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Per Hegel, il rapporto tra delitto e pena si sposta su un piano oggettivo di relazioni logico formali. Il
delitto viene visto come negazione del diritto, la pena viene qualificata come negazione del delitto e
quindi ristabilimento del diritto. La famosa doppia negazione che dà vita alla riaffermazione del
principio. È la celebre dialettica hegeliana che si muove tra tesi, antitesi e che ricerca la sintesi.
Questo genere di argomentazioni poteva attecchire in un contesto pesantemente condizionato dalle
correnti dell'idealismo dell'Ottocento, che assegnava un posto centrale alle categorie dello spirito.
Ma è un argomentare che mal si concilia con i fondamenti secolarizzati laici delle istituzioni terrene
almeno a partire dalla società illuministica e quindi almeno a partire dal cambio di paradigma che si
è verificato nella storia del pensiero e del costume politico delle società europee a partire dalla
seconda metà del 700, quando avviene la sostituzione delle categorie esoteriche della superstizione
e del principio di autorità con la categoria dell'utile sociale filtrato e selezionato su basi razionali
secolarizzate laiche, avviene anche il divorzio con questo genere di argomentazioni. E quindi la
pena comincia ad essere pensata come una datità, uno strumento, un veicolo che deve corrispondere
a scopi, a finalità non trascendenti, non ultra-razionali, ma mondane, nel senso che si collocavano
all'interno delle cose di interesse degli uomini che utilizzavano gli strumenti della politica
istituzionalizzata per regolare la vita in comune. Gli illuministi reagivano e volevano reagire ad una
fondazione delle istituzioni punitive che si ergeva sul principio di autorità e al principio di autorità
faceva comodo richiamarsi ad una definizione in chiave retributiva del fondamento della pena. Per
quale ragione? Perché la pena in senso retributivo è la pena che si sposa con programmi arbitrari di
definizione e di gestione della criminalità. La pena retributiva è la pena degli ordinamenti totalitari,
è la pena dei sistemi in cui il potere del Principe si fondava su moduli volontaristici, cioè rispondeva
alle mere valutazioni di opportunità del detentore del potere politico. Non bisogna dimenticare che
nel concetto di retribuzioni ci sia un aspetto volto in funzione di garanzia individuale, e si parla del
criterio della convinzione. Il criterio della convinzione evoca l’idea dell’equilibrio tra il male
commesso e il male retribuito. Fondamentalmente è questa la ragione per cui il principio trova
successo nelle posizioni di Kant ed Hegel; la retribuzione, se vogliamo, è un tributo al principio
della tutela della dignità.
La teoria retributiva viene anche definita teoria assoluta della pena, poiché la retribuzione non
indica uno scopo della funzione della pena. Non va a definire uno scopo, un obiettivo della pena. La
pena è compensazione perché intervenendo dopo la commissione del reato, e in funzione di quella,
è determinata dai caratteri del reato. E quindi in questa connotazione la pena resta una datità
ontologica; quindi, della pena, la retribuzione intercetta l’essenza, non ne individua la finalità. La
pena retributiva è una pena retrospettiva, guarda al passato, si limita a prendere atto della
commissione di un reato e ne spiega l’essenza sottolineando il valore di compensazione della colpa
o dell’ordine giuridico violato. La pena sarebbe per l’appunto o uno strumento di riequilibrio del
disordine interiore provocato dalla colpa del reato commesso oppure sarebbe un mezzo per ottenere
un esito di restitutio in integrum dell’ordine giuridico violato.
C’è poi un passaggio da concezioni assolute della pena a concezioni relative. Qual è la risposta che
si dà alla domanda “perché si punisce”? L’ordinamento, che si impegna a riconoscere la coesistenza
dei diritti inviolabili e a fornirne il supporto per garantirne l’integrità della vita di tutti i giorni,
prevede uno strumento che va ad incidere su questi diritti inviolabili. Perché in un determinato
momento, rispetto a determinate tipologie di fatti umani, viene varata la norma penale? Perché si
ritiene che quel fatto, quell’episodio di vita, rappresenti un attentato ad un valore, ad un interesse,
ad un bene che, nella valutazione che viene fuori, viene considerato meritevole di tutela.
Dunque, alla domanda “perché si punisce?”, noi rispondiamo: Si punisce per raggiungere un
risultato, ossia quello di evitare, di impedire, la commissione del fatto, attraverso la minaccia della
pena. Dunque, la prima funzione della pena e del diritto penale è la prevenzione generale dei reati.
C’è una grande differenza rispetto alla pena retributiva: quest’ultima si limitava a dire “c’è stato un
reato, bisogna compensare la colpa dell’autore del reato”. La pena retributiva non guarda a futuro,
guarda retrospettivamente a ciò che è avvenuto, senza guardare alle ricadute dell’applicazione della
pena sulla persona condannata e i riflessi sul corpo sociale costituito dai potenziali futuri autori di
reati.
Vi è quindi lo scopo della sanzione penale di prevenzione generale, che riguarda il rapporto tra lo
Stato e il popolo dei futuri potenziali delinquenti, poiché l’obiettivo è quello di persuaderli dal
commettere reati, attribuendo alla minaccia di pena una funzione deterrente di intimidazione. Vi è
un altro scopo della sanzione penale: quello di prevenzione speciale, che ha lo scopo di impedire
che il condannato scivoli in una condizione di recidiva. Quindi di impedire la reiterazione conclusa.
Sia per la prevenzione generale che per quella speciale esistono due accezioni: negativa e positiva.
La prevenzione generale negativa fa leva sul potere di intimidazione della minaccia. Lo Stato affida
l’istanza di dissuasione dalla commissione dei fatti, del reato, contando sul potenziale di
condizionamento connesso alla minaccia di conseguenze. Il profilo problematico di una simile
teorizzazione si evidenzia quando si forza il rapporto di proiezione tra la gravità dell’illecito e la
gravità delle conseguenze.
Diversa è invece la concezione della prevenzione generale di tipo struttural- funzionalista che è
tributaria dell’opera di Claus Roxin. Claus Roxin è l’autore cui si deve un cambio di paradigma nei
rapporti tra diritto penale e politica criminale. I rapporti tra diritto penale e politica criminale hanno
formato oggetto di una celebre teorizzazione agli inizi del 900 da parte di Franz von Liszt un grande
penalista che schiuse nuovi orizzonti alla riflessione del diritto penale perché è stato uno dei primi
penalisti in senso stretto che ha cominciato a dialogare con le scienze ausiliarie sociali: come
statistica alla politica criminale, la clinica criminologica, e a lui si deve quello che è stato il
regolamento di confini tra il diritto penale e la politica criminale fino alla nuova ricapitolazione
operata da Claus Roxin. Sosteneva Franz von Liszt che il diritto penale rappresenta la barriera
invalicabile della politica criminale, la scienza che studia le soluzioni ritenute appropriate per
combattere la criminalità; ma questo grande laboratorio della politica criminale non è un laboratorio
che si può permettere di sfornare qualsiasi congegno, qualsiasi dispositivo ritenuto adatto allo
scopo, perché esso incontra limiti garantistici che sono costituiti da congegni del diritto penale.
Celebre è la sua definizione del Codice penale come della “Magna Carta del delinquente”, il codice
penale è il luogo nel quale il reo, il delinquente, viene considerato persona, titolare di diritti che si
contrappongono alle esigenze di sicurezza messe a fuoco dalla politica criminale.
La scuola classica fu quel movimento di pensiero che si mosse lungo i binari segnati dal liberismo
positivistico, riconosceva il libero arbitrio, concepiva la responsabilità penale come responsabilità
colpevole, quindi una responsabilità che si fondava su un atto di libera e consapevole ribellione
all’ordinamento e vedeva la pena come una forma di retribuzione per il male commesso a
testimonianza che la retribuzione è stata vissuta per un consistente periodo della propria dimensione
garantistica, perché era proprio dell’oggetto della retribuzione quello della proporzione tra il male e
la gravità dell’illecito e i contenuti afflittivi e la durata della pena.
Alla scuola classica si oppose la scuola positiva, quale fu la differenza?
Fu significativa perché mentre le scuola classica poneva al centro il reato visto come ente di
ragione; quindi, come un illecito che ripeteva i propri contenuti da leggi universali, da leggi
astoriche, valevoli in ogni tempo e luogo, la scuola positiva metteva al centro il delinquente.
Per la scuola classica senza un reato non era possibile far scattare il giudizio di responsabilità per la
commissione del reato, la quale si doveva porre in chiave di sostanziale contrappasso con il reato.
La scuola positiva si fece portatrice delle istanze di sicurezza che si levavano dalla società innanzi
all’inasprirsi i della criminalità, che tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, fu una delle grandi novità
che si affacciavano nella società europee e fu una della grandi novità che affondava le nuove radici
nella rivoluzione industriale, rivoluzione che fu anche il nuovo motore di nuove più recrudescenti
forme di criminalità, dinanzi a questa esigenza di crescente sicurezza, la scuola positiva propose un
cambio di paradigma: al centro della politica criminale non doveva esserci il reato, ma l’uomo
delinquente portatore del pericolo sociale, sicché il diritto penale veniva visto come complesso di
misure tese a neutralizzare la pericolosità sociale del delinquente, quindi non a reagire alla
commissione di un fatto di reato, ma intendeva combattere la fonte della commissione di reati che
era la propensione dei delinquenti a commettere reati e qual è la fonte di questo pericolo? La
pericolosità sociale dei delinquenti. Da qui tutta una serie di varie categorie tipologiche dei
delinquenti: per natura, per tendenza, delinquente furioso, delinquente malato etc.
Dove sta l’importanza di un pensatore come Franz von Liszt? Sta nel fatto che pur riconoscendo
che le decisioni di politica criminale che innervano il diritto penale devono trarre linfa dalle
valutazioni che fanno le scienze che osservano la realtà e i fenomeni di devianza che si svolgono
nell’ambito delle società, quindi pur essendo un penalista di nuova cultura, un penalista che vuole
far interagire con le strutture formali la normatività legale, l’anima sociale e sociologica delle
esigenze di sicurezza, tuttavia avvertì il bisogno a vista di dotare gli ordinamenti di nuove misure a
tutela della sicurezza, e della pace auspicata, avvertì l’esigenza di rivendicare la dimensione
propriamente garantistica del diritto penale, tracciando questa actio finium regundorum tra dal
diritto penale e politica criminale, e dicendo che il diritto penale è la barriera invalicabile della
politica criminale.
Cosa fa di nuovo e diverso Claus Roxin? Nel porsi il problema dei rapporti tra diritto penale e
politica criminale dice che il diritto penale non è tanto la barriera invalicabile della politica
criminale, ma è nell’essere un margine garantistico alla politica criminale anche uno strumento di
concretizzazione di esigenze politico criminali, ma nella politica criminale Claus Roxin ci mette
quelli che sono le forme di garanzia del diritto penale, ci mette il principio di legalità, principio di
materialità, il principio di offensività, il principio di colpevolezza e ci mette la funzione preventiva
della pena.
