l’azione viola una fattispecie incriminatrice che tutela beni di natura diversa non sempre è
configurabile una pluralità di reati a fronte di più soggetti passivi lesi. Si pensi ad un unico furto
commesso mediante un’unica azione di impossessamento di una cosa appartenente a più soggetti
passivi. Unicità di furto si avrebbe anche se l’impossessamento avesse ad oggetto più cose, in quanto
la pluralità degli oggetti rubati comporterebbe soltanto un aggravamento quantitativo di un’offesa
qualitativamente unitaria.

Disciplina giuridica
L’art. 81 c.1 c.p. stabilisce che chi con una sola azione o omissione viola più disposizioni di legge o
commette più violazione della stessa disposizione di legge è punito “con la pena che dovrebbe
infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al triplo”. Tale disciplina ha modificato
l’originario regime giuridico previsto dal legislatore del 30’ che accoglieva la teoria del cumulo
materiale (si sommavano tutte le pene previste per ogni singola violazione). L’art. 81 c.p. ha invece
adottato la teoria del cumulo giuridico consistente nell’applicazione della pena prevista per il reato
più grave con l’aumento di una quota proporzionale prefissata dalla legge, eliminando così uno degli
aspetti più repressivi del codice rocco.

Le ragioni addotte contro il cumulo materiale e a favore del cumulo giuridico sono due:
 il peso umano della sofferenza legato alla pena detentiva si accresce progressivamente con la
durata della pena e, pertanto, attraverso un cumulo materiale si violerebbe il rapporto di
proporzione tra reato ed entità della pena.
 chi compie, con una sola azione, più reati mostra una minore pericolosità sociale, per cui non
deve essere applicato un regime sanzionatorio eccessivamente repressivo.

172
Tuttavia, questa tesi della minore pericolosità appare non provabile su un piano scientifico
criminologico e, inoltre, il legislatore, introducendo il cumulo giuridico, non ha precisato se questo
regime sia applicabile anche nei casi in cui le pene previste per i reati in concorso siano di specie
diversa (es. pena detentiva e pena pecuniaria).

La riforma del 2005 ha aggiunto all’art. 81 c.p. un nuovo comma con riferimento al soggetto recidivo
reiterato obbligatori disponendo che “fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in
concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata
applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma, l'aumento della quantità di pena non
può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.”
La recidiva aggravata reiterata produce un duplice effetto sul carico sanzionatorio complessivo:
 sulla determinazione della pena base;
 sulla determinazione del trattamento connesso al concorso formale o alla continuazione.

Reato continuato: premessa


Si tratta di una particolare figura di concorso materiale, disciplinata in materia autonoma e costituita
da una pluralità di reati commessi dalla stessa persona come espressione di un medesimo disegno
criminoso. L'attuale art. 81 c.p. ammette la continuazione dei reati anche in presenza della violazione
di norme incriminatrici eterogenee; viene infatti identificato nel fatto di “chi, con più azioni od
omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni
della stessa o di diverse disposizioni di legge”.
Il nostro ordinamento ha recepito la figura del reato continuato e ne ha dilatato l’operatività;
nell’originaria versione codicistica del 1930 il reato continuato si caratterizzava per il duplice requisito
della medesimezza del disegno criminoso e della omogeneità dei reati avvinti dal nesso di
continuazione. Oggi l’unico elemento caratterizzante è l’unità del disegno criminoso. La riforma del
74 non ha invece introdotto alcuna modifica al trattamento sanzionatorio.

Elementi costitutivi del reato continuato


Gli elementi costitutivi del reato sono:
1. La pluralità di azioni od omissioni deve intendersi come pluralità di condotte autonome che
danno luogo ad altrettanti episodi criminosi. Il reato continuato esula se la pluralità di azioni è
tale in senso soltanto naturalistico, poiché è necessario che le diverse azioni siano unificabili
all’interno di un’azione giuridicamente unitaria.
Le diverse azioni od omissioni possono anche essere commesse in tempi diversi,potendo
intercorrere pure un notevole lasso di tempo. È chiaro, però, che quanto maggiore sarà la
distanza temporale tra i diversi episodi delittuosi, tanto più gravosa risulterà la prova dello
“stesso disegno criminoso”.
2. È, poi, necessario che vengano violate più disposizioni di legge. Nonostante nella maggior
parte degli ordinamenti il reato continuato si caratterizza per la natura omogenea dei reati in
continuazione, il riformato art 81 ammette la configurabilità dell’istituto in esame anche in
presenza della commissione di reati diversi, a prescindere dal fatto che siano dotati di caratteri
fondamentali comuni o del tutto eterogenei( ad es. omicidi, rapine, corruzione ecc..)
3. L’ultimo elemento caratterizzante l’istituto è la “medesimezza del disegno criminoso”,
intorno al quale si contrappongono due orientamenti ermeneutici, inclini rispettivamente ad
ampliarne o restringerne il significato. Secondo un orientamento, il requisito in esame sarebbe
stato assunto dal legislatore in un’accezione puramente intellettiva, cioè esso equivarrebbe ad

173
una mera rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi poi di fatto
commessi dallo stesso agente. Tuttavia, ad integrare il requisito non sarebbero comunque
sufficienti nè un programma generico di attività delinquenziale, né l'abitualità nel delitto, né
l’esistenza di uno stesso impulso ad agire, ma sarebbe pur sempre necessario un programma
iniziale, che inglobi in sé i diversi reati nei loro elementi essenziali. Alla stregua di un
secondo orientamento, l’unicità del disegno criminoso presuppone, oltre all’elemento
intellettivo della rappresentazione anticipata, un ulteriore elemento finalistico costituito dalla
unicità dello scopo: cioè è necessario che i diversi episodi delittuosi costituiscano attuazione
di un preciso e concreto programma diretto alla realizzazione di un obiettivo unitario. Ne
deriva dunque che i diversi reati si inseriscano in un rapporto di interdipendenza funzionale
rispetto al conseguimento di un unico fine, la quale deve obiettivarsi in una trama di segni
esteriormente riconoscibili. Questa seconda interpretazione è da preferire, in quanto se si
rinunciasse al criterio dell’unicità di scopo, non si troverebbe il modo di accomunare reati
anche del tutto eterogenei tra di loro. È la stessa ratio sottesa alla diminuzione di pena prevista
dal l’art 81 ad esigere che i vari reati siano sostanzialmente espressione di un’unica
risoluzione criminosa e, quindi, di un unico scopo.

Posto che il disegno criminoso presuppone, oltre all’elemento intellettivo dell’unica rappresentazione,
anche l’unità del fine, ne consegue che lo stesso disegno può avere ad oggetto soltanto fatti criminosi
sorretti dalla stessa volontà di commetterli. Pertanto, sussistendo incompatibilità strutturale tra unicità
del programma e assenza di volontà rispetto ad uno o più episodi delittuosi, ne deriva che le norme
sulla continuazione risultano inapplicabili ai reati colposi.
La continuazione invece è ammissibile anche nell’ambito delle contravvenzioni, purché imputabili a
titolo di dolo.

Regime sanzionatorio
L’art 81 stabilisce che al reato continuato si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione
più grave fino al triplo (si tratta dello stesso cumulo giuridico previsto per il concorso formale di reati).
L’ultimo comma dell’art 81 precisa però che la pena non può essere superiore a quella che sarebbe
applicabile sommando le singole pene previste per i reati in concorso.
Con riferimento a questa disposizione sorgono tre problemi:
1. Il primo riguarda la determinazione del concetto di violazione più grave, riguardo alla quale
si registrano due orientamenti.
o Parte della dottrina afferma che per accertare quale sia la violazione più grave occorre
fare riferimento alla previsione legislativa e cioè alla qualità e all’entità delle
sanzioni applicabili per i singoli reati in continuazione: è violazione più grave
quella per la quale è prevista una pena qualitativamente (es. pena detentiva rispetto a
pena pecuniaria) più grave o quantitativamente (quella avente il massimo più elevato;
a parità di massimo quella avente il maggior minimo) più grave.
o Altra parte della dottrina afferma che è necessario fare riferimento alla gravità della
violazione che si è concretamente verificata per cui si deve considerare non solo il
titolo di reato e le pene previste ma anche di tutti gli altri elementi (es. indici di
commisurazione della pena ex art 133, aggravanti) che complessivamente fanno
apparire la violazione più grave e quindi più gravemente punita.

174
Secondo Fiandaca-Musco questo secondo orientamento non è condivisibile perché
rischia di stravolgere la valutazione operata dal legislatore in merito alla obiettiva
gravità delle diverse figure delittuose. Per tale ragione è preferibile la tesi più
tradizionale che ravvisa la violazione più grave in quella più gravemente punibile.
2. Il secondo problema attiene all'applicabilità del cumulo giuridico nel caso in cui i reati
commessi siano puniti con pene eterogenee. In proposito si assiste al conflitto tra due
esigenze ugualmente meritevoli di considerazione: quella di salvaguardare il principio di
legalità delle pene e quella di rendere pienamente operante l’istituto del reato continuato.
In merito a tale questione dottrina e giurisprudenza hanno adottato posizioni differenti:
 La dottrina ha optato per un’applicazione estesa del cumulo giuridico sul presupposto che
tale soluzione sia imposta dalla stessa ratio del reato continuato
 La giurisprudenza ha, in un primo momento, escluso la continuazione tra reati puniti con
pene eterogenee ritenendo altrimenti violato il principio della legalità delle pene (nel senso
che l’applicazione dell'istituto avrebbe comportato l'irrogazione di una pena diversa da quella
prevista per ciascun reato).
Successivamente sono emersi orientamenti favorevoli ad ammettere la continuazione
distinguendo l'eterogeneità delle pene irrogabili sulla base della specie e del genere.
o Pene di specie diversa (all’interno del genere delle pene detentive vi sono due
sanzioni di specie diversa cioè arresto e detenzione)
La Corte Cost. con sentenza 312/88 ha affermato che in questi casi non esiste alcuna
ragione per non dare massima espansione all’istituto del reato continuato in quanto la
pena unica progressiva è pur sempre preveduta dalla legge (e quindi rispetta il
principio di legalità delle pene) ed inoltre la corte sottolinea l'esigenza di far godere
all’imputato una minore limitazione della libertà personale rispetto a quella che gli
deriverebbe dal cumulo materiale delle pene.
o Pene di genere diverso
È tutt’oggi controversa l’ammissibilità della continuazione nel caso di reati puniti con
pene di genere diverso (es. arresto/multa).
Sono prospettabili più soluzioni.
Secondo la prima andrebbe operato un aumento della pena base prevista per il reato
più grave per cui ad esempio la pena pecuniaria si trasformerebbe nella parte
aggiuntiva di una pena detentiva sulla base dell’indice di ragguaglio ex art 135 c.p.
Una seconda soluzione prevede l’aumento della pena base fissata per il reato più
grave in termini di pena detentiva e poi la trasformazione dell’aumento in pena
pecuniaria mediante i criteri di ragguaglio ex art 135.
Una terza soluzione, che va consolidandosi nella giurisprudenza in riferimento al caso
dei reati meno gravi puniti con pena congiunta (detentiva e pecuniaria insieme) ritiene
che debba applicarsi una pena complessiva costituita da due pene di genere diverso, in
modo tale che la pena pecuniaria attenga solo alla violazione meno grave.
È AUSPICABILE L’INTERVENTO DEL LEGISLATORE SUL PUNTO.
3. Un’altra questione riguarda la possibilità di ammettere la continuazione tra reati già
giudicati con sentenza irrevocabile e reati ancora sub judice. La continuazione è stata
pacificamente ammessa nell’ ipotesi nella quale il giudicato copre la violazione più grave,
mentre indirizzi contrastanti sono emersi nell’ipotesi in cui il giudicato copra la violazione
meno grave in quanto in questo secondo caso si deve rideterminare la pena per la violazione
più grave che è quella del giudizio in corso.

175
La corte Cost si è espressa sul punto avallando la tesi favorevole alla configurabilità della
continuazione su due rilievi e cioè che ciò che veramente conta ai fini della sussistenza del
reato continuato è soltanto l’unicità del disegno criminoso e che il principio dell’intangibilità
del giudicato è suscettivo di deroga tutte le volte in cui dalla stessa intangibilità derivi un
ingiusto sacrificio dei diritti del condannato.
Anche al reato continuato si applica la disciplina già prevista per il concorso formale di reati
nel caso di soggetto recidivo reiterato che ha commesso reati in continuazione.

Natura giuridica
In seguito alla riforma del 1974 è scomparsa la formulazione dell’art. 81 c.3 che disponeva che le
diverse violazioni legate al vincolo della continuazione “si considerano come un solo reato”: questa
soppressione sembrerebbe sostenere la tesi di quanti individuano nel reato continuato una vera e
propria pluralità di reati, anche se deve obiettarsi che la soppressione in questione è stata la
conseguenza di una modifica linguistica e non il risultato di una scelta precisa e deliberata.
Oggi si tende a sostenere la tesi secondo la quale il reato continuato è considerato come reato unico o
come una pluralità di reati, in funzione del carattere più o meno favorevole degli effetti che
discendono dall’accoglimento nei confronti del reo.
In applicazione del criterio sopra citato, il reato continuato va ritenuto come reato unico ai fini:
 dell’applicazione della pena;
 della dichiarazione di abitualità e professionalità.
Il reato che ritenuto come reato plurimo ai fini:
 dell’amnistia propria;
 del computo della durata del tempo necessario a prescrivere;
 della responsabilità dei concorrenti nell’ambito del concorso di persone;
 dell’applicabilità delle circostanze

CAPITOLO 2 - CONCORSO APPARENTE DI NORME

Premessa
Si ha concorso apparente di norme quando uno stesso fatto, apparentemente riconducibile a più
norme incriminatrici, in realtà richiede l’applicazione di una sola norma (si ha unicità di reato).
I presupposti del concorso apparente di norme sono due:
 l’esistenza di una medesima situazione di fatto
 la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla
Per identificare i casi di concorso apparente sono stati, da tempo, escogitati 3 criteri:
1. specialità;
2. sussidiarietà
3. consunzione (o assorbimento)
In realtà, i criteri di sussidiarietà e assorbimento non trovano esplicito riconoscimento legislativo, per
tale ragione parte della dottrina ne contesta l’utilizzabilità e ritiene realmente applicabile solo il
criterio di specialità, che trova esplicito riconoscimento all’art 15 c.p. Tuttavia, è ben possibile
interpretare l’art 15 come una norma che intende disciplinare non in generale il fenomeno del
concorso di norme, ma la specifica ipotesi di norme concorrenti che si trovano in rapporto di genere a

176
specie. Trovando applicazione solo in questo caso, l’art 15 non può escludere l’operatività di altri
criteri legislativamente non previsti.
Comunque sia, la tematica del concorso apparente costituisce ancora oggi uno dei capitoli più
controversi del diritto penale.

Specialità
L’art 15 enuncia il principio della prevalenza della legge speciale su quella generale e, infatti,
dispone che quando più leggi penali regolano la stessa materia, la legge speciale deroga la legge
generale, salvo che sia altrimenti stabilito.
Tale rapporto di specialità tra fattispecie implica che tutti gli elementi costitutivi di una fattispecie
generale siano contenuti nella fattispecie speciale, la quale ne contiene a sua volta di ulteriori, cioè i
cosiddetti elementi “specializzanti”. Di conseguenza, la norma generale ha un’estensione più ampia
della di quella speciale e, se la seconda dovesse venir meno, i casi che vi rientrano sarebbero
riconducibili alla prima.

