Sei sulla pagina 1di 52

TEORIA GENERALE E METODI DEL DIRITTO

Il diritto è un fenomeno istituzionale poiché noi possiamo interpretare i fenomeni giuridici grazie all’esistenza dei
corrispondenti istituti che gli forniscono un significato.

Giusnaturalismo= teoria di cui esistono un insieme di norme oggettivamente e sempre valide (norme del diritto
naturale ovvero norme di diritto legittimo)---fa riferimento all’esistenza di un dio che stabilisca ciò che è giusto o
sbagliato (giustizia delle norme)

Giuspositivismo= norme collegate solo alle volontà degli uomini perciò l’unico diritto che esiste è quello creato
dall’uomo (fa riferimento alla ragione umana che dipende da alcuni valori)---ciò che è giusto o sbagliato è determinato
dall’uomo

Realismo giuridico= mette al centro l’efficacia delle norme. Il diritto viene applicato dai giudici che a seconda del
proprio orientamento, possono portare ad esiti diversi.

Antinomia nell’ordinamento giuridico= lo stesso caso determinato da due norme che portano a risultati differenti

Lacune dell’ordinamento= difetti delle norme

Il diritto è un fenomeno quotidiano che può essere osservato da diversi punti di vista e proprio per questo motivo ci
sono sia diversi approcci verso il diritto che diverse persone che lo conoscono (gli organi legislativi devono essere
affiancati da persone competenti). Esiste un’attività chiamata ‘’drafting legislativo’’ la quale consiste nella redazione
dei testi ovvero mettere in una forma sensata le proposte normative, viene prodotto un disegno di legge, proposto
agli organi legislativi che, una volta approvato, lo scrivono in una forma coerente e sensata in modo da divulgarlo. Chi
si occupa di drafting legislativo produce diritto.

Come si studia il diritto? Ci si avvale dei codici civili ma non solo, ci si rivolge a persone che conoscono il diritto in
maniera più completa ovvero che conoscono la ‘’dottrina’’ (per esempio io studentessa di legge, mi affido al docente
universitario che conosce il diritto e quindi la dottrina)

▪ Dottrina= gli studiosi del diritto


▪ Giurisprudenza= magistrati che invece applicano il diritto. I magistrati si occupano perciò di trovare la
fattispecie descritta dalla legge che allo stesso tempo rappresenta il caso specifico che si sta osservando al
momento della sentenza. Le fattispecie possono essere di 2 differenti tipi: astratta (prevista nel codice civile)
e concreta (situazione che si osserva nella realtà e la si riconduce ad una fattispecie astratta prevista dalla
legge). Questa distinzione si basa sull’attività della categorizzazione, noi umani durante la nostra osservazione
del mondo, interagiamo con esso ma abbiamo una relazione con le cose che si basa su dati percettivi che noi
in seguito categorizziamo (distinguiamo le cose in categorie---riconduciamo gli oggetti concreti. Compito
della giurisprudenza= applicare ai casi concreti ciò che il legislatore ha previsto in astratto.

Le categorie sono nozioni del nostro pensiero che la nostra mente elabora per astrazione dei casi concreti (ogni
oggetto che incontriamo sarà simile ad un altro ma mai uguale/identico). I concetti si dicono perciò astratti poiché
sono accidentali del singolo oggetto.

Astrarre= individuare che cosa rimane comune tra tutti i fenomeni che accadono di una certa categoria

Una norma può essere a sua volta (se la distinzione riguarda i comportamenti):

✓ Astratta= la norma che disciplina un certo comportamento in via astratta poiché si tratta di un
comportamento generale. Ciò che fa il giudice è emanare un’altra norma che stabilisce quali siano le
conseguenze di una certa fattispecie che viene applicata solo in seguito ad una sentenza
✓ Concreta= norma che viene emanata dal giudice a seguito di una sentenza che permette di concretizzare la
norma astratta

Le norme si possono dire anche (se la distinzione riguarda i soggetti):

✓ Individuali= ne rientra la sentenza del giudice poiché si riferisce ad un individuo specifico.

1
✓ Generali= una norma è rivolta ad una classe generale di destinatari (esempio la norma che stabilisce che chi
commetta un furto sia punito, si riferisce a quella classe generale di persone delle quali si è accertato che
abbiano compiuto un furto)

Tendenzialmente (non sempre è così) gli atti legislativi tendono ad essere sia generali che astratti mentre le sentenze
individuali e concrete. In alcuni casi le norme possono essere generali e concrete o individuali e astratte ma si tratta di
casi particolari. Per esempio esiste una norma che prevede che il presidente della Repubblica può nominare 5 senatori
a vita: questa è una norma generale (perché si riferisce a chiunque rivestirà il ruolo di presidente, potrà nominare i
senatori) e astratta (perché prevede un certo comportamento che si concretizza quando viene nominata una
determinata persona come senatore). C’è chi al contrario sostiene che le leggi devono essere generali ed astratte per
il principio di uguaglianza.

Che cosa fa il giudice di fronte al caso concreto? Che domande si fa rispetto al diritto? Deve concretizzare la norma,
ma soprattutto individuare quella norma dell’ordinamento giuridico che descrive la fattispecie astratta che
corrisponde a quella concreta che sta osservando. Si domanderà che cosa l’ordinamento nel quale lui si trova ad agire,
prevede per quella specifica fattispecie.

I popoli animisti anche loro hanno delle norme che coinvolgono addirittura gli animali (il serpente che morde una
persona può essere una punizione prevista per chi viola una particolare norma), non hanno un corpo di polizia né
organi giuridici. I popoli animisti tendono a credere che ci siano degli spiriti naturali capaci di punire gli uomini che
sono considerati per qualche motivo, colpevoli. Esistono addirittura alcuni popoli nei quali è prevista una legge basata
sulla vendetta che talvolta è prevista come obbligatoria tanto che se non la si applica si subiscono delle conseguenze
civili o penali(legge del taglione).

Terradas, un antropologo catalano, ha studiato a lungo i sistemi rivendicatori, concludendo che talvolta abbiano un
carattere violento poiché il compimento della vendetta assume un valore che riguarda l’onore onore, è il caso di
Antonio PIGLIARU o del KANUN albanese. In realtà Terradas dice che la vendetta serve come compensazione
dell’offesa ricevuta dalla legge: i sistemi rivendicatori mirano a ricomporre i conflitti e non alla violenza, si parla perciò
di GIUSTIZIA RIPARATIVA (mira a ricreare un rapporto tra il reo e la famiglia delle vittime oltre che a punire il
colpevole. In questo modo si ricostituisce il tessuto sociale nei casi in cui le norme sono state ingiuste). Addirittura
sono state istituite delle commissioni di ‘’giustizia e verità’’ con lo scopo di ricostruire l’accaduto, punendo il colpevole
ma soprattutto cercando di fargli capire lo sbaglio e ricostruendo quindi la società: in questo modo si passa sopra al
comportamento della vendetta che porta solo al collasso della società (la vendetta è tollerata da Terradas solo in casi
estremi in cui viene visa come soluzione ultima in situazioni in cui non è in alcun modo possibile ricostruire il legame
tra il reo e la famiglia della vittima). Il diritto tende a creare il monopolio dell’uso della forza ovvero tende a prevenire
il fatto che le persone utilizzino la forza nella sfera privata cercando di dare questo potere di esecuzione di una pena
allo stato e nei sistemi rivendicatori funzionava allo stesso modo proprio in funzione del monopolio dell’uso della
forza. Ricordiamo che i sistemi vendicatori avevano due funzioni principali: compensazione (del danno subito dalla
vittima) e retribuzione (ovvero tende a ricostruire il tessuto sociale nonché i rapporti tra vittima/famiglia della vittima
e reo, e lo fa attraverso la gestione stessa della violenza. La vendetta in questo caso viene utilizzata come sanzione ed
è prevista solo in caso di offesa, al di fuori di questi casi è considerata la vendetta stessa un’offesa. Questa è una
forma di monopolio della forza, simile a quella svolta dagli stati odierni).

Il problema dei sistemi vendicatori è che l’esercizio della violenza può causare una conseguente offesa alla famiglia del
reo (da parte della famiglia della vittima) che dà vita ad un vortice di vendette personali da cui è difficile sfuggirvi.

ORESTEA= ciclo di tragedie greche che narra la storia di Oreste, figlio di Agamennone (fratello di Menelao il quale era
marito di Elena) che convinse la figlia ad andare nell’accampamento degli achei in cambio di un matrimonio con
Achille. Purtroppo la figlia però fu sacrificata e la moglie di Agamennone trovò un amante che ammazzò Agamennone.
Oreste, suo figlio, aveva il dovere di vendicare suo padre morto commettendo un crimine. Alla fine Oreste arriva ad
Atene chiedendo alla città che sia fatto un giudizio dall’Aereopago---questa storia ci mostra proprio la differenza tra
una città vendicativa e una città con dei tribunali (evoluzione della città).

La vendetta imposta da una società è imposta anche alle persone più deboli, per questo in alcune società è stata
istituita una finta vendetta secondo la quale ci si vendica sugli oggetti e non sulla persona.

2
La teoria generale cerca di studiare le categorie che ci permettono di comprendere il diritto in tutte le sue forme
mentre la filosofia del diritto si pone domande più generali.

TESTO SAGGIO QUID IUS VS QUID IURIS?

Innanzitutto la teoria generale del diritto si chiama ‘’generale’’ poiché si interroga su quegli aspetti del diritto che
caratterizzano gli ordinamenti giuridici in generale. All’interno di questa teoria, furono distinte due importanti
domande da Norberto Bobbio:

Quid ius= domanda che si pone il filosofo/teorico del diritto (che cos’è il diritto in generale), in tedesco ‘’was ist
recht’’. Chiaramente ci sono differenti risposte a questa domanda in base ai differenti approcci che si utilizzano di
fronte ai fenomeni giuridici.

Quid iuris= domanda che si pone il giurista nonché ‘’che cosa deve essere il diritto’’(ovvero cosa prescrivono le leggi in
un determinato tempo e luogo, è un problema riguardante la giustizia ed è affidato alla politica quindi a magistrati,
giudici, giuristi…). In tedesco, ‘’was ist rechtens?’’

In realtà Bobbio mutua questi due concetti dal filosofo Kant. Nella filosofia di quest’ultimo autore, riscontriamo
tuttavia una problematica: in tedesco Recht significa sia giusto che diritto. Perciò in Kant si confondono le due
domande sovra poste: il termine recht, avendo due significati, li fonde entrambi in quest’unica parola, perciò fa
assumere alla frase anche il significato di ‘’che cosa è giusto’’ oltre a ‘’che cosa è il diritto. Al tempo di Kant esistevano
i corsi di diritto naturale, i quali ricercavano il significato di ‘’che cos’è il diritto’’ nella sfera naturale, in seguito la
domanda divenne ‘’che cosa deve essere il diritto’’. Kant si focalizza sulla ricerca del diritto giusto che al suo tempo
corrisponde anche alla ricerca di che cosa sia il diritto. Kant inoltre sembra affermare il contrario di ciò che viene detto
da Bobbio: dice che il problema del filosofo è quello di interrogarsi sulla giustizia delle leggi. Al contrario il giurista non
si pone questa domanda ma prende in considerazione le leggi senza chiedersi se siano giuste o sbagliate. Secondo la
filosofia di Kant infatti è il filosofo a presentare ciò che è giusto o ingiusto e il giurista lo deve seguire di conseguenza
(per Bobbio il filosofo non fa altro che chiedersi che cosa sia il diritto mentre il giurista che cosa deve essere il diritto,
nonché che cosa sia o meno giusto).

In ogni caso Bobbio distinse limpidamente le due domande ‘’che cos’è il diritto’’ (domanda ontologica= ontologia
branca della filosofia che studia l’essere) e ‘’che cosa deve essere di diritto’’. Quest’ultima domanda per Kant è fusa
nella prima e in certi casi viene formulata nei seguenti termini: una norma ingiusta non viene nemmeno considerata
valida come norma giuridica. Questa tesi è sostenuta dai giusnaturalisti, autori che sostengono che gli uomini si
governano da sé creandosi delle leggi stabilendo le norme giuste o ingiuste quelle che lo sono di loro natura, perciò
sostengono che le norme di natura ingiuste non devono essere considerate valide. Questa general concezione
sostenuta dai giusnaturalisti viene definita ‘’giusnaturalismo razionalistico’’. Possiamo ritrovare un’altra versione del
giusnaturalismo che risale alla lettera di San Paolo ai romani in cui afferma che Gesù è arrivato nell’anno 0, perciò si
chiede: tutti coloro nati prima di lui, devono essere condannati all’inferno per non essere stati cristiani? Per Paolo per
essere giusti bisognava semplicemente aver osservato le norme giuste per natura (come per esempio amare ed
aiutare il prossimo è una regola cristiana che però si poteva seguire anche prima di Cristo poiché regole scritte nella
natura stessa degli uomini e del mondo), ciò permette a chi è nato prima di Gesù di salvarsi ugualmente anche senza
essere stato cristiano. In questo caso la concezione derivante dall’idea cristiana esposta da San Paolo, viene definita
‘’giusnaturalismo religioso’’. L’esistenza di norme giuste per loro natura presuppone l’esistenza di un diritto naturale
secondo i giusnaturalisti, esso si traduce in un unico sistema di regole valide universalmente da cui in seguito
discendono tutti i diritti positivi.

Problemi dell’universalità e conoscibilità dei valori assoluti= durante l’epoca dell’Illuminismo si credeva che non vuol
dire che se non esiste Dio allora tutto è lecito, per dire ciò che è giusto o ingiusto si diceva che le norme della giustizia
sono sempre scritte nelle regole del mondo e dell’uomo ma non è stato Dio ad inserirle ma sono intrinseche alla
struttura stessa delle cose. Come si fa però ad individuare queste norme giuste o meno? Bisogna mettere da parte le
pulsioni in funzione della ragione che è in grado di capire questa distinzione tra il giusto e lo sbagliato. Il metodo
scientifico che si era affermato permise di fare delle scoperte che crearono delle leggi (come la legge di Newton,
scoprì la gravità ma non vuol dire che quest’ultima prima della formulazione della legge, non esistesse), la scienza ha
dato un’enorme fiducia nella ragione umana. Addirittura la fiducia degli illuministi nella ragione gli fece credere di
poter valutare anche ciò che deve essere diritto.

3
Sia Aristotele che Kant erano giusnaturalisti ma avevano idee diverse sulla schiavitù: il primo sosteneva fosse un
fattore naturale giusto mentre il secondo la considerava ingiusta. Perciò all’interno del giusnaturalismo ci sono dei
contrasti, questo perché anche la ragione ha dei limiti ma ciò non significa che non ci sia una soluzione giusta per
natura e quindi un criterio universale per determinare la giustizia, infatti ciò che sia giusto o ingiusto sta nelle cose
stesse.

Nello stesso giusnaturalismo erano presenti dei contrasti riguardo ai valori di giustizia che venivano ripresi dai diversi
autori: alcuni mettevano in rilevanza alcuni valori, altri ne mettevano in rilevanza di diversi. Questo porta al concetto
di relativismo etico, corrente di pensiero la quale sostiene che i valori di giustizia sono relativi ai singoli individui
perché ne selezionano alcuni in favore di altri in base alle proprie esperiente, ai sentimenti e così via. Nel relativismo
ritroviamo sia il giusnaturalismo che il nihilismo etico (relativismo morale che crede che non ci sia nulla di giusto o
sbagliato poiché queste valutazioni sono relative ad una particolare cultura o individuo).

GIUSTIZIA, VALIDITA’ E EFFICACIA

Bobbio si occupa tendenzialmente dello studio delle regole di condotta; afferma che ogni norma giuridica può essere
sottoposta a 3 valutazioni indipendenti (giustizia, efficacia, validità) l’una dall’altra:

1.Se la norma sia giusta o ingiusta= il problema della giustizia è il problema della corrispondenza o meno della norma
ai valori ultimi o finali (etici o morali come l’uguaglianza) che ispirano un determinato ordinamento giuridico. Bobbio
sostiene il positivismo giuridico perciò dice che se noi affrontiamo il problema della giustizia sostenendo che ci siano
dei valori ultimi universali per tutti i tempi o luoghi, suscitiamo delle critiche, perciò prendiamo in considerazione quei
valori che ogni singolo ordinamento si impegna a perseguire. I legislatori creano norme per realizzare questi valori. Nel
caso in cui invece si ritenga che ci siano dei valori supremi, allora ci si chiede se una determinata norma sia adatta per
realizzare questi valori assoluti (in questo modo è possibile capire se essa sia giusta), se invece è difficile dimostrare
che un valore sia universalmente valido, non vuol dire che non ci possa essere la giustizia di una norma. Infatti ci si
deve chiedere se una norma sia atta a realizzare quei valori storici che ispirano quel determinato ordinamento
giuridico. Esiste un contrasto tra ciò che la norma deve essere e ciò che è: perciò il problema della giustizia
corrisponde al problema di corrispondenza tra ciò che è reale (ovvero come si presenta effettivamente la norma sul
piano della realtà) e ciò che è ideale (come dovrebbe essere la norma secondo i parametri di giustizia). A questo punto
afferma che una norma giusta è ciò che deve essere mentre la norma ingiusta è ciò che non deve essere. Il problema
della giustizia si chiama perciò DEONTOLOGICO (ciò che deve essere, insieme di doveri) ciò vuol dire che si deve
confrontare il contenuto della norma con i valori che l’ordinamento persegue. I valori ultimi sono dei valori a cui
tendere ma la realtà non ci può arrivare, ma per lo meno ci si deve avvicinare, può verificarsi anche un contrasto tra
un modo di tutelare un valore e un modo di tutelarne un altro.

Relativismo etico= prospettiva di chi ritiene che non è possibile stabilire né imporre che ci siano dei valori assoluti, i
valori etici e morali sono scelti dall’uomo stesso che decide di perseguire nell’ordinamento giuridico.

2.Se essa sia valida o invalida= è il problema dell’esistenza della regola in quanto tale indipendentemente dal giudizio
se essa sia giusta o meno (io posso ritenere ingiusto che mi sia inviata una multa ma se le regole della strada lo
prevedono, io devo pagare poiché è una regola valida). Il giudizio sulla giustizia è di valore mentre quello della validità
è un giudizio di fatto. Esiste una tesi sostenuta da Hans Kelsen che definì la validità di una norma sulla sua specifica
esistenza all’interno di un determinato organismo (ovvero sulla sua creazione all’interno di un sistema di norme
altrettanto valide), secondo Kelsen quindi una norma è valida se inserita all’interno di un sistema di norme altrettanto
valide. Bobbio afferma che il problema della validità corrisponde con il constatare che una regola esista o meno,
nonché che essa sia effettivamente una regola giuridica. La ricerca della validità si basa su studi empirico-razionali
(empirico= ovvero la sfera dell’esperienza cioè dati che derivano dalla realtà stessa, razionale= poiché si basa su
ragionamenti)---da qui deduciamo che si tratta di un giudizio di fatto, cioè basato su dei fatti. Come si accerta la
validità della norma?

▪ Accertarsi che l’autorità che l’ha emanata avesse effettivamente il potere legittimo di farlo, questo potere
tendenzialmente prevede delle procedure da rispettare.
▪ Accertarsi che quella norma non sia stata abrogata (caso di norme modificate o eliminate in funzione
dell’introduzione di norme più nuove) in modo esplicito o implicito.
▪ Accertarsi che la norma non sia incompatibile con altre norme del sistema gerarchicamente superiori,
altrimenti ci si ritrova di fronte ad un caso di ANTINOMIA

4
Il problema della validità viene definito da Bobbio ONTOLOGICO= ovvero problema dell’essere

3. Se essa sia efficace o inefficace= problema definito anche dell’affettività. Si tratta del problema se quella norma sia
o meno seguita dalle persone a cui è diretta (i destinatari della norma) e nel caso in cui sia violata, sia fatta valere con
mezzi coercitivi dall’autorità che l’ha emanata. Ci sono norme più o meno efficaci, cioè ci sono gradi maggiori o minori
di efficacia: ovvero che tutti la rispettino (seguita universalmente probabilmente per una questione morale e poiché le
persone la fanno propria. È il grado massimo di efficacia), nessuno la rispetti (nonostante siano previste le sanzioni, le
persone non le seguano) o alcuni la rispettano (vengono rispettate ma solo perché prevedono una sanzione e non
perché è bene seguirla). Esistono poi delle norme che vengono violate senza che però sia applicata alcuna sanzione
(grado più basso di efficacia). Il fatto che una norma sia valida non implica necessariamente che essa sia seguita. Come
accertare l’efficacia di una norma? Bisogna fare una ricerca storico-sociologica ovvero studio rivolto a osservare i
comportamenti di un determinato gruppo sociale per capire se la norma sia efficace nonché seguita o meno
(ATTENZIONE: una norma che cessa di essere efficace per molto tempo, perde di validità secondo Bobbio). Il problema
dell’efficacia viene definito FENOMENOLOGICO= cioè ci si domanda che, se noi osserviamo la vita giuridica di una
società, ‘’cosa appare osservandone i comportamenti?’’

Può essere introdotto un ulteriore criterio maggiormente moderno: l’impegno economico di una norma (costi e
guadagni che potrebbe causare l’introduzione di una norma)

I POSSIBILI RAPPORTI TRA QUESTI CRITERI

1) Una norma può essere giusta senza essere valida= esempio dei teorici del diritto naturale che formulavano
delle norme nei loro trattati che derivavano da principi giuridici universali, che erano solo scritte nel trattato
del diritto naturale, non erano valide. Lo diventavano solo se venivano accolte in un sistema di diritto
positivo.
2) Una norma può essere valida senza essere giusta= nessun ordinamento giuridico è perfetto: tra l’ideale di
giustizia e la realtà di diritto vi è sempre uno ‘’scarto’’ più o meno grande a seconda dei regimi (un esempio
tipico può essere quello della schiavitù o delle leggi razziali che nonostante fossero ingiuste erano
ugualmente valide).
3) Una norma può essere valida senza essere efficacie= un esempio tipico è quello delle leggi sulla proibizione
delle bevande alcoliche negli Stati Uniti (in realtà il consumo di bevande alcoliche durante il periodo del
proibizionismo non risultò inferiore a quando questo fenomeno non esisteva poiché il mercato delle bevande
rimaneva in mano alle mafie). Quindi queste norme sono valide dal punto di vista dell’ordinamento ma non
sono efficaci.
4) Una norma può essere efficace senza essere valida= esistono norme che vengono seguite spontaneamente o
per lo meno abitualmente (come le norme sull’educazione) ma non per questo sono anche valide dal punto
di vista dell’ordinamento. Il diritto consuetudinario costituisce un esempio di quelle norme che acquistano
validità giuridica solo attraverso la loro efficacia. Nessuna consuetudine può diventare giuridica (cioè
introdotta nel sistema) soltanto attraverso l’uso ma solo se accolta e riconosciuta dagli organi competenti a
produrre norme giuridiche. Perciò una norma può essere efficace senza diventare giuridica (questione molto
discussa)
5) Una norma può essere giusta senza essere efficace= molti esaltano la giustizia a parole, pochi però la
mettono in atto. Solitamente una norma per essere efficace deve essere prima di tutto valida, se le norme di
giustizia non sono valide a maggior ragione non potranno essere efficaci.
6) Una norma può essere efficace senza essere giusta= il fatto che una norma sia universalmente seguita non è
prova della sua giustizia/ingiustizia. I giusnaturalisti si chiedevano se una norma si basa sul ‘’consensus
humani generis’’ (consenso degli uomini) debba essere considerata una norma del diritto naturale poiché
riconosciuta da tutti i popoli la risposta a questa domanda però spesso era negativa, ad esempio il fatto che la
schiavitù fosse praticata dalla maggioranza dei popoli, non la rendeva un’istituzione conforme alla giustizia.

I tre criteri non possono essere legati tra loro per le seguenti motivazioni:

o Giustizia e validità non possono essere legate perché chi stabilisce che cosa è giusto? È una questione molto
soggettiva.
o Si cadrebbe in un sistema assolutistico (una persona che detiene il potere legittimo è l’unica competente ad
emanare le norme e quindi decide a suo piacere cosa e quando emanarle).

5
o Se tutti decidessimo cosa sarebbe giusto, ci sarebbero anche persone non competenti a ritenere cosa sia
giusto o meno: questo scaturirebbe in un problema di incertezza del diritto.

POSSIBILI CONFUSIONI TRA I 3 CRITERI

Secondo Bobbio i tre criteri di valutazione danno origine a tre distinti problemi e oltretutto sono l’uno INDIPENDENTE
dall’altro. I tre problemi distinti come abbiamo già presentato sono: giustizia (mira ad individuare quei valori supremi a
cui il diritto tende: teoria della giustizia), validità (determina in che cosa consiste il diritto come regola obbligatoria e
coattiva, i caratteri peculiari di un ordinamento e quali siano i mezzi per mettere in atto quei fini individuati dalla
giustizia: teoria generale del diritto) e efficacia (applicazione delle norme giuridiche e comportamenti effettivi degli
uomini: sociologia giuridica). Questa tripartizione è anche riconosciuta dai filosofi del diritto contemporanei. Questi
tre problemi sono tre diversi aspetti di un solo problema centrale ovvero quello della migliore organizzazione della vita
degli uomini associati. Bobbio perciò afferma che le confusioni create da questi 3 criteri portano al RIDUZIONISMO, in
particolare si riferisce a tre grandi condizioni del diritto. Forme di riduzionismo:

1)Insieme di teorie che tendono a ridurre la validità a giustizia= afferma che la norma è valida poiché giusta. Si fa
riferimento alla TEORIA DEL DIRITTO NATURALE sostenuta dai giusnaturalisti (alcuni sostengono che il diritto naturale
derivi dalla volontà divina e altri sostengono invece che questo diritto naturale si possa comprendere attraverso la
ragione). Si tratta di una corrente di diritto giuridico che crede che una legge è tale poiché conforme alla giustizia, se
fosse contraria ad essa sarebbe ‘’corrotta’’. Bobbio riporta in particolare un’affermazione di Gustav Radbruch il quale
sostiene che se facciamo riferimento alla sola validità delle norme senza ricorrere in altrettanto modo alla giustizia,
allora ci riferiamo per esempio alle leggi naziste che hanno violato il diritto fondamentale dell’uomo, quello alla vita.

Quando una legge nega la giustizia rifiutando quindi rifiuta i diritti dell’uomo, essa manca di volontà, secondo Gustav
infatti esistono delle leggi di tal ingiustizia e dannosità che bisogna rifiutarne il carattere giuridico. Il diritto
fondamentale massimo è l’eguaglianza e in caso questa venga negata, la legge non soltanto è ingiusta ma manca di
giuridicità (non esiste giustizia se non nell’uguaglianza). Il diritto in qualche modo deve perseguire la giustizia e anche
se non possiamo valutare ciò che è giusto o sbagliato, sicuramente il principio di uguaglianza sta alla base di ogni
legge. In questo caso ciò che definisce un diritto positivo deriva dal diritto naturale. L’ingiustizia perciò in questo caso
toglierebbe la validità (dipendenza di quest’ultima dal criterio di giustizia).

Bobbio risponde all’affermazione di Gustav nel seguente modo: che il diritto risponda a giustizia è certamente
un’esigenza ma non è una realtà di fatto poiché in qualche modo ogni ordinamento è imperfetto e contiene perciò
delle ingiustizie. Se ci domandiamo che cosa è di fatto il diritto, nella realtà sappiamo che vale anche l’ordinamento
ingiusto poiché imperfetto, non possiamo quindi domandarci che cosa DOVREBBE essere il diritto. Si potrebbe
accettare di riconoscere ‘’diritto’’ solo ciò che è giusto in una sola condizione: quando la giustizia è una verità evidente
e dimostrabile come le regole matematiche (poiché queste sono sicure e dimostrate, sappiamo che sono vere ma
Bobbio aggiunge che finché non riconosciamo la giustizia come una verità certa e universalmente valida, non sarà
possibile ciò che vorrebbe Gustav).—Questa è una pretesa dei giusnaturalisti ma Bobbio sottolinea come non sia
possibile arrivare a concepire la giustizia come verità certa: innanzitutto perché anche all’interno dei giusnaturalisti ci
sono delle contraddizioni sui criteri di giustizia e quindi nemmeno loro sono d’accordo su ciò che è giusto o sbagliato
(esempio di Kant, Locke e Aristotele che sono tutti giusnaturalisti ma con idee differenti). Per Bobbio ci sono 2 ragioni
che spiegano queste difformità tra giusnaturalisti: 1) l’uso del termine natura (termine generico che assume differenti
significati a seconda del modo in cui viene utilizzato, perfino Rousseau afferma che tra diversi autori è difficile anche
solo trovarne due d’accordo tra loro. 2) Se anche il significato di natura fosse univoco e si osservasse che una
determinata tendenza sia naturale, non si potrebbe comunque valutare se questa tendenza sia buona o cattiva perché
non si può dedurre un giudizio di valore da un giudizio di fatto— per farci capire a pieno questo concetto, Bobbio
presenta l’esempio di Hobbes e Mandeville che sono d’accordo sul fatto che una tendenza naturale dell’uomo è
l’istinto utilitario. Noi perciò possiamo valutare che la natura sia buona o cattiva ma questi valori non sono contenuti
nella natura stessa ma derivano piuttosto dalla valutazione razionale dell’uomo. Se si riduce la validità a giustizia ci
sono delle conseguenze che riguardano la certezza del diritto: infatti se considerassimo valido ciò che è giusto ma allo
stesso tempo ciò che è giusto non è certo per via delle contraddizioni tra i giusnaturalisti, di conseguenza il diritto
diviene incerto. Per questo è importante stabilire chi possa individuare ciò che è giusto o sbagliato; infatti se la
distinzione tra giusto o non giusto non è universale, bisogna chiedersi chi è che lo decide; potrebbero esserci due
risposte: (1) il potere di stabilire cosa sia giusto o sbagliato spetta all’autorità che ne ha la competenza. La certezza del
diritto viene anche ripresa nell’applicazione del diritto stesso: i giudici che applicano il diritto non devono avere

6
nessun grado di discrezionalità nel farlo, in questo modo però si conserva la certezza del diritto ma si risolve la
giustizia in validità perché sarebbe giusto ciò che è comandato dall’autorità competente. (2) Se non ci sono dei criteri
universali di giustizia allora la valutazione spetta a tutti: a questo punto però se chiunque ha il diritto di decidere che
una norma sia invalida poiché ritenuta ingiusta dal cittadino stesso, non si potrebbe avere una convivenza pacifica
poiché ognuno farebbe quello che vuole a seconda di ciò che ritiene giusto o sbagliato.

Bobbio perciò espone due argomenti:

◼ Molte teorie del diritto naturale sostengono che prima di entrare in uno stato sociale, l’uomo vivesse in una
condizione di ‘’natura selvaggia’’ (stato di natura) in cui vigono leggi della natura (basate sull’istino dell’uomo
e non sulla sua ragione); secondo i giusnaturalisti però bisogna uscire da questo stato naturale stabilendo uno
Stato e creando delle leggi che governino le persone in modo da mantenerle pacificamente tra loro. Per
Hobbes però ci sono conflitti continui tra gli uomini poiché la natura conferisce ad ogni uomo la facoltà di
decidere ciò che è giusto o meno: perciò, siccome in questo modo sarebbe impossibile vivere civilmente, gli
uomini devono fare un patto e rinunciare a tutti i propri diritti e affidarli ad un unico sovrano. Quest’ultimo
avrebbe un potere assoluto su tutti e avrebbe quindi il potere di stabilire ciò che è giusto o sbagliato (si
cadrebbe nel secondo riduzionismo). Tutti questi autori giusnaturalisti, Hobbes/Locke/Kant/Aristotele, sono
d’accordo sul fatto che il diritto naturale, che Kant definì ‘’provvisorio’’, non adempie al diritto positivo,
definito da Kant ‘’perentorio’’ (quello creato dall’uomo) poiché per ottenere la pace bisogna rinunciare al
diritto naturale per creare quello positivo: in questo modo solo il diritto positivo è diritto nel vero senso della
parola poiché quello naturale viene abbandonato.
◼ Il diritto positivo che non è conforme al diritto naturale viene considerato ingiusto dai giusnaturalisti, ma
anche quest’ultimi riconoscono che non per questo motivo allora non bisogna obbedire (accettare che una
determinata norma sia vincolante e quindi valida in un determinato ordinamento) a quella norma del diritto
positivo considerata ingiusta: TEORIA DELL’OBBEDIENZA. Questo porta alla teoria iniziale che afferma che
giustizia e validità non coincidono e quindi non possono essere ridotti l’uno all’altro.

Bobbio ci dice che quando ci poniamo il problema della giustizia, stiamo proponendo una teoria del diritto.

Hobbes è il padre del positivismo moderno e del positivismo radicale. Per lui lo stato di natura è uno stato di guerra di
tutti contro tutti in cui ognuno ha diritto su tutte le cose, dal quale è necessario uscire attraverso la rinuncia dei diritti
in funzione del deposito dei diritti stessi in una sola persona, il sovrano (teoria contraria a quello dello ‘’stato di
diritto’’ secondo la quale tutte le autorità sono sottoposte alle leggi e nessuna autorità proprio per questo motivo può
essere assoluta: a dominare è l’ordinamento stesso che corrisponde al sovrano).