La concezione Roxiniana di diritto penale e del rapporto tra diritto penale e politica criminale è una
concezione struttural-funzionalista. Perché? Perché diritto penale per Claus Roxin è innervato da
esigenze di politica criminale, quindi è un diritto penale orientato allo scopo, ma nello stesso tempo
è un diritto penale retto da una struttura garantistica, sicché lo scopo politico criminale deve fare i
conti e svolgersi all’interno della cornice garantistica dei principi di diritto penale.
E allora, dove sta la specificità della prevenzione generale positiva integratrice di marca struttural-
funzionalista? Sta nel fatto che secondo i suoi fautori, se un diritto penale rispetta il canone
dell’estrema ratio, cioè se al diritto penale si ricorre quando tutti gli altri strumenti di tutela
sanzionatoria si rivelino inadeguati allo scopo, insufficienti a promuovere allo stesso livello le
istanze di prevenzione generale, se il diritto penale rispetta l’idea di estrema ratio, rispetta il
principio di materialità e di offensività.
La prevenzione generale positiva di matrice struttural-funzionalista, dunque, è una teorizzazione
che concepisce il diritto penale quale strumento che anche utilizzando sanzioni afflittive in quanto si
pone a tutela dei valori irrinunciabili del patto sociale ne contribuisce alla diffusione e al
consolidamento di qui la definizione di prevenzione generale positivo-integratrice o integrativa.
Interpretati nella loro assolutezza, questi due concetti, il reato come spia dell’infedeltà, come
manifestazione di ribellione nei confronti dell’ordinamento e la pena, strumento e fattore attraverso
cui l’ordinamento ribadisce l’irrinunciabilità della tutela di quei valori, costituiscono concetti che
possono attecchire in ogni tipologia di diritto penale: dal diritto penale autoritario, al diritto penale
di matrice garantista. Quindi, sono concetti eminentemente normativi che, in quanto tali, non
forniscono della pena la sua capacità di svolgere una funzione di orientamento e di indirizzo nelle
scelte di politica criminale, attraverso cui si decide cosa punire, quando punire e come punire.
Dunque, la presunzione integratrice non può essere utilizzata come criterio di indirizzo delle scelte
di politica criminale nell’ordinamento.
Qual è, sul piano della teoria generale, la differenza tra una concezione funzionalistica del diritto e
una concezione struttural-funzionalistica del diritto? Secondo la prima prospettiva, il diritto viene in
evidenza in quanto mero paradigma sociologico, ed è, dunque, affidato alle dinamiche di attuazione,
di svolgimento, di implementazione dei propri modelli di ricerca. In altri termini, non viene in
evidenza, in questa prospettiva di spiegazione, il contenuto storicamente determinato delle singole
discipline giuridicamente tutelate, si definisce un’idea di diritto, in quanto derivata dalla sua
collocazione all’interno di un sistema sociale e, quindi, quel genere di spiegazione, quel modello di
diritto, finisce per attagliarsi a tutte le società umane.
La spiegazione del diritto - sul piano della teoria generale, che assume come proprio referente la
struttura e poi, in una fase più evoluta, la fa interagire con la funzione del diritto -, invece, dedica
attenzione al contenuto delle discipline normative storicamente determinate, cioè fornisce una
spiegazione del diritto a partire dalla storicità del suo contenuto.
La prima spiegazione è una spiegazione astorica, universale, trasversale.
La seconda spiegazione risente dei tipi, dei modelli, dei paradigmi peculiari di diritto,
dell'ordinamento giuridico, insediati nei diversi Stati, nelle diverse comunità, che assumono una
disciplina giuridicamente rilevante all'interno dei loro rapporti.
Ora, perché noi definiamo struttural-funzionalista una certa idea di prevenzione generale? Perché
chi sostiene questo punto di vista intende costruire una teoria della pena a partire dagli elementi di
identificazione di un certo diritto penale che vige in un determinato contesto. Di qui la definizione
di concezione struttural-funzionalista, dove l'antecedenza dell'aggettivo “strutturale” alla “funzione”
intende rimarcare che la funzione della pena viene fatta derivare, viene ricavata, dagli elementi di
struttura del diritto penale cui quella pena accede.
Nel dettaglio, in che modo cerchiamo di definire in chiave struttural-funzionalista la prevenzione
generale positiva o positivo-integratrice?
Se vogliamo costruire la teoria della pena rispettando il volto strutturale del diritto penale
idealtipico, del diritto penale legittimo, da che cosa dobbiamo partire? Dobbiamo partire dai
principi costituzionale, poiché forniscono il quadro dell’identità del diritto penale che aspira a non
entrare in contraddizione con la Carta. il diritto penale è uno strumento intrinsecamente lesivo dei
diritti fondamentali; abbiamo aggiunto che la nostra Costituzione, come tutte le costituzioni che
appartengono alla stagione matura dell'evoluzione costituzionale dei modelli di Stato, assume
l’impegno di proteggere i diritti fondamentali di cui conosce la tenuta, l'antecedenza, rispetto alla
stessa nascita dello Stato. E, allora, come conciliare, come rapportare queste due realtà che, prese e
esaminate dal punto di vista eminentemente formale, dal punto di vista solo logico-strutturale,
evidenziano una reciproca incompatibilità? Perché la Costituzione si fa guardiana dei diritti
fondamentali, però il diritto penale è intrinsecamente uno strumento di lesione dei diritti
fondamentali e gli istituti fondamentali del diritto penale sono contemplati proprio da quella
Costituzione?
Dobbiamo fare riferimento al diritto liberale, al pensiero liberale.
Consustanziale al pensiero liberale è il riconoscimento della aconfessionalità del ragionamento, del
principio per cui una tesi, per essere accolta come relativamente fondata, si deve esporre alla critica
e ai tentativi di confutazione e, dalla resistenza a questi tentativi di confutazione, ripete un
elemento, una fonte di legittimazione. In altri termini, consustanziale al pensiero liberale è il
metodo dialettico del confronto e, quindi, dell’approvazione, dello sviluppo, di punti di vista, di tesi,
di asserti. Quand’è che un diritto ed, in modo particolare, un diritto di autorità o, meglio, un diritto
coattivo può dirsi liberale? Il diritto penale è, per eccellenza, un diritto coattivo, perché si fonda
sulla sanzione coattiva, sulla sanzione utilizzata come strumento per ottenere la conformazione
delle condotte sociali a determinate pretese normative. Quindi, per eccellenza, il diritto penale è un
diritto coattivo, è il diritto della coazione, è lo strumento del paradigma coattivo dell’intervento
politico. Quand’è che un diritto coattivo, quindi un diritto che si fonda sulla pretesa, di
un'istituzione pubblica, a orientare le condotte sociali- evidentemente servendosi di uno strumento
che deve costituire una controspinta alla spinta di violare delle norme- si può dire liberale? Quando
assume come criterio cui è tenuto a subordinare le proprie pretese l’idea del limite. Un diritto
penale, quindi, un diritto della coazione, che non coincide con un diritto legibus solutus. Quindi, un
diritto, nell’ambito del quale, il decisore – quindi chi assume le scelte di conformazione del relativo
contenuto- si muove all’interno di un regime che potremmo definire potestativo, volontaristico. Ad
esempio, nella concezione antropomorfica dello Stato, che metteva al centro la volontà delle
istituzioni, un paradigma svincolato da limiti. Poi a cavallo dell’800 comincia a farsi strada l’idea
liberale e si cominciano a pensare delle forme di limitazione di questo potere che, in tesi, avrebbe
dovuto essere illimitato. Ed è così che poi, soprattutto grazie alla dottrina del diritto pubblico
tedesco (Weber, Laband, Jellinek), dal punto di vista teorico, si costruisce un certo modo di
intendere il potere dello Stato e i diritti individuali, che noi oggi definiremmo fondamentali, che
vengono individuati come diritti pubblici soggettivi, che nascono da una autolimitazione del
concetto di sovranità, inteso come assenza di limiti al fare dello Stato.
Il diritto penale è un diritto liberale. È un diritto liberale perché è circondato da limiti; il 25 secondo
comma della Cost. ci dice che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso”. E poi questa legge non deve essere entrata in vigore
prima del fatto commesso. Cosa vuol dire? Che non ci possono essere le punizioni a sorpresa, non è
possibile pensare a interventi sanzionatori ex post factum.
Quale dovrebbe essere, dunque, il fatto meritevole di essere incriminato? Un fatto che lede un
diritto fondamentale. Nell’auspicabile simmetria teleologica del funzionamento degli organi
costituzionali, se la Costituzione tutela i diritti inviolabili e il diritto penale costituisce la lesione di
più diritti inviolabili (la libertà personale, il diritto al lavoro, il diritto di riunione, etc.), sulla base di
canoni di ragionevolezza e di proporzione, solo le avversioni di pari rango del diritto sacrificato
meritano di fare il loro ingresso nell’universo del diritto penale. Naturalmente, la realtà non è
questa, ma noi ragioniamo di una funzione deontologica della materia.
Ritornando alla teoria della pena di matrice struttural-funzionalista, il diritto penale prefigurato
dalla Costituzione è un diritto che si colloca nell’ambito del secondo comma dell’Articolo 1
Costituzione: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione”. Perché si colloca nel secondo comma? Perché il diritto penale rappresenta una forma
di esercizio della sovranità che avviene in forme prestabilite e con i limiti individuabili,
esplicitamente o implicitamente, nelle disposizioni della Carta.
Il diritto penale che aspira ad essere compatibile con la Costituzione è, innanzitutto, un diritto
sussidiario, un diritto che risponde all’esigenza dell’estrema ratio, il diritto che impone al decisore
politico di ricorrervi quando altri strumenti di tutela sanzionatoria si rivelino non altrettanto
performanti sul piano dell’efficacia preventiva.
La pena è come un farmaco: se somministrato per ogni singola evenienza, a prescindere dalla sua
rilevanza, rischia di divenire, di fatto, inefficace, o al più di svolgere una funzione placebo, una
funzione di significato positivo solo nell’illusione delle persone, ma non nell’effettività del
funzionamento di contenuti.
Il diritto penale ad orientamento costituzionale è il diritto penale dell’extrema ratio è il diritto
penale del fatto e non diritto penale dell’autore (si riferisce a ciò che si fa e non a ciò che si è), il
diritto della risposta sanzionatoria proporzionata e diritto della risposta sanzionatoria utile (utile a
cosa? Utile alla reiterazione, alla prospettiva di abbassare i tassi di criminalità, etc.).
Se questo è il modello ideale del diritto penale, è il modo in cui il diritto penale dovrebbe essere,
come potrebbe essere costruita una miglioria della pena coerente con questo paradigma? Potremmo
ripiegare sulla soluzione interna meramente funzionalistica? Oppure potremmo accontentarci di una
visione del reato come una forma di ribellione alla legge; dunque, la pena come uno strumento di
ricomposizione della frattura che il reato ha creato?