Un caso esemplificativo può essere quello di Tizio che, per provvedere ad un grave ed urgente
bisogno, si impossessa di un oggetto altrui di tenue valore. Questo fatto potrebbe essere teoricamente
ricondotto sia all’art 624 (furto semplice), sia l’art 626, c 1 n 2 (furto punibile a querela dell’offeso)
ma, ad un esame più attento, ci si accorge che la norma di cui all’art 626 è speciale rispetto a quella di
cui all’art 624, in quanto contiene tutti gli elementi del furto comune e in più - come elementi
specializzanti - lo stato di bisogno e il tenue valore della cosa.

Il rapporto di specialità può intercorrere non solo tra norme incriminatrici ma anche tra norme
incriminatrici, da un lato, e norme di liceità dall’altro: ad es. le disposizioni che dichiarano lecito
l’arresto facoltativo sono speciali rispetto a quella che incrimina il sequestro di persona.

E’ necessario determinare il significato dell’espressione “stessa materia” contenuta all’art 15 c.p.


Secondo un orientamento giurisprudenziale, il concetto di “stessa materia” alluderebbe non solo
all’esistenza di un “medesimo fatto” apparentemente riconducibile a più norme, ma presupporrebbe
anche identità e omogeneità del bene protetto. Di conseguenza si avrebbe rapporto di specialità
soltanto nel caso di norme che tutelano lo stesso bene giuridico, indi per cui si dovrebbe escludere
rapporto di specialità ad es. tra norma che configura la violenza privata (che tutela la libertà personale)
e norma che incrimina la violenza/minaccia a pubblico ufficiale (che tutela la p.a.).
Tali tesi appaiono errate però per due ordini di ragioni:
 inserisce tra i presupposti di operatività dell’art 15 degli apprezzamenti di valore relativi
all’individuazione del bene protetto dalla norma, che sono estranei alla natura logico-formale
del rapporto di specialità
 la sua applicazione darebbe luogo a conseguenze assurde -> porterebbe ad affermare
l’esistenza di un concorso di reati e non di rapporto di specialità ad es. tra l’ingiuria (bene
tutelato = onore) e oltraggio a magistrato in udienza (bene tutelato = prestigio
dell’amministrazione della giustizia).

Secondo un orientamento dottrinale, il concetto di “stessa materia” farebbe riferimento non solo alle
ipotesi nelle quali un medesimo fatto rientra in più norme incriminatrici, ma anche a quelle in cui un
medesimo fatto è riconducibile a più figure criminose, anche se tra queste non sussiste un rapporto
di genere a specie. Questo nuovo fenomeno viene definito specialità in concreto.
Un esempio particolarmente chiarificatore può essere quello relativo al rapporto tra millantato credito
(art 246 cp, abrogato nel 2019, che punisce chi, sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con

177
un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si fa dare o promettere denaro o altre
utilità come prezzo della propria mediazione illecita verso detti funzionari pubblici) e truffa (art 640
cp). Nessuna delle due fattispecie incriminatrici astratte contiene in sé l’altra con l’aggiunta di uno o
più elementi specializzanti, ma in concreto è possibile che il reato di truffa venga commesso
millantando credito. In questo caso un medesimo fatto integra due figure criminose, in quanto è
capace di ledere tanto un interesse patrimoniale privato quanto il prestigio della PA. Non essendo
sussistente un vero rapporto di specialità, il quesito circa la disciplina da applicare al caso di specie,
dovrebbe essere risolto applicando la norma che prevede il trattamento più severo (nell’esempio, la
norma sul millantato credito).
Tuttavia, anche questo orientamento sembra non convincere perché non si comprende come mai un
rapporto di genere a specie tra due norme possa dipendere dalle particolarità di un “fatto concreto”.

In realtà, questo concetto di rapporto di specialità in concreto è stato elaborato da quella parte di
dottrina che pretende di risolvere il problema del conflitto apparente di norme in base al solo criterio
di specialità e, ove questo si manifesta non in grado di risolvere ipotesi di concorso apparente, lo
snatura fino a parlare di specialità in concreto. Riprova di tale snaturamento è il fatto che gli stessi
sostenitori della specialità in concreto, nell’individuare la norma prevalente da applicare, fanno
riferimento alla tecnica dell’assorbimento della fattispecie meno grave nella più grave.

Secondo un altro orientamento dottrinale, il rapporto di specialità si estenderebbe anche ai casi di c.d.
specialità reciproca o bilaterale, cioè quando nessuna norma è generale o speciale ma ciascuna è al
tempo stesso generale e speciale, perché entrambe presentano, al tempo stesso, un nucleo di elemento
comuni, specifici e generici rispetto ai corrispondenti dell’altra. Ad esempio, il rapporto tra la
fattispecie di aggiotaggio comune (art 501 cp) e aggiotaggio societario (art 2628 cc): entrambe fanno
riferimento ai cosiddetti “atti di aggiotaggio” ma, mentre la prima richiede il fine di turbare il mercato
interno (dolo specifico) e può essere commessa da chiunque, per la seconda è sufficiente il dolo
generico ma può essere posta in essere soltanto da quei soggetti che ricoprono determinate cariche
societarie (amministratori ecc.)

Anche in questo caso, il correttivo della specialità reciproca è stato introdotto per ovviare
all’incapacità del principio di specialità in senso stretto di risolvere alcuni casi di concorso apparente
di reati. Ma, anche stavolta possono muoversi obiezioni a questo orientamento:
 sì stravolge eccessivamente il concetto stesso di specialità se non si parla di casi “speciali”
che rappresentano il sottoinsieme dell’insieme dei casi “generali”;
 al fine di individuare la norma applicabile, i sostenitori di questa tesi, fanno sempre
riferimento al trattamento sanzionatorio più severo, che rappresenta il nucleo del principio
dell’assorbimento e che nulla ha a che vedere con il principio di specialità.

Secondo la dottrina Fiandaca - Musco l’applicazione del principio di specialità deve riguardare solo
fattispecie astratte e in senso univoco, per cui il concetto di “stessa materia” sta ad indicare soltanto la
presenza di una medesima situazione di fatto sussumibile, astrattamente, sotto più norme.

Sussidiarietà
È il criterio di risoluzione del conflitto apparente di norme che intercorre tra norme che prevedono
stati o gradi diversi di offesa di un medesimo bene, in modo che l’offesa maggiore assorbe la minore e,
di conseguenza, l’applicabilità dell’una norma è subordinata alla non applicazione dell’altra.
In alcuni casi è lo stesso legislatore ad indicare espressamente un rapporto di sussidiarietà tramite
l’uso di una clausola di riserva, ad es l’art che 323 in tema di abuso di ufficio dice che è applicabile la

178
disciplina ivi contenuta solo se non risultano applicabili altre fattispecie più gravi, poste sempre a
tutela della pubblica amministrazione.
Vi sono anche casi di sussidiarietà tacita, ad es. il rapporto intercorrente tra la contravvenzione di atti
contrari alla pubblica decenza (art 726) e il delitto di atti osceni (art 527), cioè due figure di reato
poste a protezione di un bene omogeneo che si diversificano solo in ragione della diversa intensità
dell’aggressione al medesimo arrecata.

L’obiezione principale che viene mossa a questo principio è il fatto che questo non risulta sempre
facilmente distinguibile dal criterio dell’assorbimento, rappresentando quasi un doppione. di
quest’ultimo.

Non sembra invece condivisibile l’obiezione che fa leva sul fatto che tale criterio finisce con risolversi
in un doppione del criterio di specialità. Tale critica, infatti, non prende in considerazione il fatto che il
principio di specialità presuppone un rapporto logico di genere a specie tra gli elementi di fattispecie
astratte mentre il criterio della sussidiarietà implica l’assorbimento che è del tutto estraneo alla
specialità.

Assorbimento
Il principale criterio utilizzato per risolvere il conflitto apparente tra norme, non risolvibile attraverso
il criterio della specialità, è quello dell’assorbimento. Quest’ultimo si applica quando un soggetto
commette più reati attraverso più azioni, diverse dal punto di vista naturalistico, ma tutte espressive di
un disvalore penale omogeneo. In questo caso, a seguito di una valutazione normativo-sociale, il
reato meno grave finisce con l’essere assorbito da quello più grave.
Tale criterio trova il suo fondamento nel generale principio del ne bis in idem secondo il quale non si
può punire due volte il medesimo fatto.
Il principio del ne bis in idem ha trovato espresso riconoscimento sia in ambito processuale (art 649
c.p.p. che fa esplicito divieto di promuovere più giudizi penali, contro lo stesso soggetto, per un
medesimo fatto) sia in ambito sostanziale (CEDU e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea).

Le sue caratteristiche essenziali sono, dunque:


1. poggiare su di un rapporto di valore, in base al quale l’apprezzamento negativo del fatto
appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave (con la conseguenza
che se si applicasse anche la norma che prevede il reato meno grave, si avrebbe un ingiusto
moltiplicarsi di sanzioni).
2. richiedere non l’identità naturalistica ma l’unitarietà normativo-sociale del fatto.

Un esempio è offerto dal caso del soggetto che reitera mendaci dichiarazioni volte a favorire l’autore
di un reato, prima davanti alla polizia giudiziaria (art 378, favoreggiamento personale) e poi di fronte
al giudice (art 372, falsa testimonianza). L’affermazione di un effettivo concorso tra i reati di
favoreggiamento e falsa testimonianza, con riferimento allo stesso fatto, appare iniqua in quanto le
mendaci dichiarazioni sembrano esprimere lo stesso disvalore penale, a prescindere dalla circostanza
che siano rese una volta all’autorità di polizia e un’altra volta al giudice. Se così si procedesse, infatti,
si andrebbe a violare il principio del ne bis in idem.

Per individuare la norma penale cd prevalente, cioè che deve trovare applicazione in questi casi, trova
applicazione il criterio del trattamento penale più severo.

179
Nell’esempio precedente trova quindi applicazione la norma relativa alla falsa testimonianza, in
quanto individua sia il minimo che il massimo edittale più alto rispetto a quelli previsti per il
favoreggiamento.
Se però il riferimento al superiore minimo edittale non risulta determinante per individuare la norma
che stabilisce il trattamento più severo, si deve procedere ad una comparazione tra rango e qualità
dei beni tutelati.

Il ricorso a questo principio è sempre più frequente a causa del fatto che nel nostro ordinamento si è
registrata una eccessiva moltiplicazione dei tipi di reato, senza che a tale previsione casistica
corrisponda un effettivo e autonomo disvalore dei singoli fatti di volta in volta incriminati.

Ciò si è verificato soprattutto di recente attraverso la legislazione-antiterrorismo con la quale si sono


introdotte nuove figure di reati politici per incriminare delle condotte che in realtà sarebbero già
punibili mediante le preesistenti fattispecie del codice Rocco.

Progressione criminosa, antefatto e postfatto non punibili


Progressione criminosa, antefatto e postfatto non punibili non sono delle figure autonome ma
rappresentano solo il presupposto del principio di assorbimento o, meglio ancora, sue specifiche
esemplificazioni.
Progressione criminosa: susseguirsi di aggressioni di crescente gravità nei confronti di un medesimo
bene (ad es. chi, prima di uccidere, percuote e ferisce la vittima designata)
Antefatto non punibile: quando un reato meno grave costituisce il mezzo ordinario di realizzazione di
un reato più grave (ad es. Tizio detiene chiavi falsi, il che già integra una contravvenzione ex art 707,
per commettere un furto)
Postfatto non punibile: quando ad una condotta criminosa ne segue un’altra, il cui disvalore è però già
incluso nella prima condotta che integra un reato più grave (ad es spendita di monete false ad opera
dello stesso soggetto che le ha contraffatte).
In tutti e tre i casi vi sono più azioni naturalistiche che, a seguito di un giudizio normativo-sociale, si
considerano riducibili ad un’azione giuridicamente unitaria.

Reato complesso
L’art 84 c.p. stabilisce che le disposizioni relative al concorso di reati “non si applicano quando la
legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che
costituirebbero, per sé stessi, reato”.
Tale norma disciplina la figura del reato complesso che sussiste quando la legge, compiendo
un’unificazione legislativa, disciplina come unico reato due o più figure criminose, i cui rispettivi
elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall’unificazione.
Un esempio è rappresentato dal delitto di rapina che ricomprende in sé il delitto di furto (art 624) e di
violenza privata (art 610).

Parte della dottrina dilaga la figura del reato complesso fino a ricomprendervi i reati cd. complessi in
senso lato, che si hanno quando un reato abbraccia in un reato meno grave più elementi ulteriori che,
di per sé, non costituiscono reato (ad es. la violenza carnale che nasce dall’unificazione del reato di
violenza privata e della congiunzione carnale, che da sola non costituisce reato).

180
Questa tendenza non si comprende data la ratio dell’istituto del reato complesso che è quella di evitare
che l’interprete sia indotto ad applicare il regime del concorso di reati laddove il legislatore ha
unificato fatti che integrerebbero autonome fattispecie incriminatrici.

Al reato complesso fanno riferimento anche altre norme del codice penale:
- l’art 84, 2 comma c.p. stabilisce che “qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato
complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere
superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79”.
- l’art 131 c.p. dispone che “nei casi preveduti dall'articolo 84, per il reato complesso si procede
sempre d'ufficio, se per taluno dei reati, che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si
deve procedere d'ufficio”.
- l’art 170, 2 comma c.p. stabilisce che “la causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o
circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso” (così ad es. se
un’amnistia è applicabile ai reati di furto, non sarà altrettanto applicabile alla rapina, nonostante il
furto è un suo elemento costitutivo).

CAPITOLO 1 - I PRESUPPOSTI TEORICI E POLITICO-CRIMINALI DEL SISTEMA


SANZIONATORIO VIGENTE

Premessa
La pena viene pacificamente ritenuta come uno strumento di afflizione. Nonostante ciò, in merito al
sistema delle pene sono sorte numerose questioni relative al fatto che il momento afflittivo implicito
nella pena può essere strumentalizzato per il raggiungimento di fini diversi, che mutano in funzione
delle più generali concezioni della società e dello Stato che via via emergono nel corso
dell’evoluzione storica. L’evoluzione storico-sociale influisce poi non soltanto sugli scopi della pena,
ma anche sulle tecniche di volta in volta adoperate per punire l’autore dell’infrazione: significativo è
stato ad esempio il passaggio dalle pene corporali a quelle detentive.

I sistemi penali moderni non si basano più sulla sola pena ma il concetto di sanzione si estende fino a
ricomprendere la cd. misura di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur sempre alla
commissione di un reato ma la cui funzione è quella di risocializzare l’autore di un reato in quanto
soggetto socialmente pericoloso.

Il nostro sistema sanzionatorio ruota attorno a tre fondamentali idee-guida che dominano il dibattito in
argomento: e prevenzione speciale.
 la retribuzione, parte dal presupposto che la sanzione deve servire a compensare la colpa per
il male commesso e, per tale ragione, la pena deve necessariamente essere proporzionata alla
gravità del reato.
 la prevenzione generale, si fonda sull’assunto che la minaccia della pena serva a distogliere
la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi, operando quindi dal punto
di vista psicologico e sotto forma di orientamento culturale.
 la prevenzione speciale, fa leva sull’idea che l’inflizione della pena ad un determinato
soggetto serva ad evitare che il medesimo compia, in futuro, altri reati.

Le originarie scelte sanzionatorie del codice Rocco

181
Nel 1930 il legislatore si è ispirato alle tendenze europee, tendenti a riorganizzare il sistema
sanzionatorio attorno ai poli della prevenzione generale e speciale.

