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INTRODUZIONE
1.IL DIRITTO PENALE PRE MODERNO – CENNI
L’ evoluzione del diritto penale pre-moderno caratterizza il periodo che va dal ‘700 all ‘800. In questo
periodo gran parte del diritto pubblico si fonda sulla sanzione della limitazione della libertà personale ad
esempio la carcerazione. La confusione tra l’oggetto della sanzione penale e la punibilità dei cittadini si
articola in quella che è la creazione di scenari del sistema punitivo che sono diversi e confusi. Una delle
principali concezioni era di confondere il crimine con il peccato e il diritto con la morale.
La responsabilità penale consta del fatto offensivo che non può caratterizzare solo la morale. Nel codice
1830 la c.d. VIOLENZA CARNALE con altri diritti erano collocati nei delitti contro la morale pubblica non
tenendo conto degli interessi personali in tema di sessualità. Dal 1996 in poi ci fu un tentativo
interpretativo non più basato sulla morale e una diversa posizione della “nuova” violenza sessuale ( ad es.
lo stupro verso la moglie antecedentemente non era punibile).
Bisogna capire che l’offesa del BENE GIURIDICO in ogni situazione e non l’atteggiamento morale dell’autore
dell’illecito. Gli scenari penali pre-moderni erano caratterizzati da eccessi (la c.d. SPETTACOLARITA’E LA
SANZIONE CRUDELE E AFFLITTIVA). Anche la punizione era diversa rispetto a quella odierna . Le stesse
modalità del PROCESSO PENALE erano profondamente differenti si parla di un processo inquisitorio,scritto
e con un’assenza di pubblicità. IL SUPERAMENTO DELL’IMPOSTAZIONE PREMODERNA si ha con il
GIUSNATURALISMO LAICO.
2. L’ILLUMINISMO PENALE
Nella metà del ‘700 si parla di ILLUMINISMO PENALE attraverso filosofi e autori laici (ad es Pagani,
Montesquie, Filangieri, Beccaria). L’ illuminismo penale è una scienza della legislazione e non di mera
tecnica del diritto. Le principali caratteristiche sono dettate da ragione e razionalità scientifica in campo
penale come strumento UTILE per prevenire i fatti delittuosi (reati). Il tutto alla luce di una separazione tra
diritto e morale. Le due matrici filosofiche d’interesse sono IL CONTRATTUALISMO e L’UTILITARISMO, il
primo prevede che le società siano fondate sul contratto sciale finalizzato alla tutela dei diritti dei cittadini
(art 25.2 COST),sottomettendosi ad un potere sovrano (PARLAMENTO). Il secondo nasce essenzialmente
per prevenire i reati. Secondo BEUTAU è utile ciò che ha come conseguenza la più grande tipicità del
maggior numero di persone. Secondo BECCARIA solo le leggi possono limitare le persone: certezza del
diritto, aspettattiva dei singoli e libertà personale.
Dall’ 800 in poi si sono sviluppate le cd. SCUOLE : CLASSICA, TECNICO GIURIDC A E POST COSTITUZIONE.
La scuola classica porta alla nascita della moderna scuola penale. I principali esponenti sono F. Carrara, P.
Rossi, E. Messina. Sul piano teorico la scuola classica delineava una CONCEZIONE DEL REATO
GIUSNATURALISTICA: IL REATO COME ENTE GIURIDICO. L’ entità giuridica veniva da LEGGE ASSOLUTA che
prevedeva il dato positivo del legislatore : si effettuava dunque una violazione tutelata da una legge
superiore. La scuola classica inoltre si fonda su una teoria generale del reato , in senso metafisico. Il reato è
un’ azione umana scaturita dal LIBERO ARBITRIO dell’uomo, moralmente resposabile e generalmente
imputabile. Carrara scomponeva inoltre il reato in elemento oggettivo (forza fisica) ed elemento soggettivo
( forza morale). IL REATO COME ENTE è un singolo fattp delittuoso che viene valuato senza dare peso al
contesto in cui l’uomo si incastonava. In luce del Codice Zanardelli che è il primo codice penale italiano di
impronta liberale venivano valutati i fatti e non la morale umana. La scienza penale per i classici è qualcosa
di superiore rispetto al futuro tecnicismo giuridico mediante la mera esegesi del diritto positivo. Gli
approcci erano eterogenei.
4. LA SCUOLA POSITIVA.
I principali esponenti della scuola positiva sono: Lombroso, Garofalo, Ferri. Il positivismo criminologico si
incastona nella filosofia positivista, nata nella prima metà dell’ 800 in Francia. La scuola riteneva di poter
combattere la criminalità con la scienza. I positivisti non guardano il reato come ente giuridico ma lo
studiano come FENOMENO NATURALE. La scuola ha come fondamento la negazione della colpevolezza-
responsabilità della scuola classica. Il libero arbitrio è visto come illusione metafisica , non dimostrabile con
la scienza. Si parla di DETERMINISMO attraverso non la libertà umana ma con CAUSA: il comportamento
dell’uomo avviene prima della volontà , quindi non è scontata la TEORIA DEL LIBERO ARBITRIO . Le
categorie tradizionali quale morale, responsabilità e retribuzione della pena vengono meno poiché si parla
di PERICOLOSITA’ e CONSEGUENZA del delitto dunque di DIFESA SOCIALE. Il delinquente era visto come un
“malato” biologicamente determinato a commettere reato. Con Ferri nasce la SOCIOLOGIA CRIMINALE i
fattori che determina il reato sono fattori socio- economici ed ambientali.
5. GENESI ED EVOLUZIONE DELL’INDIRIZZO TECNICO-GIURIDICO.
Nella genesi ed evlozione dell’indirizzo tecnico giuridico si ha un sinallagma tra male del delitto e male della
pena. Nel positivismo criminologico si parlava di PREVENZIONE DEL REATO in misura indeterminata nel
tempo. Vi è oggi , una presunzione assoluta di pericolosità per chi è autore del reato. La differenza tra
scuola classica e scuola positiva determinano il DIRITTO COME FENOMENO MUTABILE NEL TEMPO;
contriamente alla scuola classica in cui il REATO ERA FEMONENO METAFISICO IMMUTABILE NEL TEMPO.
Tra la fine dell’ 800 e inizio ‘900 si sviluppano altre correnti della scuola penalistica : LA TERZA SCUOLA (O
SCUOLA CLASSICA), fondata da B. Alimena , in cui si cercò di prendere ispirazione dalle antecedenti scuole,
sopprimendo o traendone ispirazione. La scuola non si fonda sul libero arbitrio ma sulla NORMALITA’
PSISCOLOGICA, legata all’imputabilità.
LA CORRENTE SOCIALISTA fortemente ideologica-politica che attribuiva al diritto penale una visione
classicista . I fautori (Vaccaro) ritenevano che la pena fosse strumento borghese contro la classe
operaia,mirante una riforma.
LA CORRENTE TEDESCA (scienza penale integrata) compromesso tra diritto penale e scienze sociali.
1. PREMESSA
Dagli anni settanta gli orientamenti della scienza penalistica italiana sono mutati rispetto al tecnicisimo. Si
parla di INVERSIONE METODOLOGICA . LA RESPONSABILITA’ PENALE E’ PERSONALE (art 27.1 comma ).
Questo articolo venne sminuito nel suo contenuto, affermando che la personalità penale avrebbe redatto
questo principio della responsabilità per fatto altrui. SENTENZA 364/88 sul TEMA DELLA INGNORANTIA
LEGIS. Storicamente la RESPONSABILITA’ PRETERINTENZIONALE era responsabilità oggettiva e si
caratterizzava per il solo nesso causale. Riportando il giusto metodo tra Codice e costituzione si è arrivati a
dire che è il codice ad essere reinterpretato evolutivamente alla luce della Costituzione. Agli inizi degli anni
70 si è riusciti a ridisegnare il sistema penale sulla base dei principi costituzionali in alcuni casi può dare dei
problemi quindi è stato solamente raggiunto in parte. Il DIRITTO PENALE è positivo ed inoltre è una branca
del diritto pubblico che si occupa del reato. LA SCIENZA PENALE è una materia di studio più ampia ma non è
esatta. Le sanzioni o misure di sicurezza limitano la libertà personale e tutelano interessi pubblici in
processo compare lo Stato mediante la figura del PM. Il codice penale del 1930 ha un SISTEMA BINARIO:
sanzioni penali ed amministrative. L’elemento soggettivo (personalità - resp. penale) caratterizza il diritto
penale cioè si avvale in modo inferiore nel diritto civile. Le diversità strutturali tra penale e civile sono forti,
diversamente per il diritto amministrativo .Le sanzioni amministrative riguardano il pagamento di una
somma di denaro, di natura interdittiva o restitutiva o ripristino della situazione precedente. Il reato ruota
tendenzialmente attorno a tre principi-cardine:
1) non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un comportamento esterno
(c.d. principio di materialità)
2) non basta la realizzazione di un comportamento materiale ma è necessario che tale
comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici( c.d. principio di necessaria lesività o
offensività.
3) Un fatto materiale lesivo di beni giuridici può essere penalmente attribuito all’autore soltanto a
condizione che gli si possa muovere un rimprovero per averlo commesso (c.d. principio di
colpevolezza).
LA LEGGE 689/1981 è riconosciuta come LEGGE DI DEPENALIZZAZIONE. Molte norme appartenenti al diritto
penale vengono depenalizzate nei confronti del diritto amministrativo le cui sanzioni possono essere anche
punitive . E’ l’autorità amministrativa a irrogare sanzioni amministrative , poi c’è la possibilità del rimedio
giurisdizionale. La differenza la si ha con il diritto processuale penale il quale accerta il reato ed applica
delle pene in processo. Bisogna distinguere le MISURE DI SICUREZZA fatto costituente reato (salvo quasi
reato art 49 e 115). MISURE DI PREVENZIONE sono senza reato, questo non si è ancora costituito. Il potere
esecutivo- amministrativo a prevedere fatti con opportune misure di prevenzione queste nascono in Italia
dall’ 800 ed erano volte alla repressione dei vagabondi e degli oziosi. In un primo momento, la minaccia
della sanzione penale tende a togliere la generalità dei consociati dal commettere reati (prevenzione c.d.
generale); in un secondo momento, la concreta inflizione della pena mira a impedire che il singolo autore
del reato torni a delinquere (prevenzione c.d. speciale).
2. FUNZIONI DI TUTELA DEL DIRITTO PENALE: LA PROTEZIONE DEI BENI
GIURIDICI
Il diritto penale contribuisce tendenzialmente ad assicurare le CONDIZIONI ESSENZIALI della convivenza,
predisponendo la SANZIONE PIU’ DRASTICA a difesa dei BENI GIURIDICI: tali sono comunemente definiti i
beni socialmente rilevanti. La definizione teoricamente più appagante di bene giuridico non può, da sola,
fungere da automatico spartiacque tra oggetti meritevoli e non meritevoli di protezione penale. La
definizione che tendenzialmente meglio riflette il carattere dinamico del bene giuridico nel senso predetto,
è quella che lo identifica come UNITA’ DI FUNZIONE. L’idea della protezione dei beni giuridici recupera
visioni illuministiche. Si assiste ad una lieve divaricazione tra la concezione teorica del diritto penale e la
realtà dell’ordinamento. La prima definizione di bene giuridico si fa risalire al tedesco Birnbaum che
determina una punizione di fatti lesivi di beni considerati di rango particolare. Alla fine dell’ ottocento si
cerca di concepire il diritto penale come strumento effettivo di tutela dei beni giuridici. Listz propone un
CONCETTO MATERIALE di bene giuridico basato su esigenze preesistenti alla valutazione del legislatore. La
concezione del reato come lesione di un bene giuridico ha ricevuto in Italia una completa esposizione
nell’opera di Arturo Rocco, la scelta di questa angolazione orientata maggiormente al diritto positivo. La
storica tripartizione è priva di una reale utilità proprio sotto un profilo tecnico. All’ oscillazione tra
orientamenti che ne privilegiano la FUNZIONE DOGMATICA E SISTEMATICA in rapporto ad un determinato
ordinamento positivo, ora la funzione politico-criminale anche in prospettiva DE IURE CONDENDO ha
predisposto il terreno per l’emersione di nuovi orientamenti che hanno finito col portare alle estreme
conseguenze il predetto processo di formalizzazione la c.d. CONCEZIONE METODOLOGICA. Si parla in
questo contesto di un’ INTERPETAZIONE DI SCOPO. L’intervenuto mutamento del rapporto Stato-cittadino
fa si che al centro del reato si ha la VIOLAZIONE DEL DOVERE DI FEDELTA’ NEI CONFRONTI DELLO STATO
ETICO, impersonato dal FUHRER. Alla base di questi studi e queste teorie si ha la COSTITUZIONE che è un
CRITERIO DI RIFERIMENTO NELLA SCELTA DI CIO’ CHE PUO’ ASSURGERE A REATO. In Costituzione possiamo
citare una serie di articoli come il 25.2 , 27.1, 27.3 ( attribuisce alla pena una funzione rieducativa
presupponendo una delimitazione dell’area dell’ illecito penale ) che affermano l’avvenuta
costituzionalizzazione del principio che ammette il ricorso allo strumento penale. Ad esempio l’art 13 COST
dispone il carattere INVIOLABILE della libertà personale. Soccorrono inoltre i PRICIPI DI MERITEVOLEZZA DI
PENA E SUSSIDARIETA’ che servono per tutelare il bene mediante tecniche sanzionatore extrapenali. Il
problema della compatibilità con la Costituzione delle figure di reato può essere sottoposto ad una duplice
analisi: da un lato la fattispecie è posta a tutela di un bene SUFFICIENTEMENTE DEFINITO, dall’altro lato ad
una serie di TECNICHE COSTITUZIONALI. Quanto al primo profilo si discorre essenzialmente di REATI SENZA
BENE GIURIDICO es pornografia, giuoco d’azzardo, bestemmia. Bisogna determinare l’individuazione del
bene giuridico quale entità specifica e facilmente afferrabile o a quelle finalizzate alla protezione di interessi
superindividuali ad esempio beni cui il regolare esercizio dell’attività giudiziaria o il buon funzionamento
della pubblica amministrazione. Problematici appaiono i DELITTI OMISSIVI c.d. PROPRI, consistenti nella
mera inosservanza di un obbligo di condotta penalmente sanzionatoria. Quanto al secondo modello
bisogna determinare la tecnica di strutturazione della fattispecie:
REATI DI SOSPETTO discostano dal principio di offensività, il legislatore incrimina fatti che , considerati in se
stessi, non ledono né pongono in pericolo il bene protetto. La repressione preventiva serve ad assicurare
una tutela anticipata del patrimonio.
ostacolo, in quanto la funzione delle relative norme è quella di frapporre un impedimento al compimento
dei fatti concretamente offensivi.
REATI DI PERICOLO PRESUNTO (in senso stretto) fatti che secondo una regola di esperienza, è presumibile
provochino una messa in pericolo del bene protetto. L’ammissibilità di simili di reato non è esclusa in
partenza ma è subordinata alla presenza di alcune rigorose condizioni e di alcuni correttivi.
DELITTI DI ATTENTATO è una figura di reato tipica del diritto penale politico è presenta caratteristiche
essenzialmente illiberali colpisce gli atti preparatori di condotte destinate ad offendere interessi di
personalità appartenenti allo STATO.
REATI DI DOLO SPECIFICO CON CONDANNA NEUTRA si tratta di illeciti basati su di una condotta che viene
considerata in se stessa e che può addirittura costituire esercizio di un diritto costituzionalmente
riconosciuto e che può assumere rilevanza penale.
Il controllo di legittimità della Corte costituzionale esclude ogni valutazione politica e ogni sindacato
sull’uso del potere discrezionale del Parlamento. Non risultano casi di espressa recezione da parte della
corte della teoria costituzionale dei beni giuridici negli stessi termini in cui essa viene proposta dalla più
recente elaborazione dottrinale. L’applicazione dei vari pareri ha dato luogo a pronunce inquadrabili sotto
tre diverse tipologie:
SENTENZE DI RIGETTO sono la maggior parte e la Corte ha operato il salvataggio facendo leva sul rilievo che
la fattispecie sarebbe tutelata dal bene giuridico, dotato a loro volta di rango costituzionale.
SENTENZE MANIPOLATIVE DEL BENE PROTETTO hanno in alcuni casi introdotto la Corte a riformulare
l’oggetto della tutela , in modo da renderlo compatibile con la Costituzione. Per quanto riguarda la
legittimità della ridefinizione di bene giuridico, la prima condizione ammissibile dipende dal LIVELLO DI
UNIVOCITA’ del ricordo ai principi costituzionali; la riformulazione del bene protetto non è altro che il
risultato di una REINTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA. La seconda condizione di
ammissibilità attiene al RISPETTO DEL TENORE LETTERALE della fattispecie incriminatrice.
SENTENZE DI ACCOGLIMENTO sono la minor parte; la mancata legittimità della norma penale viene fatta
dipendere dalla sua attitudine a comprimere diritti di libertà costituzionalmente garantiti, senza tale
incidenza possa considerarsi giustificata dall’esigenza di tutelare altri bene o interessi costituzionalmente
rilevanti.
Il diritto penale non si presta ad essere impiegato come strumento di trasformazione sociale o come
strumento atto a far conseguire l’acquisizione di beni futuri.
4. IL PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’
Il diritto penale ha carattere FRAMMENTARIO ovvero si raccolgono solo le forme più grossolane di
manifestazione. Il PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’ è solitamente considerato operante a tre livelli . In
primo luogo alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di aggressione soltanto in presenza di
SPECIFICHE FORME DI AGGRESSIONE. In secondo luogo la sfera di ciò che rileva penalmente è molto
limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato come ANTIGIURIDICO alla stregua dell’intero
ordinamento. In una prospettiva di PREVENZIONE GENERALE si è rilevata la frammentarietà della tutela
contrasterebbe con l’esigenza di reprimere tutti i comportamenti capaci di ledere il bene protetto, anche se
non formalmente tipizzati. Dal punto di vista della PREVENZIONE SPECIALE si è osservato che la
frammentarietà contrasta con l’esigenza di risocializzazione. IL PROCESSRIEDUCATIVO HA LO SCOPO DI
FAVORIRE NEL REO LA RIACQUISIZONE DEI VALORI. La frammentarietà finisce con l’esaltare l’ispirazione
liberale della moderna concezione di un diritto penale costituzionalmente orientato.
b) la c.d. exceptio veritatis, cioè l’istituto in virtù del quale si attribuisce all’imputato il diritto di provare la
verità dell’addebito di fronte ad un fatto determinato; c) le attenuanti generiche e cioè non tipizzate che
spetta al giudice individuare. E’ stata abolita la pena di morte, riformata la disciplina penale della
responsabilità dei reati commessi con la stampa, riformati gli istituti della sospensione condizionale della
pena e della liberazione condizionale. La cd novella 1974 ha introdotto : a) la possibilità del giudizio di
comparazione tra le circostanze aggravanti ; b) il cumulo giuridico delle pene ; c)estensione della disciplina
del reato; d)la trasformazione dell’aggravante della recidiva; e)estensione dei limiti della sospensione
condizionale anche nei casi di seconda condanna. Il secondo intervento riguarda la riforma
dell’ordinamento penitenziario, caratterizzata dal duplice obiettivo di disciplinare l’esecuzione della pena in
armonia con gli altri principi. Il terzo grande intervento riguarda il sistema sanzionatorio che introduce le
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Il legislatore è stato costretto a revisionare anche la parte
speciale in una prospettiva detta di EMERGENZA. Altre modifiche riguardano i reati sessuali, i reati in
materia informatica e di sfruttamento sessuale dei minori o ancora i delitti contro il sentimento degli
animali. Si cerca di sottolineare maggiormente un ORIENTAMENTO CULTURALE del codice penale , inteso
come tavola dei valori oggetto della protezione penale.
1. PREMESSE GENERALI
Il PRINCIPIO DI LEGALITA’ ha una genesi non strettamente penalistica, ma prettamente politica. L’idea della
tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del potere statuale si esprime, nel DIVIETO DI
RETROATTIVITA’ della legge penale. Più che alle regole di comportamento questo divieto si applica
prettamente alla sanzione , la quale si trasforma in una misura arbitraria. Il fondamento politico del
principio di legalità avviene grazie ad un criminalista tedesco Feuerbach , il quale lo concretizza con la
formula latina NULLA POENA SINE LEGE. L’art 25, comma 2°, Cost, dispone che nessuno può essere punito
se non in forza ad una legge che sia entrata in vigore prima dl fatto commesso. L’art 1 del codice penale
afferma che, nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato
dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite. In riferimento al caso 1 vero o fantastico che sia , il
comportamento dell’uomo rientra in una considerazione basata sulla ratio di tutela, tra le condotte che la
norma incriminatrice dovrebbe reprimere. Il principio di legalità ha come destinatari sia il legislatore che la
il giudice quest’ultimo si articola in quattro sotto-principi: 1) riserva di legge; 2) la tassatività o sufficiente
determinatezza della legge penale; 3)l’irretroattività della legge penale; 4) il divieto di an analogia in
materia penale.
CASO 3 UN AUTOMOBILISTA , SORPESO SENZA LIBRETTO DI CIRCOLAZIONE, NON OTTEMPERA ALL’ ORDINE
PERENTORI INTIMATOGLI DALL’AGENTE DI POLIZIA STRADALE DI ESIBIRE ENTRO UN CONGRUO TERMINE LA
CARTA DI CIRCOLAZIONE ALL’UFFICIO DI POLIZIA: ONDE, RITNUTO RESPONSABILE DEL REATO PREVISTO
DALL’ ART 650 C.P. CHE INCRIMINA L’INOSSERVANZA DI UN PROVVEDIMENTO DELL’AUTORITA’.
Il principio di riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato fatto di assenza una legge
preesistente che lo configuri come reato: in particolare esso tende a sottrarre la competenza in materia
penale al potere esecutivo. Nell’ordinamento italiano il principio delle riserva di legge non è stato inteso del
tutto in linea con la motivazione ideologica ad esso sottesa, ma sono prevalse interpretazioni ispirate alla
preoccupazione di conservare buona parte dell’ordinamento penale esistente anche se ereditato dal
precedente regime politico. Si è così tentato di ridimensionare il valore della riserva , degradandola a
RELATIVA. LA RISERVA ASSOLUTA esclude che il legislatore possa attribuire il potere normativo penale ad
una fonte di grado inferiore.
a) la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente punibili (c.d.
norme penali in bianco) (art.650 c.p.);
b) la fonte secondaria disciplina uno o più elementi che concorrono alla descrizione dell’illecito penale
(art.659 c.p.)
c) l’atto normativo subordinato assolve alla funzione di specificare , in via tecnica , elementi di
fattispecie legislativamente riaffermati.
d) la legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportamenti punibili tra quelli disciplinati.
La prima ipotesi di NORMA PENALE IN BIANCO disposta dall’art 650 c.p. prevede che la fattispecie
corrispondente è molto generica e simile ad un contenitore vuoto: la disposizione si limita ad affermare che
è punito colui che non osserva un provvedimento emanato dall’autorità amministrativa. L’ipotesi
esemplificata nel caso 4 dispone che è certamente illegittimo l’ultimo modello di integrazione quello cioè
nel quale la legge consente alla fonte secondaria di selezionare i comportamenti punibili.
5. RAPPORTO LEGGE-CONSUETUDINE
La consuetudine nel diritto penale è considerata pacifica, proprio in forza del principio di riserva di legge,
l’inattitudine della consuetudine a svolgere funzione INCRIMINATRICE O AGGRAVATRICE del trattamento
punitivo. Ad analoga conclusione di deve pervenire riguardo alla consuetudine cosiddetta ABROGRATICE O
DESUETUDINE. Al concetto di consuetudine integratrice spesso si fa ricorso per alludere a quei casi in cui il
giudizio penale presuppone il rinvio a criteri sociali di valutazione. Ammissibile è il richiamo alla
consuetudine cosiddetta SCRIMINANTE.
CASO7: UNA DONNA PRENDE IL SOLE A SENO NUDO IN UNA PUBBLICA SPIAGGIA: TALE COMPORTMENTO
COSTITUISCE REATO PER LA CASS. 12 LUGLIO 1982, INEDITA, MENTRE E’ CONSIDERATO LECITO PER LA
CASS. 22 SETTEMBRE 1982.
Appartiene alla stessa ragione ispiratrice del principio di legalità l’esigenza della tassatività o sufficiente
determinatezza della fattispecie penale. Il principio di determinatezza coinvolge la tecnica di formulazione
della fattispecie criminosa e tende a salvaguardare i cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario.
Tendenzialmente la tutela penale è apprestata contro determinate forme di aggressine, è necessario che il
legislatore specifichi i comportamenti che integrano modalità aggressive. Cioè, la determinatezza
rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa efficientemente fungere da guida
del comportamento cittadino: quanto più il cittadino è posto in condizione di discernere senza ambiguità
tra le zone del lecito e dell’illecito, tanto più cresce il suo rapporto di fiducia partecipativa nei confronti
dello Stato e delle sue istituzioni. Lo scarto tra il principio di tassatività e la realtà dell’ordinamento penale
dipende non solo dall’obiettiva difficoltà di rinvenire a livello sufficiente determinatezza della fattispecie
incriminatrici, ma anche da un eccessivo self-restraint della Corte Costituzionale. I settori della
Giurisprudenza hanno la ricorrente tentazione di sovrapporre alle scelte legislative politiche giudiziarie di
tutela dei beni giuridici e di fatti agevolare l’ambiguità dei testi legislativi: bisogna evitare illusioni. Il
legislatore, nel tipizzare i reati impiega termini linguistici “aperti” suscettibili di assumere più significati,
tutti astrattamente ammissibili. Ciò che conta è la capacità della dottrina e della giurisprudenza di
accrescere il tasso di determinazione delle fattispecie incriminatrici con l’esigenza di evitare soluzioni che
oltrepassano i confini testuali.
Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in
vigore. Tale principio è previsto per tutte le leggi dall’art 11 delle disposizioni preliminari, il quale stabilisce
che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Il legislatore sancisce come il
principio di irretroattività sia ispirato alla garanzia della libertà personale del cittadino nei confronti dei
detentori del potere legislativo. Il 2° e 3°comma appaiono inspirati al diverso principio della retroattività di
una eventuale norma più favorevole, successivamente emanata. La ratio sottesa al principio, favorevole al
reo, è identica a quella che giustifica il riconoscimento costituzione all’irretroattività. È da precisare però
che il divieto di retroattività riguarda il diritto penale sostanziale, non quello processuale penale. Il divieto
concerne tutti gli elementi dell’illecito, comprese le condizioni di punibilità, le modifiche in mala partem
degli altri istituti e le conseguenze penali.
Il 2° comma dispone: “Nessun può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione egli effetti penali.” La norma allude al
fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti. Gli autori del reato oggetto di abrogazione non
solo non possono più essere puniti ma, se hanno subito una sentenza di condanna ancorché definitiva, ne
cessa l’esecuzione e si estinguono tutti i connessi effetti penali.
La successione delle leggi penali segue orientamenti diversi. Secondo il primo, si ha successione perché nel
passaggio dalla vecchia norma alla nuova permane la continuità del tipo di illecito: si valutano sia l’interesse
protetto sia le modalità e gli elementi che rimangono identici. Il criterio in esame però mostra un duplice
criterio critico: le condizioni sopra citate si verificherebbero solo in caso di perfetta identità del fatto di
reato. La tesi finisce per risultare incerta. La funzione di garanzia propria del principio di irretroattività
richiede parametri di valutazione certi da scongiurare eventuali elusioni. Appare far leva su un “rapporto di
continenza” tra la vecchia e nuova fattispecie: occorre un rapporto strutturale tra le fattispecie considerate,
tale per cui possa instaurarsi una relazione di genere e specie. Ciò si verifica quando la fattispecie
successiva sia pienamente contenuta nella precedente. Vi sono casi in cui la Suprema Corte ha ritenuto
sufficiente la mera riconducibilità del fatto concreto ad entrambe le norme considerate.
Il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice o più sfavorevole sancito dall’art25 comma 2°
cost non può mai essere derogato, dal momento che appartiene al novero dei principi che la stessa
Costituzione detta come propri e irrinunciabili della materia penale, a garanzia del ruolo primario spettante
al favor libertatis. La tesi che attribuisce prevalenza al principio di retroattività della legge penale più
sfavorevole, sembra a prima vista contraddetta dalla Corte Costituzionale: con la sentenza n.51/1985, la
Corte l’ha infatti dichiarato illegittimo. L’illegittimità dell’ultimo comma dell’art2 va circoscritta soltanto ai
casi in cui esso renderebbe applicabile il decreto non convertito ai fatti pregressi, commessi cioè
anteriormente alla sua entrata in vigore. La Corte si limita a valutare i fatti pregressi al decreto implica, in
verità, che si continui a osservare il divieto di retroattività di una legge penale sfavorevole: in seguito alla
mancata conversione del decreto torna infatti a essere applicata la stessa legge vigente al momento del
fatto. Il divieto di retroattività della legge più sfavorevole sarebbe invece effettivamente violato nella
diversa ipotesi di fatti concomitanti, commessi cioé durante la vigenza del decreto più favorevole non
convertito.
16. LEGGI DICHIARATE INCOSTITUZIONALI
La dichiarazione di incostituzionalità di una legge trova la sua disciplina, innanzitutto, nell’art136 1° comma
il quale stabilisce che quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge di un atto
avente forza di legge la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo dalla pubblicazione della
decisione. La dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne produce ex nunc la cessazione di efficacia:
cosi opinando, era perfettamente ipotizzabile una successione di leggi tra una legge antecedente e una
posteriore successivamente dichiarati incostituzionali. A un riesame della questione , oggi si ritiene che la
dichiarazione di incostituzionalità abbia effetto ex tunc, quindi la legge invalidata non può essere più
applicata neppure le situazioni verificatasi sotto la sua vigenza. Identiche soluzioni per il decreto legge non
convertito , la legge invalidata si applicherà comunque quando risulti più favorevole il reo rispetto ad una
precedente disposizione incriminatrice.
Si respinge sia la teoria dell’evento che la teoria mista: la prima perché porterebbe a un’applicazione
retroattiva della legge penale in tutti i casi, nei quali la condotta si sia svolta sotto il vigore di una
precedente legge e l’evento si sia, invece, dopo l’introduzione di una nuova norma incriminatrice nel
frattempo eventualmente emana; la seconda perché non sembra ragionevole considerare commesso il
reato indifferentemente sotto la vigenza di due norme incriminatrici diverse. Resta la teoria della condotta:
è questo il momento in cui il soggetto mette in atto l proposito criminoso, si tratta di un frangente
temporale decisivo. L’applicazione del criterio si atteggia diversamente in funzione delle diverse tipologie
delittuose. La determinazione del tempus commissi delicti solleva qualche problema innanzitutto nei reati
causalmente orientati cd a forma libera, nei quali cioè manca la tipizzazione legislativa di specifiche
modalità di realizzazione dell’evento lesivo. Di distinguono: reati dolosi, nei quali il tempo del commesso
reato coincide con la realizzazione dell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole, e colposi in cui la
realizzazione di quell’atto che, nel complesso degli atti causalmente collegati con l’evento per primo da’
luogo a una situazione di contrarietà con regole di diligenza, prudenza, ecc. Nei reati cd di durata, si
registrano divergenze di opinioni. Cominciando dal reato permanente, contraddistinto dal perdurare di una
situazione illecita volontariamente rimovibile dal reo, fissa il tempo del commesso reato nell’ultimo
momento di mantenimento nella condotta antigiuridica. Appare pertanto preferibile l’orientamento
minoritario che fissa il tempo del commesso reato nel primo atto che da’ avvio alla consumazione del reato
permanente medesimo. Un discorso analogo vale rispetto al reato abituale, caratterizzato dalla reiterazione
nel tempo di condotte della stessa specie. Mentre una parte della dottrina individua il tempus commissi
delicti nel compimento dell’ultima condotta, occorre anche qui fare riferimento alla realizzazione del primo
atto che integra il reato abituale. Quanto al reato continuato esso non rappresenta un fatto unitario: ci si
trova piuttosto in presenza di un concorso materiali di reati, ciascuno dei quali presenta un proprio tempus
commissi delicti. Nei reati omissivi, infine, occorre fare riferimento al momento in cui scade il tempo utile
per realizzare la condotta doverosa.