La protezione generale positivo-integratrice ci dice che cosa? Che la minaccia della pena,
all’interno di un sistema di un diritto penale ricostruito sulla base di principi enunciati, non vuole
essere soltanto una forma di dissuasione dal comportamento socialmente indesiderato.
I teorici della produzione generale positiva non di matrice funzionalista, in buona sostanza,
privilegiano un punto di vista descrittivo, mentre noi invece vogliamo assegnare alla teoria della
pena un significato prescrittivo, un significato deontologico, un significato di indirizzo delle scelte
del legislatore e quindi, di controllo critico delle scelte effettuate.
I teorici della prevenzione generale positiva di matrice struttural-funzionalista intendono
sottolineare che il messaggio che comunica la minaccia di pena è un messaggio che ingloba in sé
tutti i valori positivi che sono incatenati dalle norme e dalle radici che vietano i fatti di reato. La
prevenzione generale positivo-integratrice di matrice struttural-funzionalista è la teoria della pena in
cui si combinano il messaggio persuasivo e il messaggio dissuasivo, in questo senso la prevenzione
generale positivo-integratrice è uno strumento che intende concorrere alla diffusione dei valori
positivi tutelati dalle norme incriminatrici e intende concorrere anche alla sensibilizzazione degli
aspetti di devianza etico-sociale dei valori protetti dalle norme individuali. In questo senso, la
prevenzione positivo integratrice è strumento liberale-qualificativo o è strumento di politica
criminale liberale, perché realmente potrebbe funzionare da strumento di indirizzo dell’attività del
legislatore nella lezione voluta dall’ordinamento costituzionale, perché noi a quali condizioni
possiamo persuadere e non soltanto dissuadere? Una continuità che si riconosce nei pluralismi
ideologici, della tutela della manifestazione del pensiero, della libertà di religione, della libertà in
senso politico, a quali condizioni l’ordinamento che rispetta queste libertà può porre su di sé il
compito di orientare anche dal punto di vista pedagogico-didascalico delle condotte sociali, sempre
evitando che il diritto penale diventi uno strumento per colpire l’avversario politico, per colpire la
diversità culturale, religiosa, ideologica, uno strumento in altri termini in cui si perpetuano le
differenze sociali.
Operando un giudizio su queste teorie, è assolutamente preferibile accogliere, nel proprio studio
della materia, la teoria della prevenzione generale positiva di matrice struttural-funzionalista.
È addirittura preferibile la prevenzione generale negativa rispetto alla teoria di prevenzione generale
non di matrice funzionalista in quanto quest’ultima è, essenzialmente, una teoria di radice
descrittiva.
La prevenzione speciale è l’unico aspetto della teoria della pena di cui si occupa la Costituzione. La
Costituzione si occupa di pene questo all’articolo 27 terzo comma e nell’occuparsi di pene prende
esplicita posizione sulla funzione della pena, quella che noi etichettiamo come di prevenzione
speciale. Le pene, dice l’articolo 27 terzo comma : ‘’non possono consistere a trattamenti
contrari al senso di umanità’’ e ‘’devono tendere alla rieducazione del condannato’’.
Giustizia riparativa e condotte riparatorie
Dobbiamo essere attenti da un punto di vista semantico a distinguere la giustizia riparativa da forme
estintivo-riparatorie del reato che nel nostro ordinamento hanno già da tempo ampia
sperimentazione.
Quindi un conto è la giustizia riparativa, altra cosa sono le eventuali condotte riparatorie, tese cioè
ad eliminare conseguenze dannose del reato che possono avere anche capacità estintiva del reato
stesso. Nel Codice penale troviamo all’art 162ter proprio una disposizione di recente conio che è
rubricata appunto ESTINZIONE DEL REATO PER CONDOTTE RIPARATORIE. Cosa significa
condotta riparatoria? Significa condotta che evidentemente elimina le conseguenze dannose del
reato, e già qui si dovrebbe fare una riflessione: perché la pena deve per forza presentare un surplus
costitutivo rispetto alla mera riparazione del danno? Perché altrimenti la riparazione del danno
diventerebbe il prezzo che si può legittimamente pagare per delinquere liberamente. Quindi quando
anche parliamo delle implicazioni delle condotte riparatorie in diritto penale dobbiamo
necessariamente confrontarci con questa matrice costitutiva, cioè quella secondo la quale la pena
deve necessariamente consistere in un pati, in una sofferenza ulteriore rispetto alla mera restitutio in
integrum o alla riparazione della situazione preesistente. Allora se questo è l’orizzonte concettuale
nel quale ci muoviamo dobbiamo chiederci: ma perché esistono e a quali condizioni esistono
meccanismi riparatori che hanno addirittura effetto estintivo del reato? A questo proposito la prima
cosa da dire è che generalmente non si tratta di meccanismi generali, cioè che valgono in ogni
ambito del diritto penale. Si tratta più frequentemente di discipline settoriali. Perché? Perché
esistono determinati ambiti di diritto penale nei quali il legislatore da una parte potremo dire che
ricorre alla sanzione penale in chiave accessoria rispetto a itinerari sanzionatori di altro genere,
dall’altra perché la sanzione penale diventa, nell’ottica della minaccia della pena, uno spauracchio
ulteriore rispetto a tenere una determinata condotta. Tutto ciò posto però in questi ambiti la
tipologia di intervento penale, normalmente attraverso reati in pericolo e addirittura attraverso
fattispecie contravvenzionali, ci segnala che l’effetto sanzionatorio non è altro ciò che vuole il
legislatore in via indiretta. L’effetto sanzionatorio non è altro che la conseguenza ultima rispetto a
chi non interviene per salvare il bene giuridico protetto.
Esempio per comprendere meglio:
DIRITTO PENALE TRIBUTARIO - omesso versamento di ritenute o di iva. In cosa consiste il
reato? Io dichiaro all’agenzia delle entrate che devo pagare una certa somma a titolo di iva o di
ritenute previdenziali per l’anno corrente e lo dichiaro in maniera assolutamente genuina, ma non
pago. Se il mancato pagamento supera una certa soglia (per l’IVA 250.000 euro) è reato ed è punito
con la reclusione fino a 2 anni. Quindi una sanzione non particolarmente elevata e mi chiedo:
secondo voi qual è l’interesse preminente che sta alla base della tutela penale?
a) la punizione dei trasgressori
b) trovare il modo anche attraverso il diritto penale di indurre al pagamento colui che aveva omesso
la prestazione contributiva
La risposta mi pare scontata e allora art 13 del d.lgs 74 del 2000: “se l’imputato paga prima
dell’apertura del dibattimento -in primo grado naturalmente- il reato è estinto” deve pagare non solo
la sorta capitale omessa, ma anche gli interessi e le sanzioni amministrativo-tributarie del diritto
tributario, che quindi hanno una funzione aggravio del tasso sanzionatorio, però il reato è estinto.
Perché evidentemente non solo dal tasso sanzionatorio desumiamo che non si tratta di condotta
ritenuta particolarmente grave da un punto di vista penale, ma d’altro canto è condotta grave dal
punto di vista degli interessi dell’amministrazione tributaria.
SOLUZIONE: c’è la minaccia di pena, ma prima ancora di arrivare alla fase dell’accertamento della
responsabilità e quindi della decisione su eventualmente quanta pena irrogare, la legislazione penale
apre una via d’uscita dal penale che ha la capacità di ricomporre il bene giuridico offeso dalla
condotta criminosa; pago ed estinguo il reato.
Qual è la caratteristica fondamentale della giustizia riparativa? La promozione di percorsi
conciliativi tra l’autore del reato e la vittima (dove per vittima può anche non essere la stessa
persona fisica che ha subito il reato, nell’omicidio evidentemente la vittima è il deceduto, ma in
senso lato le persone offese -quindi le vittime secondo la nomenclatura utilizzata nei decreti
legislativi di attuazione della cd. Riforma Cartabia- la vittima possono essere anche i familiari del
de cuius).
In un’ipotesi di questo genere, l’itinerario di giustizia riparativa comporterebbe un riavvicinamento
conciliativo mediato da un terzo estraneo che è diverso dal giudice tra la persona offesa o comunque
tra chi subirà le conseguenze dannose, anche inteso come sofferenza morale-psicologica del reato e
chi, di quel reato, è autore.
Esistono già nel nostro sistema penale istituti espressione di giustizia riparativa?
Gli istituti sono tre (in realtà per tipologia sono due):
1. MESSA ALLA PROVA NEL PROCEDIMENTO PENALE MINORILE
2. MESSA ALLA PROVA NEL PROCEDIMENTO PENALE PER MAGGIORENNI
3. ISTITUTO DELLA GIURISDIZIONE PENALE VIVACE, CIOÈ UN ISTITUTO CHE FA
PARTE DEL D.LGS. 274 del 2000 SULLA ISTITUZIONE DEL GIUDICE DI PACE PENALE
Storicamente il primo istituto tra i tre è la messa alla prova minorile art 28 del DPR 448 del 1988.
Articolo 27 disposizioni di attuazione del processo penale minorile: si prevede espressamente che il
programma di prova debba favorire la conciliazione tra l’imputato e la vittima.
Perché è problematico che la prima sperimentazione di giustizia riparativa nel nostro ordinamento
sia stata compiuta in ambito minorile? Perché ovviamente le caratteristiche del giudizio penale
minorile sono molto diverse da quelle del giudizio penale a carico dei maggiorenni. Ciò nonostante,
il procedimento penale minorile è stato una fucina di nuovi istituti per il diritto penale dei
maggiorenni -messa alla prova, particolare tenuità del fatto- sono istituti che sono nati in ambito
minorile e che di recente, diciamo dal 2014/2016, abbiamo trasferito nel sistema penale ordinario.
La messa alla prova minorile fa espresso riferimento ai tentativi di conciliazione tra il minore,
autore del reato, e la sua vittima quale momento del percorso di prova. Ecco perché è un istituto
espressione di giustizia riparativa, perché contiene tra i suoi presupposti operativi quanto meno
un tentativo di conciliazione, di incontro mediato da un terzo estraneo al fatto di reato e diverso
dal giudice che lo sta processando.
Cos’è dunque la messa alla prova minorile?
Nel procedimento penale minorile la pena persegue uno scopo sostanzialmente diverso da quello
scolpito nell’art 27 comma 3 della costituzione: noi leggiamo che “la pena ha funzione
tendenzialmente rieducativa”, ecco nel processo penale minorile (lo dice la Corte Costituzionale
sentenza 168 del 1994) “il processo penale ha una funzione educativa, non può essere un
momento di rieducazione perché molto semplicemente il minore non ha ancora compiuto il
percorso educativo, quanto meno quello su base legale, nel senso che la maggiore età -18 anni-
dovrebbero rappresentare il culmine del percorso educativo dell’essere umano nel nostro paese. Se
l’imputato minorenne per definizione non aveva compiuto 18 anni al tempo in cui ha commesso il
reato, evidentemente la pena non può avere una funzione rieducativa, ma una funzione educativa.