Nel frattempo, era vivo un insanabile contrasto tra Scuola classica, che difendeva la concezione
retributiva della pena e Scuola positiva, che prospettavano un sistema di misure adatte al “tipo di
delinquente”, aventi finalità terapeutiche (rispetto ai delinquenti recuperabili) e finalità neutralizzanti
(rispetto ai delinquenti irrecuperabili).

Nello specifico, il legislatore tentò la conciliazione attraverso l’introduzione del sistema del cd.
doppio binario, cioè di un sistema per il quale accanto e in aggiunta alla pena tradizionale inflitta sul
presupposto della colpevolezza, si prevede una misura di sicurezza basata sulla pericolosità sociale del
reo è finalizzata alla sua risocializzazione.

In questo modo pena adempie la funzione di prevenzione generale, che si esercita mediante
l’intimidazione derivante dalla minaccia, e la funzione cd. satisfattoria (retribuzione) , che è in un
certo senso sempre di prevenzione generale in quanto la soddisfazione che il sentimento pubblico
riceve dall’applicazione della pena evita le rappresaglie. La retribuzione non ottiene così un ruolo
autonomo ma semplicemente strumentale alla prevenzione generale.

Alle misure di sicurezza viene invece affidata la funzione di prevenzione speciale, dirette a
neutralizzare la “pericolosità sociale” del reo evitando che questo incorra nella commissione di futuri
reati. Sono molteplici le misure di sicurezza previste dal legislatore (casa di lavoro, casa di cura e
custodia ecc.), rapportate alle caratteristiche tipologiche del delinquente.

Contraddizioni e insufficienze del sistema del doppio binario

Il sistema del doppio binario introdotto dal codice Rocco non si è tuttavia tradotto in un sistema di
sanzioni organico e coerente, a causa della sua natura eccessivamente compromissoria che ha dato vita
a palesi contraddizioni teoriche e incongruenze pratiche.

Le contraddizioni teoriche si colgono dal fatto che, in ossequio a tale sistema, ad uno stesso soggetto
viene applicata una pena, che ha come presupposto la colpevolezza, e una misura di sicurezza che ha
come presupposto la tendenza a delinquere e la pericolosità sociale. È quindi come se si supponesse
una concezione dell’uomo come essere “diviso in due parti”.

Le incongruenze pratiche riguardano invece l’incerta linea di demarcazione tra i criteri che presiedono
all’applicazione della pena e della misura di sicurezza.
L’art 133, infatti, nel regolare il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena,
stabilisce che di deve tener conto anche della “capacità a delinquere del colpevole”, desunta da una
serie di indici relativi alla sua personalità e al suo ambiente di provenienza.
L’art 203, nel prevedere che la misura di sicurezza debba essere disposta nei confronti di un soggetto
di cui è accertata la pericolosità sociale, dispone che quest’ultimo requisito debba essere desunto
proprio dalle circostanze ex art 133.
Ciò vuol dire, quindi, che il giudizio sulla pericolosità del colpevole si fonda sui medesimi elementi
che servono per la quantificazione della pena, con la conseguenza che la differenze tra pena e misura
di sicurezza rischia di sfumare.

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Ulteriore incongruenza pratica riguarda la modalità di esecuzione delle pene e delle misure di
sicurezza. Infatti, alla volontà del legislatore di differenziare le due forme di sanzioni penali, non è mai
seguita l’istituzione, in concreto, di strutture che consentissero di distinguere pene e misure di
sicurezza sul piano del contenuto afflittivo.

La pena secondo Costituzione


L’art 27 comma 3 che afferma “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ha consentito l’adozione di una
prospettiva innovativa relativamente al problema circa il fondamento e la funzione della pena.
In un primo momento la dottrina volle interpretare restrittivamente tale norma sostenendo che la
rieducazione non sia una finalità essenziale ma solo uno scopo eventuale della pena e che questa sia,
considerando l’ordine di successione dei due enunciati di cui al terzo comma, confinata alla fase
esecutiva.
A tale tesi è facile obiettare che il concetto di rieducazione, così come esplicitamente espresso dal
legislatore, sembra avere una portata tale da non poter essere confinata entro i limiti delle teorie
tradizionali sulla funzione della pena. In passato, nel tentativo di riconoscere alla pena la funzione di
assolvere anche a scopi di prevenzione speciale, ci si riferiva alla prospettiva di un trattamento
punitivo volto all’emenda individuale sotto un profilo squisitamente etico.
Il concetto di rieducazione ex art 27, invece, attiene alla dimensione intersoggettiva e inclina verso il
concetto di risocializzazione.
Il riferimento alla risocializzazione potrebbe però portare, a questo punto, ad annullare la differenza tra
pene e misure di sicurezza.
Tuttavia, tale obiezione implicherebbe una interpretazione della norma costituzionale alla luce delle
scelte politico-criminali del legislatore ordinario ed inoltre, nonostante sie le pene che le misure di
sicurezza tendano alla rieducazione del colpevole, questa si connota diversamente in funzione delle
caratteristiche soggettive dei condannati.
Inoltre, all’assunto per cui la rieducazione deve essere confinata alla fase esecutiva della pena è
possibile obiettare che il divieto di trattamenti inumani si può riferire ugualmente sia alla retribuzione
che alla rieducazione. Infatti, la rieducazione non necessariamente tende ad un trattamento ispirato a
criteri di umanità (es. si pensi a trattamenti farmacologici idonei a limitare la capacità di
autodeterminazione del reo).
In ogni caso l’uso del verbo “tendere” da parte del legislatore implica che la rieducazione sia un
obiettivo solo tendenziale della pena perché perseguibile solo fino a quando il reo, libero di
autodeterminarsi, sia disposto a collaborare.

La disposizione costituzionale si presta però a due limiti.


- Il primo è relativo al fatto che la rieducazione non esaurisce tutte le funzioni che oggi la
sanzione penale assolve. La rieducazione, infatti, assume un ruolo primario solo nelle due fasi
dell’esecuzione e della commisurazione giudiziale della pena ma non anche nella fase della
minaccia (in cui l’obiettivo perseguito è quello di prevenzione generale)
- Il secondo riguarda, invece, la genericità del concetto di rieducazione che impegna l’interprete
a precisarne i limiti e la portata alla luce dei principi generale del nostro sistema
costituzionale.

Il problema del superamento del doppio binario


A partire dagli anni immediatamente successivi all’emanazione della Costituzione sono state
denunciate le contraddizioni del sistema del doppio binario.

183
In particolare, 2 sono gli orientamenti sviluppatisi:
 il primo sollecitava l’unificazione della pena e della misura di sicurezza in un’unica sanzione,
che fosse contemporaneamente in grado di assolvere le finalità delle due misure.
 il secondo tendeva a detrarre il periodo di privazione della libertà personale sofferta
ingiustificatamente (o perché alla carcerazione preventiva non seguiva la condanna oppure
perché il condannato risultava successivamente innocente) dall’ammontare della misura di
sicurezza da applicarsi dopo la pena.

Nella prospettiva di superamento dell’attuale tramite scelte sanzionatorie che si pongano più in piena
con lo spirito della Costituzione, quest’ultima ha implicitamente prefigurato un sistema monistico di
sanzioni, secondo cui ad un reato deve corrispondere una sola sanzione orientata in senso rieducativo.
Se poi tale sanzione unica debba rivestire i caratteri della pena o della misura di sicurezza, è una scelta
da operare in funzione delle caratteristiche soggettive dei destinatari della sanzione: in questo senso, le
pene andrebbero applicate ai delinquenti psicologicamente normali, mentre le misure di sicurezza ai
delinquenti affetti da turbe psicologiche (imputabili o semi-imputabili), in quanto bisognosi di terapia.

Attualità e prospettive della pena nella realtà dell’ordinamento


Tentiamo ora di misurare la distanza che intercorre tra la pena teorica e la pena reale, quale cioè viene
di fatto applicata o non applicata nella fenomenologia punitiva.
Attualmente emerge un quadro contraddittorio caratterizzato dalla confusa compresenza di modelli
eterogenei di punizione.
Infatti, a partire dalla metà degli anni 70’ si era andata affermando una tendenza incline a rimpiazzare
la pena carceraria attraverso altre misure (in senso lato) alternative alla detenzione. Questa tendenza,
potenziata dalla legge Gozzini perseguente obiettivi di “decarcerizzazione”, se ha avuto l’effetto
positivo di ridurre l’area del carcere, ha prodotto anche effetti negativi. Infatti, nella prassi applicativa
si è assistito ad un fenomeno di “fuga” dalla pena detentiva determinata da orientamenti “clemenziali”
nella concessione della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. Inoltre, l’ulteriore
possibilità offerta al giudice dell’esecuzione di modificare in varia guisa e misura le pene stabilite dal
giudice della cognizione fa sì che la pena stessa si trasformi in una entità sempre più teorica.
Altri modelli nuovi di sanzione (lavoro sostitutivo, pena pecuniaria orientata alla capacità economica
del reo, semi detenzione ecc..), concepiti sempre in un’ottica di riduzione dello spazio della pena
detentiva spesso sono andati incontro ad un prematuro declino.
In presenza di una situazione così incerta e precaria, si è ultimamente assistito ad una reazione di
segno contrario, cioè ad una rinnovata tendenza al massiccio ricorso al carcere, soprattutto in un
contesto complessivo turbato dall’ emergere o dall’ aggravarsi di fenomeni di pericolosità sociale
particolarmente temuti dalla collettività.

È l’ideologia del controllo sociale attraverso la punizione che riemerge, partendo dagli Stati Uniti e
dalla Gran Bretagna fino si paesi europei, alimentata dalla preoccupazione nevrotica per la sicurezza
della proprietà e dell’integrità personale. ù

Ulteriori effetti destabilizzanti sul sistema sanzionatorio sono derivati dall’introduzione, nel nuovo
sistema processuale, dei cosiddetti riti alternativi (rito abbreviato e patteggiamento sulla pena),cioè
procedimenti speciali affidati all’iniziativa e all’accordo delle parti (imputato e p.m.), che comportano
una sensibile riduzione della pena che sarebbe altrimenti applicabile all’esito del giudizio normale.
Ancorché si tratti di meccanismi processuali finalizzati allo scopo di rendere più efficiente il
funzionamento della macchina giudiziaria, essi hanno forti implicazioni sostanziali. Infatti, non è
chiaro fino a che punto questi strumenti siano compatibili con gli scopi di prevenzione generale e

184
speciale che le pene in teoria dovrebbero perseguire. Nonostante il successivo intervento correttivo
della Corte Costituzionale, che impone al giudice di valutare la congruità rieducativa della pena
patteggiata, rimane comunque la difficoltà oggettiva di orientare in senso preventivo rieducativo una
pena la cui scelta rimane in larga misura affidata alle parti.

Un ulteriore fenomeno patologico è rappresentato dalla impropria funzione di “pena anticipata” che in
molti casi ha assunto la “custodia cautelare” rispetto a forme di criminalità che, sebbene non lievi,
consentono puoi in sede di giudizio il ricorso al patteggiamento e/o alla sospensione condizionale
oppure il ricorso a misure alternative in fase esecutiva.
Spesso la decisione se disporre o no la custodia cautelare, specie in carcere, può essere in realtà
influenzata da motivazioni extraprocessuali come la preoccupazione di dare un’immediata risposta
punitiva a comportamenti criminosi che la collettività percepisce come meritevoli di stigmatizzazione.

Bisogna poi accennare ad alcune importanti novità introdotte dalla normativa un tema di criminalità
organizzata di stampo mafioso emanata nel 1991-1992. Può rilevarsi che il legislatore ha individuato
nel campo di esecuzione della pena il terreno privilegiato di intervento contro la criminalità
organizzata, creando un circuito penitenziario differenziato per i soggetti che vi fanno parte. Si
individua una disciplina “a forbice” caratterizzata, da un lato, da un irrigidenti del trattamento penale
in una prospettiva di rigorosa retribuzione e neutralizzazione della pericolosità soggettiva; dall’altro,
sconti di pena in forma di attenuanti ed immediato accesso alle misure alternative e agli altri benefici
penitenziari (ad es. permessi premio) per i detenuti ammessi allo speciale programma di protezione
(cd. pentiti), che decidono di collaborare con la giustizia.
Questo sistema, sebbene finalizzato a favorire il cd. pentimento e la dissociazione dalla criminalità
organizzata, entra in tensione con i principi generali sottostanti al trattamento relativo ai delinquenti
comuni. Questa deroga ai principi imposta dalla finalità politico criminale è oggi diversamente
valutabile a seconda che si privilegino le ragioni della difesa sociale oppure le esigenze di unità del
sistema e del primato della funzione rieducativa della pena. Sotto quest’ultimo profilo, infatti, può
apparire eccessivo precludere ogni beneficio penitenziario ai mafiosi irriducibili; mentre la
disponibilità a collaborare con la giustizia non è affatto sicuro indice di ravvedimento, ma può essere
frutto di un calcolo utilitaristico strumentale ad evitare il rigore del carcere.

Significato e limiti dell’idea rieducativa


La prevenzione speciale mediante rieducazione, accolta dal legislatore all’art. 27 c.3 Cost., è stata
oggetto di svariate obiezioni e per questo risulta utile precisarne limiti e significato.
 Una delle principali obiezioni mosse fa leva sull’incapacità della rieducazione di procedere
ad una predeterminazione temporale della durata delle sanzioni, risultando maggiormente
opportuno porsi come obiettivo un trattamento finalizzato alla correzione definitiva,
nonostante l’imprevedibilità della loro durata.
Nell’ambito di una prospettiva favorevole all’idea retributiva questa, infatti, oltre a rappresentare
l’elemento logico ineliminabile della pena, funge da nesso col fatto di reato e preserva la libertà del
singolo da un’illimitata ingerenza statale. Pertanto, considerando che il concetto di retribuzione
implica un rapporto di corrispondenza tra gravità del male commesso e intensità della risposta
sanzionatoria, il suo mantenimento, in una prospettiva che individui nella rieducazione il vero scopo
della pena, permette di temperare e dosare le sanzioni corrispondentemente al disvalore dei reati
commessi.
Questo approccio si rivela, però, ignaro della reale dimensione empirica del fenomeno retributivo e
dello spessore socio-psicologico che riveste, ignorando del tutto che l’idea retributiva esprime anche

185
l’esigenza di compensare una colpevolezza legata più all’atteggiamento interiore dell’agente, che non
alla gravità del fatto commesso.

In realtà, l’inserimento della rieducazione nella prospettiva del diritto penale del fatto è un dato
desumibile dallo stesso art. 27 c.3 Cost. che, ponendosi in relazione con l’art. 25 c.2 Cost., concepisce
la rieducazione in collegamento col disvalore espresso dal fatto di reato configurando così la pena
come effetto giuridico di un fatto criminoso e non un semplice atteggiamento interiore del reo. Alla
luce di quanto detto, in base al combinato disposto degli articoli sopra citati il presupposto della
rieducazione deve essere costituito dalla commissione di un fatto socialmente dannoso da parte del
soggetto da rieducare.

Il principio di proporzione costituisce uno dei criteri guida nella definizione della funzione di pena.
Nell’ottica di una prevenzione generale, si è concordi nell’affermare che la minaccia di una pena
eccessivamente severa o sproporzionata possa provocare insofferenza nel trasgressore e distorcere la
percezione dei consociati rispetto al rapporto che intercorre tra singoli reati e corrispondenti sanzioni.
Dal lato di una prevenzione speciale ispirata all’idea di rieducazione un trattamento rieducativo
corretto implica che il destinatario assuma consapevolezza sul torto commesso e percepisca come
proporzionata e giusta la sanzione che gli viene inflitta.
Per questi motivi il carattere proporzionale del rapporto tra sanzione e fatto risulta essenziale ai fini
dell’accettazione psicologica del trattamento a lui destinato.