L’analogia consiste in un processo di integrazione dell’ordinamento attuato tramite una regola di giudizio
ricavata dall’applicazione dell’ipotesi di specie, non regolata espressamente da alcuna norma, di
disposizioni regolanti casi o materie simili: il presupposto di tale procedimento integrativo è costituito dal
ricorrere dell’identità di ratio. Il ricorso all’analogia non è sempre ammissibile. L’art14 delle disposizioni
della legge in generale esclude il procedimento analogico in due casi, uno di questo è la legge pensale. È
implicitamente ricavabile nel codice penale agli articoli 1 e 199. Il divieto di analogia è costituzionalizzato
implicitamente: il criterio ispiratore del divieto di analogia in materia penale si rifà alla medesima ratio di
garanzia di libertà del cittadino sottesa al nullum crimen sine lege. Cio nonostante non sempre riesce
agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva. La soluzione proposta rientra nell’ambito dei
possibili significati letterari dei termini impiegati nel testo di legge circa i limiti dell’interpretazione
estensiva. Come nel caso 11 il comportamento del falso disoccupato potrebbe rientrare nell’art640, se il
termine danno , come truffe, non viene limitato al piano strettamente personale come nell’interpretazione
tradizionale, ma viene esteso anche agli scopi di assistenza pubblica e materia d’alloggi. La dottrina
maggioritaria sancisce il divieto di applicazione analogica della legge penale, se l’interpretazione si estende
maggiormente dal testo di legge, considerato sia nelle piccole parti che nel suo significato unitario. Nel caso
10, il bene casa non può considerarsi né materia prima né genere alimentare di largo consumo o prodotto
di prima necessità. Il divieto di analogia è ancora violato in tutti i casi, nei quali il legislatore fra ricorso a
formula di chiusura “nei casi simili” , “nei casi analoghi”, non riempibili interpretativamente mediante
l’applicazione di un criterio univoco.
E’ controversa, però, l’ampiezza del divieto di analogia: il divieto avrebbe carattere ASSOLUTO, nel senso
che riguarderebbe sia norme incriminatrici, sia norme a favore (si adduce il primato dell’esigenza di
certezza del comando penale). La concezione assoluta è però da contestare in quanto l’art25 sancisce non il
primato di certezza, ma della libertà del cittadino. Riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere
RELATIVO perché riguarda solo l’interpretazione delle norme sfavorevoli, si precisa il limite entro cui sia
consentita un’interpretazione analogia in bonam partem. Sono norme regolari quelle che disciplinano
situazioni generali in cui può versare chiunque al ricorrere di determinati presupposti; sono norme
eccezionali quando viene introdotta una disciplina che deroga, rispetto a particolari casi, alla efficacia
potenzialmente generale di una o più disposizioni. È da precisare che non tutte le norme che prevedono
cause di punibilità latu sensu intese hanno carattere eccezionale (ad es. cause di giustificazione o esclusione
della colpevolezza). Il ricorso al procedimento analogico è precluso rispetto a quelle cause di non punibilità
che fanno riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni politico-criminali specifiche. L’analogia
risulta di conseguenza inammissibile rispetto a) cd immunità, le quali derogano al principio della generale
obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; b) alle cause
di estinzione del reato e della pena, che derogano alla normale disciplina dell’illecito penale e delle
conseguenze sanzionatorie; c) alle cause speciali di non punibilità, che rispecchiano le valutazioni politico-
criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione. Infine, il problema
dell’applicabilità dell’analogia è privo di importanza pratica in seguito all’introduzione delle cd attenuanti
generiche.
Il primo canone ermeneutico, definito grammaticale e semantico, tende a individuare il senso della norma
facendo leva sul significato lessicale dei termini utilizzati nella formula legislativa. È abbastanza ovvio che
ogni contenuto di pensiero va ricavato dal linguaggio che lo esprime: il significato proprio delle parole
equivale al significato “comune”, che le parole stesse possiedono nel lessico quotidiano. Tuttavia il
riferimento al linguaggio comune non sempre offre un orientamento sicuro. Inoltre, il linguaggio legislativo
adotta termini tecnico-giuridici che non appartengono al linguaggio comune, ma che non danno vita a un
linguaggio specialistico. Ciò è evidente nel caso delle definizioni stipulative, come ad esempio la definizione
del concetto di pubblicità. Ma l’esigenza di privilegiare il significato tecnico-giuridico di un’espressione che
può affiorare anche in assenza di definizioni stipulative introdotte dallo stesso legislatore, es. concetto di
appartenenza.
Il criterio storico, nella sua formulazione più tradizionale, mira a ricostruire la volontà espressa dal
legislatore al momento dell’emanazione delle norme. I sostenitori di questo canone ne rivendicano la
coerenza col principio della separazione dei poteri. La volontà storica si divide da un lato come volontà
soggettiva del legislatore del tempo, ed è questa la concezione più antica che finisce col ridurre la volontà
legislativa a un dato psicologistico, come se assumesse rilevanza per il diritto il contenuto della presa id
posizione di un legislatore personificato. La seconda più corretta accezione tende a identificare la volontà
del legislatore con la volontà storica obiettiva nella legge; l’indagine in questo senso deve avere ad oggetto
il contesto storico nel quale la legge si inscrive. La ricognizione della volontà storica pur così intesa è di
regola sufficientemente agevole rispetto a norme emanate nell’ambito di un regime autoritario. È sempre
utile consultare i cd lavori preparatori, ma è purtroppo un dato che non tutti i partecipanti al processo di
legiferazione per mancanza di interessa o di conoscenze specialistiche, hanno reale cognizione dell’oggetto
di cui discutono. In un regime parlamentare come il nostro, la produzione legislativa è espresso frutto di
compromessi contingenti e contrattazioni tra le varie forze politiche, le quali possono concernere solo il
testo e non il significato delle parole. Pur con tutti questi limiti, il metodo storico di interpretazione se
utilizzato non in via esclusiva ma concorrente, rimane strumento di grande utilità per l’interprete. I risultati
dell’applicazione del criterio storico possono ritenersi appaganti in sede di ricostruzione di dettagli della
fattispecie di parte speciale. Infine, l’interpretazione storica è preferibile con riguardo a norme emanate dal
legislatore a preciso scopo di risolvere questioni dogmatico-interpretative assai controverse.
Altro importante canone ermeneutico è quello logico-sistematico la cui specificità consiste nel cogliere le
connessioni concettuali esistenti tra le norme da applicare e le restanti norme sia del sistema penale
strettamente inteso sia dell’intero ordinamento giuridico. Può risultare necessario accertare il tipo di
collegamento che lega l’elemento in parola a elementi di altre fattispecie. Il nesso sistematico tra le norme
penali, e norme facenti parte di altri settori dell’ordinamento è evidente nei casi in cui la fattispecie
incriminatrice contiene elementi normativi la cui determinazione implica il riferimento a norme extra
penali. Il collegamento sistematico tra normativa penale ed extra penale è altresì indispensabile per
risolvere le situazioni di conflitto normativo determinato dalla presenza di cause di giustificazione che
possono trovare la loro fonte in tutto l’ordinamento giuridico. Si comprende come il criterio logico-
sistematico costituisca sempre uno strumento finalizzato a garantire l’unità concettuale dell’ordinamento.
A) Alcuni reati, commessi in territorio estero non importa se da un cittadino o da uno straniero, vengono
incondizionatamente secondo la legge italiana. L’art7 dispone delitti: 1) contro la personalità dello Stato; 2)
di contraffazione del sigillo dello stato e l’uso di tale sigillo contraffatto; 3) di falsità in monete aventi corso
legale nel territorio dello stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; 4) commessi da
pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni; 5)
ogni altro reato per il quale speciale disposizione di legge o convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge italiana. Le figure di reato in 1 e 4 si spiega in base al principio di difesa, che rende
applicabile la legge dello stato in cui appartengono i beni offesi; reato in 5 si fonda sul principio di
universalità (ovvero principio di difesa e ragioni di opportunità).
B) L’art9 continua la punibilità del cittadino per i reati comuni commessi all’estero, in cui la punibilità risulta
subordinata alla presenza di alcune condizioni e cioè: 1) delitto in cui la legge stabilisce l’ergastolo o la
reclusione non inferiore nel minimo a tre anni; 2) che il cittadino si trovi nel territorio dello Stato. La ratio di
tale principio va ravvisato o nell’accoglimento del principio della personalità o nell’ulteriore applicazione
del principio di difesa. In dottrina e giurisprudenza si ritiene che la condizione della presenza del reo nel
territorio dello stato vale per ogni tipo di reato. Il base al 2° comma dell’art9, ove si tratti di delitti punibili
con una pena inferiore ai tre anni, occorre, oltre alla presenza del reo nel territorio dello stato, la richiesta
del Ministro della giustizia, ovvero l’istanza o la querela della persona offesa. Se invece si tratta di delitto
comune commesso all’estero a danno di uno stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a
richiesta del Ministro della giustizia, sempreché l’estradizione non sia stata concessa o accettata.
C) l’art10 disciplina l’ipotesi dello straniero che commette all’estero delitti comuni a danno dallo Stato o di
un cittadino italiano, ovvero a danno di uno stato estero o di uno straniero. La punibilità è subordinata alla
presenza di condizioni che mutano in ragione del mutare del soggetto passivo. La perseguibilità del reato
commesso all’estero è subordinata agli stessi requisiti richiesti per il caso in cui il fatto sia compiuto nel
territorio dello stato italiano, cui la proposizione della querela rappresenta una condizione imprescindibile
nel caso in cui essa sia prevista dalla legge in via generale. Se il reato sia commesso dallo straniero a danno
di uno stato estero o di un cittadino straniero, l’art10, 2° comma, oltre alla presenza del reo nel territorio e
alla richiesta del Ministro, che sia prevista per il delitto la pena dell’ergastolo ovvero la reclusione non
inferiore nel minimo a tre anni e che l’estradizione non sia stata concessa o accettata.
5. DELITTO POLITICO COMMESSO ALL’ESTERO: NOZIONE
La nozione di delitto politico è fornita dal 3° comma dell’art8: “Agli effetti della legge penale, è delitto
politico ogni delitto, che offendo un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È
altresì considerato delitto politico il delitto politico determinato, in tutto o in parte da motivi politici”. Il
concetto di delitto politico è molto ampio: tale nozione si specifica in due sottospecie, una in senso
oggettivo, definibile tale in considerazione della natura del bene o interesse leso; e l’altra di tipo soggettivo,
caratterizzato dalla motivazione psicologica che spinge l’autore a commettere il fatto. Il delitto politico
offende quell’interesse dello Stato considerato nella sua essenza unitaria comprensiva di popolo, territorio,
indipendenza, forma di governo, ecc: es, delitti contro la personalità dello Stato, leggi speciali, mentre non
vi rientrano i delitti che offendono il potere amministrativo o il potere giudiziario detto Stato medesimo.
Delitto oggettivamente politico è ancora quello che offende un diritto politico del cittadino, cioè il diritto
del cittadino di partecipare alla vita dello stato e di contribuire alla formazione della sua volontà. Sembra
però preferibile la tesi che mantiene distinti i due concetti, concependo come politico quel motivo del reato
che determina la condotta in funzione di una concezione ideologica relativa alla struttura dei poteri dello
stato e dei suoi rapporti col cittadino; e, rispettivamente come sociale quel motivo che orienta la condotta
dell’agente in funzione di una concezione della società che non necessariamente riflette in maniera
immediata sulla forma politica. Si ammette che il motivo politico possa coesistere con un movente
personale, purché il primo risulti prevalente. La determinazione del delitto politico è data dalla presenza di
due norme costituzionali le quali, nel menzionare il delitto politico in relazione sia all’estradizione sia al
diritto d’asilo, non ne forniscono alcuna definizione: ci si chiede se la nozione codicistica sia stata
costituzionalizzata o se, di contro, dalla Carta fondamentale sia desumibile un concetto di delitto politico
diverso ed autonomo. Nel corso degli anni è mutata la sensibilità costituzionale ed è oggi divenuta
prevalente la tesi “autonomistica”, seppur determinata in formule diverse. Assume criterio discretivo dalla
natura politica del reato il tipo di rapporto intercorrente tra il fatto commesso e le libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana. In tal odo, la nozione di delitto politico tende ad acquistare una
connotazione oggettiva, evitandosi il rischio di una indiscriminata accettazione del principio del favor rei.
1. PREMESSA
La legge penale italiana obbliga tutti coloro che si trovano sul territorio dello stato e tutti coloro che si
trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale (sia cittadino che
straniero). Il principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art3 del codice, deve considerarsi
nello stato moderno una proiezione o una concretizzazione del più generale principio dell’uguaglianza. È
considerato cittadino colui che è in possesso dei requisiti della legge per l’acquisto della cittadinanza;
mentre è straniero colui che è legato da rapporto di cittadinanza con un altro stato, oppure l’apolide
residente all’estero. Il predetto principio fa salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
diritto internazionale e si risolvono nella sottrazione di un soggetto all’applicabilità della sanzione; vengono
denominate immunità penali e definiscono un complesso di situazioni, tra loro anche disomogenee sia per
la ratio che per il contenuto, unificate soltanto dall’effetto finale della sottrazione al potere coercitivo dello
stato. Alcune immunità hanno carattere assoluto perché si estendono a tutti i reati; altre hanno carattere
relativo perché riconosciute solo in costanza di carica e richiedono un’autorizzazione al procedimento
penale. Si distinguono ancora le immunità di natura sostanziale, che sono riferite agli atti compiuti, alle
opinioni espressi e ai voti dati dall’esercizio di funzioni, dalle immunità processuali riferite agli atti compiuti
fuori dall’esercizio delle funzioni, e perseguibili al momento della cessazione della carica. Il riconoscimento
dell’immunità penale dipende e dal rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti
inalienabili della persona richiede che l’autorità giudiziaria non rimanga inerte difronte agli illeciti e
l’esigenza di tutela di particolari funzioni costituzionali o delle relazioni internazionali.
2) il Presidente del Senato, che esercita funzioni di Presidente della Repubblica, gode delle stesse immunità
per tutto il periodo della supplenza.
3) i membri del Parlamento, a norma dell’art68Cost non possono chiamati a rispondere delle opinioni
espresse e dei voti dati all’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di un’immunità assoluta che esclude ogni
forma di responsabilità, sia penale, sia civile, sia disciplinare (in essa rientrano pure interrogazioni e
interpellanze). L’art3 della legge 20 giugno 2003, n.140 stabilisce che l’immunità debba applicarsi non
soltanto alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, ma anche ad ogni altra
attività. La Corte Costituzionale ha invece ribadito che la norma si limita a rendere esplicito il contenuto
della disposizione costituzionale perché l’estensione agli atti non tipici deve essere connesso alle funzioni
parlamentare. I parlamentari godono, inoltre, di altre prerogative le quali si riducono al mantenimento di
alcune tradizionali garanzie della libertà personale e all’introduzione di nuovi limiti all’attività d’indagine. Il
fondamento sostanziale di simili categorie viene individuato nella necessità di salvaguardare l’indipendenza
del Parlamento in sé o nella persona dei singoli deputati. Continua ad apparire difficile il bilanciamento tra
gli interessi messi in gioco. In tal modo, neppure la modifica all’art 68, realizzata sugli scandali politici di
eccezione gravità che hanno fortemente scosso la pubblica opinione: l’interesse a proteggere l’attività
parlamentare da indebite incursioni giudiziarie tende ad affermarsi a totale discapito dell’interesse a
pronta ed efficace repressione del reato. La vicenda sull’immunità suscita però non pochi problemi.
4) i giudici della Corte costituzionale, per effetto dell’art3 della legge costituzionale 1948, n.1 godono di
immunità analoga a quella de parlamentari.
5) i membri dei consigli regionali godono soltanto godono solo della garanzia dell’irresponsabilità per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni ma si nega l’estensione delle prerogative
parlamentari.
6) I membri del Consiglio superiore della magistratura godono di una irresponsabilità per le opinioni
espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
1) La persona del Sommo Pontefice è considerata sacra ed inviolabile. Questa immunità è assoluta e viene
riconosciuta non solo in veste di capo di stato estero ma anche come Capo della cristianità.
2) I capi di stato esteri e i Reggenti che si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato beneficiano di
un’immunità totale che deriva dal diritto internazionale generale.
3) il presidente del consiglio e i ministri per gli affari esteri godono di un’immunità per tutti i fatti commessi
nell’esercizio delle loro funzioni.
4) Gli agenti diplomatici godono dell’immunità penale assoluta dello stato accreditato e dell’esenzione di
qualsiasi misura esecutiva, a norma della Convenzione di Vienna del 1961 (e conviventi). Il personale di
rango inferiore delle rappresentanze diplomatiche gode, invece, di un’immunità funzionale.
5) I funzionari internazionali godono della sola immunità funzionale per gli atti compiuti nell’esercizio delle
loro funzioni: trova fonte nei trattati internazionali.
6) I parlamenti europei, a norma del protocollo di Bruxelles 1965, godono sia della prerogativa
dell’irresponsabilità, sia delle immunità riconosciute ai membri del parlamento del loro paese, nonché sul
territorio di ogni Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da procedimenti
giudiziali, per la durata delle sessioni dell’assemblea.
7) I consoli e gli agenti consolari si avvantaggiano dell’immunità se ciò è stabilito dai trattati internazionali
tra l’Italia e gli altri stati.
8) Gli agenti diplomatici e gli inviati dei governi presso la Santa Sede godono delle stesse immunità degli
agenti diplomatici presso lo stato italiano.
9)l’immunità sussiste altresì per i giudici della Corte dell’Aja, e in mura più ridotta per i giudici della Corte
europea dei diritti dell’uomo.
10) Beneficiano ancora di immunità i membri e le persone al seguito delle ferze armate della Nato di stanza
nel territorio italiano che sono soggetti alle leggi e alla giurisdizione militare dello stato di appartenenza.
11) Godono infine di immunità i militari stranieri che si trovano nel territorio dello stato, previa
autorizzazione.
4. NATURA GIURIDICA DELLE IMMUNITA’
Tutti i fenomeni di immunità esaminati sono espressione di una medesima natura giuridica nel senso che
tutti riconducibili alla categoria di cause di esclusione della pena. Questa tesi si limita a registrare l’effetto
finale, non tipico, del suo operare: essa assimila le immunità assolute concernenti atti funzionali ed
extrafunzionali, immunità assolute riguardanti solo atti funzionali, immunità operanti sul piano processuale,
immunità aventi natura solamente processuale. Per determinare la natura giuridica delle immunità occorre
individuare l’effetto tipico della situazione di immunità di volta in volta esaminata. Con riferimento al
contesto si distingue l’immunità a seconda se si tratta di immunità funzionali di diritto interno (la tutela
attiene a interessi coessenziali all’integrità del nostro sistema) o internazionale (il riconoscimento
dell’immunità discende dalla necessità di mantenere relazioni diplomatiche con Stati esteri, a garanzia di
una pacifica convivenza tra i popoli).
Si definisce reato “ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale”. La definizione accennata fa
leva sul modo col quale l’ordinamento reagisce nei confronti dell’autore cioè è determinato soltanto dalle
conseguenze giuridiche che il legislatore riconnette ai fatti in questione. La definizione del reato appare
tuttavia insufficiente. L’illecito penale presenza infatti le seguenti caratteristiche: a) è creazione legislativa
perché soltanto una legge in senso stretto può disciplinare gli elementi costitutivi; fonti di livello secondario
possono soltanto contribuire a specificare elementi; b) è formulazione tassativa perché la legge deve fissare
con la maggiore determinatezza possibile i fatti costituenti reato; c) ha carattere personale nel senso che è
vietata ogni forma di responsabilità per fatto altrui e che il reato deve atteggiarsi a fatto tendenzialmente
colpevole. Queste caratteristiche sono sufficienti per differenziare l’illecito penale dall’illecito civile: il
diritto civile è terreno privilegiato della cd legislazione per principi e dell’uso delle cd clausole generali e
sono ammesse forme di responsabilità indiretta (resp. per rischio) e senza colpevolezza (resp. oggettiva). Di
maggiore affinità è il rapporto tra illecito penale e illecito amministrativo, specie a seguito della
regolamentazione con la legge 24 Novembre 1981, n689, dell’illecito cd depenalizzato. La loro differenza
dipende, sul piano formale, dalla natura della sanzione principale prescelta dal legislatore, cioè sanzione
amministrativa di carattere pecuniario, e dalla natura amministrativa del procedimento e dell’organo
competente ad infliggere la sanzione medesima.
A) le disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti si applicano ai destinatari, agli enti e alle
società, art1.
D) è introdotto il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente, nel senso che quest’ultimo
risponde anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, e quando il reato si
estingue per una causa diversa dall’amnistia.
E) la responsabilità degli enti non ha portata generale, ma è circoscritta a figure di reato espressamente
previste. Il quadro complessivo dei reato-presupposto risulta, oggi, comprensivo di figure codicistiche
rispettivamente rientranti tra: reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la fede pubblica, reati
con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, reati contro la persona, reati contro la
personalità individuale, reati informatici, reati contro il patrimonio, reati contro l’industria e il commercio.
Fuori dal codice, sono elevati a presupposto di responsabilità degli enti figure di reato tipicamente
suscettibili di coinvolgimento delle imprese, come i reati societari e gli abusi di mercato, nonché ipotesi di
reato poste a tutela anche di beni individuali, come i delitti in materia di violazione del diritto d’autore.
F) variegato risulta infine il ventaglio delle misure sanzionatorie, il quale per l’ente prevede sanzioni
pecuniarie, interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna.
8. IL PROBLEMA DEI SOGGETTI RESPONSABILE NEGLI ENTI E NELL’IMPRESA
Il soggetto formalmente titolare dei numerosi obblighi di condotta penalmente sanzionati non è sempre in
grado di adempiervi personalmente: ciò induce il titolare originario a delegare l’adempimento degli obblighi
predetti ad altri soggetti suoi collaboratori. Il problema che sorge è appunto il fenomeno della delega che
assuma rilevanza penale, sia sotto il profilo di un’eventuale sanzione da responsabilità del titolare originario
sia sotto quello di un’assunzione di responsabilità da parte del nuovo soggetto di fatto preposto
all’adempimento. La delega non deve avere carattere fraudolento e deve, pertanto, risultare in modo certo
e inequivoco: a tale scopo si richiede ora espressamente che essa risulti da atti scritto recante data certa e
che sia accettata dal delegato per iscritto. La delega deve essere attribuita a persona tecnicamente
competente. In terzo luogo, deve comportare il trasferimento dei poteri di organizzazione, gestione e
controllo. Il decreto esplicita come requisito aggiuntivo di validità l’autonomia di spesa, cioè l’attribuzione
al soggetto delegato il potere di disporre in modo autonomo delle risorse finanziarie per poter svolgere
effettivamente le sue funzioni. Nell’ambito delle imprese, il decreto all’art2, comma 1, lett. b, conferisce
rilievo all’investitura formale dei ruoli apicali; ma non contempo si tiene conto dell’esercizio di fatto di
funzioni dirigenziali: le posizioni di garanzia spettanti ai dirigenti in senso formale gravano su colui il quale
eserciti in concreto i poteri giuridici. In ogni caso, sui soggetti deleganti incombe un obbligo di vigilanza allo
scopo di prevenire la responsabilità degli enti collettivi devono prevedere anche un idoneo sistema di
controllo sull’effettiva attuazione di tutte le misure ab carattere precauzionale.
La varietà fenomenica dei diversi tipi di reato non ha impedito alla dottrina penalistica di tendere alla
costituzione di una teoria generale del reato intesa a unificare, mediante un processo di astrazione e
generalizzazione concettuali, tutti gli elementi comuni alle varie tipologie delittuose. In sede di applicazione
giudiziale, al richiamo delle categorie dogmatiche deve accompagnarsi la capacità di cogliere le particolarità
del caso concreto. A partire dal secondo dopoguerra, la parte consapevole della dottrina si è impegnata in
una verifica degli abusi di generalizzazione compiuti dalle dottrine generali del reato tradizionalmente
ricevute: ne è derivata la scoperta che le diverse tipologie delittuose presentano elementi che non possono
essere appiattiti all’interno di una teorizzazione generale. Inoltre, il rifiuto di una dogmatica astrattamente
concettualistica, e la conseguente adesione a una prospettiva teologica, sollecitano un costante raccordo
tra l’elaborazione della teoria generale del reato e le indagini di parte speciale; è dalle singole figure
criminose, infatti, che le categorie generali traggono vita e giustificazione. Le nozioni di teoria generale del
reato esposte sono ricavate in base a un procedimento di massima astrazione generalizzatrice.
5. ANTIGIURIDICITA’
La tipicità o la conformità alla fattispecie fornisce un indizio antigiuridico del fatto da considerare poi
illecito. In alcuni casi il fatto presumibilmente antigiuridico in quanto penalmente tipico risulta, tuttavia, ad
un attento esame, giustificato o consentito in base a una valutazione effettuata alla stregua non solo del
solo sistema penale ma dell’intero ordinamento giuridico. Nell’esame dell’antigiuridicità si circoscrive con
precisione l’ambito di tutela della norma penale, si pone in relazione la norma penale col complesso delle
altre norme e se ne chiarisce il reciproco condizionamento. La rilevanza del giudizio di antigiuridicità in
seno all’intero ordinamento è comprovata da norme processuali che regolano rapporti tra processo penale,
civile e amministrativo (artt 651-652 c.p.). Esso si risolve strutturalmente nella verifica che il fatto tipico non
è coperto da alcuna causa di giustificazione o secondo un sinonimo. All’interno della concezione tripartita
del reato, la categoria dell’antigiuridicità ha carattere oggettivo: essa cioè costituisce una qualità oggettiva
del fatto tipico che, come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. L’art59, nel fissare la regola della
rilevanza “obiettiva” delle cause di giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute
dall’agente, presuppone infatti un’antigiuridicità concepita puramente in senso oggettivo. Per spiegare sul
piano dogmatico l’operatività delle cause di giustificazione taluni autori fanno, infatti, ricorso al concetto di
elementi negativi del fatto: cioè di elementi che devono mancare perché l’illecito penale si configuri. La
ragione storica degli elementi negativi era costituita dalla ricerca di espedienti concettuali che
consentissero di risolvere il problema dell’errore sull’esistenza di cause di giustificazione nell’ambito di
ordinamenti, come quello tedesco-occidentale, privi di una norma ad hoc: nell’ordinamento italiano si
esprime espressamente l’errore sulle scriminanti. Bisogna affiancare a questo il concetto di antigiuridicità
materiale, che determina ragioni sostanziali che stanno alla base dell’incriminazione. D’altra parte le ragioni
sostanziali, che stanno a fondamento della scelta legislativa di penalizzare un determinato comportamento,
vanno al di là di quelle riconducibili all’antigiuridicità materiale, così come tradizionalmente concepita. Nel
linguaggio penalistico si suole parlare di antigiuridicità o illiceità speciale riguardo ai casi nei quali la stessa
condotta tipica è contraddistinta da una nota di illiceità desumibile da una norma diversa rispetto a quella
incriminatrice. Si consideri per esempio il delitto di cui all’art348 incrimina chiunque abusivamente esercita
una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato: l’avverbio abusivamente
richiede appunto il contrasto con le disposizioni amministrative che disciplinano l’esercizio delle attività
professionali. La distinzione tra illiceità speciale effettiva ed apparenti sono questioni interpretative.
6. COLPEVOLEZZA
La colpevolezza riassume le condizioni psicologiche che consentono l’imputazione personale del fatto di
reato all’autore. Nel giudizio di colpevolezza rientra la valutazione del legame psicologico o comunque il
rapporto di appartenenza tra fatto e autore. Il diritto penale come strumento di controllo sociale non può
attendere la dimostrazione specifica della libertà del potere. Fin quanto ha storicamente predominato la
concezione retributiva, la pena era concepita come una reazione avente lo scopo di compensare la
colpevolezza del reo. In questo momento storico caratterizzato da una concezione più laica del diritto
penale, la colpevolezza si spoglia di implicazioni tipicizzanti e perde di conseguenza il tradizionale ruolo di
fondamento della pena stessa. La legge penale garantisce la libertà di scelta individuale proprio nella
misura in cui rifiuta la responsabilità oggettiva e subordina la punibilità alla presenza di coefficienti
soggettivi come dolo e colpa. La Corte costituzionale nell’importante sentenza n.364 del 1988, relativa
all’efficacia scusante dell’errore inevitabile di diritto, ha ravvisato la ratio della colpevolezza nell’esigenza di
garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione. Se oggi nessuno contesta il ruolo fondamentale
della colpevolezza come principio di civiltà è dato dal senso pacifico che abbraccia i requisiti minimi del dolo
e della colpa. Nello stesso tempo in essi esistenti tra la categoria della colpevolezza, da un lato, la teoria
della pena e la concezione della società e lo stato dall’altro, hanno fatto si che la ricostruzione della
colpevolezza storicamente risentisse dei vari orientamenti.
2. CONCETTO DI AZIONE
L'azione umana rappresenta la base su cui poggia l'intera costruzione dogmatica del reato commissivo
doloso. Il ruolo del concetto di azione nella struttura di questo tipo di illecito non va, tuttavia,
sopravvalutato. La dottrina affidava, al concetto di azione due compiti fondamentali: da un lato, quello di
fornire una nozione superiore unitaria capace di adattarsi tanto all' azione dolosa e all' azione colposa,
quanto all' azione e all' omissione punto nel tentativo di perseguire obiettivi così ambiziosi, la dottrina
dell'azione a storicamente prospettato diverse concezioni, delle quali le principali sono la teoria causale, la
teoria finalistica, la teoria sociale. Secondo la teoria causale nel nucleo essenziale presta il fianco a due
obiezioni. Primo: la definizione dell'azione come modificazione del mondo fisico non si adatta all' omissione
quale forma di condotta priva di substrato naturalistico punto secondo: il dolo non esaurisce la sua
funzione sul piano della colpevolezza, ma funge anche da componente dell’azione perché non di rado
soltanto la direzione della volontà colpevole decide della stessa tipicità di un dato comportamento.
Secondo la teoria finalistica, l'azione umana consiste nell’ esercizio di un'attività orientata verso uno scopo.
L'attività finalistica e l'agire consapevolmente diretto verso un obiettivo, mentre l accadere meramente
causale non è governato da uno scopo, ma rappresenta il risultato causale delle condizioni causale di volta
in volta presenti. La teoria finalistica considera il dolo come elemento costitutivo dell’azione e quindi del
fatto tipico, negando al contempo che esso rappresenti una forma di colpevolezza. Innanzitutto, non è
sempre vero che le azioni volontarie siano esercizio di attività rigorosamente programmate te secondo lo
schema delle pre determinazioni del rapporto mezzo scopo: si pensi alle azioni impulsive o automatiche
virgola che certamente prescindono, pur essendo volontarie , da una consapevole orientazione finalistica.
In secondo luogo, nell ambito dei reati colposi e dei reati omissivi, alla finalità reale si sostituisce una
finalità soltanto potenziale; Nel senso che il rimprovero penale secondo la stessa teoria in esame in questi
casi si incentra sul mancato esercizio di azioni finalisticamente dirette agli obiettivi di tutela presi di mira dal
legislatore punto sono un toglie tuttavia che, tra gli esiti involontari degli sforzi compiuti dagli studiosi
finalisti, sia da annoverare proprio un ulteriore conferma dell' inutilità dei tentativi diretti a prospettare un
concetto di azione valido per tutte le tipologie delittuose. Secondo la teoria sociale, il comportamento
penalmente rilevante consiste in ogni risposta dell'uomo ad una pretesa nascente da una situazione
riconosciuta o almeno riconoscibile attuata grazie alla messa in atto di una possibilità di reazione
liberamente scelta tra quelle disponibili. Diversamente dalla teoria causale e da quella finalistica, la
concezione in esame non desume delle sue premesse di fondo dirette implicazioni di ordine dogmatico:
essa, dal momento che fa leva su di una mera possibilità di reagire in modo non collegato agli stimoli
dell'ambiente esterno, si adatta in realtà a tutte le forme delittuose; Ma punto perché di contenuto assai
generico, finisce col rivelarsi priva di contenuto informativo rispetto alle caratteristiche che il
comportamento assume in ognuna delle principali categorie criminose. L'unità raggiunta dal concetto
sociale di azione è perciò meramente terminologica. Le teorie film qui ricordate sono fallite, perché hanno
voluto trascurare una verità che oggi soltanto in pochicontesterebbe.ro. I criteri che presiedono alla
determinazione del concetto di azione si uniformano ai principi dell'imputazione penale virgola e non
viceversa. Quali siano i criteri di attribuzione della responsabilità , lo stabilisce l'ordinamento penale di volta
in volta considerato punto la condotta criminosa assume la forma di un azione in senso stretto punto nel
procedere ad una maggiore specificazione del concetto, si delinea il richiamo dell’ articolo 42, comma
primo, il quale stabilisce: nessuno può essere punito per un'azione preveduta dalla legge come reato, se
non l'ha commessa con coscienza e volontà punto la formula coscienza e volontà dell'azione non esprime
un identica realtà psicologica comune a tutte le forme delittuose essa richiama dati diversi , a seconda che
l'azione acceda ad un reato doloso ovvero ad un reato colposo.