Questo non significa che il minore autore del reato avrà garantito che non entrerà in un istituto
penitenziario minorile, cioè in carcere; significa però che l’autorità giudiziaria deve individuare il
percorso processuale e sanzionatorio più idoneo per raggiungere l’obiettivo educativo
dell’imputato.
Tra i modelli alternativi di definizione del processo penale minorile c’è la sospensione del processo
connesso alla messa alla prova. Questa sospensione:
Può essere richiesta per qualunque fatto di reato (il minore deve essere messo alla prova
anche se autore di un omicidio volontario);
Nel sistema penale minorile la messa alla prova non conosce limiti, è applicabile a
qualunque fatto di reato, qualunque sia la pena.
In cosa consiste questo modello definitorio del processo? All’udienza preliminare, l’imputato
rinuncia al dibattimento e all’accertamento probatorio della sua attuale responsabilità, e propone al
giudice, con il supporto del proprio difensore come suo rappresentante tecnico (ma soprattutto dei
servizi sociali sia dell’amministrazione della giustizia sia quelli territoriali) un programma
comportamentale, chiedendo dunque al giudice di sospendere il procedimento e di rivalutare la sua
personalità all’esito del periodo di svolgimento di questo programma. Dunque, la sospensione del
procedimento penale avviene durante la fase dell’udienza preliminare.
La durata della sospensione del processo è normalmente di 1 anno, ma arriva fino a 3 anni per i fatti
di reato puniti con la reclusione non inferiore a 12 anni.
È chiara la valenza educativa in quanto non c’è assolutamente nulla di sanzionatorio, non c’è il pati
della sanzione penale, e questo è stato confermato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza
68/2019 che la messa alla prova minorile non presenta alcun tratto sanzionatorio in quanto il suo
obiettivo è l’educazione dell’imputato al punto che se all’esito della prova l’imputato dimostra di
aver positivamente migliorato la sua personalità il reato è estinto art. 29 DPR 448/1994,
qualunque fosse il titolo di reato.
In caso di esito negativo della prova, il processo riprende da dove si era sospeso, e l’imputato
riacquista tutti i poteri processuali per scegliere come risolvere la propria vicenda, dal giudizio
abbreviato al passaggio in dibattimento e via discutendo. Il periodo di sospensione del processo con
messa alla prova, in caso di esito negativo, non è considerato presofferto in ambito minorile, per i
maggiorenni sì, in che senso? Se, durante il procedimento penale, l’indagato prima e l’imputato poi
si trova a una condizione di limitazione della propria libertà personale, quel periodo in cui ha
conosciuto una limitazione della libertà personale verrà decurtato dalla pena che gli verrà
concretamente inflitta dal giudice all’esito del processo.
Esempio: custodia cautelare in carcere
Tizio diviene destinatario di una misura cautelare, della custodia cautelare in carcere, e trascorre
due anni in stato di reclusione, viene condannato alla pena di dieci anni, ne sconterà otto
ovviamente, perché i due che ha trascorso in custodia cautelare intramuraria sono considerati
presofferto, cioè gli valgono sulla pena da scontare. In ambito minorile l’eventuale esito negativo
del periodo di prova non viene riconosciuto come presofferto. quindi se il minore ha trascorso un
anno di prova, ma questa non ha avuto esito positivo, non solo il processo ricomincia, ma
quell’anno trascorso a fasi alterne sotto il programma di prova, non gli viene riconosciuto come
presofferto.
La sospensione del procedimento con messa alla prova è un istituto della fase di cognizione del
processo: significa che il soggetto che ha compiuto i 18 anni e che va processato per un fatto
commesso prima e non è stato ancora sottoposto a processo, potrà essere giudicato secondo la
disciplina del rito minorile. Se, invece, ha commesso il fatto da minore ma diventa maggiorenne
prima dell’esecuzione penale, fino ai 25 anni può accedere alla disciplina dell’esecuzione minorile
nella quale troviamo l’affidamento in prova al servizio sociale come misura penale di comunità.
Dunque, fino ai 25 anni, purché non abbia fatto ingresso in un istituto penale per maggiorenni: se ha
commesso un altro fatto di reato da maggiorenne per il quale è entrato in carcere, quello per i
maggiorenni, anche l’esecuzione per il reato commesso da minorenni seguirà la disciplina
dell’esecuzione penale ordinaria.
Nel processo penale minorile si favorisce, quindi, la conciliazione, ma nulla è detto su come questa
debba avvenire. L’imputato minorenne ha diritto all’assistenza del servizio sociale, diritto di cui
non gode il maggiorenne. Nel processo penale minorile, quindi, oltre alle parti, c’è un soggetto in
più che è il servizio sociale. Soggetto pubblico che non troviamo nel processo penale ordinario.
Nel processo penale minorile non esiste la costituzione di parte civile; quindi, la persona offesa non
ha il diritto di assurgere al rango di parte del processo, perché non può avanzare pretesa risarcitoria
nei confronti del minore. perché il minore come potrebbe pagare il risarcimento del danno?
Pagherebbe qualcuno per lui, quindi per evitare il carico di pathos per la presenza della parte privata
il legislatore ha deciso di non consentire la costituzione di parte civile nel processo.
Perché la presenza del servizio sociale è importante nel processo minorile? Perché sarà compito del
servizio sociale verificare se il minorenne è in grado di instaurare un dialogo conciliativo con la
vittima (se il minorenne non è in grado, evidentemente non sarà proposto il percorso).
Quand’è che al minore verrà proposto di conciliare con la vittima? Quando si ritiene che l’incontro
con la persona che ha danneggiato possa essere funzionale al suo percorso educativo. Viene
regolata dal servizio sociale e in caso portata al cospetto dell’autorità giudiziaria, ma non ha una
disciplina di dettaglio. Invece nel decreto di ottobre c’è una disciplina procedurale molto
approfondita, e viene disciplinato l’intervento di un soggetto terzo professionale: il mediatore.
Il mediatore ha il compito di individuare il metodo attraverso cui provare ad ottenere la
conciliazione tra l’imputato e la sua vittima (a condizione che entrambe le parti abbiano
preventivamente acconsentito).
Al primo comma vi è l’indicazione di quali reati possono essere giudicati attraverso la sospensione
del procedimento, e da qui desumiamo che non si tratti di un istituto di portata generale bensì
limitato per tipologie di reati. L’elenco è tassativo.
Fondamentale la lettura del secondo comma, poiché lì vi è l’ubi consistam della prova. Vi è la
componente riparatoria, poi quella risarcitoria, poi c’è una dimensione di utilità sociale della prova,
lavoro di pubblica utilità o svolgimento di attività di volontariato sociale, unitamente alla possibilità
di limitazioni nella propria libertà di movimento o frequentazione di determinati locali. Non vi è,
però, una parte sulla conciliazione con la vittima. Questa parte la ritroviamo, invece, alla lettera C
dell’articolo 464 bis del Codice di procedura penale, anche se la disposizione non menziona le
modalità di applicazione della mediazione, se non per la parte relativa all’affidamento dell’imputato
al servizio sociale che fa immaginare un coinvolgimento del servizio in questo tentativo di
mediazione.
Un significativo passo in avanti nella disciplina della giustizia riparativa si compie con i decreti di
attuazione della Riforma Cartabia.
In primo luogo, si istituzionalizza il metodo della conciliazione, dunque si impone da parte
dell’autorità giudiziaria innanzi alla commissione di qualunque fatto di reato un dovere informativo
nei confronti dell’imputato: un onere informativo funzionale ad avvisare l’imputato della possibilità
di accedere alla mediazione con la vittima.
Diversamente dalla messa alla prova, il legislatore ha disciplinato in maniera puntuale la
mediazione: ha identificato il soggetto istituzionale chiamato proceduralmente a governare
l’incontro conciliativo tra l’autore dell’offesa e la vittima.
Qui c’è un raro caso di una legge penale che comporta un impegno di spesa per l’ordinamento. La
legge penale è una di quelle poche tipologie di legge che non comportano un impegno di speso. In
questo caso invece, il legislatore ha individuato un budget di spese da destinare non solo alla
formazione dei mediatori, ma anche alla costituzione degli istituti dove si andrà a svolgere la
mediazione (istituzionalizzazione degli enti che si occupano esclusivamente di questo aspetto).
-Un altro esempio, sentenza 22 del 1971 in tema di limiti edittali massimi per il furto, la Corte
afferma: “va escluso che il fine rieducativo sia l’unico della pena, atteso che tale fine attiene non
solo e non tanto alla durata della pena stessa, quanto e soprattutto al suo regime di esecuzione”.
Qui è già una giurisprudenza matura rispetto all’idea di assegnare a ciascuna fase della dinamica
sanzionatoria il compito di abbracciare e di accogliere in chiave prevalente una piuttosto che l’altra
teoria della pena. Questa logica è assolutamente sbagliata e oggi rifiutata dalla Corte costituzionale.
Quindi, la prima stagione della polifunzionalità è una stagione ambigua, nel senso che la Corte
utilizza questo argomento per confinare alla fase della mera esecuzione il principio rieducativo,
riconoscendo la prevalenza delle altre funzioni della pena nella fase della combinatoria edittale e in
quella successiva giudiziale.
-Sentenza 167 del 1973, qui la Corte afferma: “il fine rieducativo non confligge ma si coordina con
le altre finalità della pena e anzi attiene specificamente al suo momento esecutivo, sicché non può
trovare applicazione nei confronti delle pene sospese e delle misure di sicurezza”. Qui addirittura la
Corte, in chiave a contrario, afferma che nel momento in cui la pena non conosce esecuzione, per
esempio per effetto della sospensione condizionale, venendo a mancare la fase esecutiva viene a
mancare anche la prospettiva educativa. È evidente che questo percorso avrebbe portato a
conseguenze distoniche con il complesso dei principi costituzionali, quindi teniamo conto di questo
momento come un momento di iniziale sviluppo della logica stessa della polifunzionalità;
successivamente ci sarà una declinazione di questo concetto completamente diversa, declinazione
secondo la quale tutte le funzioni della pena devono convivere in ciascuna delle fasi della dinamica
sanzionatoria, al punto che la logica rieducativa deve finanche partecipare all’individuazione
della dosimetria sanzionatoria astratta nella fase della previsione edittale, cioè il legislatore nel
momento stesso in cui fissa le cornici edittali non può abiurare a ragionare sulle prospettive
rieducative che quelle cornici edittali avranno per il soggetto che sarà eventualmente condannato
per aver tenuto quel comportamento illecito.