Con riferimento ai contenuti che la rieducazione deve assumere, va escluso che l’art. 27 c.3 Cost. la
intenda in un’accezione eticizzante, piuttosto, in uno Stato democratico di diritto dovrebbe essere
destinata a riattivare il rispetto dei valori fondamentali della vita sociale e non a pretendere il
pentimento del reo concepito come individuo isolato. Va ricordato,inoltre, che l’art. 27 c.3 Cost.
postula un modello di risocializzazione come processo volto a favorire la riacquisizione dei valori
della convivenza.
Nel definire l’idea di rieducazione bisogna operare un collegamento tra l’art. 27 c.3 Cost. e i principi
cardine del nostro sistema costituzionale. E’ stato proposto un collegamento tra l’idea rieducativa e il
principio di eguaglianza materiale dell’art. 3 Cost.: la pena avrebbe funzione rieducativa nella misura
in cui sarebbe destinata a recuperare socialmente i soggetti indotti a delinquere a causa di una
posizione di inferiorità e di emarginazione sociale. Questa identificazione con il recupero sociale a
tutto senso comporterebbe una frattura dello scopo assegnato alla pena in tutti quei casi nei quali il
destinatario della sanzione sia un soggetto già ben inserito (es. criminalità dei colletti bianchi) e non
un individuo passibile di reinserimento sociale.
Per superare la frattura è necessario procedere ad una distinzione tra la rieducazione quale generale
obiettivo da perseguire e le tecniche che si rendono di volta in volta necessarie per ottenere il
risultato.
La rieducazione in veste di obiettivo si riferisce al processo di riappropriazione dei valori fondamentali
della convivenza e rimane identica a prescindere dalle caratteristiche personali del destinatario della
sanzione.
La rieducazione muterà a seconda che si abbia a che fare
 con un soggetto emarginato, non ci sarà, infatti, una riappropriazione dei valori della
convivenza senza un superamento della condizione di emarginazione;
 con un “colletto bianco”, la rieducazione in questo caso può essere perseguita anche
attraverso sanzioni di tipo “afflittivo”, a patto che serva ai fini dell’adozione di comportamenti
socialmente più accettabili.

186
Per far sì che il processo rieducativo non si traduca in un’imposizione coercitiva per il reo occorre che
vi sia la disponibilità psicologica del destinatario. A tal proposito, appare di particolare rilievo, l’art.
27 c.3 Cost: dal momento che non può essere coercitivamente imposta, la rieducazione trova un
ostacolo nell’eventuale rifiuto opposto dal soggetto destinatario della sanzione.
Sono individuabili circostanze in cui il principio rieducativo entra particolarmente in crisi, come nei
casi in cui il delitto costituisce il frutto di una scelta politico-ideologica in contrasto con i principi
ispiratori dell’ordinamento.

Rieducazione e prassi legislativa

L’idea rieducativa ha rappresentato il criterio guida di una serie di interventi riformistici volti a
rendere l’ordinamento vigente più compatibile con l’art. 27 c.3 Cost; è opportuno accennare ai più
importanti riscontri legislativi del principio di rieducazione, seguendo un ordine cronologico:
 Ergastolo: per attenuare il contrasto tra la finalità rieducativa e la pena dell’ergastolo dovuto
alla contraddizione tra la prospettiva della rieducazione e il carattere perpetuo della pena, la
legge n.1634/1962 all’art. 176 ha stabilito che “il condannato all’ergastolo può essere
ammesso alla libertà condizionata quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena”.
Successivamente, la riforma penitenziaria dell’86 ha esteso anche agli ergastolani la
possibilità di beneficiare della semilibertà e della liberazione anticipata;
 Sospensione condizionata: al fine di ridurre gli effetti desocializzanti della pena carceraria, il
legislatore del 74’ ha esteso l’ambito di operatività della sospensione sotto il profilo
dell’elevamento a due anni del tetto delle condanne sospendibili e delle possibilità di
concedere un secondo provvedimento di sospensione. Con una seconda modifica dell’81’, il
legislatore ha subordinato la concedibilità del secondo provvedimento all’adempimento, da
parte del soggetto, di alcuni obblighi specifici (tale adempimento fungerebbe da stimolo alla
rieducazione);
 Ordinamento penitenziario: l’introduzione della riforma dell’ordinamento penitenziario con
la legge n. 354/1975 ha comportato importanti risvolti in tema di misure alternative alla
detenzione ispirate all’idea “no probation” e di ideologia del trattamento rieducativo.
Gli interventi nel settore relativo alle misure alternative alla detenzione ha espresso una
tendenza al recupero sociale attuato non attraverso il trattamento penitenziario, ma mediante il
reinserimento del condannato nell’ambiente esterno favorito dal sostegno di servizi sociali.
Con riferimento al secondo aspetto (ideologia del trattamento rieducativo) se ne colgono i
segni nelle norme del nuovo ordinamento penitenziario che prevedono l’indagine scientifica
sulla personalità e interventi di esperti diretti a modificare gli atteggiamenti che sono di
ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (es. trattamento del condannato realizzato
mediante il lavoro, l’istruzione, le attività culturali e l’instaurazione di rapporti col mondo
esterno).
L’esigenza di contrastare forme particolarmente gravi di criminalità ha comportato il
restringimento dell’applicabilità dei nuovi istituti attraverso delle preclusioni concernenti gli
autori dei reati più gravi. A sopperire tali necessità interviene la legge Gozzini (riforma
penitenziaria) che tende ad un minimo rilancio dell’ideologia rieducativa, facendo venir meno
le preclusioni previste dalle precedenti leggi e favorendo il più possibile misure alternative al
carcere (prospettiva di decarcerizzazione).
Un ulteriore inasprimento del trattamento penitenziario si è avuto nei primi anni novanta per
fronteggiare la criminalità organizzata di stampo mafioso. Viene a delinearsi una duplica
prospettiva:

187
 si inasprisce la disciplina penitenziaria dei condannati per delitti riconducibili alla
criminalità organizzata;
 si introducono misure premiali finalizzate allo scopo di incentivare la collaborazione
giudiziaria (cd. pentismo). Il problema sta nello stabilire se e in quale misura la
collaborazione giudiziaria possa assurgere a sintomo di rieducazione, essendo
possibile che la scelta di collaborare sia motivata dall’interesse all’ammorbidimento
del trattamento carcerario.
Con la riforma cd. Simeone (n. 231/1998) sono state ampliate le condizioni di accesso alle misure
alternative con risultati irrilevanti in termini di potenzialità risocializzanti degli istituti penitenziari
interessati.
 Sanzioni sostitutive: la legge n. 689/1981 ha introdotto le sanzioni sostitutive delle pene
detentive brevi. La loro sostituzione con sanzioni di altro tipo serve ad evitare che il soggetto
subisca il “contagio criminale” prodotto dall’impatto con la realtà carceraria perchè dotate di
effetti più desocializzanti che rieducativi;
 Pena pecuniaria: con la legge n.689/1981 è stato introdotto un nuovo meccanismo di
commisurazione della pena in base alle condizioni economiche del reo, tende a far sì che
questo avverta la pena come più giusta e proporzionata.

Tutte le innovazioni fin qui accennate rappresentano indubbiamente tappe significative in termini di
politica criminale ma presentano insufficiente e ritardi che tendono ad attenuare i corrispondenti effetti
desiderati.

L’evoluzione più recente del dibattito sulle funzioni della pena

La prevenzione generale
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, a fronte del crescente e preoccupante aumento della
criminalità e di alcuni esiti poco confortanti della prassi di attuazione della risocializzazione, è tornata
alla ribalta la teoria sulla prevenzione generale.
La funzione di prevenzione generale è stata anzitutto rivalutata sotto forma di intimidazione o
deterrenza (prevenzione generale negativa) sulla base di indagini teoriche che hanno fatto propendere
l'efficacia intimidativa più che dalla severità delle sanzioni dalla loro certezza di effettiva applicazione.
Dall’idea che lo scopo della pena sia di impedimento della commissione in futuro di reati è stata
necessaria una elaborazione in chiave psicologica sulla base della quale si presume che l'uomo è un
essere razionale e quindi prima di agire soppesa pro e contro della scelta criminale. In questo senso
dovrebbe rinunciare al diritto tutte le volte in cui la prospettiva di sofferenza supera l'attrattiva di
possibili guadagni connessi all’atto criminoso.
La principale critica ha messo in luce che l’uomo delinquente non è un individuo che valuta
razionalmente i motivi del proprio agire ma anzi è spinto da stimoli inconsci ed emotivi difficilmente
controllabili.
Questa concezione pecca per eccesso perché se è vero che si può agire per ragioni emotive è anche
vero che non si può dire lo stesso rispetto agli autori di reati in materia economica.
Oltre all’idea della prevenzione generale in forma di coazione psicologica si è sottolineato che la
minaccia della pena adempie anche ad una funzione morale-pedagogica di orientamento culturale dei
consociati (prevenzione generale positiva). Secondo questa impostazione la disapprovazione sociale
della quale sia la minaccia che l’inflizione della pena sono simbolo favorisce l’identificazione della
maggioranza dei cittadini con il sistema di valori protetto dall’ordinamento giuridico perché il timore
di poter andare incontro ad una sanzione punitiva agirebbe anche inconsapevolmente da fattore di
formazione di una coscienza morale che induca ad osservare i comandi della legge.

188
Il diritto penale assolverebbe ad una funzione di socializzazione come anche istituzione come
famiglia, scuola, ecc.
Un effetto generale preventivo si traduce anche a livello di esecuzione della pena rendendo il
trattamento penitenziario percepibile dai consociati come spiacevole.
È necessaria, altresì, una tendenziale convergenza tra la disapprovazione sociale e legale dei
comportamenti perché la funzione di orientamento culturale si indebolisce se incerta e la
stigmatizzazione di un comportamento nella morale collettiva.
Altro presupposto di efficacia è il buon livello di credibilità del sistema penale complessivo perché un
sistema percepito come ingiusto o inefficace non stimola all'osservanza dei precetti.
La prevenzione generale si presta a rilegittimare la concezione retributiva della pena che troverebbe,
sul terreno della prevenzione, una nuova giustificazione e dall’altro finisce col privilegiare la
soddisfazione dei bisogni collettivi di stabilità e sicurezza.
La prevenzione generale opera nel triplice momento della minaccia, inflizione ed esecuzione della
pena.
1. nella fase della minaccia, perché se si vuole raggiungere l’obiettivo di impedire la
commissione di fatti socialmente lesi occorre che il sistema penale eserciti la sua influenza
prima della loro commissione
2. nella fase dell’inflizione occupa uno spazio più ristretto perché bisogna evitare il rischio di
strumentalizzare il singolo delinquente per fini generali di politica criminale comminando
condanne esemplari con le quali il colpevole verrebbe punito non nella misura corrispondente
all'effettiva gravità del reato commesso ma nella misura ritenuta necessaria ad intimorire tutti
coloro i quali potrebbero delinquere.
3. nella fase di esecuzione della pena, la funzione di prevenzione generale svolge un ruolo
decisamente secondario perché domani la preoccupazione per il trattamento rieducativo.

La retribuzione
In passato l’idea della retribuzione si fondava sulla tesi secondo la quale la pena serviva a compensare
o retribuire il male arrecato alla società con l’atto criminoso.
Oggi, invece, parlando di retribuzione ci si riferisce non agli scopi della pena ma all’idea di
proporzione tra entità della sanzione e gravità dell’offesa arrecata, tra misura della pena e grado della
colpevolezza. la proporzione tra fatto e sanzione consente, nella prospettiva della prevenzione
speciale, che il reo, avvertendo la pena come giusta, sia maggiormente disponibile psicologicamente
verso il processo rieducativo.
Vi sono talune tendenze dottrinali dette neo-retribuzionistiche che prendono spunto dall’idea di crisi
dell’ideologia del trattamento rieducativo. Queste teorie prendono le mosse dall'idea che la
retribuzione trova una base nei bisogni emotivi di punizione esistenti nella società e in ciascun
individuo di fronte alla perpetrazione dei reati e che inoltre chi delinque può costituire un esempio
potenzialmente contagioso.
La reazione punitiva dello Stato da un lato canalizza l’aggressività suscitata nei cittadini dalla
commissione criminale e dall’altro lato conferma e rafforza la loro fedeltà allo Stato.
Il recente recupero di una funzione satisfattorio-stabilizzatrice della pena desta grave allarme perché i
bisogni emotivi di punizione proprio perché irrazionali e contingenti rischiano di far riemergere
tendenze a punire non sulla base dell’ obiettiva gravità del reato commesso. Ma, un diritto penale
moderno e razionale è in grado di filtrare le istanze di punizione che emergono dai contesti sociali
ricordando che se il singolo delinque la società è corresponsabile nella genesi del delitto. Prendendo
atto di questa corresponsabilità la pena torna ad essere uno strumento razionale tendente al finalismo
rieducativo e capace di incidere positivamente anche sul singolo delinquente.

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La prevenzione speciale
La funzione di prevenzione speciale tende ad impedire che il reo torni a delinquere anche in futuro.
la tecnica più elementare sarebbe la esternalizzazione del soggetto potenzialmente pericoloso tramite
la coercizione fisica. Es. chi è in carcere è posto nelle condizioni di non poter compiere determinati
tipi di delitti. La neutralizzazione può essere ottenuta attraverso forme di interdizione giuridica che
impediscono al reo di continuare a svolgere attività che hanno occasionato la commissione di delitti
(es. divieto di contrattare con la PA).
Se in passato la prevenzione speciale tendeva a perseguire l’emenda morale del delinquente, oggi
assume a criterio guida la rieducazione concepita come risocializzazione. in questo senso si interpreta
la funzione rieducativa della pena come sancita dall’art 27.3 Cost.
La risocializzazione presiede alla fase esecutiva della pena perché è durante questa che si procede al
trattamento individualizzato del colpevole al fine di favorire il riadattamento ma svolge un ruolo
decisivo anche nella fase dell'inflizione o commisurazione giudiziale perché il giudice, nella scelta del
tipo e dell’entità della sanzione, deve farsi guidare dalla preoccupazione di incidere sulla personalità
del reo in modo da favorirne il recupero.
Ultimamente ideologie della risocializzazione sono entrate in crisi sulla base di un presunto fallimento
della concreta realizzazione del finalismo rieducativo che si basa sulle risultanze emergenti di alcune
indagini statistiche che comproverebbero che le possibilità di ricadere nel delitto permarrebbero
invariate indipendentemente dal tipo di trattamento cui il reo è stato sottoposto. A prescindere dalla
correttezza dei metodi impiegati dalla valutazione dei dati statistici, il fallimento di cui si parla
riguarderebbe il trattamento inteso nell’accezione specifica di terapia della personalità

Per quanto riguarda la situazione nel nostro paese, la nuova legge penitenziaria del 1915 non è riuscita
per tanto tempo a mettere in atto le più significative e promettenti prospettive di risocializzazione. Le
maggiori innovazioni della riforma relative ai contatti tra carcere e società sono rimaste in buona parte
sulla carta. A prescindere dagli irrigidimenti imposti dalle emergenze terroristica e mafiosa, le
manchevolezze di cui sopra non dimostrano tanto il fallimento dell'idea rieducativa ma solo il
prevalere di una mentalità burocratica nella gestione della riforma penitenziaria. Quindi, prima di
suggerire l’abbandono dell’ideologia rieducativa occorrerebbe aver compiuto più seri sforzi in vista
della risocializzazione. Tentativi in questa direzione sono emersi grazie alla legge 663/86 che ha
introdotto profonde modifiche nell'ordinamento penitenziario. Il legislatore ha perseguito il tentativo
di un'ulteriore decarcerizzazione ampliando i presupposti di applicabilità delle misure alternative alla
detenzione e potenziando gli istituti che favoriscono i contatti tra i detenuti e il mondo esterno (es.
permessi premio). Ma a questi accorgimenti non si accompagnano gli strumenti necessari a garantire
una credibile risocializzazione. Da qui il duplice rischio che la concessione dei benefici extra-carcerari
avvenga in maniera automatica e indulgenzialista o venga finalizzata all'obiettivo di un mero
sfoltimento della popolazione carceraria.
Allo stesso tempo, l’ampliata possibilità di ridurre l’entità della pena ha come effetto di renderla
eccessivamente flessibile dilatando i poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza. Con le
ultime riforme di cui alle leggi 165/98 e 231/99, l’intera fase dell’esecuzione della pena sembra aver
smarrito quella razionalità ispirata all'idea di risocializzazione del condannato perché l’estensione dei
beneficiari delle misure alternative a coloro che, non sono solo perfettamente inseriti in società ma
sono anche autori di reati di particolare gravità. ha stravolto natura e funzione di questi istituti
rendendoli strumenti con i quali perseguire striscianti forme di grazia giudiziale.