4. PRESUPPOSTI DELL’AZIONE
La categoria dei presupposti dell'azione o del fatto è stata talora utilizzata in un’accezione ampia quanto
fuorviante, coincidente con l'insieme dei presupposti del reato: così sono stati considerati presupposti la
stessa norma penale, il bene giuridico, il soggetto attivo, il soggetto passivo. Evidente che la categoria dei
presupposti del reato intesa in questa accezione errata ed inutile punto il concetto di presupposto
dell'azione è invece utile in una prospettiva di scomposizione analitica dell'illecito, se circoscritto alle
circostanze che in taluni casi devono preesiste re o essere concomitanti alla condotta perché questa
assuma un significato criminoso: si pensi ad esempio al precedente stato di gravidanza nel delitto di aborto.
E’ appena il caso di precisare che le circostanze predette, pur essendo estranee alla condotta illecita in
quanto tale, rientrano comunque nel fatto tipico come i suoi elementi costitutivi. I presupposti del fatto
tipico nel senso precisato possono riferirsi al soggetto attivo del reato specificandone un ruolo o una
qualità, o all'oggetto materiale della condotta, o il contesto che deve preesistere alla condotta, ovvero al
soggetto passivo.
6. EVENTO
L'evento è concepito come risultato esteriore causalmente riconducibile all' azione umana: esempio del
delitto di omicidio, nel quale la lesione del bene protetto si materializza in una modificazione della realtà
naturale concettualmente e fenomenicamente separabile dalla condotta omicida punto il concetto di
evento assume, un' accezione più tecnica e ristretta rispetto a quella propria del linguaggio comune virgola
che identifica invece l'evento come un accadimento qualsiasi della realtà esterna. L'evento naturalistico
può anche consistere in un risultato esteriore che concretizza non già l'effettiva lesione, ma la messa in
pericolo di un bene protetto: si considera ad esempio l'articolo 434 che incrimina chiunque commette un
fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione, se dal fatto deriva Luca incolumità. L'evento di pericolo
è configurabile soltanto nell'ambito di quelle figure di reato che la dottrina tradizionale definisce a pericolo
concreto. L'importanza pratica della categoria dogmatica in esame emerge soprattutto sul terreno del
rapporto di causalità: l'evento naturalistico costituisce, il secondo polo del nesso causale e quindi un
requisito del fatto tipico nell'ambito dei reati che lo contemplano nella loro struttura. La disputa sul
concetto di evento è determinata essenzialmente dagli articoli 40, 41,43 e 49, che riconnettono ad ogni
reato un evento dannoso o pericoloso, come risultato dell’azione criminosa. Bisogna identificare inoltre il
concetto di offesa con quello di evento l'evento in questo caso è concepito virgola in quanto ritenuto
comune a tutti i reati, secondo un'accezione diversa da quella prima esplicata. Emerge così ulteriore
concetto di evento in senso giuridico, consiste nell’offesa all' interesse protetto dalla norma penale.
Bisogna quindi distinguere gli aspetti dogmaticamente deteriori e fuorvianti della tradizionale disputa sul
concetto di evento da quelli che sottendono, invece, seppure a volte camuffando le, problematiche di più
ampio respiro che superano i limiti di una scomposizione strutturale dell'illecito penale. Nell’ambito dei
reati di mera condotta, definiti tali perché privi di un evento naturalistico, a rigore non è necessario
ipotizzare un evento giuridico come risultato che consegue o si aggiunge alla condotta medesima: l'offesa
all' interesse protetto non è un entità materiale che si somma all' azione, ma la stessa azione considerata
come confliggente con la norma posta a tutela del bene in questione. Il rilievo appare incontrastabile
soltanto in linea astratta o di principio.se si considera lo stato attuale della nostra legislazione penale, ci si
avvede che l'equazione reato lesione di un bene giuridico talora suona più come una retorica affermazione
di principio, che come un dato che trova conferma nella realtà. L'ordinamento penale vigente, contiene
anche fattispecie criminose strutturate in modo così difettoso sotto il profilo della tecnica legislativa, da far
cadere in crisi l' asserto della necessaria compenetrazione tra tipicità e offesa al bene punto dal punto di
vista tecnico va, dunque, mantenuta la sola nozione di evento naturalistico, inteso quale conseguenza
dell’azione consistente in una modificazione fisica e la realtà esterna punto non è necessario che esso si
verifichi quasi contestualmente all' azione punto è altresì rilevante che l'evento si verifichi in un luogo
diverso da quello in cui è stata realizzata l'azione criminosa.
7. RAPPORTO DI CAUSALITA’: PREMESSA.
Caso 12: i dirigenti della ditta farmaceutica Grunenthal mettono in commercio un preparato che viene
ingerito anche da donne gestanti: quasi tutte partoriscono figli con malformazioni congenite, ma non è
scientificamente chiaro il meccanismo di produzione del fenomeno.
Caso 13: gli abitanti della zona in cui è sita una fabbrica di alluminio che emette fumi all'esterno vengono
colpiti da manifestazioni morbose cutanee a carattere epidemiologico (cosiddette macchie blu) e
lamentano anche danni alle bestie e alle colture (lo stesso fenomeno si è manifestato trent'anni prima al
momento dell'apertura della fabbrica); Neppure in questo caso però si riescono a individuare con certezza
le cause del fenomeno.
Caso 14: C fa saltare in aria con un candelotto di dinamite alla casa di campagna del sindaco lui ostile; si
accerta tuttavia che la casa sarebbe stata ugualmente distrutta da un incendio di vaste proporzioni
scoppiato nelle vicinanze per cause naturali quasi completamente al fatto (causalità alternativa ipotetica).
Caso 15: A e B, all'insaputa l'uno dell'altro, versano due dosi di veleno, ciascuna capace di produrre le
l’evento letale, nel bicchiere di birra di un loro comune nemico, il quale muore dopo aver bevuto (causalità
addizionale)
Caso 16: uno spacciatore istiga un giovane tossicodipendente, appena dimesso da una cura di
disintossicazione, a riprendere il consumo di eroina di per sé non mortale a causa di preesistente
alterazione organica accertata imperizia.
Caso 17: S colpisce con un pugno Z e lo lascia cadere sulla sede stradale: Z muore per il sopraggiungere di
una automobile che lo investe.
La fattispecie obiettiva di un reato commissivo di evento ricomprende il nesso di causalità che lega l'azione
all'evento medesimo : l' imputazione di un evento lesivo richiede come per supposto di partenza che il reo
abbia materialmente contribuito alla verificazione del risultato dannoso. Il concetto di causalità non è
univoco, ma varia in base al punto di vista di volta in volta prescelto dal soggetto dell'indagine. Da questo
punto di vista, la causalità funge dunque da criterio di imputazione oggettiva del fatto a soggetto: il nesso
causale tra condotta ed evento di regola comprova che non solo l'azione ma lo stesso risultato lesivo e
opera dell’agente, per cui quest'ultimo può essere chiamato a risponderne penalmente. Ancora, tutt'oggi
però si dibatte circa la scelta della teoria più idonea. Apparentemente, il compito dell’interprete sembra
agevolato dalla circostanza che il codice Rocco contiene una disciplina esplicita del nesso causale. Il
richiamo degli articoli 40 e 41 non ha impedito agli interpreti di assumere la disciplina codicistica come
elemento di conferma di soluzione ricavate in via aprioristica; questi articoli si prestano a letture diverse
perché non riescono indicare un modello ben definito e univoco di causalità. Da un lato ci si è accontentati
di sottolineare che l'azione del soggetto deve porsi come condizione necessaria dell'evento, dall'altro
l'attenzione sia prevalentemente appuntata sull’interpretazione dell'articolo 41 per il quale le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da solo sufficienti a determinare
l'evento.
8. LA TRADIZIONALE TEORIA CODICISTIA: INSUFFICIENZE
L'esigenza di un legame causale tra azione ed evento è esplicitamente riconosciuta dall' articolo 40 comma
1°, il quale richiede che l'evento dannoso pericoloso, dal quale dipende l'esistenza del reato, sia
conseguenza dell'azione del reo. Purché l'azione umana assurga causa è sufficiente che essa rappresenti
una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo. Per accertare tale nesso condizionalistico,
la dottrina vuole ricorrere al procedimento di “eliminazione mentale”: consente riscontri immediati e
inconfutabili. Anche se, sono prospettabili casi meno usuali rispetto ai quale l'azione della formula non
riesce a fornire indicazioni probanti in merito all'esistenza del nesso eziologico. Nei casi 12 e 13 non si
ricava alcun risultato perché mancano le indispensabili conoscenze che fanno da presupposto al
procedimento di eliminazione mentale. In verità, per poter asserire che l'evento lesivo viene meno occorre
prima sapere che l'azione in questione appartiene al novero di quelle che sono generalmente in grado di
produrre effetti dannosi del tipo di quello verificatosi in concreto. Ne deriva che la formula della condicio
sine qua non possiede un'efficacia limitata appunto si è altresì rilevato che la teoria in esame condurrebbe
a considerare causali anche i remoti antecedenti dell'evento delittuoso: la teoria condizionalistica sembra
presentare ulteriori inconvenienti nell’ipotesi di causalità alternativa ipotetica e di causalità addizionale.
Nella causalità cosiddetta alternativa ipotetica si suppone che, in mancanza dell’azione del reo, l'evento
sarebbe stato ugualmente prodotto da un'altra causa intervenuta all'incirca nello stesso momento (caso
14); nella causalità cosiddetta addizionale, si suppone che l'evento sia prodotto dal concorso di più
condizioni, ciascuna però capace da sola di produrre risultato (caso 15). Un ulteriore obiezione fa
riferimento all' ipotesi caratterizzata dal sopraggiungere di una causa successiva idonea da sola a
determinare l'evento: in ipotesi del genere l'evento permarrebbe come conseguenza della prima.
9. SEGUE: CORRETTIVI
Nella prima obiezione si selezionano come antecedenti causali le sole condotte che assumono rilevanza
rispetto alla fattispecie incriminatrice di volta in volta considerata. In ogni caso, l'obiezione relativa
all'eccessiva estensione del concetto di causa non tiene conto della operatività del dolo e della colpa, come
fattori che contribuiscono a circoscrivere l'ambito di rilevanza di tutti i possibili antecedenti del risultato
lesivo. La teoria dell’equivalenza appare perciò eccessivamente rigorosa soprattutto nei casi di cosiddetta
responsabilità oggettiva, dove manca la possibilità di ricorrere al correttivo del dolo della colpa. Nella
seconda obiezione risultano superabili le accennate obiezione mosse sul terreno della causalità addizionale
e della causalità alternativa ipotetica. Dunque, l'evento deve essere considerato come evento concreto; ciò
che importa è che una catena causale sussista tra l'azione dell'autore e questo evento concreto, mentre è
irrilevante la circostanza che potrebbero verificarsi eventi analoghi per effetto di altre causi operanti
all'incirca nel medesimo momento.
1. PREMESSA
L' antigiuridicità viene meno se una norma diversa da quella incriminatrice, e desumibile dall’ intero
ordinamento giuridico, facoltizza o impone quel medesimo fatto che costituirebbe reato: si definiscono
cause di esclusione dell' antigiuridicità o cause di giustificazione quelle situazioni normativamente previste,
in presenza delle quali appunto, viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie
incriminatrice e l'intero ordinamento giuridico. Verranno esaminate in particolare le cause di giustificazione
prevedute dagli articoli 50 e seguenti del codice penale virgola in quanto si tratta di esimenti riportata
generalissima, come tali applicabili a quasi tutti i reati.
Caso 19: ad un cittadino americano viene trapiantata una ghiandola sessuale offertagli, dietro pagamento,
da uno studente napoletano: e punibile il chirurgo che ha effettuato l'operazione di trapianto?
L'articolo 50 stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, con il consenso della
persona che può validamente disporne. Si tratta della scriminante ispirata al tradizionale principio volenti
et consentienti non fit iniuria, è evidente che questo è il fondamento. Dalla specifica sfera di operatività
della causa di giustificazione in esame, e sull’ anno le ipotesi nelle quali il consenso costituisce un elemento,
la cui presenza può venir meno lo stesso fatto tipico. Un discorso analogo vale ad esempio per il rispetto ai
reati di violenza privata o violenza sessuale, i cui corrispondenti fatti tipici presuppongono un’azione
realizzata contro la volontà del soggetto passivo appunto lo specifico ambito di operatività dell'articolo 50,
come norma che introduce una causa di liceità, va per contro circoscritto alle ipotesi nelle quali il giudice
accerta un fatto tipico al completamento dei suoi elementi. Quanto alla qualificazione tecnica, il consenso
non ha natura di negozio giuridico né di diritto privato, né di diritto pubblico: conformemente all' opinione
oggi dominante, esso va qualificato come un semplice atto giuridico. Quando, il consenso è sempre
revocabile, a meno che l'attività consentita, per le sue stesse caratteristiche virgola non possa essere
interrotta se nonna ad avvenuto esaurimento. Il consenso deve essere libero ovvero spontaneo: esso cioè
deve essere immune da violenza, errore o dolo. Data la sua natura non negoziale, la relativa validità
prescindere dai requisiti di forma punto può anche essere desunto dal comportamento oggettivamente
univoco dell'avente diritto purché sussista al momento del fatto. il consenso e putativo se il soggetto
agisce nella erronea supposizione della sua esistenza articolo 59, comma 4: ma la sua efficacia scriminante
viene meno Hope debba escludersi virgola in base alle circostanze del caso concreto, la ragionevole
persuasione di operare con l' assenso della persona che può validamente disporre del diritto punto il
consenso dell' offeso e presunto quando si può fondatamente ritenere che il titolare del bene lo avrebbe
concesso se fosse stato a conoscenza della situazione di fatto punto in applicazione di queste premesse,
l'articolo 50 sarebbe inapplicabile in un'ipotesi come quella esemplificata nel caso 18: dall' esistenza di
pregressi rapporti di familiarità e amicizia tra agente e offeso non potrebbe desumersi l'esistenza , benché
putativa virgola di un consenso in atto. La legittimazione a prestare il consenso spetta al titolare del bene
punto può in secondo luogo spettare al rappresentante legale o volontario punto il soggetto legittimato a
consentire deve possedere la capacità di agire. Peraltro in alcuni casi è lo stesso legislatore a fissare un età
minima ad esempio 14 anni in materia di corruzione di minorenne punto la maggiore età, oggi fissata al
compimento del diciottesimo anno, è invece necessaria per poter validamente consentire alla lesione di
diritti patrimoniali. Lo stesso articolo 50 circoscrive la sfera di operatività della scriminante in esame ai casi
in cui il consenso abbia oggetto diritti disponibili. L'interesse della repressione, infatti viene meno soltanto
se il consenso ha ad oggetto la lesione di beni di pertinenza esclusiva del privato o di chi non è titolare.
L'articolo 50 non precisa però quali siano i diritti disponibili, il compito di individuarli non può che spettare
al l'interprete, il quale deve ricavarli dall’ intero ordinamento giuridico. comunemente virgola si ritengono
disponibili beni che non prestano un’immediata utilità sociale e che lo stato riconosce esclusivamente per
garantire al singolo il libero godimento . Nel caso 18 relativo all' impossessamento di oggetti altrui, essendo
la fattispecie di furto finalizzata alla protezione di interessi tipicamente patrimoniali la scriminazione ha
appunto la natura degli interessi tutelati. Di solito vengono condotti all'area dei diritti disponibili anche gli
attributi della personalità. Rispetto al bene dell’ integrità fisica e opinione dominante che è la portata del
consenso scriminante vada determinata innanzitutto assumendo come parametro di riferimento l'articolo 5
codice civile: secondo il quale gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente dell'integrità fisica ; Ovvero, siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine
pubblico o al buon costume una simile conclusione discende da una lettura aggiornata della stessa ratio
dell'articolo 5. Sempre in applicazione dei criteri desumibili da questo articolo è quantomeno dubbio invece
che possano ritenersi ammissibili i trapianti di ghiandole sessuali: e ad esempio l'ipotesi di cui al caso 19,
che ha dato luogo ad una pronuncia favorevole della Suprema Corte. Indisponibili comunemente si
considerano, invece, tutti gli interessi che fanno capo allo stato, agli enti pubblici e alla famiglia. Tra i beni
indisponibili va, indubbiamente annoverato il bene della vita, come si desume dagli articoli 579 e 580 che
incriminano l'omicidio del consenziente e l'istigazione al suicidio.
5. ESERCIZIO DI UN DIRITTO
Caso 22: una nota giornalista pubblica un libro di inchiesta contenente addebito obiettivamente diffamatori
a carico di un presidente della Repubblica e dei suoi familiari, accusati di strumentalizzare l'altissima carica
per conseguire i vantaggi illeciti di varia natura: si configura il reato di diffamazione?
Caso 21: alcuni lavoratori in sciopero, tenendosi a braccetto e formando un cordone attorno a un loro
colleghi intenzionato a recarsi al lavoro, gli impediscono di entrare in fabbrica: si configura il reato di
violenza privata?
A norma dell'articolo 51 del codice penale, l'esercizio di un diritto esclude la punibilità. La ragione
giustificatrice della scriminante verrà avvisata nella prevalenza dell’interesse di chi agisce esercitando un
diritto rispetto agli interessi eventualmente confliggenti. Invece, la ragion d'essere della non punibilità
riposa sull’esigenza di rispettare il principio di non contraddizione all'interno di uno stesso ordinamento
giuridico. Ai fini dell'articolo 51, il concetto di diritto va inteso nell’accezione più ampia: cioè, come potere
giuridico di agire. Non rientro nella nozione degli interessi legittimi i cosiddetti interessi semplici, perché
strutturalmente non suscettibili di esercizio. La fonte del diritto può essere assai varia: legge in senso
stretto cioè ordinaria o costituzionale, regolamento, atto amministrativo, provvedimento giurisdizionale,
contratto di diritto privato, consuetudine. L'applicabilità dell'articolo 51 presuppone già soltanto
l'apparente conflitto tra la norma autorizzativa e la norma incriminatrice a favore della prima. Il criterio
invocabili al fine di stabilire se la norma attributiva del diritto limite ossia, per contro, limitata dalla norma
penale, sono essenzialmente 3: gerarchico, cronologico, di specialità. Non basta vantare in astratto un
diritto ma è necessario che l'attività realizzata costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà
inerente al diritto in questione. Connessa alla problematica dell'abuso è la questione inerente ai limiti cui il
diritto e il relativo esercizio vanno incontro, in conseguenza della necessità di salvaguardare altri diritti
ugualmente meritevoli di protezione. I limiti si distinguono in: interni, desumibili dalla natura e dal
fondamento del diritto esercitato ed esterni, ricavati dal complesso delle norme di cui fa parte la norma
attributiva del diritto. In particolare, riguardo ai diritti previsti da una legge ordinaria, i relativi limiti si
desumono sia dalla fonte dalla quale il diritto promana, sia dal complesso delle leggi contenute nell’intero
ordinamento. Se si tratta invece di diritti riconosciuti a livello costituzionale, il principio della gerarchia delle
fonti impedisce di ricavare limiti al loro esercizio da norme di rango inferiore. Se i limiti sono opponibili
all'esercizio di diritti costituzionali, questi non possono che essere ricavati dallo stesso ordinamento
costituzionale. Ipotesi particolarmente significative di esercizio di diritto sono: A) diritto di cronaca
giornalistica: l'attività informatica svolta dagli organi di stampa si traduce nell’esposizione di fatti lesivi
dell'onore e della reputazione di terze persone. La giurisprudenza riconosce che il diritto di cronaca
costituisce estrinsecazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, per cui si ritiene
ammissibile il ricorso alla scriminante. Solo che il diritto di cronaca non può essere esercitato
illimitatamente perché il bene è contrapposto (cioè l'onore) è anch'esso dotato di rango costituzionale; da
qui l'esigenza di bilanciare gli interessi costituzionali confliggenti e le relative conseguenze. B) diritto di
sciopero: si sostiene che l'esercizio del diritto di sciopero incontra limite di duplice natura: interni,
desumibili dalla natura e della ratio del diritto in questione; e limiti esterni, derivanti dall' esigenza di
tutelare altri diritti costituzionalmente rilevanti che con quello di sciopero entrano eventualmente in
conflitto (caso 21). C) Ius corrigendi: è il diritto dei genitori esercenti le parentele potestà di educare i figli,
il cui esercizio talora può sfociare infatti corrispondenti a fattispecie di reato. Tale paradigma soggiace a
limiti: è difficile individuare con certezza l'aria scriminante del diritto di correzione, stante la mutevolezza
storica dei canoni di giudizio. Nell'attuale momento storico la sfera degli interventi correttivi ritenuti leciti
va restringendosi in conseguenza dell'accresciuta sensibilità per la tutela della personalità e dell’autonomia
degli stessi minori. D) offendicula: la causa di giustificazione in esame viene invocata per giustificare
l'efficacia esimente del ricorso ai cosiddetti offendicula, cioè quei mezzi di tutela della proprietà il cui
impiego provoca talora offese ai terzi: l'efficacia scriminante viene subordinata all'esistenza di un rapporto
di proporzione tra mezzo usato e bene da difendere.
6. ADEMPIMENTO DI UN DOVERE
Caso 22: il trasportatore ed il titolare di un deposito di carburante commettono una contravvenzione
relativa allo svolgimento della loro attività a seguito di ordini impartiti da parte del legale rappresentante
della compagnia petrolifera.
Caso 23: l'ufficiale cassiere di una capitaneria di porto compie operazioni contabili manifestamente illecite,
integranti reati di peculato e falso ideologico, per ordine del comandante della Capitaneria.
L'articolo 51 stabilisce che l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine
legittimo della pubblica autorità escluda la punibilità. La ratio della scriminante va individuata nell’esigenza
di rispettare il principio di non contraddizione all'interno di uno stesso ordinamento giuridico. Quanto alla
fonte, il dovere può scaturire o da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità; si
traggono due ipotesi: a) dovere imposto da una norma giuridica. Tipici esempi sono quelli del poliziotto che
esegue un arresto, dell'ufficiale giudiziario che procede a un pignoramento. Nulla quaestio nell’ipotesi in cui
l'obbligo di agire derivi da una legge o di un atto normativo equiparato. Il problema può sorgere per i doveri
di agire che trovano la loro fonte nei regolamenti, ove si ritenga che la riserva assoluta di legge debba
estendersi anche alle cause di giustificazione. Dunque, per norma giuridica si intende qualsiasi precetto
giuridico, non importa se esaminato dal potere legislativo o da quello esecutivo. In conformità all'articolo
10 costituzione il dovere scriminante potrà trovare la sua fonte anche in un ordinamento straniero, purché
il diritto internazionale esiga che tale dovere sia riconosciuto come valido anche dallo stato italiano.
b) dovere imposto da ordine dell'autorità; l'ordine consiste in una manifestazione di volontà che un
superiore rivolge a un subordinato, in vista del compimento di una data condotta. È necessario che tra il
superiore e l'inferiore intercorra un rapporto di subordinazione di diritto pubblico: non scrimina
all'adempimento di ordini che si inquadrano all'interno di rapporti di subordinazione regolati dal diritto
privato.
Quanto ai limiti del concetto di pubblica autorità, quale fonte dell'ordine, si oscilla tra un’interpretazione
restrittiva che vi ricomprende i soli pubblici ufficiali, e un'interpretazione più estensiva, che include gli
incaricati di pubblici servizi legati da un rapporto di supremazia, o soggetti esercenti servizi di pubblica
necessità. Ai fini della non punibilità, non basta l'esigenza di un ordine ma occorre che questi sia
legittimato. Bisogna distinguere tra presupposti formali e presupposti sostanziali di legittimità. I primi si
riferiscono alla competenza del superiore ad emanare l'ordine, alla competenza dell'inferiore ad eseguirlo e
alla forma prescritta; i secondi attengono all'esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l'emanazione
dell'ordine. Il subordinato ha il potere di sindacare la legittimità dell'ordine. L'articolo 51 esclude la
punibilità dell'esecutore in un ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla
legittimità dell'ordine medesimo; Al di fuori da queste ipotesi espressamente eccettuata, la sindacabilità del
carattere legittimato dell'ordine è la regola. Questo principio vale particolarmente nell'ambito degli
ordinamenti democratici dove vige l'esigenza di sottoporre a un controllo di legalità l'azione dei pubblici
poteri in ciascun individuo l'auto responsabilità. Questa ampiezza del potere di sindacato presuppone che
al subordinato l'ordinamento attribuisca un ruolo non meramente esecutivo, ma caratterizzato
dall’esercizio di un potere di valutazione autonoma. Per verificare il limite del potere di sindacato
dell'inferiore occorrerà considerare sia la natura dell’ordine che viene in questione, sia il tipo di rapporto
che intercorre tra il subordinato il superiore: quanto più aumenta la subordinazione gerarchica, altrettanto
diminuisce il potere del subordinato di sindacare la legittimità sostanziale dell'ordine. Laddove il controllo
di legittimità non venga effettuato dai subordinati legittimati a farlo, la regola è che anche loro rispondono
penalmente dell'eventuale reato commesso in esecuzione dell'ordine legittimo. La regola, secondo la quale
risponde anche l'esecutore dell'ordine legittimo, patisce due eccezioni: l'esecutore cioè è esentato da
responsabilità se per errore di fatto, ha ritenuto di obbedire a un ordine legittimo (costituisce
un'applicazione al caso di specie dei principi generali in tema di errore di fatto cioè deve farsi rientrare
anche l'errore su legge extrapenale), oppure se la legge non gli consente alcun sindacato della legittimità
dell'ordine (si riferisce ai rapporti di subordinazione di natura militare o assimilabile, cioè acque rapporti
caratterizzati dal fatto che la legge impone all' inferiore la più stretta e pronta obbedienza). Insindacabilità
di dagli ordini vincolanti e in ogni caso soltanto relativa, nel senso che riguarda la loro legittimità sostanziale
punto è invece sempre sindacabile la legalità esteriore dell'ordine. La punibilità dell'esecutore viene meno
per ragioni di fondo che più propriamente attengono al piano della colpevolezza: l'esecutore vincolato a
un’obbedienza pronta non ha, infatti, quella normale libertà di autodeterminazione necessaria per esigere
un comportamento diverso conforme al diritto. Sia la dottrina che la giurisprudenza concordano oggi
nell’ammettere che vi è un limite all' impossibilità di sindacare la legittimità sostanziale dell’ordine da parte
dello stesso inferiore vincolato alla più pronta obbedienza: tale limite viene individuato nella manifesta
criminosità dell'ordine medesimo.
7. LEGITTIMA DIFESA
Caso 24: il proprietario di un fondo, avendo sorpreso un ladro a rubare alcune piante di cavolfiore, esplode
in aria un colpo di fucile a scopo intimidatorio. Il ladro quindi si dà alla fuga e, dopo un tratto di circa 50 m,
abbandona la refurtiva costituita da tre piante di cavolfiori. Ciononostante il derubato, sempre armato di
fucile, muove all'inseguimento del ladro per raggiungerlo ed eventualmente arrestarlo: venutosi a trovare a
circa 10 m di distanza dal fuggiasco, tenta di esplodergli contro un colpo di fucile; Il ladro vistosi a sua volta
aggredito, estrae la pistola che porta addosso e ferisce il proprietario in seguitore.
Caso 25: una sera d'inverno, poco prima della chiusura dei negozi, un popolare calciatore della squadra
della Lazio inscena uno scherzo, poi rilevato si è tragico: entrati in una gioielleria col bavero alzato e le mani
in tasca come per impugnare una pistola, con l'espressione tesa e dura intima presenti “fermi tutti, questa
è una rapina”. Il gioiellere impugna prontamente la pistola e uccide il presunto rapinatore.
L'articolo 52, primo comma del codice stabilisce: “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato
costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all' offesa”. La legittima difesa rappresenta un residuo di
autotutela che lo stato concede al cittadino: il fondamento è oggi quasi unanimemente ravvisato nella
prevalenza attribuita all' interesse di chi sia ingiustamente aggredito rispetto all' interesse di chi si è posto
fuori dalla legge. La struttura della legittima difesa ruota attorno a due comportamenti che si
contrappongono: una condotta aggressiva e una condotta difensiva. La minaccia deve provenire da una
condotta umana. Può scaturire anche da animali o cose, soltanto se individuabile un soggetto tenuto ad
esercitare su di esso una vigilanza. Il pericolo di offesa può anche provenire da una condotta omissiva: ad
esempio il rifiuto del proprietario di richiamare il cane mastino che sta aggredendo un bambino integra
un’omissione e ciò giustifica il padre che impugna un'arma per costringere il proprietario medesimo a far
allontanare l'animale. L'aggressione giustifica la reazione difensiva anche se l'aggressore sia un soggetto
immune o non imputabile: il che si spiega considerando che l'antigiuridicità della condotta rileva in termini
puramente oggettivi: cioè è sufficiente che l'aggressore ponga in essere un comportamento contrastante
con l'ordinamento giuridico considerato nel suo complesso, anche se la specifica illeceità penale viene
meno per difetto di requisiti di natura soggettiva. L'attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui: cioè
qualsiasi interesse giuridicamente tutelato. Il termine generico di diritto deduce la facoltà di difesa
esercitabile per la salvaguardia di tutti i beni indistintamente, inclusi i diritti patrimoniali. Presupposto
fondamentale della difesa legittima è che l'aggressione provochi un pericolo attuale di difesa : non si deve
trattare né di un pericolo corso, né di un pericolo futuro. Occorre, dunque, uno minaccia di lesione in
compente al momento del fatto. Nella nozione di pericolo attuale deve farsi rientrare anche il pericolo
perdurante: si riscontra non solo nei reati permanenti, ma anche in quei casi nei quali, non essendosi del
tutto esaurita l'offesa, non sia ancora completato il trapasso della situazione di pericolo a quella di danno
effettivo. La giurisprudenza e parte della dottrina inclinano a ritenere che la scriminante in esame non sia
invocabile se la situazione di pericolo è volontariamente cagionata dal soggetto che reagisce: in tal caso
verrebbe infatti meno o il requisito della necessità della difesa o quello dell'ingiustizia dell'offesa. La
ragione che induce ad escludere l'applicabilità della legittima difesa nei casi di sfida fatta ed attuata è, in
verità, desumibile dalla stessa ratio sottesa alla scriminante: i soggetti non si trovano nella medesima
situazione di chi non può invocare tempestivamente il soccorso delle autorità, per la semplice ragione che
concorrono a creare un pericolo che sarebbe stato il loro potere non fare sorgere. D'altraparte la stessa
giurisprudenza finisce con l'ammettere la sua operatività in taluni casi particolari di pericolo
volontariamente cagionato da chi reagisce: precisamente, quando la reazione della vittima della
provocazione risulti assolutamente imprevedibile e del tutto sproporzionata. Il concetto di offesa ingiusta
riguarda l'offesa provocata contra jus, cioè offesa antigiuridica, arrecata in violazione delle norme che
tutelano l'interesse minacciato. In realtà, l’estremo dell'antigiuridicità è già implicito nel concetto di offesa
ad un diritto a un interesse protetto ma è preferibile accedere ad un'interpretazione diversa dove il
riferimento all'ingiustizia dell’offesa sta a significare che l'aggressione, oltre a minacciare un diritto altrui,
non deve essere espressamente facoltizzata dall’ordinamento. Dunque, non può invocare la legittima difesa
chi pretende di reagire contro una persona, la quale agisca, sua volta, nell’esercizio di una facoltà legittima
espressamente stabilito dall' ordinamento, o nell’adempimento di un dovere. La difesa deve apparire
necessaria per salvaguardare il bene posto in pericolo: l'aggredito, di fronte all'alternativa tra reagire
subire, non puoi evitare il pericolo se non reagendo contro l'aggressione. Il giudizio di necessità-inevitabilità
non è assoluto, ma relativo perché si deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto; È
comprensibile come una stessa reazione, mentre può risultare giustificata per individuo debole, può invece
non apparire più tale per una persona fisicamente robusta ovvero in presenza di diverse condizioni. Si
discute se la legittima difesa esuli dove l'aggredito possa mettersi in salvo con la fuga. Opinione diffusa
distingue tra fuga e commodus discessusin questo senso si sarebbe tenuto a fuggire solo quando le
modalità della ritirata siano tali da non far apparire vile il soggetto aggredito; Nel caso contrario
l'aggressore dovrebbe tollerare tutte le conseguenze della sua condotta illecita appunto il nodo dei rapporti
tra reazione fuga va sciolto tenendo conto del principio del bilanciamento degli interessi: il soggetto non è
tenuta a fuggire in tutti quei casi, nei quali la fuga e esporrebbe bene i suoi personali o di terzi a rischi
maggiori di quelli incombenti sui beni propri del soggetto contro il quale si reagisce. Problemi più complessi
e delicati sorgono al momento del determinare il significato e limiti del secondo requisito necessario perché
la reazione possa apparire giustificata: cioè quello della proporzione tra difesa e offesa. La tesi della
proporzione riferita ai mezzi va incontro ad obiezione difficilmente superabili: l'articolo 52 richiede che il
requisito in esame intercorre tra la difesa, da un lato e l'offesa, dall’altro. L'espressione offesa indica
sempre nell’uso legislativo, la lesione o la messa in pericolo dell'interesse protetto. Ancora, si dovrebbe
giungere alla conclusione che la difesa di un bene meramente patrimoniale possa giustificare anche la
lesione di un bene personale come la vita o l'integrità fisica. Non è consentito aggredire la vita altrui per
difendere diritti di natura meramente patrimoniale o, comunque, gerarchicamente inferiori alla vita
all'integrità fisica della persona. È da cogliere l'orientamento che assume a termine del giudizio di
proporzione il rapporto di valore tra i beni o interessi in conflitto: occorre operare un bilanciamento tra il
bene minacciato e il bene leso, con la conseguenza che all' aggredito che si difende non è consentito di
ledere un bene dell’aggressione marcatamente superiore a quello posto in pericolo dall’iniziale aggressione
illecita. Il raffronto tra i beni in conflitto va operato secondo il rispettivo grado di messa in pericolo di
lesione cui sono esposte gli interessi dinamicamente confliggenti nella situazione concreta. Se il conflitto
intercorre tra beni omogenei si dovrà porre a raffronto il rispettivo grado di lesività dell’azione aggressiva e
dell azione difensiva; se parliamo di beni eterogenei dovrà farsi ricorso all' ausilio di indicatori diversi, quali
l'eventuale rilevanza costituzionale del bene, la valutazione offerta dal legislatore penale attraverso l'entità
delle sanzioni previste nel caso di sua violazione, la valutazione di norme extra penali. La disciplina
codicistica della legittima difesa è stata innovata con la legge 13 Febbraio 2006, numero 59, la quale ha
aggiunto all'articolo 52 io nuovi commi destinata appositamente a regolamentare l'esercizio del diritto
all'autotutela un privato domicilio: lo scopo perseguito dal legislatore tende ad ampliare presupposti di
difesa legittima nei casi in cui l'aggressore sorprende l'aggredito in casa ho altro luogo chiuso assimilabile.