Dunque, fino alla riforma penitenziaria del 1975, momento in cui il nostro ordinamento si congeda
dall’ordinamento penitenziario fascista, la Corte costituzionale si mostra ben disposta a recepire
l’innovativa prospettiva avanzata da Giulio Vassalli, utilizzando, però, quella chiave di lettura per
difendere l’assetto del sistema sanzionatorio vigente, che era ancora ancorato al sistema
sanzionatorio e dell’esecuzione penale dell’ordinamento fascista.
Nel 1974 accade qualcosa di importante sul piano della giurisprudenza costituzionale, che attiene
alla pena dell’ergastolo. Nel 1974 ci sono due pronunce della Corte costituzionale: una
espressamente in tema di ergastolo, l’altra in tema di liberazione condizionale, che affermano la
compatibilità dell’ergastolo con il nostro sistema penale e in particolare il principio rieducativo
della pena.
Dunque, il termine compare per la prima volta nel codice Zanardelli con una funzione di
implementazione delle garanzie perché sostituisce la pena di morte, cioè l’ergastolo fa la sua
apparizione in un codice liberale che aveva dichiaratamente ripudiato la pena di morte. Ma che
significa ergastolo? Perché si utilizza questa parola nel nostro ordinamento? Anche qui, sia l’aspetto
etimologico che quello storico è particolarmente interessante: la parola deriva dal greco, dal verbo
ergàzomai (lavorare), in particolare dal suo sostantivo costrutto ergastérion (officina, officina,
laboratorio di lavoro) e questo è un dotto riferimento del codice Zanardelli, perché il codice
Zanardelli utilizza questa parola in sostituzione della locuzione “lavori forzati a vita” che
campeggiava nel codice sardo-piemontese del 1859 che sostanzialmente è una base strutturale del
codice Zanardelli.
Quindi qual è l’idea sotto la quale nasce l’ergastolo? È che sia appunto una pena alla condanna al
lavoro a vita e non è un caso che nell'articolo 22 del Codice penale, tra gli obblighi dell’ergastolano,
ci sia quello del lavoro.
Art. 22 c.p.: “La pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli
stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento
notturno. Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro
all'aperto”.
L’isolamento notturno si può tuttavia considerare una prescrizione superata. Nella definizione
storica che il codice Rocco dà dell’ergastolo ricorre l’idea del lavoro forzato a vita, quindi
detenzione accompagnata dal lavoro. Nel nostro sistema esistono diversi tipi di ergastolo. Oggi
possiamo polarizzare la nostra attenzione attorno a due tipi di ergastolo: l’ergastolo comune e
l’ergastolo ostativo, ma in realtà fino al 2018 esisteva una terza tipologia di ergastolo, definita da
una parte della dottrina appunto ergastolo del terzo tipo perché in qualche modo combinava le
possibilità dell’ergastolo comune e taluni limiti dell’ergastolo ostativo.
Prima cosa da considerare, quando si parla di ergastolo, si dice impropriamente ergastolo, in quanto
bisogna usare il termine ergastolo solo se si fa riferimento all’ergastolo comune, diversamente
bisogna usare il termine ergastolo ostativo.
L’ergastolo comune è quello disciplinato dall’art. 22 del c.p.; l’ergastolo ostativo, invece, è
quello nel quale alla disciplina dell’art 22 c.p. dobbiamo affiancare la disciplina dell’art. 4 bis
della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, perché è in questa disposizione che noi
troviamo le condizioni che ostano, ecco perchéé ostativo, alla concessione di determinati benefici
penitenziari al detenuto ergastolano, ma soprattutto le condizioni che ostano alla liberazione
condizionale, art. 176 c.p.
Qui dobbiamo ora fare un passo indietro, dobbiamo chiederci: se l’ergastolo si caratterizza per
l’essere una pena perpetua, un istituto nel quale la privazione della libertà personale è indefettibile,
definitiva, come potrebbe assolvere ad una funzione rieducativa? Cioè la rieducazione, o meglio
ancora la risocializzazione, è tale perché guarda al futuro reinserimento sociale del condannato nel
tessuto sociale, non dovrebbe avere affatto senso parlare di prospettiva risocializzante in una pena
che per definizione non finirà mai se non con la morte del condannato. Consideriamo che nei
sistemi informatici dell’amministrazione della giustizia, il detenuto ergastolano viene indicato come
fine pena 31 dicembre 9999.
Perché dovremmo interrogarci sulle prospettive risocializzanti di una pena per definizione
perpetua?
La Corte costituzionale ha provato a dare una risposta con la sentenza 264/1974, dicendo che
l’ergastolo non è illegittimo poiché la Costituzione non l’ha bandito dal nostro sistema giuridico.
Addirittura, in alcuni casi si è parlato, piuttosto che di prospettiva risocializzante o rieducativa, di
funzione di non ulteriore desocializzazione, dunque declinando l’art.27 comma 3 secondo una
logica diversa, non in una chiave positiva (funzione risocializzante) ma in una chiave negativa (non
ulteriore desocializzazione). Un artifizio retorico molto funzionale in quanto, per provare la non
ulteriore desocializzazione dell’istituto penitenziario, basterebbe dimostrare l’accesso a tutte le
attività intramurarie per l’ergastolano.
Art. 27 comma 3 Cost.: Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
Quale può essere la prospettiva di salvaguardia di una funzione rieducativa della pena
in una pena perpetua? La risposta sarebbe semplicemente “facendo essere non
perpetua la pena che invece nasce come perpetua”, negare, dunque, il presupposto
della perpetuità. L’ordinamento, quindi, va ad individuare le condizioni in presenza
delle quali la pena dichiarata come perpetua cessa di essere tale, e il riferimento è alla
disciplina della liberazione condizionale art. 176 c.p. : “Il condannato a pena detentiva
che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere
sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato
almeno trenta mesi e comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena
non superi i cinque anni.”
Art 176 comma 3 (che è quello che ci interessa): “Il condannato all'ergastolo può essere ammesso
alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena.”
Dunque, il combinato disposto dell’art. 22 e del 176 comma 3 ci mette sulla via di una possibile
compatibilità (almeno astratta) tra l’ergastolo e la funzione rieducativa della pena scolpita nell’art.
27 comma 3 Costituzione. Per raggiungere questa astratta compatibilità si deve necessariamente
derogare alla perpetuità della pena dell’ergastolo.
La caratteristica dell’ergastolo comune, dunque, è quella di non essere una pena perpetua, e proprio
questa caratteristica ha consentito alla Corte costituzionale (sentenza 264/1974) di ritenere
l’ergastolo compatibile con l’art. 27 comma 3 della Costituzione.
Quando il nostro ordinamento commina l’ergastolo? In linea di principio i settori nei quali troviamo
come pena l’ergastolo sono i delitti contro la pubblica incolumità ma anche delitti contro la
personalità dello Stato ma, curiosamente, anche fattispecie ritrovate nel contesto dei delitti contro il
patrimonio. Dunque, non è prevedibile il contesto sistematico nel quale potremmo trovarci al
cospetto della pena dell’ergastolo. Tanto più è confermato se leggiamo l’art. 73 c.p. comma 2 che
disciplina il concorso di reati che importano pene detentive temporanee o pene peculiari della stessa
specie, comma 2-> quando concorrono più delitti, per ciascuno dei quali debba infliggersi la pena
della reclusione non inferiore a 24 anni, si applica l’ergastolo. Dunque, in questo caso l’ergastolo
non è frutto di un’espressa previsione edittale da parte del legislatore ma risultante dalla
commistione di più fatti o reati in concorso. Sono stati espressi dubbi sulla legittimità costituzionale
del secondo comma, in considerazione del fatto che la comminazione della pena perpetua
renderebbe impossibile la rieducazione del condannato (Sent. 168/1994 Corte cost.). La Cassazione
ha fugato tali dubbi, sostenendo che nel nostro ordinamento non vige il principio dell’inderogabilità
dell’integrale attuazione della pena, sicché anche i condannati all’ergastolo, trascorso un
determinato periodo, hanno diritto a che si valuti se la quantità di pena già espiata abbia assolto al
suo fine rieducativo, con la rinuncia, condizionata o definitiva, da parte dello Stato alla sua ulteriore
pretesa punitiva.
Art. 72 comma 2 ci descrive anche una variante dell’ergastolo, l’ergastolo con isolamento diurno;
dunque, si accompagna una particolare modalità esecutiva della pena che determina un ulteriore
carico di sofferenza.
Molto più importante è discutere dell’ergastolo ostativo. L’ergastolo ostativo, invece, è quello nel
quale alla disciplina dell’art 22 c.p. dobbiamo affiancare la disciplina dell’art. 4 bis della legge
354/1975. È ostativo perché a quel tipo di condannati è impedito l’accesso ai benefici penitenziari
di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
Cosa prevede l’art. 4 bis? Prevede l’esclusione da tutti i benefici penitenziari e dalla liberazione
condizionale, non abbiamo semplicemente un trattamento di tipo penitenziario, ma abbiamo un
meccanismo grazie al quale quella pena che nasceva perpetua, che era diventata potenzialmente non
perpetua, torna ad essere perpetua, cioè per l’ergastolano in contesto mafioso, il legislatore
impedisce l’accesso alla liberazione condizionale nei termini in cui è consentita all’ergastolano
ordinario. Anche in questo caso c’è una deroga perchè anche all’ ergastolano ostativo è concesso di
ritornare alla liberazione condizionale nel caso in cui collabori con la giustizia. In realtà questa
dicitura è recente perchè nella struttura originaria del 4 bis si faceva riferimento ad “elementi tali da
far espludere la attività di collegamenti con la criminalità organizzata o regressiva” quindi all inizio
non era espressamente richiesta la collaborazione, oggi invece nell’ art. 4 bis l’ordinamento
penitenziario prevede che la condizione d accesso alla liberazione condizionale sia la collaborazione
con la giustizia.
In cosa consiste la collaborazione? In circostanze che attengono alla propria responsabilità penale e
all’altrui responsabilità penale in relazione a delitti avvenuti in un contesto in cui si avverte la
criminalità organizzata di stampo mafiosa, la posizione del pentito. In realtà è un termine improprio
di pentito, non si chiede un pentimento in senso morale ma ovviamente in senso sociale che sia
dimostrato con la collaborazione con la giustizia, (giusto per fugare eventuali nostri possibili dubbi)
la collaborazione può essere tanto effettiva, quindi io infierisco su fatti che l’autorità giudiziaria non
conosce, quindi grazie al contributo fa più luce su vicende ancora oggetto di indagini; ma grazie
all’intervento della Corte costituzionale la collaborazione può essere anche impossibile, cioè una
collaborazione su fatti già stati oggetto di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria,
ricordiamoci il contesto in cui ci troviamo, non per forza soggetti che appartengono all’
associazione mafiosa ma anche soggetti estranei o chi ha commesso delitto aggravato; per costoro
deve essere molto più complicato riferire circostanze ignote all’autorità giudiziaria perché per
definizione non partecipano al vincolo associativo. Quindi per costoro si apre la possibilità di
collaborazione impossibile, riferita a fatti già oggetto di accertamento processuale.