La prevenzione speciale all’interno di uno Stato democratico e pluralistico costituisce solo una tecnica
finalizzata all'obiettivo primario di protezione dei beni giuridici e non può pretendere di trasformare il
delinquente in uomo onesto.

190
CAPITOLO 2 – LE PENE IN SENSO STRETTO

Le pene sostitutive: generalità


Tra le innovazioni più significative introdotte con la l. 689/81, vanno annoverate le sanzioni sostitutive
delle pene detentive di breve durata.
Sebbene, di recente, si sia tentato di rivalutare le cd. pene-shock, prevale il convincimento che le pene
detentive di breve durata siano inefficaci, desocializzanti e criminogene.
Nell’intento di attuare una loro più ampia attuazione, le recenti riforme legislative hanno esteso la
possibilità di rimpiazzare la detenzione breve.
Le sanzioni sostitutive previste nel nostro ordinamento sono: semidetenzione, libertà controllata e
pena pecuniaria. Le prime due sono sanzioni autonome, che esplicano la loro efficacia nei termini di
ammonimento, esercitando azione dissuasiva rispetto alla commissione di futuri reati ma evitando, al
contempo, di desocializzare il reo.
Multa e ammenda come sanzioni sostitutive non si discostano dalle corrispondenti pene principali.

Le singole pene sostitutive


Semidetenzione → è la misura sostituiva della pena detentiva fino a due anni. Comporta: l’obbligo di
trascorrere almeno 10 ore al giorno in carcere, il divieto di possedere armi, munizioni o esplosivi, la
sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto e la sospensione della validità di qualsiasi
documento equipollente ai fini dell’espatrio, l’obbligo di conservare e presentare agli organi di polizia
l’ordinanza contenente le prescrizioni imposte.

Libertà controllata → è la misura sostitutiva della pena detentiva fino a un anno. Comporta: il
divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione di volta in volta concessa solo per
motivi di lavoro, salute, studio o famiglia; l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il
locale ufficio di pubblica sicurezza o il comando dell’arma competente, il divieto di detenere armi,
munizioni o esplosivi, la sospensione della patente di guida, la sospensione del passaporto o ogni altro
documento equipollente ai fini dell'espatrio, obbligo di conservare e presentare agli organi di polizia
l’ordinanza contenente le prescrizioni imposte.

Pena pecuniaria → è la sanzione sostitutiva delle pene detentive fino a sei mesi. Si considera sempre
tale, anche se sostituisce la pena detentiva.
Il ragguaglio tra la pena detentiva e le misure in esame varia a seconda del tipo di sanzione sostitutiva;
un giorno di detenzione equivale a:
 un giorno di semidetenzione
 due giorni di libertà controllata
 € 250 di multa o ammenda

Le sanzioni sostitutive si applicano in presenza di condizioni oggettive (la pena irrogata dal giudice e
il tipo di reato) e soggettive (precedente condanna superiore a due anni) fissate dalla legge.
L’applicazione delle sanzioni sostitutive è affidata dalla legge al potere discrezionale del giudice, sia
sull’an che sul quomodo, sulla base di principi guida. Possono essere applicate d’ufficio o su richiesta
dell’imputato.
Possono essere revocate o convertite in caso di inosservanza di prescrizioni imposte al condannato.

Le misure alternative alla detenzione

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Le misure alternative alla detenzione sono la più significativa messa in atto del finalismo rieducativo
della pena ex art. 27 comma 3 Cost.
Sono:
- Affidamento in prova al servizio sociale → è la più importante. Si ispira alla probation di
origine anglosassone ma, a differenza di questa, presuppone che sia iniziata l’esecuzione della
pena detentiva. Il condannato a pena detentiva non superiore a tre anni può essere affidato al
servizio sociale fuori dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare
(recentemente esteso anche a pene non superiori a 4 anni).
Le prescrizioni inflitte al condannato sono in parte previste dalla legge e in parte
genericamente indicate nelle direttive di ordine generale (es. “svolgere attività o avere rapporti
personali che possano occasionare il compimento di reati”) e rispetto a queste si pongono
problemi di legittimità costituzionale qualora avessero contenuto afflittivo o non agevolassero
il reinserimento.
L’affidamento in prova è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge
o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. La revoca,
però, non consegue alla violazione ma è necessaria un'ulteriore valutazione in termini di
incompatibilità con la continuazione della prova.
L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale ma non le
pene accessorie o le obbligazioni civili derivanti da reato.
- Affidamento in prova per tossicodipendenti o alcoldipendenti → particolare ipotesi di
affidamento in prova al servizio sociale prevista in considerazione delle specifiche peculiarità
legate allo stato di dipendenza del condannato e volta ad evitare le conseguenze negative
derivanti dall’interruzione o dall’impedimento del programma di attività terapeutica. Si
applica su domanda dell'interessato tossicodipendente o alcoldipendente che abbia in corso o
voglia sottoporsi a un programma di recupero e che deve scontare una pena di massimo 4
anni.
- Detenzione domiciliare → più che misura alternativa costituisce una modalità di esecuzione
della pena perché condannati nei confronti dei quali la sanzione penale eseguita normalmente
non avrebbe funzione risocializzante. Il tribunale di sorveglianza stabilisce le modalità
esecutive e le prescrizioni. Può essere revocata se il comportamento del soggetto, contrario
alla legge o alle prescrizioni, appare incompatibile con la prosecuzione della misura. Una
forma speciale di detenzione domiciliare riguarda quei soggetti affetti da HIV o
immunodeficienti che hanno in corso o intendono sottoporsi ad un programma di cura e
assistenza presso strutture ospedaliere o universitarie attrezzate.
- La semilibertà → consiste in una parziale limitazione della libertà personale, alternata con
periodo di libertà. Consiste nella concessione al condannato e all’internato di trascorrere parte
del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al
reinserimento sociale. La sanzione, più che una misura alternativa, costituisce una modalità di
esecuzione della detenzione, in quanto ottenuto lo stato di privazione della libertà. Può essere
concessa anche sin da principio per le pene detentive brevi o di lunga durata. Il tempo
trascorso in semilibertà è considerato come pena detentiva scontata. Può essere revocata se il
soggetto si dimostra inidoneo al trattamento o resta assente dall’istituto senza giustificato
motivo per non più di 12 ore.
- Liberazione anticipata → è un riconoscimento concesso al condannato a pena detentiva che
ha dato prova di partecipazione quale riconoscimento di questa partecipazione, al fine di un
suo più efficace reinserimento nella società. Consiste in una detrazione di 45 gg per semestre
di pena scontato e si conta anche il periodo di detenzione domiciliare e quello trascorso in

192
custodia cautelare. È una misura di carattere premiale, un trattamento individualizzato e
progressivo.
- Permessi premio → si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e che non
risultano socialmente pericolosi, per consentirgli di coltivare interessi affettivi, culturali o di
lavoro. La durata non può essere superiore a 45 gg in ciascun anno di espiazione.

L’art. 4 bis ord. penit. → realizza un vero e proprio doppio binario tra condannati per reati
comuni e condannati che appartengono alla criminalità organizzata ed eversiva, fatte salve le
eccezioni previste per i collaboratori di giustizia e per coloro i quali può escludersi in maniera
sicura e l’attuale esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. L’assegnazione al lavoro
all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la
liberazione anticipata), possono essere concessi ai detenuti e internati per delitti commessi
avvalendosi delle condizioni ex art. 416 bis c.p. e per i delitti di cui agli artt. 416 bis, sequestro di
persona a scopo di estorsione o associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, solo a
condizione che collaborino con la giustizia o se non risultano collegamenti attuali con la
criminalità organizzata. Se si tratta di delitti ai quali sia stata applicata una delle attenuanti di cui
all'art. 62 n.6 c.p. oo all’art. 114 o 116 comma 2 c.p., i benefici predetti possono essere concessi
anche se la collaborazione risulta irrilevante, purché siano da escludere in maniera certa i
collegamenti con la criminalità organizzata.
Riguardo ai detenuti o internati per delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione
dell’ordinamento costituzionale, omicidio, rapina, estorsione, produzione/traffico/detenzione
illeciti di stupefacenti, i benefici predetti possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali
da far ritenere ancora sussistenti collegamenti con la criminalità organizzata. Questa disciplina
funge da un lato da deterrente contro la pericolosità sociale di questi delinquenti e dall’altro vuole
sollecitare l’uscita dall’associazione criminale mediante gli incentivi premiali.

CAPITOLO 3 - LA COMMISURAZIONE DELLA PENA

Premessa: il potere discrezionale del giudice


Le pene, tanto quelle restrittive della libertà personale quanto quelle pecuniarie, vanno da un minimo
ad un massimo predeterminati dal legislatore e non di rado la sanzione è prevista in forma alternativa
(al reo è cioè applicabile una pena detentiva o pecuniaria).
Spetta, infatti, al giudice commisurare la pena, cioè determinare in concreto la quantità della pena
da infliggere, tra il minimo e il massimo edittali, e la scelta del tipo di sanzione.
Nello scegliere la pena adatta al caso concreto, il giudice esercita un potere discrezionale come
afferma l’art 132 al 1 comma, il quale stabilisce che nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la
pena discrezionalmente, indicando i motivi che giustificano l’uso di tale potere discrezionale.
La ratio di questa norma è chiara: il legislatore non può prevedere tutte le sfumature di disvalore o di
valore di ogni singolo episodio criminoso e si trova perciò costretto a delegare al giudice il compito di
valutare tutti gli aspetti rilevanti ai fini di un trattamento penale sufficientemente individualizzato.

E, però, controverso se il potere discrezionale del giudice sia libero o vincolato.


Secondo l’opinione dominante si tratta di una discrezionalità vincolata, ed infatti il giudice, in sede
di commisurazione, andando incontro a limiti legislativamente predeterminati, si limita a proseguire
l’opera del legislatore concretizzandone le scelte.

193
Tali limiti si colgono nella presenza di:
 minimi e massimi edittali previsti dal legislatore
 obblighi di motivazione ex art 132 (per garantire un controllo giurisdizionale sull’esercizio dei
poteri discrezionali del giudice)
 indici di commisurazione ex art 133

Tuttavia, nella prassi applicativa il potere di determinazione giudiziale della sanzione spettante al
giudice appare sostanzialmente libero.
In quanto:
 la giurisprudenza tende a svilire l’obbligo di motivazione ex art 132 e la stessa Cassazione
tende a convalidare le scelte sanzionatorie già operate dai giudici di meritosalvi i casi di palese
contrasto tra motivazione adottata e elementi acquisiti agli atti del procedimento.
 l’art 133 soltanto apparentemente indica criteri capaci di vincolare il potere del giudice, infatti
tale disposizione fa riferimento a fattori, come la gravità del reato o la capacità a delinquere,
che assumono un significato diverso in base alla finalità prevalente che l’interprete assegni
alla pena in sede di commisurazione.

Il potere di commisurazione della pena, che sembra quindi esercitabile liberamente dal giudice, pare
in ogni caso compatibile tanto con il principio di uguaglianza, quanto con quelli di responsabilità
personale e finalismo rieducativo della pena, come ha avuto modo di ribadire la Corte Cost.
difendendo la legittimità dell’art 132 e affermando addirittura il principio della “tendenziale
illegittimità delle pene fisse” che non consentono l’individualizzazione della pena.

Classificazione sistematica dei criteri di commisurazione


La dottrina, al fine di rendere più controllabili le scelte sanzionatorie dei giudici, ha adottato una
classificazione sistematica degli indici di commisurazione della pena.
Il giudice, nel commisurare la pena, deve seguire un iter così articolato:
1. Criteri finalistici -> Il giudice deve, anzitutto, individuare i fini da raggiungere tramite
l’irrogazione della pena. A seconda che si privilegi la finalità di prevenzione generale,
prevenzione speciale o retributiva, risulteranno adeguate al caso concreto misure di pena
diverse tra loro (es. l’esigenza di prevenire il frequente ripetersi di reati in un determinato
luogo può richiedere una pena elevata che si rileva non necessaria nel caso singolo, stante
l’improbabilità che l’autore del reato ritorni a delinquere)
2. Criteri fattuali -> una volta individuato il fine da perseguire, il giudice deve selezionare le
circostanze di fatto che assumono rilevanza alla stregua nei criteri finalistici (es. se il giudice
privilegia la finalità retributiva, sarà portato ad attribuire rilievo a criteri fattuali quali la
gravità oggettiva del reato commesso e il grado di colpevolezza; se invece privilegia la finalità
di prevenzione speciale darà rilievo alle circostanze di ordine soggettivo come inclinazione a
delinquere, condizioni sociali e familiari del rea ec..)
3. Criteri logici -> infine il giudice dovrà valutare il peso di tutti i criteri fattuali al fine di un
giudizio sulla complessiva gravità del reato e di un dosaggio della sanzione fra il massimo e il
minimo edittali.

Gli indici di commisurazione preveduti all’art 133 c.p.

L’art 133 si esprime in meriti ai criteri di commisurazione della pena che vengono differenziati a
seconda che afferiscono alla gravità del reato o alla capacità a delinquere.

194
a. La gravità del reato
Il primo comma dell’art 133 stabilisce nell’esercizio del potere discrezionale in sede di
commisurazione della pena, “il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:
1. dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra
modalità dell’azione;
2. dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
3. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”.

Sulla base di tali indici, la gravità del reato dev’essere commisurata considerando sia la componente
materiale che quella psicologica del reato.
Gli elementi di cui al n. 1 permettono di determinare il disvalore dell’azione criminosa commessa
che può desumersi in via analogica anche da quelle circostanze che il legislatore valuta come
aggravanti o attenuanti (l’aver maltrattato la vittima di una violenza carnale).
Gli elementi di cui al n. 2 fanno riferimento al danno inteso in senso penalistico e non civilistico e al
pericolo sia astratto che concreto. Il merito al grado del pericolo, il pericolo concreto (più grave di
quello astratto) sarà più grave ove maggiore risulti l’entità della probabile lesione o il grado di
probabilità della sua verificazione.
Gli elementi di cui al n. 3 richiamano la componente psicologica del reato. La gravità del reato sarà
maggiore nel caso di dolo intenzionale e progressivamente meno gravo nel dolo eventuale e dolo
diretto; quanto alla gravità della colpa occorre far riferimento al quantum di esigibilità della condotta
doverosa e alla divergenza tra la condotta tenuta e la regola precauzionale applicabile nel caso
concreto.

b. La capacità a delinquere
Il secondo comma dell’art 133 stabilisce che nell’esercizio del potere discrezionale in sede di
commisurazione della pena “il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del
colpevole, desunta:
1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al
reato;
3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato
4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”.