L'aspetto di maggiore novità consiste nella modifica di disciplina del requisito della proporzione: si tratta di
una riforma che ha suscitato reazioni fortemente contrastanti anche all'interno della dottrina penalistica. Vi
è rischio che la riforma veicola il messaggio fuorviante che l'ordinamento concede d'ora in avanti licenza di
uccidere ladri e rapinatori che si introducono nelle abitazioni o nei negozi. Anche a prescindere dagli
obiettivi politico criminali presi di mira, la modifica legislativa risulta fallimentare sotto il profilo della
tecnica normativa: piuttosto che riuscire ad indicare in modo preciso e univoco come possa legittimamente
reagire il padrone di casa o di negozio minacciato dal ladro da un rapinatore, il testo infine approvato dal
legislatore risulta così mal congegnato, che ogni sua possibile interpretazione si espone a diverse critiche. Il
nuovo comma dell'articolo 52 precisamente stabilisce: nei casi previsti dall' articolo 614, primo e secondo
comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno
legittimamente presente in uno dei luoghi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo
idoneo al fine di difendere: la propria e altrui incolumità e beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e
vi è pericolo di aggressione. Il nuovo terzo comma aggiunge: la disposizione di cui al secondo comma si
applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata
un'attività professionale, commerciale o imprenditoriale. Dall' esame emerge la necessità di difendersi.
Oltre alla presunzione di proporzione, ulteriori elementi di novità sono costituiti dallo specifico contesto
situazionale in cui l'aggredito viene sorpreso, dalle condizioni concomitanti che devono essere presenti
perché la reazione all' armata risulti legittima e dunque scriminata. Quanto al contesto, occorre la necessità
di una violazione di domicilio: si deve cioè trattare o di un estraneo che si introduce arbitrariamente
nell’abitazione altrui. Non basta una situazione oggettiva di pericolo attuale di offesa ingiusta, ma occorre
che l'aggredito si rappresenti soggettivamente tale situazione e che reagisca animato da un animus
difendenti suscettibile di autonoma certamente giudiziale. La difesa deve avere ad oggetto la propria e
altrui incolumità. Se così è, esiste un rapporto di omogeneità qualitativa tra i beni personali che l’aggredito
difende, e i beni che gli lede mediante l'uso delle armi e danni dell'aggressore. Stando al tenore letterale e
lo spirito dell’innovazione legislativa il giudice non deve verificare approfonditamente la congruità tra i
mezzi offensivi e quelli difensivi ma l'uso dell'arma dovrebbe risultare scriminato anche in quelle situazioni
nelle quali, per respingere l'aggressione, sarebbe stato a rigore sufficiente una reazione non armata o,
comunque, meno lesiva.
Tuttoggi è considerabile davvero necessaria soltanto quella condotta difensiva non sostituibile con una
meno lesiva. La proposta di un simile collettivo ermeneutico è plausibile. Secondo alcuni autori il criterio
della proporzionalità è deducibile piuttosto che dall' interpretazione del requisito di necessità di difendersi
in sé considerato, da un coerente sviluppo delle implicazioni ermeneutiche dello stesso concetto di
proporzione. Si considera presuntivamente proporzionato l'uso di un'arma, o di un altro mezzo di reazione
violenta, finalizzato allo scopo di difendere i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza di aggressione.
La legittimità dell’impiego dell'arma è subordinata alla presenza di due requisiti ulteriori rispetto alla
minaccia dell’aggressione al patrimonio: occorre, per un verso, che l'intruso aggressore non desista; e, per
altro verso, che sussiste un pericolo di aggressione. Il significato delle due condizioni suddette assume
rilievo decisivo per stabilire l'effettiva portata della nuova disciplina normativa. La desistenza viene vista in
termini di onere ed intimidazione o avvertimento rivolto dall’aggredito all'aggressore: si intende sostenere
che il padrone di casa, prima di poter legittimamente usare mezzi difensivi violenti nei confronti della due
intruso, dovrebbe intimargli di desistere punto e solo se questi insisterà virgola e se dimostrerà pericoloso,
potrà far uso dell’arma o di un altro attrezzo incisivo. Purché una reazione difensiva violenta risulti
scriminata, occorrerà presenza di un pericolo incombente di aggressione ai beni personali del soggetto che
li difende. La presunzione legislativa di proporzione finisce così con riferirsi solo al rapporto tra la rispettiva
entità dei pregiudizi arrecati ai beni oggetto di difesa e di offesa. Se la difesa armata sia azionata da un
soggetto che possiede l'arma senza un valido titolo di legittimazione, se verrà meno la presunzione di
proporzione, sarà pur sempre applicabile la scriminante tradizionale della legittima difesa, fatta salva la
configurabilità di illeciti penali relativi alla illegittima detenzione dell'arma medesima.
La scriminante dell’uso legittimo delle armi è stata configurata come causa di giustificazione autonoma
soltanto dal legislatore nel 1930. La ragione dell’innovazione legislativa è da ravvisare nell’intento del
legislatore fascista di sottolineare la prevalenza del potere di coercizione statuale nelle situazioni che
pongono in conflitto i cittadini all'autorità. Da qui la necessità di interpretare la causa di giustificazione in
esame in modo restrittivo, cioè conforme ai principi che caratterizzano il nuovo ordinamento democratico.
Dall’articolo 53 si desume che la causa di giustificazione dell'uso legittimo delle armi ha natura sussidiaria,
nel senso che si fa luogo alla sua applicazione soltanto ove difettino i presupposti della legittima difesa o
dell'adempimento del dovere. Il fine perseguito dal pubblico ufficiale deve essere quello di adempiere a un
dovere del proprio ufficio: la scriminante esclusa in presenza di uno scopo di vendetta o di arbitraria
sopraffazione. Il ricorso alla coazione fisica è giustificato di fronte alle necessità di respingere una violenza o
di vincere una resistenza all'autorità: tale necessità sussiste quando il pubblico ufficiale non ha altra scelta.
Considerato il carattere di extrema ratio della scriminante in esame, il requisito della necessità va
interpretato anche nel senso che il pubblico ufficiale deve impiegare quello meno lesivo. La violenza deve
consistere in un comportamento attivo tendente a frapporre ostacoli all' adempimento del dovere d’ufficio.
La minaccia deve essere seria e particolarmente grave, a pena l'abbandono di quell’interpretazione
restrittiva. Si insegna tradizionalmente che la resistenza deve essere attiva: non basterebbe una resistenza
passiva: si tratta di richiedere un rapporto di proporzione da un lato tra i mezzi di equazioni impiegate il
tipo di resistenza da vincere e, dall'altro, beni in conflitto. Con l'emanazione dell'articolo 14 della legge 22
maggio 1975, numero 152 al primo comma sono state aggiunte le parole “delitti di strage, di naufragio,
sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e
sequestro di persona. L'ultimo comma dell'articolo 53 fa riferimento a ulteriori ipotesi di uso legittimo della
coazione fisica; vanno ricordate alcune speciali disposizioni in tema di repressione del contrabbando,
espatrio clandestino, evasione detenuti, eccetera.
9. STATO DI NECESSITA’
Caso 27: i componenti di una famiglia napoletana virgola in condizioni economiche disperate in precario
stato di salute, occupano un appartamento vuoto di proprietà dell’istituto autonomo case popolari subito
dopo essere stati improvvisamente sloggiati dalla loro abitazione pericolante.
Caso 28: alcuni agenti del NOCS virgola dopo avere catturate posti in arresto cinque “brigatisti rossi”
responsabili del sequestro di un generale americano, sottopongono a gravi violenze morali e fisiche uno dei
terroristi arrestati per ottenere informazioni ritenute necessarie a salvare il paese dal pericolo
dell’eversione.
In ipotesi di Stato di necessità si agisce per sottrarsi al pericolo di un danno grave alla persona e l'azione
difensiva ricade non già su di un aggressore, bensì su di un terzo estraneo, vale a dire su di una persona che
non ha provocato la situazione di pericolo. Per molto tempo la dottrina ha considerato lo stato di necessità
come causa di esclusione della colpevolezza , ma una ricostruzione unitaria in chiave soggettiva del
fondamento della scriminante è di ostacolo l’equiparazione di disciplina tra azione necessitata diretta a
porre in salvo bene dello stesso gente e quella diretta invece difendere un bene di una terza persona
(cosiddetto ricorso di necessità). L'idea della inesigibilità psicologica di una condotta diversa può giustificare
la non punibilità di chi agisca pur mettendo in salvo se medesimo, un congiunto, ovvero una persona
effettivamente vicina, ma non sarebbe in grado di spiegare perché debba andare esente da pena colui il
quale agisce in modo necessitato per salvaguardare un estraneo o uno sconosciuto. Si comprende allora, la
ragione giustificatrice della scriminante viene fatta risiedere nella mancanza di interesse dello Stato a
salvaguardare l'uno o l'altro dei beni in conflitto. In base al principio del bilanciamento degli interessi è
necessario che il bene sacrificato sia di rango inferiore o equivalente o di poco superiore rispetto a quello
salvato. Sul piano strutturale lo stato di necessità presenta forte analogia con la legittima difesa, ma se ne
differenzia per due elementi fondamentali: l'azione necessitata si dirige non contro l’autore di
un'aggressione ingiusta, ma contro un individuo innocente; e l'azione giustificata non deve tendere a
salvaguardare un qualsiasi diritto come nella difesa legittima, ma deve mirare a scongiurare il pericolo
attuale di un danno grave alla persona. Il pericolo deve essere attuale, ma va comunque precisato che non
sempre il criterio temporale consente una corretta determinazione dell'attualità del pericolo. Non di rado,
è opportuno agire anticipatamente per impedire l'aggravamento delle potenzialità lesive insita nella
situazione pericolosa. L'articolo 54 richiede che il pericolo sia inoltre non volontariamente causato, né
altrimenti evitabile: nello stato di necessità si ledono gli interessi non di un aggressore virgola bensì di un
terzo incolpevole. Se l'ambito di operatività dell'articolo 54 va circoscritto in considerazione della posizione
di terzo innocente di chi subisce il danno derivante dalla condotta necessitata, è giusto non riconoscere la
causa di giustificazione quando l’agente che si trova in pericolo abbia contribuito colpevolmente, e quindi
responsabilmente, alla sua verificazione. L' esplicita menzione dell'inevitabilità sta ad indicare che
nell’ambito dello Stato di necessità non solo può scriminare solo la condotta che arrechi il minor danno al
terzo coinvolto senza sua colpa, ma che la valutazione dell'inevitabilità stessa deve essere effettuata con
criteri più rigorosi che non nella legittima difesa. La Cassazione giunge a ritenere inapplicabile l'articolo 54
nei casi di bisogno economico: la motivazione riguarda i bisognosi. Per verificare se una data condotta sia
veramente necessaria o no a scongiurare il pericolo di danno occorre accertare se queste condotte
alternative posseggono in concreto pari o analoga idoneità a porre in salvo il bene in questione. Il pericolo
deve avere ad oggetto un danno grave alla persona. Alcuni autori tendono a circoscrivere il danno grave
alla persona alla morte e alla lesione grave, per cui fanno rientrare nell’area di tutela dell'articolo 54 i soli
beni della vita della dell'integrità fisica; ma la maggior parte degli autori appare oggi propenso a dilatare il
novero dei beni di natura personale, fino includervi quelli relativi alla personalità morale dell'uomo. Ora il
concetto è idoneo a ricomprendere qualsiasi lesione minacciata a un bene personale giuridicamente
rilevante, si tratti di bene tutelato nell'ambito penale, o in quello extrapenale. La gravità del danno può
essere determinata mediante un duplice indice: o considerando l'eventuale rango del bene minacciato
oppure tenendo conto del grado di pericolo che combe sul bene. Il giudizio di proporzione deve avere ad
oggetto il rapporto di valore tre bene confliggenti: in questo senso sussiste il rapporto di proporzione tra
fatto e pericolo. Per superare quest’ottica ristretta, occorre integrare il raffronto del valore dei beni con
l'’esame comparativo dei rischi rispettivamente incombenti sul bene da salvaguardare e su quello del terzo
che viene aggredito: da questo esame comparativo può infatti risultare che al maggior rango dell'uno
corrisponde un inverso rapporto di misura nel grado dei rispettivi pericoli. Il 1° comma dell'articolo 54
contempla anche l'ipotesi del cd soccorso di necessità, la quale ricorre se l'azione necessitata è compiuta
non dallo stesso soggetto minacciato, ma da un terso soccorritore. Il 2° comma dell'articolo 54 stabilisce
che la scriminante dello Stato di necessità non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi
al pericolo: un esempio sono i vigili del fuoco. Si deve ritenere che la scriminante sia applicabile se chi ha un
particolare dovere di esporsi al pericolo realizza un’azione necessitata per salvare non se stesso, ma terzi in
pericolo. L'ultimo comma dell'articolo 54 estende l'ambito di operatività della causa di giustificazione in
esame ai casi in cui lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia. Si tratta delle ipotesi della cd
coazione morale, esemplificata dal caso dell’automobilista che provoca un incidente perché spinto a
correre sotto la minaccia di una pistola. Un’efficacia scriminante della coazione morale deve ritenersi
subordinata all' esigenza di tutti i requisiti dello Stato di necessità come fin qui esaminati. Rimane da
precisare che, sul piano delle conseguenze sanzionatorie, lo stato di necessità si differenza dalla legittima
difesa. Infatti, ai sensi dell'articolo 2045 del codice civile, in caso di Stato di necessità al danneggiato è
dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.
1. PREMESSA
Perché sia punibile il fatto commissivo deve essere non solo tipico e anche antigiuridico, ma anche
colpevole: la colpevolezza è dunque il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato. L'affermazione
del principio penalistico nulla poena sine culpa presuppone l'accettazione, anche implicita, di un modello di
personalità umana come entità costitutiva da più strati posti il rapporto di successione evolutiva. Il
presupposto è che l'uomo sia in grado, grazie ai suoi poteri di signoria, i cosiddetti strati superiori della
personalità, di controllare gli istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno in base alle scelte fra diverse
possibilità di condotta, nonché di orientarsi secondo sistemi di valori. Il ruolo centrale del principio di
colpevolezza è confermato dalla sua rilevanza costituzionale dell'articolo 27 comma 1° della costituzione. Il
legislatore costituzionale ha espresso il principio secondo cui l'applicazione della pena presuppone la
attribuibilità psicologica del singolo fatto di reato alla volontà ante doverosa del soggetto. L' imputazione
del fatto criminoso deve considerarsi conforme al principio di personalità, a condizione che il fatto stesso
sia attribuibile all'autore almeno a titolo di colpa. Il ruolo indefettibile della colpevolezza è altresì
confermato dal collegamento sistematico tra il comma uno e il comma tre dell'articolo 27, che sancisce il
finalismo rieducativo della pena. È la stessa Corte costituzionale a riconoscere il rapporto tra colpevolezza e
rieducazione. La categoria della colpevolezza rappresenta la sede cui spetta la funzione di racchiudere i
presupposti della attribuibilità soggettiva del fatto criminoso. L'idea di colpevolezza presuppone il rifiuto
della responsabilità per l'evento (responsabilità cd oggettiva). Il rimprovero di colpevolezza implica che si
presupponga come esistente una possibilità di agire diversamente da parte del soggetto cui il fatto viene
attribuito. In tema di colpevolezza sono riscontrabile diverse forme di partecipazione interiore al fatto:
distinzione tra dolo, cioè volontarietà del fatto, e colpa, cioè involontarietà del fatto. Da qui consegue che
deve sussistere un rapporto di proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta
sanzionatoria: la sanzione penale deve essere proporzionata o commisurata al grado della partecipazione
interiore del soggetto. In un diritto penale ispirato ai principi oggettivi di materialità e lesività, la
colpevolezza può solo significare colpevolezza per il fatto e per aver commesso un fatto lesivo di un bene
realmente protetto. È inammissibile la figura della colpa d'autore, nella duplice versione della colpevolezza
per il carattere e della colpevolezza per la condotta di vita. Tradizionalmente, il concetto di consapevolezza
si contrappone a quello di pericolosità sociale: il primo, concerne soltanto i soggetti capaci di intendere e di
volere ed esprime un rimprovero per la commissione di un fatto delittuoso; il secondo invece, privilegia la
personalità dell'autore e far riferimento alla probabilità che l'autore continua a delinquere in futuro.
Quindi, mentre la colpevolezza costituisce il presupposto dell'applicazione della pena in senso stretto, la
pericolosità giustifica l'applicazione di una misura di sicurezza.
2. CONCEZIONI DELLA COLPEVOLEZZA PSICOLOGICA
Le concezioni della colpevolezza appaiono storicamente influenzate da ragioni dogmatiche interne alla
costituzione e da presupposti desunti sia dal generale contesto politico-ideologico ma anche dal modo di
intendere gli scopi e le funzioni del diritto penale. La prima concezione della colpevolezza, cosiddetta
psicologica, risulta influenzata dal liberalismo dominante nel secondo 800 e viene propugnata dei nostri
penalistica classici. Secondo la teoria in esame la colpevolezza consiste in una relazione psicologica tra fatto
e autore. La colpevolezza è intesa come concetto di genere ricomprendendo sia dolo che colpa. La
concezione psicologica esprime l'esigenza di circoscrivere la colpevolezza all'atto di volontà relative al
singolo reato, a prescindere da ogni valutazione della personalità complessiva dell’agente e del processo
motivazionale che sorregge la condotta. L'imposizione è andata incontro a due obiezioni di fondo. Essa non
riesce a fornire un concetto superiore veramente in grado di ricomprendere il dolo e la colpa: mentre infatti
il dolo consta di coscienza e volontà come atteggiamenti psicologici effettivi, ad integrare la colpa sono
sufficienti anche atteggiamenti psicologici potenziali. La concezione psicologica sul piano funzionale, poi,
non valorizza tutte le potenzialità della colpevolezza come elemento della responsabilità penale,
soprattutto perché non tiene conto delle diverse motivazioni che includono a delinquere.
4. ORIENTAMENTI ATTUALI
Nel passato la colpevolezza era legata alla teoria retributiva perché La retribuzione, congenita come
reazione afflittiva al male commesso, presuppone, logicamente, una colpevolezza da annullare. L'entrata in
crisi della tradizionale concezione retributiva della pena, dovuta ad un complesso di fattori che vanno dal
fallimento della prassi penale ad essere ispirata allo stesso orientamento interventista dello Stato sociale di
diritto che si preoccupa sempre più di rimuovere le cause della delinquenza, solleva il problema di una
nuova giustificazione delle categorie della colpevolezza. una volta accertata la colpevolezza virgola in
quanto serve a distogliere altri da commettere reati ovvero impedire che lo stesso autore del fatto torni a
delinquere si parla di prevenzione speciale. Secondo una parte della dottrina contemporanea, la
colpevolezza quale presupposto del reato riceve oggi una rinnovata legittimazione proprio grazie al suo
rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventiva della pena. La funzione individual garantistica
della colpevolezza risalta con evidenza ancora più spiccata sul terreno della commisurazione giudiziale della
pena e cioè nella fase in cui il giudice stabilisce il concreto trattamento punitivo da infliggere al condannato.
In materia di colpevolezza come presupposto a garanzia della libertà di scelta individuale bisogna
determinare il ricorso a forme di responsabilità oggettiva se siano idonee o meno a rafforzare la funzione
generale preventiva della pena, ne deriva allora questa importante conseguenza: la prevenzione generale
non implica, come condizione indefettibile, la colpevolezza quale presupposto del reato. Fa accordata alle
esigenze di prevenzione sarebbe così netta, da far passare ingiustificatamente in secondo piano un esigenza
tipica di ogni moderno stato di diritto: l'esigenza cioè di salvaguardare il singolo da interventi che
predispongono il grado di colpevolezza del reo in questo contesto collegare l' autonomia e la dignità della
singola persona umana si parla di strumentalizzazione per fini di politica criminale. Il principio di
colpevolezza assolve dunque una funzione limitativa della punibilità in sede di commisurazione giudiziale
della pena perché il rispetto è esso dovuto vieta, pur nel perseguire scopi di prevenzione generale e/o
speciale, di infliggere pene di ammontare superiore al limite massimo corrispondente all' entità della
colpevolezza individuale. Un altro punto su cui verte l'attuale disputa concerne la portata dei limiti della
possibilità di agire diversamente come presupposto del rimprovero di colpevolezza. Insistono sull’ esigenza
di valutare la capacità individuale di agire diversamente, coloro i quali non senza ragione il temono che il
riferimento all'uomo medio sottragga al giudizio di colpevolezza ogni fondamento reale, con la
conseguenza di trasformare la colpevolezza stessa in una categoria vuota di contenuto perché
completamente asservita ad esigenze di prevenzione. Se la colpevolezza è priva di requisiti positivi
autonomi virgola e se alcuni de presupposto che dovrebbero integrarla vengono ricostruiti alla stregua
degli scopi preventivi della pena è veramente credibile che la stessa colpevolezza possa svolgere come
invece si pretenderebbe il ruolo di presidio della libertà e dignità della persona nei confronti di un
eventuale politica criminale illiberale.
1. PREMESSA
Caso 29: una giovane madre di un bambino in tenera età, afflitta da problemi esistenziali e familiari, decide
di suicidarsi gettandosi in una cosiddetta marrana assieme al figlio punto il figlio le sfugge di mano ed
annega mentre la donna viene tratto in salvo appunto sottoposta a perizia psichiatrica, la madre risulta
affetta da una malattia mentale la cosiddetta depressione reattiva virgola molto grave ma dalla prognosi
favorevole.
Caso 32 : una giovane donna affettivamente immatura e con rigidissimi meccanismi di difesa diretti a
negare la realtà, dopo aver psicologicamente rimosso il suo stato di gravidanza nel periodo della
gestazione, sopprime al momento del Parto il neonato mediante una condotta non controllata dalle
funzioni superiori dell'io la cosiddetta reazione a cortocircuito.
La colpevolezza presuppone una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione, allora
l'imputabilità costituisce la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e
antigiuridico commesso dalla gente. L'odierno giurista, attento alla prospettiva scientifica delle moderne
scienze sociali, è ormai ben consapevole che la volontà umana è soggetta molteplici condizionamenti : una
volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio virgola non
esiste punto la volontà umana può definirsi libera in un' accezione meno pretenziose più realistica, nella
misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un
determinato modo, ma riesca a esercitare poteri di inibizione controllo idonei acqua in sentirli scelte
consapevoli tra motivi antagonistici. Una simile libertà relativa o condizionata presenta, gradazioni diverse
in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, che il soggetto subisce prima di agire: quando più
forte la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti quella delle pulsioni, tanto più difficile risulterà allo
sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo e viceversa. L' imputabilità come categoria penalistica alla
base giustificazioni diverse punto ed invero questo nesso cresce quanto più si accentui la dimensione
normativa della colpevolezza virgola e rimprovero non avrebbe infatti senso se rivolto a soggetti del tutto
privi della possibilità di agire diversamente. Il fondamento penalistico dell'imputabilità ed a maggior
ragione rinvenibile sul terreno delle funzioni della pena. Se la minaccia delle sanzioni punitive deve
esercitare un'efficacia generale preventiva un necessario presupposto è che i destinatari siano
psicologicamente in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Questa motiva abilità normativa,
intesa come attitudine a recepire l'appello della norma penale, non è presente allo stesso modo in tutti gli
individui punto la limitazione del trattamento punitivo in senso stretto ai soli soggetti ecologicamente
maturi, d'altra parte, continua a riflettere la concezione socialmente dominante della responsabilità
umana: la coscienza sociale avvertirebbe, ancora oggi, come ingiusta la sottoposizione appena di chi non è
campos sui.
2. LA CAPACITA’ DI INTENDERE E VOLERE
L'articolo 85 del codice fissa i presupposti dell'imputabilità nella capacità di intendere di volere: tale duplice
capacità deve sussistere al momento della commissione del fatto che costituisce reato. Lo stesso legislatore
puntualizza la disciplina dell’istituto attraverso il riferimento ad alcuni parametri legalmente
predeterminati: l'età del soggetto e l'assenza di infermità mentale o di altre condizioni capaci di incidere
sull’autodeterminazione responsabile dell’agente. Quanto al concetto di capacità di intendere di volere, è
appena il caso di precisare che esso va inteso come necessariamente comprensivo di entrambe le attitudini:
ma imputabilità difetta se manca anche una sola capacità. Va ancora osservato che la menzione legislativa
separata dalla capacità di intendere e dalla capacità di volere, considerata alla stregua delle moderne
conoscenze psicologiche, suscita riserve. Considerata l'estrema genericità della formula capacità di
intendere e di volere, è poi evidente il rischio che ogni tentativo di definire in positivo questi concetti si
risolva in una esplicitazione pressoché tautologica. La capacità di intendere può continuare a essere definita
come l'attitudine ad orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà. La
capacità di volere invece consiste nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il
motivo che appare più ragionevole o preferibile in base a una concezione di valore: è attitudine a scegliere
in modo consapevole tra motivi antagonistici.
3. MINORE ETA’
Precisamente l'articolo 97 dispone che non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva compiuto i 14 anni: è stata così introdotta una presunzione di incapacità di natura assoluta perché
non è ammessa la prova in contrario. Rispetto ai minori ricompresi tra i 14 e 18 anni, l'articolo 98, comma
1° dispone che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto 14 anni, ma non
ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere; Ma la pena è diminuita: non esiste dunque alcuna
presunzione legale né di capacità né di incapacità, ma è il giudice a dovere in concreto accertare volta per
volta se il minore sia imputabile o no. La giurisprudenza dominante attribuisce al concetto di imputabilità
minorile un carattere relativo, nel senso che la maturità del minore viene concretamente accertata in
relazione alla natura del reato commesso. La capacità d'intendere e di volere è invece presunta dal
legislatore al compimento del diciottesimo anno di età: si tratta di una presunzione relativa, perché la
capacità è esclusa o diminuita in presenza del vizio totale o parziale di mente delle altre cause
legislativamente previste.
4. INFERMITA’ DI MENTE
L'articolo 88 stabilisce che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per
infermità virgola in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere. Lo stretto rapporto,
stabilito dal legislatore tra inimputabilità e infermità incidente sullo stato mentale, solleva complessi
problemi interpretativi e di accertamento giudiziale. La complessità e la delicatezza dell’accertamento sono
acutizzate dalla circostanza che la stessa scienza psichiatrica e da alcuni anni attraversata da una crisi
d'identità, per cui anche nel suo ambito il concetto di malattia mentale è tutt'altro che univoco. Dal punto
di vista definitorio, si pone il problema di stabilire se il termine infermità adottato dall’articolo
precedentemente citato sia o no equivalente a quello di malattia. Nel suo significato letterale, l'infermità è
concetto più ampio perché ricomprende nel suo ambito anche disturbi psichici di carattere non
strettamente patologico. D'altra parte, la tesi della maggior ampiezza del concetto di infermità riceve
sostegno se si considera lo scopo sotteso alle norme sull’imputabilità. È da precisare che l'infermità, cui
fanno espresso riferimento gli articoli del codice può avere origine anche da una malattia fisica, sia pure a
carattere transitorio, purché produttiva di vizio di mente, ad esempio uno stato febbrile. A sostegno di una
simile conclusione è conducibile un argomento letterale: i predetti articoli parlano non già di infermità
mentale, bensì genericamente di infermità tale da provocare uno stato di mente che esclude l’imputabilità.
A differenza dell'indirizzo medico di attribuire significato patologico anche alle alterazioni mentali atipiche,
esemplificate dalle psicopatie: si tratta cioè di disarmonia della personalità che virgola in presenza di
condizioni di particolare gravità, bloccano le controspinte inibitorie del soggetto e le impediscono di
rispondere in maniera critica agli stimoli esterni. Tipiche delle psicopatie sono ad esempio le cosiddette
reazioni a cortocircuito determinate dal caso 30.
Merita di essere apprezzata positivamente l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità allorchè ha deciso
che anche disturbi della personalità virgola che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle
malattie mentali, possono rientrare è il concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e
gravità tali da incidere concretamente sulla capacità d'intendere o di volere. un discorso in parte analogo
vale rispetto agli stati emotivi e passionali. L'articolo 90 stabilisce espressamente che gli Stati emotivi o
passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità punto una disposizione così rigorosa riflette
l'equivalenza tra infermità escludente l'imputabilità e malattia mentale in senso stretto; E, in secondo
luogo, si spiega con la preoccupazione politico criminale di evitare di dichiarare incapace di intendere e di
volere ogni autore di delitto impulsivo. La rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali può essere
ammessa soltanto in presenza di due condizioni: che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifestino
una personalità per altro verso già debole; e che lo stato emotivo passionale assuma, significato e valore di
infermità sia pure transitoria come ad esempio uno sconquasso emotivo. Il codice distingue diversi gradi del
vizio di mente. In base al disposto dell'articolo 88, il vizio di mente è totale se l'infermità, di cui il soggetto
soffre al momento della commissione del fatto tale da escludere del tutto la capacità di intendere e di
volere. La capacità di intendere e di volere può essere completamente esclusa anche da un’infermità
transitoria, purché sia sempre tale da far venire meno i presupposti dell'imputabilità: è l'ipotesi
esemplificata dal caso 29. Nella prassi applicativa si propende per una possibile affermazione di
responsabilità nei cosiddetti intervalli di lucidità: ciò tutte le volte in cui sia accertabile uno stato di lucidità
sufficientemente avulso dall' influenze che è la malattia può esercitare sulla psiche complessiva
dell’individuo. A seguito dell’abolizione della pericolosità presunta, all' imputato prosciolto per vizio totale
di mente la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario può essere applicata
soltanto previo accertamento concreto della sua pericolosità sociale. La capacità di intendere e di volere è
diminuita in presenza di un vizio parziale di mente. La distinzione tra forma totale e parziale di vizio di
mente è affidata a un criterio non qualitativo, ma quantitativo, prendendo la legge in considerazione il
grado e non l'estensione della malattia mentale. Vizio parziale, dunque è quello che investe tutta la mente
ma in misura meno grave. Ai fini dell’accertamento dell’imputabilità diminuita, sono da respingere gli
schematismi rigidi: non esistono forme che comportano sempre l'infermità totale o parziale ma solo un
apprezzamento quantitativo delle infermità che deve essere effettuata in concreto caso per caso. Secondo
la giurisprudenza, il vizio parziale di mente è compatibile con le aggravanti della premeditazione e dai
motivi abbietti e futili, come pure con l'attenuante della provocazione e con le circostanze attenuanti
generiche. Sul piano sanzionatorio, il vizio parziale di mente comporta una diminuzione della pena.