Locke invece crede che ci siano dei diritti naturali fondamentali dell’uomo che debbano essere rispettati dal sovrano.
Per questo di conseguenza ritiene che esista un diritto alla ribellione nel caso in cui il sovrano non rispetti i diritti
naturali fondamentali dell’uomo. (principio che ha ispirato l’ordinamento degli Stati Uniti i quali permettono ai
cittadini di difendersi con le armi quando l’autorità non rispetti i diritti).

2)Insieme di teorie che tendono a ridurre la giustizia a validità= teoria opposta al giusnaturalismo. Afferma che la
norma è giusta poiché è valida e che quindi sia giusto ciò che è comandato. Ciò vale nel caso in cui si affida il potere di
stabilire ciò che è giusto o sbagliato alle autorità competenti, ai legislatori. A questo punto si tende ad affermare che è
giusto ciò che è valido ovvero ciò che è stabilito dalla legge. Il fatto che esista solo un diritto positivo è la dottrina del
positivismo giuridico (concezione secondo la quale esiste solo il diritto positivo, ovvero quel diritto prodotto
dall’attività degli esseri umani), i positivisti mantengono comunque la distinzione tra giustizia e validità poiché si
limitano ad affermare che è valido (poiché prodotto dall’autorità competente) ciò che a prescindere è giusto o
ingiusto. Ci sono dei soggetti che attraverso degli atti di volontà formali, producono il diritto, è essenziale perciò che la
norma sia prodotta da un atto di volontà di un’autorità (giuspositivismo volontaristico), allora come si produce una
consuetudine (dato che è un uso e non un atto di volontà)? Essa deriva da un comportamento che si ripete nel tempo
e viene quindi considerato obbligatorio nonostante non sia stabilito da alcuna autorità. Tra i positivisti giuridici,
scienziati del diritto che si occupano di descrivere che cos’è il diritto, è comune l’idea che esista solo il diritto positivo.
Il giurista invece scrive dei testi in cui espone il diritto ma in realtà con la pretesa di fare politica del diritto (proposta di
scelte su cosa dovrebbe essere il diritto). Il positivista quindi sostiene che la validità viene considerata in quanto tale a
prescindere dai giudizi sulla giustizia, ci sono tuttavia casi esposti da Bobbio che riducono la giustizia a validità. Per
esempio nell’idea di Hobbes, in cui lo stato di natura è una situazione conflittuale da cui è necessario uscire poiché

7
tutti gli uomini sono abbandonati ai propri istinti, proprio per questo nascono dei conflitti. Per cercare la pace però, il
filosofo sostiene che bisogna abbandonare lo stato di natura in funzione dell’entrata nello stato civile: gli uomini
devono perciò stringere un accordo (patto di soggezione) secondo il quale devono rinunciare ai diritti che avevano
nello stato di natura e porli nelle mani di un unico soggetto, il sovrano, al quale i cittadini conferiscono di
conseguenza, l’autorità di decidere ciò che è giusto o ingiusto (nello stato di natura la capacità di decidere ciò che è
più o meno giusto spettava all’arbitrio del singolo). L’unico criterio di giustizia in questo caso è la volontà del sovrano,
si ha una convenzione dei valori morali (poiché essi non sono giusti per natura ma per volontà del sovrano, quindi per
convenzione). Non esiste più un giusto per natura ma un giusto per convenzione. A questo punto validità e giustizia
coincidono: entrambi i criteri sono affidati alla volontà del sovrano (dove non c’è diritto quindi non c’è giustizia poiché
entrambi nascono una volta usciti dallo stato di natura). La teoria di Hobbes fornisce una sorta di giustificazione al
potere assoluto. La conseguenza di tutte queste circostanze è la riduzione della giustizia a validità: è valido e giusto ciò
che è imposto con la ‘’forza’’ dal sovrano, quest’ultimo rimane tale fino a quando mantiene il potere di imporre il suo
dominio. La convinzione hobbesiana porta ad una conseguenza: riduzione della giustizia alla forza (il sovrano è il più
forte tra gli uomini).

Bobbio sostiene però che distinguere la giustizia e la validità sia necessario per distinguere la giustizia dalla forza;
discute di ciò anche Platone nel dialogo tra Trasimaco e Socrate (il primo infatti sostiene che la giustizia sia l’utile del
più forte), in un altro dialogo Callicle addirittura condanna i più deboli ed esalta i più forti che prevalgono (in uno stato
di natura questa prevalenza della forza su altri è naturale e proprio per questo motivo, dato che si tratta di qualcosa di
naturale, lo ritiene giusto). Inoltre il filosofo Searle, aggiunge che anche nel mondo animale ci sono delle gerarchie così
come nel mondo umano, il maschio alfa teoricamente prevale ma Searle sottolinea che il potere del maschio alfa è un
potere di fatto che si basa sul mantenimento quotidiano di una forza superiore rispetto ad altri, può essere quindi
messo in discussione ogni giorno---non è un potere stabile perché perdura fino a quando si mantiene la supremazia.
Nelle società umane invece l’autorità che viene eletta secondo le leggi, non deve porsi tutti giorni il problema di come
mantenere il potere poiché non necessariamente il capo dello stato sia più forte di altri, si tratta di un potere
normativo che Searle chiama ‘’deontico’’ (riguarda il dover essere) non basato sulla forza fisica.

Bobbio cita anche Rousseau che nel ‘’Contratto sociale’’ afferma che la forza è una questione fisica e non ne può
derivare quindi una questione morale, assoggettarsi alla forza è un atto di necessità/prudenza e non di volontà (se
qualcuno ci minaccia noi agiamo per evitare di morire). Come potrebbe essere un dovere la forza? Ogni forza che
prevale sulla precedente ha diritto di potere che però non è di diritto poiché viene ogni volta superato da una forza
maggiore e quella precedente non vale più. Ammesso che si possa disobbedire alla forza non onnipotente poiché si è
forti ulteriormente, chi disobbedisce diventa il più forte e non è più obbligato ad obbedire (la sua disobbedienza
diventa legittima poiché vale la regola ‘’il più forte ha sempre ragione’’). Tenendo separati giustizia e validità, si può
distinguere il diritto dalla forza.

3)Insieme di teorie che tendono a ridurre la validità ad efficacia= perciò secondo questa teoria bisogna tener conto
solo del diritto che emerge dalla realtà sociale.

REALISMO GIURIDICO= correnti che si contrappongono sia al giusnaturalismo (viene considerata astratta poiché il
fatto che esista un diritto naturale è fantasia e inoltre aspirano solamente ad un ideale di giustizia, bisogna guardare
alla realtà---da qui definite correnti realistiche) che al giuspositivismo (lo accusano del formalismo giuridico cioè i
positivisti sostengono che è diritto ciò che è formalmente valido, ma sono viste come procedure troppo formali senza
guardare però al contenuto---da qui definite correnti contenutistiche). Per il realismo giuridico bisogna guardare quale
siano le norme realmente valide per la società in modo da capire quale sia il vero diritto di un paese---perciò non viene
considerato diritto ciò che è prodotto da atti normativi ma piuttosto vengono considerate norme quelle
consuetudinarie, esse emergono all’interno della società a prescindere che ci sia un atto a sancirlo (se una norma
viene formalizzata ma non applicata poiché nessuno la rispettata, non ha senso che stia nell’ordinamento). È un
problema significativo sul piano pratico: bisogna tenere conto di quel diritto che viene applicato effettivamente, per
capire come comportarsi di conseguenza. Esiste perciò un contrasto tra il diritto imposto e il diritto realmente
applicato, i realisti considerano quest’ultimo come solo diritto valido. Il realismo giuridico si sviluppa in tre diverse
correnti (realistiche e contenutistiche):

Scuola storica del diritto= nacque in Germania durante il periodo della restaurazione, i principali autori sono Puchta e
Savigny i quali si contrappongono all’illuminismo (si esalta la ragione dell’uomo come unico strumento per far
progredire la società). Gli illuministi vogliono produrre un grande sistema unitario di norme che duri nel tempo e che

8
raccolga e riordini tutte le norme vigenti nella vita cittadina in modo da gestire al meglio i rapporti giuridici: creano il
codice civile francese. Segue all’illuminismo la corrente del romanticismo (combatte il razionalismo con l’esaltazione
dei sentimenti e dell’interiorità dell’uomo: mette in risalto l’attività dello spirito e della creatività). Questa scuola
crede che il diritto sia espressione dello spirito e della tradizione del popolo, è perciò un fenomeno storico e sociale
che non si deduce razionalmente.—spirito del popolo=Volksgeist in tedesco, è il fondamento del diritto. Perciò
secondo questa teoria esistono tanti diritti diversi quanti sono i diversi popoli con ognuno le proprie caratteristiche (il
diritto si plasma dal basso). Il fulcro centrale e fonte primaria del diritto perciò in questo caso è il diritto
consuetudinario poiché sorge immediatamente dalla società e non è espressione della volontà di personalità potenti.
Come si forma e conforma il diritto? Lo si individua nelle azioni degli uomini che fanno e disfano col loro
comportamento, le regole di condotta che li governano.

Concezione sociologica del diritto= secondo momento dopo l’epoca della codificazione (creazione di un codice
unitario e universalmente comprensibile) in cui si sviluppa il realismo. Siamo agli inizi dell’800 in cui avviene la
RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, essa ha portato all’accentramento della produzione nei luoghi in cui c’erano le fabbriche
e quindi l’inurbamento delle persone che per lavorare, si spostavano vicino alle industrie. Questi cambiamenti radicali
hanno causato uno sfasamento tra il codice civile creato (il diritto valido), che già pochi anni dopo viene considerato
‘’vecchio’’, e la realtà sociale (il diritto efficace) che, a seguito di questa nuova situazione, differiva dal codice stesso.
Ci sono delle situazioni in cui i giudici erano chiamati a risolvere dei conflitti tra interessi, purtroppo però potevano
avvalersi relativamente del codice poiché non rispondeva più pienamente alle circostanze. Di fronte quindi
all’inadattamento della legge ai bisogni delle persone, si dava maggior peso al diritto giudiziario/giurisprudenziale
creato direttamente dai giudici che colmavano quelle lacune presenti nel codice. A questo punto nacquero due
diverse ideologie: quella del diritto libero (secondo la quale i giudici dovessero essere liberi di trovare il diritto nel
contesto sociale e non guardare e applicare forzatamente solo quello creato dal legislatore. A questa ideologia
aderirono Kantorowicz, Eugenio Enrich---metteva in evidenza il fatto che all’interno di uno stato unico com’era
l’impero Asburgico, in realtà c’erano delle parti in cui ci si regolava secondo delle regole non derivante dal codice
stesso. I giudici devono immettersi nel ‘’diritto vivente’’ che la società produce continuamente secondo Eugenio) e la
giurisprudenza dei concetti (metodo di interpretazione basato sulla fusione delle leggi a dei principi generali a cui il
giudice/interprete deve rifarsi a prescindere dalla considerazione di elementi che derivino dal corpo sociale stesso).

Concezione realistica del diritto (realismo giuridico)= ha avuto due aree principali di sviluppo ovvero l’America e i
paesi Scandinavi. La scuola del realismo giuridico americano aveva più facile area di sviluppo grazie al ‘’common law’’
(impostazione realistica del diritto in cui si sottolinea particolarmente il ruolo dei giudici che giudicando un caso,
stabiliscono un diritto---la loro sentenza infatti si applica anche ai casi successivi). I più importanti realisti americani
furono Oliver W. Holmes (introduce un’interpretazione più sensibile ai mutamenti sociali), R. Pound (difende il giurista
sociologo cioè colui che tiene conto dei fatti sociali) e J. Frank (sostiene che il diritto sia continua e imprevedibile
creazione del giudice nel momento in cui decide una controversia). Essi sottolinearono che anche il concetto del
‘’precedente vincolante’’ non corrispondesse alle esigenze della società: in particolare i problemi della desuetudine e
dell’obsolescenza sono problematici nel common law. Infatti questi due concetti appena nominati si contrastano: il
primo sancisce che una norma decada se non viene applicata per molto tempo e quindi ha perso l’efficacia ma allo
stesso tempo il common law dice che le norme diventano vincolanti col passare del tempo quindi più sono antiche più
sono vincolanti. In determinati casi però evidentemente il problema della desuetudine non può applicarsi proprio per
contrasto ai principi del common law nonostante questo tipo di diritto magari non corrisponda alle esigenze della
società. Perciò i 3 sociologi-giuristi sostengono che, per evitare che i due principi precedentemente esposti si
contrastino, i giudici debbano interpretare in maniera evolutiva il diritto in modo da adattarlo alla nuova società.

Per quanto riguarda il diritto scandinavo-continentale, il maggior esponente è senza dubbio Leon Petrazycki, fu
esponente della concezione psicologistica del diritto. Quest’ultima consiste nel pensare che le norme non sono altro
che un precipitato delle esperienze normative che avvengono nella psiche delle persone. Secondo P. le norme
esistono solo all’interno delle nostre menti e consisterebbero solo in esperienze come per esempio la reazione
attraverso un’emozione derivante dall’osservazione di un determinato fenomeno/comportamento di altri che a sua
volta in qualche modo ci disturba. Possiamo avere delle reazioni di repulsione o di apulsione nei confronti dell’idea di
un certo comportamento: quando abbiamo questo tipo di emozioni concepiamo una norma ma in realtà si crea solo
un ‘’fantasma emozionale’’---certe esperienze che accadono nella nostra psiche ci portano a creare delle proiezioni al
di fuori di noi di queste emozioni: la creazione della norma perciò è una proiezione che in realtà esiste solo nella
nostra mente. Critiche a questa ideologia: alcune di queste esperienze e quindi di emozioni sono spontanee ma alcune

9
invece derivano da altre esperienze (forma di condizionamento). Oltre a ciò, questa concezione presenta una grossa
problematica ovvero che le norme si riducono ad esperienze individuali e quindi soggettive perciò proprio per questo
motivo al posto di portare alla pace, saranno invece norme polemogene cioè creano conflitto. In realtà Petrazycki
ritiene che il diritto positivo non deve ridursi solo a questa esperienza emozionale ovvero a questa creazione: le norme
diventano tali quando saranno capaci di condizionare gli uomini allo stesso modo, in questa maniera tutti avranno la
stessa esperienza normativa, si crea uniformità e quindi non ci saranno più conflitti (in questo caso la norma sarà
universalmente condivisa). Il resto delle norme ritiene siano solo dei fatti normativi (norme create dal legislatore che
potenzialmente induce a produrre un’emozione) che non sono propriamente delle norme. Il ruolo della produzione
dei testi normativi è quello di unificare le esperienze normative di tutti gli uomini: solo in questo modo si producono le
norme.

In ogni caso la critica alle correnti sociologiche precdentemente presentate si è risolta con una revisione delle fonti del
diritto rivalutando altre fonti come il diritto consuetudinario e quello giudiziario. Il rapporto in queste due fonti tra
validità e efficacia

-diritto consuetudinario= validità ed efficacia coincidono ma questa affermazione non è del tutto esatta poiché non
sempre l’efficacia è accompagnata da validità (infatti non basta che un comportamento sia costantemente ripetuto
per renderlo valido: occorre innanzitutto che esso sia accolto in un determinato sistema giuridico—la violazione della
consuetudine porterebbe così ad una sanzione; in seguito necessita del requisito ‘’opinio iuris’’ ovvero la convinzione
che quel comportamento sia obbligatorio, per fare ciò è necessaria una norma che oltre ad essere efficace, sia anche
valida nell’ordinamento)

-diritto giuridico= l’unico problema qui sorge nel valutare se i giudici possano o meno appellarsi a quel diritto vivente.
Il diritto vivente può diventare norma quindi valido, oltreché efficace, nel momento in cui il giudice gli attribuisce la
validità di cui necessita quella norma consuetudinaria.

Per cambiare l’esperienza normativa, in caso non fossero sufficienti le sanzioni poiché non vengono seguite, si può
intervenire con le campagne di educazione in modo da suggestionare le esperienze.

FORMALISMO ETICO= concezione che afferma che è giusto ciò che è valido (positivismo radicale di Hobbes)---le
norme dell’etica e della morale non sono universalmente valide ma dipendono dall’essere norme del diritto positivo,
questo formalismo riduce la giustizia a validità.

(analisi dei saggi presenti nel libro ‘’filosofia del diritto’’)

ISTITUZIONALISMO GIURIDICO

Hans Kelsen è uno degli autori che fanno parte del positivismo giuridico ma non facente parte del relativismo etico,
sostiene che il problema della giustizia (non ritiene che esista un diritto naturale in cui dominano dei diritti universali,
poiché la giustizia comprende dei diritti che non sono universalmente condivisibili secondo ciò che dice Kelsen) e della
validità siano distinti tra loro. La sua teoria viene chiamata ‘’dottrina pura del diritto’’ e fu molto criticata nonostante
spieghi le sue idee in modo chiaro.

In Francia e in Italia fu sviluppata una concezione, in particolare dal filosofo del diritto francese Maurice Hauriou e
dall’italiano Santi Romano, chiamata ISTITUZIONALISMO GIURIDICO. Secondo gli istituzionalisti nel positivismo
giuridico c’è un’impostazione statualistica: infatti il positivismo tende a ridurre il diritto a ciò che è prodotto dallo stato
(si considera diritto solo ciò che è emanato dalle autorità competenti, in età moderna queste entità si identificano con
lo stato nonché l’ordinamento stesso). Questo punto di vista però è limitante: gli istituzionalisti si avvicinano all’idea
realista poiché vedono l’emergere del diritto in qualunque situazione in cui si crei una società. Per loro il diritto deve
contenere i seguenti elementi fondamentali: ‘’ubi societas ibi ius’’ (dove c’è socità, lì c’è una forma di diritto) e in altro
modo vale l’inverso ‘’ubi ius ibi societas’’ (dove c’è diritto, c’è società); il diritto deve contenere l’idea di ordine sociale
(escluso ogni elemento riconducibile all’arbitrio o alla forza materiale); l’ordine sociale, prima di essere norma, è
organizzazione e struttura della stessa società in cui si svolge).

Secondo l’approccio statualistico si possono incontrare diversi tipi di società ma che non producono tutte
l’ordinamento giuridico: solo alcune autorità ne sono competenti. I positivisti infatti hanno una concezione
normativistica del diritto: ovvero i normativisti rispondono alla domanda ‘’che cos’è il diritto?’’ con ‘’un insieme di
norme’’ ma non per forza questo insieme di norme deve essere identificato con lo stato, per questo motivo

10
normativismo e istituzionalismo non coincidono---quest’ultimo infatti identifica le norme in qualsiasi situazione si crei
una società. Kelsen pensa che il diritto nasce quando cominciano ad esserci, in una comunità di esseri umani, delle
forme di sanzione rispetto ai comportamenti considerati illegittimi organizzate socialmente (le sanzioni sono un
deterrente alla violazione delle norme della società, non deve essere una punizione istintiva). Perciò per Kelsen
esistono norme laddove si crea una sanzione in conseguenza ad un determinato comportamento: se però queste
sanzioni non sono totalmente chiare poiché per esempio imposte da norme morali, non si è ancora di fronte ad un
sistema normativo.

La tecnica del diritto poi evolve, secondo Kelsen, con la creazione dei tribunali che si occupano di verificare che ci sia
stata effettivamente la violazione delle norme---ciò da vita al potere giudiziario. Anche quest’ultimo può evolvere: può
esserci un accentramento del potere giudiziario nelle mani dei giudici, ci può essere anche l’accentramento del potere
esecutivo in organi specifici della società che se ne occupano, e solo per ultimo ci può essere un accentramento del
potere legislativo in un unico organo (come può essere il parlamento).

L’istituzionalismo si pone sia contro lo statualismo (perché non si tratta di un monopolio della produzione delle
norme, Kelsen infatti dice che anche nelle società dove esiste lo stato, esistono diversi gruppi sociali capaci di produrre
norme giuridiche e quindi per ogni gruppo valgono norme differenti---esistono vari centri di produzione delle norme )
che al normativismo (l’istituzionalismo afferma che non si tratta di un sistema di norme ma piuttosto di
un’organizzazione sociale). Ci sono 3 elementi fondamentali per far si che ci sia il diritto secondo l’istituzionalismo:

➢ La società= dove c’è società, c’è diritto (base su cui il diritto viene ad esistenza).
➢ Ordine sociale= ciò che la società vuole perseguire attraverso un’organizzazione dei rapporti tra i membri
della stessa società. L’importanza dell’ordine per identificare il diritto deriva dall’idea dell’istituzionalismo il
quale crede che il diritto non è la volontà di un solo singolo ma è l’insieme di norme che si sono sviluppate a
seguito della volontà della società stessa. L’ordine si produce spontaneamente attraverso l’organizzazione
per la quale non esiste effettivamente una norma che lo sancisca.
➢ Organizzazione= ciò che permette di realizzare l’ordine sociale. È l’elemento più importante perché è la
ragione per la quale il diritto è quello che è.

Questa società ordinata e organizzata secondo questi 3 elementi, S. Romano la chiama istituzione. Ciò vuol dire che il
diritto nasce da una fase inorganica (disorganizzata) ad una organica (organizzata): il passaggio da una fase all’altra è
chiamato istituzionalizzazione.

Laddove ci sono questi 3 elementi, ci può essere diritto: questa concezione dà vita al pluralismo giuridico, concetto
base dell’istituzionalismo, ovvero che il potere di creare norme non risiede solo nello stato come ritenevano i
positivisti, infatti lo stato è solo una delle tante fonti del diritto il quale nasce ogni tal volta in cui c’è una società
ordinata e organizzata. ATTENZIONE: per gli istituzionalisti anche una società a delinquere è ordinamento giuridico
poiché è organizzata e ordinata.

Bobbio osserva che un’organizzazione è un sistema di rapporti regolati ovvero disciplinati da delle norme; non è
necessario che queste norme siano sancite con atto esplicito poiché possono nascere anche per via consuetudinaria.
L’organizzazione quindi è un tipo di relazione ‘’normativa’’, perciò non si può dire che istituzionalismo e normativismo
sono completamente incompatibili (sono norme tacite che regolano i rapporti della società ma sono comunque norme
come afferma il normativismo). Tuttavia Kelsen si pone come problema fondamentale la validità di una norma la quale
è valida se fa parte di un ordinamento: bisogna perciò individuare le norme che fanno parte di quel determinato
sistema. La concezione di Kelsen tende proprio ad essere ‘’monista’’ ovvero che una norma per essere valida deve far
parte di un sistema normativo unitario. Questo concetto però allo stesso tempo si contraddice con il pluralismo.

LINEAMENTI DELLA DOTTRINA PURA DEL DIRITTO—HANS KELSEN

La purezza

Hans Kelsen nacque a Praga nel 1881 (Praga era città dell’impero austro-ungarico) da una famiglia austriaca ebraica, si
trasferì a Vienna dove proseguì con i suoi studi e insegnò in questa città. Assistette all’avvento del nazismo e poiché
era ebreo, si trasferì in Svizzera. Venne considerato uno dei più importanti giuristi a seguito dell’elaborazione della
DOTTRINA PURA DEL DIRITTO (REINE RECHTSLEHRE). Con questa espressione cosa s’intende? Ci sono innanzitutto 2
edizioni di questo testo: una pubblicata nel 1934 ridotta, ma nel corso del tempo la rielaborò fino a farla uscire

11
nuovamente nel 1960. Questa teoria è una teoria del diritto positivo che si occupa del diritto in generale, non si
occupa dell’interpretazione di particolari norme giuridiche. Questa è una TEORIA del diritto che si vuole solo occupare
del suo oggetto e ricostruire ciò che è il diritto e non ciò che esso deve essere. Essa perciò è una scienza e non una
politica del diritto. Inoltre è definita PURA perché è una teoria che vuole occuparsi di una conoscenza completamente
dedicata al diritto e a nessun altro elemento estraneo ad essa. Ma perché pura? Perché ai tempi di Kelsen già la
giurisprudenza era mescolata alla psicologia (il giurista scrisse dei saggi in cui si confrontò con Freud o con un filosofo
chiamato Lebron il quale disse che nel momento in cui gli uomini si raggruppavano intorno ad un capo, seguivano
questo in tutto e per tutto, si creava perciò un legame con questa figura. Altre teorie sociologiche affermarono che i
legami psicologici tra i membri di una società erano rappresentati dallo stato stesso mentre per Kelsen lo stato è un
insieme di norme), alla biologia, all’etica e alla teologia, non è quindi pura. Infatti a causa di ciò la vera scienza
giuridica va perduta e non c’è più una scienza vera e propria del diritto nella quale il giurista si senta competente.

Fatto naturale atto e significato giuridico

Per Kelsen la scienza del diritto riguarda la validità mentre la politica del diritto riguarda la giustizia. La dottrina pura
del diritto deve quindi riguardare solo il suo oggetto, il diritto senza alcun sincretismo metodologico ovvero senza fare
riferimento ad altre discipline. Kelsen afferma che per capire l’essenza del diritto, bisogna partire da tre assunzioni: 1)il
diritto è un fenomeno sociale; 2) la scienza del diritto a sua volta è una scienza sociale; 3) questa scienza sociale
differisce da quella naturale. Le scienze che studiano la natura sono basate sul principio di causalità, permettendoci di
individuare il rapporto di causa-effetto (se si verifica A, si verifica anche B). La società però è un fenomeno diverso
dalla natura: Kelsen dice che le norme possono essere scritte con una forma simile a quella di causalità perché in certi
casi consideriamo il comportamento umano come elemento naturale, tuttavia persiste una differenza sostanziale: se
vi è A allora DEVE esserci B ad esempio ‘’se è stato commesso un illecito deve essere applicata una sanzione’’ (nella
natura non c’è il verbo dovere perché l’effetto non deriva dalla volontà di qualcuno, è spontaneo). In questo caso la
connessione tra causa-effetto è stabilita dalle norme del diritto (essa sarebbe il significato di un atto compiuto da un
essere umano o sovrumano: il significato di quest’atto è una norma), non è spontanea. A questo punto è possibile
qualificare ‘’corretto’’ un comportamento conforme alla norma presupposta (presupposta perché noi presupponiamo
che esista una norma che disciplini un determinato comportamento) e viceversa con un comportamento difforme ad
essa. Ciò crea il principio di imputazione (imputazione giuridica ad una determinata fattispecie: è una norma ovvero
un atto il cui significato è una prescrizione o un permesso capace di connettere la sanzione all’illecito). Se noi però
analizziamo qualsiasi fatto considerato diritto, si possono distinguere 2 elementi: l’atto sensibilmente percepibile
ovvero ha un aspetto che si verifica materialmente quindi nel mondo causale/naturale (si tratta per lo più di un
comportamento umano) e il secondo elemento è un significato specifico quasi immanente e aderente a quest’atto.

Esempio: in una sala ci sono degli uomini he tengono dei discorsi e in seguito, alcuni si alzano in piedi mentre altri
restano seduti (atto sensibilmente percepibile) il significato di questo atto dal punto di vista giuridico è che una legge è
stata votata.

L’auto qualificazione del materiale sociale (significato soggettivo e oggettivo)

A conferire il significato giuridico di un atto sono le norme in un determinato ordinamento. I fenomeni giuridici non si
percepiscono con i sensi al contrario di quelli naturali, inoltre il significato degli stessi fenomeni giuridici non può
essere rilevato come un fatto esteriore. L’atto in quanto si esprime per iscritto o a voce, di per sé può dire qualcosa
attorno al suo significato, può quindi dichiarare il suo proprio senso, può portare con sé un’enunciazione di ciò che
significa. Tuttavia un fatto naturale non fa nessun tentativo per spiegare se stesso nella forma delle scienze naturali. Si
distinguono a questo punto un significato: oggettivo e soggettivo (può coincidere con quello oggettivo ma non è
necessario che sia così). Esempio: quando un’associazione segreta volta a liberare la patria da individui pericolosi
condanna a morte un individuo ritenuto traditore, soggettivamente essa sta richiamando una sentenza di morte per
giustizia ma oggettivamente appare come un assassinio (perché l’associazione è segreta e quindi agendo in segreto,
non svolge una sentenza capitale ordinaria: proprio per questo la sua sentenza, per il diritto oggettivo, appare un
reato di assassinio). Esempio 2: Il giurista ci fornisce un esempio tratto da un episodio della storia tedesca che ha
suscitato scalpore: si narra del capitano Fonk Kopenik il quale aveva avuto guai con la giustizia, era entrato in possesso
di un’uniforme di un ufficiale di polizia e si accorge che indossandola poteva dare ordini alle persone o addirittura ad
altri ufficiali nonostante lui stesso non fosse ufficiale, per questo fu arrestato ma la storia fu talmente particolare che
ricevette la grazia dal giudici. Questo atto nel suo senso soggettivo voleva essere un ordine amministrativo,
oggettivamente però era un delitto.

12
La norma come schema qualificativo

L’aspetto oggettivo è qualcosa di sensibilmente percepibile perché si svolge nel tempo e nello spazio, è un frammento
di natura determinato dalla legge di causalità. Proprio perché si tratta di un fatto naturale, non è considerato un
oggetto giuridico. Come facciamo a determinare il significato giuridico vero e proprio di un atto ovvero come avviene
la trasformazione di questo fatto in atto giuridico? Lo si fa attraverso ciò che Kelsen definisce senso oggettivo (il
significato dell’atto viene determinato dall’ordinamento stesso) che si distingue dal senso giuridico soggettivo (i
soggetti che compiono un certo atto intendono conferire un determinato significato all’atto). L’atto ottiene il suo
significato oggettivo attraverso l’attribuzione di una norma: questa a sua volta viene prodotta da un atto giuridico che
riceve il suo significato da un’altra norma.

I fatti naturali possono avere significati diversi a seconda di dove si realizzano: l’aspetto esteriore dei fatti naturali può
non distinguersi ma a questo punto come si può distinguere il significato oggettivo da quello soggettivo se gli stessi
fatti naturali non si distinguono tra loro?

Kelsen parla della norma come schema di interpretazione: il fatto naturale non ha alcun significato giuridico in natura,
ma questo vale anche per gli atti tra gli uomini poiché finché non c’è un ordinamento che individui gli atti stessi, questi
non hanno significato giuridico. Il fatto in questione infatti ottiene il suo senso giuridico per mezzo di una norma che
nel suo contenuto si riferisce e gli impartisce il senso giuridico in modo che l’atto possa essere interpretato secondo
questa norma. Un fatto però può anche essere interpretato secondo significati giuridici diversi, oggettivi o soggettivi, a
seconda delle condizioni in cui si svolge. La norma allora rappresenta una fattispecie e le assegna un determinato
significato giuridico: ciò si definisce schema interpretativo. Solo l’ordinamento attribuisce un significato oggettivo ai
fatti. Ci potrebbe essere però un’obiezione: Kelsen afferma che l’omicidio non viene considerato reato fino a quando
non viene riconosciuto come sanzione dall’ordinamento stesso, nel mondo della natura però non va contro nessun
ordinamento poiché non esiste (l’omicidio, nella natura, avviene ancor prima che venga creata una norma che gli
attribuisca un significato). Il problema è che Kelsen non tiene conto della realtà: infatti il legislatore crea una norma
sulla base di ciò che si osserva nella realtà o per ragioni politiche---ci sono delle condizioni che determinano che sia
opportuno che si crei la norma (il legislatore interviene quando si ritiene che il comportamento sia sbagliato, ciò è
possibile perché noi pensiamo che ci sia una giustizia condivisa nella società). Kelsen ci riporta che questi due aspetti
della realtà, il fatto e la norma, sono ben distinti: infatti secondo lui ciò che precede la norma non conta nulla poiché il
fatto viene riconosciuto e gli viene attribuito un significato solo DOPO che viene introdotta quella stessa norma (i
funzionari dello stato come il giudice devono applicare ciò che è previsto dall’ordinamento a prescindere che lo
ritengano giusto o ingiusto). La norma viene prodotta da un atto giuridico che a sua volta riceve il senso da un’altra
norma (quest’ultima norma è superiore e dà il potere di emanare leggi a quegli organi competenti, nel nostro
ordinamento corrisponde alla Costituzione): il significato dell’atto viene attribuito attraverso un processo di
interpretazione e di pensiero che fa riferimento al Codice penale o civile. Che questi fatti abbiano un senso vuol dire
solo che tali fatti nella loro totalità corrispondono a determinate disposizioni della Costituzione. Chi ha creato però le
norme della costituzione che rendono valide tutte le altre norme? Le ha create l’assemblea costituente e proprio per
questo noi presupponiamo che queste norme ‘’superiori’’ siano valide, per sapere però se queste norme siano a loro
volta effettivamente valide, bisogna verificare che anche l’atto con cui sono state prodotte sia valido e per vedere se
anche questo sia valido dobbiamo vedere se le norme superiori che conferivano il potere di emanare questi atti siano
a loro volte valide e così via---si crea un processo all’infinito: problema dell’ordinamento giuridico di Kelsen.