La previsione di questi ulteriori indici serve ad estendere la valutazione giudiziale dal fatto oggettivo
alla personalità del reo.
In dottrina sono state prospettate diverse teorie volte a dare una soluzione al problema relativo al
rapporto temporale tra reato e capacità a delinquere.
Alcuni autori proiettano la capacità a delinquere nel passato considerandola una sorta di attitudine
al reato commesso; altri la proiettano nel futuro, identificandola come l’attitudine a commettere nuovi
fatti delittuosi.
Tra coloro i quali proiettano la capacità a delinquere nel passato, vi sono alcuni che si sforzano di
riportare la capacità a delinquere sul terreno della colpevolezza. La valutazione sulla personalità
morale del reo, infatti, consentirebbe di esprimere un giudizio di riprovevolezza sufficientemente
individualizzato.
Quale autore invece, seppur propenso a riferire l’elemento in esame al passato, ritiene che se la
valutazione degli elementi ex art 133 fosse limitata al giudizio di colpevolezza del singolo fatto

195
delittuoso, il riferimento alla capacità criminale rappresenterebbe un parametro esclusivo di
graduazione della pena in una prospettiva ispirata ad un criterio di equità.
Anche sul versante della proiezione del futuro sussistono opinioni divergenti. Alcuni ritengono che il
concetto di capacità a delinquere sia pienamente equivalente a quello di pericolosità sociale; altri,
invece, tendono a distinguere quantitativamente tali concetti sulla base rispettivamente della mera
possibilità o probabilità che il medesimo soggetto torni a delinquere.
Un ulteriore orientamento tende a individuare nella capacità a delinquere una duplice funzione: una
funzione di graduazione della colpevolezza e una funzione prognostica (diretta ad accertare la
potenzialità criminosa del soggetto in una prospettiva di prevenzione speciale).
In definitiva, in mancanza di indicazioni univoche circa il concetto e la portata del concetto di capacità
a delinquere, è necessario ricostruire tale significato mediante il richiamo a elementi esterni ed in
particolare per mezzo di una prospettiva costituzionale.
1. Motivi a delinquere > Il movente è la causa psichica, il sentimento, l’impulso che induce
l’individuo a delinquere.
2. Carattere del reo > Per carattere si intende il risultato della lotta tra fattori
endogeni(temperamento) del soggetto e fattori esogeni (ambiente).
I primi spingerebbero l’uomo verso il soddisfacimento dei propri istinti, i secondi lo
condurrebbero verso una sottomissione all’ambiente. Nel menzionare il carattere, l’art 133 si
vuol riferire a tutte le componenti (biologiche, psichiche, etiche) della personalità.
3. Vita e condotta del reo antecedenti al reato -> tra questi elementi rientrano i precedenti
penali e giudiziari ma anche episodi, atteggiamenti che possano essere indici del modo di
essere e di comportarsi della persona (uso di droghe, alcoolismo, ecc).
4. Condotta antecedente, contemporanea o sussistente al reato -> elementi particolarmente
rilevanti perché temporalmente molto vicini alla commissione del reato (es. cinismo o
compiacimento durante la commissione del reato depongono a sfavore del reo, al contrario
depongono a favore del reo una lunga esitazione o un atteggiamento di collaborazione
giudiziale)
5. Condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo -> tali elementi consentono di
calcolare quanto l’ambiente esterno abbia inciso nella concreta commissione del fatto
delittuoso. (es. se ci si pone nell’ottica della colpevolezza, farà apparire l’autore meno
riprovevole una forte pressione esterna; al contrario se ci si pone nell’ottica della pericolosità
sociale tanto più cresce il tasso di criminalità latente del soggetto, quanto più determinanti
risultano le influenze dell’ambiente).

Ambiguità e insufficienze del modello di disciplina contenuta nell’art. 133 c.p.


Gli indici di commisurazione dell’art. 133 sono suscettibili di interpretazioni diverse.
Considerando il criterio della gravità del reato, questo può assumere rilevanza non solo rispetto
all’entità del danno e al grado della colpevolezza (prospettiva retributiva) ma anche in una prospettiva
di prevenzione generale o speciale: infatti, rispetto ad es. al rilievo da retribuite alle condizioni di vita
individuale, familiare e sociale del reo, si pensi all’adesione ad un'associazione mafiosa che potrebbe
giustificare la comminazione di una pena non particolarmente elevata sul piano retributivo ma un
trattamento severo dal punto di vista della prevenzione speciale.
La fondamentale equivocità della norma risiede nel fatto che si limita solo ad enumerare indici di
commisurazione senza, però, prendere posizione sui criteri finalistici che dovrebbero presiedere alla
concreta irrogazione della sanzione, non chiarendo quale ruolo dovrebbero avere retribuzione,
prevenzione speciale e prevenzione generale al momento nella fase irrogativa della pena.
La riprova delle insufficienze dell’art.133 risiede nelle sue concrete applicazioni giurisprudenziali:
l’obbligo di motivazione ex art. 132 è rimasto eluso mediante il ricorso a formule come “tenuto conto

196
degli elementi di cui al 133 si stima equa” o “adeguata al fatto è alla personalità”; inoltre, per
rimediare al rigorismo del legislatore del 1930, la magistratura si è orientata verso l’irrogazione del
minimo edittale (col rischio di sfociare in forme di poco controllata indulgenza e di sposare una logica
che collide con le esigenze sottese alla commisurazione della pena).

Esigenza di una rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 133 c.p.


Per rinvenire criteri di orientamento che possano avere efficacia vincolante sul terreno giuridico, è
necessario tentare una rilettura costituzionalmente orientata.
a. Art. 27 comma 1 cost. —> ha riconosciuto il principio responsabilità non solo personale ma
anche colpevole, in una prospettiva diretta a valorizzare l’elemento soggettivo del reato. Il
requisito della colpevolezza deve svolgere funzione preminente anche nello stadio di
commisurazione della pena: da qui deriva che, stante l’art. 133, il giudice deve infliggere una
sanzione che sia proporzionata al grado della colpevolezza e non superiore, considerando
prevalenti i criteri della intensità del dolo e del grado della colpa rispetto a quelli della gravità
del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato. Questo scongiura anche il
rischio di violazione del divieto di responsabilità per fatto altrui, che vieta la comminazione di
pene esemplari che fungano fa ammonimento verso tutti i consociati e che usino il tiro come
capro espiatorio, in quanto questo verrebbe punito con una pena eccedente la sua colpevolezza
in vista della esigenza di impedire la reiterazione di fatti analoghi da parte di terzi soggetti: il
soddisfacimento di esigenze di prevenzione generale non può giustificare l’inflazione di una
pena di ammontare sproporzionato rispetto alla colpevolezza del fatto singolo.
b. Art. 27 comma 3 Cost. —> enuncia il principio secondo cui le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato. Alla luce di ciò, sarebbe illusorio confidare nella efficacia
rieducativa della pena in fase di esecuzione se già a livello di irrigazione il giudice non
scegliesse una sanzione idonea sia nel tipo che nella misura a favorire la risocializzazione.
Questo principio induce a una rilettura del comma 2 dell’art. 133 che ricostruisca la capacità a
delinquere in chiare di prevenzione speciale: il giudizio sull’attitudine del reo a commettere
reati dovrà essere proiettato nel futuro è fungerà da criterio di scelta e di dosaggio della pena
da determinare, sia nel tipo che nella misura, in vista del reinserimento del reo. La
colpevolezza opera, altresì, come limite allo stesso finalismo rieducativo, perché una pena
eccedente il grado della colpevolezza non sarebbe compresa dal condannato che la vivrebbe
come ingiusta, rimanendo così pregiudicata la prospettiva del recupero sociale. Per queste
ragioni, le esigenze di prevenzione speciale possono rilevare solo in bonam partem: il giudice
può applicare una pena meno elevata rispetto a quella che sarebbe giusto infliggere in base al
grado della colpevolezza ogniqualvolta ritenesse che ciò servirebbe a facilitare il processo di
reinserimento sociale del reo.

Il principale parametro di commisurazione della pena è quello di cui al comma 1 dell’art. 133,
che indica al fiume ci sta lore il massimo edittale della pena entro i limiti della colpevolezza relativa al
fatto di giudizio; il comma 2 dell’art. 133 svolge un ruolo subordinato, come si evince dalla
espressione “altresì” in riferimento alla capacità a delinquere, perché questa può indurre il giudice a
ridurre la pena al di sotto del limite massimo segnato dalla gravità del fatto colpevole.

I termini dell’attuale dibattito teorico

Parte della dottrina nega alla “prevenzione generale” il ruolo di autonomo criterio finalistico di
commisurazione della pena. Altra parte, invece, si preoccupa di sottolineare che, se si include la

197
prevenzione generale tra gli scopi principali della pena. non si può non riconoscerle un rilevante
spazio nella fase della sua commisurazione.
Inoltre, a quanti obiettano che il giudice non avrebbe la competenza per conoscere adeguatamente le
esigenze di prevenzione generale, si risponde che questa competenza gli farebbe pure difetto per
valutare le esigenze di risocializzazione del reo. In ogni caso, ai giudici dovrebbe richiedersi soltanto
una conoscenza intuitiva, basata sull’esperienza della vita giudiziaria.
Tuttavia, l’impostazione che mira ad includere la prevenzione generale tra i criteri finalistici trascura
che, in uno Stato di diritto, il soddisfacimento delle istanze di prevenzione spetta al legislatore, mentre
ai giudici spetta soltanto di scegliere la pena adeguata al caso concreto oggetto di giudizio.
Sembra abbastanza forzato l’argomento, secondo cui il divieto di responsabilità per fatto altrui
dovrebbe valere anche per il legislatore preoccupato di orientare secondo la prevenzione generale i
livelli edittali di pena. Si può, infatti, replicare che, a livello di previsione legislativa dell’entità della
sanzione, non ci si trova di fronte ad alcun soggetto da giudicare, mentre lo stadio della
commisurazione della pena presuppone un fatto già commesso.
Infine, si può anche concedere che il giudice non sia in grado di stabilire in modo scientificamente
attendibile quale trattamento sia più idoneo a favorire la risocializzazione del reo. Solo che ciò non
basta per rivalutare l’attitudine dei giudici a conoscere le esigenze di prevenzione generale. Una
eccessiva fiducia in una commisurazione generalpreventiva della pena sembra, poi, trascurare che
l’efficacia di una simile operazione dipende da una serie di condizioni empiriche di difficile
verificazione e/o accertamento, occorrendo che il messaggio giudiziale sia comunicato ai consociati e
che gli stessi comprendano il significato delle sentenze esemplari e se ne lascino motivare nella loro
condotta.
Pertanto, quale che sia l’effettiva portata delle divergenze un atto riscontrabili in seno alla dottrina, è
comunque da condividere la posizione di quegli autori che sollecitano una riforma dell’attuale art 133,
volta a recepire criteri finalistici di commisurazione della pena di derivazione costituzionale.

La commisurazione della pena pecuniaria (art. 133 bis c.p.)


Il codice Rocco si limitava a prevedere la possibilità di un aumento fino al triplo della multa e
dell’ammenda qualora queste, anche se applicate nel massimo, fossero inefficaci per le condizioni
economiche del reo. Il nuovo art. 133 bis c.1 c.p. dispone, invece, che “nella determinazione
dell’ammontare della multa o dell’ammenda il giudice deve tenere conto, oltre che dei criteri indicati
nell’articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo”, includendo così le condizioni
economiche del reo tra i criteri di commisurazione della pena pecuniaria già all’interno degli spazi
edittali. Preferendo tener conto delle condizioni economiche in aggiunta ai criteri indicati nell’art. 133,
il legislatore, ha optato per il tradizionale modello di pena pecuniaria della cd. somma complessiva. In
questo caso, gli indici di commisurazione della pena sono quelli (generali) della gravità del reato e
della capacità a delinquere.
La dottrina sembra propendere, invece, per il modello dei “tassi giornalieri” che prevede la
separazione in due momenti della fase di commisurazione:
 nel primo momento viene fissato il numero dei tassi sulla base di criteri generali;
 nel secondo momento si determina l’ammontare del tasso giornaliero sulla base delle
condizioni economiche del reo.
Tale approccio ha, però, incontrato il rifiuto del legislatore del 1981, giustificato dall’intento di
eludere i potenziali problemi derivanti dall’accertamento del reddito degli imputati.

Dal punto di vista dell’interpretazione della formula normativa, il fatto che il legislatore non si esprima
sugli indici di cui il giudice deve tenere conto in sede di valutazione delle condizioni economiche del

198
condannato, comporta che siano gli interpreti a suggerire dei criteri di valutazione: il giudice, in primo
luogo, deve riferirsi al reddito dell’autore del reato al momento della condanna.
Più complesso è il discorso relativo alla determinazione dell’incidenza del patrimonio nella situazione
economica del reo, per evitare di perseguire fini estranei alla pena pecuniaria. Parte della dottrina
propone di prendere in considerazione esclusivamente i beni patrimoniali il cui valore non superi uno
standard medio rispetto alla situazione economico sociale (non si terrebbe conto, ad esempio, della
proprietà di una casa destinata ad abitazione). Dal calcolo delle disponibilità economiche vanno
sottratte le obbligazioni pecuniarie gravanti sul reo (obbligo di versare alimenti, debiti contratti ai
fini dell’acquisto di una casa d’abitazione).
L’accertamento del reddito, in mancanza di indicazioni normative, dovrà essere rimesso al giudice e
ad eventuali accertamenti della polizia giudiziaria, fermo restando che un ruolo rilevante può essere
rivestito dalle dichiarazioni fornite dallo stesso condannato.

L’art. 133 bis c.2 c.p. stabilisce che “il giudice può aumentare la multa e l’ammenda stabilite dalla
legge sino al triplo e diminuirle sino ad un terzo quando, per le condizioni economiche del reo,
ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente
gravosa”. Una pena è:
 inefficace, se non provoca un sensibile sacrificio al reo;
 eccessivamente gravosa se comporta, al contrario, un sacrificio economico intollerabile.
Entrambe le valutazioni vanno determinate in funzione degli scopi di afflizione e di intimidazione-
ammonimento e risultano particolarmente difficili perché risentono anche di dati di natura psicologica,
risultando così diverso affidarsi al giudice.

CAPITOLO 4 – LE VICENDE DELLA PUNIBILITA’

Condizioni obiettive di punibilità


L’art 44 c.p. prevede che quando “per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una
condizione, il colpevole risponde del reato anche se l’evento da cui dipende il verificarsi della
condizione non è da lui voluto”. Si tratta di casi in cui il legislatore subordina la punibilità del fatto alla
presenza di particolari condizioni che si aggiungono agli elementi costitutivi essenziali del reato (es.
presenza del reo nel territorio dello Stato come condizione di punibilità per i reati commessi
all’estero).
Tali condizioni devono consistere in eventi futuri e incerti, concomitanti o successivi rispetto alla
condotta dell’agente. Non si considerano anche gli eventi antecedenti, perché la decorrenza del
termine di prescrizione dei reati condizionati comincia dal momento in cui si verifica la condizione
stessa (altrimenti la prescrizione del reato comincerebbe ancor prima della sua consumazione).