È razionale, in confronto con la disciplina ordinaria della liberazione condizionale, che
l’ordinamento conceda l’accesso a quell’istituto esclusivamente all’ergastolano ostativo in ragione
della sua collaborazione? La collaborazione ci dà davvero prova di resipiscenza, di risocializzazione
da parte di questo soggetto? Oppure il soggetto viene strumentalizzato dall’ordinamento nella
misura in cui io ordinamento ottengo la collaborazione dietro la minaccia della privazione
dell’accesso ai benefici all’accesso piuttosto che alla liberazione condizionale, in altri termini il
sistema si fonda su una presunzione, ti presumo pericoloso finché non collabori con la conseguenza
che se collabori non ti presumo più pericoloso, è ragionevole questa presunzione?
La detenzione perpetua esiste anche in altri ordinamenti, e l’idea stessa della detenzione perpetua è
arrivata anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Abbiamo due sentenze:
2008, Kafkaris verso Cipro;
Vinter verso UK.
Queste sentenze rappresentano due decisioni nelle quali la CEDU ha offerto la sua idea di
compatibilità convenzionale della detenzione perpetua. Nella sentenza Kafkaris la Corte mette la
pietra angolare dell’intero edificio dicendo: “la pena perpetua è compatibile quando è riducibile”
quindi dobbiamo prendere atto che l’idea di una pena perpetua non può esistere neanche a livello
convenzionale; quindi, è incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma nella
sentenza Vinter si pretende che il condannato sappia cosa può fare per rendere la pena
dell’ergastolo non perpetua, sia preventivamente informato di quali sono i percorsi da intraprendere
per rendere la pena non perpetua e che abbia il diritto ad un giudice dinnanzi al quale innalzare la
propria richiesta di modificazione della pena perpetua.
Se questi sono i requisiti essenziali fissati dalla giurisprudenza di Strasburgo potremmo dire che il
nostro ergastolo ostativo non è incompatibile con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, noi
potremmo dire che il condannato sa cosa fare per sfuggire alla pena perpetua (collaborare con la
giustizia) e ha un giudice al quale chiede di verificare la sua sopravvenuta non pericolosità tale da
accedere ai benefici e alla liberazione condizionale: questa logica ha portato la corte costituzionale
italiana con la sent.135 del 2003 a dichiarare infondata la questione di legittimità sull’ergastolo
ostativo. Nella sentenza 135/2003 la Corte spiega che, consentendo la collaborazione, si esclude
qualsiasi automatismo degli effetti della teoria ostativa, non c’è alcun automatismo decisorio se il
condannato collabora per scelta propria e rimette al giudice, il quale dovrà valutare se quella
collaborazione, unita al comportamento del detenuto, sia meritevole di un accesso alla liberazione
condizionale.
Le cose mutano nella sentenza Viola verso Italia, oggetto dell’attenzione della CEDU: requisiti
essenziali non sono più la conoscibilità dell’istituto grazie al quale può accedere alla libertà e la
mera possibilità di avere un giudice al quale appellarsi, bensì la ragionevolezza dell’idea in base alla
quale se c’è collaborazione c’è meno pericolosità rispetto ad un soggetto che ha tenuto un
comportamento probo costante ma che ciò nonostante, per un proprio convincimento morale, reputa
di non dover collaborare con la giustizia. Secondo la Corte: “la collaborazione con la giustizia può
offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per accedere a dei benefici, ma la scelta di non
collaborare può dipendere dal timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri
congiunti: di conseguenza, la mancanza di collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta
libera e volontaria di adesione a valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione
di appartenenza”.
Principio di legalità
Il principio di legalità esprime l’assunto secondo cui non vi è reato e non vi è pena se non
espressamente prevista e sancita da una precisa legge. Quindi è la fonte esclusiva della descrizione
dei fatti di reato ed è la fonte esclusiva della determinazione della qualità e della quantità della
sanzione penale. Il principio di legalità vive nel nostro ordinamento attraverso l’art. 1 c.p. e in
costruzione con l’art. 25 Cost.
Art. 1 c.p. -> Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come
reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.
Art. 25 comma 2 Cost. -> Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima del fatto commesso.
Per quanto disallineate dal punto di vista semantico, per quanto non perfettamente sovrapponibili, le
due formule sono equivalenti nel contenuto, perché esprimono ciascuna e tutte e due insieme, la
complessità dei profili e dei significati, che si racchiudono dietro la forma del principio di legalità,
vale a dire contempla:
Il principio della riserva di legge;
Il principio di precisione della fattispecie;
Il principio di tassatività dell’interpretazione sublimato dal divieto di analogia;
Il principio della irretroattività sfavorevole.
Non tutti gli ordinamenti evoluti sono retti dal principio di legalità nel senso da noi strettamente
inteso che si esprime nella formula “nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali scripta e
stricta”, una pena che non sia stabilita da una legge “praevia”, quindi entrata in vigore prima del
fatto, che sia “scripta” quindi affidata ad un testo scritto, e che sia “stricta”, cioè legata ad un
impianto precettivo determinato e di stretta interpretazione. Questo principio fa parte degli
ordinamenti di civil law, cioè quegli ordinamenti che hanno una tradizione romano-germanico. Gli
ordinamenti di civil law traducono l’impianto concettuale della separazione dei poteri nei termini
nei quali essa è stata fissata dall’illuminismo e dalla concezione contrattualistica dello Stato. Gli
illuministi, nel dare forma all’entità “Stato”, pensavano ad un prima e ad un dopo: il prima era
costituito da una società di natura, retta dal caos nella regolazione delle sfere di libertà di ciascun
individuo, ed era condizione in cui ciascuno, pur potendosi ritenere titolare di diritti di libertà
illimitata, doveva fare i conti con il riconoscimento delle sfere dei diritti di libertà altrettanto
illimitata di appartenenza degli altri. Il risultato era una condizione di instabilità, di precarietà del
godimento di questi diritti. Rispetto a questo “prima”, il dopo fu seguito dalla costituzione dello
Stato moderno. Lo spartiacque è dato dalla concezione contrattualistica dello Stato moderno. La
base contrattualistica è costituita da questo atto di volontà degli uomini che, stanchi di vivere nello
stato di precarietà tipica dello stato di natura, decidono di sottoporsi ad un’autorità, un soggetto che
dispone di uno spazio di manovra in cui lo definiamo sovrano. La sovranità è nient’altro che il
perimetro entro il quale l’autorità può agire, decidendo anche di assumere iniziative contro libertà
dei singoli; in questo contesto nasce il concetto di legge, legge come atto normativo espressivo della
volontà di tutti, mediata attraverso le scelte dell’autorità.
Negli ordinamenti di common law si assiste ad un altro percorso di formazione dell’autorità, l’idea
è che i diritti rappresentano dei valori frutto della progressione storica, della tradizione comune,
della tradizione popolare. I diritti non vengono posti e riconosciuti dall’alto, ma traggono
fondamento dalla consuetudine, dunque, dal modo in cui la società li ha, nel corso della storia,
cesellati definendone il rispettivo volto. Chi è chiamato a dare voce a questi diritti? Non l’atto di
imperio dell’autorità, ma sono i giudici. I giudici, nell’osservazione dei comportamenti sociali,
estraggono i valori, che individuano come diritti, e li suggellano sul piano della formale vigenza
attraverso le loro decisioni. Di qui, il riconoscimento come fonte del diritto non già della legge, ma
del precedente, della decisione sul caso singolo che ha adottato un giudice investito di una
controversia. Ma allora i giudici, negli ordinamenti di common law, sono titolari di un potere
normativo avente funzione costitutiva della nascita dei diritti? No. La giurisdizione di common law
esercita una funzione dichiarativa. Quando un giudice, in ordinamento di common law, viene
investito per la prima volta del potere di stabilire, ad esempio, se un certo tipo di comportamento
costituisca o meno reato, egli non svolge una funzione che, attraverso l’interpretazione, è una
funzione di innovazione del diritto, non costruisce ex novo il diritto, ma non fa altro che estrarre la
ratio decidendi, dunque il criterio di decisione del singolo caso, dalla tradizione comune della
società anglosassone, e il giudice si pone come espressione della società, svolgendo una funzione di
carattere interpretativo che è di tipo dichiarativo. Questo va tenuto ben presente perché quando, in
Italia, si parla della funzione creativa della giurisprudenza e si assume come modello quello di
common law, si opera una confusione che bisogna smascherare, perché quello che, in taluni casi, si
vuole legittimare nel nostro ordinamento non è una funzione dichiarativa dell'interpretazione
giudiziale, ma è una funzione innovativa, costitutiva dell'esercizio della giurisdizione che,
evidentemente, si pone in contrasto frontale con l’architettura della separazione dei poteri, che ha un
rango costituzionale, perché nel nostro sistema costituzionale la fonte ultima dei poteri, che
esercitano le istituzioni e, quindi, le articolazioni sociali delle dinamiche statali, è la sovranità, che
si esprime nei limiti e con le forme previste dalla costituzione stessa. Qual è la forma attraverso cui
la sovranità popolare si esprime assumendo la forma di direzioni normative? La forma è quella della
rappresentanza parlamentare, quindi, il prodotto della rappresentanza parlamentare. Rispetto a
questa funzione normativa del parlamento, il ruolo della giurisdizione non può che essere,
attenzione istituzionalmente soltanto, una funzione dichiarativa, nel senso che la giurisdizione,
quindi la iurisdictio, dire il diritto, non è altro che il canale attraverso cui si manifesta il diritto
oggettivo costituito.
Il principio di legalità attraversa la storia degli ultimi due secoli di tutti i paesi Europei, anche di
quelli che hanno avuto un volto totalitario. Formalmente, dunque, lo ritroviamo in tutti gli
ordinamenti, ma nella materialità del contenuto di disciplina esso differisce da ordinamento a
ordinamento, perché dietro il paravento formale della legge si possono nascondere realtà e principi
che non vanno affatto nella direzione di garanzia delle libertà individuali.
Nel nostro ordinamento, di civil law, il principio di legalità è, innanzitutto, affidato al principio
della riserva di legge, che vuole fornire una risposta alla domanda: “Chi è che pone le norme di
diritto penale? Qual è il potere cui è affidato il compito di disciplinare la materia dei reati e delle
pene?”
L’art. 25 comma 2 Cost. fa riferimento alla legge. L’art 1 c.p. fa riferimento alla legge dello stato
fascista, molto diversa dalla legge del Parlamento repubblicano. La legge del parlamento italiano
del ventennio fascista si ridusse, negli ultimi anni, ad essere un prodotto della volontà di governo
ratificata dal “parlamento del partito unico”, il parlamento del fascio, una struttura che non poteva
svolgere una funzione di rappresentanza democratica della società, non poteva dirsi il terminale
dello spazio di riflessione delle anime presenti nella società del tempo. La legge dello stato
costituzionale è una legge espressione di un parlamento liberamente eletto.