Lo scienziato del diritto deve considerare il diritto come quello scritto nell’ordinamento valido in quel momento. Le
norme esistono da quando vengono create, quindi sono valide, il problema della giustizia è diverso (ciò portò le
critiche a ritenere che Kelsen giustificasse anche il diritto nazista ma in realtà non è così: afferma solo che la norma è
valida quando viene creata, non attinge alla giustizia poiché è un problema diverso)

Come si pone la teoria pura del diritto di Kelsen alle consuetudini? Kelsen riconosce la possibilità che le norme si
producano per consuetudine e sostiene infatti che nella consuetudine si manifesti una sorta di volontà normativa. I
sistemi di diritto primitivi, direbbe Kelsen, sono decentralizzati: ovvero tutti i cittadini della società contribuiscono
nella creazione di norme giuridiche, ovvero sul piano della consuetudine.

La norma come atto e struttura interpretativa

Per verificare che il significato di un atto sia valido, lo si guarda attraverso le norme. Ma allora cosa sono le norme? La
norma come specifica struttura interpretativa è qualcosa di diverso dall’atto psichico col quale essa è voluta o

13
rappresentata. La teoria pura del diritto non prevede che la norma sia la volontà specifica di qualcuno o nemmeno
fatti fisici che hanno permesso di crearla. Quando si parla di produzione di una norma, la dottrina pura del diritto si
rivolge a comprendere qualcosa, un atto o un fatto, come diritto.

Tautologia= affermazione che afferma ciò che è già implicito a ciò per cui si riferisce (per esempio ‘’il bello è bello’’)---
Kelsen afferma che con la tesi per cui soltanto le norme giuridiche possono essere oggetto di conoscenza giuridica si
cade in una tautologia. Infatti dice che il diritto è l’unico oggetto della conoscenza giuridica, il diritto è norma e questa
è ciò che fa parte del diritto. Queste affermazioni sono tautologie, non spiegano cos’è effettivamente la norma. Una
norma è una categoria che non trova applicazione nel campo della natura quindi non hanno interpretazione di
causalità (il significato giuridico appartiene al mondo delle norme, non della natura). Quando certi atti naturali
vengono interpretati come processo giuridici, non significa che gli è stato attribuito un significato giuridico (poiché
quei fatti non corrispondono a nessuna situazione descritta dall’ordinamento, quindi di conseguenza non possono
essere fatti giuridici). La conoscenza di un giudice infatti diventerà giuridica solo quando collegherà il fatto constatato
con la legge che egli deve applicare (cioè può interpretare il fatto solo quando il contenuto di questo è specificamente
riconosciuto come contenuto di una norma). L’attività del giudice perciò non si limita solo alla
ricostruzione/constatazione dei fatti concreti o in generale all’atto conoscitivo, si tratta solo della preparazione di un
atto volitivo per mezzo del quale viene emanata una norma individuale e concreta ovvero la sentenza (quindi il giudice
si occupa sia di ricostruire i fatti e di interpretarli secondo una norma dell’ordinamento ma poi deve anche emanare la
sentenza attraverso un atto volitivo).

Ordinamento sociale

Ordinamenti sociali statuenti sanzioni

Il comportamento di una persona può riferirsi a una o più persone anche se non necessariamente, ciò vuol dire che
una persona può comportarsi in un certo modo nei riguardi di un’altra persona o anche di oggetti o animali. Il
rapporto tra una persona e gli oggetti con cui viene a contatto (altre persone, animali e così via) può essere diretto o
indiretto. Un ordinamento normativo che regoli un comportamento umano nella misura in cui esso è in rapporto
diretto o indiretto con altre persone, è un ordinamento sociale. La funzione di quest’ultimo è quella di produrre
attraverso le norme, un comportamento delle persone che sono sottomesse all’ordinamento stesso—indurre queste
persone a lasciare certi comportamenti considerati dannosi alla società in funzione di azioni socialmente utili.
Solitamente l’ordinamento produce un comportamento al quale ricollega una concessione/vantaggio quando viene
rispettato e un’inflizione/pena quando non viene seguito. Questo meccanismo viene definito principio di retribuzione.
Nel caso dell’ordinamento giuridico, esso può infliggere una pena privando il soggetto di certi beni come la vita, la
libertà, l‘onore, i beni economici: così un determinato comportamento, qualora porti a queste conseguenze, viene
considerato giuridicamente prescritto. Questa situazione appena presentata viene spesso descritta dicendo che ‘’se si
tiene un determinato comportamento, deve essere comminata una certa sanzione. La prescrizione di questo
comportamento però non implica il fatto che questo comportamento sia d’obbligo ma piuttosto che lo è la sanzione
che lo accompagna: quello che è dovuto è la sanzione e non il comportamento. Spesso nell’ordinamento giuridico, sia
il comportamento umano che quello a lui opposto comportano una sanzione: questi due comportamenti si escludono
a vicenda solo se non possono essere contemporaneamente osservati ovvero possono essere descritti solo se non
hanno una contraddizione logica. La sanzione ha carattere coercitivo perché inflitta al soggetto contro la sua volontà.
Un ordinamento è efficace quando il comportamento che porta ad una sanzione è determinato dal desiderio del
premio (vantaggio che porta il seguire quel comportamento) o dal timore della pena.

Ordinamenti sociali privi di sanzione

Ne rientra la morale in cui non vige il principio di retribuzione e, proprio per questo motivo, viene distinta dal diritto.
Nel momento in cui la morale prescrive un certo comportamento, implica che quest’ultimo sia approvato da un
pluralità di soggetti e il comportamento opposto sia allo stesso tempo disapprovato. Dicendo ciò, intendiamo che la
stessa approvazione o disapprovazione di un comportamento da parte di altri, comporta un premio o una punizione
quindi sono delle sanzioni. Perciò l’unica differenza tra ordinamenti sociali e morali è che apportano sanzioni
differenti, non che uno le abbia e l’altro no.

Sanzioni trascendenti e sanzioni socialmente immanenti

14
Le prime sono quelle che derivano da un’istanza sovraumana che dipende dalle credenze delle persone sottoposte allo
stesso ordinamento. Le seconde invece sono sanzioni che, non solo vengono applicate all’interno di una società, ma
vengono applicate per opera degli stessi membri della società.

TEORIA DELLA VALIDITA’ E NORMA FONDAMENTALE-KELSEN

Secondo Kelsen quando parliamo di fatto o atto giuridico possiamo distinguere 2 elementi:

▪ Fatto percepibile coi sensi , ciò però non porta con sé un significato giuridico
▪ Significato giuridico che è altro rispetto ai fatti percepibili, non lo ricaviamo all’interno di essi, non sono
quindi immediatamente percepibili (però il fatto percepibile coi sensi può avere un significato giuridico). In
alcuni casi però un fatto/atto giuridico possono tentare di spiegare il significato giuridico. Quest’ultimo può
essere soggettivo (nel caso in cui viene attribuito da un soggetto oppure l’atto stesso se lo attribuisce come
per esempio nel caso del testamento scritto dal testatore) o oggettivo (sancito dalle norme).

Come facciamo noi a capire qual è il significato giuridico oggettivo? Questo tipo di significato non può risolversi in ciò
che desidera il soggetto poiché è conferito ad un determinato atto/fatto da una norma giuridica la quale funziona da
schema di interpretazione. Quest’ultimo attinge ad una norma che si riferisce ad un fatto/atto determinato
percepibile con i sensi che possono attribuirsi un significato soggettivo ma che acquistano un significato oggettivo solo
se corrispondono al contenuto della norma (se fattispecie astratta e concreta descritta dalla legge coincide, allora
possiamo attribuire a questo atto/fatto giuridico un significato oggettivo). A determinare qualunque cosa abbia un
significato giuridico sono sempre delle NORME (ideologia del normativismo= dice che il diritto è norma---
incompatibile con l’istituzionalismo che conferma l’esistenza anche delle consuetudini che possono creare norme). In
generale se si attribuisce un significato giuridico ad un fatto/atto, vuol dire che esso corrisponde ad una norma. Il
significato non è mai nel fatto stesso ma deve essere concepito da una norma secondo Kelsen.

Quando possiamo dire che esiste una norma? Finchè quella norma non è valida nell’ordinamento, essa non esiste,
quindi non può attribuire un significato oggettivo ad alcun fatto/atto se non è valida nell’ordinamento. Kelsen, a
questo proposito, introduce un’importante equazione tra validità e esistenza delle norme: una norma giuridica esiste
se e soltanto se essa è valida (creata da un’autorità competente) all’interno di un ordinamento. Una norma esiste se e
solo se è creata dall’ordinamento e solo a quella condizione stabilita dall’ordinamento stesso (C’E’ ESISTENZA SE E
SOLTANTO SE C’E’ VALIDITA’---prospettiva del positivismo giuridico, secondo la prospettiva di Kelsen)

Quando una norma è valida? Kelsen innanzitutto con il termine validità indica l’esistenza di una norma. L’esistenza di
una norma positiva è diversa dall’esistenza dell’atto di volontà di cui essa costituisce il senso oggettivo (la norma è la
descrizione/espressione di un determinato atto di volontà) tanto è vero che la norma può avere vigore anche quando
l’atto di volontà a lei corrispondente non esiste più. Inoltre la validità di una norma deve essere distinta dalla sua
efficacia (fatto concreto di essere applicata non solo dagli organi giuridici ma anche dai soggetti sottoposti
all’ordinamento): certamente esiste un rapporto tra questi due concetti perché una norma per essere giuridicamente
valida deve essere almeno un minimo efficace, tuttavia una norma giuridica entra in vigore ancor prima di essere
efficace. Kelsen aggiunge che esiste un rapporto tra la norma, lo spazio e il tempo: il fatto che una norma sia valida,
significa che essa si riferisce ad un comportamento che può verificarsi in qualche luogo e tempo (non è obbligatorio
che si verifichi)—questo ambito di validità si dice limitato. Tuttavia può esistere una norma che si riferisce ad un
comportamento che può verificarsi sempre e ovunque. In referenza al tempo, possiamo parlare di tempo passato (casi
in cui la norma è retroattiva) e tempo posteriore (solitamente le norme che vengono create hanno validità pro futuro).
Infine Kelsen ci parla del fatto che esiste un ambito di validità personale che si riferisce all’elemento personale del
comportamento determinato dalla norma: si dice infatti che un ordinamento morale può ambire ad essere valido per
ogni persona ma l’ordinamento giuridico si ritrova con una validità circoscritta a persone che vivono sul territorio
nazionale o che per lo meno sono cittadini dello stesso anche se vivono altrove.

Vede la norma come significato di un atto, inoltre si parla di creazione di una norma in senso figurato poiché le norme
appartengono al mondo del ‘’pensiero’’. Si parla di norma nel momento in cui c’è stato un atto di creazione della
norma, è un particolare atto complesso giuridico il cui significato giuridico è la creazione di una norma. Questa norma
esiste quindi quando è il prodotto di un atto di creazione della norma il quale a sua volta si compone sia di atti
percepibili coi sensi che dal apposito significato giuridico. A questo punto ci si chiede cosa conferisce il significato
giuridico all’atto stesso di creazione della norma? Non sarebbe esatto affermare che sia un atto di volontà a conferire
il significato alla creazione stessa di una norma proprio per il motivo esposto all’inizio (la norma ha vigore anche

15
quando il suo atto di volontà non esiste più). Di conseguenza ci deve essere necessariamente una norma che dia
significato all’atto di creazione ma a sua volta questa norma deve avere un altro atto che le dia significato giuridico e
così via. In questo modo si produce però un processo all’infinito (recursus ad infinitum) non potendo quindi stabilire
se gli atti di creazione della norma abbiano o meno significato giuridico.

Esempio (libro ‘’che cos’è la giustizia’’): Kelsen si chiede quale sia la differenza tra il significato giuridico di un atto di
un criminale a cui viene consegnato il denaro e l’atto di un esattore a cui viene ugualmente consegnare il denaro. Dal
punto di vista soggettivo i due atti sono uguali ma dal punto di vista oggettivo no. Per quale ragione l’atto dell’esattore
crea una norma mentre quello del criminale no? Perché l’atto dell’esattore può essere interpretato a sua volta con
una norma generale fiscale, a sua volta questa norma fiscale può essere interpretata/ha validità grazie all’applicazione
di altre norme presenti nella costituzione. La costituzione, in base a cosa possiamo dire che è un insieme di norme
valide create a loro volta da atti giuridici di creazione delle norme? Possiamo dire che la nostra costituzione sia
‘’storicamente prima’’ per cui o c’è stata un’assemblea costituente, come nel caso dell’Italia, o un primo re che hanno
creato il primo ordinamento valido. L’atto mediante il quale è stata creata la costituzione storicamente prima, non
può essere interpretato come l’applicazione di una norma creata precedentemente in modo da conferire a quell’atto il
significato giuridico. Quando noi interpretiamo un qualsiasi fatto secondo un significato giuridico, noi stiamo
applicando una norma che gli conferisce proprio quel significato. Non possiamo però andare dietro all’infinito, ci deve
essere un punto di origine, perciò l’atto con cui è stata creata la costituzione non si può interpretare come
l’applicazione di una norma ad esso precedente.

Un altro tipo di significato che si può attribuire ad un determinato atto/fatto giuridico è quello morale: in questo caso
si fa riferimento a differenti morali (religiose, guerriere ecc…) e stiamo quindi attribuendo dei valori ad un
determinato atto/fatto. In ogni caso stiamo sempre applicando una norma, non giuridica ma morale (si presuppone
che ci sia una norma dietro il significato che si attribuisce ad un determinato atto/fatto, si presuppone anche che
esista un atto giuridico di creazione della norma che conferisca la validità alla norma stessa).

Se è possibile per alcune ideologie sostenere che certe norme hanno validità assoluta e universale, c’è il rischio che si
impongano agli altri senza vedere altri punti di vista: ciò tende a portare ad una mentalità autoritaria, infatti se il
giusto dovesse dipendere da un’opinione personale, io sono ‘’legittimato’’ a difendere ciò che è giusto per me senza
contare gli altri. Kelsen però cerca di distaccarsi da questa idea insistendo sul concetto di validità della norma grazie ad
un atto di creazione della norma stessa.

Kelsen quindi conclude dicendo che la costituzione storicamente prima sia una norma giuridica, deve essere un
presupposto del pensiero giuridico che interpreta gli atti/fatti secondo un significato giuridico. Quindi noi la riteniamo
una norma giuridica solo perché la presupponiamo come noma giuridica valida. Sulla base di questo presupposto,
Kelsen la definisce NORMA FONDAMENTALE (Grundnorm in tedesco). Questa è la teoria centrale del pensiero di
Kelsen: la norma fondamentale è quell’atto con cui noi presupponiamo il fatto che la costituzione sia una norma
giuridica e che quindi sia valida. La norma fondamentale però non è una norma di diritto positivo poiché non è stata
posta da nessuna autorità, se questa ci fosse l’avrebbe fatto attraverso un atto di creazione normativo che noi
presupponiamo abbia una norma precedente che gli conferisce il significato. In questo caso, nella norma
fondamentale, non esiste nessuna norma precedente e perciò noi la presupponiamo nel nostro pensiero per definirla
‘’valida’’. Questa norma fondamentale è una NORMA perché risponde alla domanda ‘’perché dobbiamo comportarci
secondo quanto prescrive la costituzione?’’ perché essa è una norma fondamentale e quindi presupponiamo che
abbia già validità.

In Italia abbiamo una struttura a gradi dell’ordinamento giuridico: alla base di questa piramide abbiamo atti
meramente esecutivi (norme che applicano ciò che dicono norme superiori). In tutti i livelli intermedi abbiamo atti che
creano norme di grado inferiore in quanto sono esecuzione e apposizione delle norme di grado superiore. Risalendo
arriviamo fino alla norma fondamentale che è la norma suprema dell’ordinamento: se noi non presupponiamo questa
norma valida, non possiamo definire valide neanche tutte le altre a cui conferisce la validità. L’aggettivo supremo può
aver differenti significati: in questo caso noi definiamo la norma fondamentale ‘’suprema’’ ma in modo relativo e non
assoluto ovvero noi la definiamo tale perché è la norma superiore rispetto alle altre ma non è assoluta perché è
presupposta valida da qualcuno. La norma fondamentale è quindi l’origine logica di tutte le norme giuridiche
dell’ordinamento ma non ne costituisce la loro giustificazione.

16
In alcuni testi Kelsen interpreta questa norma fondamentale come ipotesi della scienza giuridica: infatti per percepire
un ordinamento come valido, bisogna ipotizzare che ci sia questa norma fondamentale la quale è una norma
meramente pensata (ovvero per concepirla, dobbiamo per forza pensarla) e non creata attraverso un atto di volontà,
altrimenti ci sarebbe una norma ulteriormente superiore che conferisce validità a quest’atto. Secondo Kelsen quindi
nessuno può avere la pretesa di avere un fondamento assoluto della norma fondamentale ma bensì un fondamento
relativo proprio perché c’è qualcuno che la presuppone come valida.

In generale comunque una norma è valida se prodotta a sua volta in maniera conforme da una norma ad essa
superiore. Perciò l’atto giuridico e in particolare quello di creazione di una norma è correlato al problema della
validità. In fondo all’ordinamento abbiamo gli atti esecutivi al di sopra dei quali ci sono delle norme valide di grado
superiore fino ad arrivare alla norma fondamentale che è il grado primo della norma. La ‘’grundnorm’’ non è posta ma
presupposta come valida, si tratta di una superiorità relativa a quell’ordinamento specifico che però riconosce alla
norma fondamentale stessa l‘autorità di creare altre norme dell’ordinamento. Al contrario, si può avere anche il
riconoscimento dell’autorità suprema in questo caso assoluta.

La norma fondamentale è valida in e per un ordinamento (la si riconosce all’interno di uno specifico ordinamento e ne
crea le norme).

Quando viene posta una norma? Una norma secondo Kelsen è valida poiché la validità corrisponde all’esistenza
specifica di una norma (se una norma è valida esiste, altrimenti non esiste proprio o non del tutto). Quindi ogni
fondamento di validità è relativo: nessuna autorità al mondo può reclamare il diritto di essere l’autorità assoluta, essa
è tale solo se qualcuno presuppone una norma fondamentale che gli conferisce l’autorità. Il fatto è che la norma
fondamentale non è una regola della natura, è di diritto positivo quindi è l’uomo che la crea. Tutto ciò è chiamato
PROSPETTIVA DELLA RELATIVITA’ DI UNA NORMA. Quest’idea della relatività si oppone al giusnaturalismo che
afferma l’esistenza di un ordinamento universamente valido poiché intrinseco al mondo naturale, mentre per Kelsen il
fondamento di un ordinamento è relativo ma allo stesso tempo necessario (perché l’ordinamento è relativo alla
propria norma fondamentale ma allo stesso tempo questa è necessaria per creare l’ordinamento stesso).

Aporia/paradosso della norma fondamentale= se essa è il fondamento della validità delle altre norme, la norma
fondamentale è a sua volta valida se non esiste una norma ad essa superiore che le conferisce validità? Se noi
riteniamo che la norma fondamentale sia valida, allora non è la norma fondamentale perché dovremmo presupporre
una noma ad essa superiore che le conferisca validità. Allo stesso tempo se è fondamentale, non può ritenersi valida
perché noi la presupponiamo come tale. Per questo la norma non è valida poiché non è stata creata a sua volta da
unna norma ad essa superiore o da un atto giuridico di creazione che le conferisce la validità, però noi dobbiamo
presupporla come valida proprio per necessità concettuale (se non presupponiamo una norma fondamentale come
valida, non possiamo vedere la validità da nessun’altra parte. UNA NORMA E’ FONDAMENTALE IN UNO SPECIFICO
ORDINAMENTO). Kelsen interpreta la norma fondamentale non come affermazione ma come ipotesi ‘’se noi
presupponiamo tale norma come fondamentale, allora anche tutti gli atti ad essa sottoposti sono a loro volta validi’’.

La norma fondamentale è solo il fondamento della validità ma non è la giustificazione stessa della norma, questo tipo
di problema è affidato alla giustizia. L’idea di giustizia di una norma, ovvero il riconoscimento di una norma giusta o
meno, presuppone la validità di quella stessa norma (se si giudica una norma come giusta o sbagliata, allo stesso
tempo lo si fa perché la si riconosce come valida).

NORMA E VALORE

Il giudizio con cui si afferma che un determinato comportamento sia conforme o difforme ad una norma, viene
definito giudizio di valore. Il valore può essere: buono (quando giudica un comportamento conforme ad una norma) o
cattivo (quando giudica un comportamento difforme ad una norma). I giudizi di valore devono essere distinti da quelli
di fatto perché essi, senza essere in relazione con alcuna norma valida, affermano che qualche cosa è e il modo in cui
essa è. Il comportamento in relazione con la norma e oggetto del giudizio di valore, è un fatto reale (si valuta cioè la
realtà). Poiché le norme su cui si fondano i giudizi di valore derivano da atti di volontà umana, i valori da essi statuiti si
dicono ‘’arbitrari’’. Diversi atti di volontà umana possono produrre altri valori in contrasto con quelli prodotti
precedentemente proprio perché derivanti dalla decisione umana. Se le norme invece dovessero derivare da atti di
volontà sovraumana, si esclude l’esistenza di valori contrari a queste norme perché non dovute dalla decisione umana.
Si distinguono inoltre il giudizio di valore dalle norme che pongono lo stesso giudizio: non sono chiaramente la stessa
cosa perché sono le norme a istituire il giudizio e a renderlo quindi possibile.

17
Kelsen afferma che noi possiamo presupporre una norma come giusta o non giusta poiché si usa come parametro di
comparazione delle norme di giustizia.( Per esempio il valore più alto in un ordinamento è quello della vita: ciò implica
che le norme relative alla pena di morte sono ingiuste) che a loro volta hanno un fondamento relativo, fanno quindi
riferimento ad uno specifico ordinamento giuridico. Quindi il problema della giustizia ha un fondamento relativo che si
basa sulla:

Gerarchia dei valori= esistono dei valori molto importati per gli esseri umani che spesso entrano in contrasto tra loro
e quindi a seconda delle circostanze si antepone l’uno all’altro. Per esempio il valore della libertà che deve essere
sempre tutelata, durante il covid è entrata in contrasto con il valore della salute pubblica quindi chi risiedeva al
governo ha dovuto scegliere quale tra i due valori far prevalere (ovviamente la scelta può compiersi solo dopo aver
avuto la certezza dei mezzi utili per conseguire quel determinato fine).

A volte può accadere che i disaccordi sulla giustizia di una determinata norma, si attenuino in relazione ad un comune
assenso a ciò che è invece ingiusto. Le valutazioni di valore spesso sono frutto di scelte soggettive della componente
emotiva, talvolta la scelta dei valori può essere condizionata quindi a loro volta vengono condizionate sia il principio di
giustizia che di ingiustizia: per questo motivo sono relativi. Kelsen inoltre aggiunge che le norme giuridiche prevedono
sempre una sanzione perché riconosce che gli esseri umani tendono ad essere indotti a detenere uno specifico
comportamento a seguito di una conseguenza negativa che in questo caso sarebbe la sanzione. Ritiene che la violenza
vada utilizzata solo in determinati casi e sanzioni: chi ne abusa viene a sua volta punito, lo scopo è quello di creare un
sistema di monopolio della coazione la quale è previsa solo in casi specifici.

Se una norma esiste solo per convenzione (di una costituzione) la quale a sua volta è relativa, allora ogni dover essere
è relativo (perché al di fuori di un sistema di norme non esistono altre).

Gli atti di produzione di una norma possono essere molteplici: atto del legislatore, sentenza di un giudice
(nell’applicare la norma generale ed astratta, il giudice ne crea una concreta e individuale---applica la norma e la
rivolge ad una persona specifica), la consuetudine. Ricordiamoci che questi atti di produzione sono convalidati da
norme di grado superiore alle quali devono essere conformi, fino ad arrivare alla cima della piramide dell’ordinamento
nella quale troviamo la norma fondamentale che è presupposta come valida: questa è definita ‘’teoria a gradi
dell’ordinamento’’ di Kelsen.

PROBLEMA SULLA GIUSTIZIA DI KELSEN

Nel primo testo del 1934 della ‘’dottrina pura del diritto’’, si era già affermata l’idea che il diritto fosse il diritto
positivo (positivismo giuridico che si oppone al giusnaturalismo). I primi studi sul diritto si ebbero nell’università di
Torino in cui si affermò proprio la diffusione del positivismo giuridico. Ci fu inoltre la concezione di John Austin detta
‘’imperativismo’’ in cui alla domanda di ‘’che cos’è il diritto’’ si risponde con ‘’i comandi del sovrano’’. Questa
concezione ha comunque una base positivista come anche il normativismo di Kelsen. L’idea centrale di questo
ragionamento positivista però era il fatto che non si potesse fondare su un diritto naturale universale e assoluto che lo
influenzasse: si critica quindi il giusnaturalismo. Rifiutando il diritto naturale non vuol dire rifiutare anche l’esistenza di
una MORALE: il diritto serve a regolare la vita degli uomini in funzione della giustizia. Questa idea aveva varie forme: il
diritto deve essenzialmente essere giusto per poter a sua volta creare la giustizia, alcuni autori invece sostenevano che
fosse vero che gli ordinamenti sono differenti tra loro ma ci deve essere un nucleo minimo di giustizia che deve essere
garantito. Per Kelsen questa teoria non è sostenibile perché si avvicina ai presupposti del giusnaturalismo: infatti se si
ritiene che il diritto deve avvicinarsi a dei valori generali e universali di giustizia, vuol dire che esiste un rapporto
latente con la morale. Il diritto quindi è sempre relativo ma se deve conformarsi ad una morale che non è più
considerata come relativa ma piuttosto come un ‘’dover essere in assoluto’’ (è qualcosa che si presuppone come già
dato), si sta presupponendo che queste norme morali abbiano un valore assoluto e che quindi anche il diritto positivo
non risulterebbe del tutto relativo. In qualche modo il diritto non si libererebbe del tutto dall’idea dell’esistenza di un
dover essere indiscutibile assoluto perché dovrebbe sempre garantire questo nucleo minimo di giustizia assoluta.

Questo dover essere della giustizia, non è quindi creato dagli uomini; si concepiscono come dei principi di una morale
non scelti dagli uomini ma piuttosto che hanno una natura TRASCENDENTE (ciò vuol dire che sta al di là di qualcosa, in
una realtà che è altra rispetto al mondo visibile, è al di là delle apparenze). Questi valori non possono quindi derivare
dalla natura perché essa appartiene al mondo dell’essere, di ciò che è e quindi dei fatti ben visibili, piuttosto derivano
da un qualcosa al di sopra di tutti gli uomini poiché sfugge alla concezione empirica. Nella religione ciò che è
trascendente deriva dalle divinità, si presuppone che tutti gli esseri viventi abbiano un anima non visibile agli occhi

18
umani e che appartengano al mondo della METAFISICA (al di là del mondo materiale/naturale cioè al di là
dell’apparente, questo termine sembra che abbia origine dalla biblioteca in cui erano conservati i testi di Aristotele
posizionati dopo i libri della fisica quindi ‘’al di là’’ di essi). Se si presuppone l’esistenza dei principi di giustizia e quindi
della morale, si fa riferimento all’esistenza di un dover essere trascendente alla realtà umana. Se si pensa poi il diritto
normativo come basato su questi principi di giustizia trascendenti (ideologia presupposta ma non giustificata), allora si
sta sempre utilizzando una concezione metafisica anche per il diritto. Per Kelsen ciò non è possibile infatti cerca di
dimostrare che l’idea di un dover essere giuridico non debba essere applicato al diritto, propone quindi una
concezione diversa del dover essere come categoria non trascendente ma piuttosto TRASCENDENTALE. I termini
trascendente e trascendentale sono simili ma hanno significati filosofici diversi, in particolari sono ben presenti nella
filosofia di Kant. Come facciamo a sapere se ciò con cui noi veniamo a contatto, lo percepiamo davvero? Poiché questa
concezione di percezione deriva dal cervello, secondo lo scetticismo radicale è esso stesso a farci credere che
compiamo una serie di esperienze materiali. Nei secoli molti si sono posti questo dubbio, grazie a Kant si arriva ad una
‘’rivoluzione copernicana’’ (è la terra che gira intorno al sole al contrario della teoria tolemaica) nell’ambito della
teoria della conoscenza: questo filosofo ritenne che noi possiamo conoscere la realtà e accoglierla dentro di noi
soltanto attraverso i nostri sensi (percepiamo la realtà in un determinato modo poiché la passiamo attraverso i nostri
apparati percettivi e cognitivi) e le nostre categorie trascendentali, strutture formali come per esempio quella dello
spazio, del tempo e così via. Questa teoria però non si relaziona con il fatto che i nostri metodi di concezione come le
categorie non permettono di vedere sempre la realtà così com’è, il nostro rapporto con la realtà è costantemente
mediato dalle categorie che allo stesso tempo rendono possibile la conoscenza all’uomo, quindi le categorie si
definiscono trascendentali proprio perché rendono possibile la conoscenza. Il modo in cui si forma il
trascendente/norme della morale è un imperativo categorico, cioè vale sempre poiché si tratta di un ‘’dover essere’’,
corrisponde quindi ad un comando (come ad esempio: non uccidere, non rubare, onora il padre e la madre). Kelsen
sostiene che le norme giuridiche non sono di questo tipo, infatti la norma giuridica viene prescritta in altra forma,
secondo giudizi ipotetici come se si verifica il fatto A, allora deve esserci b, si applica la norma che implica una
determinata conseguenza giuridica, in questo caso siamo di fronte ad un rapporto normativo. Si tratta di una
relazione, definita da kelsen come ‘’RELAZIONE DI IMPUTAZIONE’’ istituita dagli esseri umani, in particolare dalle
autorità normative, che hanno creato una norma la quale imputa questa relazione normativa. In questo senso le
norme hanno una forma analoga a quei rapporti causali che sussistono nella natura con struttura se c’è A, allora c’è o
ci sarà B: Kelsen fornisce un esempio dicendo ‘’se avviene che un corpo metallico si riscalda, questo si dilaterà’’, in
questo caso siamo di fronte ad un rapporto di causalità (relazione naturale che sta nelle cose stesse, non dipende
dalla volontà degli esseri umani). In tedesco il verbo ‘’deve’’ si traduce con SOLLEN. Le relazioni esistenti perciò tra
norme naturali e norme giuridiche hanno una formulazione analoga ma differente poiché le prime sono indipendenti
dalla volontà dell’uomo mentre le seconde vengono istituite appositamente dall’autorità normativa.

Tutto questo discorso è collegato alla categoria trascendentale. Kelsen studiò anche il diritto nei popoli primitivi e in
particolare nei popoli animisti in cui si credeva che, in mancanza del concetto di causalità, ogni cosa accade per
volontà di spiriti della natura, perciò si riteneva che ogni cosa avesse un anima. Secondo queste concezioni se
capitasse una sventura ad una persona, ci si domanda non quale sia stata la causa ma quale sia la colpa di quel
determinato soggetto. Queste popolazioni quindi interpretano i fatti naturali secondo il principio di imputazione e non
di causalità: è capitato il fatto naturale A perché ci deve essere stato un comportamento B. L’antropologo Philippe
Descola, grazie all’osservazione delle tribù dell’Amazzonia è arrivato a formulare ciò che Kelsen aveva esposto già
tempo prima: racconto del marito e della moglie la quale fu morsa da un serpente e il marito si sentiva in colpa perché
il giorno prima aveva ucciso un numero di scimmie maggiore rispetto a quello necessario solo per il gusto del metodo
caccia e per questo sono stati puniti col morso del serpente.

Rapporto tra sanzione e illecito (ripreso a pag.14): l’idea di Kelsen il fatto che venga associata una sanzione ad un
fatto/atto giuridico, fa sì che questo comportamento sia un illecito. La caratteristica distintiva del diritto è quello di
prevedere delle sanzioni che consistono in coazione (sanzioni fisiche): secondo Kelsen la norma fondamentale
stabilisce che la coazione deve essere applicata secondo la costituzione o dagli organi da essa delegati in determinati
casi e modalità. La coazione, ovvero l’uso della forza, non è solo un mezzo con il quale il diritto deve avvalersi per
rendere efficaci determinate norme ma, secondo Kelsen, è il contenuto stesso del diritto che lo rende efficace perché
egli stesso regola la forza e permette di costruire un monopolio dell’uso della forza (la forza secondo Kelsen è
necessaria per il diritto come strumento per renderlo efficace, in modo da applicare anche quelle norme che non
vengono seguite spontaneamente)---soltanto chi ha l’autorità di usare la forza può utilizzarla ma sempre secondo le
modalità previste dall’ordinamento giuridico, l’uso della forza non autorizzato è un illecito che prevede a sua volta una

19
sanzione. Al contrario alcuni ritengono che sia illusorio dare una morale in una società senza che questa morale sia
efficace, come si può allora renderla tale? Tendenzialmente si associava alle norme della morale una credenza
religiosa che stabiliva che nonostante non si venga puniti in vita, ci possono essere delle sanzioni nell’aldilà.

Kelsen mantiene questa sua idea attraverso i cosiddetti ‘’frammenti di norme’’ ovvero quelle norme che
contribuiscono a determinare le condizioni con le quali si possono applicare delle sanzioni, non sono quindi delle
norme che prevedono direttamente delle sanzioni ma piuttosto ne prevedono le condizioni.