Questo istituto è particolarmente controverso per cui sono sorte numerose problematiche:
A. Funzione politico criminale dell’istituto
L’istituto intende conciliare contrapposte esigenze: da un lato, sussistono ragioni che portano
a subordinare la punibilità di alcuni comportamenti al verificarsi di determinate circostanze;
dall’altro lato, l’individuazione di queste circostanze non può essere affidata al potere
discrezionale del giudice ma il rispetto del principio di stretta legalità impone che sia lo stesso
legislatore a tipizzare in forma espressa. le circostanze capaci di influenzare la scelta relativa
alle concrete applicazioni della pena.
Le condizioni di punibilità svolgono una duplice funzione:
 prevedendo una punibilità condizionata al verificarsi di certi eventi, riduce la
rilevanza penale di determinati comportamenti,

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 di garanzia, in quanto, essendo tipizzate, rispettano il principio di legalità.

A differenza dei legislatori più liberali, il legislatore del 1930 ha introdotto le condizioni
obiettive di punibilità con la ragione diversa di estendere più che restringere la punibilità
sottraendo alcuni eventi-condizioni all’area della colpevolezza a causa della difficoltà di
provarne in giudizio la natura dolosa o colposa, semplificandone così l'accertamento ai fini
della condanna penale (ad es. dichiarazione di fallimento nei reati di bancarotta).

B. Posizione delle condizioni obiettive nella struttura del fatto di reato


La questione è se le condizioni di punibilità rientrino tra gli elementi costitutivi del fatto di
reato oppure rappresentino un elemento aggiuntivo o supplementare rispetto al reato già
perfetto. Indipendentemente dalla soluzione che si sceglie di abbracciare, ai fini della concreta
punibilità del fato, è necessario che la condizione di punibilità si verifichi. Tale momento
risulta decisivo ai fini della decorrenza dei termini di prescrizioni.
Ci sono due orientamenti in proposito:
 parte della dottrina, partendo dall’art 44 c.p., sostiene l’estraneità delle condizioni
obiettive al reato facendo leva sul fatto che è la legge stessa che, utilizzando la
formula “punibilità del reato” al verificarsi di certe condizioni, ammette
implicitamente che il reato sia già perfetto, a prescindere dalla sua concreta
punibilità. Richiamando la coppia concettuale “meritevolezza di pena" e “necessità
di pena”, la condizione obiettiva di punibilità soddisfa la necessità di punire un fatto
di per sé già meritevole di pena perché già riprovevole per l’ordinamento.
 L’orientamento contrario ritiene che le condizioni obiettive di punibilità, in quanto
requisiti condizionanti la conseguenza giuridica, non possono non rientrare tra gli
elementi del fatto giuridico. Tali condizioni, dal momento che incidono sulla
punibilità, fanno necessariamente parte degli elementi costitutivi del reato.

A partire dall’art 44 c.p. si afferma che “il colpevole risponde del reato anche se l’evento da
cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui voluto”: l’esistenza di una connessione
psicologica tra evento e condizione non costituisce quindi requisito indispensabile ai fini della
punibilità del fatto. Non sono rari i casi in cui l’evento consiste nel fatto di un terzo per cui
sarebbe irragionevole pretendere che la volontà dell’agente abbracci eventi che, proprio
perchè realizzati da altri, sfuggono alla sua volontà (es. caso di un ubriaco la cui punibilità
dipende dalla circostanza che terzi lo sorprendano in stato di flagrante ubriachezza).

Ci si chiede inoltre se la condizione obiettiva di punibilità debba essere legata all’azione tipica
da un rapporto di causalità materiale, cioè se il verificarsi della condizione sia conseguenza
diretta dell’azione dell’agente. In linea di puro fatto, nulla impedisce che la condizione
obiettiva di punibilità sia causa dell’azione; tuttavia, non si può pretendere che la sussistenza
di un rapporto di causalità materiale tra azione e condizione rappresenti sempre un requisito
indefettibile dato che la condizione di punibilità può causalmente derivare dalla condotta di un
terzo.

In conclusione, si può allora affermare che le condizioni obiettive di punibilità fanno sì parte
della fattispecie astratta ma sono estranee sia al fatto materiale che alla colpevolezza.

C. Criteri di individuazione delle condizioni stesse

200
Con riferimento ai criteri diagnostici da utilizzare ai fini di una corretta individuazione della
categoria in questione, va fatto ricorso a indici strutturali (relativi alla collocazione dell’elemento
in questione all’interno della fattispecie astratta) e di parametri sostanziali (relativi alla
determinazione dell’interesse tutelato dalla norma).
Applicando criteri di tipo strutturale verrebbero esclusi dalle condizioni obiettive di punibilità:
 gli eventi legati da un rapporto di causalità necessaria con l’azione tipica;
 gli eventi legati da un rapporto psicologico necessario con l’agente.
Facendo, invece, ricorso a indici di naturale sostanziale dovrebbero escludersi quegli eventi nei
quali si incentra l’offesa all’interesse protetto, considerandoli così elementi costitutivi del fatto.
E’ il caso del pubblico scandalo nel delitto di incesto: questo incide direttamente sull’offesa,
considerando che il nostro Stato non ha alcun interesse a punire l’incesto come fatto immorale in
sé, ma solo in quanto tale fatto sia percepito come causa di turbamento da parte di terzi estranei.
E’ ancora da escludere dalle condizioni obiettive di punibilità il pericolo per l’incolumità
pubblica: la fattispecie di incendio di cosa propria, senza quel pericolo, non avrebbe alcun
contenuto offensivo, posto che rappresenterebbe una forma di esercizio di un diritto; ne consegue
che il pericolo per la pubblica incolumità rappresenta un elemento costitutivo del fatto e non un
elemento allo stesso estraneo.

Relativamente all’incidenza della condizione di punibilità sul piano degli interessi tutelati
rinveniamo un orientamento incline a distinguere le condizioni obiettive in:
 intrinseche: incidono sull’interesse protetto approfondendo una lesione già insita nella
commissione del fatto (es. l’art. 264 incrimina l’infedeltà in affari di stato soltanto “se dal
fatto possa derivare nocumento all’interesse nazionale”, in questo caso l’evento-condizione
approfondisce la carica lesiva già insita nel fatto di rendersi infedeli al mandato nel trattare
all’estero affari di stato).
 estrinseche: non aggiungono nulla alla lesione dell’interesse protetto dalla norma
incriminatrice, ma si limitano a riflettere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse
esterno rispetto al profilo offensivo del reato (es. presenza del reo nel territorio dello Stato
come condizione della punibilità di determinati reati commessi all’estero).
Secondo parte della dottrina, dall’assenza di collegamento tra condizioni estrinseche e lesione
dell’interesse tutelato potrebbe derivare la loro assimilabilità alle condizioni di procedibilità
dell’azione penale. Questa tesi non può essere accolta per svariate ragioni, dalla lettura
dell’art. 44, che prevede la non necessarietà del collegamento psicologico dell’evento-
condizione all’autore del fatto, discende l’inutilità della stessa nel caso in cui vada riferita alle
modalità ed ai tempi di esercizio dell’azione penale. La distinzione in esame produce effetti
sul piano concreto, pensiamo, ad esempio, alle conseguenze sulla sentenza di proscioglimento,
la quale, nel caso di insussistenza dell’evento-condizione di punibilità, incide nel merito
ostacolando un secondo giudizio. Al contrario, la mancanza originaria di una condizione di
procedibilità comporta che l’eventuale sentenza favorevole abbia natura meramente
processuale, per cui sopravvenendo tale condizione risulterà possibile un nuovo giudizio.

D. Compatibilità delle condizioni con il principio di colpevolezza + Rapporto con l’offesa


tipica insita nel reato

Tale problema di compatibilità si aggrava quanto più si tratta di eventi condizionati che hanno
la capacità di incidere sull’offesa insita nel fatto tipico, approfondendola o aggravandola. Con
la sentenza n.364/1988 è stato sancito il principio secondo cui, la colpevolezza, almeno nella
forma minima della colpa, deve coprire tutti gli elementi significativi del fatto (quelli, cioè,

201
dal quale dipende il disvalore dell’offesa tipica). Non possono, quindi, sottrarsi al principio di
colpevolezza le condizioni di punibilità cd. intrinseche, come accadimenti capaci di incidere
sull’offesa insita nel fatto tipico, così, il principio di colpevolezza sarà rispettato nel caso in
cui le predette condizioni siano coperte almeno dalla colpa. Infatti, l’art. 44 c.p. ammette che
l’evento condizionale possa essere anche “non voluto”, escludendo soltanto che il dolo sia
necessario presupposto di imputazione dell'evento stesso, non citando però la colpa.

Per attenuare il contrasto tra condizioni oggettive di punibilità e principio di colpevolezza, potrebbe
essere percorsa una via più diretta: respingere la distinzione tra condizioni estrinseche e intrinseche
partendo dal presupposto che tutte le condizioni di punibilità soddisfano interessi esterni rispetto al
bene giuridico sottostante al reato e risultando quindi del tutto ininfluenti rispetto all’offesa tipica. La
sola funzione attribuita alle condizioni di punibilità resta quella di ridurre la rilevanza penale di fatti
altrimenti punibili, non ponendo così problemi di imputazione soggettiva: da qui la loro estraneità
rispetto al principio di colpevolezza.

Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto


L’art 131 bis c.p. configura una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto che,
riconducibile nel suo fondamento al principio di offensività, esclude dall’area del penalmente rilevante
i fatti che risultano bagatellari in concreto. Trattasi di quei fatti che, pur costituendo reato in quanto
tipico rispetto ad una fattispecie incriminatrice, non presentano tuttavia nella loro modalità di
realizzazione concreta una soglia di lesività sufficiente a giustificare l’effettiva applicazione di una
pena (ad es. furto di due lattine di birra).
Bisogna distinguere la speciale tenuità del fatto dall’ipotesi, tradizionalmente ricondotta da una parte
della dottrina e della giurisprudenza al 2º comma dell’art 49, del fatto formalmente conforme ad una
fattispecie incriminatrice ma inidoneo a offendere il bene protetto: mentre quest’ultimo non
costituisce reato perché del tutto carente di capacità lesiva (ad es. furto di un chiodo), il fatto cui si
riferisce l’art. 131 bis risulta pur sempre offensivo, sebbene in misura esigua.
I presupposti dell’art 131 bis sono i seguenti:
 l’ambito operativo della causa di non punibilità è costituito dai reati per cui è prevista la pena
detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o
congiunta alla predetta pena;
 quanto ai requisiti oggettivi, “la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e
per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità”. Per verificare la
particolare tenuità dell’offesa, il giudice anzitutto deve valutare il grado di incidenza lesiva
della condotta sul bene giuridico protetto: il fatto risulterà particolarmente tenue quando,
tenuto anche conto delle modalità con cui la condotta è stata realizzata, l’offesa recata
all'interesse tutelato potrà appunto essere considerata esigua, cioè di scarsa rilevanza. Il
giudice dovrà, altresì, tenere conto delle modalità della condotta; ad esempio, un delitto
commesso di notte ed in luogo solitario è, di solito, comparativamente più grave di un analogo
delitto commesso di giorno e in una strada affollata. È controvertibile se nelle modalità della
condotta rilevino anche elementi di natura soggettiva, come l’intensità del dolo o il grado della
colpa (in senso affermativo si pronuncia parte della dottrina e della giurisprudenza).
L’art 131 bis, 2º comma prevede espressamente alcune ipotesi per cui, per presunzione
legislativa, il fatto non può essere comunque giudicato particolarmente tenue. Ciò avviene in
situazioni in cui l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà anche in danno di
animali o ha adoperato sevizie, o ha approfittato della condizione e di minorata difesa della
vittima anche in riferimento all’età della stessa. Queste situazioni preclusive di riconnettono a
fattori di gravità oggettiva(come nel caso della morte come o lesioni gravissime come

202
conseguenze non volute della condotta), o a elementi sintomatici di una maggiore
rimproverabilità soggettiva.
 Un ultimo presupposto è la non abitualità del comportamento sicuramente offensivo o
pericoloso: cioè il legislatore intende evitare che chi ha una inclinazione soggettiva a
delinquere più volte possa continuare a farlo confidando nell’impunità. L’art 131 bis, 3º
comma indica alcune ipotesi in cui per presunzione legislativa il fatto è da considerare
abituale: più in particolare, si tratta di casi in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente
abituale professionale o per tendenza oppure abbia commesso reati della stessa indole (anche
se a ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità), non che vengano in
rilievo reati con condotte plurime, abituali o reiterate.

Le cause di estinzione del reato


Il fenomeno è dovuto a un insieme di cause tra loro eterogenee (es. morte del reo, prescrizione,
amnistia), che riflettono ragioni estranee o confliggenti rispetto alle esigenze di tutela penale del bene
protetto e hanno come effetto di paralizzare la punibilità quale effetto tipico dell’illecito.
Il codice distingue tra:
 cause di estinzione del reato —> operano antecedentemente all’intervento della sentenza
definitiva di condanna e incidono sulla punibilità astratta, estinguendo la possibilità di
applicare la pena minacciata;
 cause di estinzione della pena —> presuppongono l’emanazione di una sentenza di condanna
ed estinguono la punibilità in concreto, paralizzando l’esecuzione della sanzione inflitta dal
giudice.

Un simile criterio distintivo non è perfettamente aderente alla sistematica del codice penale, che
colloca tra le cause di estinzione del reato l’amnistia e la sospensione condizionale, anche se si tratta di
due cause che operano dopo la sentenza di condanna. A partire da ciò, si riconosce che sia le cause
estintive del reato che quelle estintive della pena si limitano ad escludere tutti o alcuni effetti del reato,
con l’unica differenza della maggiore incidenza delle prime rispetto alle seconde su ciò che il reato
normalmente comporta.

È improprio parlare di estinzione del reato: con riguardo al fatto storico, vale il principio secondo cui il
fatto compiuto non può considerarsi come non avvenuto. Se si ha riguardo alla valutazione giuridica,
invece, il reato estinto continua a produrre alcuni effetti anche dopo l’avventura estinzione: di esso si
tiene conto ai fini della dichiarazione di abitualità e professionalità del reato; non comporta
l’estinzione del reato che lo presuppone e non fa venire meno l’aggravante di lens che dipende dalla
connessione.
Le cause di estinzione del reato sono classificate sulla base di criteri eterogenei: possono essere
generali se collocate nella parte generale del codice e riferibili a tutti o un gran numero di reati;
speciali se applicabili a uno o più reati determinati e previste in leggi speciali o nella parete speciale
del codice.
Si distinguono, a seconda che tra i requisiti di applicabilità figurino o no requisiti riconducibili alla
volontà del soggetto, in:
 Condizionate —> es. la sospensione condizionale della pena
 Incondizionate —> es. morte del reo
Altra distinzione si basa sulla individuazione di un ornamento omogeneo:
 Fatti naturali in cui è irrilevante la volontà umana (es. morte del reo)
 Atto di clemenza (es. grazia)
 Comportamento dell’autore (es. oblazione)

203
Le regole comuni alle cause di estinzione sono:
- Hanno efficacia personale, salvo che la legge disponga diversamente
- Devono essere dichiarate immediatamente dal giudice in ogni stato e grado del processo, salvo
che sia evidente il proscioglimento nel merito
- Sottostanno al favor rei, nel senso che l’effetto estintivo del reato o della pena deve essere
prodotto dalla causa comparativamente più favorevole
Hanno natura sostanziale e non processuale.