Dunque, riserva di legge. Ma quale legge? La legge dello Stato o anche quella delle Regioni?
Oggi, dopo la riforma dell’art. 117 Cost. il problema è risolto: la materia penale è esclusa dalla
potestà legislativa regionale.
Ma qual era la situazione prima della riforma? La giurisprudenza costituzionale non aveva mai
dubitato che la legge regionale potesse essere fonte dei reati e delle pene.
Noi abbiamo una tipologia variegata di atti normativi che, all’esito finale, assumono la forma della
legge parlamentare. Oltre alla legge ordinaria, abbiamo:
Il decreto-legge;
Il decreto legislativo.
Quindi, la prima domanda che potrebbe farsi per dare un contenuto alla riserva di legge è questa:
“La riserva di legge di cui parla l’art. 25 comma 2 Cost. è una riserva di legge ordinaria, dunque
legge che nasce e si sviluppa interamente e soltanto nel circuito parlamentare, oppure si deve
intendere anche riserva di atti aventi forza di legge?”
Per rispondere a questa domanda dobbiamo cercare di capire innanzitutto perché, per la materia
penale, sia prevista una riserva di legge. La questione si intreccia anche con quella dei caratteri della
riserva di legge, la quale si dibatte tra due modelli: un modello assoluto e un modello relativo.
Perché il costituente ha voluto che solo la legge disciplinasse la materia penale? Qualcuno ha
individuato la ratio nell’esigenza di certezza, una certezza che solo la legge potrebbe assicurare, in
quanto mette capo ad un procedimento complesso e non è una fonte che viene fuori ex abrupto.
Individuare la ratio della riserva di legge nell’esigenza di certezza è una prospettiva, però, che non
convince molto, perché, per esempio, si potrebbe stabilire che i regolamenti governativi
soggiacciano a determinati vincoli procedurali per sortire lo stesso effetto.
Altri hanno individuato la ratio nell’esigenza di garanzia, di garanzia della libertà individuale,
garanzia della qualità della ponderazione del bilanciamento tra i vari interessi che vengono in gioco
in una questione così delicata come quella di stabilire se un certo comportamento debba essere
assoggettato a riserva di legge. In particolare, si è detto, la ratio della riserva di legge sta nel
garantire la voce delle minoranze nell’ambito del procedimento parlamentare.
Il documento più limpido e chiaro, che mette a fuoco la ragion d’essere, il fondamento, del
principio della riserva di legge in materia penale è la sentenza 487/1989 della Corte
costituzionale. La chiave di lettura di questa sentenza sta nel leggere il principio della riserva di
legge, la sua matrice, il suo fondamento, in chiave politico-criminale. Che cosa significa? Significa
che il principio della riserva di legge viene letto alla luce dei caratteri del diritto penale di matrice
costituzionale. Qual è questo modello di diritto penale? Un modello del diritto penale del fatto
materiale offensivo. Connessi al reato sono:
Principio di materialità: si desume dall'art. 27 cost. ed implica la non punibilità delle mere
intenzioni e delle qualità personali.
Principio di offensività: implica che le scelte di criminalizzazione riguardino situazioni atte ad
offendere beni giuridici.
Il diritto penale, dunque, punisce solo fatti (principio di materialità) che siano offensivi di beni
giuridici (principio di offensività). Poi approfondiremo.
Il modello del diritto penale sussidiario, cioè del diritto penale che entra in gioco solo sulla base di
prognosi di efficacia, solo sulla base di decisioni con le quali il potere politico ha valutato
alternative di tutela differenti e meno incidenti sulla libertà individuale, ad es. sanzioni civili,
amministrative, disciplinari, che hanno oggettivamente una capacità afflittiva inferiore. Diritto
penale dell’extrema ratio, diritto penale che riesce ad oggettivarsi solo attraverso un’ordinaria
valutazione di inadeguatezza general-preventiva di altre sanzioni e modalità di intervento.
Un reato, secondo la logica costituzionale, è individuato legittimamente quando è posto a tutela di
un bene significativo, di un bene importante, perché così esige la logica del bilanciamento interno
alla struttura dei diritti fondamentali di matrice costituzionale. Nella prima parte della Costituzione
vengono presentati i diritti inviolabili; senonché, a fronte della proclamazione di inviolabilità,
vengono previste delle deroghe, delle modalità attraverso cui si restringe la portata
dell’inviolabilità. Qual è il criterio che presiede alla compatibilità tra proclamazione del carattere
inviolabile del diritto, da un lato, e sua restrizione in presenza di determinati requisiti? Qual è il
criterio assiologico? Il valore di fondo risiede nella corrispondenza tra la situazione che legittima la
restrizione della tutela del diritto fondamentale e la tutela di una situazione di valore equivalente a
quella compressa. Trasferito questo criterio nel campo penale dove, per antonomasia, la sanzione
aggredisce le tutele fondamentali (libertà personale e dignità, soprattutto), ne discende che
l’interesse a protezione del quale viene previsto il reato, l’interesse a protezione del quale viene
sancita la possibilità dell’aggressione degli interessi delle libertà fondamentali, deve corrispondere
ad un valore indirettamente richiamato da quelli espressamente contemplati dalla Costituzione.
Un altro corollario del principio di legalità riguarda i principi di precisione e tassatività ->
tassatività e sufficiente determinatezza.
Mentre il principio della riserva di legge fornisce una risposta al quesito “chi pone le norme del
diritto penale?”, e, dunque, individua il soggetto istituzionale cui compete il potere di disciplinare la
materia, con il principio di precisione e tassatività l’attenzione si focalizza sugli aspetti
contenutistici della norma penale e le sue modalità di formulazione.
Con il principio di precisione la norma deve essere formulata, sul piano linguistico, in maniera da
comunicare un messaggio non ambiguo e non incerto. Il messaggio deve esse univoco e lo deve
essere per due ragioni:
La norma penale deve essere una norma precisa perché solo mediante la precisione noi
possiamo difendere il principio della riserva di legge da attacchi provenienti da chi, nello
svolgimento dell’attività interpretativa e applicativa, è tenuto a dichiarare la volontà della
legge, non a innovarne il contenuto. Bisogna evitare che il potere giudiziario assuma
decisione nel caso concreto che possano essere divergenti dalla portata e dalla volontà
sottesa alla norma di legge. Quindi, possiamo dire che la prima ragione del principio di
precisione stia proprio nel suo essere un corollario della riserva di legge;
Seconda ratio del principio di precisione riguarda quella che viene definita la vocazione
liberal-garantistica della legalità penale, cioè la funzione della norma penale di tutelare la
libertà dei suoi destinatari. Questa libertà può essere tutelata soltanto se a monte del
processo di trasmissione giuridica del messaggio normativo la disposizione sia formulata in
maniera chiara, non equivoca e determinata, di modo che si possano consentire due risultati:
o Da un lato, il destinatario sa come orientare e organizzare le sue scelte di azione,
dispone di un criterio di orientamento univoco, sa in anticipo cosa è vietato e cosa
non lo è;
o Il cittadino non solo deve conoscere in anticipo l’area dei comportamenti vietati, ma,
una volta entrato nel meccanismo del processo, deve poter contare sul calcolo della
prevedibilità della decisione giudiziaria. Deve, cioè, sapere che la sua vicenda, sul
piano dell’interpretazione della norma di diritto penale, si lascia agevolmente
“pronosticare” nei suoi esiti. Dunque, il principio di precisione, sotto questa luce, è
lo strumento per garantire la prevedibilità delle decisioni giudiziarie.
La precisione riguarda la modalità di formulazione della norma penale, con messa la bando di
parole polisense e di enunciati tautologici, cioè enunciati che ruotano circolarmente intorno alla
finalità di spiegare qualcosa che, alla fine, non viene spiegato. Una dimostrazione di enunciato
tautologico ci deriva dalla recente norma dell'articolo 434 bis del Codice penale, la tanto discussa
norma contro i rave party. Nella prima parte della disposizione vi è un esempio chiaro di struttura
tautologica della disposizione, dove la finalità di informare sul contenuto della disposizione è
assorbita da un enunciato che dà per scontato l'oggetto della disposizione stessa.
"L'invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica
o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati,
commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno,
quando dallo stesso può derivare un pericolo per l'ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la
salute pubblica.
Chiunque organizza o promuove l'invasione di cui al primo comma è punito con la pena della
reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000."
Ecco, questa è una norma che purtroppo fa amaramente ridere perché questo è il prodotto di una
tecnica normativa che si accartoccia in chiave tautologica. Che cos'è la tautologia? La tautologia è il
discorso che si sviluppa su sé stesso, mentre cosa dovrebbe fare una norma penale? Dovrebbe
spiegare in che cosa consiste il comportamento vietato, il comportamento sanzionato con pena e
quindi dovrebbe raccontare l'episodio di vita che viene ritenuto socialmente dannoso e perciò
punito. Questa disposizione risponde a questa finalità pratica della disposizione? No.
Altro esempio di struttura tautologica è dato dall'articolo 110 del Codice penale, disposizione
centrale che riguarda la disciplina del concorso eventuale di persone nel reato. In questo caso, la
disposizione del legislatore dà per scontato ciò che dovrebbe formare oggetto di informazione.
"Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse è punita con la pena
prevista per il reato base."
Bisogna analizzare un altro aspetto importante, ossia quello che riguarda la possibile distinzione
concettuale tra la precisione e la determinatezza.
La storia del principio costituzionale di determinatezza inizia con la sentenza 177/1980 della Corte
costituzionale, dove, per la prima volta, veniva riconosciuto al principio di determinatezza e
precisione, inteso come corollario della legalità penale, un proprio spazio, una propria esplicita
portata. Ma è con la sentenza 96/1981 (che dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 cp
riguardo il plagio) che viene ricostruita una dimensione di significato del principio di
determinatezza che non può essere l’equivalente del principio di precisine, poiché quest’ultimo si
può considerare soddisfatto attraverso la formulazione di una norma che indichi a sufficienza il tipo
di fatto sul piano concettuale. Il principio di determinatezza, invece, costituisce un complemento di
quello di precisione, perché vuole dire che la norma penale, oltre a costruire il racconto di un fatto
di vita affidato ad un materiale linguistico pulito e semanticamente univoco, deve anche mettere
capo ad un fatto che sia provabile, accertabile, riconoscibile nella rete delle relazioni umane; ecco
quindi che l’autentico significato della determinatezza sta nel predicargli provabilità del fatto e in
questa dimensione la determinatezza ha origini antiche, affonda le radici in una delle prime
riflessioni sul principio di legalità, quella proposta da Anselm Feuerbach; fu il padre della scienza
penalistica europea, penalista, magistrato, legislatore, fu suo il progetto di un codice penale nella
Baviera nel 1813, un codice illuminato, che cercava di fare tesoro delle acquisizioni illuministiche e
dell’aria della rivoluzione francese, prima ancora che intervenissero nella restaurazione del
congresso di Vienna. Anselm Feuerbach diceva che tutto ciò che il giudice non può provare, non
può formare oggetto di legge. Il legislatore non può avventurarsi nel descrivere fatti e situazioni che
alla prova del processo, alla prova della verifica e sul piano della prova, sfuggano a qualsiasi
capacità di dominio, di afferrabilità.