Riassumendo la prospettiva di Kelsen, dice che il dover essere unisce due parti di una proposizione attraverso un
giudizio ipotetico. Quest’ultimo è diverso da quello categorico (‘’devi fare X’’) tipico della morale. Essa si esprime
attraverso dei giudizi di questo tipo: devi aiutare il tuo prossimo. La struttura delle norme giuridiche invece è ipotetica
‘’se si verifica il fatto A allora ne deve seguire la conseguenza giuridica B’’. Secondo Kelsen la maggior parte delle
norme giuridiche sono riconducibili a questa forma del dover essere. Tuttavia esistono norme non riconducibili a
questa forma: è un limite in realtà che colpisce la teoria della norma di Kelsen. Kelsen fornisce una spiegazione a
questa problematica affermando che tutte le regole che non sono direttamente riconducibili a questa forma, lo sono
indirettamente e sono quelle norme che Kelsen chiama ‘’frammenti di norme’’ (condizioni che configurano il fatto A).
Il punto centrale è che il dover essere è trascendentale, cioè che esprime quella relazione normativa tra la sanzione e il
fatto a cui essa è imputato secondo il principio di imputazione (ci permette di vedere dei fatti normativi) il quale a sua
volta si oppone a quello di causalità (ci permette di vedere dei fatti naturali). Questa relazione di imputazione perciò
non è nelle cose stesse perché non la si percepisce coi sensi ma siamo noi uomini che la concepiamo attraverso il
senso che gli attribuiamo con le norme: perciò è trascendentale perché grazie al senso apportato da noi uomini
(quindi un senso che va al di là della realtà), esso si aggiunge a quello percepito con i sensi. Questa relazione di
imputazione viene formulata in norma giuridica come ‘’imputazione ad A della conseguenza giuridica B’’ ma anche la
relazione di causalità ‘’Se A allora ci sarà B’’ è un’imputazione sempre dalla parte di esseri umani perché nonostante si
tratti di un fatto naturale, sono gli uomini stessi a descriverlo attraverso quest’ultima formulazione.

La formulazione con la quale si esprime una norma giuridica ‘’se si verifica A allora ne deriva la conseguenza giuridica
B’’ si dice formale perché le norme giuridiche o in particolare il loro contenuto, imputano una coazione ovvero un atto
coattivo/coercitivo esercitato dallo stato (nei confronti: della persona stessa o dei suoi beni) ad una situazione A. Se a
questo punto B è una sanzione coattiva, allora A è l’illecito. Ogni volta che noi parliamo di fatto giuridico, Kelsen
afferma che ci siano 2 componenti: un fatto naturale e il suo significato giuridico (esso può essere soggettivo ma ciò
che conta è quello oggettivo nonché attribuitogli dalle norme).

Illecito= si verifica nei casi in cui l’ordinamento prevede una sanzione giuridica. Prima della sanzione quindi non c’è un
illecito: l’idea di Kelsen è proprio quella per cui prima che sia stata creata una norma giuridica che imputa una
sanzione ad un caso inquadrato come illecito, l’illecito non viene qualificato—solo quando inizia ad esistere una legge
che sanziona un determinato caso allora quest’ultimo può essere definito ‘’illecito’’. Ciò che costituisce qualcosa come
illecito è il fatto che nell'ordinamento a quel determinato caso sia imputata una sanzione. Non basta ad esempio dire
‘’uccidere è un reato’’ ma è necessaria la corrispondente sanzione, ovvero un atto coattivo dello stato. In questo
ragionamento possiamo trarne una problematica: noi tenderemmo a pensare che prima esiste l'illecito e poi ne derivi
una norma che lo disciplini invece nella prospettiva di Kelsen è proprio il contrario ovvero che quando viene ad
esistenza una norma, allora si può parlare di illecito—se A allora B. In realtà con questa formulazione potremmo dire
anche il contrario ovvero che una norma viene ad esistenza quando si verifica un illecito.

Kelsen afferma inoltre che ci può sicuramente essere una relazione tra la sanzione e l’illecito ovvero un fatto reputato
sbagliato, ma è importante tenere questi de elementi separati: uno è un giudizio di valore l’altro è un giudizio
meramente giuridico (giudizio sul quale deve fondarsi il diritto: questo tipo di giudizio può apparire anche ingiusto agli
occhi di tutti ma come afferma Kelsen il fatto che una cosa sia giusta o sbagliata, non è possibile stabilirlo in maniera
assoluta perché dipende da diversi fattori che sono anche differenti a seconda della società di riferimento. Si utilizza il
giudizio giuridico per sanzionare determinati illeciti perchè il legislatore cerca di mantenere una convivenza pacifica
tra gli individui. Il motivo per il quale il legislatore sia arrivato ad una certa norma, è rilevante nel momento in cui lo
scienziato del diritto studia come il diritto è)

Esempio: la lotteria di Babilonia, racconto in cui si introduce questa lotteria di Babilonia la quale una volta introdotta
nella società, ha iniziato a condizionare le vite delle persone attraverso i suoi premi. Tra questi premi però erano
inserite anche delle sanzioni. Questo racconto viene presentato per sottolineare questa assurdità.

20
Kelsen utilizza la distinzione tra norma primaria (norma che imputa una sanzione in presenza di determinati casi che
in seguito vengono individuati come illeciti) e norma secondaria (norma che deriva da quella primaria per processo
deduttivo: sono norme che indicano il comportamento da mantenere per evitare la sanzione). Data una formulazione
della norma primaria la quale afferma che ‘’se A allora deve essere B’’ (se si verifica la situazione ha allora si applica la
sanzione B), avremo in seguito la formulazione della norma secondaria ‘’non fare A’’. A può essere un comportamento
commissivo (se è sanzionato un comportamento commissivo, ciò comporta il fatto che A sia un comportamento
vietato) o omissivo (se è sanzionato un comportamento omissivo, ciò comporta il fatto che A sia un comportamento
obbligatorio). In realtà se noi ragionassimo su questo tipo di comportamenti, arriveremmo a pensare che qualcuno
potrebbe rispettarli solo perché si è in presenza di una conseguente sanzione, nel caso invece delle norme della
morale la situazione è diversa perché si seguono quei determinati comportamenti per il proprio senso etico. In questo
caso allora c’è una sovrapposizione tra norme giuridiche e morali perché le due coincidono. Nel momento in cui si
verifica l’illecito, Kelsen ci dice che la dottrina pur del diritto respinge la concezione secondo la quale un uomo con
l’illecito stia violando il diritto: la dottrina pura infatti dimostra che il diritto non può essere infranto o violato
dall’illecito perché è soltanto attraverso l’illecito che il diritto raggiunge la sua reale funzione. Illecito non significa
un’interruzione del diritto ma anzi lo si conferma attraverso l’atto coattivo come conseguenza dell’illecito: infatti nel
momento in cui si verifica quest’ultimo, il diritto inizia ad applicarsi (è come se stessimo affermando che senza
l’illecito, non è possibile applicare il diritto). Con questa affermazione Kelsen sembrerebbe contraddirsi con la
concezione secondo la quale senza la sanzione, l’illecito non ci sarebbe. In realtà se noi distinguessimo il piano astratto
da quello concreto potremmo affermare che: dal piano astratto si dice che un certo fatto diventa illecito solo se c’è B
ovvero la sanzione; dal punto di vista concreto quando si compie l’illecito, il fatto che ci sia una sanzione, fa scattare
una conseguenza giuridica attraverso la quale il diritto agisce.

In realtà, possiamo pensare che i motivi per i quali si rispetta il diritto possano essere differenti: ad esempio i valori
morali, religiosi o addirittura la paura della sanzione. Tuttavia queste motivazioni sono irrilevanti dal punto di vista del
diritto perché ciò che importa è la funzione dello stesso (ovvio che se parliamo di omicidio, è importante per quale
motivo lo si compia per infliggere le conseguenze adatte ma in questo caso si parla di intenzione nel compiere l’illecito
e non di rispetto del diritto). Per Kelsen il diritto è una specifica tecnica sociale cioè tecnica che serve per indurre le
persone a comportarsi nel modo desiderato. Di tecniche, dette di motivazione, ne esistono diverse e sono quelle della:
religione, diritto e morale. Si distinguono anche tecniche indirette (promettere un premio o una punizione) o dirette
(attraverso una norma). La morale tendenzialmente utilizza una tecnica di motivazione diretta attraverso formulazioni
come ‘’fai X, non fare X’’, non promette alcun premio o punizione ma semplicemente convince l’individuo a
mantenere un certo comportamento. Chiaramente questa tecnica non è sempre sufficiente, quindi di conseguenza si
prova con una tecnica di motivazione indiretta. La religione solitamente enuncia delle tecniche di motivazione
particolari ma indirette perché tendenzialmente premono sui concetti di premio e sanzione eterni dopo la morte. Il
diritto infine utilizza una tecnica di motivazione indiretta: se fai X ne deriva una certa conseguenza che può essere una
sanzione coattiva o un premio. In questo senso quindi sia il diritto che la religione usano una tecnica di motivazione
indiretta ovvero delle norme con formulazioni ipotetiche. Chi applica la sanzione in caso di norme religiose? La
sanzione viene applicata in una vita trascendente che sta al di là del nostro mondo conoscibile e la sanzione è
esercitata da esseri trascendenti. Viceversa nell’ambito del diritto, la sanzione è per Kelsen socialmente organizzata
ovvero che gli esseri umani stabiliscono in via preliminare chi debba applicare una determinata sanzione nel momento
del verificarsi di un illecito. Ciò significa semplicemente che la sanzione è predeterminata dalle norme umane e
applicata da esseri umani o meglio da organi delineati dallo stesso diritto. Per quanto riguarda la morale, siamo certi
del fatto che non ci siano delle applicazioni di sanzioni morali? Le sanzioni morali non sono predeterminate e
nemmeno preorganizzate perché la morale è un fenomeno instabile (varia sia nel tempo che nel luogo perché tutti
hanno idee differenti ed è difficile accordarsi su concetti che siano comuni) che è lasciato nelle mani degli stessi
individui. Ad esempio però nella società Barbaricina in Sardegna, si eseguivano dei delitti che non contavano come
illeciti (cosa che invece erano nell’ordinamento italiano) ma bensì come sanzioni a atti considerati molto gravi dalla
comunità. Un filosofo sardo, Antonio Pigliaru ha studiato proprio il fenomeno della vendetta barbaricina e il codice
d’onore che la regola: afferma che l’art.1 era stato formulato nel seguente modo ‘’l’offesa deve essere vendicata’’ e
‘’chi non vendica l’offesa non è un uomo d’onore’’. La vendetta in questo caso è un obbligo e viene utilizzata come
tecnica di imputazione indiretta: chi commette l’offesa verrà punito da chi l’ha subito. Anche per Kelsen la prima
forma di sanzione giuridica fu proprio la vendetta e ciò che è fondamentale è che in questo sistema di imputazione si è
sempre di fronte ad una coazione. Nei sistemi primitivi quando un soggetto offeso o un suo familiare esercita la
vendetta non lo sta facendo per suo istinto ma per un dovere dettato dalle norme della comunità. Quando viene

21
applicata questa sanzione, ovvero la vendetta, colui che la applica è un organo della comunità legittimato a farlo
perché sta adempiendo ad un obbligo imposto dalla stessa società. In Kelsen l’idea della coazione diventa
fondamentale: ATTENZIONE la coazione prevede la forza. Questa concezione genera una contraddizione: prevedere la
sanzione della vendetta serve innanzitutto alla compensazione (compensa il danno subito dalla vittima), alla
retribuzione (la natura dell’illecito e quello della sanzione deve essere la stessa ad esempio se un soggetto A compie
un furto a B, il soggetto B non può uccidere A ma ha diritto solo a compiere a sua volta un furto)—questo è assurdo
perché nella vendetta è permesso applicare ciò che il realtà il diritto cerca di evitare attraverso le norme che
prevedono una sanzione: questo non fa atro che aumentare la violenza. In realtà Kelsen riconosce che questo
ragionamento sia assurdo ma il diritto consente di applicare la violenza quando si verifica un illecito quindi in questo
caso un soggetto usa la violenza come organo della comunità, al di fuori di questi casi però si compie un illecito. Questi
atti coercitivi quando sono previsti come sanzione di un illecito, si compiono in nome della stessa comunità e vengono
permessi da essa: questo meccanismo legittima l’uso della forza in casi determinati per regolare l’utilizzo della stessa
forza tra privati. La forza è vista da Kelsen come strumento per mantenere il diritto e per contraddistinguere
quest’ultimo dalle norme della morale o della religione, siamo di fronte al ‘’monopolio dell’uso forza’’ (la comunità
avoca a sé il diritto esclusivo di utilizzare la forza, quest’ultima deve essere legittimata dalla comunità stessa). Kelsen a
questo punto propone una formulazione della norma fondamentale in questi termini: la coazione della forza deve
essere utilizzata soltanto alle condizioni previste dal primo costituente o dagli organi legittimati dallo stesso. Le regole
giuridiche quindi sono quelle regole che stabiliscono i modi e le condizioni di uso della forza istituendo il monopolio
della forza.

DIFFERENZA TRA ORDINAMENTO GIURIDICO E MORALE

L’ordinamento giuridico possiamo affermare che regola la propria creazione e la norma fondamentale è quel
presupposto che autorizza il primo costituente a creare delle norme. Queste ultime possono già prevedere delle
sanzioni oppure delegare altri organi o autorità a produrle. Come abbiamo già affermato una norma esiste solo se
posta da un progetto di creazione della norma: ciò vuol dire che chi compie un illecito non è subito sanzionato, lo è a
partire dal momento di creazione di una norma che legittimi la sanzione stessa.

Per quanto riguarda invece l’ordinamento morale, non esistono degli organi istituzionali o delle autorità incaricate a
crearle. Le norme della morale vengono create a partire da dei principi che si ispirano al nostro agire concreto: ci
chiediamo quindi che cosa sia giusto o meno fare e perché lo è? Innanzitutto è giusto detenere un determinato
comportamento poiché dobbiamo far riferimento al principio di ‘’suum cuique tribuere’’ ovvero attribuire a ciascuno il
suo—dovremmo tutti agire su questo principio generale.

Nonostante ordinamento giuridico e morale siano differenti, in entrambi i casi si può parlare di un codice di norme. La
norma fondamentale non dice che cosa deve essere sanzionato nel particolare ma si dice solo il criterio generale con il
quale creare queste sanzioni, si dice quindi che è una norma di natura formale e dinamica poiché dice solo chi può
creare delle norme giuridiche. Si dice altrettanto che dinamico e formale è l’ordinamento giuridico: dato che la norma
fondamentale delega la produzione di norme giuridiche senza specificarne il contenuto, vuol dire che qualsiasi
contenuto può essere il contenuto di una norma giuridica (perché la norma fondamentale dice solo chi è legittimato a
crearle ma non spiega il contenuto di queste norme)—per questo motivo Kelsen fu accusato di giustificare il nazismo
ma egli spiegò che non vuol dire che se una norma è valida allora è altrettanto giusta. Infatti nell’ambito morale le
cose funzionano in maniera differente: noi capiamo quali siano le norme morali poiché le dedunciamo dalla norma
fondamentale, sono quindi norme particolari che per logica derivano da una norma generale, nonché quella
fondamentale. Si dice quindi che esiste un rapporto di deduzione tra la norma fondamentale e le altre norme
dell’ordinamento; tuttavia la deduzione è un processo di ragionamento e non di creazione delle norme. In questo
senso allora tutte le norme deducibili dalla norma fondamentale sono già implicite ad essa: si dice quindi che queste
norme particolari siano di natura statica e materiale. Ciò che conferisce validità ad una norma giuridica è il modo in cui
essa viene creata e non il suo contenuto—cioè una norma è valida se creata dall’autorità che ne è legittimata
direttamente dalla norma fondamentale. Una norma morale invece è valida se il suo contenuto è dedotto dalla norma
fondamentale—queste ultime norme quindi si contrappongono a quelle formali proprio perché nelle prime si fa
riferimento al loro modo di creazione e non al loro contenuto mentre in quelle morali si fa invece riferimento al
contenuto ovvero al ‘’materiale’’ delle norme stesse

Ricapitolando, nell’ordinamento giuridico la norma fondamentale stabilisce solo il criterio formale di validità delle
norme: esse infatti sono valide se create da autorità legittimate dalla norma fondamentale stessa; viceversa le norme

22
della morale sono valide in virtù del loro contenuto quindi della loro materialità che deve essere deducibile dalla
norma fondamentale. Questo appena presentato è il principio di positività del diritto.

IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA e DELLA VALIDITA’

Per Kelsen e Bobbio dire che il problema del diritto deve occuparsi di ciò che il diritto è, non vuol dire che non bisogna
chiedersi cosa il diritto deve essere. Infatti noi non dobbiamo chiederci quale sia il diritto valido, proprio perché il
diritto è dinamico quindi in continua evoluzione, dobbiamo anche chiederci cosa il diritto deve essere: ciò implica che
se noi inquadriamo il problema della validità del diritto, non vuol dire che non dobbiamo anche porci il problema della
giustizia del diritto. In particolare Bobbio riporta una citazione di Ernest Gellner che nel 1961 scrisse che i filosofi si
trovano in genere di fronte ad un dilemma: esporre semplicemente i fatti di una determinata attività umana senza
andare al di là di essa.

Il problema della validità e della giustizia non si escludono a vicenda ma anzi sono due prospettive entrambe
necessarie poiché entrambe bilaterali. Infatti il positivismo giuridico che si concentra sull’analizzare il diritto valido, è
unilaterale poiché non tocca il problema della giustizia e viceversa nel giusnaturalismo (il giusnaturalismo ci viene
incontro alla nostra esigenza di modificare e migliorare il diritto vigente; al contrario il positivismo ci fornisce solo una
spiegazione logica del diritto senza analizzare però la giustizia e l’ingiustizia delle norme)—bisogna avere una
prospettiva critica verso il diritto poiché quando questo non ci soddisfa, lo si può cambiare sulla base dei criteri della
giustizia. L’importante è non fare confusione tra validità e giustizia: la confusione infatti entra in gioco nel momento in
cui le due filosofie, giusnaturalismo e positivismo (è una filosofia presupposta perché critica quelle norme che sono
esistenti e vigenti, infatti non si criticano delle norme facendo riferimento al criterio della giustizia ma piuttosto
facendo riferimento alle norme giuridiche valide), invadono il campo dell’altra—non bisogna affermare che un diritto
valido è anche necessariamente giusto perché si cadrebbe in uno dei riduzionismi che riduce la giustizia a validità e
vale la stessa cosa per il riduzionismo contrario. Questo perché la validità e la giustizia sono due problematiche
separate ma entrambe fondamentali per il diritto.

A volte i sistemi di norme si sovrappongono poiché ne esistono numerosi e diversi, la nostra vita è costantemente
regolata da norme. Tuttavia se noi ci chiedessimo ‘’che cos’è una norma?’’, risponderemmo che si tratta di una regola
(la regola a sua volta è un ostacolo, un limite o un vincolo che danno un raggio di possibilità ma la libertà di agire è
limitata), di un principio che ci permette di vivere pacificamente in comunità (in realtà i giuristi spesso parlano di
principi generali del diritto per fare riferimento a quei concetti di cui la cultura giuridica tiene sempre conto perché
influenzano il nostro modo di vedere l’ordinamento giuridico—possono sia essere formulati in norme che non
esserlo), di un contenuto di un comando (il comando può sia essere un atto linguistico che scritto). Quest’ultimo
concetto fu ripreso da John Austin che affermò che le norme fossero un comando del sovrano, in questo caso
assumono la forma di ‘’imperativi’’.

Per Kelsen la norma è il significato di un atto di creazione di norma.

Le regole quindi sono un limite che creano però delle nuove possibilità. La norma ha quindi 2 aspetti principali:
l’essere un limite e l’essere una possibilità (possiamo prendere come esempio il fiume e i suoi argini: gli argini
costituiscono un limite al fiume che scorre al loro interno ma allo stesso tempo senza questi argini non esisterebbe il
fiume stesso—il limite in alcuni casi è qualcosa che rende possibile il corso di azione). Il diritto quindi mette a sua
disposizione delle possibilità di azione che in alcuni casi non sarebbero possibili in natura.

Che cosa sono i codici? Sono un insieme di norme

Che tipo di entità (esistono nonostante siano immateriali) sono le norme? Se associamo le norme ai codici, sappiamo
che sono dei testi scritti. Se però associamo le norme alle consuetudini, sappiamo che queste non sono dei testi ma
dei comportamenti vincolanti. Nel caso invece delle istruzioni, sono delle regole che dobbiamo perseguire per arrivare
ad un determinato fine ma nessuno vieta di fare al contrario: il seguire queste istruzioni per raggiungere l’obiettivo è
quindi una necessità che può o meno essere imposto dalle norme, ciò dipende dai casi.

(continuo della domanda ’’che cos’è una norma?’’) Ci sono alcuni autori che si sono concentrati sulla distinzione di
diverse regole in base a determinate caratteristiche. Ma più che chiederci quanti tipi di queste norme esistano,
dovremmo chiederci CHE TIPO DI ESISTENZA HANNO QUESTE NORME? La norma potrebbe essere definita come un
comando, in particolare questa concezione coincide con l’imperativismo. Abbiamo anche visto che parlando di norme,

23
facciamo riferimento a dei codici ovvero dei testi scritti. Il comando e i codici, per quanto possano sembrare diversi, in
realtà notiamo che il comando potrebbe essere l’espressione a parole di ciò che è sancito nei testi scritti normativi
ovvero i codici. La differenza è che l’imperativismo fa più riferimento all’espressione di una singola persona, capace
attraverso il suo comando di produrre la legge. In molti contesti sociali antichi però le norme che regolavano la
società, non erano scritte quindi fatte attraverso dei comandi, ma piuttosto orali—parliamo di consuetudini: per
esempio in Grecia si parlava di nomos basileus= nella cultura greca, vigeva la regola che il re (basileus) fosse il nomos
ovvero un insieme di norme della società che non erano scritte, quindi nessun essere umano aveva un potere assoluto
secondo questa concezione (perché essendo che le norme del nomos basileus erano orali, esse non davano certezza
del diritto e tanto meno del potere del re).

Tornando a parlare però di norme come testo scritto, potremmo dire che sono un’entità linguistica: ma perché?
Prendiamo come esempio queste due frasi: a) Giovanni ama Maria e b) Maria è amata da Giovanni. Queste due frasi
hanno un testo differente, quindi un diverso enunciato (un insieme di parole costruite in maniera grammaticalmente
corretta, sono in grado di esprimere un significato), ma significato, quindi proposizione (significato espresso da un
insieme di parole, cioè da uno o più enunciati), uguale. Ciò che importa maggiormente a livello giuridico, è la
proposizione. ATTENZIONE: si parla di significato se facciamo riferimento ad una singola parola mentre di
proposizione se facciamo riferimento ad un insieme di parole. In certi casi può accadere che un solo enunciato dia vita
a più proposizioni. Facciamo un esempio con una frase: i cittadini devono essere protetti dallo Stato—questa frase
potrebbe significare che lo Stato debba difendere i cittadini contro possibili minacce. Se però immaginiamo di essere
in uno stato autoritario, bisognerebbe allora trovare delle garanzie che proteggano i cittadini dai possibili abusi
commessi dallo Stato stesso. Perciò in questo caso la frase ha due possibili proposizioni: questo fenomeno si chiama
AMBIGUITA’ SEMANTICA= quando un enunciato può esprimere due o più proposizioni, semantica è quella branca
della linguistica che si occupa dei significati sia delle parole che dei segni complessi e dei relativi significati complessi.
Anche le parole possono essere ambigue, ma come facciamo a sapere quale significato attribuire? Grazie al contesto
in cui ci si trova—la stessa cosa vale per le proposizioni.

Il problema di questa situazione è che la proposizione può essere soggettiva in base a chi la interpreta, se prendiamo
come riferimento lo Stato stesso, sappiamo che egli è il legislatore e i giudici sono coloro che applicano il diritto e
devono farlo secondo il significato corretto attribuito dal legislatore. Se invece si ritiene che il significato
dell’enunciato debba essere attribuito dall’interpretatore, si va incontro al PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE della
norma che starebbe nelle mani dei giudici.

Tornando all’enunciato, abbiamo affermato che è un insieme di parole legate tra loro da una ‘’sintassi’’ ovvero
un’altra branca della linguistica che si occupa delle possibili combinazioni entro un ordine dell’insieme di segni
presenti nell’enunciato. Secondo una concezione tradizionale delle norme, esse sono delle proposizioni di un
particolare tipo dette PRESCRITTIVE ossia invece di svolgere una semplice descrizione, introducono delle espressioni
che assumono un’idea normativa come per esempio la parola ‘’dovere’’ o l’uso dell’imperativo.

BOBBIO: FILOSOFIA DELLA NORMA—LA NORMA COME PROPOSIZIONE PRESCRITTIVA

Bobbio alla domanda ‘’che cos’è una norma’’ risponde dicendo che dal punto di vista formale la norma è una
‘’proposizione di tipo prescrittiva’’. In seguito specifica che cosa voglia dire proposizione: un insieme di parole aventi
significato nel loro complesso, il problema di questa affermazione è che descrive la proposizione come un insieme di
parole anziché il significato dell’insieme di parole, noi infatti associamo questa definizione all’enunciato. Perciò Bobbio
sta contraddicendo ciò che abbiamo presentato precedentemente. Continua osservando che normalmente la forma
più comune di proposizione è ciò che nella logica classica è il GIUDIZIO (S è P—si predica un determinato predicato
descrittivo ad un soggetto), però non tutti gli enunciati esprimono dei giudizi perché ci possono essere forme come
‘’guarda’’ che esprime un comando. Bobbio, come abbiamo già detto anche noi, distingue la proposizione dal suo
enunciato che definisce come forma grammaticale e linguistica con cui un predicato è espresso. Bobbio osserva che
più enunciati possono esprimere una sola proposizione (comune agli enunciati a prescindere da quali parole siano
utilizzate) ma anche viceversa, ovvero un solo enunciato può esprimere più preposizioni. Alcuni possono essere
enunciati non corretti oppure enunciati che grammaticalmente sono giusti ma che non hanno un significato che abbia
senso (per esempio frasi come ‘’Cesare è il numero prima’’).

Bobbio afferma quindi che ci siano diversi tipi di proposizioni e diversi tipi di enunciati, addirittura possiamo utilizzare
dei segni negli enunciati, che attribuiscono dei significati differenti: ad esempio se si utilizza il punto esclamativo o il

24
punto di domanda, abbiamo diversi significati. Perciò si possono distinguere in base alla forma grammaticale con cui
sono descritti oppure alla funzione che esprimono, per esempio le frasi:

Piove. –funzione descrittiva

Piove?—funzione Interrogativa

Accidenti piove!—funzione esclamativa

Prendi l’ombrello—funzione imperativa

Sono tutte frasi con forme grammaticali e funzioni differenti. Se invece prendiamo come esempio l’enunciato: ‘’al
padre succedono i figli legittimi in parti uguali’’—esprime una normatività, anche se non è presente il verbo ‘’dovere’’
che assume un significato DEONTICO ovvero che esprime un obbligo/una proibizione/un permesso. Esistono altri verbi
deontici come: potere (per esprimere un permesso e allo stesso tempo un divieto). L’enunciato preso come esempio,
ha la forma di una descrizione di una situazione, ma se troviamo la stessa frase all’interno di un codice, ha una forma
invece prescrittiva. Oppure ancora, se prendiamo in considerazione la frase ‘’è vietato fumare’’, può avere un uso
descrittivo perché sta descrivendo il fatto che non è permesso vietare in quel determinato luogo, allo stesso tempo
però assume un uso prescrittivo in funzione di una proposizione prescrittiva che sta dietro questa frase. Queste
distinzioni però non riguardano propriamente il significato dell’enunciato, perché rimane sempre lo stesso, piuttosto
riguardano la sua FUNZIONE: in alcuni contesti lo stesso enunciato è usato con la funzione di creare quel divieto
(funzione prescrittiva) mentre in altre situazione è usato con la funzione di descrivere quel divieto (funzione
descrittiva). Tutti quegli enunciati che contengono termini deontici sono suscettibili al cambio di funzione E NON DI
SIGNIFICATO che può essere in determinati contesti descrittiva, in altri prescrittiva. Perciò quando si parla della
funzione, ci poniamo a livello di ENUNCIAZIONE ovvero quell’atto del proferire un enunciato: può essere orale, scritto
e così via. Perciò in base al contesto in cui l’enunciato viene appunto enunciato, assume funzioni diverse, il significato
resta lo stesso. La funzione viene perciò analizzata da un’ulteriore branca della linguistica definita PRAGMATICA, essa
fa riferimento al linguaggio come forma di azione, studia quindi il rapporto tra l’enunciazione e la funzione che assume
quello specifico enunciato. Bobbio distingue tre funzioni principali del linguaggio:

✓ Descrittiva= presenta una determinata situazione


✓ Espressiva= funzione con la quale si esprimono le sensazioni e i sentimenti, sarà associata alla funzione
esclamativa
✓ Prescrittiva= prescrivere degli obblighi, divieti o permessi, in generale delle norme

In realtà ne esistono molte altre non principali che lo stesso Bobbio individua, come ad esempio quella interrogativa
(porre delle domande).

Bobbio distingue tipi diversi di proposizioni in base alla forma e in base alla loro funzione. Dal punto di vista della
forma si distinguono le proposizioni: dichiarative (esempio: fuori sta piovendo.), interrogative (esempio: sta
piovendo?), esclamative (esempio: che bella giornata!), imperative (esempio: prendi l’ombrello). Per quanto riguarda
invece la funzione avremo: asserzioni, domande, esclamazioni, comandi. Queste due categorie sembrano
complementari, però Bobbio specifica che questa corrispondenza non è necessaria poiché in realtà la stessa funzione
può essere espressa in forme diverse, per esempio si può esprimere un comando in forma di domanda: ‘’mi può
portare un caffè?’’. Se prendessimo come esempio l’enunciato dell’art.57 ‘’al padre e alla madre succedono i figli in
parti uguali.’’ notiamo che si tratta di una forma dichiarativa ma dal punto di vista della funzione, sappiamo che è un
comando previsto dal Codice Civile ma può anche essere una asserzione, dipende tutto dal contesto in cui è inserito.
Se ad esempio davanti al cancello di una casa si trova un cartello che recita ‘’attenti al cane’’, la forma è esclamativa
ma la funzione è il comando, invita ad essere prudenti. Bobbio osserva anche il contrario, cioè che la stessa forma può
assumere funzioni diverse. Per questo ad una forma non è necessario che corrisponda la funzione tipica a lei associata.
Bobbio inoltre ci dice che le funzioni principali però in realtà sono 3: descrittiva, espressiva (vengono espressi dei
sentimenti o uno stato d’animo come ad esempio: che sete!), prescrittiva. Ciò che però interessa maggiormente a
Bobbio è soffermarsi sulla differenza tra linguaggio descrittivo e prescrittivo. Questi ultimi si distinguono per 3 aspetti:

1. Funzione= quella descrittiva (corrisponde per Bobbio ai testi poetici e viene utilizzato tendenzialmente per
informare qualcuno) e prescrittiva (tipica dei testi normativi e consiste nell’indurre qualcuno a tenere/evitare
di tenere un determinato comportamento, quindi lo si modifica.)

25
2. Criterio di valutazione= quando si utilizza il linguaggio descrittivo per informare, possiamo ritenere che
quella determinata informazione o in generale una proposizione descrittiva sia vera o falsa. Se invece
facciamo riferimento alla proposizione prescrittiva, ciò che si dichiara non può essere né vero né falso poiché
si tratta di un comando volto a modificare un comportamento. Perciò il linguaggio descrittivo si definisce
VERO FUNZIONALE, non vale invece per quello prescrittivo. Se un determinato enunciato lo troviamo nel
testo del Codice civile, assume una funzione prescrittiva, se invece lo troviamo in un testo di tesi ad esempio,
lo stesso enunciato assume una funzione descrittiva e può essere quindi valutato come vero o falso. Per
quanto riguarda il linguaggio prescrittivo, esso può essere invece valutato secondo i criteri di valutazione
dell’efficacia (riguarda il comportamento del destinatario di una norma quindi di un enunciato prescrittivo,
infatti una norma è efficace quando il destinatario conforma il suo comportamento ad essa—si ha quindi un
atto di esecuzione del comando. Se però prendiamo come riferimento un enunciato descrittivo, come
reagisce il destinatario della norma? Dipende se si ritiene l’enunciato vero o falso: nel caso si ritenga vero, si
acquisisce una nuova credenza), validità (riguarda l’origine della norma) e giustizia. Nel caso prescrittivo
quindi, prendendo sempre come riferimento il destinatario delle proposizioni, si ha un atto di esecuzione del
comando che non è suscettibile dell’essere vera o falsa ma ci si pongono altre domande riguardo ai 3 criteri di
validità, efficacia e giustizia, mentre nel caso descrittivo, si acquisisce una nuova credenza.