5. UBRIACHEZZA E INTOSSIFICAZIONE DA STUPEFACENTI
I fenomeni dell'etilismo e dell’intossicazione da stupefacenti sono presi in considerazione dal legislatore
penale perché non di rado contribuiscono alla genesi del crimine il codice Rocco ha finito con l'accentuare
le preoccupazioni preventivo repressive suscitate da due fenomeni. Il codice prevede un trattamento
articolato in base alla causa dello Stato di ubriachezza. A) l'ubriachezza esclude l'imputabilità solo se dovuta
a caso fortuito o forza maggiore; se l'ubriachezza dovuta a tali cause e tali da far scemare la capacità di
intendere e di volere la pena è diminuita: questa ipotesi va sotto il nome di ubriachezza accidentale perché
la perdita, totale o parziale, della capacità di autocontrollo è determinata o da un fattore del tutto
imprevedibile o da una forza esterna. La medesima disciplina vale per l'intossicazione accidentale da
stupefacenti.
B) non fa scemare invece, né esclude l'imputabilità l'ubriachezza volontaria o colposa: questa disciplina
prevista anche per l'intossicazione da stupefacenti è quella che ha dato più luogo a discussioni. La ratio
della disposizione è molto evidente: chi si è ubriacato volontariamente o per leggerezza, non può
pretendere di accampare scuse: se realizza un reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di
intendere e di volere. Una parte della dottrina meno recente, riproponendo fondamentalmente lo schema
dell'actio libera in causa, sosteneva che per cercare l'elemento psicologico del reato commesso dal
l'ubriaco, occorre stabilire al momento nel quale egli si pone in condizione di ebrietà: per cui il reato
sarebbe doloso o colposo a seconda che l'ubriaco si sia ubriacato volontariamente o involontariamente.
Dunque, è facile obiettare che in questo modo si confonde lo stato psicologico che provoca la condizione di
ubriachezza con quello che accompagna la successiva commissione dello specifico reato. Si comprende
perciò, come l'orientamento in atto dominante propenda per una soluzione diversa: si ritiene che il dolo o
la colpa dell’ubriaco vadano accertati con riferimento al momento nel quale reato in questione viene
commesso. L'ubriaco in realtà si trova in una condizione psicologica che non gli consente una sufficiente
capacità di discernimento e di autocontrollo. Il dolo dell'ubriaco equivarrà ad impulso psicologico
volontario, a volontà cieca, non a quella volontà veramente consapevole che indicherà che integra il dolo
autentico; Allo stesso modo, la colpa dell'ubriaco si ridurrà era violazione il di una misura oggettiva del
dovere di vigilanza difficilmente superabili.
D)L' ubriachezza abituale virgola e lo stesso vale per l'abituale intossicazione da stupefacenti virgola non
solo non esclude o diminuisce l'imputabilità, ma comporta un aumento di pena, nonché la possibilità di
applicare la misura di sicurezza della casa di cura o di custodia o della libertà vigilata. L' abitualità è
subordinata al ricorrere dei due presupposto della dedizione all'uso eccessivo di bevande alcoliche e del
frequente stato di ubriachezza o di intossicazione. L'ubriaco abituale è visto in parte come un vizioso che
deve rispondere per la stessa condotta di vita, cosiddetta colpevolezza per la condotta di vita virgola e in
parte come soggetto bisognoso di trattamento riabilitativo.
E) I compilatori del codice, mossi dall’esigenza di arginare il duplice vizio dell’alcolismo e della tossicomania,
hanno stabilito che tanto l'uno che l'altro possono arrivare ad escludere, o far scemare grandemente la
capacità di intendere e di volere, soltanto nel caso estremo di cronaca intossicazione. è definibile
intossicazione cronica da alcolismo quella che provoca alterazioni patologiche permanenti, tali da far
apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica. Criticabile risulta
l'equiparazione legislativa tra cronica intossicazione da alcol e cronica intossicazione da sostanze
stupefacenti: convince poco l'assunto che pretende di ravvisare nell’intossicazione da stupefacenti le stesse
caratteristiche riscontrabili nell’intossicazione da sostanze alcoliche. Ricerche condotte in campo medico
psichiatrico dimostrano che la capacità d'intendere e soprattutto di volere del tossicodipendente è già
gravemente compromessa nella situazione di dipendenza psico fisica da sostanza stupefacente,
contrassegnata dall’insorgere della cosiddetta sindrome di astinenza.
6. SORDISMO
Il codice penale prevede un'apposita disciplina del sordismo sul presupposto che la mancanza di udito e di
parola pregiudichi la capacità di autodeterminazione responsabile dell’individuo. L'articolo 96 stabilisce il
principio per cui tanto l'incapacità, quanto la capacità devono formare oggetto di concreto accertamento
del giudizio. Si accerta che il sordo al momento della commissione del fatto era capace nonostante la sua
affezione congenita, l'imputabilità non è esclusa, mentre lo è in caso contrario. L’articolo 96 non può essere
applicato nei casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistono entrambe le affezioni punto
si distinguono poi un sordo ismo congenito o precocemente acquisito virgola che ostacola gravemente lo
sviluppo psichico e un sardismo tardivamente acquisito, che cioè insorge in una fase successiva
all'apprendimento del linguaggio e che può lasciare integro il patrimonio linguistico già conseguito. Anche
se il testo dell'articolo 96 non opera distinzioni, sembra che la disposizione faccia soprattutto riferimento ai
sordi dalla nascita o prima dell’infanzia.
1.PREMESSA
Nella trattazione della colpevolezza riveste un ruolo fondamentale la problematica dell'errore. Ed
infatti, se la volontà colpevole presuppone la conoscenza degli elementi costitutivi del fatto
criminoso, la mancata o falsa rappresentazione di uno o più requisiti dell' illecito penale avrà come
effetto di escludere la punibilità. Anche nell'ambito del diritto penale è radicata la tradizionale
distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto. All'errore è equiparata l'ignoranza, in quanto sia
la mancanza di conoscenza, sia l' erronea conoscenza di un dato elemento provocano il medesimo
effetto psicologico. Distinto dall’ errore o dall’ ignoranza è lo stato di dubbio: finché il soggetto
versa l' incertezza circa la presenza ,l'assenza di determinati requisiti di fattispecie , mancano i
presupposti sia di una conoscenza del tutto esatta, figlia di un vero e proprio errore. Il diritto
penale, particolarmente complesso è il problema dell'errore di diritto. Quest'ultimo si distingue in
errore sul precetto penale e in errore su norma extrapenale. L'errore sul precetto, che cioè ricade
sulla norma incriminatrice, ha ad oggetto l'illiceità penale del fatto. Si consideri il caso in cui Tizio
provoca la morte di un feto vivo, credendo che quest'ultimo non rientri nel concetto di uomo
quale soggetto passivo del delitto di omicidio. L’ errore su norma extrapenale ha invece ad oggetto
una norma diversa da quella penale incriminatrice: ad esempio Tizio era nell’ interpretazione della
legge civile che disciplina il matrimonio, e si ipotizzi che questo errore in gira sulla sua
consapevolezza di compiere un fatto conforme al delitto di bigamia; perché questa specie di
errore scusi è necessario, conformemente al disposto dell'articolo 47, comma 3°, che esso si
risolva o converta in un errore sul fatto di reato: occorre cioè e la gente ne risulti fuorviato al
punto tale da non essere consapevole di compiere un fatto materiale conforme a quello previsto
dalla legge.
Caso 32: un uomo si congiunge carnalmente con una ragazza minore di 14 anni, che egli ha per
errore ritenuto almeno sedicenne a causa del notevole sviluppo fisico.
Le prove di fatto costituiscono il rovescio della componente conoscitiva del dolo. L'errore può
derivare da ignoranza o falsa rappresentazione della situazione di fatto nella quale il soggetto si
trova ad agire: tanto la mancanza assoluta di conoscenza di un elemento rilevante del fatto
concreto, quanto l' erronea rappresentazione di esso possono, egualmente sfociare nell’ effetto di
impedire a chi agisce di rendersi conto del significato della sua condotta. Questa forma di errore
prende anche il nome di errore motivo: come tale va distinto dall' errore inabilità. L'articolo 47,
comma 1 °, del codice stabilisce: l'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità della
gente. Sia l'errore che l'ignoranza devono vertere su elementi essenziali del fatto: cioè su
elementi, la mancata conoscenza dei quali impedisce che il soggetto si rappresenta un fatto
corrispondente al modello legale. E’ questo ad esempio il caso 31 del bracconiere : l'errore qui
scusa perché l'omicidio doloso presuppone che la gente sia consapevole di dirigere l'azione contro
l'uomo, essendo la qualità di uomo requisito essenziale del soggetto passivo del reato. Sono invece
errori di regola irrilevanti quelli conseguenti allo scambio tra soggetto oppure tra oggetti, che
rivestono una posizione equivalente sul piano della fattispecie incriminatrice. O lo scambio di
persone od oggetti che occupano rango diverso di fronte al diritto, l'errore può avere invece come
effetto di far venir meno il reato, ovvero di far scattare l' applicabilità di una diversa figura
criminosa o ancora di incidere sul regime delle circostanze aggravanti. E’ da ritenere irrilevante
l'errore sul nesso causale, almeno finché la divergenza tra decorso causale prefigurato e decorso
causale effettivo non sia tale vola da far escludere che l'evento costituisca pur sempre
realizzazione dello specifico rischio insito nell’ iniziale azione del soggetto. L'errore di fatto non
esclude necessariamente la responsabilità penale: può residuare una responsabilità a titolo di
colpa, purché de sussistano i presupposti. Primo presupposto è che l' errore di percezione sia
rimproverabile ; Secondo è che il fatto sia espressamente preveduto dalla legge come delitto
colposo. Particolari problemi suscita il trattamento dell' errore del soggetto imputabile
condizionato ed errore non condizionato. In mancanza di espressa indicazioni normative, è da
ritenere che l'errore condizionato non abbia rilevanza scusante : diversamente si perverrebbe all'
inaccettabile conseguenza di rendere inapplicabile la misura di sicurezza propria nei casi in cui il
soggetto può a causa della sua malattia risultare socialmente pericoloso. La disciplina normativa
dell'errore presenta alcune peculiarità in materia di reati sessuali in particolare con riferimento all'
ignoranza o all'errore del colpevole circa l'età della persona offesa come nel caso 32. La Corte
costituzionale con la sentenza numero 322/2007 ha finito con riconosce uno spazio alla rilevanza
scusante dell’errore sull’ età della persona fisica, estendendo a questa specifica ipotesi i principi in
materia di ignorantia legis elaborati con la fondamentale sentenza n. 364/1998. Meno pacifica
risulta la disciplina dell'errore che ricada su elementi degradanti il titolo di reato. L'esempio
classico è quello del soggetto che cagiona la morte di una persona, nella sua posizione erronea che
la vittima abbia prestato il suo consenso all' uccisione.
A) l'errore su legge extrapenale avrà sempre efficacia scusante ove si converta in un errore sui
cosiddetti elementi normativi della fattispecie penale, cioè elementi per la definizione dei quali
soccorre rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice.
B) Un'altra soluzione adottata per gli elementi normativi di natura giuridica deve essere estesa al
trattamento degli elementi normativi di natura e dico sociale.
C) L'errore può escludere la responsabilità anche quando ricada su di una norma extrapenale
integratrice di una norma penale in bianco.
D)L'errore può infine ricadere su di una norma extrapenale che in concreto rileva ai fini della
valutazione del significato di un elemento costitutivo del fatto, pur non instaurandosi però sul
piano della fattispecie astratta un rapporto di richiamo espresso può essere ad esempio il caso
dell’errore del genitore sulle norme fiscali.
5. REATO PUTATIVO
L'articolo 49, comma primo, stabilisce che non è punibile chi commette un fatto non costituente
reato, nella sua posizione erronea che esso costituisca reato. È la situazione che va
tradizionalmente sotto il nome di reato putativo, cioè un fatto criminoso immaginato da chi
agisce, ma di fatto inesistente. L'errore sul fatto può derivare, oltre che da un errore di fatto anche
da un errore su legge extrapenale. Nel secondo caso, e cioè in quello di errore su norma penale, si
ipotizzi che è un soggetto continua a supporre che costituisca reato l'adulterio, ovvero ritengo che
costituisca illecito penale un rapporto omosessuale. È vero che l'autore di un reato putativo può
rivelare un’ inclinazione soggettiva a delinquere, idonea ad assurgere a eventuale indice di
pericolosità sociale.
1. ERRORE- INVALIDITA’
Caso 34: Tizio, nell’ aggredire mortalmente Caio, presunto amante della moglie, per errore infligge
colpi di coltello anche a sempronio intervenuto per separare i contendenti.
La divergenza tra voluto e realizzato può dipendere non solo da un errore che incide sul momento
formativo della volontà, ma anche da un errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o da un
errore dovuto ad altra causa. In proposito, l'articolo 82, comma uno, stabilisce che quando, per
errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un'altra causa, è cagionata offesa a persona
diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il
reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze
aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60. E’ l'ipotesi della aberratio ictus mono
lesiva, la quale si verifica per l'appunto quando, a causa di un errore esecutivo, mutano l'oggetto
materiale e il soggetto passivo. Secondo l'indirizzo oggi dominante, la norma in esame sarebbe
superflua in quanto conforme ai principi generali sull’elemento psicologico del reato. L'offesa è
normativamente equivalente a quella voluta dal soggetto, onde il dolo permane proprio perché
per la sua configurazione basta che la gente si rappresenti gli elementi del fatto rilevanti. Questa
tesi appare tuttavia contestabile, ove si privilegi una ricostruzione del dolo che ne salti la completa
dimensione psicologica. Non si tratta di dimostrare l'esistenza di un dolo astratto, riferito cioè ad
un qualsiasi evento lesivo purché dello stesso tipo di quello previsto dalla fattispecie
incriminatrice. Presupposto di una siffatta qualificazione e la reale congruenza fra voluto e
realizzato. Il soggetto agente voleva colpire un bersaglio ben determinato, ma non lo ha colpito,
per cui il contenuto della volontà colpevole non si è tradotto in realizzazione. Se si dibatte sul
titolo di attribuzione della responsabilità, si riconoscono però senza contrasti che il vero elemento
di novità introdotto dalla disposizione in esame concerne l'inciso, salve, per quanto riguarda le
circostanze aggravanti e attenuanti: in questo modo si applica, infatti, una disciplina delle
circostanze orientata al principio della prevalenza del putativo sul reale. Dispone il secondo
comma dell'articolo 82 che qualora oltre alla persona diversa sia offesa anche quella alla quale
l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita, aumentata fino alla metà appunto
questa ipotesi è esemplificata dal caso 34. Si parla di aberratio ictus plurilesiva e si pone il
problema relativo ai criteri di attribuzione della responsabilità appunto la norma non richiede ai
fini dell attribuzione dell' ulteriore dentro non voluto virgola che si accetti l'esistenza di un agire
colposo: così nel caso 34, tizio risponderà le ferite di sempronio anche se per l'errore esecutivo in
cui è in corso può essere rimosso alcun rimprovero di imprudenza punto il trattamento penale
dell' aberratio plurilesiva, ispirato alla preoccupazione di rafforzare la risposta punitiva rispetto ad
azioni particolarmente pericolose, appare molto rigoroso.
2. ABBERATIO DELICTI
Caso 35: uno scioperante lancia un sasso contro un autobus ma, a causa di un errore nel tiro,
colpisce alla testa un passante.
Caso 36: un giovane, nel congiungersi carnalmente con una minore di anni 14, le procura lesioni
personali (strappo delle tribulazione degli organi genitali).
Stabilisce il primo comma dell'articolo 83 che fuori dei casi preveduti dall' articolo precedente, se,
per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, si cagiona un evento
diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto, quando il
fatto è preveduto dalla legge come detto colposo. Questo articolo afferma inoltre, che l' evento
cagionato il luogo di quello voluto sta carico della gente a titolo di colpa: vien da chiedersi, però, se
la formula legislativa a titolo di colpa esprima davvero l' intendo di subordinare la punibilità alla
cercata violazione di norme di condotta a contenuto preventivo. Se è vero infatti che le norme
penali hanno una finalità genericamente preventiva, è altrettanto vero che non tutte le norme
penali sanzionano la violazione di regole specificatamente cautelari del tipo di quelle necessarie ad
integrare la responsabilità colposa. Il capoverso dell'articolo 83 prevede che se il colpevole ha
cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso di reati; per cui la gente
risponde di due reati, uno doloso ed uno colposo.
SEZIONE VI: LA COSCIENZA DELL’ILLICEITA’
All'interno della concezione normativa della colpevolezza, gioca un ruolo la coscienza dell' illiceità
concepita come elemento costitutivo autonomo : cioè quale requisito distinto che si aggiunge all'
imputabilità, al dolo o alla colpa e all' assenza di cause di discolpa. L'aspetto veramente nodale
riguarda, però, la portata ed i limiti dell'affermazione, secondo cui non esiste colpevolezza senza
coscienza dell’illiceità. L' accoglimento del principio in esame nella sua più ampia portata trovava
virgola in realtà, la sua razione l'incondizionata prevalenza della legge degli interessi pubblici da
essa rappresentati, rispetto ad una più puntuale valutazione delle condizioni personali che ne
abbiano accompagnato la violazione. L'ordinamento penale moderno, infatti ricomprende accanto
al tradizionale nucleo dei delitti naturali, un numero sempre più crescente di delitti di pura
creazione legislativa regola cioè di tipi di lecito penale che sono tali per volontà del legislatore,
senza che ad essi presi sta una corrispondente e diffusa disapprovazione sociale. La chiave di volta
per un’interpretazione correttiva dell'articolo 5 del codice penale e virgola in verità, rappresentata
dall’articolo 27, comma primo, costituzione, il quale, sancendo il carattere personale della
responsabilità penale, impedisce perciò stesso di ritenere irrilevante la mancata percezione del
disvalore personale inerente al fatto commesso. Per soddisfare l'esigenza costituzionale di una
maggiore compenetrazione tra fatto e autore, mediata dalla coscienza del disvalore penale, non è
però necessario richiedere la rispettiva conoscenza da parte della gente del carattere criminoso
del comportamento. La possibilità di conoscenza del carattere illecito del fatto rende evitabile e,
perciò, inescusabile l'ignoranza l'errore in cui il soggetto è eventualmente cada. Il concetto di
possibilità di conoscenza della legge penale richiama, dunque, due coppie concettuali simmetriche
e opposte: da un lato, evitabilità inescusabilità dell'ignoranza, con conseguente riconoscimento
della colpevolezza e affermazione della responsabilità penale; Dall'altro, inevitabilità scusabilità
dell'ignoranza medesima, cui consegue l'assenza di colpevolezza e l'esclusione della punibilità.
Quello relativo al l'individuazione dei criteri, in base ai quali emettere il giudizio sull’inevitabilità
scusabilità dell'ignoranza errore, è il punto veramente nevralgico per i riflessi pratici. Nel solco
delle indicazioni desumibili dalla sentenza della Corte sono prospettabili: A) criteri soggettivi
cosiddetti puri, che cioè fanno prevalentemente leva sulle caratteristiche personali del soggetto
agente: e cioè, livello di intelligenza e di maturazione della personalità, grado di scolarizzazione e
cultura, ambiente sociale di provenienza;
B) Criteri oggettivi puri, cioè che tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza
della legge penale da parte di ogni consociato, quali che ne siano le caratteristiche personali. C)
Criteri misti, che tengono cioè contemporaneamente conto delle circostanze oggettive che
inducono a ignorare la legge penale e delle caratteristiche personali del soggetto agente. È
opportuno avvertire che il modello esposto di accertamento della inevitabilità scusabilità si presta
ad essere influenzato, nella sua concreta applicazione, dalla concezione della colpevolezza dalla
quale più a Monte si prendono le mosse. Infatti può accadere: a) che l'autore del fatto , prima di
agire, si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico e che,
ciò nonostante, lo realizzi senza adempiere preventivamente l'obbligo di maggiore informazione;
b)può anche accadere che egli non si rappresenti tale possibilità, perché senza dubbio, nessun
pensiero nessuna preoccupazione raffiorino alla sua mente circa il carattere lecito illecito del fatto
da realizzare. La rimproverabilità dell’ ignoranza trova fondamento proprio nel processo
psicologico che si è realmente sviluppato nell’autore. La scusabilità del comportamento è da
escludere anche nel caso di soggettività invincibilità del dubbio è da ammettere nel caso di dubbio
oggettivamente irrisolvibile. Nel caso in cui la colpevolezza gioca un ruolo nella concezione dalla
quale essa si muove il rimprovero da rivolgere al soggetto per aver ignorato il carattere illecito del
fatto e privo di una base psicologica reale. È evidente che un giudizio così normativizzato di
colpevolezza risulta più funzionale alla funzione repressiva e preventiva del diritto penale, con
conseguente arretramento delle preoccupazioni individualgarantiste.
a) così, una parte della dottrina configura come causa di esclusione della colpevolezza lo stato di
necessità e la coazione morale, la gente si trovi sotto la pressione di circostanze esterne che,
impedendogli dal punto di vista psicologico di assumere un comportamento diverso da quello
effettivamente tenuto, farebbero apparire come non più rimproverabile il fatto commesso.
d) alla problematica del conflitto di doveri lato sensu intesa possono essere ricondotte anche le
situazioni caratterizzate da un conflitto tra norma di condotta appartenenti a sfera normative
diverse e autonome, come l'ordinamento giuridico, da un lato e un sistema morale o religioso,
dall’altro. In questo senso si parla anche di illecito o di delinquente per convinzione di alludere a
fatti criminosi avvenuti come motivazione psicologica un convincimento morale, politico o
religioso.
Tra le regole formali che presiedono all' imputazione penale è escludere che la cosiddetta
inesigibilità possa assumere quel ruolo ampiamente scusante ipotizzato da una parte della
dottrina. Se ci si limita ad asserire che un comportamento non è colpevole perché non era esigibile
un comportamento diverso, rimane ancora senza risposta l'interrogativo più importante, che è
quello di sapere perché non si sarebbe potuto giro altrimenti. Secondo l'opinione dottrinale
predominante di natura tedesca, alla non esigibilità non compete più ruolo di causa generale di
discolpa ma proprio spazio viene tutt'oggi riconosciuto all’inesigibilità nell'ambito dei reati colposi
e dei reati omissivi. Il che non deve sorprendere se si considera che in entrambi i modelli delittuosi
l'osservanza del precetto penale presuppone il possesso di determinati requisiti psico-fisici da
parte il soggetto titolare dell'obbligo di condotta. Nell’ambito dei reati dolosi la considerazione
delle circostanze anomali concomitanti, se non vale ad escludere la colpevolezza, verrà ad
attenuare la misura del rimprovero ed inciderà dunque sulla graduazione della pena. Il
riconoscimento di una discrezionalità giudiziale nella determinazione della misura della
colpevolezza trascende il caso particolare dell'illecito per convinzione. La graduabilità in senso
attenuante del giudizio di colpevolezza potrà essere invocata in generale, cioè in tutti quei casi
dove le circostanze dell’agire rendono psicologicamente poco esigibile un comportamento lecito.
A) lo stato di necessità scusante (o cogente) e la coazione morale. Solo nel caso in cui il pericolo di
un danno grave alla persona incombe sullo stesso agente o su un prossimo congiunto, si può
ritenere che una condotta diversa era da parte di chi ha agito psicologicamente inesigibile. La
coazione morale fa riferimento alla situazione di chi compie l'azione criminosa sotto la minaccia
psicologica esercitata da un'altra persona.
B) l'ordine criminoso insindacabile della pubblica autorità. L' adempimento di un ordine criminoso
insindacabile da parte di chi lo esegue non esclude l’illiceità del fatto commesso. Per esentare da
responsabilità penale il subordinato che commette un reato eseguendo un ordine legittimo del
superiore al quale non può disobbedire, si fa leva sulla situazione di forte pressione psicologica
nella quale egli si trova ad agire.
C) l'ignoranza o errore inevitabile scusabile della legge penale a seguito della sentenza
costituzionale n. 364/1988. Anche l'ignoranza invincibile dell'illiceità del fatto può essere
ricondotta nell'ambito delle situazioni, nelle quali non si può psicologicamente presentare da chi
ha agito un comportamento diverso conforme al diritto. L'ignoranza è inevitabile, ed in questo
caso l’agente non era in condizione di comportarsi in modo da non incorrere nella commissione di
un fatto di reato.
1. PREMESSA
L'esigenza di attribuire rilevanza a situazioni o a fattori diversi dagli elementi costituitivi del reato ,
incidono sull’attenuante o sull’aggravante della pena: è però da partire dall' illuminismo che sorge
il problema di un' espressa previsione legislativa di quelle situazioni che vanno oggi sotto il nome
di circostanze di reato, cioè di elementi che stanno intorno o accedono a un reato già perfetto
nella sua struttura, e la cui presenza determina soltanto una modificazione della pena. Si parla
anche di accidentalia delicti per sottolineare che le circostanze sono elementi contingenti che
possono mancare senza che reato venga meno; mentre, se manca un elemento essenziale del
reato a far difetto è la stessa figura criminosa. Grazie alla disciplina del codice Rocco si è finito col
costituire oggetto di tipizzazione legislativa non soltanto a circostanze attenuanti comuni, , cioè
riferibili a tutti i reati, e aggravanti speciali, relative a specifiche ipotesi di reato, ma anche
circostanze aggravatrici di pena applicabile a tutti i reati (cosiddetti aggravanti comuni). Nel
sistema delle circostanze il legislatore ha mirato a tener conto di circostanze particolari che,
incidendo in concreto sulla gravità dell'astratta figura di reato permettono di meglio adeguare la
pena ai singoli e variegati casi criminosi, e far sì che a tale adeguamento sanzionatorio non
rimanga affidato al puro potere del giudice, ma si attui entro confini legislativamente
predeterminati. Per molto tempo si è discusso se l'elemento circostanziale integri di per sé una
fattispecie autonoma cioè se dia luogo a una fattispecie penale complessa. Se ci si muove dalla
premessa di teoria generale che ogni elemento che incide sulla sanzione non può rientrare tre
presupposto della conseguenza giuridica virgola e coerente contestare la tradizionale distinzione
tra elementi accidentali ed elementi essenziale del reato: infatti, rispetto alla fattispecie
circostanziata, le circostanze sono elementi essenziali come gli altri. In pratica assumono rilevanza
due problemi. Il primo concerne la determinazione dei criteri idonee a distinguere tra elementi
essenziali e circostanze di reato; Il secondo problema per solito trascurato, riguarda il rapporto tra
le circostanze in senso stretto e criteri di commisurazione della pena. La disciplina delle
circostanze del reato è stata pesantemente innovata con modifica al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354 in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio, di comparazione
delle circostanze di reato per i recidivi e l'altro. Questo intervento ha sviluppato una sorta di
guerra al crimine che, trasformando lo stato assistenziale caduto in crisi in stato penale, identifica
nei delinquenti recidivi pericolosi nemici dell’ordine costituito, da isolare e naturalizzare con lunga
detenzione in carcere. Dal punto di vista politico- criminale si tratta di una riforma settoriale
ispirata da un intento di differenziazione del trattamento penale, creando una sorta di doppio
binario, l'uno assai più mite destinato ai rei primari, l'altro assai più severo destinato ai famigerati i
recidivi. Questa differenziazione in senso discriminatorio della risposta punitiva viene attuata
attraverso uno stravolgimento della disciplina della recidiva.
2. CLASSIFICAZIONE DELLE CIRCOSTANZE
Distinguiamo:
A) Le circostanze aggravanti comportano per lo più un aumento della pena comminata per il reato
base, variazione cd quantitativa; Ma vi sono dei casi, in cui la presenza dell'aggravante ha per
effetto di modificare qualitativamente la sanzione. Le circostanze attenuanti comportano
viceversa una diminuzione quantitativa della pena prevista, oppure una modifica qualitativa che
però è volta a vantaggio del reo.
B) Si definiscono comuni le circostanze prevedute nella parte generale del codice, perché
potenzialmente applicabili a un insieme non predeterminabile di reati. Sono invece speciali le
circostanze prevedute dal legislatore solo il rapporto a specifiche figure di reato.
C) Sono oggettive le circostanze che concernono la misura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il
luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno del pericolo, le condizioni o le qualità
personali dell'offeso; sono soggettive quelle che riguardano l'intensità del dolo o il grado della
colpa, o le condizioni, le qualità personali del colpevole, i rapporti tra il colpevole l'offeso, o sono
inerenti alla persona del colpevole.
D) La distinzione tra circostanze tipiche e generiche dipende dal diverso grado di determinatezza
raggiunto in sede di tipizzazione legislativa delle situazioni assunte ad elementi circostanziali. Nella
maggior parte dei casi, l'elemento che integra la circostanza è fatto oggetto di puntuale
descrizione normativa. Non mancano, però, ipotesi nelle quali spetta al giudice concretizzare
elementi circostanziali indicate dal legislatore soltanto in forma assai generica. Si è in proposito
adottata l'etichetta di aggravanti indefinite, cioè denunciare un deficit di tassatività incensurabile.
Le attenuanti indefinite risultano compatibili con l'articolo 25, comma 2° costituzione, poiché il
principio di tassatività viene in questione solo quando si tratta di restringere la sfera di libertà del
reo e non quando l'effetto giuridico va a suo beneficio.
1) “L’avere agito per motivi obietti o futili”. Il motivo si distingue dallo scopo: mentre lo scopo
costituisce l'obiettivo delle azioni, il motivo rappresenta l'impulso che spinge psicologicamente ad
agire. È abietto il motivo turpe, ignobile, che si rileva nell’agente un tale grave di perversità, da
destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media normalità. Il motivo si considera
futile quando sussiste un enorme sproporzione tra il movente e l'azione delittuosa. Secondo
l'orientamento giurisprudenziale prevalente, la circostanza in esame è incompatibile sia con
l'attenuante della provocazione che con il vizio parziale di mente, posto che non può farsi carico
alla gente di una malvagità che si trova spiegazione nell’ambito di un quadro morboso. L'
aggravante in parola ha natura soggettiva.
2) “L'aver commesso il reato per eseguirne od occultare un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri il prodotto il profitto o il prezzo ovvero l'impunità di un altro reato”.
L'aggravante in questione viene giustificata in base alla maggiore pericolosità di colui il quale, pur
di attuare il suo intento criminoso, non arretra di fronte alla commissione di un reato- mezzo. Si
ritiene che per integrare l'aggravante del nesso teologico non è necessario che l’agente abbia
conseguito lo scopo che si prefigurava, ma si reputa sufficiente che la sua volontà fosse diretta a
commettere un altro reato: il reato- mezzo è aggravato anche quando il reato- fine non sia stato
commesso o tentato. Tende in giurisprudenza affermarsi la tese la tesi secondo cui l'aggravante
non è esclusa dal fatto che i reati teleologicamente connessi derivano da una sola condotta
criminosa, purché risulti la loro connessione finalistica. L' aggravante applicabile anche se la
procedibilità del reato- fine è impedita dalla mancanza di querela. Il reato continuato oggi si
configura anche in presenza della violazione di leggi che configurano reati diversi, purché
beninteso ricorra un medesimo disegno criminoso. Bisogna rilevare che sussiste una profonda
analogia tra la medesimemezza del disegno criminoso e il nesso teologico. La tesi della tacita
abrogazione dell'articolo 61, n. 2, è tuttavia respinta dalla giurisprudenza prevalente.
3) “L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento”. È l'ipotesi della colpa
cosciente o con previsione che opportuno trattare, ratione materiae , nell’ambito del delitto
colposo.
4) “L'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone”. Le sevizie consistono
nell’inflizione di sofferenze fisiche non necessarie alla realizzazione del reato; La crudeltà si
traduce nell’inflizione di sofferenze morali che oltrepassano il limite del normale sentimento di
umanità, e che appaiono superflue rispetto ai mezzi necessari per l'esecuzione del fatto delittuoso.
È controverso se l'aggravante attenga alle modalità dell’azione ed abbia dunque natura oggettiva,
o se denoti una maggiore criminosità dell’agente e possegga carattere soggettivo. Si ritiene inoltre
che la circostanza in esame sia compatibile con l'attenuante della provocazione.