Nel contesto del fatto tipico è possibile individuare le varie partizioni di reato. Una fondamentale è
tra delitti e contravvenzioni, che attiene fondamentalmente al tipo di sanzione, dunque una
distinzione di carattere formale.
È possibile distinguere nella tipicità fattispecie oggettiva:
Autore del reato;
Condotta ossia ciò che materialmente viene posto in essere;
Evento percepibile nella realtà umana (lesione, spossessamento, etc.);
Nesso di casualità laddove vi sia l’evento che collega quest’ultimo alla condotta.
Nella fattispecie soggettiva distinguiamo da dolo e colpa, cioè tra fatti coperti da un coefficienti di
volontarietà e fatti colposi (dove la colpa è una violazione oggettiva di regola di diligenza).
Partiamo dal primo sotto-elemento che rinveniamo nella tipicità: il soggetto attivo.
A seconda della dicitura, della nomenclatura, che troviamo nel Codice penale, distinguiamo tra i
reati comuni e i reati propri. Spesso leggiamo nel codice “chiunque cagioni...” e diciture simili, e
significa che quel tipo di reato può essere commesso da qualsiasi persona e, dunque, è per
definizione un reato comune. Ma ci sono delle ipotesi in cui la dicitura “chiunque” può trarre in
inganno: es. art. 372 Codice penale (falsa testimonianza), in questa ipotesi non vi è reato comune
perché il sintagma “chiunque” viene collegato alla dicitura “viene chiamato dinanzi…” dunque un
reato che può essere commesso solo da quel soggetto che assume una particolare qualifica
soggettiva, in questo caso di testimone. Dunque, in questo caso è un reato proprio.
Il reato proprio si caratterizza proprio da quella qualifica soggettiva assunta dall’agente. Per quale
ragione il legislatore decide di determinare un reato come proprio? La ragione affonda le proprie
radici in un particolare tipo di rapporto e di relazione che si viene ad instaurare tra determinati
soggetti, che hanno la qualifica soggettiva, e determinati beni giuridici che devono essere protetti.
All’interno dei reati propri è importante svolgere una seconda distinzione tra reati propri esclusivi e
semi-esclusivi. I reati propri sono quei reati nei quali la qualifica soggettiva radica il penalmente
rilevante, e in assenza della quale il fatto non assume proprio rilevanza penale e non si configura il
reato. Il reato di bancarotta può essere causato solo da impresa non piccola, e questo tipo di
qualifica soggettiva costituisce proprio la linea di confine tra reato di bancarotta e fatti che rientrano
solo nel campo civilistico ma non configurano bancarotta. Ci sono tipi di reati in cui la qualifica
soggettiva determina un aggravamento del trattamento sanzionatorio, in assenza della quale il fatto,
dunque, costituisce comunque reato. Art. 317 e 629 c.p. c’è la sovrapposizione dell’estorsione e
dell’estorsione del pubblico ufficiale denominata “concussione”: se non c’è la qualifica soggettiva,
il fatto è sempre penalmente rilevante. L’appropriazione indebita: se viene posta in essere dal
pubblico ufficiale in relazione a denaro o beni della P.A. viene punita come delitto di peculato, un
fatto molto più grave dell’appropriazione indebita.
Queste partizioni a cui abbiamo fatto riferimento con carattere classificatorio e definitorio hanno dei
risvolti anche di carattere pratico. Se la qualifica soggettiva radica la penale rilevanza del fatto deve
essere necessariamente oggetto di dolo. Se io, pubblico ufficiale, penso di non esserlo più e mi
approprio di beni della P.A. risponderò di un delitto meno grave del peculato, ossia l’appropriazione
indebita.
Nell’ambito della tipicità troviamo altri elementi: condotta, evento e nesso causale evento-condotta.
Partiamo dall’evento, l’elemento in relazione al quale possiamo fare altre sotto-distinzioni.
L’evento viene inteso da taluni in senso naturalistico come la modifica della realtà percepibile, e da
altri in senso giuridico, come evento che si caratterizza per la rilevanza giuridica aldilà di
modificazioni empiriche. Il Codice penale fa riferimento all’evento in senso naturalistico. L’evento
in senso giuridico attiene all’offesa. Se leggiamo varie fattispecie collocate all’interno del codice
vediamo che non tutte le fattispecie di reato hanno un evento inteso in senso naturalistico: sono reati
di pura condotta, reati che incentrano il disvalore del fatto solo sulle circostanze della condotta….
Es. associazione a delinquere, viene punita la sola condotta. Nell’omicidio invece, ad esempio, ci
sono eventi naturalistici (la morte di un individuo). Solo nei reati con evento naturalistico è
possibile individuare la sussistenza del nesso causale, che non è individuabile in quelli di pura
condotta. Es. la calunnia, c’è offesa ma non c’è un evento naturalisticamente inteso, non possiamo
accertare un nesso causale ma viene incriminata la sola condotta del soggetto che incolpa una
persona di aver commesso un delitto sapendo che non è vero. Dunque, si può parlare di nesso
causale solo nei reati in cui vi è un evento naturalisticamente inteso.
Di qui possiamo introdurre un’ulteriore classificazione di reato: in base al tipo di offesa posta in
essere, distinguiamo tra reati di danno e reati di pericolo.
I reati di danno sono quelli nei quali, per assumere rilevanza penale, è necessario che il giudice
accerti l’effettiva lesione del bene protetto. L’omicidio è un reato di danno, con lesione del bene
della vita. La categoria dei reati di danno è sovrapponibile a quella con eventi di tipo naturalistico:
l’accertamento che deve essere svolto dal giudice deve essere di tipo causale.
Vi sono molte ipotesi contenute all’interno del codice penale in cui la struttura del delitto non è
calibrata sull’effettiva lesione del bene protetto ma è calibrata sul pericolo: è la possibilità o
probabilità che si verifichi un danno. Di qui, la classificazione dei reati di pericolo, privi
dell’effettiva lesione del bene protetto, e si caratterizzano per la sola potenziale lesione di quel bene.
Es. associazione a delinquere, pericolo per l’ordine pubblico. Associazione di narcotraffico,
pericolo per la salute. Art. 440, 441 e seguenti del Codice penale: delitti contro la pubblica
incolumità, serie di fattispecie in cui vengono punite determinate condotte, art 441 è punito chi
altera le acque prima che vengano messe in circolo.
Qual è il tratto che distingue anche sul piano delle conseguenze il reato di pericolo da quello di
danno? Nel reato di danno va fatto un accertamento causale che viene compiuto ex post, perché si
verifica un risultato, e va valutato il nesso causale ex post. Nel reato di pericolo, che difetta per
definizione del termine di riferimento del nesso causale, non dobbiamo utilizzare il criterio della
causalità ex post, ma il criterio dell’idoneità ex ante della condotta a cagionare l’evento che il
legislatore vuole evitare mediante l’incriminazione. Reati di danno e reati con evento naturale,
controllo ex post. Reati di pericolo, non c’è giudizio ex post, l’interprete dunque che deve fare?
Risalire idealmente al momento di commissione della condotta e valutare se, sulla base delle
circostanze conoscibili, era verosimile, era probabile, che si potesse verificare un danno; dunque, si
svolge un giudizio di idoneità ex ante. Guardiamo all’esempio della calunnia: per comprendere se vi
è calunnia non si può verificare se è effettivamente iniziato un procedimento penale a carico del
soggetto, ma si valuta ex ante l’idoneità della condotta a cagionare l’evento. Differente, dunque, è il
tipo di giudizio.
I reati di pericolo non sono completamente sovrapponibili a quelli di pura condotta. Perché? Perché
all’interno dei reati di pericolo c’è una tripartizione:
Reati di pericolo concreto;
Reati di pericolo astratto;
Reati di pericolo presunto.
Il tipo di classificazione del reato non attiene ad una definizione legislativa, ma ad un problema di
tecnica di strutturazione della fattispecie, problema di tecnica legislativa, di come il legislatore ha
scritto quella norma.
Reati di pericolo concreto: il legislatore inserisce, all’interno della fattispecie, il pericolo concreto
per i soggetti individuabili come oggetto della fattispecie, oggetto che va concretamente accertato
dal giudice. Egli subordina la punibilità del danno, non al danno verificato (altrimenti sarebbe un
reato di danno), ma al fatto che la condotta è concretamente idonea a cagionare il danno. Non è un
requisito individuato in via interpretativa, bensì individuato dal legislatore.
Reati di pericolo astratto: leggendo la fattispecie non troviamo un pericolo concreto che deve essere
accertato dal giudice, ma la condotta che deve avere una generale attitudine lesiva. Es. 440-441
Codice penale… l’inciso “prima che vengano distribuite” che ci fa comprendere di fronte a che tipo
di fattispecie siamo. Se nei 440-441 ci fosse “sostanze che poi successivamente vengano distribuite”
saremmo dinanzi ad un reato di politico concreto. Perché invece è astratto? Perché il giudice deve
accertare che la condotta abbia dei generali connotati di lesività.
Reati di pericolo presunto: ipotesi in cui, da un lato all’interno della fattispecie non figura il
pericolo concreto come elemento specifico di accertamento e il giudice non è chiamato ad accertare
la generale attitudine lesiva della condotta, ma il giudice deve solo accertare la conformità tra
quanto descritto dal legislatore e la condotta posta in essere. Esempio, art. 445 Codice penale che
incrimina il fatto dell’operatore sanitario (il farmacista) che vende i medicinali in modo differente
dalle ordinazioni del medico; in questa disposizione, non troviamo nessun margine di esenzione
della punibilità, neanche ad es. se il farmaco sbagliato generi effetti positivi, neanche in quel caso il
reato cessa di configurarsi. Il dato normativo viene esasperato in termini di anticipazione della
tutela penale che si dovrebbe giustificare, a livello politico-criminale, dall’elevata rilevanza del
bene protetto.
Parte della dottrina solleva un’eccezione di costituzionalità per violazione del principio di
offensività del reato di pericolo presunto. Perché? La presunzione assoluta non ammette la prova
contraria. Quando il dato normativo è tale da non consentire alla persona di argomentare su alcuni
elementi della fattispecie, siamo dinanzi a fattispecie in tensione con il principio di offensività.
Parte della giurisprudenza e buona parte della dottrina più sensibile ai valori costituzionali,
mediante un’operazione ortopedica, prova a rendere precarie le fattispecie di pericolo presunto, in
chiave di concreta offensività.