V.Crisafulli, G.Tarello, R.Guastini individuarono la distinzione tra disposizione (insieme di parole, ovvero l’enunciato) e
norma (il significato espresso da quell’insieme di parole, quello che noi chiamiamo ‘’proposizione’’) collegandoci
all’attività dei giudici. Il fenomeno dell’ambiguità, cioè che uno stesso enunciato può assumere più significati e
funzioni, è molto frequente perché l’utilizzo delle parole e il corrispondente significato dipendono sempre dal
contesto in cui sono inserite. Ciò significa quindi che quasi tutte le disposizioni possono esprimere più di una norma,
ovvero più di un significato. È proprio in questo momento che si introduce il concetto di INTERPRETAZIONE: per
ricavare la norma da una disposizione è necessario compiere questa attività di interpretazione. I testi delle norme
infatti sono composti da enunciati/disposizioni che vengono interpretati, qui si pone però un problema perché
l’enunciato può essere interpretato diversamente a seconda dei soggetti che svolgono questa attività: tante volte
bisogna pensare che determinate norme generali ed astratte applicabili a dei casi concreti, possono portare a delle
conseguenze paradossali per il significato che in realtà la disposizione vuole esprimere. Il testo infatti può essere
interpretato in maniera restrittiva o estensiva/elastica: in quest’ultimo caso la disposizione assume differenti
significati in base alle possibili interpretazioni svolte da diversi soggetti. Il caso più dibattuto è quello sulla LEGITTIMA
DIFESA, dove si analizzano differenti situazioni/casi concreti ritenendo se ricadono o meno sotto il concetto astratto di
legittima difesa. I concetti astratti però possono variare nel tempo e soprattutto designano dei fenomeni che per loro
natura non possiamo stabilirne dei confini netti (come ad esempio il concetto di giovane o anziano: quando una
persona inizia ad essere anziana o cessa di essere giovane?), sui casi di confine definiti anche ‘’clausole generali’’
quindi si è in disaccordo poiché si è di fronte al vago (casi come il comune senso del pudore, il comportamento del
buon padre di famiglia). La soglia di sensibilità a questi casi, varia in base al contesto: sarà il giudice a stabilire come
agire. Si va incontro al PARADOSSO DEL SORITE (paradosso del mucchio): è impossibile determinare in maniera
univoca quando qualcosa inizia/cessa di essere un mucchio. Nei casi in cui il legislatore fa riferimento alle clausole
generali, è lui stesso che delega i giudici a decidere, con una determinata elasticità, dei casi concreti.

La distinzione tra disposizione e la norma ci dimostra che non è necessario che ci sia una corrispondenza univoca tra
testo normativo e il suo significato: da qui ne deriva il problema dell’interpretazione poiché diversi interpreti possono
dare significati quindi norme differenti allo stesso testo. Questo non contribuisce di certo a garantire la certezza del
diritto poiché se da un testo possono derivarne diverse interpretazioni, vuol dire che non c’è un testo univoco e
comprensibile allo stesso modo a tutti. L’ideale della ‘’certezza del diritto’’ portò alla stesura del codice civile francese
creato con lo scopo di ottenere un testo normativo unico che disciplinasse tutti quei rapporti che riguardano la sfera
civile o penale e così via. Così facendo si permetteva di conoscere le conseguenze ad un determinato comportamento,
proprio perché i codici erano insiemi di poche leggi chiare e facilmente comprensibili da tutti garantendo in questo
modo anche il principio di eguaglianza. Il codice però è un insieme di enunciati/disposizioni, alcuni dei quali possono
essere suscettibili a interpretazione, problema che crea incertezza del diritto e diseguaglianza (lo stesso caso potrebbe
avere più interpretazioni). L’attività di interpretazione si divide in due fasi:

• Interpretazione= in ciascun grado della concatenazione produttiva, avviene questa attività attraverso la
quale si legge un testo e se ne ricava il significato. A questo punto si possono ottenere diverse interpretazioni
perché le norme non essendo totalmente determinate, restano in parte indeterminate (quelle parti non

26
riportate nelle norme, restano ‘’vuote’’ di interpretazione) lasciando un minimo di libertà di decisione per
l’interprete. Questa indeterminatezza delle istruzioni, nel momento dell’esecuzione cioè di un atto concreto,
deve essere colmata. Se facciamo riferimento a testi poetici, spesso l’ambiguità è funzionale al poeta che
vuole ottenere più interpretazioni. Ma quando un testo normativo contiene un’ambiguità, rimane
un’indeterminatezza su come eseguire il testo normativo che deve essere colmata. Chi deve applicare quella
determinata norma, deve per forza fare una scelta interpretativa (scegliere tra più interpretazioni quella che
si addice maggiormente al caso concreto). QUANDO SI DA APPLICAZIONE ALLA NORMA E’ NECESSARIA
L’ATTIVITA’ INTERPRETATIVA (idea di Kelsen), un grado di indeterminatezza resterà sempre e questo porta
alla discrezionalità di interpretazione. Nel caso in cui il legislatore utilizzi dei termini vaghi, lascia un
indeterminatezza molto ampia, portando ad avere discrezionalità di interpretazione nell’applicazione delle
norme diverse. Questa indeterminatezza costante crea un grado di incertezza e disuguaglianza nel diritto che
fino ad un certo limite sono tollerati.
• Applicazione= atto con cui si applicano le norme del diritto (abbiamo una concatenazione produttiva di
norme ovvero ne vengono prodotte sempre di nuove di gradi differenti: superiore o inferiore in base alle
autorità che le producono)

Nel problema di interpretazione si distinguono due diversi problemi:

VAGHEZZA= incertezza del termine derivante dalla sua indeterminatezza. Essa può essere illustrato con l’esempio
fornito da H.L.A. Hart di un lampione che illumina una porzione di strada in una notte buia. In una situazione di questo
genere, i confini di quest’area illuminata non sono netti: si nota chiaramente un nucleo luminoso, una zona lontana di
buio totale e una zona intermedia di penombra. I termini vaghi hanno esattamente questa struttura: nei casi in cui i
termini sono nella zona di penombra, il giudice dovrà confrontarsi con quanto contenuto in una determinata
disposizione. Essa può anche non essere ambigua ma al contrario può essere vaga perché riguarda una clausola
generale come ad esempio il comune senso del pudore: come si fa a determinare che un caso concreto ricada in
questo concetto astratto del comune senso del pudore? In questo caso sta al giudice giudicare liberamente se una
fattispecie concreta ricada sotto un concetto astratto/fattispecie astratta—questa attività prende il nome di
SUSSUNZIONE. Se il giudice sussume un caso concreto sotto la fattispecie astratta, allora si applicano le conseguenze
giuridiche previste per questa, altrimenti al contrario starà alla discrezione del giudice la decisione. In questi casi vaghi,
si svolge comunque l’attività di interpretazione ma il problema non si colloca a livello del significato ma di sussunzione
della fattispecie concreta sotto la fattispecie astratta (abbiamo quindi un problema sul piano della realtà e non sul
significato del testo).

AMBIGUITA’= si tratta di un problema di interpretazione di possibile significato del testo (la stessa disposizione può
avere due o più norme). Kelsen, nella sua teoria dell’interpretazione, afferma che se i significati derivanti dalla stessa
disposizione sono due, entrambi sono validi e sta al giudice decidere quale applicare. Con il problema dell’ambiguità
sussiste un problema sul piano del significato del testo.

In realtà nell’ambito dell’interpretazione esistono due importanti teorie:

1. Formalista/cognitiva= è la teoria del giudice ‘’Bocca della Legge’’. Egli afferma che è il legislatore che deve
stabilire quali siano le conseguenze giuridiche mentre i giudici devono limitarsi ad applicare formalmente ciò
che è stabilito dalla legge, il giudice quindi è solo la ‘’bocca della legge’’ e non ha potere discrezionale, perciò i
casi vengono interpretati tutti alla stessa maniera. Anche di fronte ad un testo ambiguo, esiste un’unica
interpretazione che è quella che corrisponde alla volontà del legislatore. In questo caso l’interpretazione è
un’attività cognitiva, ovvero si arriva a conoscere il significato di un testo normativo.
2. Scettica= riconosce maggiore discrezionalità ai giudici. Sostiene che non ci sia mai un significato univoco e
proprio dei testi e che non sia possibile determinare il significato di un testo ambiguo risalendo alla volontà
del legislatore perché è come se fosse un concetto metaforico (spesso il legislatore è un organo collegiale in
cui ci sono numerose volontà). Conclude dicendo che l’attività di interpretazione è un’attività con la quale si
decide il significato del testo: questo può corrispondere o meno alla volontà del legislatore ma è l’interprete
che decide quale significato attribuire. L’interpretazione implica sempre la discrezionalità: tuttavia esistono
dei limiti che riguardano la cornice dei significati possibili (ogni testo è suscettibile di più interpretazioni ma
non di qualunque interpretazione: ci sono quindi dei significati possibili a cui il giudice deve attenersi, non
può inventarne di nuovi).

27
Hart affermò che i casi si possono distinguere in: hard cases (casi difficili= quando il caso ricade nella zona di
penombra, il giudice quindi è chiamato a esercitare la sua discrezionalità per sussumere un caso concreto sotto una
fattispecie astratta) e clear cases (casi chiari e semplici= il caso ricade nel nucleo chiaro e il giudice non esercita la sua
discrezionalità). Questa teoria viene chiamata TEORIA INTERMEDIA DELL’INTERPRETAZIONE: essa non è una vera
teoria dell’interpretazione poiché in realtà riguarda la sussunzione (ricondurre un caso concreto sotto un concetto
astratto), dice poco riguardo il vero problema dell’interpretazione ovvero la determinazione del significato di un testo
potenzialmente ambiguo.

‘’in claris non fit intepretatio’’= quando il testo e di conseguenza il suo significato è chiaro l’interpretazione non è
necessaria, si fa ricorso ad essa quando il testo è ambiguo—in questi casi si richiama la discrezione dei giudici.

C’è un’altra prospettiva sull’interpretazione fornita da Giolitti: egli affermò che ‘’la legge si applica coi nemici e si
interpreta con gli amici’’—la legge di per sé ha un significato certo che va applicato ai nemici, ma se la persona
coinvolta in un determinato caso concreto è un amico, allora in quel momento si interpreta la legge. Perciò in questa
prospettiva si fa riferimento all’interpretazione con il termine MANIPOLAZIONE quindi alterazione del significato.

ATTENZIONE: a volte le ambiguità sono intenzionali poiché utilizzate per scopo politico (chi scrive un testo legislativo
lascia libertà di interpretazione in modo che, anche chi non ha la stessa idea politica, voti per quella legge)

PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE

Per dare esecuzione ad una norma, essa va interpretata. Sappiamo che ci possono essere dei casi di ambiguità ovvero
casi in cui una disposizione può assumere diverse norme (significati), di conseguenza possiamo avere diversi tipi di
interpretazione a seconda che questa faccia riferimento all’ambiguità o alla vaghezza:

1. Ambiguità semantica= rientra nell’ambiguità perché riguarda immediatamente il significato. Ad esempio se


prendiamo la parola ‘’dottore’’ noi potremmo associarla ad un laureato o ad una persona che esercita la
professione di medico. Un altro esempio può essere ‘’il presidente della Repubblica può nominare 5 senatori
a vita’’. Con questa disposizione noi possiamo arrivare a due differenti interpretazioni: la prima è quella che
prende come riferimento un solo presidente che può quindi nominare 5 senatori che restino in carica anche
in caso ci dovessero essere altri presidenti, e la seconda che preveda il fatto che ogni presidente della
repubblica possa nominare 5 senatori)
2. Ambiguità referenziale= l’ambiguità riguarda ciò a cui si riferisce un determinato enunciato. Ad esempio
nella frase ‘’Anselmo prese il dolce sul tavolo e lo mangiò’’ il ‘’lo’’ si riferisce al tavolo o al dolce?
3. Ambiguità sintattica= consiste nell’ambiguità creata da un elemento dell’enunciato come nella frase ‘’è
punibile l’incitamento al delitto che sia stato commesso in un paese straniero’’. In questo caso infatti il che si
riferisce al delitto stesso o all’incitamento al delitto?. Un altro esempio potrebbe essere ‘’gli studenti di fisica
non devono iscriversi a logica matematica’’, con il verbo ‘’dovere’’ si possono intendere 2 significati: non è
obbligatorio o avere l’obbligo di fare/non fare. Oppure ancora ‘’i cittadini devono essere protetti dallo stato’’,
qui bisogna vedere se lo stato è colui che protegge i cittadini da qualcosa di esterno oppure se è colui dal
quale i cittadini devono essere protetti.

ATTENZIONE: la differenza tra l’ambiguità sintattica e quella referenziale è che nel primo caso si fa riferimento ad una
categoria più generale (incitamento al delitto) mentre nel secondo caso si fa riferimento ad un elemento specifico (ad
uno specifico dolce e ad uno specifico tavolo a cui si fa riferimento, non a tutti i dolci o a tutti i tavoli che esistano)

4. Ambiguità/ambivalenza pragmatica= l’ambiguità riguarda propriamente la funzione dell’enunciato che può


assumerne di diverse. Come ad esempio ‘’vietato fumare’’, questa può essere sia una prescrizione che una
descrizione di ciò che accade in un determinato luogo. Oppure la frase ''il presidente prende parte
all’assemblea’’ può assumere sia una valenza di prescrizione che di descrizione.
5. Compravendita (esempio di vaghezza)= ne rientrano differenti situazioni ma come si fa a stabilire quale sia la
soglia che comprenda un caso nella compravendita piuttosto che in un altro concetto? Questo ha a che fare
col problema della vaghezza poiché si tratta di un concetto generale che racchiude in sé differenti casi.

QUADRATO DI OPPOSIZIONE= per analizzare il contenuto di una norma che prescrive un determinato
comportamento, è necessario fare riferimento ai 4 modi deontici fondamentali: obbligatorio, vietato, permesso e
facoltativo. In generale per comprendere il significato oppure per risolvere le antinomie tra norme, o meglio per

28
studiare i rapporti esistenti tra i 4 modi deontici, si utilizza questo quadrato di opposizione. Le relazioni tra i modi
deontici sono:

-contraddittorietà= 2 enunciati non possono essere entrambi


veri o entrambi falsi: implica una scelta tra i due

-contrarietà= 2 enunciati non possono essere entrambi veri


ma possono essere entrambi falsi

-subcontrarietà= 2 enunciati non possono essere entrambi


falsi ma possono essere entrambi veri

-subalternità= 2 enunciati possono essere entrambi veri o


entrambi falsi: l’uno deriva dall’altro

Come avevamo già presentato, esistono due differenti prospettive sulle interpretazioni:

1. Teoria cognitiva secondo la quale esisterebbe una sola interpretazione corretta che corrisponde alla volontà
del legislatore.
2. Teoria scettica secondo la quale non esiste assolutamente la possibilità di trovare una sola interpretazione
proprio perché quasi tutti gli enunciati possono essere suscettibili a differenti interpretazioni: questo perché
le parole assumono significato convenzionalmente e non perché ne hanno uno di propria natura, da qui si
può capire l’origine delle ambiguità. Inoltre, poiché non esiste un solo legislatore dato che si tratta di un
organo collegiale, non si può risalire a quale sia l’interpretazione autentica del legislatore. È per questo che
sta all’interprete ascrivere il significato del testo che deve sempre rientrare nella ‘’cornice’’ dei significati
possibili (non può inventarseli ma deve rientrare sempre nel limite dei significati possibili che può assumere
quel determinato enunciato). Gli organi emblematici dell’interpretazione sono i giudici i quali decidono quale
significato assegnare all’enunciato

Si tratta di un problema teorico che ha però anche un aspetto pratico: il problema teorico ci porta alle riflessioni
cognitive o scettiche, dal punto di vista pratico invece il problema dell’interpretazione è costante e l’attività del
giudice si tratta nell’addurre significati a favore o sfavore dell’interpretazione a seconda dei casi. In primo luogo si
possono distinguere tipi di interpretazione quali: letterale o dichiarativa (interpretazione che si attiene meramente al
testo dell’enunciato) da tutte le altre possibili interpretazioni dette correttive (interpretazione che si discosta da quella
letterale). Quale bisogna scegliere e in che casi?

Gli argomenti che possono essere addotti all’interpretazione letterale sono:

Linguaggio comune= linguaggio orale e scritto utilizzato in una comunità di persone. Anche qui in realtà ci possono
essere delle ambiguità ma essa viene risolta attraverso delle istruzioni precise che permettono di arrivare al
significato. Ad esempio se prendiamo l’enunciato ‘’i cittadini possono riunirsi pacificamente e senza armi’’, con la
parola cittadini si intendono quegli individui che hanno la cittadinanza italiana, quindi gli stranieri e gli apolidi possono
riunirsi a loro volta nonostante non abbiano la cittadinanza? Nel termine ‘’cittadini’’ rientrano solo gli italiani perché
sono gli unici capaci di esercitare una pressione politica attraverso il diritto di voto ma oggi è ritenuto pacifico far
rientrare nel termine anche gli stranieri.

L’argomento e/a contrario= ovvero che viene formulato dal suo contrario, si esprime attraverso il brocardo ‘’ubi lex
voluit, dixit, ubi taquit, noluit’’: dove la legge voleva qualcosa, ha parlato, laddove la legge ha taciuto, non lo ha voluto.
Ciò che la legge non dice, è considerato irrilevante, tutto ciò che è previsto dalla legge, è voluto. Nel senso più stretto,
ciò vuol dire che se c’è la fattispecie 1, ci sarà anche la conseguenza 1. Seguendo la logica di questo argomento, si crea
una lacuna/vuoto normativo proprio perché laddove la legge tace, noi non sappiamo come disciplinare quel
determinato caso (se si verifica fattispecie 2, allora non si sa perché non c’è la legge che la disciplina). Un altro modo
con cui possiamo formulare questo argomento quindi è: se si verifica la fattispecie 1 (F1), allora avremo una
conseguenza (G); se si verifica la fattispecie 2 (F2), allora non si applica la conseguenza giuridica precedente. Questo
tipo di formulazione, non crea una lacuna ma una nuova norma, contraria a quella esistente cioè ''se si verifica F2,
allora non si può applicare G’’ andando così a colmare la lacuna che si era creata. Questo argomento quindi non si

29
attiene semplicemente al significato letterale ma lo estende creando una ‘’nuova norma contraria’’. Quindi nel caso
dell’esempio precedente dei cittadini, poiché la legge non ha specificato se il termine utilizzato comprendesse o meno
gli stranieri, se noi lo interpretiamo nel significato stretto, non sappiamo se il legislatore si fosse posto o meno il
problema, perciò rimane la lacuna. Se invece lo interpretiamo nel significato esteso, potremmo presupporre che il
legislatore volesse il contrario (ovvero solo i cittadini possono, gli altri che non siano tali, non possono riunirsi).

‘’non esistono fatti ma solo interpretazioni’’= è un punto di vista scettico il quale significa che ognuno percepisce ciò
che gli arriva dall’esterno in base alle proprie esperienze. Questa logica può essere definita con la parola
soggettivismo: si fa ricadere sotto questo aspetto il concetto di GIUSTIZIA poiché si reputa un evento giusto o
sbagliato secondo giudizi di valore derivanti dal contesto, dalle preferenze, esperienze e così via. Per questo motivo
più che di soggettivismo, in questo caso parliamo di relativismo: ovvero ciò che deriva dai gusti del singolo soggetto,
quest’ultimo può essere anche ‘’etico’’ ovvero al livello della morale. I giusnaturalisti sono contrari al relativismo etico
poiché ritengono che esistono dei principi generali e assoluti di giustizia. Quando parliamo di relativismo ontologico,
ovvero che riguarda direttamente l’essere, facciamo riferimento ad un relativismo radicale poiché sostiene che non
esistono dei fatti ma quelli che consideriamo come tali sono frutto della nostra interpretazione. Ciò che si dice con
questa affermazione è vero, ma non bisogna spingersi fino ad arrivare ad un livello radicale: le nostre interpretazioni
infatti dipendono da come la realtà è e quando noi ricostruiamo i fatti, per natura selezioniamo determinate
caratteristiche che reputiamo più o meno rilevanti, scartandone alcune. Ma in questo modo, essendo che la selezione
dei fatti è a discrezione del singolo soggetto, si rischia di storpiare la realtà dei fatti stessi, quindi l’interpretazione
deve basarsi su dei fatti reali che non siano del tutto a discrezione del soggetto. Le interpretazioni differenti derivano
dal fatto che qualcuno metterà in evidenza certi dati e qualcuno ne metterà in evidenza altri, ma in ogni caso tutti
devono basarsi sulla realtà.

L’interpretazione correttiva invece può essere di due differenti tipi:

1. Estensiva= si estende il significato delle parole oltre l’uso cui sono normalmente destinate. Con questa
interpretazione si permette di colmare la lacuna: si adducono degli argomenti per fare un’interpretazione estensiva.

2. Restrittiva= quando si restringe il significato della parola rispetto al suo uso normale perché dice di più di ciò che
serve.

Anche in questo caso abbiamo degli argomenti che si possono addurre all’interpretazione correttiva:

Argomento naturalistico/natura delle cose= quando la norma va adeguata alla natura di alcune circostanze particolari
(la fattispecie astratta si adatta al caso concreto)

Appello all’intenzione del legislatore= si analizza l’intenzione del legislatore che probabilmente in determinati
contesti intendeva usare un termine in maniera estensiva. Questo però crea delle difficoltà perché spesso il legislatore
corrisponde ad un organo collegiale che comprende diversi membri con volontà differenti. Questa intenzione può
essere intesa in due differenti modi:

• Intenzione storica del legislatore= ricerca di documenti, i cosiddetti lavori preparatori, dai quali si possono
ricavare dei principi generali che il legislatore voleva sancire—si ispira al diritto fondamentale, cioè il
legislatore utilizza dei principi generali per garantire determinati diritti fondamentali.
• Ratio legis= intenzione in astratto, cioè la ragione per la quale il legislatore abbia emanato una determinata
legge, in questo modo si può risalire al significato della stessa: talvolta però le circostante previste da quella
stessa legge mutano con il corso del tempo e quindi la legge va adattata a queste nuove circostanze.

Apagogico/per absurdum/della ragionevolezza= presupponendo come ‘’vera’’ la tesi opposta a quella che si sostiene
veramente, si apportano degli argomenti che fanno derivare da quella stessa tesi delle conseguenze assurde. A questo
punto è possibile affermare come vera la tesi contraria a quella presentata (nonché quella che si vuole realmente
sostenere).

Quali ragionamenti si possono addurre per sostenere un’interpretazione estensiva? L’interpretazione estensiva
innanzitutto si utilizza nel momento in cui è presente una lacuna ed è necessaria colmarla, comprende degli
argomenti, quali:

30
Interpretazione estensiva in senso stretto= quando si estende il significato di un termine. Un esempio è la parola
mediatore: nel codice civile è colui che mette in contatto due parti per la conclusione di un affare in cambio di un
corrispettivo proporzionato al valore della causa. Un mediatore però può assumere diverse sfumature, perciò si fa
ricadere nel termine mediatore una categoria di persone (quindi si estende il significato a più sfumature di mediatore)
ma rimanendo sempre nel contesto ristretto della figura del mediatore. Quindi sulla base di casi analoghi, il legislatore
decide di estendere il termine ad una categoria di persone che ricadano sotto questa parola.

Argomento a simili/ragionamento per analogia= prendiamo come esempio i libri osceni che il legislatore ha vietato di
promulgare (LO), poi i libri polizieschi (P) e canzoni oscene (C ): i primi assomigliano a P dal punto di vista materiale
perché sono entrambi dei libri, C assomiglia a LO perché hanno il medesimo contenuto ‘’osceno’’. L’oscenità è la
motivazione che ha portato il legislatore a creare quella determinata legge, nonché la ratio legis. La somiglianza
relativa al contenuto e non al materiale, è ciò che ha motivato il legislatore a creare la legge relativa ai libri osceni: è
quindi la sua ratio legis. Perciò l’analogia deve riguardare quell’aspetto particolare che ha indotto il legislatore a
produrre la legge già esistente: deve essere una SOMIGLIANZA RILEVANTE AI FINI DELLA RATIO LEGIS. In questo caso
però, al contrario di quello precedente del ‘’mediatore’’, non si può estendere il significato della parola ‘’libri osceni’’
alle canzoni, perché materialmente sono differenti. In sostanza, viene prodotta una norma (N1) secondo il principio
che segue la sua ratio legis (‘’vietato promulgare i libri osceni’’) se ci sono dei casi simili che riguardano la diffusione di
contenuti osceni, per analogia si applica la stessa conseguenza giuridica perché ricadono sotto la stessa ratio: in
questo caso però non stiamo applicando la stessa norma, cioè non la stiamo semplicemente estendendo a quei casi
che ricadono sotto la stessa ratio, ma ne stiamo creando una nuova che imponga la stessa conseguenza giuridica a
quei casi simili per la ratio. Ciò non porta all’interpretazione estensiva ma alla produzione di una nuova norma che
permette di disciplinare casi analoghi per la ratio a quelli previsti dal legislatore ma differenti dal punto di vista
materiale. Il tutto consiste nel risalire dalla ratio per produrre una nuova norma: da una stessa ratio quindi vengono
create due norme (n1 e n2)—questa logica era sostenuta fortemente da Bobbio. In un certo senso possiamo ritenere
che la ratio legis sia la ragione sufficiente per la quale sia stata introdotta una determinata norma. Quando facciamo il
ragionamento per analogia, si distingue quello: legis (esempi fatti fino adesso ovvero ricorso ad una legge che ha la
medesima ratio) e iuris (si fa ricorso a dei principi generali del diritto che spesso sono principi non espressi ma
presupposti dalla cultura giuridica).

Si tratta di una distinzione tra un mero procedimento interpretativo e un procedimento di creazione di una nuova
norma, questa differenziazione è sostenuta da Bobbio perché ritiene che sia una differenza di grado e non di genere
tra l’interpretazione estensiva e il ragionamento per analogia. Quest’ultimo non è applicabile invece nell’ambito del
penale perché vale il principio di stretta legalità: non si può applicare una norma per analogia perché è come se si
stesse creando una nuova norma non prodotta però dal Parlamento.

Argomento a fortiori= ha due varianti: a maiori ad minus (se abbiamo una norma che riguarda un caso più grave, essa
consente di comprendere per logica anche i casi meno gravi) e a minori ad maius viceversa di quello precdente. Questi
argomenti diventano rilevanti quando ci sono delle sanzioni gravi applicate a dei casi meno gravi e viceversa: questi
due argomenti servono appunto per riproporzionare il tutto.

L’interpretazione restrittiva si utilizza soprattutto nel momento in cui si è di fronte a delle ANTINOMIE—esse
consistono in una situazione in cui una stessa fattispecie è qualificata/disciplinata da due norme giuridiche in maniera
contrastante. Quando ci si trova in questa circostanza bisogna fare un’analisi logica per capire quale norma può
qualificare quella determinata fattispecie. Una norma innanzitutto può qualificare un determinato comportamento
secondo i modi deontici che sono riducibili gli uni agli altri: obbligatorio (vietato non fare qualcosa), vietato
(obbligatorio non fare qualcosa), permesso (non è vietato fare qualcosa/non è obbligatorio non fare qualcosa) e
facoltativo (non obbligatorio fare qualcosa). Se due norme qualificano lo stesso comportamento x con modi deontici
diversi, esse si trovano ad essere incompatibili e quindi non si possono applicare entrambe. Allo stesso tempo non si
può dire che una è vera e l’atra è falsa perché sono state create entrambe dal legislatore che a volte si contraddice.
Tra obbligatorio e vietato si ha una relazione di contrarietà: non è possibile applicare entrambe le norme ma d’altra
parte è possibile non applicare nessuna delle due (perché un comportamento può essere né obbligatorio né vietato),
si tratta di una relazione che crea incompatibilità ma crea una terza possibilità (non applicabilità di entrambe). Si
creano delle relazioni di incompatibilità anche tra le diagonali, chiamate relazioni contraddittorie: se un
comportamento è vietato, non è permesso e allo stesso tempo per logica se un comportamento non è vietato, è
necessariamente permesso. Allo stesso modo se un comportamento non è obbligatorio, sarà necessariamente

31
facoltativo e viceversa. In questo caso la relazione contraddittoria non dà una terza opzione ma si applica una sola
norma tra le due proprio per ragionamento logico. Queste relazioni, danno sempre luogo ad un’antinomia? Questa
tesi viene compresa nell’ambito di validità delle norme nonché quel contesto in cui una norma viene applicata.
Questo ambito si può distinguere in:

1. Personale= persone a cui sono rivolte le norme, ciò vuol dire che se una stessa norma è applicata in diverso modo
ma a differenti persone, non si è di fronte ad una incompatibilità. (ad esempio l’accesso ad una determinata area
riservato al personale e non a tutti, questo permesso è riservato solo ad una categoria specifica di persone)

2. Spaziale= luogo a cui è rivolta una determinata norma, ciò vuol dire che una stessa norma può essere applicata in
maniera differente ma in luoghi diversi (come il divieto di fumare, questo può essere valido all’interno degli edifici ma
in determinati spazi è escluso questo divieto)

3. Temporale= tempo in cui una determinata norma è valida (ad esempio il divieto di sosta può essere valido fino ad
una certa ora del giorno). Se due norme si riferiscono a due tempi diversi, non sono incompatibili.

4. Materiale= si riferisce alla materia/contenuto su cui verte la norma che deve essere uguale in entrambi i casi—le
materie a cui si riferisce la norma devono essere uguali, altrimenti non si è di fronte ad un’antinomia.

In generale in tutti i casi precedenti c’è un’antinomia ma non un’incompatibilità. L’antinomia giuridica per essere tale
deve avere delle condizioni necessarie: affinché ci sia un’antinomia le norme si devono qualificare secondo modi
deontici incompatibili, è necessario che le norme abbiano gli stessi ambiti di validità (devono almeno parzialmente
sovrapporsi), si può creare solo tra norme dello stesso ordinamento giuridico (per esempio un’antinomia non può
crearsi tra una norma del diritto e una norma della morale). Le antinomie inoltre si possono distinguere secondo la
sovrapposizione degli ambiti di validità: ambiti di validità che coincidono totalmente (ANTINOMIA TOTALE-TOTALE),
parzialmente (ANTINOMIA PARZIALE-PARZIALE) o l’ambito di validità di una norma coincide totalmente con parte
dell’ambito di validità di un’altra norma (ANTINOMIA TOTALE-PARZIALE: l’ambito di validità di una norma è un
sottoinsieme dell’altra)—quest’analisi è stata compiuta da un filosofo danese ALF FROSS ed rilevante nel momento in
cui si devono risolvere le antinomie attraverso un’interpretazione correttiva restrittiva. Questa idea di interpretazione
restrittiva in realtà era già prevista dal DIGESTO di Giustiniano il quale affermò che non c’era spazio per le antinomie.

Se un giudice si trova di fronte ad un’antinomia, che cosa può fare? Quale delle due norme deve applicare? Nel corso
dei secoli i giuristi hanno elaborato dei criteri per risolvere queste antinomia:

Cronologico= si applica la norma più recente che abroga quella più antica

Gerarchico= si applica la norma di grado superiore rispetto ad un’altra—nel caso in cui ad esempio il Parlamento
faccia una legge incompatibile con la Costituzione, questa norma, sotto richiesta, viene sottoposta a controllo di
legittimità dalla Corte costituzionale: in caso questo organo ritenga che sia incompatibile con la Costituzione può
svolgere un’interpretazione correttiva che sia conforme alla costituzione e che renda quindi applicabile la legge.

Di competenza/specialità= normalmente si applica di fronte ad un’antinomia totale-parziale, si applica quella norma a


cui è affidata dalla legge una determinata materia o un caso speciale che si distingue dagli altri, quindi la norma
disciplina una situazione peculiare che la rende differente dai casi generali (quindi si tratta di una norma particolare
differente dalla ratio della norma generale). Questo criterio è sostenuto dall’argomento della dissociazione=
l’interprete fa prevalere la legge speciale rispetto a quella generale per quei casi particolari adottando
un’interpretazione restrittiva (ATTENZIONE: la legge vale solo per questi casi ristretti quindi non abroga la legge
generale ma semplicemente prevale su di essa quindi si dice che ‘’deroga’’ sulla norma generale perché prevede
un’eccezione).

NORMA SUSSISTENTE VS. ENUNCIATO NORMATIVO

Testo del 1947 di un sociologo del diritto tedesco chiamato Theodor Geiger. Assume una posizione critica nei confronti
della tradizionale scienza del diritto dei suoi tempi, in particolare presta attenzione all’esaminazione dell’impatto reale
che le norme hanno sulla società e come le stesse norme emergono dalla società.

Abbiamo visto che dato un testo, quest’ultimo è suscettibile a molteplici interpretazioni le quali contribuiscono
all’assegnazione del significato di quella stessa disposizione. L’interpretazione come abbiamo già visto può essere
letterale, autentica (ricerca della volontà del legislatore), estensiva e così via, questa è chiamata appunto ‘’teoria

32
dell’interpretazione’’. Gli organi interpretativi spesso sono i giudici i quali talvolta possono discostarsi
dall’interpretazione letterale in funzione di una estensiva per ragioni valide come lacuna o oscurità del diritto. I giudici
si possono trovare davanti anche a delle antinomie: si applicano i tre criteri base con i quali si ordinano le nome del
diritto—anche questi criteri talvolta possono essere in contrasto tra loro ma si risolvono tramite criteri tendenziali. Se
tornassimo alla domanda ‘’che cos’è una norma?’’ tenendo conto della teoria dell’interpretazione risponderemmo che
si tratta del significato attribuito ad una disposizione, quindi si tratterebbe di una proposizione, alcuni ritengono
invece che la norma sia semplicemente il suo enunciato nonché la disposizione stessa. Tuttavia esistono dei limiti
anche a questa domanda.