Le cause generali di estinzione sono:


 morte del reo prima della condanna
 Remissione della querela
 Amnistia propria
 Prescrizione
 Oblazione nelle contravvenzioni
 Sospensione condizionale
 Perdono giudiziale e sospensione del procedimento con messa alla prova

La prescrizione
La prescrizione del reato è una causa estintiva costituita dal decorso del tempo senza che alla
commissione del reato segua una sentenza di condanna irrevocabile. Con il decorso del tempo appare
inutile e inopportuno l’esercizio della funzione repressiva, perché cadono le esigenze di prevenzione
generale che presiedono alla repressione dei reati. Tuttavia, in una prospettiva di valorizzazione del
diritti fondamentali dell’uomo, insieme con la necessità di garantire il diritto costituzionale alla difesa,
la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 c.p. nella parte in cui
non consentiva la rinunciabilità della prescrizione. Nel tempo, il costante aumento dei procedimenti
penali, con conseguente allungamento dei tempi per la loro definizione e l’aggravarsi della crisi di
funzionalità della giustizia italiana, hanno determinato la frustrazione dell’interesse pubblico alla
repressione dei reati a causa dell’operare della prescrizione prima di una sentenza definitiva, o
talvolta, prima dell’introduzione del processo. Pertanto, per contemperare l’interesse dell’imputato ad
una ragionevole durata del processo e l’interesse contrapposto a non vanificare la pretesa punitiva a
causa della grave inefficienza del sistema giudiziario, negli ultimi anni, sono state emanate varie
riforme.

L’originaria disciplina codicistica, per individuare il tempo necessario a prescrivere, adottava il


criterio delle classi di gravità dei reati differenziate per fasce di pena (es. un reato punito con la
reclusione non inferiore a 24 anni, si prescriveva in 20). La riforma Cirielli del 2005 ha introdotto il
criterio che rapporta il tempo prescrizionale al massimo della pena edittale stabilito per ogni
singola figura criminosa. Successivamente, la disciplina della prescrizione è stata modificata dalla
riforma Orlando che ha, invece, individuato i tipi di reato e le situazioni processuali, rispetto a cui è
stata considerata opportuna la scelta di allungare i tempi prescrizionali. Recentemente, il governo
giallo-verde ha concepito una più radicale riforma (entrata in vigore nel 2020) orientata dall’obiettivo
di repressione dei reati: si è optato per la scelta di fermare a tempo indeterminato il corso della
prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione).

a. L’art. 157 c.1 c.p. stabilisce che il tempo necessario a prescrivere corrisponde al massimo
della pena edittale prevista dalla legge per il reato in questione e comunque a un tempo non

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inferiore a sei anni se si tratta di delitto e non inferiore a quattro anni se si tratta di
contravvenzioni, ancorché punita con la sola pena pecuniaria.
Ai fini del computo del tempo prescrizionale, è fissata la regola per cui si ha riguardo alla
pena stabilita dalla legge per il reato tentato o consumato, senza tener conto della diminuzione
per le circostanze attuanti e dell’aumento per quelle aggravanti; un’eccezione è posta rispetto
alle aggravanti, per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria,
nonchè per quelle ad effetto speciale (nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di
pena previsto per l’aggravante). In ogni caso è precluso il giudizio di prevalenza tra
circostanze concorrenti ex art. 69 c.p. Con riferimento all’eccezione appena esplicata, il
legislatore ha previsto tempi differenziati, cioè di più lunga durata per gli autori recidivi,
precisamente per i casi in cui la recidiva opera quale circostanza aggravante ad effetto
speciale, cioè con aumento di pena superiore ad un terzo.

È poi previsto un raddoppio dei termini prescrizionali per alcune tipologie di illeciti penali
che destano particolare allarme sociale o che risultano difficilmente accertabili sul piano
probatorio (es. alcuni reati contro la vita o l'incolumità pubblica, violenza sessuale, ecc).

b. Decorrenza del termine


Circa la decorrenza del termine di prescrizione sono stabilite le seguenti regole:
 per il reato consumato, il termine decorre dalla sua consumazione;
 per il reato tentato, il termine decorre dalla cessazione dell’attività del colpevole;
 per il reato permanente, il termine decorre dal giorno in cui è cessata la
permanenza;
 per il reato continuato, la relativa disciplina della decorrenza del termine
prescrizionale risulta modificato: è stato abrogato il riferimento al giorno in cui la
continuazione è cessata, ne deriva che si applica la regolamentazione di un comune
concorso di reati.
Se la punibilità del reato dipende dal verificarsi di una condizione, il dies a quo decorre dal
giorno in cui la condizione si è verificata, se il reato è invece punibile a querela, istanza o
richiesta, il dies a quo decorre dal giorno del reato commesso.
In ogni caso, il dies a quo non si computa nel termine.

Per effetto della riforma Orlando, è stata prevista una peculiare disciplina della decorrenza del
termine di prescrizione in rapporto ad alcuni reati gravi commessi in danno di minori, per cui
sono stati prolungati i tempi prescrizionali al fine di garantire alla vittima minore di vedere
perseguito il reato dopo aver raggiunto la maggiore età. Per i reati come maltrattamenti in
famiglia, riduzione in schiavitù, stalking, sfruttamento sessuale di minori (art. 392 c.1 bis
c.p.p.), il termine di prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della
persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente (decorrenza a
partire dall’acquisizione della notizia di reato).

c. Sospensione
Si ha sospensione della prescrizione qualora sopraggiungano cause che determinano un
necessario arresto del procedimento o del processo. Il termine di prescrizione ricomincia a
decorrere, e si somma a quello anteriormente trascorso, dal giorno in cui la causa sospensiva
è cessata.
L’art. 159 c. 1 c.p. indica le seguenti cause di sospensione:
 autorizzazione a procedere;

205
 deferimento della questione ad altro giudice;
 sospensione del procedimento o del processo penale per ragione di impedimento delle
parti o dei difensori;
 sospensione del procedimento penale per assenza dell’imputato.

La riforma Orlando ha introdotto ulteriori ipotesi di sospensione: nel caso di rogatorie all’estero,
nonché sia per il periodo intercorrente tra la sentenza di condanna di primo grado e quelle del grado
successivo, sia per quello che va dalla sentenza di secondo grado a quella definitiva.
La sospensione della prescrizione ha effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta
procedendo.

d. Interruzione
L’interruzione della prescrizione è un effetto prodotto dal compimento di atti giudiziari che
fanno venir meno il tempo prescrizionale già decorso, facendo sì che cominci a decorrere ex
novo: si tratta di atti tassativamente individuati dall’art. 160 c.p. (es. sentenza di condanna o
decreto di condanna, l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quelle di
convalida del fermo o dell’arresto, ecc.).
In nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l'aumento di più di un quarto
del tempo necessario a prescrivere. Tuttavia, questo limite subisce deroghe con allungamenti
differenziati dei tempi di prescrizione sia in relazione ad alcuni tipi di autore (recidivi,
delinquenti abituali, ecc.), sia ad alcuni reati considerati di particolare gravità o di difficile
accertamento, oltre quelli previsti dall’art. 51 c.3 bis e quater c.p.p., per cui non è stabilito
alcun limite al prolungamento del tempo estinzionale nel caso di interruzione della
prescrizione.
L’interruzione della prescrizione ha effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato.

L’estinzione del reato per condotte riparatorie


La riforma Orlando ha introdotto nel codice una nuova causa di estinzione. La ratio della figura è
duplice:
 soddisfa esigenze deflattive del carico giudiziario
 valorizza la dimensione riparati a allo scopo di promuovere forme di conciliazione tra autore e
vittima
L’ambito di operatività è circoscritto ai delitti perseguibili a querela, a condizione che questa sia
soggetta a remissione: vengono, quindi, in rilievo fattispecie criminose che comportano un’offesa a
beni individuali rientranti nella disponibilità del titolare.
L’art. 162 ter comma 1 dispone che “nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il
giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato
interamente entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado,
il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, è ha eliminato, ove possibile,
le conseguenze dannose o pericolose del reato. zio risarcimento del danno può essere riconosciuto
anche in seguito ad offerta reale formulata dall’imputato e non accetta dalla persona offesa, ove il
giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo”.
La realizzazione di condotte riparatorie è un atto unilaterale, che consente all’autore di un delitto
perseguibile a querela di conseguire l’effetto estintivo del reato, senza che vi sia necessità che il
querelante con atto proprio rimetta la querela. In questo modo, la remissione di questa viene sottratta a
eventuali negoziazioni tra reo e persona offesa, competendo al giudice la decisione sull’estinzione del
reato.

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Oggetto della riparazione è il danno cagionato dal reato: è tale il danno civile, patrimoniale o non, che
può essere riparato o mediante restituzione o mediante risarcimento (forma specifica o per
equivalente). Può equivalere al risarcimento l’offerta reale formulata dall’imputato e non accettata
dalla persona offesa, a condizione che il giudice riconosca la congruità della somma di denaro offerta.
È richiesta l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato: occorre che l’autore,
ove possibile, reintegri il bene o i beni giuridici lesi o posti in pericolo da reato.
La riparazione, che comprende il risarcimento dei danni (patrimoniali e non) e la compensazione
dell’offesa tipica derivante dal reato, deve essere integrale affinché l’effetto estintivo si produca.
L’art. 162 ter al comma 2 prevede l’ipotesi di mancato adempimento per fatto non addebitabile
all’imputato, che può chiedere la fissazione di un ulteriore termine, non superiore a 6 mesi, per
provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento; in caso di
accoglimento della richiesta, il giudice ordina la sospensione del processo e impone specifiche
prescrizioni.
La sospensione condizionale della pena
Tra le cause di estinzione del reato vi è la sospensione condizionale della pena, disciplinata all’art 163
c.p.
La qualifica di causa estintiva di questo istituto è stata più volte contestata in quanto presenta sia
caratteri sospensivi che estintivi. Per tale ragione è stata più volte oggetto di riforma.
Tale istituto è di ispirazione anglosassone e nasce come misura volta a recuperare imputati giovani
ancora emendabili con l’aiuto e l’assistenza di tutori. Questo modello, recepito nell’Europa
continentale, ha però subito numerose modifiche e nello specifico in Italia è stato introdotto dapprima
per sottrarre dall’ambiente deleterio del carcere soggetti incensurati ritenute non pericolosi, e poi con
l’obiettivo di contrastare il ricorso a pene detentive brevi e infine oggi si può affermare che esso
svolge una funzione di prevenzione speciale fondata sulla presunzione di sufficienza della sola
pronuncia di condanna e sulla minaccia della sua futura esecuzione.
La concessione della sospensione condizionale sospende la pena principale per un periodo di 5 anni se
la condanna è per delitto, e per due anni se la condanna è per contravvenzione.
Se nei termini stabiliti, il condannato non commette un altro delitto o un'altra contravvenzione della
stessa indole e adempie agli obblighi imposto, il reato è estinto (cessa l’esecuzione delle pene
accessorie, restano in vita gli altri effetti penali della condanna).
In seguito alla riforma del ‘90, sono sospendibili condizionalmente anche le pene accessorie.

I presupposti dell'applicazione dell’istituto sono due:


1. una sentenza di condanna a pena detentiva o a pena pecuniaria che sola o congiunta a pena
detentiva non superi un determinato limite.
Il limite, con la riforma del ‘74, è stato fissato
 a due anni per i delinquenti normali
 a due anni e sei mesi per i giovani adulti (età compresa tra i 18 e i 21 anni)
 a tre anni per i minori di anni 18 e per gli ultrasettantenni
Tali limiti sono validi sia con riferimento alla sola pena detentiva, sia con riferimento
a quella pecuniaria ragguagliata ex art 135 c.p
L’ulteriore riforma del 2004 ha reso virtuale il cumulo tra pena detentiva e pena pecuniaria ai
fini del calcolo del requisito del limite massimo di pena sospendibile nell’ipotesi in cui, a
seguito di conversione della pena pecuniaria, sommando questa a quella detentiva, si superi la
soglia massimo di concedibilità del beneficio.
2. Una prognosi favorevole sulla personalità del condannato.
Il giudice, infatti, concederà la sospensione solo se, avuto riguardo delle circostanze indicati
dall’art 133, presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Questo

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presupposto però nella pratica non è rispettato e il richiamo all’art 133 appare come una mera
clausola di stile nonostante tale presupposto esprime l’essenza stessa dell’istituto.

La sospensione non può tuttavia essere concessa in presenza di alcune condizioni ostative indicate
all’art 164 secondo comma secondo il quale non può essere concessa a:
1. chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto anche se intervenuta la
riabilitazione
2. delinquente o contravventore abituale
3. delinquente o contravventore professionale
4. a chi è stata inflitta, in aggiunta alla pena, una misura di sicurezza personale in quanto la legge
presume tale soggetto pericoloso socialmente.

Il giudice può subordinare la concessione della sospensione all’adempimento di vari obblighi (ex
art 165 c.p.) ampliati ulteriormente nel 2004 tra i quali:
 obbligo di restituzione
 pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno
 pubblicazione della sentenza a titolo di risarcimento del danno
 eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato secondo le modalità indicate
dal giudice nella sentenza
 prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo non superiore alla
durata della pena sospesa.
Se la pena detentiva prevista non è superiore ad un anno e il colpevole adempie agli obblighi
risarcitori, il tempo necessario a produrre l’effetto estintivo del reato si riduce da 5 ad 1 anno.

A seguito delle prese di posizione della Corte Cost, il legislatore ha reso possibile la concessione della
sospensione condizionale a chi ne abbia già usufruito una volta.
La sospensione può essere concessa una seconda volta soltanto se:
 la pena relativa alla nuova condanna, cumulata con la precedente condanna anche per delitto,
non superi i limiti oggettivi di cui all’art 163 c.p.
 salvo che sia impossibile, il beneficiario adempia almeno ad uno degli obblighi di cui all’art
165 c.p.

La sospensione può essere revocata:


 Di diritto > se nei termini durante i quali la condanna rimane sospesa, il condannato:
1. commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta
una pena detentiva
2. non adempie agli obblighi impostogli
3. riporti un'altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pene che cumulate
con quelle precedentemente sospese superano i limiti ex art 163.cp.
 Dal giudice > se il condannato riporta un’altra condanna per delitto anteriormente commesso
a pena che cumulata con quella precedentemente sospesa non superi i limiti di cui all’art 163,
avuto riguardo all’indole o alla gravità del reato.

La sospensione del processo con messa alla prova


La legge 67/2014 ha introdotto una nuova causa estintiva del reato, denominata sospensione del
procedimento con messa alla prova, oggi regolata all’art. 168 bis c.p., che dispone: “nei
procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non
superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per

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i delitti indicata al comma 2 dell’art. 550 c.p.p., l’imputato può chiedere la sospensione del
procedimento con messa alla prova”.
La messa alla prova comporta la realizzazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze
dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso
cagionato; comporta anche l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un
programma che può implicare anche attività di volontariato di rilievo sociale o l’adempimento di altre
prescrizioni indicate.
La concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità.
Non può essere concessa per più di una volta; non può essere concessa ai delinquenti abituali,
professionali e per tendenza. Se disposta, provoca un duplice effetto:
 durante il periodo di sospensione, il corso della prescrizione è sospeso
 Nel caso di esito positivo della prova, il reato si estingue
L’introduzione di questo istituto è frutto della esigenza di deflagrare le carceri italiane, specie dopo la
condanna della Corte EDU all’Italia nel 2013 (sentenza Torreggiani).
Questo istituto solo in apparenza riprende le cadenze politico-criminali di quello previsto dalla
legislazione minorile: mente quest’ultimo svolge una funzione di prevenzione speciale, per verificare
l’effettiva personalità del minore e contribuire alla formazione e maturazione della stessa in termini di
responsabilizzazione, la messa alla prova aspira a obiettivi socialpreventivi e di deflazione della
custodia in carcere.

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