7) “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, che comunque offendono il patrimonio, o nei delitti
determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
rilevante gravità”. La rilevanza del danno deve essere valutata sul piano oggettivo , prescindendo
dalla capacità economica del danneggiato perché è elemento sussidiario di valutazione , cui
ricorrere soltanto quando la valutazione del danno non consente di stabilire con certezza se esso
sia di rilevante gravità. Sempre fini della stima del danno, si ritiene che esso deve essere accertato
tenendo conto del momento in cui il reato viene commesso. Si afferma anche che costituisce un
elemento di danno valutabile pure il lucro cessante, quale danno economico arrecato al
patrimonio del danneggiato. I delitti che offendono il patrimonio riguardano le circostanze
pregiudizievoli che in concreto ne discendono a carico dell’altrui patrimonio. Nel caso del reato
continuato, ai fini della valutazione della rilevanza del danno occorre prendere in considerazione i
singoli episodi criminosi. La circostanza di cui si discute ha un evidente natura oggettiva.
8) “l' aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso”. La condotta
che integra la circostanza in esame è autonoma e successiva rispetto a quella che dal vita al reato:
occorre l'intenzione di aggravare anche all' ipotesi del tentato aggravamento. L' aggravante è di
rara applicazione giurisprudenziale, come ad esempio chi, dopo aver ferito gravemente taluno,
rimuova la fasciatura per provocare una emorragia. La sua natura è controversa: appare soggettiva
se si pone l'accento sul profilo relativo alla persistenza del proposito criminoso; mentre sembra
oggettiva se si valorizza il profilo inerente alla gravità del danno o del pericolo.
9) “L'avere commesso il fatto con abuso di poteri, o con violazione dei doveri inerenti una pubblica
funzione, un pubblico servizio, ovvero la qualità di ministro di un culto”. L' applicabilità di questa
aggravante esula in tutti i casi, nei quali l'abuso costituisce elemento integrante il reato- base. Ai
fini della configurabilità della circostanza, non basta il mero possesso della qualifica di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma necessario che la qualifica
stessa abbia in qualche modo agevolato l'esecuzione del reato. L’aggravante non può essere più
applicata se l'abuso non è doloso: essa, dunque si applica solo se effettivamente conosciuta e
voluta. L'opinione dominante attribuisce ad essa natura soggettiva, perché riguarda qualità
personali del colpevole.
10) “L'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico
servizio, o rivestita dalla qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato, o
contro un agente diplomatico o consolare di uno stato estero, nell'atto OA causa dell'
adempimento delle funzioni o del servizio ”. L' aggravante è posta a tutela di determinati soggetti
in considerazione dello speciale ruolo rispettivamente investito. Si richiede che il reato sia
commesso nell’atto o a causa delle funzioni svolte da soggetti passivi, ma non è necessaria
l'esistenza di un rapporto di omogeneità tra il reato stesso e le funzioni in questione. La
circostanza ha natura oggettiva perché riguarda la persona dell'offeso.
11) “L'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, o con abuso di
relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione o di ospitalità ”. La ratio di questa
aggravante consiste nell’abuso di fiducia commesso da chi compie un reato a danno di persone
legate da particolari relazioni col soggetto attivo : la relazione di fiducia deve essere però ritenuta
presunta, nel caso che non occorre di volta in volta la prova della sua esistenza concreta. Si ha
abuso di autorità quando si profitti di una condizione di supremazia nei confronti del soggetto
passivo. Si ha abuso di relazioni domestiche quando le persone coinvolte appartengono ad un
medesimo nucleo familiare, anche se non legate da un vincolo di reciproca parentela. Le relazioni
di ufficio possono consistere anche in relazione di mero fatto, indipendentemente dalla
corrispondente qualificazione giuridica (può trattarsi anche di relazione temporanee). Il concetto
di prestazione d'opera riguarda qualsiasi rapporto in virtù del quale l’agente presta a qualunque
titolo la propria opera a favore di altri. In giurisprudenza si afferma che nella nozione di
coabitazione rientra la convivenza e la permanenza non momentanea di due più persone in un
luogo idoneo alla vita domestica, a prescindere dal fatto che tale permanenza sia volontaria o
imposta da ragioni esterne. Per ospitalità si ritiene sufficiente che il soggetto attivo venga, anche
occasionalmente, accolto con il consenso dell' ospitante. La circostanza natura soggettiva perché
riguarda i rapporti tra colpevole e offeso.
11 BIS) “L'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio
nazionale”. Questa circostanza è dichiarata costituzionalmente illegittima.
11 TER) “L’avere commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all'interno
o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione”. Questa circostanza è riconducibile è una
preoccupazione politico- criminale contingente, nel senso cioè che mira fronteggiare il fenomeno
del cosiddetto bullismo fortemente enfatizzato dai media nel corso degli ultimi tempi. La
circostanza natura oggettiva.
11 QUATER) “L’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era
messo una misura alternativa alla detenzione”. L’aggravante mira a rafforzare l'efficacia e
l'effettività delle misure alternative alla detenzione, sanzionando più gravemente chi ha
commesso un reato doloso durante il tempo in cui godeva di una misura alternativa.
11 QUINQUIES) “L’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la
libertà personale nonché nel delitto di cui all'articolo 572, commesso il fatto in presenza un danno
di un minore di anni 18 o in danno di persona di in stato di gravidanza”. Tale circostanza
aggravante intende proteggere in maniera rafforzata più rigorosa le vittime di reato considerate
vulnerabili.
1) “L’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale”. È una condotta illecita perché
criminosa, e mai l'azione potrebbe assurgere ad espressione di un motivo meritevole. L'attenuante
dei motivi di particolare valore morale e sociale non può essere concessa a chi, determinandosi ad
agire per fini di maggiore giustizia sociale, pretenda di realizzarli mediante l'uso della violenza.
Occorre tenere separate la valutazione dell'azione e quella del motivo. Adottando questo criterio
di giudizio, l'attenuante de qua finisce per essere applicabili a tutti i reati e, quindi, anche i casi più
gravi. Fra l'azione delittuosa e il motivo apprezzabile deve, però, sussistere un rapporto di
congruenza esteriormente accertabile: l'azione commessa deve rappresentare una risposta
riconoscibile e non incongrua rispetto il motivo allegato. La circostanza ha natura soggettiva e può
concorrere con la premeditazione.
2) “L’avere reagito in stato d'ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”. È questa l'attenuante
della provocazione, caratterizzata dal punto di vista strutturale da un momento soggettivo e da
uno oggettivo. Il primo è costituito dallo stato d'ira, cioè da un impulso emotivo incontenibile che
provoca nell’agente la perdita dei poteri di autocontrollo; il secondo momento è rappresentato da
un fatto ingiusto, cioè contrario non solo a norme giuridiche, ma anche all'insieme delle regole
sociali vigenti in un contesto di civile convivenza. Il fatto deve essersi effettivamente verificato. È
opinione giurisprudenziale che manca il nesso causale tra fatto ingiusto del soggetto passivo e
reazione della gente, tutte le volte in cui non vi sia proporzione e adeguatezza tra fatto
provocatorio e fattore attivo. L' attenuante può concorrere con quella dei motivi di particolare
valore morale e sociale, col vizio parziale di mente, mentre è incompatibile con la premeditazione.
La circostanza ha natura soggettiva.
3) “L’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunione
assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e colpevole non è delinquente o contravventore
abituale o professionale, o delinquente per tendenza”. È dato dell’esperienza che le folle possono
talora esercitare un’efficacia e suggestiva che allenta i freni inibitori e facilita la commissione dei
reati. Dal punto di vista strutturale, la circostanza presuppone non solo la presenza di una
moltitudine di persone in stato di intensa e violenta tensione emotiva, ma che l’agente si trovi di
fatto coinvolto e che riceva stimolo ad agire dalla suggestione esercitata dalla folle. L' attenuante
ha natura soggettiva.
4) “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, o, nei delitti determinati
da motivi di lucro, l'aver agito per conseguire vuole avere comunque conseguito un lucro di
speciale tenuità, quanto anche l'evento dannoso pericoloso sia di speciale tenuità”. La
formulazione normativa della circostanza deriva da un'integrazione del testo originario
dell'articolo 62, numero 4, ad opera della già citata legge n. 19/1990: l'elemento di novità è
costituito dalla presa in considerazione del lucro e della sua entità, mentre in precedenza la norma
faceva esclusivo riferimento al danno. Il danno deve essere valutato in relazione al valore della
cosa, mentre costituisce criterio soltanto sussidiario il riferimento alle condizioni economiche del
soggetto passivo. Per l'accertamento occorre aver riguardo al momento della consumazione, con
esclusione quindi di ogni giudizio successivo al verificarsi del reato. Occorre che l'offesa arrecata
dal fatto determinato da motivi di lucro appaia, per qualità o grado, privati serio disvalore penale.
In ipotesi di reato continuato, la valutazione deve essere compiuta in relazione ai singoli episodi
delittuosi punto la circostanza evidente natura oggettiva.
6) “L’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso, e,
quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l' essersi, prima del giudizio e fuori del caso
preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente
per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato“. In realtà, l'articolo 62
prevede due distinte circostanze attenuanti: la prima circostanza, denominata risarcimento o
riparazione del danno, presuppone che il ristoro del danno medesimo sia effettivo ed integrale, in
modo da compensare sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale. Considerata carattere
soggettivo da una dottrina dominante, la circostanza in questione è stata invece ricostruita in
chiave essenzialmente oggettiva dalla Corte costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto
n. 138 del 1998: secondo la Corte, il risarcimento integrale e indice non solo della irrilevanza
dell'atteggiamento interiore del reo, ma del preminente risvolto che si entente dare alle esigenze
che il pregiudizio subito dalla persona offesa sia interamente ristorato. La seconda ipotesi consiste
nell’adoperarsi in modo spontaneo ed efficace al fine di elidere o attenuare le conseguenze del
reato. È sufficiente che lo sforzo del colpevole sia frutto di una libera scelta e non l'effetto della
pressione di circostanze esterne. La giurisprudenza ritiene che le conseguenze cui si riferisce
l'attenuante de qua sono diverse da quelle di natura patrimoniale: si esclude l'applicabilità della
circostanza ai reati contro il patrimonio. Si tratta di una circostanza di natura soggettiva.
10. CIRCOSTANZE ATTENUANTI GENERICHE
Con l'articolo 62 bis sono state reinserite nel nostro codice penale le cosiddette attenuanti
generiche, che il legislatore del 1930 aveva ritenuto invece opportuno sopprimere in coerenza con
l'ispirazione accentuatamente rigoristica propria dell'originario impianto del codice Rocco.
L'articolo dispone che il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute nell’articolo 62,
può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una
diminuzione della pena. Esse sono considerate, in ogni caso, come una SOLA circostanza, la quale
può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Secondo
l'orientamento più tradizionale l'articolo 62 bis costituirebbe una appendice dell'articolo 133,
funzionale a una riduzione del minimo edittale della pena, qualora questo minimo si rilevi
sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del colpevole. Va preferita
l'opinione che attribuisce all'articolo 62 bis una funzione autonoma, consistente nel permettere al
giudice di cogliere un valore positivo del fatto, nuovo diverso rispetto ai valori espressamente
presi in considerazione dall' articolo 62. Si tratta dunque di circostanze in senso tecnico,
indipendentemente dalla valutazione complessiva del fatto e della personalità dell’agente. La
conseguenza pratica dell'articolo 62 bis è che questo può essere applicato anche se la pena-base
sia irrogata in misura superiore al minimo e il fatto criminoso sia obiettivamente grave ed il reo
abbia precedenti penali. Per quanto riguarda le circostanze attenuanti generiche vige il principio
del divieto della doppia valutazione; i valori attenuante riconducibili all’aperta e generica
previsione dell'articolo 62 bis sono insuscettibili di esaustiva elencazione. Il riconoscimento della
natura circostanziale delle attenuanti generiche comporta che ad esse si applicano tutte le norme
che presiedono alla disciplina delle circostanze in senso tecnico. Le circostanze generiche si
considerano sempre come una sola circostanza e sono soggette al principio del bilanciamento.
Con la legge di riforma del 2005 si ha l'obiettivo di ridurre la discrezionalità valutativa del giudice ai
fini della concedibilità delle circostanze generiche nelle specifiche ipotesi di recidiva reiterata di cui
al nuovo comma 2 dell'articolo 62 bis: allo scopo di legare le mani all'organo giudicante gli si
preclude di tener conto dei criteri di commisurazione giudiziale della pena che fanno riferimento
all' intensità del dolo e alla capacità di delinquere del colpevole. Con la conseguenza che la
valutazione giudiziale dovrà incentrarsi su parametri di carattere oggettivo relativi alla gravità del
danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, nonché alla natura, alla specie, ai
mezzi, all'oggetto, al tempo, al luogo e ogni altra modalità dell'azione. La valutazione a carattere
oggettivo implica che risulta giustificata una presunzione normativa a carattere assoluto circa
l'elevata intensità del dolo delinquere. La scelta di comprimere gli spazi di discrezionalità giudiziale
appare criticabile: una volta che legislatore fa dipendere la valutazione giudiziale dalla gravità del
reato dall’utilizzo di criteri a carattere sia oggettivo che soggettivo, non si comprende quale sia la
logica che consente di derogare ad alcuni di questi criteri con riferimento ad alcuni tipi di autori e
ad alcune tipologie e sia pur gravi di illecito penale. La Corte costituzionale con sentenza del 10
giugno 2011 ha dichiarato parzialmente illegittima la norma in questione per contrasto con il
principio di rieducazione e di ragionevolezza. La disciplina delle circostanze attenuanti generiche è
stata resa ancora più restrittiva con la legge di conversione del “decreto sicurezza” 2008 n.42. Il
legislatore, escludendo da autorità la rilevanza attenuante dello stato di incensuratezza, intende
sollecitare i giudici ad un maggiore impegno nel motivare le ragioni che giustificano la diminuzione
della pena.
11. LA RECIDIVA
Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole il codice annovera la recidiva che letteralmente
equivale a ricaduta nel reato. L'istituto della recidiva è stato oggetto di modifiche ad opera della
legge di riforma del 2005 n.. 251. L' intenzione perseguita dal legislatore è stata quella di reagire a
rischio di un'eccessiva svalutazione applicativa della recidiva, con conseguente attenuazione della
risposta punitiva , quell’effetto di un eccesso di clemenzialismo dovuto alla discrezionalità
giudiziale. Si spiega così il fatto che la recidiva sia stata trasformata da facoltativa in obbligatoria.
La prima importante modifica ha riguardato l'individuazione dei reati-presupposto identificati
adesso solo nei delitti non colposi. Recidivo è dunque chi dopo aver sta dopo essere stato
condannato per un delitto non colposo, ne commetto un altro parimenti non colposo. Il fenomeno
del recidivismo cominciò a destare allarme a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ma esso
come categoria giuridica tardò ad affermarsi: la previsione di un aumento di sanzione come
conseguenza della ricaduta nel reato da parte dello stesso autore finiva con l' alterare quel
rapporto di perfetti equilibri implicito nell’equazione gravità del reato- pena. La recidiva ha però
finito col far ingresso nella maggior parte dei codici per soddisfare esigenze di prevenzione
speciale cioè, essa giustificherebbe un aumento di pena proprio perché la misura di pena inflitta in
occasione delle precedenti condanne si è rilevato insufficiente a distogliere il reo dal commettere
nuovi reati. È di evidenza il suo possibile nesso col concetto di capacità a delinquere: da questo
punto di vista, la recidiva assumerebbe alla maggiore capacità delinquere del soggetto. Il reo
recidivo dimostrerebbe sia una maggiore insensibilità ai dettami dell’ordinamento, sia una
maggiore propensione a delinquere in futuro. L'articolo 99 prevede tre forme di recidiva, che si
distinguono sia nei presupposti, sia negli effetti giuridici:
1) La recidiva semplice consiste nella commissione di un delitto non colposo a seguito della
condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo: è indifferente il tempo trascorso dalla
precedente condanna. L'aumento di pena è di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto
non colposo. Presupposto dell' applicabilità dell' aggravamento di pena è che il precedente delitto
sia stato accertato con una sentenza definitiva di condanna. Dal momento che la recidiva va
annoverata tra i cosiddetti effetti penali della condanna, ai fini della sua sussistenza si tiene anche
conto delle precedenti condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione del reato
della pena.
2) La recidiva è aggravata se il nuovo delitto non colposo è dalla stessa indole (recidiva cosiddetta
specifica), o è stato commesso entro 5 anni dalla condanna precedenti (recidiva cosiddetta
infraquinquennale ), o è stato realizzato durante o dopo l'esecuzione della pena oppure ancora
durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena stessa.
In tutte le ipotesi la pena può essere aumentata fino alla metà: alla maggioranza dell' incremento
di pena si accompagna però il mantenimento del suo carattere il flessibile discrezionale. sono
considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di
legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizione diverse di questo codice o da
leggi diverse per la natura dei fatti che li costituiscono ed emotivi che li determinarono,
presentano caratteri fondamentali comuni. Quando si tratta invece di reati che violano
disposizione incriminatrice diverse, tra i reati stessi, considerati nella loro concretezza, dovranno
intercorrere caratteri fondamentali comuni . Queste note comuni vanno desunte da un confronto
dei reati operati da un duplice aspetto: dal punto di vista della natura dei fatti che li costituiscono,
cioè accertare una sostanziale omogeneità dei fatti concreti considerati nelle effettive modalità di
realizzazione e nei risultati lesivi che ne conseguono; e dai motivi che determinarono la
commissione dei reati , verificando se alla base dei diversi fatti criminosi vi sia un' identica o un un'
analoga motivazione psicologica.
3) La recidiva è reiterata se il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo.
L'aumento di pena è della metà nel caso di recidiva semplice; è di due terzi se la precedente
recidiva è stata aggravata specifica o infraquinquennale o si riferisce un delitto non colposo
commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, o durante il tempo in cui il condannato si
sottrae volontariamente alla esecuzione della pena stessa.
4) Il novellato articolo 99, comma 5, prevede una nuova figura di recidiva reiterata obbligatoria
che si riferisce al soggetto recidivo che commette uno dei delitti indicati nell'articolo 407, comma
2, lettera a) del codice di procedura penale. Tale catalogo viene assunto a fondamento per la
disciplina di un istituto di diritto sostanziale quale appunto è la recidiva, senza una ragionevole
motivazione politico criminale. L'ipotesi di recidiva obbligatori in esame non è limitata ai casi di
reiterazione, ma include anche quelli di recidiva aggravata di cui al comma 2 , rispetto ai quali si
stabilisce che la pena non può essere inferiore a un terzo della pena da infliggere per il nuovo
delitto.
5) L’ultimo comma dell'articolo 99 dispone che in nessun caso l'aumento di pena per effetto della
recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione
del nuovo delitto non colposo. La recidiva comporta oltre agli aumenti di pena, ulteriori
conseguenze giuridiche minori il rapporto all' amnistia, all' indulto, alla sospensione condizionale,
al l'estinzione della pena, al perdono, eccetera. A parte l'ipotesi di recidiva reiterata obbligatoria,
l'applicazione della recidiva resta facoltativa in ragione del potere discrezionale ai limiti dell’arbitro
giudiziale. L'innovazione introdotta dalla riforma del 1974 ha però finito con il riproporre anche il
anche il problema relativo alla natura giuridica dell'istituto. Già in passato parte della dottrina
aveva contestato la recidiva sul presupposto che sia concettualmente difficile concepire come
circostanza del fatto di reato uno status personale del soggetto derivante da una precedente
condanna per un altro reato: a questo rilievo oggi se ne aggiunge un secondo facendo leva sulla
generalizzata facoltatività dell’istituto. La giurisprudenza è orientata a ritenere da un lato
obbligatoria la contestazione della recidiva in quando circostanza e ammette il giudizio di
comparazione e, dall'altro, limita la facoltatività al solo aumento di pena. Contro tale
orientamento giurisprudenziale giustamente si appuntano le critiche di una parte della dottrina, la
quale sottolinea come sia poco ragionevole ammettere che il giudice possa escludere l'effetto
principale della recidiva e tenerne conto per gli effetti minori. Queste conclusioni possono
ritenersi ancora valide dopo la riforma del 2005 perché la limitata obbligatorietà di applicazione
non sembra in grado di intaccare la sostanza dell’istituto nella sua generalità.
Il concetto di consumazione esprime alla compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di
una fattispecie criminosa : si è in presenza di reato consumato tutte le volte in cui il fatto concreto
corrisponde integralmente al modello legale delineato dalla norma incriminatrice in questione.
Così, nell'ambito dei reati di mera condotta, la consumazione coinciderà con la compiuta
realizzazione della condotta vietata. Nei reati di evento , invece, la consumazione presuppone,
oltre al compimento dell'azione, anche la produzione dell'evento. La determinazione del momento
consumativo del reato assume rilevanza sotto diversi profili: a) in ordine al l'individuazione della
norma da applicare nel caso successione di leggi penali; b) Rispetto all'inizio della decorrenza del
termine di prescrizione; c) Ai fini dell' amnistia ed e dell'adulto, di solito concessi limitatamente ai
fatti commessi fino al giorno precedenti la data della legge ; d) Ai fini della competenza
territoriale; e) Per l'applicazione della legge penale italiana rispetto la legge penale straniera.
CASO 41: un venditore ambulante detiene all'interno di un'auto scatole destinate ad essere
smerciate e contenenti in apparenza sigarette, ma in realtà riempita con patate.
CAS0 42: Un gruppo di malviventi si apposta nelle immediate vicinanze di una banca con pistole
cariche , calze per mascherarsi, guanti per non lasciare impronte, sacchi per riporvi la refurtiva,
dopo aver parcheggiato le automobili in posizione tale da facilitare la fuga e tenendovi a bordo
targhe di immatricolazione diverse da quelle proprie dell’autovettura.
Ricorre la figura del delitto tentato o tentativo nei casi in cui l’agente non riesce a portare a
compimento il delitto programmato, ma gli atti parzialmente realizzate sono tali da esteriorizzare
l' intenzione criminosa. Il fondamento politico-criminale della punibilità del tentativo è costituito
dall’esigenza di prevenire l'esposizione a pericolo dei beni giuridicamente protetti (teoria
cosiddetta oggettiva); risultano invece prive di legittimazione teorica e politico-criminale le teorie
soggettive e le teorie miste. Le teorie soggettive possono avere una matrice politica e culturale
diversa ; Esse fanno riferimento al positivismo criminologico che ha a fondamento della punibilità
del tentativo l'azione tentata come l'indice di una volontà ribelle. Le teorie miste si sforzano di
mettere insieme la motivazione oggettiva e quella soggettiva: si muovono dal presupposto che il
tentativo è espressione di una volontà ribelle, ma ritengono meritevoli di punizione solo quelle
manifestazioni di volontà ribelle che siano in grado di scuotere la fiducia dei cittadini
nell’ordinamento penale. La teoria oggettiva del fondamento della punibilità è preferibile perché si
collega in maniera più coerente ai presupposti di un diritto penale del fatto: ciò spiega l'esigenza
che il proposito criminoso traduca un comportamento materiale e che, a sua volta, produca un'
effettiva lesione, o almeno una messa in pericolo obiettivamente accertabile, del bene protetto.
Consumazione e tentativo riflettono rispettivamente la lesione effettiva e la lesione potenziale del
bene oggetto di protezione: ed è il minor grado di aggressione al bene che giustifica la minore
severità del trattamento penale del tentativo. In conseguenza del più basso livello di offensività il
delitto tentato rappresenta una sorta di delitto di minore grado. Considerato dal punto di vista
strutturale, il tentativo è al contrario un delitto perfetto perché rappresenta tutti gli elementi
necessari per l'esistenza di un reato. Sicchè, sul piano normativo, il delitto tentato costituisce un
titolo autonomo di reato, caratterizzato da un profilo offensivo ad esso proprio. In questo senso, la
configurazione del tentativo come illecito autonomo nasce dall' incontro di due norme: la norma
incriminatrice di parte speciale che eleva al reato un determinato fatto e l'articolo 56 che svolge
una funzione estensiva della punibilità. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica del delitto
tentato assume rilevanza anche sul piano pratico; ne consegue che gli effetti giuridici riconnessi da
una norma penale alla consumazione di un reato non possono essere automaticamente estesi alla
figura del delitto tentato. Dunque, per stabilire se il riferimento di una legge all’ipotesi tipica
escluda o no i riferimenti a quella tentata, si dovrà avere riguardo alla materia cui la legge si
riferisce e alla ratio relativa.
Non sussiste unitarietà di vedute circa il grado o livello di idoneità necessarie fini della
configurazione del tentativo punibile. Le posizioni si differenziano in ragione della diversa misura
d'idoneità richiesta: gli atti se gli atti rendono meramente possibile il verificarsi dell'evento, se ci si
appaga di una ragionevole possibilità di raggiungere risultato, se si considera idonea l'azione
adeguata rispetto all'evento voluto, altre volte si esige che appaia verosimile la capacità dell’atto
rispetto allo scopo criminoso o si richiede la probabilità di verificazione del reato. Il termine
idoneità può altrettanto essere identificato sia con la semplice possibilità, sia con la probabilità di
verificazione del risultato delittuoso preso di mira. Posto che il pericolo presuppone la probabilità
di verificazione dell'evento lesivo, per potere plausibilmente sostenere che gli atti di tentativo
realizzati pongono in pericolo il bene protetto è necessario accettarne la rilevante attitudine a
conseguire l'obiettivo: la loro idoneità deve essere più vicina alla probabilità che alla mera non
impossibilità.
6. ELEMENTO SOGGETTIVO
Nel nostro ordinamento penale, il tentativo è punibile soltanto se commesso quando lo: non è
configurabile nel silenzio della legge, invece, un tentativo colposo. la questione che rimane da
risolvere è se il dolo del tentativo sia identico o no al dolo della consumazione. Se si accoglie la tesi
dell’identità strutturale, ne deriva infatti che il tentativo è realizzabile con tutte le forme di dolo
configurabili nell'ambito della consumazione, compresso il dolo eventuale. Ma è proprio
quest'ultimo il punto che costituisce un vero e proprio oggetto di controversia. Una parte
minoritaria della dottrina, e una giurisprudenza fino ad alcuni anni addietro dominante, muovono
dal presupposto che il nostro ordinamento positivo non contiene alcuna norma che esplicitamente
distingua i due tipi di dolo: essendo la differenza tra tentativo e consumazione circoscritta dalla
stessa legge al piano della sovrastruttura oggettiva, se ne ricava che il dolo del tentativo e quello
della consumazione non possono che essere identici. La tesi contraria, oltre a essere sostenuta
dalla dottrina maggioritaria, è andata sempre più affermandosi nella giurisprudenza più recente.
Riducendo l'univocità all' esigenza di provare in giudizio l' intenzione criminosa dell’agente, la non
equivocità della condotta finisce col coincidere con la prova di una volontà intenzionalmente
diretta a commettere un reato; Ma perché si richiede una volontà intenzionale , è da escludere la
compatibilità tra tentativo ed o l'eventuale. La tesi dell' incompatibilità può essere poggiata da
alcuni argomenti : proprio sull’autonomia strutturale della fattispecie tentata , rispetto alla
corrispondente fattispecie del reato consumato, giustifica che anche il dolo del tentativo assume
una connotazione peculiare non coincidente del tutto con quella della consumazione; Rimane
comunque ferma l' incompatibilità strutturale tra dolo eventuale e requisito dell' univocità della
condotta. Si prende atto che nel concetto stesso di tentativo è insito nella tendenza orientata
verso uno scopo , e non la mera accettazione del rischio di un evento possibile o probabile. In
termini conclusivi la direzione finalistica dell’atto deve essere certa tanto sul piano materiale che
su quello psicologico: tra due aspetti deve esservi piena corrispondenza e congruenza. Mentre non
può dirsi univoco, né obiettivamente né soggettivamente, un comportamento che l’agente realizzi
senza tendere a realizzarlo, ma soltanto accettando il rischio della sua verificazione.
7. IL PROBLEMA DELLA CONFIGURABILITA’ DEL TENTATIVO NELL’AMBITO DELLE
VARIE TIPOLOGIE DELITTUOSE
La concreta configurabilità di un delitto tentato dipende dalla possibilità di rendere compatibili i
requisiti previsti dall' articolo 56 con le conseguenze oggettive dei vari tipi delittuosi presenti nel
nostro ordinamento: occorre trattare separatamente le diverse figure di reato:
2) Dipende da ragioni strutturali l' inammissibilità del tentativo nell’ambito dei delitti colposi: se la
colpa si connota per l'assenza della volontà delittuosa, costituirebbe contraddizione ammettere
che il tentativo possa coesistere con la mancanza dell’ intenzione di commettere il reato.
3) Reati omissivi.
5) Il tentativo è da escludersi rispetto ai reati cosiddetti unisussistenti, dal momento che non
consentono la frazionabilità del processo esecutivo in più atti: compiuto l'unico atto che
costituisce il delitto, l'azione criminosa è completa.
6) Il tentativo non è ammissibile nei delitti di attentato o nei delitti cosiddetti a consumazione
anticipata, e ciò in base a un duplice rilievo: in questi modelli delittuosi il tentativo equivale già
consumazione e sarebbe un non senso ipotizzare atti idonei diretti in modo non equivoco a
commettere “atti diretti a…”.
7) Discussa è la configurabilità del tentativo nei reati di pericolo. Anche se una parte della dottrina
ritiene strutturalmente prospettabile la realizzazione in forma tentata almeno di alcuni reati di
pericolo, è da condividere la tesi negativa, e ciò sul presupposto che punire il tentativo di un reato
di pericolo equivarrebbe a reprimere il pericolo di un pericolo, così finendo con l' anticipare
eccessivamente la soglia della punibilità.
8) Nei reati aggravanti dall’evento il tentativo è ipotizzabile, tutte le volte in cui l'evento ulteriore
può realizzarsi indipendentemente dall’esaurimento della condotta vietata.
9) Nei reati condizionati, la configurazione del tentativo dipende dalla possibilità del verificarsi
delle condizioni obiettiva di punibilità indipendentemente dal perfezionarsi della condotta tipica.
10) Il tentativo è escluso nei reati abituali, dal momento che le singole azioni non assumono
rilevanza penale autonoma.
11) Nei reati permanenti la configurabilità del tentativo è possibile a condizione che la condotta
positiva sia frazionabile.
8. TENTATIVO E CIRCOSTANZE
Si opera una distinzione tra la figura del tentativo circostanziato di delitto e quella del tentativo di
delitto circostanziato : la prima si avrebbe quando le circostanze si realizzano compiutamente, o
soltanto in parte, nel contesto della stessa azione tentata; La seconda si configurerebbe allorché
un delitto, se fosse giunto a consumazione, sarebbe stato qualificato dalla presenza di uno o più
circostanze. Nessun dubbio sussiste sulla compatibilità strutturale tra tentativo e circostanze
punto le riserve cominciano ad apparire giustificate a partire un'ipotesi di tentativo circostanziato
di delitto caratterizzate da una realizzazione soltanto parziale delle circostanze. Ma suscita a
maggior ragione riserva la figura del tentativo di delitto circostanziato, riconosciuta dalla
giurisprudenza soprattutto a proposito delle circostanze del danno patrimoniale di rilevante
gravità o del danno patrimoniale di speciale tenuità. Le riserve trovano fondamento in un duplice
ordine: da un lato , non si vede quale sia la ragione per ritenere che in questo settore le esigenze
connesse al principio della legalità possono essere drogate ; Dall'altro esistono invalicabili limiti di
ordine ontologico strutturale: le circostanze relative all'evento consumativo del reato risultano
compatibili solo con la compiuta realizzazione dell' illecito penale. Le uniche circostanze
compatibili col tentativo sono quelle che si realizzano compiutamente nello stesso contesto
dell'azione tentata.
CASO 44: Tizio , dopo avere inferto due colpi di coltello alla zona toracica di Caio, si rende conto
dell' imminente pericolo di vita della vittima e ne scongiura la morte richiedendo l'intervento del
medico.
CASO 45: Una donna, spinta dal proposito di uccidere il marito dormiente, apre il rubinetto del gas
ed esce di casa; Vendita si poco dopo, avverte la polizia appunto le agenti si limitano ad aprire le
finestre a dare alle stanze , dato che l'uomo non aveva ancora subito alcun danno.
In alcuni casi ad impedire la consumazione del reato non è un ostacolo esterno, ma un’iniziativa
dello stesso agente il quale, mutando proposito, recede dall’azione criminosa già intrapresa.