Ordine e norma= Geiger si interroga in primo luogo sul rapporto esistente tra norme e ordine sociale. Con questo
termine intendiamo un insieme di norme, un sistema, che non è casuale ma anzi prevede che le norme siano legate da
relazioni interne. È importante inoltre distinguere l’ordinamento (dal latino ‘’ordo ordinans’’= sistema di regole che
creano l’ordine) dal suo risultato, nonché l’ordine (dal latino ‘’ordo ordinatum’’=risultato dell’applicazione di un
sistema di norme). Geiger con il termine ‘’ordine sociale’’, che lui indica con la lettera greca sigma, intende proprio
questo insieme di norme stabilite secondo le quali si configura la vita poiché i suoi membri le seguono. La sciologia
rivolge lo sguardo al meccanismo complessivo dell’ordine sociale, il suo oggetto infatti è la realtà sociale. Per il
sociologo è importante lo svolgersi della vita in un determinato gruppo sociale che segue un ordine sociale: ci può
essere un sistema di norme che contribuisce ad ordinare questo stesso insieme di norme ma solo in quanto le norme
di questo sistema hanno delle conseguenze nel determinare l’ordine nella società (se infatti una norma non dovesse
essere seguita, non ha rilevanza nel meccanismo dell’ordine). Quello che conta per il sociologo è soltanto l’ordo
ordinatum poiché osserva cosa accade nella realtà e concluderà che dire che le norme esistono al di fuori della mente
delle persone, sarebbe una finzione. Geiger distingue quindi l’ordine effettivo/reale dal sistema di norme: entrambi
costituiscono la totalità del meccanismo dell’ordine. In aggiunta è necessario distinguere la norma in sé e la sua
forma/espressione verbale nonché tra norma sussistente e enunciato normativo/norma verbale. Cosa intende però
con NORMA SUSSISTENTE? Geiger ci pone degli esempi: viene fondata un’associazione la quale si da uno statuto in cui
sono menzionati gli organi dell’associazione (ordine strutturale o statico) e le funzione degli organi stessi (ordine di
azione/attività). Ora, se e nella misura in cui la vita dell’associazione si configura lungo le linee tracciate dallo Statuto,
allora l’ordine reale è generato attraverso l’emanazione di enunciati normativi (l’ordine reale in questo caso si dice
secondario poiché deriva dall’enunciato normativo). Tuttavia non è sempre così: prende come esempio una famiglia di
cui lo stato ne disciplina i rapporti. All’interno a questa però si noteranno delle regolarità che non sono determinate
né dalle norme né dagli enunciati del capo famiglia, si osserveranno quindi delle correlazioni del tipo ‘’quando si
verifica la situazione S i membri del gruppo sociale terranno i comportamenti C’’—queste si sono formate però delle
consuetudini: c’è un ordine reale perché tutte le volte che si verifica la situazione S, i membri manterranno il
comportamento C, queste regolarità però non sono determinate da alcun sistema di norme. Se un membro della
famiglia dovesse discostarsi da quella regolarità di comportamento, scatterà in lui il senso di ‘’cattiva coscienza’’
ovvero si sentirà fuori luogo: questo provoca una reazione negli altri membri della famiglia. Questa correlazione è
quindi viva/operante nella coscienza di quel gruppo sociale come se fosse una rappresentazione normativa nel senso
che, pur quella regolarità non essendo regolata da alcuna norma, per quel gruppo sociale vale invece come tale. In
questo caso perciò non c’è un enunciato normativo ma bensì una rappresentazione normativa nonché una norma ma
che non può essere rappresentata da un enunciato (l’ordine reale viene prima dell’enunciato: in questo caso si parla di
norma sussistente, cioè un comportamento vincolante per il gruppo sociale, una norma che emerge da una regolarità
nonostante non sia stata enunciata). La regolarità perciò dapprima si dimostra come meramente fattuale (regolarità
adeontica ovvero che non dipende dall’esistenza di una norma) ma dopo molte ripetizioni assume nella famiglia, il
carattere di norma nonché di una rappresentazione normativa (La regolarità in questo caso sarebbe deontica cioè che
deriva dall’esistenza di una norma in questo caso dall’esistenza di questa rappresentazione normativa). Questo
esempio riguarda le norme consuetudinarie.

In generale la definizione di norma sussistente è la rappresentazione normativa di una regolarità di comportamento


che viene considerato vincolante da un certo gruppo di persone.

Geiger fa un terzo esempio: fin dai tempi più remoti presso una tribù è stato usuale che i viandanti spigolassero dai
campi e dagli alberi (prendevano dei frutti) per sé e per il proprio cavallo ai fini di nutrirsi. Questo modello di condotta
è invalso come ordine reale ed è vivo come norma sussistente: perciò il viandante da un lato non può prendere dai
campi altrui più del necessario mentre i proprietari dei campi devono acconsentire la consumazione di questi frutti.
Questa usanza trova esistenza nella norma ‘’tre sono gratis’’ (‘’drei sind frei’’—enunciato deontico che si limita a dare

33
espressione alla norma sussistente): la norma sussistente in questo caso risulta espressa e consolidata in un enunciato
normativo—questo però non fa altro che dare espressione alla norma sussistente che già esisteva, svolge una
funzione di ‘’constatazione dell’esistenza di una norma sussistente’’ senza crearne una nuova. In questo caso la
scienza del diritto parla da un lato di diritto consuetudinario (sussiste prima un ordine consuetudinario che da vita ad
una norma sussistente che in seguito può essere espressa da un enunciato: l’ordine reale sorge dalla vita reale stessa
in sigma) dall’altro di legge (nonché un ordine statuito: l’ordine reale viene introdotto con l’enunciato). Perciò nel
primo caso si parla di norma verbale dichiarativa, nel secondo proclamativa. La scienza del diritto tende a pensare che
le norme esistano a seguito di enunciati normativi che creano l’ordinamento, se guardiamo però sul piano storico,
esistevano delle norme condivise e sussistenti che esistevano ben prima della produzione di ordinamenti complessi,
ovvero esistevano senza essere statuite: uno dei primi modi per introdurre le norme era proprio la via
consuetudinaria. GEIGER SOTTOLINEA CHE la norma sussistente c’è quando le persone appartenenti ad una
determinata comunità (come può essere un’associazione dotata di statuto) seguono questa norma descritta da un
determinato enunciato (che nel caso dell’associazione si troverebbe proprio nello statuto): infatti può esserci il caso in
cui c’è un enunciato proclamativo ma non diviene una norma sussistente perché non viene seguita dalle persone
appartenenti a quella determinata comunità.

Rodolfo Sacco= afferma l’esistenza del diritto muto ovvero l’esistenza di atti che si producono senza un enunciato
verbale come ad esempio l’atto di occupazione con il quale qualcuno si impossessa di un bene senza l’uso delle parole.
I primi atti giuridici erano proprio di questo tipo. Se esistono regole di questo tipo, non possiamo pensare le norme
come enunciati normativi perché esistevano norme ancor prima degli enunciati normativi—da qui la ‘’norma
sussistente’’

Norma ed enunciato normativo, essenza delle norme= quando il modello ‘’se S allora C’’ si presenta con carattere
vincolante, ci troviamo di fronte ad una norma il cui contenuto è la regolarità di comportamento del modello appena
presentato (se S allor C). Geiger aggiunge semplicemente aggiunge che qusta norma vincola solo determinati gruppi di
persone, i destinatari DD. Introduce anche i beneficiari (v) della norma ‘’se S allora C si arriva a v per DD’’ che possono
esserci o meno. Sono esempi di enunciati normativi, gli ordini verbali, gli enunciati di disposizioni contenute in uno
statuto di un’associazione, gli articoli di una legge redatti per iscritto, talvolta anche un proverbio che trova
espressione in un’usanza. Perché è opportuno insistere tra norma sussistente e enunciato normativo? Perché spesso si
concepisce la norma come enunciato normativo sebbene una norma possa esistere anche senza l’involucro linguistico
dell’enunciato. Inoltre è importante questa differenza perché non ogni asserzione di un enunciato normativo
corrisponde ad una norma sussistente: ad esempio ‘’se S allora C’’ è in uno in un determinato ambiente, sarà
vincolante per determinati destinatari senza il bisogno di essere enunciato. Se dopo venisse enunciata, la norma
sussistente esisteva ancor prima della sua formulazione linguistica. D’altro canto non ogni enunciato che abbia la
forma esteriore di una norma verbale, contiene realmente una norma perché la realizzazione della norma espressa
può essere impossibile e quindi di conseguenza non sarebbe dotata del tipico ‘’stigma/marchio della norma’’ (sono
enunciati che non possono avere il senso di norma poiché assurdi). Possono talvolta esserci enunciati che erano validi
in un determinato sigma anni or sono ma che oramai non vengono più inteso da alcun vivente come dotato dello
stigma della norma (descrivono delle norme che non sussistono più). Ancora, può esserci un enunciato normativo al
quale i destinatari resistono, è una norma non dotata di forza di norma poiché originariamente era stata intesa
vincolante ma poi non viene seguita effettivamente e diventa irrilevante per il meccanismo dell’ordine.

Il sociologismo giuridico afferma che ciò che conta sono le regolarità ovvero le norme sussistenti e cosa c’è scritto nei
testi normativi si consideri irrilevante. Geiger però afferma che in realtà l’enunciato in alcuni casi può essere in
relazione con la norma sussistente: enunciato normativo dichiarativo (caso della norma abitudinaria ovvero della
norma sussistente, l’enunciato è l’involucro della norma creato a posteriori e quindi ne dichiara solo l’esistenza) e
enunciato normativo proclamativo (la norma stessa viene statuita per mezzo del corrispondente enunciato
normativo). Geiger fa un passo oltre della proposizione normativa ovvero del significato della norma: perché in questo
caso si presuppone che ci sia una disposizione dalla quale deriva la proposizione stessa, Geiger invece riferendosi al
significato di una norma introduce il concetto di norma sussistente. Nella prospettiva di Geiger la norma/significato
corrisponde con la norma sussistente che in alcuni casi può essere introdotta con il linguaggio ma non coincide con
esso perché esiste a prescindere dall’enunciato.

Talvolta è avvenuto che le norme fossero raggruppate in codici in modo da raccogliere quelle norme che disciplinano
un’unica materia: questi codici si limitano a descrivere dei sistemi di norme preesistenti. Quest’attività viene definita

34
‘’codificazione nomografica’’ ovvero che descrive delle norme già sussistenti al contrario di quella ‘’nomothetica’’ in
cui si creano o pongono in essere delle norme, si tratterebbe in quest’ultimo caso di enunciati proclamativi.

STORIE DI ERODOTO

Questo è un esempio che descrive alla perfezione l’idea di norma sussistente.

L’idea che le enorme possano esistere in una società a prescindere dal linguaggio, ci fa pensare che esistano delle
norme vigenti tra popolazioni che non parlano la stessa lingua. In questo estratto Erodoto, parlando del popolo dei
Cartaginesi, ci racconta che esiste una regione che si trova al di là delle colonne d’Ercole (stretto di Gibilterra) in cui gli
stessi cartaginesi arrivano con le loro navi per scaricarvi delle merci, dopodiché alzano una fumata aspettando che gli
indigeni si accorgano del fumo per deporgli l’oro come prezzo delle merci. Se la quantità d’oro è sufficiente, i
Cartaginesi lo raccolgono e si allontanano, altrimenti si imbarcano nuovamente e attendono che gli indigeni
depongano altro oro: gli indigeni però non toccano le mercanzie finché i cartaginesi non abbiano preso l’oro mentre
questi ultimi non toccano l’oro fino a quando non ritengono che sia sufficiente. Ci sono perciò delle norme rispettate
da entrambe le popolazioni nonostante esse non parlino la stessa lingua.

In virtù di che cosa quindi l’atto di lasciare le merci sulla spiaggia, viene interpretato come un atto di offerta
commerciale e non come un atto di derelizione (abbandono della cosa) o donazione? In virtù di che cosa invece l’atto
di non toccare l’oro sia interpretato come rifiuto di un offerta commerciale? L’accordo sull’interpretazione di questi
atti comuni tra le due differenti popolazioni fa dedurre che entrambe facciano riferimento ad un ‘’codice normativo
del commercio’’ non verbalizzato. La condivisione di questo codice quindi non è mediata attraverso una formazione
linguistica degli atti né delle norme sottese a quegli stessi atti: esistono perciò delle norme operanti in un sistema
giuridico, che vengono seguite proprio come norme, nonostante non abbiamo una formulazione linguistica.

Rodolfo Sacco, fece molteplici ricerche sul diritto muto e tra queste ci sono delle norme che vengono di fatto seguite
senza che vi sia la completa consapevolezza da chi le segue. Questa idea la mutua dall’idea dell’Americano B.L Whorf il
quale introdusse il concetto di criptotipo (criptos=nascosto): con questo termine intende quelle regole che l’uomo
pratica senza esserne consapevole nonché delle regole che esistono e sono rilevanti ma che l’operatore non formula.
Osserva inoltre che nell’ambito del linguaggio in particolare, l’uomo segue delle regole senza esserne pienamente
cosciente: ad esempio nella lingua italiana utilizziamo gli aggettivi dopo il sostantivo e ci suona strano/scorretto
quando gli stessi vengono usati prima del sostantivo a cui si riferiscono. Nessuno però è capace di formulare questa
regola nonostante tutti la seguano. Whorf quando propone questo concetto di criptotipo fa il paragone con le regole
che dobbiamo seguire per andare in bicicletta: per farlo dobbiamo attivare in specifici movimenti determinati muscoli
ma come facciamo a sapere quando si attivano? Queste regole vengono seguite senza che noi sappiamo
effettivamente quali siano. L’idea interessante che Whorf indaga è che nel criptotipo non ci sono soltanto atti giuridici
compiuti senza utilizzare il linguaggio o prima che vengano verbalizzate ma addirittura che ci siano delle regole seguite
dall’operatore senza che quest’ultimo le sappia formulare. Si tratta quindi di una regola ‘’inconscia’’ proprio perché
chi la applica non ne è pienamente consapevole, ma nonostante ciò, la regola esiste. Sacco esprime lo stesso concetto
facendo l’esempio con il trasferimento astratto della proprietà che avviene nonostante non sia espresso mediante
linguaggio anche se potrebbe benissimo essere formulata. A questo punto se ci chiedessimo ‘’che cos’è una norma?’’
che cosa risponderemmo? Nelle precedenti lezioni avevamo distinto due tipi di regolarità/comportamento: adeontica
(non deriva dall’esistenza di una norma ma la si segue poiché è considerata vincolante) e deontica (dipende invece
dalla norma), in questo caso è il comportamento ritenuto vincolante o il sentimento che ci porta a pensare di essere
vincolati da quel comportamento ad essere la norma?

Un filosofo del diritto francese, Paul Amselek fece la seguente constatazione: le norme non sono entità materiali e non
possono quindi essere percepite dal nostro apparato percettivo per quanto esso si sforzi. Sono al pari livello delle idee
e di tutti gli ‘’oggetti mentali’’, ci dice perciò che secondo lui le norme sono delle identità di pensiero. Un altro filosofo
del diritto ceco, Ota Weinberger, osserva concezioni analoghe a quelle di Amselek affermando che le norme sono
delle identità ideali (con ideale si intende, oltre che qualcosa di astratto il quale appartiene al mondo delle idee,
qualcosa di ottimale valutato come il meglio possibile. Per capire meglio il suo significato facciamo ricorso alla lingua
tedesca che esprime questo concetto con due aggettivi: Ideel—qualcosa che non appartiene al mondo reale ma a
quello del pensiero; Ideal—perfetto/ottimale). In questo caso con ‘’ideali’’ Weinberger fa riferimento all’aggettivo
‘’ideel’’. Se però le norme sono entità meramente pensate, allora non sono entità reali o materiali né testi perché
possono esistere a prescindere dal linguaggio, allora cos’è una norma? Weinberger osserva che, pur appartenendo al

35
mondo del pensiero, le norme sono molto reali perché incidono sui nostri comportamenti tanto che talvolta si
combatte per le norme che si sostengono. Aggiunge che queste entità ideali, non soltanto sono reali perché hanno un
contatto con il mondo reale, ma sono esse stesse un punto di contatto tra mondo ideale/intellettuale e realtà
materiale. Le entità ideali quali le norme, diventano reali quando possono avere delle coordinate temporali ovvero che
esistono a partire da un certo momento, questa caratteristica le accomuna alle entità materiali poiché è una sorta di
concretezza. Ideale quindi non significa irreale, le norme quindi hanno una loro particolare realtà, per questo si
differenziano dagli altri oggetti mentali come ad esempio gli unicorni, le fate, gli orchi e così via. Weinberger sostiene
quindi che la realtà della norma si manifesta in 4 aspetti:

1. Quando la norma vive nella coscienza umana come esperienza e conoscenza del dover essere (ovvero conoscenza
della norma che viene considerata vincolante e perciò viene applicata), si parla di esperienza normativa. Max Weber
osservò che le norme addirittura esistono anche per chi le vìola: infatti tendenzialmente agisce di nascosto perché sa
che una determinata norma esiste e potrebbe avere delle conseguenze giuridiche.

2. Essa opera sul comportamento umano come elemento motivante.

3. Esistenza di istituzioni: la norma sta in stretto rapporto con le istituzioni sociali (queste istituzioni dipendono
dall’esistenza delle norme).

4. Possibili conseguenze positive o negative correlate all’esistenza di una norma: i comportamenti conformi o difformi
alla norma comportano degli effetti positivi o negativi sociali.

Dopo l’analisi fatte da Geiger, possiamo affermare di non poter più concepire le norme come entità linguistiche poiché
è vero che talvolta una norma esiste dal momento in cui viene introdotta da un enunciato, però d’altra parte esistono
casi in cui le norme sono ‘’sussistenti’’ cioè esistono ancor prima che vengano espresse da un enunciato. Geiger
afferma che la norma sussistente ‘’è viva come rappresentazione normativa’’ nel pensiero dei membri di quella
comunità, tanto è vero che chi si discosta da questa norma, si sente in colpa. In seguito Amselek e Weinberger
aggiungono alle osservazioni di Geiger che le norme non si possono percepire con i sensi, infatti affermano che le
norme sarebbero delle ‘’entità di pensiero’’, si parla perciò di esperienza normativa. A questo punto però, affermando
che le norme sono degli oggetti mentali, potremmo dire che hanno lo stesso tipo di esistenza ad esempio degli
unicorni/fate e così via? Ovviamente no, ma allora come possiamo dire che le norme esistono in maniera oggettiva?
Secondo Weinberger esistono 4 momenti (presentati nel paragrafo sovrastante) in cui si può manifestare l’esistenza
della norma.

Questa idea di Geiger, come abbiamo affermato all’inizio, però si scontra chiaramente con quelle teorie del diritto
tradizionali del suo tempo che concepiscono le norme come entità linguistiche, idea che ha caratterizzato tutto il
periodo del ‘900: queste teorie sono racchiuse nella filosofia analitica del diritto che ha un approccio teorico del diritto
al contrario di Geiger che ha un approccio sociologico. Questa teoria si occupa di analizzare i fenomeni sociali e come
essi si manifestano nel linguaggio, tende quindi ad osservare determinate regolarità di comportamento, fa riferimento
a determinati fenomeni concreti. Per il sociologo, come Geiger invece è maggiormente importante analizzare le
esperienze normative sulla scala sociale.

I fenomeni normativi sono studiate da moltissime scienze differenti che hanno approcci diversi di fronte al diritto,
proprio per questo motivo la risposta alla domanda ‘’che cos’è una norma’’ varia in base alle scienze che analizzano
con approcci diversi secondo i propri presupposti metodologici queste norme. Si ottiene come risultato di queste
differenti prospettive un significato di norma che sembra espandersi in maniera esponenziale proprio per le diverse
risposte che dà ogni singola scienza che analizza i fenomeni normativi. Questo però piuttosto che orientare sul
significato vero e proprio della norma, genera confusione. Si dice però che queste differenti scienze studiano le norme
in ordini di fenomeni differenti (cioè utilizzano degli approcci differenti) che possono essere linguistici, sociali,
sociologici, teorici, dogmatici e così via, è come se si guardasse un fenomeno attraverso un prisma poiché la luce
bianca che ci passa attraverso dopo si divide in colori diversi. A questo punto, di fronte a questa potenziale
confusione, come reagiscono gli studiosi delle norme? Ci sono diversi approcci che possono essere utilizzati:

-riconoscere gli ordini di fenomeni differenti

36
-affermare che una norma è una combinazione di ordini di fenomeni differenti (cioè potremmo dire che la norma in
senso proprio esiste come combinazione di più ordini di fenomeni come ad esempio quello linguistico, sociologico e
teorico)

-il concetto di norma viene considerato superfluo e bisognerebbe abbandonarlo in funzione invece dei termini come
enunciato, disposizione e così via

-porsi delle domande e analizzare i diversi tipi di entità a cui ci riferiamo quando parliamo di norma in contesti diversi,
in modo di preservare i diversi ordini di fenomeni e usare uno piuttosto che un altro in base al caso.

VITA DI PERICLE: PLUTARCO

Racconta che gli ateniesi che avevano il dominio dei commerci nell’Egeo, avevano imposto un embargo sulle merci
della città di Megar, nemica di Atene ma alleata di Sparta. Sparta allora per difendere la sua alleata, manda degli
inviati che chiedano a Pericle, re di Atene, di abrogare il decreto (scritto su delle tavole) emesso contro la città di
Mega. Pericle risponde che ciò non può essere possibile perché c’è una legge che vieta di eliminare i decreti, uno degli
inviati allora gli risponde che potrebbe allora girarla (perché la legge si trova scritta su una tavola che può essere
girata).

Questo episodio ci fa capire le differenti accezioni della norma: essa può essere intesa come la tavola in cui è incisa la
legge oppure come contenuto stesso della tavola.

Per mettere ordine a tutti gli approcci che si hanno di fronte alla domanda ‘’che cos’è una norma’’, lo si fa attraverso
l’approccio dell’italiano AMEDEO CONTE, allievo di Bobbio.

1.Prende in esame la domanda ‘’che cos’è una norma’’ domandandosi se sia stata posta bene o male. Questa
domanda sembra presupporre il fatto che la risposta corretta a questa domanda sia una sola ‘’la norma è…’’. Perciò
Conte afferma che questa domanda sia posta male perché è come se designasse un unico tipo di entità di norma.

2.Conte osserva però che esistono diversi approcci che appartengono a ordini di fenomeni differenti e li distingue tra
loro. Essi sono capaci di fornire differenti risposte alla domanda sovra posta.

Nell’ambito della linguistica quando si parla di identità/oggetto a cui un termine fa riferimento, si parla di referenti.
Secondo la scienza della ‘’semiotica’’ sempre nell’ambito della linguistica (indaga i segni e i rapporti con i
corrispondenti significati) quando facciamo riferimento alle parole, intendiamo con ‘’segni’’ le sequenze di suoni
articolati appunto in parole che a loro volta sono utilizzate per esprimere dei significati (il segno perciò è qualcosa di
grafico che indica qualcos’altro, nonché il significato). Questi segni nei secoli sono stati creati dagli esseri umani e,
come sostenne Umberto Eco, studiare la semiotica è come studiare la menzogna perché i segni adottati per
convenzione indicano un’identità che nel momento in cui stiamo parlando può essere anche non presente (se parlo di
un albero, l’albero non deve necessariamente essere presente davanti a me), il problema è che i segni possono essere
utilizzati anche per mentire. Al di là di questo, poiché il segno è ‘’qualcosa che sta per qualcos’altro’’, sembrerebbe che
stessimo faccenda riferimento a solo due elementi, il termine e il significato. In realtà il segno ha una struttura molto
più complicata che si raffigura con un triangolo: nell’angolo a sinistra troviamo il significante, nonché la parola;
nell’angolo a destra i referenti, gli oggetti a cui si riferisce il termine; il significato (insieme di proprietà che associamo
a determinati oggetti e che proprio per questo ricadono in una determinata categoria, è un concetto che sta nel
pensiero delle persone) che permette di parlare proprio dei referenti, nonché degli oggetti, nonostante essi non siano
necessariamente presenti. Possiamo quindi affermare che noi facciamo riferimento a dei referenti per mediazione del
significato, per un significato possiamo far riferimento a diversi referenti he ricadono tutti sotto quello stesso
significato poiché hanno delle proprietà comuni. Il significante è un elemento percepibile a cui è attribuito un
determinato significato con il quale possiamo riferirci a molteplici referenti che, avendo delle proprietà comuni,
ricadono sotto lo stesso significato.

Quando noi ci chiediamo quindi che cos’è una norma, stiamo cercando il relativo significato ma non ne esiste uno
solo, la parola norma può essere usata per fare riferimento a 5 tipi di identità secondo Conte. Con esse possiamo poi
ricostruire le varie possibili risposte alla domanda ‘’che cos’è una norma’’. I 5 tipi di identità a cui fa riferimento il
termine norma, nonché i 5 referenti a cui si riferisce la norma sono:

37
1.ENUNCIATO DEONTICO= enunciato che contiene dei termini deontici (o dei loro sinonimi) ed esprimono delle
qualità deontiche come ad esempio ‘’è vietato/obbligatorio/permesso/facoltativo x’’ oppure ‘’non dovere/dovere/non
fare/fare/potere’’ e così via, essi sono dei sinonimi dei termini deontici presentati precedentemente. Esempio di
norma che fa riferimento ad un enunciato deontico: la norma ‘’gli studenti di filosofia non devono iscriversi a logica
matematica’’ è una norma ambigua. In questo caso le due occorrenze della parola norma che abbiamo utilizzato
nell’enunciato, fanno riferimento all’enunciato deontico riportato tra le virgolette; questa entità ovvero questo
oggetto a cui fa riferimento la parola norma (la frase tra virgolette) viene detta ambigua perché può esprimere due
proposizioni ovvero due significati diversi (obbligo o facoltativo), però in questo caso semplicemente i termini
‘’norma’’ non fanno riferimento ai significati espressi dall’enunciato ma piuttosto all’enunciato deontico (perché
contiene la parola dovere) stesso. In questo caso perciò la norma fa riferimento solo all’enunciato.

2.PROPOSIZIONE DEONTICA= in certi contesti con la parola norma facciamo riferimento al significato espresso da un
enunciato, dunque alla preposizione. L’esempio proposto da conte è il seguente: due distinti enunciati esprimono la
stessa norma (quindi essa non è l’enunciato ma il significato stesso della norma) come ad esempio il caso in cui due
norme sono espresse in lingue diverse (esprimono la stessa identica norma quindi lo stesso significato, però hanno
testi normativi/enunciati differenti poiché la lingua è diversa)

3.ENUNCIAZIONE DEONTICA= atto di pronunciare un testo normativo con un significato che quindi ha valenza di
norma. Esempio fornito da Conte: ‘’proibire immediatamente a tutti gli arabi a partire dall’11 settembre…’’ (sta
enunciando un testo normativo deontico poiché c’è il termine ‘’proibire’’, con un determinato significato e perciò
assume il valore di norma).

ATTENZIONE Queste 3 entità hanno a che fare con il linguaggio

4.STATUS DEONTICO o STATO DI COSE NORMATIVE=Conte propone questo nuovo concetto per far riferimento a
tutte quelle entità di norme che non hanno a che fare con il linguaggio. Per spiegare a cosa si riferisce con questo
termine, utilizziamo un esempio: il libro ''specchio dei Sassoni’’ (libro scritto da Eike von Repgow in epoca medievale in
cui egli raccoglie le norme invalse nella società dei Sassoni) è una codificazione di norme invalse nella società del suo
autore. Questa codificazione cioè, non crea delle norme nuove ma semplicemente raccoglie quelle leggi
consuetudinarie vigenti nella società dei Sassoni. In quanto consuetudinarie, solo dopo essere state norme sussistenti,
sono state espresse in un enunciato: perciò erano esistenti ancor prima di essere espresse a parole. Con questo
termine perciò Conte fa riferimento al concetto di ‘’norme sussistenti’’ ovvero norme consuetudinarie già esistenti in
una società e non create da autorità normative. Conte li definisce Stati di cose normative (si producono
indipendentemente degli atti normativi) perché appartengono al mondo dell’essere e che possono iniziare ad esistere
a partire da un certo momento ma possono anche cessare di esserci.

ATTENZIONE: se esiste già lo status deontico, allora esso può essere espresso attraverso l’enunciato che è
semplicemente la descrizione di questo stato di cose (nonché della norma sussistente) mentre possono esistere casi in
cui è direttamente l’enunciato che crea una nuova norma.

A questo punto, una norma può venire ad esistenza in due modi:

-Attraverso il linguaggio ovvero nel momento in cui l’ordinamento produrrà un corrispondente enunciato normativo
deontico. Lo status deontico inizia ad esserci però dal momento in cui termina l’enunciazione secondo Kelsen, ovvero
la norma inizia ad esistere quando si compie l’atto normativo che la crea. In questo caso lo status deontico è ciò che
viene creato con l’atto di enunciazione.

-nel caso delle norme consuetudinarie, le norme sussistono a prescindere dall’atto di enunciazione.

Quando parliamo della violazione/abrogazione di una norma secondo Conte dobbiamo fare riferimento allo status
deontico perché avviene una violazione nel momento in cui una norma è riconosciuta come valida a prescindere dal
suo enunciato o dal corrispettivo atto di normazione (enunciazione) in un determinato ordinamento. Conte quando si
riferisce alla violazione vera e propria di norme, fa riferimento proprio allo stato deontico che Kelsen individua nella
scorrettezza sortale: ciò vuol dire che quando si parla di violazione si associa un predicato scorretto ad un enunciato
perché la norma viene descritta con un determinato enunciato che se viene violato, gli viene attribuito un predicato a
lui contrario (perché la violazione è l’azione contraria a ciò che afferma l’enunciato). Nel caso dell’abrogazione, quello
che viene meno è lo status deontico all’interno dell’ordinamento mentre la proposizione deontica della norma rimane

38
ugualmente perché anche se essa perde validità, il suo significato esiste ancora. Possiamo dire che lo status deontico
nonostante non sia materiale, ha degli aspetti in comune con la realtà ovvero la spazialità (valgono in un determinato
ordinamento) e temporalità (esiste a partire da un certo momento), al contrario della proposizione ovvero il
significato che non ha queste due caratteristiche (lo stato di cose deontico corrisponde all’esistenza di una norma
mentre la proposizione al suo significato, per questo sono diversi). Le norme sono entità convenzionali che si
producono o attraverso degli atti linguistici o per convenzione consuetudinaria. Infatti i significati che noi associamo
alle parole, sono attribuiti alle parole stesse per convenzione, la stessa cosa vale per la validità delle norme che sono
quindi degli stati di cose convenzionali create o per consuetudine o per atti di normazione (come l’enunciato). Conte
afferma quindi che le norme, nonostante non siano materiali, hanno una loro oggettività grazie a questo sistema
convenzionale (ovvero un sistema di criteri di esistenza di norme) che permette di riconoscerle come esistenti in un
determinato ordinamento. Possono esistere diversi sistemi convenzionali che nonostante siano tutti oggettivi, sono
relativi ad un determinato ordinamento, dentro questo determinato ordinamento è oggettivo che esista un
determinato status deontico ovvero una certa norma che è valida in quello stesso ordinamento. Quando si crea una
nuova norma, si crea un nuovo status deontico all’interno di un ordinamento: questo può avvenire o attraverso il
linguaggio o per consuetudine.

Riepilogo status deontico: la domanda ‘’che cos’è la norma’’ secondo A. Conte è una domanda problematica perché
induce a pensare che la norma sia un'unica entità ma in realtà non è così. La soluzione a ciò è osservare come viene
utilizzato il termine norma e a che cosa si riferisce. Abbiamo perciò il problema di individuazione dei referenti ovvero
individuare quegli oggetti a cui si riferisce la parola norma. Sappiamo che i referenti hanno un significante ovvero una
parola usata per convenzione in modo da identificarli e un significato ovvero un concetto che permette di far
riferimento ad una categoria di entità che hanno delle proprietà comuni e, proprio per questo, rientrano in quel
significato. La parola norma per Conte, in base ai contesti, fa riferimento a 5 referenti diversi: enunciato deontico
(testo normativo), proposizione deontica (il significato dell’enunciato), enunciazione deontica (atto normativo di
produzione della norma), status o stato di cose deontico (il sussistere di un referente ovvero di una norma a
prescindere dal suo enunciato. Non è uno stato di cose materiale ma convenzionale, dipende da un sistema di regole
convenzionale che è relativo ad ogni differente ordinamento—perciò questo stato sussistente di cose ha un’esistenza
meramente convenzionale relativa alle regole di un determinato ordinamento). I sistemi di convenzione rendono
possibile l’esistenza oggettiva dello stato di cose in quel determinato ordinamento in cui vige quel preciso sistema.
Questo stato di cose deontico nel sistema di Geiger, si traduce nella norma sussistente, in Kelsen alle norme valide—la
validità corrisponde all’esistenza di una norma in e per un ordinamento.