L'articolo 56 stabilisce , al comma 3 e 4, che se il colpevole volontariamente desiste dall'azione,
soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé un reato
diverso e che se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto
tentato, diminuita da un terzo alla metà. Le due situazioni contemplate da due commi vanno sotto
il nome di desistenza volontaria e recesso attivo (o pentimento operoso). Entrambe trovano una
legittimazione politico-criminale nella teoria del cosiddetto ponte d’oro: l’ordinamento, al fine di
prevenire l’offesa ai beni giuridici, farebbe assegnamento sulla promessa di impunità come
controspinta psicologico alla spinta criminosa. Una ragione giustificatrice del fondamento
sostanziale della desistenza può essere individuata nell'ottica degli scopi della pena e sul duplice
piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale: chi ritorna di sua iniziativa sui suoi
piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale: chi ritorna di sua iniziativa su suoi
passi da un lato non rappresenta un esempio pericolosi degli altri e dall'altro, dimostra di non
possedere alcuna volontà criminosa di tale intensità da giustificare il ricorso ad una pena
rieducativa. La distinzione tra desistenza e recesso si basa su un criterio ex post , che fa leva
sull’esaurimento o no dell'azione esecutiva. Per essere efficaci, sia la desistenza sia il pentimento
operoso devono verificarsi volontariamente. Talvolta si afferma che la libertà è esclusa da fattori
esterni che rendono irrealizzabile l'impresa criminosa oppure si afferma che la libertà di scelta è
già compromessa dalla percezione soggettiva di elemento di rischio, o si ritiene che la scelta è
giusta quando la situazione appare talmente rischiosa , che nessuna persona ragionevole fa
sarebbe disposta ad andare fino in fondo.
Il rifiuto del recupero dell’articolo 49 cpv non deve indurre a concludere che la disposizione si
limiti a riflettere il mero aspetto negativo del diritto tentato. Il legislatore del 1930 ha inteso
fugare ogni dubbio relativo alla rilevanza penale del tentativo assolutamente inidoneo in concreto
a mettere in pericolo il bene protetto. Da questo punto di vista il tentativo esula quando un fatto
astrattamente idoneo, al momento dell'azione, a raggiungere l'obiettivo criminoso perseguito ,
non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto consumato per la presenza di circostanze che ne
rendono in concreto impossibile la realizzazione. Per accertare se il bene in questione abbia corso
un reale pericolo bisogna effettuare un giudizio in base alla sola ottica del soggetto gente ma
anche nell'ottica della vittima come titolare del bene posto in pericolo. I casi di tentativi inidoneo,
se non mettono in pericolo il bene protetto, possono tuttavia assurgere a indicare uno stato di
pericolosità sociale dell’agente; è per questa ragione che il giudice può ordinare che il prosciolto
sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata.
CAPITOLO 6. CONCORSO DI PERSONE
CASO 47: un passante si accorge che un ladro sta rubando e decide, all'insaputa di quest'ultimo , di
fargli da palo: ma la sua attività si limita una mera presenza , non essendo necessario intervenire
durante l'azione furtiva , che si compie in maniera del tutto indisturbata.
CASO 48: A uccide B in presenza di un proprio congiunto, il quale esprime compiacimento per il
fatto che si compie dinanzi i suoi occhi.
CASO 49: un soggetto viene condannato a titolo di concorso morale nel lancio di materie
esplodenti per non essersi allontanato dal luogo del fatto dopo i primi lanci: la sua permanenza sul
posto con atteggiamento aggressivo avrebbe apportato un contributo di natura psichica ed
avrebbe provocato un rafforzamento nell’altrui proposito criminoso.
CASO 50: Tizio dà mandato a Caio e Sempronio di rubare un determinato quadro in un museo. Gli
esecutori del furto , di fronte all' impossibilità di sottrarre il quadro commissionato, si
impossessarono di un altro dipinto per rifarsi delle spese.
CASO 51: un gruppo di correi concorda inizialmente di commettono un furto: mentre uno dei
partecipi si limita a fare da basista e palo, gli esecutori materiali commettono , in difformità
dell’accordo iniziale, una rapina e un sequestro ai danni del soggetto rapinato.
1. PREMESSA
L'istituto del concorso di persone nel reato disciplina i casi nei quali più persone concorrono alla
realizzazione di un medesimo reato. Il fenomeno della commissione in comune di un reato appare
sempre più come tipico del nostro tempo, anche per effetto del costante incremento delle forme
di cosiddetta criminalità collettiva organizzata. Secondo l’orientamento tradizionale consolidato ai
diversi tipi di associazione a delinquere presuppongono un vincolo stabile tra più soggetti un
programma criminoso riferito ad un insieme indeterminato di fatti delittuosi; il concorso di
persone nel reato determina invece, un vincolo occasionale tra più persone circoscritto alla
realizzazione di uno o più reati determinati. In questo senso, il concorso di persone dà vita ad un'
entità collettiva contingente, creata da coloro che ne fanno parte sul presupposto che l'unione
delle forze renda possibile la commissione del reato astrattamente realizzabile. Il concorso di
persone suole essere qualificato eventuale per distinguerlo dalla diversa figura del concorso
cosiddetto necessario: figura, quest'ultima che ricorre quando è la stessa fattispecie incriminatrice
di parte speciale a richiedere alla presenza di più soggetti per la integrazione del reato.
Il legislatore italiano del 1930 ha optato per il modello della tipizzazione unitaria basato sul criterio
dell'efficienza causale della condotta di ciascun concorrente. L'articolo 110 del codice si limita a
stabilire che quanto più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla
pena per questo stabilita: dunque concorre a pari titolo chi apporta un contributo qualsiasi,
purché dotato di rilevanza causale nell’ ambito della realizzazione collettiva del fatto. La riforma
del 1930 era buona parte influenzata dal pensiero positivistico- naturalistico, incline a valorizzare il
dogma delle casualità anche sul terreno dei presupposti della responsabilità penale. D'altra parte
ragioni di coerenza sistematica imponevano di orientare anche la disciplina del concorso secondo
il criterio dell’ equivalenza causale dei contributi dei singoli concorrenti. Ancora, era forte
l'influenza del positivismo criminologico di matrice lombrosiana e ferriana. La prassi si lamentava
della mancanza di sicuri criteri di demarcazione che consentissero distinguere le diverse forme di
partecipazione: la tesi della maggiore impraticabilità della tipizzazione differenziata è ribadita da
parte della dottrina italiana anche a livello manualistico; non va trascurato che le scelte politico-
criminali sottese alla riforma del concorso costituivano una proiezione delle tendenze autoritarie-
repressive tipica della politica penale del 1930: la rinuncia alla distinzione tra compartecipi primari
(autore, coautore, determinatore) e secondari (istigatore e complici) corrispondeva a una sorta di
affrancazione dei concetti di marca liberar - garantistica. L'articolo 114 prescrive: il giudice,
qualora ritenga che l'opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato a norma
degli articolo 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del
reato , può diminuire la pena. D'altra parte, la rinuncia a una distinzione analitica, da parte
legislatore, delle varie forme di partecipazione , non ha agevolato il consolidarsi di una prassi
applicativa veramente appagante . Se per un verso è venuta meno la necessità di impelagarsi nella
controversa distinzione tra i vari tipi di concorrenti , questa apparente semplificazione ha per altro
verso prodotto un costo tutt'altro che lieve: quello cioè di un' eccessiva dilatazione della
responsabilità a titolo di concorso favorito da una certa tendenza giurisprudenziale a sorvolare sui
requisiti oggettivi minima di una legittima responsabilità concorsuale.
A) Secondo una teoria che ha per lungo tempo dominato specie in passato, la partecipazione
criminosa ha natura accessoria: ciò vuol dire che la condotta atipica del semplice partecipe non ha
rilevanza penale autonoma, ma l' acquista nella misura in cui accede alla condotta principale o
tipica dell'autore. La teoria dell' accessorietà appare permeata da preoccupazione a sfondo
garantistico : Si ribadisce l'esigenza che anche l'istituto del concorso criminoso rispetta il principio
di tipicità oggettiva. La teoria stessa ha ricevuto formulazioni diverse: la punibilità della condotta
di partecipazione dipende dalla realizzazione di una condotta principale a sua volta punibile in
concreto (accessorietà cosiddetta estrema); oppure, nella versione dominante ci si accontenta di
un'azione principale obiettivamente antigiuridica (accessorietà cosiddetta limitata) in cui il
complice che fornisce lo strumento sarebbe punibile anche se l'esecutore materiale non fosse in
concreto assoggettabile a pena. Tale teoria non riuscirebbe però a giustificare la punibilità dei
concorrenti nei casi di cosiddetta esecuzione frazionata, nei quali cioè nessuno realizza un’ azione
qualificabile come principale, mentre l'azione tipica risulta solo dall’ incontro di diversi contributi
dei singoli compartecipi; ancora, seconda obiezione è che posto infatti che in queste ipotesi la
condotta principale non potrebbe che essere realizzata dal soggetto che riveste la qualifica
soggettiva, si dovrebbe rinunciare all' incriminazione a titolo di reato proprio per avventura a
porre in essere la condotta esecutiva fosse l'estraneo prima di qualifica.
B) l'esigenza di ovviare ad inconvenienti del tipo di quelli accennati, ha indotto parte della dottrina
a escogitare la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale: tale sarebbe la fattispecie del
concorso di persone , quale fattispecie nuova, autonoma e diversa da quella incriminatrice di parte
speciale modellata sulla torre singolo.
C) Autorevole dottrina inclina a ritenere che dall’ incontro delle norme di parte speciale con le
norme sul concorso non nascerebbe una sola fattispecie plurisoggettiva eventuale, bensì
discenderebbero tante fattispecie plurisoggettive differenziate, quanti sono i soggetti concorrenti:
tutte queste fattispecie avrebbero in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma si
distinguerebbero tra loro per l'elemento psichico e per taluni aspetti esteriori.
Se è pacifica la responsabilità di chi nell’esecuzione del fatto assume il ruolo di autore o coautore,
meno ovvia appare la punibilità del semplice complice: si dibatte sui coefficienti minimi che ne
giustificano l' incriminazione a titolo di concorrente nel reato . L'opinione più tradizionale esige
che l'azione del compartecipe costituisca condicio sine qua non del fatto punibile. Si è obiettato
questo criterio per le varie forme di complicità meritevoli di punizione; per superare le pretese
della formula condizionalistica nelle ipotesi di partecipazioni non necessaria, parte della dottrina
ha proposto un nuovo modello di causalità: si allude alla causalità cosiddetta agevolatrice o di
rinforzo. È ritenuto penalmente rilevante non solo l’ausilio necessario , che non può essere
mentalmente eliminato senza che il reato venga meno, ma anche quello che si limita ad agevolare
e facilitare il conseguimento dell' obiettivo finale. Nella prassi giudiziaria è consolidata la tesi,
secondo cui il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale,
ma anche quando assume la forma di un contributo agevolato , e cioè quando il reato senza la
condotta di agevolazione sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o
difficoltà; Se ne desume che, ai fini della punibilità , è sufficiente che la condotta di partecipazione
si manifesta in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla
commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l' agevolazione
dell'opera degli altri concorrenti , e del partecipe, abbia aumentato le possibilità di produzione del
reato. Secondo altri autori, neppure il modello della causalità agevolatrice sarebbe dotato di
validità generale.
Ciò che si propone è in realtà l'abbandono dell’approccio causale e la sua sostituzione con giudizio
di semplice prognosi: in questo senso, basterebbe che l'azione del partecipe appaia ex ante idonea
a facilitare la commissione del reato, accrescendone le probabilità di verificazione. L'articolo 56
confermerebbe che, ai fini della tipicità, i giudizi causali possono essere formulati non solo
nell'ottica di un legame effettivo tra una certa condotta un determinato evento, ma anche sul
piano di una pura attitudine causale. Quest'ultimo impostazione non convince perché trascura le
forme di complicità cui si fa riferimento le quali accedono ad un fatto collettivo che si giunge a
consumazione, sia pure a prescindere dell'asilo rilevato sia posteriore inutile. La valutazione dell'
attitudine della condotta ad influire sulla realizzazione del fatto sarebbe infatti sufficiente soltanto
in sede di tentato; Ma proprio la disposizione dell’articolo 56 non è invocabile: si comprende come
la norma sposta legittimare la punibilità di atti di partecipazioni che si inseriscono in una
realizzazione collettiva che giunge a compimento. In questi casi la punibilità è da escludere proprio
perché si tratta di forme di complicità soltanto potenziali, nelle quali l'ausilio inizialmente prestato
manca di convertirsi in rapporto effettivo e perdurante , che confluisce concretamente sulla
realizzazione del fatto.
Rimane confermato che non può esservi partecipazione materiale penalmente rilevante a
prescindere da un influsso effettivo sull’ azioni tipica o sull’ evento costitutivo del reato: si tratta di
precisare portata e i limiti del contributo materiale del complice. Bisogna ammettere che la
formula della causalità cosiddetta agevolatrice tocca il segno: assume rilevanza penale sia la
condotta di partecipazione che rende possibile la perpetrazione del fatto, ma anche quella che si
limita a facilitarne o agevolarne la realizzazione. Non fondata appare la pretesa che l'idea di una
casualità agevolatrice rifletta davvero un diverso modello di spiegazione causale. Ciò che importa è
che una catena causale sussista tra un antecedente e un evento concreto che si verifica. Mentre è
irrilevante la circostanza che un evento analogo avrebbe potuto verificarsi come conseguenza di
fattori ipotetici rimasti di fatto in operanti. I medesimi criteri valgono in sede di accertamento del
contributo causale della condotta di partecipazione. Occorre considerare il fatto nella sua modalità
concreta, prescindendo al tempo stesso dal tener conto di cause alternative che non hanno avuto
sviluppo. L’ entrata in crisi della causalità in senso condizionalistico si manifesta nell’ ambito della
responsabilità colposa e dalla responsabilità omissiva. Mentre l'attenzione in questo capitolo si è
incentrata sul settore della compartecipazione criminosa un reato commissivo doloso, cioè un
settore comparativamente meno complesso in cui la tematica causale mantiene un volto più
tradizionale.
Una particolare forma di istigazione è quella realizzata dal cosiddetto agente provocatore: cioè
colui il quale provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura è andata
nel corso del tempo ampliandosi fino a ricomprendere sia casi in cui l'agente provocatore assume
la veste di soggetto passivo del reato, sia quelle in cui il soggetto si infiltra in un’ organizzazione
criminale allo scopo di scoprirne la struttura o denunciare i partecipanti. Ora, il problema è di
stabilire se lo speciale scopo perseguito dall' agente neutralizzi la rilevanza penale, a titolo di
concorso , di una condotta che rimane pur sempre istigatrice. Secondo un orientamento
rigoristico, il fine di far perseguire i rei non potrebbe giustificare un comportamento che ha
contribuito a mettere in pericolo o ledere un bene giuridico. Sulla stessa linea rigorosa la
giurisprudenza era solita affermare che l'opera dell' agente provocatore non esclude la punibilità,
ad eccezione però delle ipotesi nelle quali la sua attività non si risolva in altro che osservazione,
controllo e contenimento delle azioni illecite altrui. L'agente provocatore non può essere punito ,
per mancanza di dolo , tutte le volte in cui egli abbia agito allo scopo di assicurare i colpevoli alla
giustizia e non abbia accettato neppure il rischio dell’ effettiva consumazione del reato.
1) L’ articolo 112 stabilisce un aggravamento di pena per l'ipotesi in cui il numero delle persone ,
che sono concorse nel reato , è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti. La ragione è
ravvisata nel maggior allarme sociale e nella maggiore capacità a delinquere dimostrata dei
concorrenti che agiscono in gruppi; il calcolo del numero delle persone prescinde dalla
colpevolezza, imputabilità o punibilità dei singoli concorrenti: basta che i concorrenti partecipano
nel numero richiesto alla realizzazione della fattispecie oggettiva.
3) Ulteriore aggravante si applica a chi, nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha
determinato a commettere il reato persone adesso soggette. Per la configurazione dell'
aggravante non è sufficiente che esista una forma qualsiasi di soggezione psicologica, ma è
necessario che la persona dotata del potere di supremazia abbia realizzato una vera e propria
coazione psicologica sul soggetto sottoposto.
4) Ultima circostanza aggravatrice di pena è prevista per chi ha determinato a commettere il reato
un minore di anni 18 , o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, o si è comunque
avvalso degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è
previsto l'arresto in flagranza. L'esigenza di contrastare il crescente fenomeno dell’ utilizzazione di
soggetti non imputabili nell'ambito della criminalità organizzata ha indotto il legislatore a
introdurre nuove aggravamenti di pena. In seguito alle aggiunte apportate dalle leggi n. 203/1991
e n. 172/1992, l'articolo 112 del codice contiene due nuovi commi: la pena è aumentata fino alla
metà per chi si avvalso di persone non imputabili o non punibili, a ragione di una condizione, o
qualità personale, nella commissione di un delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza. Se
chi ha determinato altri a commettere il reato o sia avvalso di altri nella commissione del delitto
ne è il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dal numero 4 del primo comma la pena
aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena aumentato fino a due
terzi.
13. CONCORSO NEL REATO PROPRIO E MUTAMENTO DEL TITOLO DEL REATO PER
TALUNO DEI CONCORRENTI
Si riconosce che un soggetto privo della qualità personale (cosiddetta extraneus) possa concorrere
alla commissione di un reato realizzabile soltanto da un soggetto qualificato (cosiddetto
intraneus): è questa l'ipotesi del concorso nel reato proprio. Anche il concorso nel reato proprio
rientra nella disciplina dell'articolo 110: l'estraneo contribuisce col suo comportamento di
partecipe alla lesione del bene protetto. Secondo i principi generali la sua responsabilità
presuppone però la consapevolezza di concorrere a un reato proprio, il che presuppone che egli
sia a conoscenza della qualifica dell' intraneus. Può accadere che la qualifica posseduta da taluno
dei concorrenti non sia determinata ai fini dell’ esistenza di un reato , ma comporti soltanto la
diversa qualificazione giuridica di un fatto che già costituirebbe reato ad altro titolo. Se l'estraneo
è a conoscenza della qualifica posseduta dell' intraneo, nulla quaestio: sempre in applicazione dei
principi generali si configura un concorso di reato proprio. Secondo la comune interpretazione ,
proprio a tale situazione fa riferimento l'articolo 117, a tenore del quale se, per le condizioni e le
qualità personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole l' offeso, muta il titolo del reato per
taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Non di meno, se
questo è più grave, il giudice può , rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le
qualità o i rapporti predetti, può diminuire la pena; analogamente alla disciplina prevista dall'
articolo 116, anche la norma in esame finisce con l' introdurre una forma di responsabilità
oggettiva: invero , non è conforme, ma contrasta coi principi dell' imputazione dolosa che un
partecipe debba rispondere di concorso in un reato proprio, pur ignorando la qualifica posseduta
dal soggetto o dei soggetti rispetto ai quali muta il titolo di reato. Parte della dottrina esclude che
la norma in esame deroga normali principi del concorso nel reato proprio perché come disciplinato
l'articolo 110. Reinterpretando l'articolo 117 in maniera conforme al principio costituzionale di
colpevolezza, la sua applicabilità andrebbe circoscritta ai soli casi in cui la qualifica soggettiva in
questione, sebbene ignorata dal partecipe, fosse però conoscibile in base a parametri di un uomo
ragionevole che si trovasse al suo posto.
Perché si verifichi il mutamento del titolo di reato è necessario che sia l' intraneus a porre in
essere l'attività esecutiva , o il ruolo di esecutore può anche essere assunto dall' estraneo?
L'articolo 117 omette di specificare quali siano le circostanze nelle quali ha luogo il mutamento del
titolo del reato a causa delle particolari qualità del colpevole dei suoi rapporti con l’ offeso. In
presenza di questa omissione non rimane che farsi guidare dall' interpretazione delle fattispecie di
parte speciale di volta in volta considerate. Secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale
che oggi tende a prevalere sarebbe proprio l' accoglimento della teoria plurisoggettiva eventuale a
rendere indifferente, ai fini della configurabilità del concorso nel reato proprio, il ruolo investito
dall’intraneus nell'ambito dell'esecuzione del fatto. La stessa disposizione in esame stabilisce una
circostanza attenuante facoltativa a favore di chi volle il reato meno grave. Secondo il condivisibile
orientamento prevalente, tale attenuante è applicabile soltanto al soggetto ignaro della qualifica
che comporta la diversa qualificazione giuridica del fatto.
A) Cominciando dalla prima questione, bisogna evitare il rischio di attribuire una sorta di
responsabilità di posizione e capi dell’ associazione criminali: evitandoli cioè al ruolo di concorrenti
morali, sotto forma di determinazione o istigazione anche implicita, nei singoli delitti commessi da
altri associati. In applicazione delle regole generali è da accertare in concreto caso per caso i
presupposti minimi. Cioè , non basta che singoli atti delittuosi materialmente commessi da altri
associati rientrino nelle direttrice programmatiche fissate in linee generali da capi medesimi: è
necessario, piuttosto, che le direttrici generali del programma delle associazioni contengono già
tratti essenziali dei singoli comportamenti delittuosi realizzate dai compartecipe. Ne deriva che
una responsabilità concorsuale a titolo di dolo dovrebbe riconoscersi anche in ipotesi in cui i vertici
lanciano agli altri associati invita all' azione apparentemente in determinati, ma in realtà idonei a
concretizzarsi solo in un numero circoscritto di reati.
B) La seconda delle questioni attiene alla configurabilità di un concorso eventuale nel reato
associativo (cosiddetto concorso esterno) da parte di soggetti estranei all' associazione criminosa.
Se si muove dal presupposto che la rilevanza penale di una condotta di partecipazione interna al
reato associativo implichi necessariamente l'acquisizione del ruolo precostituito e formali di
associato , possono aprirsi vuoti di tutela; per colmare questi vuoti di tutela penale non rimane
che ipotizzare un concorso eventuale esterno ex articolo 110 e ss del codice, nel reato associativo
che di volta in volta viene in questione. Il potenziale spazio di operatività dell'istituto in questione
risulta influenzato dal pregiudiziale modo di concepire le condotte di partecipazione interna. Se si
adotta un concetto ampio di partecipe l' ambito applicativo da riservare alla figura di concorrente
esterno si distingue, e viceversa. Con la presa di posizione più recente, le sezioni unite compiono
un passo avanti nel definire i contorni del concorso esterno , in quanto tale definizione è
preceduta da un opportuno sforzo di precisazione della stessa nazione di partecipazioni interna
nell’ associazione. Secondo la distinzione che viene proposta , è definibile partecipe interno colui
che risulta in rapporto stabile organico con penetrazione nel tessuto organizzativo
dell’associazione criminale, tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale ,
rimanendo a disposizione dell’ ente per il perseguimento dei comuni scopi criminosi. Una simile
definizione pone in risalto anche la proiezione dinamica del ruolo di componente organico , così
conferendo al ruolo di partecipazione uno spessore più coerente con i principi di materialità e di
offensività. Per converso, assume la veste di concorrente esterno il soggetto che, pur non essendo
inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’ associazione, fornisce tuttavia adesso un
concreto contributo. Sulla base di una simile definizione, il fondamento della rilevanza penale del
concorso esterno tende centrarsi soprattutto sull’ efficacia causale del contributo fornito dall'
estraneo. La Cassazione si è preoccupata di precisare che tale efficace eziologiche deve essere
accertata ex post , cioè proprio alla stregua nei medesimi criteri rigorosi. Proprio per evitare un
eccesso di discrezionalità giudiziale da caso a caso, sarebbe auspicabile un intervento legislativo
diretto a precisare, mediante la configurazione di uno più fattispecie incriminatrice di parte
speciale, nelle forme di continuità davvero intollerabile perciò meritevoli di repressione penale.
PARTE III: IL REATO COMMISSIVO COLPOSO
CAPITOLO 1: IL REATO COMMISSIVO COLPOSO
SEZIONE I: TIPICITA’
1. PREMESSA
Negli ultimi decenni si è assistito ad un impressionante aumento della criminalità colposo. Di qui la
necessità di un maggiore approfondimento dogmatico della struttura del delitto colposo, che ha
infine indotto la dottrina più recente a costruire la fattispecie colposa in modo separato ed
autonomo rispetto al modello doloso di reato. Il reato colposo non costituisce soltanto una
seconda e meno grave forma di colpevolezza da affiancare al dolo. Rappresenta un modello
specifico di illecito penale dotato di struttura e caratteristiche proprie che emergono già sul piano
della tipicità e che si riflettono fin sul terreno della colpevolezza.
1) Colpa generica da fonte sociale: contempla le ipotesi in cui sono violate norme di diligenza
sociale che trovano la loro fonte nell’ esperienza della vita sociale e non in norme giuridiche. Vi
rientrano i casi di negligenza, imprudenza e imperizia. Si ha negligenza quando si viola una regola
cautelare che impone un'attività positiva, ad esempio controllare che il gas sia chiuso prima di
uscire di casa. L’imprudenza consiste nella trasgressione di un obbligo di non realizzare una
determinata azione o di compierla con modalità diversa da quella tenta ad esempio non mettersi
alla guida in stato profondo di stanchezza. L’ imperizia consiste in una forma di imprudenza o
negligenza qualificata e si riferisce ad un'attività che esistono particolari conoscenze tecniche. In
passato si riteneva che nel caso di imperizia, l'errore del medico sarebbe stato penalmente
censurabile solo se rientrante nei limiti della colpa grave. Si portava a sostegno l'articolo 2236 del
codice civile, secondo cui ove la prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di
speciale difficoltà il prestatore d'opera risponde solo in caso di dolo o colpa grave. Attualmente si
sostiene che l'articolo 2236 abbia carattere eccezionale e non sia applicabile in via analogica: la
colpa per imperizia andrebbe valutata in base agli stessi canoni valevoli per la negligenza e l'
imprudenza ossia senza distinzione tra colpa grave colpa lieve. Questo anche per evitare il rischio
che è un aprioristico abbassamento del grado di perizia esigibile dal medico comporta un’
eccessiva indulgenza, con conseguente disparità di trattamento rispetto alle altre categorie
professionali.
2) Colpa specifica da fonte giuridica: sussiste quando vengono violate regole cautelari poste da
fonti scritte o giuridiche. L'articolo 43 parla di leggi, regolamenti, ordini o discipline: nel mondo
moderno si assiste al fenomeno di una crescente e positivizzazione delle regole di prudenza, ai fini
di disciplinare le situazioni di pericolo più tipiche e più rilevanti. Nel concetto di leggi potrà
rientrare non una qualsiasi legge penale, ma soltanto quella che abbia una specifica finalità
precauzionale. I regolamenti contengono norme a carattere generale predisposte dall’ autorità
pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività. Gli ordini e le discipline contengono
norme indirizzate ad una specifica cerchia di destinatari e possono essere emanati da autorità sia
pubbliche che private. Occorre di volta in volta a verificare se le norme scritto esauriscono la
misura di diligenza richiesta alla gente delle situazioni considerate: solo in questo caso l'
osservanza delle stesse esclude la responsabilità penale. Ove invece risulti uno spazio di esigenze
preventive non coperte dalla disposizione scritta, il giudizio di colpa può tornare a basarsi sull’
inosservanza di una generica misura precauzionale. Ad esempio un motociclista pur rispettando i
limiti di velocità prescritti si accorge che alcuni bambini giocano in mezzo alla strada deve adottare
ulteriori misure cautelari o in caso di incidente risponderà penalmente. Le norme giuridiche a
contenuto prudenziale possono essere RIGIDE: quando predeterminano in maniera assoluta le
regole di condotta ad esempio fermarsi col rosso. ELASTICHE : quando la regola di condotta va
specificata in base alle circostanze del caso concreto ad esempio distanza di sicurezza dei veicoli
che verrà portata allo spazio di frenata.
1. PREMESSA
Anche nel caso del reato colposo, va accertata l'assenza di cause di giustificazione, ai fini della
formulazione del giudizio di antigiuridicità. La tipicità ha qui funzione indiziante rispetto all’
antigiuridicità concepita come assenza di cause di giustificazione. La diversità strutturale tra reato
doloso e colposo fa sì che per quanto riguarda quest'ultimo non sono forse prospettabili tutte le
scriminanti esistenti: si fa riferimento soprattutto alle questioni riguardanti il consenso dell'avente
diritto, la legittima difesa e lo stato di necessità.
3. LEGITTIMA DIFESA
Secondo parte della giurisprudenza la legittima difesa è incompatibile con il delitto colposo perché
presuppone la volontà di ledere l'aggressore mentre nel reato colposo fa difetto proprio la volontà
dell' offesa appunto tale assunto non convince : è ben possibile che nell’ambito dell’azione
difensiva si possa provocare anche un evento lesivo non voluto e che l’agente avrebbe potuto
evitare con l'uso della diligenza dovuta. Oltretutto sarebbe davvero strano se l'ordinamento
consentisse di ledere volontariamente l'aggressore e punisse invece le conseguenze involontarie di
un'azione difensiva ad esempio tizio, attorniato da alcuni giovani che stanno per percuoterlo,
estrae un'arma e li minaccia: ma i giovani, anziché fuggire, tentano di disarmarlo per cui, nella
colluttazione che ne segue, parte involontariamente un colpo che uccide uno degli aggressori.
4. STATO DI NECESSITA’
È ammessa in maniera pacifica la configurabilità dello Stato di necessità nel delitto colposo, sia
dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Ad esempio un padre alla guida dell'auto vede il figlio
pedone in pericolo ed arresta bruscamente il mezzo , provocando le lesioni di un motociclista che
si scontra con il mezzo imprudentemente abbandonato. La giurisprudenza in casi simili, tratta lo
stato di necessità come esclusione della colpa e non come causa di giustificazione. Perché sussista
lo stato di necessità occorre che l'azione necessitata violi il dovere di diligenza. In altre ipotesi
invece, l'azione viola solo apparentemente il dovere di diligenza. Ad esempio nel caso dell'autista
dell'autobus che per evitare un incidente freni bruscamente provocando lesioni ai passeggeri il
comportamento del soggetto, essendo diretto tutelare anche il bene della persona che le risulta
offesa, realizza in concreto il migliore adempimento possibile del dovere generale di prudenza
posso a garanzia della sicurezza della circolazione. Distinguere tra due casi è importante non potrà
riconoscersi il diritto all' indennità fissato dall’ articolo 2405 del codice civile quando il fatto tipico
viene a mancare per la conformità del comportamento necessitato alla regola precauzionale. L'
indennità si riconoscerebbe quindi solo al motociclista e non ai passeggeri dell'autobus.
1. PREMESSA
Il modello tipico di illecito penale è tradizionalmente costituito dal reato di azione. E’ coerente ad
un ideologia individualistico liberale l'unico limite alla libertà d'azione del cittadino era
rappresentato dall’ obbligo di non aggredire le altrui posizioni di interesse: dunque fino a buona
parte dell'Ottocento il reato omissivo costituisce l'eccezione. Conformemente all' affermarsi del
diverso principio solidaristico che fa obbligo non solo di astenersi dal compiere azioni lesive,
quando di attivarsi per la salvaguardia dei beni altrui posti in pericolo, si assiste al progressivo
incremento delle forme di responsabilità per omissione. Con il crescere dei reati omissivi aumenta
anche l'attenzione della dottrina per tale figura di reato che merita pertanto uno studio
assestante, un'analisi separata che si preoccupi di porre in evidenza le peculiarità strutturali.
5. SITUAZIONE TIPICA
Anche per il reato omissivo improprio la fattispecie ricomprende la situazione tipica intesa come il
complesso dei presupposti di fatto che danno vita ad una situazione di pericolo per il bene da
proteggere che per quanto rendono attuale l'obbligo di attivarsi del garante. Peraltro, data la
mancanza di una previsione legale espressa di tutte le componenti costitutive del reato omissivo
improprio, il contenuto e lo scopo del dovere di agire del garante possono specificarsi solo in
rapporto alle circostanze del caso concreto, grazie al lavoro di conversione operato dal giudice.
7. LA POSIZIONE DI GARANZIA
Perché la Cassazione e il mancato impedimento di un evento risultino penalmente equivalenti non
basta accertare il nesso di causalità ipotetica tra l'evento stesso e la condotta omissiva. Il meno
che la causalità ipotetica possiede rispetto alla causalità reale, deve essere infatti compensato da
un altro elemento, secondo l'articolo 40 nella violazione di un obbligo giuridico di impedire
l'evento. Il problema è dunque quello di individuare gli obblighi giuridici di attivarsi, la cui
violazione consenta l'affermazione di responsabilità penale. La dottrina tradizionale accoglie la
teoria formale: l'obbligo di impedire l'evento deve essere espressamente previsto in fonti formali.