Lo stato per Kelsen coincide con l’ordinamento giuridico ma esistono anche alcune concezioni le quali sostengono che
lo Stato esiste in realtà a prescindere dall’ordinamento ma per Kelsen quest’ultima ideologia sarebbe problematica
perché implica il fatto che lo stato si ponga al di sopra delle regole giuridiche (porta alla tirannia). I sociologi
affermarono che il concetto di stato derivi da quello di ‘’comunità’’: essa esiste nel momento in cui le persone si
sentono legate tra loro e creano quindi un’organizzazione superiore ovvero lo Stato. Questo legame però è effimero
poiché si tratta di un legame psicologico, sta nella testa dei soggetti e permette un’interazione tra loro ma non è
materiale. Al contrario, nel momento in cui si istituisce lo Stato, esso si fonda su un sistema di regole oggettive che
permettono allo stato di essere meno effimero (nonostante si crei lo stato, non è detto che le persone si sentino
legate tra loro in una comunità, lo stato non emerge perciò da un legame psicologico ma da un legame oggettivo dato
da delle regole interne che si crea solo all’interno di un determinato ordinamento). Questo stesso concetto di norme
in quanto elementi appartenenti ad un ordinamento e che sono validi in quest’ultimo, viene ripreso da Conte proprio
con il concetto di stato di cose deontico (una norma si dice stato deontico quando inizia ad essere valida in un
ordinamento).

5.NOEMA DEONTICO= usa questo concetto mutuandolo da un filosofo, Edmund Husserl, il quale distinse l’atto di
pensare a qualcosa e il contenuto di questo pensiero. Sarebbe l’oggetto di un nostro atto mentale/pensiero che può
esistere o meno nella realtà. Nel momento in cui la norma è solo oggetto di una nostra rappresentazione mentale
ovvero che non è ancora valida in un determinato ordinamento, non stiamo parlando di uno stato deontico perché
non esiste nella realtà. Si parla quindi di mero noema deontico perché è solo una rappresentazione mentale che
diventerà status deontico nel momento in cui verrà ad esistere in un ordinamento. Esempio di noema deontico: nel
codice civile svizzero c’è l’art. 1, 2° comma il quale dice che se un caso non è disciplinato né dalla legge né da una
norma consuetudinaria, il giudice può interpretare quel caso sulla base di una regola che egli creerebbe se fosse
legislatore. Questa regola quindi non esiste ancora nell’ordinamento ma il codice civile fa riferimento ad un noema

39
deontico perché la regola non esiste se non nella testa del giudice. Un altro esempio è il momento in cui si propone
una legge che fino a quando non viene approvata non può diventare status deontico ma resta un noema deontico.
Quando Kelsen parla dell’efficacia delle norme, afferma che ad essere efficace (ovvero ciò che produce il mio
comportamento condizionato da una norma) non è la norma in quanto valida nell’ordinamento ovvero in quanto
status deontico ma piuttosto è la rappresentazione di una norma ovvero la convinzione di essere vincolati da una
determinata norma (quindi una norma è efficace secondo Kelsen quando le persone nella loro testa hanno una
rappresentazione di questa norma e sono convinte di esserne vincolate)—questo ragionamento porta ad una
complicazione perché non sempre ciò che le persone si rappresentano nella loro testa corrisponde alla norma vera e
propria; per risolvere questa problematica si possono introdurre delle sanzioni che cambino la mentalità delle persone
ma se questo non dovesse bastare, bisogna introdurre nelle persone una rappresentazione viva delle norme quindi un
noema deontico che corrisponda allo status deontico—se questo non dovesse corrispondere allora la norma non è
efficace. Nel caso di Kelsen però si parla di noema deontico ma facendo riferimento ad uno status deontico già
esistente cioè ciò che è efficace per Kelsen è la rappresentazione di una norma che però è già vigente in un
ordinamento. Perciò in generale il noema deontico può essere inteso in due modi: mera rappresentazione di una
norma che ancora non esiste oppure rappresentazione di una norma che allo stesso tempo corrisponde ad uno stato
deontico (quindi che è valida in un ordinamento), quest’ultima concezione di noema deontico coincide con l’idea di
Kelsen.

A questi referenti individuati da Conte, se ne potrebbero introdurre altri due:

6.COMPORTAMENTO DEONTICO= si può parlare di norma quando si fa riferimento ad un comportamento esemplare,


quando un comportamento è autorevole, ispira anche tutti gli altri soggetti a mantenere lo stesso comportamento
poiché funge da esempio. Ciò accade per esempio con le autorità religiose: i seguaci di una determinata religione
prendono come esempio il comportamento di un’autorità religiosa che deve essere imitato da tutti i seguaci, nella
religione Cattolica per esempio si segue da esempio il comportamento di Gesù che diventa norma della comunità
cristiana.

7.OGGETTO DEONTICO= un oggetto viene considerato come norma. Ad esempio nel momento in cui viene creato un
modello di automobile che viene poi omologato, tutte le macchine che verranno create dopo, dovranno rispettare
tutte le caratteristiche di questo modello di partenza per essere omologate a loro volta.

Tra questi 7 possibili referenti chiaramente ci possono essere delle interazioni: ad esempio l’enunciazione può essere
origine di uno status deontico o il comportamento deontico di una autorità porta le persone a creare un noema
deontico che a sua volta porterà alla produzione di uno status deontico e così via. Perciò al posto di chiedersi ‘’che
cos’è una norma’’ ci si può chiedere quali siano le possibili interazioni tra questi fenomeni normativi. Se noi perciò
distinguiamo i diversi aspetti dei fenomeni normativi possiamo meglio individuare le interazioni tra essi e quindi
interpretare nel miglior modo possibile la realtà.

I DIVERSI TIPI DI NORME

Regole costitutive e regolative

Distinzione tra regole o norme prescrittive e regole o norme costitutive. Quando noi pensiamo ad una norma,
abbiamo l’idea di una prescrizione ovvero una regola che obbliga a detenere un determinato comportamento. Come
sappiamo, esistono 4 modi deontici: obbligatorio, vietato, possibile, facoltativo. Le REGOLE PRESCRITTIVE o
REGOLATIVE prescrivono quindi generalmente un obbligo o un divieto. Ci sono delle regole che non sembrano
adeguate a questa nostra idea di norma; ad esempio se prendiamo come riferimento le regole che disciplinano il gioco
degli scacchi, possiamo dire allo stesso modo che queste regole prescrivono un obbligo o un divieto? Se no, su che
cosa verte allora questa regola? Evidentemente, poiché le regole sono rivolte a degli oggetti (pedine degli scacchi),
non è possibile che essi si assumano degli obblighi. Perciò ci sono due aspetti differenti: allo stesso tempo si è in
presenza di una regola perché senza di essa il gioco non sarebbe possibile ma d’altro canto non si tratta di una vera e
propria regola perché anche se non si segue, non si va incontro ad una sanzione, non prescrive quindi un obbligo o un
divieto. Un altro esempio potrebbe essere la regola ‘’la cresima deve essere impartita dal vescovo’’, il soggetto è la
cresima che, non essendo una persona, non è soggetta ad alcuna regola prescrittiva. Si può però tradurre in una
regola prescrittiva nel seguente modo ‘’il vescovo deve impartire la cresima’’, ora il soggetto è il vescovo che sembra
essere subordinato ad un obbligo dettato da questa regola prescrittiva. Queste due frasi però si equivalgono? No
perché la prima regola definisce una regola che riguarda la cresima e ne stabilisce delle condizioni di validità. La regola

40
qui verte sull’atto vero e proprio della cresima; La seconda riguarda uno dei tanti obblighi/funzioni del vescovo il
quale, se non dovesse adempiervi, possiamo immaginare che va incontro a delle sanzioni. La regola in questo caso
definisce i doveri del vescovo, verte quindi su un comportamento. Un ultimo esempio è ‘’il testamento olografo deve
essere scritto, datato e sottoscritto di mano del testatore’’: questa norma stabilisce le condizioni di validità di un
testamento olografo ma non obbligano necessariamente il testatore a scrivere testamento. Semplicemente per essere
considerato valido, il testamento deve soddisfare le condizioni stabilite. Da questi esempi possiamo dedurre la
differenza tra regole che prescrivono un obbligo o un divieto e regole che invece stabiliscono solo le condizioni di
validità. Non tutte le condizioni di validità però possono essere soddisfatte dalle azioni di qualcuno, ad esempio quelle
regole di condizioni di validità che presentano un limite di età, non possono essere adempiute attraverso le azioni di
un soggetto perché non può decidere di avere o meno una certa età.

Partendo da questo esempio: ‘’la donazione di beni immobili deve essere fatta per atto pubblico ’’. Gli atti pubblici
sono atti svolti davanti ad un notaio che attesta la donazione di un determinato bene immobile. La donazione di beni
immobili però prima dell’invenzione del catasto poteva essere compiuta attraverso una scrittura privata, perciò l’atto
di donazione esisteva anche prima dell’introduzione di questa norma perché veniva compiuto attraverso altri metodi.
Perciò in questo caso la norma appena presentata introduce una condizione di validità che riguarda l’atto di donazione
valida però nell’ordinamento italiano. A differenza di questo caso, se noi pensiamo alle regole del gioco degli scacchi,
prima che esse esistessero, il gioco degli scacchi non esisteva. In generale tutte quelle regole che stabiliscono delle
condizioni di validità, vengono chiamate REGOLE COSTITUTIVE. Uno degli autori che ha messo in rilievo questo
paradigma/distinzione tra norme prescrittive e regolative, fu Jhon R. Searle. Egli disse che esistono delle regole che
regolano meramente dei comportamenti e altre invece che regolando un comportamento, lo rendono anche possibile
(definisce queste ultime regole costitutive perché non si limitano a regolare dei comportamenti ma ne costituiscono di
nuovi).

Le regole regolative regolano delle forme di comportamento già esistenti in precedenza o esistenti
indipendentemente da esse (le regole regolative quindi regolano un’attività preesistente la cui esistenza è
logicamente indipendente dalle regole, comportamenti materialmente possibili indipendentemente dalle
corrispondenti regole che possono ugualmente essere introdotte in seguito); le regole costitutive invece non si
limitano a regolare ma creano e definiscono nuove forme di comportamento (esse quindi costituiscono un’attività la
cui esistenza è logicamente dipendente dalle regole). Le regole regolative prendono secondo Searle la tipica forma di
imperativi mentre quelle costitutive hanno una forma completamente differente ad esempio ‘’un goal si segna
quando la palla supera completamente la linea della porta’’, queste ultime proprio perché non hanno una forma
imperativa, saranno suscettibili a non essere considerate come regole. Searle inoltre osserva che esse hanno un
carattere quasi tautologico ovvero la regola sembra definire più una definizione ad esempio di che cosa sia un goal
piuttosto che lo scacco matto. Perciò allo stesso tempo una regola costitutiva può essere considerata prima come una
regola e dopo come verità analitica (una mera analisi del concetto ovvero è evidente che un goal si ha nel momento in
cui la palla supera la linea) ma in realtà è esattamente l’opposto perché è la regola che definisce il concetto di goal o di
scacco matto e non il contrario, proprio perché questi concetti iniziano ad esistere dal momento in cui viene creata la
regola, al contrario se non si rispettano le regole del gioco, non si sta giocando all’attività individuata dalla regola. Ciò
non vuol dire però che una leggera modifica della regola marginale (non rilevante per l’esistenza del gioco), comporta
un gioco completamente differente da quello individuato dalla regola stessa. Perciò il modo in cui si gioca a scacchi o a
calcio è definito dall’insieme di regole dello stesso gioco. Se non si seguono queste regole, non si va incontro ad una
sanzione ma semplicemente si svolge un’attività differente da quella stabilita dalle regole, ovvero non seguendo le
regole degli scacchi, non gioco a scacchi.

Tipicamente le regole regolative secondo Searle, hanno la forma ‘’se si verifica Y, fa X’’ o semplicemente ‘’fa X’’,
all’interno dei sistemi delle regole costitutive invece alcune avranno questa forma appena presentata, altre invece
avranno la forma tipica ‘’X ha valore di Y’’ o ‘’X ha il valore di Y nel contesto C’’. Le ricerche sulle regole costitutive,
risalgono alla seconda metà del ‘900, perciò solo recentemente si è riusciti ad individuare la specificità di questo tipo
di regole. Alcuni filosofi poi si domandano ‘’come può una promessa creare un obbligo?’’ o allo stesso modo ‘’come
può un touchdown creare 6 punti?’’ a queste domande si può rispondere proprio citando una regola che ha la forma
‘’X ha valore di Y’’, ovvero in altre parole noi concepiamo il touchdown come azione che hanno valore di obblighi in
funzione delle regole che stabiliscono il gioco stesso del football e di conseguenza della stessa promessa perché ha
una forma analoga a queste regole. Secondo Searle esiste un senso banale per il quale una regola che crea la
possibilità di un nuovo comportamento ma se non esistesse questa regola, in nessun modo si potrebbe descrivere

41
questo comportamento poiché la sua esistenza è data propria dalla presenza delle regole. Perciò le regole costitutive
forniscono la base per specificazioni del comportamento che non potrebbero essere date in assenza delle regole. Le
regole regolative invece spesso forniscono la base per valutazioni di un comportamento ma molto probabilmente
queste valutazioni non potrebbero neanche essere date se non fossero sostenute da qualche regola costitutiva.

Questa formulazione ‘’X ha valore di Y nel contesto C’’ (un certo tipo di azione, vale come una determinata azione in
un determinato contesto: una certa situazione del gioco X vale come scacco matto nel contesto degli scacchi oppure
un determinato pezzo di carta vale come €10 nel sistema degli euro) non vuole essere un criterio formale per
distinguere i due tipi di regole perché esse potrebbero avere in certi casi una forma analoga ma le si distinguono in
base ai termini con cui vengono usate le regole stesse: quando la regola è formulata in termine di valutazione allora è
regolativa (in termine di valutazione perché applicando una sanzione ad un determinato comportamento, lo si
classifica come illecito nonché comportamento considerato ‘’sbagliato’’), se è formulata in termine di specificazione
allora molto probabilmente è costitutiva (perché specifica quale azione vale come quella determinata azione in uno
specifico contesto). Ciò però necessita di due specificazioni:

1) poiché le regole costitutive si presentano in sistemi, può darsi che sia l’intero sistema ad esemplificare questa
forma e non le singole regole contenute nel sistema. Ciò vuol dire che il sistema di regole costitutive al suo
interno può avere delle regole che hanno una forma prescrittiva ma nell’insieme costituiscono delle regole
costitutive.
2) all’interno di un sistema, il sintagma (ovvero quella particella della frase/combinazione di 2 o più parole) che
costituisce il termine ‘’Y’’ (che negli esempi potrebbe essere ‘’scacco matto’’, ‘’touchdown’’) non sarà un
semplice nome/stato di cose specificato dal termine X ma indicherà e introdurrà qualcosa che ha ulteriori
conseguenze perché il termine Y costituisce l’identità stessa del contesto che può essere il gioco di scacchi
piuttosto che il football americano. Per capire meglio questo concetto facciamo un esempio: la situazione in
cui il re è sotto minaccia e non può evitarla in alcun modo (termine X) è definita scacco matto (termine y) nel
contesto degli scacchi (contesto C). Il fatto che quella situazione corrisponda allo scacco matto comporta
delle conseguenze per il gioco nonché la sconfitta di chi lo subisce.

Perciò nella prospettiva di Searle dire ‘’prometto che domani andremo al cinema’’ assume il valore di obbligo proprio
in funzione delle regole che stabiliscono una promessa)

Searle afferma che quindi le regole costitutive rendono possibili nuove forme di comportamento: ogni sistema di
regole costitutive rende possibile un insieme di azioni che sono specifiche di quella specifica attività, le regole
costitutive lo sono in un determinato contesto—ad esempio nel calcio è impossibile segnare una meta, azione che si
ritrova nel football americano, non perché sia vietato ma perché non è previsto dalle regole del gioco del calcio, non
c’è una regola che prevede la meta nel calcio. L’impossibilità dipende quindi dal fatto che ci sia assenza di una regola.

Searle afferma che dal punto di vista logico nel caso delle regole costitutive, vengono prima le regole rispetto a ciò che
regolano: ad esempio lo scacco matto esiste dal momento in cui ne viene creata la regola, altrimenti non potremmo
concepirlo. Il motivo per il quale queste regole vengono definite ‘’costitutive’’ è il fatto che costituiscono nuove azioni
perché con la regola si creano nuove azioni (come lo scacco matto che senza la sua regola non esisterebbe). Le regole
regolative si limitano invece a regolare forme di azione che esistono indipendentemente dalla regola. Le regole
regolative non costituiscono ciò di cui sono regola ma possono regolare forme di comportamento già regolate da
regole costitutive: ad esempio dire ‘’è vietato giocare a calcio in questo luogo’’ non si sta creando una nuova regola
del calcio ma semplicemente si regola un’azione che è già regolata dalla regola costitutiva (infatti il calcio è regolato
già dalle su regole costitutive, ne viene semplicemente limitata l’azione da questa regola regolativa). Searle evidenzia
che le regole costitutive non lo sono individualmente perché sono organizzate in un sistema di regole che disciplinano
un determinato contesto (ad esempio il gioco degli scacchi è regolato da un insieme di regole che lo rendono
possibile).

Searle parla di poteri deontici= sono delle funzioni istituzionali attribuite a determinati elementi dagli istituti umani.
Searle li presenta attraverso l’esempio della banconota—quando un determinato pezzo di carta ha quelle
caratteristiche che fanno si che sia riconosciuta come banconota dall’unione europea, ciò fa assumere a quel pezzo di
carta delle funzioni o dei poteri con i quali poi è possibile acquistare oggetti. Un altro esempio è il presidente della
Repubblica che viene nominato secondo un sistema di regole vigente in Italia che associa a questa entità determinati
poteri deontici con i quali egli può adempiere alle sue funzioni. Sono quindi delle funzioni di status cioè istituzionali

42
che sono corrispondono spesso a poteri normativi. Essi non dipendono da rapporti di causa-effetto ma piuttosto da
istituti umani che attribuiscono queste funzioni in un determinato contesto istituzionale, perciò le funzioni hanno una
realtà oggettiva in un determinato contesto istituzionale.

La distinzione tra regole costitutive e regolative è fondamentale per 2 ragioni:

-capire che tipo di fenomeni sono quelli ‘’giuridici’’

-interpretazione e distinzione che possiamo fare delle regole che esistono nell’ordinamento

A questa distinzione tra regole costitutive e regolative è correlata un’ulteriore distinzione tra (questa distinzione è
funzionale per arrivare alla definizione dei fatti istituzionali):

1.Fatti bruti= Questa distinzione è dovuta a rapporti di causa effetto che avvengono tra elementi fisici (atomi) che
interagiscono tra loro determinando l’esistenza degli oggetti stessi. A questo punto se ci domandiamo cos’è la realtà,
risponderemmo proprio che essa è un insieme di particelle elementari che interagiscono tra loro in campi di forza:
questi fenomeni non sono ben visibili ad occhio nudo ma possiamo percepirli attraverso degli strumenti specifici
quindi sappiamo con certezza che esistono in virtù proprio di principi fisici. Searle si ispira a Anscombe, filosofo che
visse durante la sua epoca e che denominò propriamente i ‘’fatti bruti’’ (bruti inteso come grezzi) come fenomeni
fisicamente percepibili. Questi fatti percepiti vengono definiti ‘’grezzi’’ perché nel momento in cui vengono percepiti
sono ancora grezzi ma assumono significato in funzione delle teorie scientifiche secondo Searle. In realtà il fatto bruto
che noi vogliamo intendere è il seguente: Searle afferma che noi abbiamo una certa immagine di ciò che costituisce il
mondo e di conseguenza di ciò che costituisce la nostra conoscenza. Secondo questa immagine del mondo esso stesso
è costituito da fatti bruti e la conoscenza che noi abbiamo è conoscenza di fatti bruti. Afferma tra l’altro che esistono
dei paradigmi di conoscenza (ovvero una serie di affermazioni che variano enormemente tra loro perché talvolta
necessitano di teorie che le sostengano. Altre volte ciò non è necessario perché sono ad esempio delle descrizioni che
derivano da esperienze soggettive dell’individuo, quindi non è rilevabile dall’esterno ma è comunque un fatto bruto, o
semplicemente sono talmente ovvie da non dover essere dimostrate da alcuna teoria.) che vengono assunti a formare
il modello di ogni conoscenza. Poiché i fatti bruti variano tra loro, hanno delle caratteristiche comuni che li rendono
tali: innanzitutto i concetti che costituiscono la conoscenza sono essenzialmente fisici o dal punto di vista dualistico
(con il quale si sostiene che l’anima abbia in qualche modo una fisicità) ‘’fisici e mentali’’. Il tipo di scienza che funge da
modello della conoscenza è quella delle scienze naturali. Mentre la base di ogni conoscenza per Searle devono essere
delle osservazioni empiriche che siano capaci di descrivere dei fatti fisici. Searle specifica che ci sono molti tipi di fatti
evidentemente oggettivi e non questione di sentimenti o opinioni ma che tuttavia è impossibile assimilarli
all’immagine del mondo come costituito da fatti bruti. A sostegno di questa affermazione apporta degli esempi: uno
sposalizio (il signor Smith ha sposato la signorina Jones), una partita di baseball, un processo (Green è stato
condannato per furto), un’azione legislativa—questi fatti non corrispondono direttamente ad un’azione bruta ma
richiede un qualcosa di maggiore: questi fatti comportano indubbiamente una varietà di movimenti fisici, stati e
sensazioni grezze ma descrivere uno di questi eventi solo in questi termini non equivale a determinarlo come
matrimonio, processo e così via. I fatti grezzi hanno valore di parti di tali eventi solo date altre condizioni. Searle
propone quindi di chiamare questi fatti istituzionali.

2.Fatti istituzionali= sono dei fatti bruti ma la loro esistenza presuppone l’esistenza di istituti umani—ad esempio il
fatto che il signor Green sia condannato a furto, presuppone l’esistenza del tribunale, oppure il fatto che si sia
celebrato il matrimonio presuppone l’esistenza della Chiesa o del Comune. Searle si riferisce sempre all’esempio della
banconota: togliendo l’istituzione che sta dietro quella banconota e che le permette di avere quel valore, avremmo in
mano sono un pezzo di carta. Non sono fatti quindi meramente osservabili con i sensi perché possiamo arrecargli un
significato solo presupponendo un istituto umano che sta sullo sfondo di questo fatto. Queste istituzioni sono sistemi
di regole costitutive, ad ogni fatto istituzionale infatti è sottesa una regola della forma ‘’X ha valore di Y nel contesto
C’’ con la quale è possibile identificare il fatto istituzionale stesso (la sua esistenza è determinata dall’insieme di regole
costitutive che lo regolano).

Ontologia sociale= Searle ha sviluppato le sue teorie sulla base di questa ontologia sociale ovvero un libro che
descrive oggetti come la proprietà o enti sociali che non hanno un’identità fisica ma popolano ugualmente la vita
sociale. Questi elementi sono creati poi dal linguaggio ed esistono quindi per convenzione: il loro significato
dipendendo dal linguaggio, cambia in base al contesto sociale, al luogo e al tempo. Searle per arrivare a determinare
questi atti linguistici è partito da una domanda: come è possibile che da delle semplici parole ne derivi un obbligo?

43
L’ipotesi che parlare una determinata lingua sia compiere di conseguenza determinati atti, comporta che essi siano un
fatto istituzionale poiché sono resi possibili da regole costitutive le quali affermano quindi che ‘’dicendo X si assume
un obbligo secondo la lingua italiana (perché i nostri atti linguistici lo sono secondo la nostra lingua quindi nel contesto
C della lingua italiana)’’. Ad esempio un uomo che dice ‘’ti prometto che ti consegnerò il tuo libro ‘’ nella lingua italiana
si sta assumendo un obbligo, si emettono quindi dei suoni/ lettere che costituiscono parole (X) che nel contesto della
lingua italiana (C ) assumono il significato di obbligo (Y). Anche il linguaggio quindi è un istituzione e gli elementi del
linguaggio hanno una valenza linguistica all’interno di un determinato contesto linguistico.

Searle pone la sua attenzione su che cosa significhi conoscere dei fatti istituzionali= se noi concepissimo la conoscenza
dei fatti bruti come conoscenza dei fatti istituzionali, ci accorgeremmo che essa sarebbe inadeguata. Per dimostrare
questa inadeguatezza immaginiamo di descrivere i fatti istituzionali in termini meramente bruti: ad esempio pensiamo
ad un gruppo di osservatori addestrati che descrivono una partita di football solo con asserti sui fatti bruti. Non
sarebbe possibile utilizzare i termini tipici del gioco come touch down perché stiamo immaginando che non ci siano le
regole costitutive dietro questo gioco tali da descriverlo. Addirittura gli osservatori potrebbero descrivere il football
usando delle tecniche statistiche: tali leggi sarebbero di tipo statistico ma nonostante i numerosi dati che vengono
raccolti e le generalizzazioni induttive formulate, gli osservatori non avrebbero ancora descritto il football americano
perché mancano tutti quei termini propri del gioco e quindi tutti gli asserti veri che si potrebbero fare su una partita di
football usando quei determinati termini (si possono quindi fare degli asserti veri utilizzando solo i termini che
descrivono il gioco vero e proprio del football americano). Questo dimostra che i fatti istituzionali possono essere
spiegati solo attraverso le regole costitutive che ne stanno alla base. Searle si pone contro a quelle ideologie che
cercano di dare analisi semantiche delle lingue, armate solo di una struttura concettuale in termine di fatti bruti e
ignorando le regole semantiche che vanno al di là di quelle brute: afferma infatti che bisogna far riferimento a quei
concetti istituzionali che permettono di far assumere significato ai termini di una determinata lingua. In qualche modo
quindi la realtà dei fenomeni giuridici è una realtà istituzionale poiché noi non possiamo descriverli se non facendo
riferimento a quei concetti giuridici (regole costitutive) che vigono però nel contesto del nostro ordinamento italiano
(in altri ordinamenti lo stesso fenomeno giuridico potrebbe essere descritto diversamente). Il diritto è un insieme di
regole particolarmente strutturato che costituisce quegli istituti la quale esistenza è determinata propriamente
dall’esistenza di quelle stesse regole.

Tutto ciò potrebbe essere ricondotto a Kelsen che distinse nei fatti giuridici 2 aspetti: una parte naturale e una parte di
significato affermando poi che un determinato comportamento naturale assume significato in un determinato
contesto (cioè il fatto che un uomo uccida un altro assume significato di omicidio nel contesto di un determinato
ordinamento—in natura non esiste l’omicidio, questo fatto giuridico esiste solo in virtù delle regole di un ordinamento
giuridico). Il significato giuridico dipende per Searle dall’esistenza delle norme costitutive e per analogia potremmo
dire che le regole costitutive determinano il significato di un determinato fenomeno giuridico in Kelsen. L’idea
fondamentale è quella di costitutività: il mondo in cui viviamo in parte è costituito da fatti bruti e in parte da fatti
istituzionali (che sono percepibili attraverso istituti umani creati da regole costitutive). A questo proposito, uno dei
principali problemi su cui si concentrò Kelsen fu l’idea di Stato: egli criticava quelle teorie sociali che affermavano che
lo stato fosse un insieme di persone che si sentono legate tra loro e che quindi questo legame partisse proprio dalla
psiche umana oppure sempre quelle teorie che sostenevano che lo Stato fosse un insieme di persone legate
psicologicamente. Kelsen invece afferma che è vero a volte ci sono dei legami psicologico che ci uniscono ma talvolta
questo legame psicologico ci divide e inoltre può costantemente cambiare perché essendo nella testa delle persone,
muta velocemente. per Kelsen quindi lo Stato deve essere qualcosa di oggettivo che possiamo descrivere anche senza
attraverso i sentimenti: afferma quindi che lo Stato è un entità oggettiva che coincide con l’ordinamento giuridico
(insieme di regole che danno oggettività a quei fenomeni giuridici). In qualche modo quindi questi sistemi giuridici
creano nuove realtà che sono descrivibili proprio in funzione si queste regole: Searle identifica queste regole come
costitutive ma per Kelsen non esisteva questa distinzione ma vede in qualche modo che attraverso queste regole che
fanno parte dell’ordinamento giuridico e esistono proprio perché ne sono parte, è possibile descrivere i fenomeni
giuridici.

Regole eidetico-costitutive e regole anankastico-costitutive

La regola costitutiva ci permette di distinguere quale tipo di regola corrisponde ad un determinato testo normativo a
seconda dei contesti. Due autori in particolare, Amedeo G. Conte e Gianpaolo M. Azzoni, introdussero in maniera
approfondita queste norme costitutive. Introducono due aggettivi che sono: eidetico (viene dal termine greco

44
‘’eidos’’, analogo al termine ‘’idea’’ infatti significa proprio concetto di qualche cosa, le regole eidetico costitutive
costituiscono il concetto di qualche cosa) e anankastico (deriva dal greco ‘’ananke’’ nonché necessità, una regola
anankastico costitutiva costituisce una condizione necessaria di qualche cosa). Conte ci mostra appunto che all’interno
delle regole costitutive si distinguono i due tipi appena presentati.

1.Regola eidetico-costitutiva= esse sono definite da Conte come ‘’regole che sono condizione necessaria di ciò su cui
esse vertono’’ (è sottolineato sono perché l’altro tipo di regole ‘’pongono’’). Esempio: le regole del gioco degli scacchi.
La praxis, ovvero l’attività vera e propria degli scacchi, e i praxemi di essa, ovvero le singole unità di questa attività che
hanno un certo valore all’interno del gioco (sono ad esempio i pezzi, i pragmemi, gli status ludici) non esistono
antecedentemente alle regole e non sussistono indipendentemente da esse (non c’è possibilità di giocare a scacchi se
non in relazione alle regole del gioco, quindi senza le regole non è possibile giocarci anche perché il gioco non
esisterebbe). Queste regole quindi costituiscono il concetto stesso del gioco degli scacchi, per questo sono dette
eidetico costitutive: i concetti stessi del gioco sono costituiti dalle regole. Il termine ‘’eidetico-costitutivo’’ è un
neologismo di Conte, è lui stesso che l’ha coniato ma dice che l’intuizione che lui ha avuto che lo ha portato a coniare
questo termine, ha avuto delle prefigurazioni. Queste prefigurazioni Conte le ha trovate nel matematico J.K. Thomae,
nel filosofo tedesco E. Husserl (disse che i pezzi degli scacchi lo diventano solo attraverso le regole del gioco le quali
danno loro il significato), colui che disse che il concetto di pedone o alfiere sono quelli determinati dalle regole del
gioco, in E. Mally (disse che il pezzo del gioco degli scacchi è determinato nella sua essenza dal suo significato
funzionale, nonché come può essere utilizzato nel gioco, il quale gli è attribuito dalle regole). L’idea meno antica è
quella che le regole degli scacchi costituiscano appunto i pragmemi ovvero i tipi di mossa—questa teoria fu formulata
innanzitutto da Znamierowski il quale disse proprio che le regole del gioco degli scacchi costituiscono i pragmemi
(types di mosse contrapposte ai token: ovvero i tipi di mosse che possono essere compiute numerose volte nel gioco
degli scacchi, sono determinate dalle regole del gioco). Egli utilizzò due termini introdotti dall’americano C.S. Peirce:
type (le singole lettere diverse tra loro, le singole parole diverse tra loro) e token (occorrenze di quelle stesse parole o
lettere che possono essere usate numerose volte). Conte aggiunge che un pezzo degli scacchi non ha un luogo spaziale
ma è un luogo deontico (termine ispirato all’inglese Wittgenstein e significa che l’identità di un pezzo del gioco
costituisce a sua volta le regole che vertono su quel pezzo). Ciò vuol dire che l’identità del pezzo degli scacchi è
determinata e coincide con la valenza che quello stesso pezzo ha nel gioco. Il concetto stesso del pezzo è l’insieme
delle sue regole, non è che ha delle regole, è lui stesso che determina le sue regole. Dire ad esempio ‘’regole
dell’alfiere’’, ci riferiamo a quelle regole che costituiscono lo stesso alfiere. I pezzi del gioco in quanto type, sono dei
concetti astratti che non hanno un luogo ma sono essi stessi il luogo deontico. Ad essere eidetico- costitutive non sono
le singole regole ma la loro totalità. Quindi la regola dell’alfiere determina l’identità dell’alfiere ma perché è inserita in
un insieme di regole che sono appunto quelle del gioco. Si può qualificare una singola regola come eidetico costitutiva
solo attraverso una metonimia perché ci sarebbe una relazione con l’insieme di regole in cui essa è inserita.
Domandarsi se una regola sia eidetico costitutiva lo è singolarmente, è una domanda impropa perché essa lo può
essere solo all’interno di un sistema di regole. Conte differenzia dei tipi di regole eidetico costitutive:

-deontiche= riguardano ciò che deve essere fatto come ‘’l’alfiere deve muoversi in diagonale’’. All’interno di queste
Conte ne distingue altre due: paradigmatiche (‘’l’alfiere deve muoversi in diagonale’’—regola che prescrive una forma
di azione nonché una determinata forma di prosecuzione del gioco. Nel loro insieme queste regole determinano per
ogni fase del gioco il paradigma delle possibili forme alternative di prosecuzione del gioco, ovvero delle possibili
mosse) e sintagmatiche (‘’il re deve essere sottratto allo scacco’’—regola che stabilisce che in una determinata
situazione del gioco si deve eseguire una prosecuzione del gioco senza altre alternative: chiaramente è possibile
sottrarre il re dallo scacco attraverso diverse mosse ma l’importante è che si arrivi a quello specifico risultato)

-ontiche= definiscono che cos’è qualche cosa ‘’scacco matto vi è solo se il re è sotto scacco e non può essere sottratto
allo scacco attraverso alcuna mossa’’

2.Regola anankastico-costitutiva= dalle regole eidetico deontiche che costituiscono un sistema ludico (un game,
ovvero regole che costituiscono il gioco vero e proprio, il cosiddetto ‘’ludus’’ ovvero il sistema vero e proprio del gioco
che lo costituisce) ne derivano quelle anankastiche ovvero insieme di regole che prescrivono come agire per realizzare
il gioco (il cosiddetto ‘’lusus’’ ovvero l’attività del gioco, insieme di azioni che rendono possibile la realizzazione del
gioco stesso. Questi due tipi di regole quindi, quelle eidetico costitutive e quelle anankastiche, proprio per le
definizioni precedentemente date, non possono coincidere perché sono diverse: le prime sono regole che permettono
l’esistenza del gioco e che sono quindi necessarie, le seconde sono quelle regole che determinano le azioni per

45
realizzare il gioco. Esempio: il testamento olografo deve essere fatto per mano del testatore oppure la donazione deve
essere fatta per atto pubblico. Queste due regole possono sembrare all’apparenza delle regole eidetico costitutive
(regole costitutive del concetto stesso) ma non lo sono perché non identificano che cosa siano il testamento o la
donazione, esse presuppongono invece l’esistenza di concetti. Tuttavia esse sono in qualche modo costitutive perché
anche se non identificano il concetto stesso, pongono quelle condizioni necessarie per le quali un certo atto abbia
valore di un testamento olografo valido o di donazione valida ma sempre in funzione di un determinato ordinamento.
Possiamo definire le regole anankastico costitutive come: regole che pongono una condizione necessaria di ciò su cui
esse vertono. Nel caso delle regole eidetico costitutive però sono le regole stesse ad essere una condizione necessaria,
in quelle anankastiche invece le regole pongono una condizione necessaria di validità.

RAPPORTI TRA I DUE TIPI DI REGOLE

Un altro modo per distinguere le due regole è il seguente: le regole eidetico costitutive determinano il concetto stesso
ovvero sono esse stesse che costituiscono il concetto, quelle anankastico costitutive presuppongono questo concetto
e pongono delle condizioni necessarie di ciò su cui esse vertono. Nell’esempio della donazione, le regole eidetico
costitutive determinano che cosa sia la donazione stessa mentre le regole anankastico costitutive pongono delle
condizioni necessarie di validità per le quali un determinato atto può essere classificato come donazione valida
(ATTENZIONE: prima della regola anankastica, esiste già il concetto a cui essa si riferisce perché è determinato dalle
regole eidetiche). Le regole del diritto sono regole eidetico costitutive?

-si perché sono regole che determinano dei concetti quindi che li prescrivono e che di conseguenza devono essere
necessariamente seguiti per non incorrere a sanzione.

-no perché per Conte non sono le regole di un singolo ordinamento a costituire determinati concetti ma queste regole
presuppongono l’esistenza di atti giuridici che esistevano ancor prima della creazione dell’ordinamento. Conte osservò
ad esempio che nella storia del diritto italiano, dopo la creazione del codice civile nel ’42, non era previsto il Leasing
ma alcuni soggetti lo compivano ugualmente sul modello di quello americano (sarebbe il concetto presupposto dalle
regole anankastiche dell’ordinamento italiano poiché è un concetto creato però dalle regole dell’ordinamento
americano). In seguito poi fu introdotto anche nel nostro ordinamento che però non è responsabile della creazione di
questo concetto, l’ha solo tramutato dall’ordinamento americano. L’ordinamento italiano ha dichiarato
semplicemente con le regole anankastico costitutive le condizioni necessarie di validità conformi al concetto
individuato dall’ordinamento americano.

La condizione necessaria non è una regola che prescrive qualcosa di obbligatorio ma qualcosa di necessario che si
segue per realizzare ciò che è identificato dalla regola eidetica (regola che determina il concetto), se non si seguisse
quella determinata condizione non si viene sanzionati ma semplicemente non si arriva alla realizzazione del concetto.

Riepilogo: Conte distingue due tipi di regole costitutive, eidetico e anankastico. Entrambe hanno a che fare con delle
condizioni necessarie perché nel primo tipo, sono delle norme necessarie per l’esistenza ad esempio del gioco degli
scacchi (esse stesse sono la condizione necessaria di ciò su cui vertono; costituiscono il concetto stesso) mentre il
secondo tipo sono la condizione necessaria per realizzare le regole eidetico costitutive (pongono quindi delle
condizioni necessarie; presuppongono un concetto ovvero sappiamo che dietro queste regole c’è un concetto base
posto dalle regole eidetiche).

Esempi di regole anankastico costitutive

Art.5 ‘’la decisione del consiglio di stato deve contenere la sottoscrizione dei consiglieri che hanno pronunziato la
decisione’’. È una norma che pone una condizione necessaria per la decisione del consiglio di stato: senza questa
condizione non sarebbe valida.

Art.111 ‘’la procura deve essere fatta per atto pubblico’’ o art.102 ‘’è valido il testamento olografo

A volte queste condizioni necessarie possono essere formulate in forma negativa: ‘’il diritto di querela non può essere
esercitato decorsi i 3 mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce il reato’’

Art.1350 ‘’devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata con pena di nullità gli atti di trasferimento di proprietà
dei beni immobili’’

46
Questi esempi sono importanti nella teoria della validità degli atti: tutte le norme che pongono le condizioni
necessarie per la validità degli atti sono di tipo anankastico costitutive. Ci sono casi dove queste stesse norme sono
rilevanti per lo studio delle metaregole/metanorme sulla validità di norme: in Kelsen non c’è una teoria delle norme
costitutive ma prevedeva la struttura a gradi dell’ordinamento che può essere concepita alla luce di queste
metaregole, infatti esse sono uno sviluppo della teoria a gradi dell’ordinamento concepita da Kelsen (il concetto di
metaregola costitutiva è molto utile per inquadrare la teoria di Kelsen perché egli affermava che le norme di grado
inferiore dovessero conformarsi a quelle di grado superiore, allo stesso modo le norme anankastico costitutive sono
una condizione di validità necessaria delle norme eidetiche le quali costituiscono il concetto stesso sul quale verte
anche quella anankastica). Negli ordinamenti complessi infatti esistono delle regole che vertono sulla validità di altre
regole (regole che hanno ad oggetto altre regole), che noi fino adesso abbiamo chiamato regole anankastiche, perché
ne inquadrano le condizioni necessarie. Per questo stesso motivo vengono definite ‘’metaregole’’. Negli ordinamenti
odierni sono costantemente presenti queste metanorme: ad esempio l’art.4 ‘’i regolamenti non possono contenere
norme contrarie alle disposizioni delle leggi’’ (questo perché le norme hanno una gerarchia e i regolamenti, essendo di
grado inferiore, devono rispettare ciò che è dettato dalle leggi superiori di grado. È una metaregola che verte sui
regolamenti ovvero ne presenta le condizioni di validità). Un altro esempio riguarda l’efficacia delle norme derivanti
dagli usi: ‘’nelle materie regolate dalle norme e dai regolamenti, gli usi hanno efficacia/validità solo in quanto
richiamati espressamente dalla legge o dal regolamento stesso’’. In questo caso quindi abbiamo una metaregola sulla
validità/efficacia degli usi. In alcuni casi può accadere che le condizioni necessarie siano poste in termini disgiuntivi: ad
esempio l’art.1350 pone una scelta attraverso la congiunzione ‘’o’’ e implica la soddisfazione di almeno una delle due
soluzioni proposte. La norma anankastico costitutiva è rilevante anche nel concetto di ‘’onere’’ (diverso dall’obbligo ce
è determinato da una norma prescrittiva): esso infatti consiste in un atto al fine di ottenere o conservare un vantaggio
giuridico, come nel caso dell’onere della prova. Gli oggetti su cui vertono le norme anankastico costitutive possono
essere altro rispetto agli atti ma per esempio possono riferirsi ai concetti come ad esempio nella legge ‘’gli arbitri
devono essere cittadini italiani’’. Le condizioni necessarie poste dalle regole anankastico costitutive tendenzialmente
per essere soddisfatte necessitano dell’azione da parte di qualche soggetto ma talvolta si tratta di condizioni che
appaiono inadempibili: un esempio potrebbe essere il fatto che per contrarre matrimonio bisogna essere
maggiorenni, perciò un soggetto minorenne che volesse sposarsi non può fare qualcosa di concreto per raggiungere la
soglia di età minima necessaria, dovrà solo aspettare il decorso del tempo. Questo implica il fatto che talvolta la
condizione può essere soddisfatta, altre volte no.

Un aspetto molto importante su cui è necessario fare una riflessione è la differenza tra: illiceità (un atto è illecito se
compiuto in violazione di una norma prescrittiva—si definiscono norme prohibentes ovvero che portano ad un illecito)
e invalidità (un atto è invalido se difforme da quanto previsto a una regola anankastico costitutiva o in generale alle
norme costitutive—si definiscono norme irritantes ovvero che portano ad una invalidità dell’atto)—ATTENZIONE: un
atto potrebbe essere considerato valido nonostante violi una norma prescrittiva. Un esempio adatto viene tratto dal
diritto canonico ed è il seguente: c’è un canone che prevede il divieto della collazione del beneficio del canonicato ad
un diacono ma la collazione nel momento in cui avviene è comunque valida nonostante violi il canone appena
presentato. Un altro esempio potrebbe essere il fatto che per legge sono proibiti i giochi d’azzardo ma nel momento in
cui si creano dei debiti di gioco, bisogna ugualmente pagarli.

Regole tecniche o regole anankastiche (non costitutive)

È un tipo di regola che ha a che fare con le condizioni di validità ma non è né anankastica né eidetica. Sono regole
tecniche quelle che prescrivono il fare qualcosa in quanto questa azione sia condizione necessaria per raggiungere un
determinato fine. È una condizione necessaria che però non dipende di per sé da alcuna regola precedente, infatti non
può rientrare nelle regole anankastiche perché non presuppone alcun concetto su cui essa verte (infatti è
indipendente da questo). Ciò non di meno queste regole non prescrivono di fare qualcosa né pongono delle condizioni
di validità necessarie, esse non fanno altro che presupporre delle condizioni necessarie, espone semplicemente delle
condizioni necessarie senza stabilirle. Sono delle regole che valgono solo nel momento in cui si ha l’intenzione di
perseguire quel fine su cui esse vertono, non si è obbligati a seguirle né tanto meno sono condizioni necessarie poste.
Inoltre questa regola la si indirizza solo a chi vuole realizzare quel determinato fine. La regola tecnica presuppone che
esista la regola anankastico costitutiva. Un esempio di regola tecnica potrebbe essere il fatto che per aprire una porta
devo utilizzare la maniglia ma se non sono interessato ad uscire dall’aula allora non è necessario seguire questa regola
tecnica. Inoltre quest’ultima dipende dalla struttura materiale della porta perché spingere la maniglia è una
condizione necessaria per la quale io posso uscire dalla porta (questa a sua volta per una propria struttura materiale,

47
presenta la maniglia ed è necessario utilizzarla per uscire). Un altro esempio: supponiamo che una persona voglia
accendere un mutuo e per farlo è necessario appellarsi alla banca la quale a sua volta prevede un regolamento per
accendere a questo mutuo. Mettiamo caso che la condizione che pone questa banca è il fatto che per poter accendere
il mutuo bisogna versare il 50% della somma richiesta. il consulente bancario avvisa il soggetto richiedente che deve
versare questo 50%: questa indicazione è una regola tecnica perché non è obbligatorio versare la somma ma
semplicemente una condizione necessaria per accendere il mutuo. Al contrario una volta che si accende il mutuo, sarà
in seguito obbligatorio versare mensilmente una somma alla banca—questa è una condizione necessaria di validità
dello stesso mutuo. In generale sono regole che danno istruzioni sul raggiungimento di un determinato risultato che
presuppongono delle condizioni necessarie (dicono che esistono prima delle condizioni necessarie che sono proprio
quelle anankastico costitutive)—per questo stesso motivo si distinguono le regole anankastico costitutive da quelle
solo anankastiche. In generale sono delle norme che offrono istruzioni funzionali a realizzare le condizioni necessarie
di validità individuate dalle regole anankastico costitutive, per questo queste ultime vengono presupposte dalle regole
tecniche.

Regole stocastiche

A volte le regole che noi dobbiamo seguire per conseguire un certo risultato, nonché le regole tecniche, possono
dipendere da qualcosa che non possiamo esaminare con certezza. Pensiamo ad esempio agli allenatori di calcio che
forniscono determinate regole tecniche ai giocatori per ottenere il risultato migliore possibili: queste strategie non
garantiscono il risultato ma aumentano fortemente le probabilità di conseguire un determinato risultato. Si tratta
quindi di regole che aumentano semplicemente la probabilità di raggiungimento di un fine ma non ne danno l’assoluta
certezza.

Norme costitutive

Gaetano Carcaterra fu un filosofo del diritto che ragionò sulle regole costitutive. Egli lavorava come funzionario alla
Camera dei deputati e si occupava del drafting legislativo (redazione dei testi normativi che spesso produce dei testi di
difficile comprensione. Questo porta ad una difficile comprensione delle leggi.) Carcaterra in particolare era stato
incaricato di redigere un testo normativo che avrebbe dovuto modificare il regolamento della stessa Camera. Egli
aveva proposto il testo nel seguente modo: ‘’sostituire l’art. X della camera con il seguente’’. Questo modo di
formulazione della modifica, presume una prescrizione che deve essere adempiuta da qualcuno attraverso il suo
comportamento. Nonostante la forma appaia descrittiva, in realtà contiene una prescrizione (obbligo o divieto) perché
fa parte di un testo che nel suo complesso normativo. Proprio perché si tratta di un testo normativo, ha di per sé una
valenza prescrittiva e perciò non occorre esprimere lo stesso testo per mezzo di un imperativo che esprime un
comando perché come già detto, essendo un testo normativo, ha intrinsecamente una valenza prescrittiva (di
comando). Da questo ragionamento deduciamo che la forma più corretta da utilizzare è l’indicativo. Quando le norme
sono prescrittive, esse sono innanzitutto create dall’autorità competente la quale però destina questa norma a dei
destinatari: il comportamento di questi ultimi permette di raggiungere il fine prestabilito dalle norme, quindi per
produrre un risultato è necessaria la mediazione dei destinatari ovvero il mantenimento di un loro comportamento.
Carcaterra quindi utilizzando la forma imperativa, ha commesso un errore: anche perché così presuppone la
prescrizione di quella modificazione a determinati soggetti che però lui stesso non inquadra. La forma corretta
sarebbe ‘’l’articolo X è sostituito con il seguente’’—anche questa forma apparentemente appare descrittiva ma in
realtà ha un effetto immediato perché implica nello stesso momento la sostituzione o in generale la modifica della
norma. Parliamo di novella quando si introduce una norma che sostituisca una disposizione giuridica già in vigore e di
abrogazione quando una norma che viene introdotta fa perdere di validità la norma a lei precedente. Ciò che osserva
Carcaterra è che talvolta è necessario introdurre delle distinzioni tra:

-valenza pragmatica descrittiva

-valenza pragmatica normativa: a sua volta si può dividere in prescrittiva e costitutiva

Carcaterra fornisce degli esempi: l’art. 10 del decreto legge dichiara che ‘’l’art. 100 del codice penale è abrogato’’,
dicendo ciò il legislatore ritiene immediatamente abrogata la norma a cui fa riferimento, non è un ordinamento
prescrittivo perché non ha avuto bisogno di ulteriori azioni prescritte a qualche soggetto in particolare incaricato di
abrogare la norma, l’effetto è stato immediato perché è avvenuto per effetto della norma stessa (essa attua
immediatamente quello stato di cose). Se avessimo ad esempio usato la stessa norma contenente però un verbo
deontico come ‘’l’art. 100 deve essere abrogato’’ avremmo inteso che l’effetto dell’abrogazione avviene in un

48
momento successivo che corrisponde alla prescrizione dell’obbligo di abrogarla a dei soggetti particolari designati dal
legislatore stesso. Per Bobbio ci sono delle funzioni principali del linguaggio: descrittiva, espressiva e prescrittiva. Egli
afferma che la proposizione prescrittiva corrisponde alla norma (essa è una prescrizione di un obbligo o di un divieto a
dei soggetti specifici). Bobbio applica la filosofia del linguaggio all’analisi del linguaggio giuridico, per questo le sue
riflessioni sono definite innovative. Carcaterra quasi 20 anni dopo Bobbio, dopo aver studiato i testi di quest’ultimo, si
accorge che non tutte le norme sono prescrittive perché al posto di produrre in maniera mediata (attraverso il
comportamento di altri soggetti) gli effetti della norma, producono immediatamente quegli stessi effetti. Nel 1954
quindi Carcaterra introduce il concetto di norma dispositiva o costitutiva: utilizza il termine ‘’dispositiva’’ perché si
parlava già di sentenze dispositive (tipo di sentenza emanata dai giudici che non ha funzione prescrittiva ma piuttosto
dispositiva, avviene maggiormente nel diritto civile: il tribunale dispone immediatamente gli effetti della propria
sentenza, essa quindi attua immediatamente ciò che stabilisce). Con Carcaterra quindi si introduce una nuova
funzione della norma, nonché quella dispositiva. Tutte le situazioni come l’abrogazione, la conformazione, la
sostituzione, la modificazione della norma, vengono in essere non indipendentemente dall’atto normativo ma in virtù
di quest’ultimo o meglio della sua forza produttiva. Si tratta però di una produttività diversa dalle proposizioni
prescrittive (producono un evento esercitando una pressione sul comportamento di qualcuno): le norme dispositive
invece producono un effetto del loro contenuto, realizzandolo nel momento stesso del loro entrare in vigore, proprio
per questo sono chiamate ‘’dispositive’’. Appena ci si pensa appare ovvia la differenza tra questi due tipi di norme:
quelle prescrittive raggiungono gli effetti in maniera mediata mentre quelle dispositive o costitutive hanno effetti che
si producono in maniera immediata attraverso lo stesso atto con cui si emana la norma senza l’appello all’azione di
soggetti che attraverso i loro comportamenti portano all’effetto desiderato. Inoltre, mentre le norme prescrittive si
rivolgono a soggetti, producono eventi con effetti materiali e possono essere violate (perché prescrive un obbligo o
divieto ad un destinatario che, se non adempie, viola la stessa norma), quelle dispositive/costitutive non hanno in
senso proprio dei destinatari, producono effetti di natura ideale (ciò vuol dire che, come affermarono Amselek e
Weinberger, le norme sono entità ideali nel senso che fanno parte del mondo delle idee. Il legislatore infatti con la sua
decisione, modifica e crea una nuova realtà ma essa è una realtà istituzionale, ovvero non è un fatto materiale/bruto e
proprio per questo si tratta di un fatto ideale) e, producendosi nell’immediato, non possono a rigore in alcun modo
dirsi violate. Questa idea di Carcaterra come l’idea di Searle fu discussa soprattutto in relazione alle regole costitutive
perché esse non possono essere violate: infatti in caso queste regole non vengono seguite, non prevedono una
sanzione, ma semplicemente non conformare il proprio comportamento a queste regole costitutive, equivale a fare
altro rispetto all’attività prevista dalle regole come ad esempio un gioco.

Come sappiamo già da Searle, le regole costitutive hanno a che fare con la condizione necessaria: le regole eidetico
costitutive sono la condizione necessaria di ciò su cui vertono, quelle anankastico costitutive pongono una condizione
necessaria di ciò su cui vertono. A volte però con condizione facciamo riferimento ad una condizione necessaria altre
volte facciamo riferimento ad un sola condizione sufficiente. Giampaolo M. Azzoni si occupò proprio della distinzione
tra condizione:

necessaria= in questa categoria collochiamo le regole eidetico costitutive (sono le condizioni necessarie) e quelle
anankastico costitutive (pongono delle condizioni necessarie)

sufficiente= partendo da un esempio: la norma costitutiva che costituisce la provincia di Monza e Brianza ha degli
effetti immediati. Per Carcaterra la sola esistenza della norma è una condizione sufficiente per la produzione degli
effetti. Conte e Azzoni chiamano queste regole ‘’thetico costitutive’’ (è una norma che costituisce immediatamente
qualche cosa ed è condizione sufficiente di ciò su cui verte). Ne fanno parte quindi le norme costitutive di Carcaterra.
Possono esistere allo stesso tempo delle regole che pongono e NON SONO delle condizioni necessarie, Conte e Azzoni
le chiamano ‘’regole metathetico costitutive’’ (determinano delle condizioni disgiuntamente sia necessarie che
sufficienti). Un esempio di queste ultime regole è: regola sui senatori di diritto a vita (sancisce che chiunque sia stato
presidente della repubblica, diventa senatore a vita)—pone quindi una condizione sufficiente per diventare senatore a
vita.

necessaria e sufficiente= esiste la possibilità che una norma ponga sia delle condizioni necessarie che costitutive,
Conte e Azzoni chiamano queste norme ‘’noetico costitutive’’. Un esempio di questo tipo di norma lo ritroviamo nella
prospettiva di Kelsen: egli parla di ordinamento giuridico dicendo che quest’ultimo è tale solo se si presuppone una
norma fondamentale. Questa norma fondamentale è una condizione necessaria per l’esistenza dell’ordinamento
giuridico ma allo stesso tempo è anche la sola condizione sufficiente che rende possibile l’esistenza dell’intero

49
ordinamento giuridico. Esistono poi delle regole che pongono e NON SONO delle condizioni necessarie e sufficienti
che Conte e Azzoni chiamano ‘’regole nomico costitutive’’. Un esempio di questo ultimo tipo di regole è secondo
Azzoni l’art.254 del codice civile: ‘’Il riconoscimento del figlio naturale è fatto nell'atto di nascita, oppure con una
apposita dichiarazione, posteriore alla nascita o al concepimento, davanti ad un ufficiale dello stato civile o in un atto
pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo’’. Questo articolo pone sia delle condizioni necessarie
che sufficienti per il riconoscimento del figlio naturale: lo fa attraverso delle disposizioni disgiuntive (che implicano
una scelta tra le possibilità proposte).

Accanto a tutte queste regole ci sono: regole tecniche (presuppongono una condizione) e prescrittive (pongono
obblighi, divisti, permessi e facoltativi ovvero prevedono dei comportamenti secondo i modi deontici)

Per il gruppo di regole costitutive che pongono una condizione necessaria, Azzoni propone il termine di ‘’regole
ipotetico costitutive’’. Chiaramente tutti questi tipi di regole, riportate in uno schema combinatorio, presentate sono
funzionali per capire gli ordinamenti giuridici e per introdurre nuove norme. Inoltre questo schema ci aiuta a capire
che le norme non sono tutte prescrittive, a porre delle condizioni necessarie di validità e a creare nuovi stati di cose
(nuove norme). Dal punto di vista del diritto le più rilevanti sono quelle: thetico, anankastico, metathetico costitutive
oltre a quelle prescrittive. In generale è necessario distinguere le condizioni necessarie da quelle sufficienti.
Chiaramente non sempre è facile distinguere i tipi di norme ma questo schema contribuisce a farlo.

Antinomia= quando uno stesso comportamento è descritto da norme deontiche differenti, si è quindi di fronte a delle
incoerenze dell’ordinamento. Una domanda interessante è ‘’ci possono essere delle antinomie tra regole costitutive’’?
la risposta è molto probabilmente si ma non è ancora stata approfondita, ci possono essere dei casi in cui delle
condizioni necessari risultano inadempibili poiché contraddittorie tra loro.

SAGGIO ‘’NORME PRIMARIE, NOME SECONDARIE, NORMA DI RICONOSCIMENTO’’-HART

H.L.A. Hart, filosofo del diritto inglese che riflette sul fatto che gli ordinamenti giuridici integrano non solo regole
prescrittive ma anche altri tipi di norme che non prescrivono direttamente un obbligo o un divieto ma sono necessarie
per la costruzione di un ordinamento giuridico articolato.

Il tema delle regole costitutive è legata all’osservazione in base alla quale queste norme non impongono obblighi e
divieti, diversi autori si sono concentrati su questo aspetto. In particolare ricordiamo:

-Searle: introdusse la differenza tra fatti bruti e istituzionali e la costitutività delle regole

-Conte: si concentra sull’analisi delle regole costitutive dividendole in eidetico e anankastiche

-Azzoni: riprese le idee del suo maestro A. Conte e divide tra le regole costitutive quelle che sono una condizione e
quelle che pongono una condizione

-Carcaterra: introdusse le norme costitutive

Tra loro immettiamo Hart che cronologicamente precede questi autori. Egli si limitò a individuare due tipologie di
norme essenziali nell’ambito del diritto:

1) Norme primarie= norme che sono prescrittive ovvero che prevedono un obbligo, divieto, permesso o facoltative.
Sono norme direttamente rivolte ai destinatari.

2) Norme secondarie= ne fanno parte 3 diversi tipi di norme fondamentali per costruire gli ordinamenti giuridici
complessi e che servono a compensare i 3 limiti che ci sarebbero se gli ordinamenti fossero composti da sole norme
primarie. Sono in altro modo dette ‘’norme di competenza o che conferiscono poteri’’, in quanto tali non possono
essere delle norme primarie perché non conferiscono obblighi o divieti.

Nel libro ‘’il concetto di diritto’’ del 1961 Hart si pone il problema generale ‘’che cos’è il diritto?’’. Egli voleva sapere
per quale motivo nelle civiltà umane esistono da sempre delle regole che impongono degli obblighi e dei divieti. In una
società semplice, troveremo in altrettanto modo questo tipo di regole che prescrivono obblighi e doveri ma allo stesso
tempo non troveremo degli organi istituzionali (preposti all’applicazione delle norme del diritto) né di polizia. A questo
punto Hart si chiede se è possibile immaginare una società di esseri umani in cui vigono solo regole primarie che
impongono quindi obblighi e divieti. Se osserviamo la storia dell’umanità, notiamo che sono esistite questo tipo di

50
società in cui vigono solo norme primarie, perciò per Hart la risposta alla domanda da lui posta è affermativa. In
questo tipo di società le norme tendono a formarsi per consuetudine e nonostante non fossero scritte, poiché si
trattava di società formate da un gruppo ristretto di persone, venivano tendenzialmente seguite da tutti i membri di
queste comunità circoscritte. Queste regole vengono perciò rispettate in queste comunità circoscritte perché c’è
un’idea condivisa di giustizia alquanto spontanea nelle persone, inoltre il modo in cui riescono a mantenerle costanti è
attraverso una coesa pressione sociale che viene esercitata in diverse maniere. Nel momento in cui le società crescono
e aumenta la popolazione, aumentano anche i disaccordi tra le persone. A questo punto Hart afferma che questo
sistema di norme meramente primarie, lascia spazio ad una serie di problemi all’interno di queste società:

1)Incertezza= i soggetti membri di quella determinata società circoscritta potrebbero domandarsi quale sia l’origine
delle norme che essi seguono e soprattutto chi le ha stabilite dal momento che non c’è un legislatore il quale le abbia
create (infatti si sono prodotte per consuetudine). Di conseguenza si porranno dei dubbi sull’esistenza di quelle stesse
norme e inoltre risulta impossibile distinguere i limiti tra regole differenti. Manca proprio un criterio per il quale si
stabiliscono le regole che fanno parte del sistema di norme le quali determinano specifici aspetti della vita. Nel
momento in cui la società si allarga, aumentano i disaccordi e i dubbi sull’esistenza di queste stesse norme.

2)Staticità= abbiamo affermato che le norme in queste società circoscritte sorgono per consuetudine, di conseguenza
l’ordinamento, nonché il sistema di quelle stesse norme, tenderà ad essere statico. Infatti dal momento in cui si
decide di cambiare una determinata consuetudine, si va incontro ad un processo eccessivamente lento che prevede la
conformazione del comportamento di tutti i membri ad un comportamento contrario rispetto alla consuetudine
affermata originariamente.

3)Inefficienza= un sistema di norme basato sulla pressione sociale diventa inefficiente quando di fronte alle
controversie si mette in dubbio l’esistenza delle norme vigenti in quella determinata comunità poiché ci si comincia a
discostare dalla condivisione maggioritaria delle stesse. Si predilige infatti la determinazione di nuove norme che
rappresentino in maniera più efficiente le nuove esigenze della nuova società che non è più circoscritta ma si sta
espandendo.

Fatte queste osservazioni, Hart distingue 3 differenti norme secondarie che regolano diversi aspetti della regolazione,
applicazione e modificazione delle norme primarie. Le norme secondarie stanno su un livello diverso rispetto a quelle
primarie poiché sono relative a quest’ultime, proprio per questo motivo Hart le chiama metanorme. I tipi di norme
che Hart inquadra per risolvere i tre problemi precedentemente presentati sono:

1)Norma di riconoscimento= norma che specifica quali caratteristiche una norma deve avere per essere considerata
valida in quella determinata società (norma per l’individuazione decisiva delle norme primarie di una determinata
società). Le forme che può assumere questa norma di riconoscimento possono essere semplici o più complesse. I
criteri che consentono di riconoscere una norma come valida per uno specifico ordinamento permettono il passaggio
tra un ordine pre-giuridico ad uno giuridico. Queste norme presuppongono un criterio di autorità che può essere
identificata in un autorità trascendente o vivente. Questa norma di riconoscimento è opera anche degli ordinamenti
odierni. Questo tipo di norma è rilevante per la determinazione dell’unità di un sistema di norme poiché sono legate
tra loro da questo criterio di riconoscimento. Inizia a questo punto ad emergere l’idea di ‘’validità’’ della quale non
potremmo parlare senza questo criterio di riconoscimento (il concetto di validità presuppone una norma di
riconoscimento).

2)Norme di cambiamento= quando si riconosce un’autorità competente a stabilire quali sono i criteri per il
riconoscimento delle norme che fanno parte di una società, si può attribuire allora a questa stessa autorità il potere di
decidere come modificare quelle stesse norme. Ne fanno parte anche le norme dell’autonomia privata, norme con le
quali i privati stabiliscono come stipulare dei contratti validi (sono norme che contribuiscono a formare lo stesso
ordinamento).

3)Norme di giudizio= norme che conferiscono il potere ad alcuni organi particolari non tanto di condannare qualcuno
ma in primis di accertare l’effettiva violazione di una norma. Queste norme presuppongono l’esistenza della norma di
riconoscimento nonché dei criteri grazie ai quali quelle persone hanno il potere di verificare l’esistenza della
violazione. Le norme di giudizio riguardano principalmente l’accertamento della violazione, stabilire quale sia poi la
sanzione conseguente è compito di altre norme secondarie che però Hart non inquadra.

51
ATTENZIONE: questo paradigma tra norme primarie e secondarie è stato fatto analogamente da Kelsen ma per far
riferimento ad una distinzione differente. Kelsen afferma che, in base al principio di imputazione, si associa un fatto
condizionante ad una relativa conseguenza giuridica condizionata, nonché una sanzione. Per Kelsen la grande
maggioranza delle norme giuridiche sono riducibili alla forma ‘’se si verifica A, deve esserci la conseguenza B’’ che
prevede appunto una sanzione (essendo esse regolate dal diritto, sono socialmente organizzate al contrario di quelle
morali o religiose). Per Kelsen, il fatto di regolamentare le sanzioni e in particolare la coercizione, permette al diritto di
esercitare il monopolio della forza in modo da garantire una convivenza pacifica perché in questo modo la violenza
non viene usata dai privati. Se osservassimo gli ordinamenti, notiamo che esistono delle norme che non stabiliscono
delle sanzioni: Kelsen le definisce ‘’frammenti di norme’’, esse in realtà concorrono ad integrare le sanzioni stesse
perché ne indicano le condizioni per le quali le sanzioni stesse possono essere applicate. A questo proposito Kelsen
definisce: norme primarie quelle norme che prevedono direttamente una sanzione e norme secondarie quelle norme
che sono correlate alle primarie ma individuano i comportamenti da mantenere per evitare la sanzione (sono per
questo motivo in qualche modo implicite alle primarie).

Dal ragionamento di Hart possiamo presupporre il fatto che ritenesse insufficienti le sole norme primarie per
determinare gli ordinamenti. Infine Hart afferma che PER PARLARE DI VALIDITA’ DOBBIAMO FARE RIFERIMENTO
SEMPRE AD UNA NORMA DI RICONOSCIMENO, QUINDI NEL CONTESTO DI UN ORDINAMENTO IN CUI VIGONO SOLO
NORME PRIMARIE, NON POSSIAMO AVERE UN CRITERIO PER IL QUALE RITENERE QUELLE DETERMINATE NORME
VALIDE O MENO.

52

Potrebbero piacerti anche