In particolare sono rilevanti gli obblighi di attivarsi che trovano fonte: nella legge, nel contratto,
nella precedenti azione pericolosa; parte della dottrina ha esteso l'ambito delle possibili fonti
ricomprendendo la negotiorum gestio e la consuetudine. Tale teoria è stata criticata, non essendo
in grado di spiegare in modo appagante perché il diritto penale a singole omissione non impediva
all' azione causale, e perché solo in alcuni casi. La dottrina più recente ha elaborato invece la
teoria contenutistico funzionale. Essa integra i tradizionali criteri giuridico formali di individuazione
degli obblighi di garanzia con criteri materiali desunti dalla specifica funzione attribuibile alla
responsabilità per omesso impedimento dell'evento nel nostro sistema penale. Ai fini di un
individuo azione degli obblighi di impedire l'evento rilevanti sul terreno del diritto vigente, è
opportuno dal conto qui di seguito soprattutto delle acquisizioni che oggi formano oggetto di più
ampio consenso alla luce della più recente evoluzione dottrinale in materia appunto si parte dalla
premessa che la responsabilità per omissione è prevista al fine di apprestare una tutela rafforzata
a determinati beni, data l'incapacità dei loro rispettivi titolari di proteggerli adeguatamente. Ai fini
della responsabilità penale per omissione non basta perciò un qualsiasi obbligo giuridico ma
occorre una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto. In base a tali considerazioni è
evidente che, anche nel caso dei genitori della bambina affetta da talassemia, si può parlare di
responsabilità dei genitori per omicidio mediante emissione in quanto essi si trovano senza dubbio
una posizione di garanzia punto gli obblighi di garanzia hanno un carattere speciale poiché
incombono solo su alcuni soggetti e non sulla generalità dei cittadini. Le posizioni di garanzia
possono essere inquadrate in due tipologie fondamentali: posizione di protezione che allo scopo di
perseverare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciare l'integrità, quale
che sia la fonte da cui scaturiscono; Posizione di controllo che allo scopo di neutralizzare
determinati fonti di pericolo in modo da garantire l'integrità di bene giuridici che ne possono
risultare minacciati. Rientrano tra le posizioni di protezione penalmente rilevanti: quelli che
trovano la loro fonte direttamente nella legge, e in particolare nel diritto di famiglia: il vincolo di
protezione tra genitori e figli minori di quell’ articolo 30 della costituzione. La ratio di questo
obbligo di protezione sta nell’ incapacità naturali minori a difendersi dai pericoli punto di
conseguenza l'obbligo non è reciproco se non in casi eccezionali punto la protezione dovuta sia
rispetto alle aggressioni di terzi che rispetto a fatti naturali. L'obbligo impone di impedire che i figli
subiscono lesioni alla vita all'integrità fisica; il rapporto tra coniugi l'obbligo di reciproca assistenza
previsto dal codice civile può tramutarsi in un obbligo di garanzia penalmente rilevante a
condizione che tra i coniugi sussiste un rapporto di concreto affidamento circa la reciproca
protezione; Posizioni di protezione sono previste dall' ordinamento penitenziario a carico dei
dipendenti dell'amministrazione penitenziaria favore dei detenuti di cui sono tenuti a tutelare la
vita e l'incolumità personale; Quelle che scaturiscono da un atto di autonomia privata qual è il
contratto come ad esempio la baby sitter punto al di fuori di un rapporto contrattuale, la posizione
di protezione può altresì scaturire sono assunzione volontaria dei compiti di garante che,
determina o accentui una situazione di rischio per il bene protetto.
Tra le posizioni di controllo rientra invece obblighi di controllo sfondi di pericolo che si configurano
in presenza di due condizioni: che il titolare del bene si trovi nell’ impossibilità di proteggere il
bene medesimo, e che il garante tenga sotto la sua sfera di Signoria la sorgente da cui si origina la
situazione di pericolo a carico di terzi. Il proprietario della cosa pericolosa deve impedire che dalla
stessa possano derivare danni a terzi, che in quando non proprietari della sorgente non possano
proteggersi da sé perché vi sarebbe inferenza nella sfera altrui.
Al paradigma delle posizioni di controllo su fonti di pericolo possono essere ricondotti anche casi
in cui il garante è obbligato a impedire l'agire illecito di un terzo. Configurarsi di questa specifica
posizione di garante dipende in alcuni casi dalla presenza di due condizioni: che il terzo sia carente
dei requisiti necessari a governare in modo responsabile il proprio comportamento; e che a causa
di tale stato di incapacità naturale, egli debba sottostare al potere di controllo e vigilanza di un
garante. Alcune volte la posizione di garanzia in esame si fonda sull’esistenza di un potere giuridico
che pone determinati soggetti in condizione di impedire la commissione di reati da parte di altri
soggetti. È discusso se si possa configurare una posizione di controllo sull’ agire illecito dei terzi
anche a carico degli appartenenti alle forze dell'ordine. Inoltre la funzione di prevenzione che lo
stato esercita mezzo delle forze dell'ordine non muove affatto dalla premessa che tutti i cittadini
siano individui responsabili, da tenere sotto continuo controllo ricorrendo alla predisposizione di
appositi garanti. Le posizioni di garanzia si distinguono ulteriormente in originarie nascono in capo
a determinati soggetti in considerazione dello specifico ruolo o della speciale posizione di volta in
volta rivestita; Derivate tra passano dal titolare originario ad un soggetto diverso, per lo più
mediante un altro di trasferimento negoziale appunto di solito tale passaggio delega avviene
attraverso un mandato. Perché gli obblighi di attivarsi di fonte contrattuale possano assumere
rilevanza ai sensi dell'articolo 40 sono necessarie alcune condizioni: l'intervento del titolare del
bene protetto di un garante a titolo originario virgola che il nuovo garante assume in concreto la
funzione di tutela, affidamento nella validità del contratto. Obblighi di garanzia penalmente
rilevanti possono anche derivare da un' assunzione volontaria della posizione di garante punto ai
fini della rilevanza penalistica delle posizioni di garanzia spontaneamente assunte quel che
veramente conta è che l'intervento del garante determina c'è più un esposizione a pericolo del
bene da proteggere o impedisca la attivarsi di istanze di protezione alternative.
II ANTIGIURIDICITA’
Relativamente alle cause di giustificazione valgono le stesse regole del reato commissivo:
l'antigiuridicità esplica la funzione di convalidare l’ illiceità indiziata della conformità al tipo,
dunque se sussiste una causa di giustificazione l'omissione non risulta antigiuridica e la punibilità
viene meno. È più facile configurare omissioni giustificate dallo stato di necessità ad esempio:
omissione di soccorso perché il salvataggio metterebbe in pericolo la propria vita.
III COLPEVOLEZZA
1 PREMESSA
Anche la struttura della colpevolezza nei reati omissivi è fondamentale analoga a quella già
esaminata nello studio del reato di azione. Con specifico riferimento ai reati omissivi impropri si
prospetta il problema dell'equiparabilità del cagionare il non impedire sotto il profilo dello stesso
trattamento sanzionatorio. Una dottrina minoritaria, ad esempio, sostiene che in materia di reati
omissivi la colpevolezza sia meno grave dal momento che lasciare le cose come stanno implica una
carica di minore pericolosità, onde se n’è dedotto che i delinquenti per omissione meriterebbero
un trattamento punitivo meno severo.
2. DOLO OMISSIVO
Nel settore dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo
risulta complessa e delicata. Ciò vale in particolare per le ipotesi omissive proprie, in quanto
caratterizzate dall’ assenza non solo di una condotta positiva ma anche di un evento
naturalisticamente percepibile: perché sia individuabile il dolo diventa essenziale la conoscenza
della norma. A tal proposito occorre distinguere i reati omissivi propri in due categorie:
Fattispecie con situazione tipica pregnante: sono i casi in cui l'obbligo di attivarsi ha per
presupposto una realtà immediatamente percepibile a prescindere dalla conoscenza dell'obbligo
di agire ad esempio nell’ omissione di soccorso la visione di un ferito provoca la spinta psicologica
ad agire anche se il soggetto ignora l'esistenza della norma che punisce l' omissione di soccorso.
Fattispecie hai con situazione tipica neutra: sono gli illeciti di creazione legislativa a cui non
preesiste un disvalore socialmente percepibile punto in questi casi parte della dottrina ritiene che
per la sussistenza del dolo senza del comando penale virgola in deroga all'articolo 5 del codice
penale.
Occorre la conoscenza dei presupposti del dovere di attivarsi ma anche la consapevolezza della
possibilità di agire nella direzione voluta dalla norma. Negli atti omissivi impropri il dolo abbraccio
anche presupposti di fatto della posizione di garanzia appunto entra a far parte del dolo la
conoscenza dell'obbligo extrapenale di agire, derivante ad esempio da un contratto.
3. COLPA
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi particolari nella fattispecie omissiva. Il difetto
di diligenza può riferirsi al mancato riconoscimento della situazione tipica da parte dell’ omittente
oppure all' errata scelta dell’ azione doverosa da compiere. L' adempimento del dovere di
diligenza presuppone ovviamente che il soggetto obbligato abbia la possibilità di agire nel senso
richiesto punto tale possibilità di agire si articola in:
In un secondo momento si terrà conto ai fini della rimproverabilità dell'omissione delle capacità
effettive dell’emittente sotto il profilo psicologico fisico. Nell’ambito dei delitti omissivi impropri è
da rilevare che, quanto a contenuto, doveri di diligenza obbligo di impedire l'evento finiscono, nell’
ipotesi concreta, con l'intersecarsi e coincidere: il garante cioè tenuto a fare, per impedire la
verificazione di determinati eventi, quando gli viene imposto dall’ osservanza delle regole di
diligenza dettate dalla situazione particolare.
4. COSCIENZA DELL’ILLICEITA’
Nell’ambito dei reati omissivi la coscienza dell'illiceità equivale alla conoscenza del comando di
realizzare una determinata azione: tale conoscenza effettiva però non è richiedibile ai fini della
punibilità appunto ai fini della sussistenza della colpa bellezza è sufficiente la possibilità di
conoscere il precetto penale. Dunque nei reati omissivi la possibilità di non conoscere il precetto
penale va sempre presa in considerazione, mentre in quello dei reati commissivi tale possibilità è
da tenere in conto solo in presenza di circostanze oggettive.
IV TENTATIVO
1 IL TENTATIVO
E ’pacificamente riconosciuto che il tentativo nei reati omissivi impropri è configurabile. Si ha
tentativo di omissione quando l'evento non si verifica per circostanze indipendenti dalla volontà
della gente. Ad esempio la madre non nutre il figlio ma questi non muore per l'intervento nella
vicina. Potrebbe sorgere un dubbio circa l'individuazione del momento iniziale della missione
punibile. Si deve ritenere che l'omissione tentata assume rilevanza penale quando provoca un
pericolo diretto per il bene tutelato, appaiono più controverse la questione circa la configurabilità
del tentativo per i reati omissivi propri. L'opinione negativa in merito fa leva sul rilievo decisivo
attribuito al termine di adempimento: se il termine utile per compiere l'azione prescritta non è
ancora scaduto, di azione dovuta e ancora punibile; Se il termine è scaduto il reato è già perfetto.
Parte della dottrina ritiene che comunque il tentativo sia configurabile tutte le volte in cui il
soggetto compie atti positivi diretti in modo non equivoco non adempie raccomandazione. Ad
esempio il pubblico ufficiale si reca all'estero al fine di non essere presente nel tempo e nel luogo
in cui dovrebbe compiere un atto d'ufficio, ponendo in essere così un tentativo di omissione di
archi l'ufficio.
V PARTECIPAZIONE CRIMINOSA
Concorso mediante azione in un reato omissivo: ad esempio Tizio istiga Caio non a soccorrere un
ferito. Anche in casi come questo il ricorso all'istituto della partecipazione criminosa si rivela
superfluo, qualora pure l'istigatore sia personalmente in grado di soccorrere la persona anche egli
infatti potrà assumere direttamente il ruolo di autore il diritto di omissione di soccorso.
1. PREMESSA
Dolo e colpa costituiscono i normali criteri di imputazione soggettiva di un fatto al suo autore: ma
essi non esauriscono i criteri di imputazione accolti nel nostro ordinamento. L'articolo 42 dopo
aver stabilito il 2° comma che un fatto delittuoso si risponde a titolo di dolo colpa, aggiunge al 3°
comma che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente,
come conseguenza della sua azione od omissione. Non si richiede, dunque, non è che l'evento
costituisca oggetto di una volontà colpevole (dolo), né che sia conseguenza di una condotta
contraria a regole di diligenza sociale o scritte (colpa). Proprio perché l’agente è chiamato a
rispondere a prescindere da qualsiasi legame psicologico con l'evento di cui trattasi, i casi di
responsabilità oggettive introducono vistose eccezioni al principio di colpevolezza. Le ragioni
politico-criminali sottese all'istituto in esame possono mutare nel corso del tempo in relazione sia
alle diverse esigenze di tutela , sia all' evolvere delle concezioni intorno alla stessa funzione del
diritto penale. Nella prospettiva di una tendenziale identificazione tra diritto e peccato si riteneva
che il delinquente- peccatore dovesse rispondere di tutte le conseguenze oggettivamente
cagionate dalla sua precedente azione criminosa, non importa se voluto non volute, prevedibile
fortuita. A partire dall’epoca illuministica, lo stesso principio del versari in re illicita viene
reinterpretata in chiave di prevenzione generale: cioè la colpevolezza, da parte del potenziale
autore, che l'ordinamento gli addosso a tutte le conseguenze materialmente connesse alla sua
azione illecita, dovrebbe costituire fattore capace di inibire la spinta criminosa. è poco realistico
ipotizzare che la maggior parte dei potenziali rei siano così esperti in diritto penale da poter
cogliere la sottile distinzione tra responsabilità colpevole e responsabilità obiettiva e da lasciarsi
condizionare dal surplus di deterrenza che si dovrebbe specificatamente connessa alla seconda. le
possibili funzioni politico- criminali della responsabilità oggettiva emergono anche sul terreno
processuale: il ricorso a essa cioè può servire a eliminare difficoltà probatorie, con riguardo a quei
casi in cui risulta particolarmente complesso l'accertamento giudiziale del dolo e della colpa. Le
ragioni che indussero lo stesso legislatore del 1930 a rinunciare a esplicite deroghe della
colpevolezza motivate da esigenze meramente probatorie, non soltanto sono tutt'oggi valide, ma
appaiono rafforzate dal crescente riconoscimento del carattere costituzionalmente inderogabile
del principio di colpevolezza. Il mancato accertamento in concreto della colpevolezza è tanto più
ingiustificabile alla stregua dei principi generali , in quanto la configurazione legislativa dell' illecito
di per sé richiede il dolo o la colpa quali presupposti dell' imputazione soggettiva. Nella
manualistica corrente, la trattazione della responsabilità oggettiva come istituto autonomo è
collocata nella stessa sede riservata alla colpevolezza: qui l'argomento viene affrontato dopo la
trattazione dei tipi di illecito , in base alla considerazione che la responsabilità oggettiva non
configura un modello delittuoso autonomo , e nel nostro ordinamento si innesterà
strutturalmente le diverse tipologie delittuose: reati dolosi e colposi, commissivi ed omissivi.
2. RESPONSABILITA’ OGGETTIVA E PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'articolo 27, comma 1°, cost. sancisce il principio del carattere personale della responsabilità
penale; secondo una prima interpretazione fondamentalmente accolta tale comma si limiterebbe
a bandire la sola responsabilità per fatto altrui. Alla stregua di questa interpretazione minima del
principio della personalità, la responsabilità oggettiva sarebbe perfettamente costituzionale
perché pur sempre ancorata alla condotta dello stesso soggetto destinatario della sanzione. La
tesa richiamata non convince però, perché mortifica il significato innovativo dell' affermazione del
principio fatto dal legislatore costituzionale: in verità, il divieto di responsabilità per fatto altrui
appartiene già ai primordi della civiltà giuridica, e come tale sarebbe stato osservato anche se
prescindere da un suo solenne riconoscimento costituzionalistico. Le obiezioni di incostituzionalità
sollevate all'istituto prendono corpo se il principio della personalità lo si interpreta nella sua
espansione massima, cioè come sinonimo di responsabilità personale colpevole. Se per fondare un
rimprovero di colpevolezza è necessario infatti almeno la presenza di una condotta contraria del
dovere di diligenza , di colpevolezza non puoi certo parlarsi nel caso della responsabilità oggettiva
basata sul semplice nesso di causalità materiale. A conclusione non dissimile si può giungere
argomentando anche il comma 3. La stessa funzione rieducativa della pena postula che il fatto
addebitato sia psichicamente riportabile, almeno nella forma della colpa al soggetto da rieducare.
La tesi dell' avvenuta costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, argomentando in base al
collegamento sistematico dei commi 1 e 3 dell'articolo 27 cost. è stata recepita nelle sentenze n.
364/1988 e n. 1085/1988. La corte giunge a sostenere che il dolo la colpa devono
immancabilmente coprire gli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice e che, perché
l'articolo 27 al primo comma, sia pienamente rispettato , è indispensabile che tutti e ciascuno degli
elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente
collegata all’agente ed è altresì indispensabile che tutte e ciascuno dei predetti elementi siano allo
stesso agente rimproverabile cioè anche soggettivamente disapprovati.
La presa d’atto che sussiste in contrasto tra la responsabilità oggettiva del principio costituzionale
della personalità della responsabilità penale può indurre a prospettare un interpretazione più
conforme a costituzione delle norme penale coinvolte. È sostenuto che la norma costituzionale
dell'articolo 27, comma 1, consenta già di respingere il tradizionale assunto che la
preterintenzione stessa sia un misto di dolo e responsabilità oggettiva e di affermare che essa sia
un’ipotesi di dolo misto a colpa. La Cassazione ha affermato principi generali così riassumibili: la
responsabilità per l'evento non voluto presuppone, oltre un nesso di causalità con la condotta
dell’agente , che sia accertata in capo a quest'ultimo la presenza di un elemento soggettivo
costituito da una colpa in concreto, a sua volta ancorato a un coefficiente di prevedibilità ed
evitabilità dell'evento valutato al punto di vista razionale agente modello. Di conseguenza, il modo
di intendere il concetto di colpa in concreto in un contesto base illecito dipenderà non poco anche
dal modo di concepire il modello di agente razionale e ragionevole. All'interno del dibattito
dottrinale in prospettiva di riforma, se si concorda sull’ esigenza di rivedere l'attuale disciplina dei
casi di responsabilità obiettiva, vi è tuttavia anche sottolinea l'opportunità di mantenere forme di
trattamento penale più severo per alcun ipotesi di delitto aggravato dall’evento, caratterizzate da
una tipica accentuata pericolosità del fatto criminoso base.
3. CASI DI RESPONSABILITA’ OGGETTIVA “PURA”
la responsabilità oggettiva si manifesta in origine nel codice Rocco secondo combinazioni
strutturali diverse: si distinguono i casi di responsabilità oggettiva pura da casi di responsabilità
oggettiva mista a dolo o ha colpa. I casi del primo tipo sono i seguenti i:
a) Aberratio delicti. L'articolo 83 stabilisce che, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del
reato, o per altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, titolo
di colpa, dell'evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo: è
fatta salva la possibilità di un' interpretazione correttiva. Il che significa che si applicano le stesse
pene previste per il reato colposo, mentre il criterio di attribuzione della responsabilità rimane di
natura obiettiva.
B) Responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto. L'articolo 116 stabilisce che,
qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne
risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione . In questo caso è sempre fatta salva la
possibilità di un' interpretazione correttiva in cui legislatore attribuisce il diverso reato realizzato
anche al partecipe che non ha voluto virgola in base al semplice nesso di causalità materiale.
CASO 63: Tizio, per vendicarsi di un’offesa subita da parte di Caio, decide di sparargli alle gambe; A
tal fine ruba una pistola, la tiene addosso pur essendo privo di porto d'armi e si reca nelle
vicinanze dell’ abitazione dell’ offensore: mentre Caio sta per uscire gli esplode ripetuti corpi agli
altri inferiori.
1.PREMESSA
Può accadere che nei confronti di una medesima condotta confluiscono più norme incriminatrici:
tale confluenza può dar luogo a un vero e proprio concorso di reati, o un concorso apparente di
norme. Il concorso di reati si distingue in materiale e formale. Si ha concorso materiale di reati
quando uno stesso soggetto, con più azioni od omissioni, realizza più reati. Si ha concorso formale
quando uno stesso soggetto commette più reati, con una sola azione od omissione. In queste due
ipotesi di concorso si registra uno stesso fenomeno cioè l'esistenza di una pluralità di reati. La
disciplina giuridica non è però identica: mentre nel concorso materiali si applicano tante pene
quanti sono i reati, nel concorso formale si applica la pena prevista per la violazione più grave
aumentata fino al triplo. La figura di concorso apparente di norme ricorre invece, quando una
medesima condotta soltanto in apparenza risulta riconducibile a più fattispecie incriminatrice, ma
in realtà integra un solo reato. Concorso di reati e concorso apparente di norme rappresentano
dunque, dal punto di vista concettuale, fenomeni simmetrici e contrari: è questa la ragione che
giustifica la loro trattazione della stessa sedes materiae.
4. CONCORSO MATERIALE
Si ha concorso materiale quando un soggetto realizza, con più azioni od omissioni , più violazioni
della stessa (concorso materiale cosiddetto omogeneo) o di diverse norme incriminatrici (concorso
materiale cosiddetto eterogeneo). Al concorso materiale si riferiscono due norme del codice
penale: l'articolo 71 che tratta nell’ ipotesi in cui una sola sentenza o un solo decreto si deve
pronunciare condanna per più reati contro la stessa persona; e l'articolo 80 che fa riferimento all'
ulteriore ipotesi in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa
persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima,
o quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna. Il
codice Rocco ha voluto rendere più rigoroso il trattamento sanzionatorio del concorso materiale
introducendo il diverso principio del tot crimina, tot poena (c.d. cumulo materiale): si cumulano le
pene previste per ciascuno dei delitti commessi. Nell’ adottare il principio del cumulo materiale
delle sanzioni lo stesso legislatore del 1930 ha ritenuto opportuno introdurre alcuni limiti diretti a
stabilire l' ergastolo o di reati che comportano pene detentive temporanee: al concorso di reati
che comportano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie; Al concorso di
reati che comportano pene detentive rispetto diversa; pene pecuniarie di specie diversa; ulteriori
limiti che sono previsti dagli articoli 76 e 79. Va condiviso oggi l'orientamento prevalente che
tende a negare il concorso materiale di reati una specifica rilevanza come autonomo istituto di
diritto sostanziale. Di qui il giustificato dubbio circa la possibilità di continuare a considerare il
concorso di reati come forma di manifestazione del reato medesimo accanto al delitto tentato, al
delitto circostanziato e al concorso di persone. Dotati di specifica rilevanza sul terreno del diritto
sostanziale sono, invece, gli istituti del concorso formale e del reato continuato.
a) Di regola, l'equivalenza unità di azione-unità di reato poggia sul fatto che l'azione tipica
esaurisce il contenuto di una sola fattispecie incriminatrice. Vi sono però dei casi in cui una stessa
condotta realizza contemporaneamente elementi riconducibile a diverse fattispecie incriminatrice.
La confluenza di più fattispecie verso la stessa condotta deve essere effettiva.
b) Per stabilire se si configuri un concorso formale omogeneo occorre verificare quante volte una
medesima azione violi una stessa disposizione incriminatrice. Appare decisiva la distinzione tra
fattispecie incriminatrici che tutelano beni altamente personali, esempio la vita, e fattispecie che
proteggono beni di una natura diversa . Rispetto alle prime e fuori di dubbio che si configura una
pluralità di reati se con una medesima azione si ledono soggetti passivi diversi (caso 61). Rispetto
alle seconde, in presenza di una sola azione pur lesiva di soggetti passivi diversi non sempre invece
configurabile una pluralità di reati. Unicità di furto si avrebbe anche se l' impossessamento avesse
ad oggetto più cose, in quanto una pluralità degli oggetti rubati comporterebbe soltanto un
aggravamento quantitativo di un offesa qualitativamente unitaria.
6. SEGUE: DISCIPLINA GIURIDICA
A norma dell'articolo 81, comma 1°, chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni
di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge, è punito con la pena che
dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata al triplo. Tale disposizione ha modificato
l'originario regime giuridico previsto dal legislatore del 1930 attraverso la riforma 1974 : al regime
del cumulo materiale codificato nella vecchia formulazione dell articolo 81, è subentrato il regime
del cumulo giuridico, consistente nell’ applicazione della pena prevista per il reato più grave con
un aumento corrispondente non alla somma delle altre pene, ma ad una quota proporzionale
prefissata dalla legge. Le ragioni sostanziali che comunemente adducono contro il cumulo
materiale e a favore del cumulo giuridico, sono di duplice ordine. Si rileva che il peso umano della
sofferenza si accresce progressivamente con la durata delle pene e pertanto si violerebbe quel
rapporto di proporzione tra numero dei reati ed entità delle pene implicito nella stessa idea
ispiratrice del cumulo materiale delle sanzioni; in secondo luogo si afferma che chi compie più
reati con una sola azione attua una sola risoluzione criminosa perciò dimostrano una minore
pericolosità sociale. La mancanza di un adeguata era approfondita preparazione della riforma
emerge con evidenza maggiore sul terreno della tecnica di relazione le legislativa, caratterizzato
dal lacune e difetti di formulazione. Il legislatore ha omesso di compiere una precisazione: non ha
cioè esplicitato se il regime del cumulo giuridico delle sanzioni sia applicabile anche nei casi in cui
le pene previste per i reati in concorso siano di specie diversa. Da qui l'incertezza sull’ applicabilità
del cumulo giuridico nel caso di concorso formale tra delitti e contravvenzioni. La riforma 2005 ha
aggiunto all'articolo 81 un nuovo comma: “ fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i
reati in concorso formale in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali
sia stata applicata la recidiva prevista dall’ articolo 99, 4 comma, l’aumento della quantità di pena
non può essere comunque inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave”. Anche
qui va sottolineato che la recidiva aggravata reiterata finisce con l' assumere una duplice rilevanza,
nel senso che suo effetto sul carico sanzionatorio complessivo viene a prodursi più volte: sia in
sede di determinazione della pena-base e sia di determinazione del trattamento connesso al
concorso formale o alla continuazione.
1) La pluralità di azioni od omissioni deve intendersi come pluralità di condotte autonome, che
danno luogo ad altrettanti episodi criminosi. Il reato continuato esula se la pluralità di azioni è tale
in senso soltanto naturalistico, in quanto le diverse azioni devono essere invece unificabili nel
quadro di un'azione giuridicamente unitaria. L'articolo 81 cpv precisa che le diverse azioni od
omissioni possono essere commesse anche in tempi diversi. Quanto maggiore sarà la distanza
temporale tra diversi episodi delittuosi, tanto più gravosa risulterà la prova della medesimezza del
disegno criminoso.
2) Il secondo requisito del reato continuato è costituito dalla pluralità delle disposizioni di legge
violate. Il riformato articolo 81 cpv ammette la configurabilità dell’ istituto in esame anche in
presenza della commissione di reati diversi, non importa se dotati di caratteri fondamentali
comuni o del tutto eterogenei tra di loro.
3) La portata e i limiti dell’ istituto in esame oggi si definiscono in sede di interpretazione del
requisito della medesimezza del disegno criminoso che è rimasto il solo elemento caratterizzante il
reato continuato. Secondo un orientamento il requisito sarebbe stato assunto dal legislatore in un'
accezione puramente delle attiva: stesso disegno criminoso equivarrebbe ad una sorta mera
rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi poi di fatto commessi dallo
stesso agente.
Unicità del disegno criminoso equivale all' unicità dello scopo: per aversi reato continuato occorre
che diverse episodi delittuosi costituiscono attuazione di un preciso e concreto programma diretto
alla realizzazione di un obiettivo unitario. Ne deriva che i diversi reati devono porsi in un rapporto
di interdipendenza funzionale certo al conseguimento di un unico fine. Questa seconda
interpretazione è da preferire: cioè il rilievo che la medesimezza del disegno criminoso
rappresenta l'unico elemento dei reati di continuazione. Ne consegue che il disegno medesimo
può avere ad oggetto soltanto fatti criminosi sorretti dalla volontà di commetterli: sussistendo
incompatibilità strutturale tra unicità del programma e assenza di volontà rispetto a uno più
episodi delittuosi , ne deriva che il norme sulla continuazione risultano inapplicabile reati colposi.
La continuazione invece è ammissibile anche nell'ambito delle contravvenzioni, purché si
manifestano in concreto nella forma dolosa.
a) Il primo problema che sorge in proposito, concerne la determinazione del concetto di violazione
più grave; secondo il primo orientamento, per accertare quale sia la violazione più grave occorre
fare riferimento all' astratta previsione legislativa , cioè alla qualità e l'entità delle sanzioni
applicabile per i singoli reati in continuazione. In questa valutazione astratta si fanno rientrare
anche gli elementi in grado di incidere sulla gravità delle azioni di tali comminate per i singoli reati.
Altra parte della dottrina e la giurisprudenza sono inclini verso una determinazione in concreto. Si
sostiene che è necessario fare riferimento non soltanto al titolo di reato e alle rispettive pene
edittali, ma tutti gli altri elementi che possono incidere sulla valutazione dei singoli episodi in
continuazione. Ad accogliere questo indirizzo però si rischia di stravolgere la valutazione operata
dal legislatore in merito all' obiettiva gravità delle diverse figure delittuosi. È dunque preferibile la
tesi più tradizionale, che ravvisa la violazione più grave in quella più gravemente punibile in
astratto.
b) In assenza di una esplicita presa di posizione legislativa, assai controversa appare l' applicabilità
del cumulo giuridico nei casi in cui reati commessi siano puniti con pene eterogenee. in proposito
si assiste a conflitto tra due esigenze egualmente meritevoli di considerazione: da un lato quella di
salvaguardare il principio della legalità delle pene; dall'altro, quella di rendere operante nella
prassi l'intento legislativo di attribuire all' istituto della continuazione la massima espansione. In un
primo momento nella prassi applicativa era emersa la tendenza a escludere la continuazione tra
reati puniti con pene eterogenee, e cioè in base alla ritenuta violazione del principio della legalità
delle pene: nel senso che l' applicabilità dell’ istituto avrebbe comportato l' irrogazione di una
pena diversa da quella prevista per ciascun reato , o anche più grave di quella prevista per uno dei
reati riuniti. Successivamente, sono emersi orientamenti favorevole, sia pure entro limiti non
sempre coincidenti punto nel caso di reati puniti con pene di specie diversa, dopo interventi di
segno contrario delle stesse Sezioni Unite, ha infine preso posizione la Corte costituzionale che,
con sentenza interpretativa n. 312 del 1988, afferma che non esiste alcuna ragione di principio per
non dare massima espansione all'istituto del reato continuato e ai relativi benefici. Rimane
controversia l'ammissibilità della continuazione nel caso di reati puniti con pene di genere diverso,
cioè di reati puniti, rispettivamente, con pene detentive: la soluzione attiene all' individuazione
alla cui stregua operare l'aumento della pena prevista per il reato ritenuto più grave. Altra
questione controversa, rispetto alla quale si è registrato un’ evoluzione giurisprudenziale, riguarda
la possibilità di ammettere la continuazione fra i reati giudicati con sentenza irrevocabile e reati
ancora sub judice. Anche al reato continuato si applica la nuova disciplina, già esaminati in sede di
trattazione del concorso formale di reati, relativa al trattamento del soggetto recidivo reiterato
che ha commesso reati in continuazione.
CASO 65: Caio fa mendaci dichiarazione prima dinanzi alla polizia giudiziaria, e poi dinanzi al
giudice, al fine di favorire l'autore di un reato.
1. PREMESSA
In alcuni casi il confluire di più norme incriminatrice nei confronti di un medesimo fatto non è
reale, ma solo apparente. Per indicare tale fenomeno, si è soli di ricorrere all' espressione
concorso o conflitto apparente di norme. I presupposti sono: l'esistenza di una medesima
situazione di fatto; e la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla.
Trattandosi però di una convergenza che si rileva fallace, occorre individuare i criteri che
consentono di accertare la realtà o l'apparenza del concorso. Per identificare i casi di concorso
apparente sono stati escogitati tre criteri: 1)specialità; 2) sussidiarietà; 3) consunzione (o
assorbimento). Di questi criteri solo quello di specialità trova riconoscimento nel codice penale; gli
altri due costituiscono frutto di elaborazioni dottrinali. Nel convincimento che il problema del
concorso apparente debba essere risolta alla stregua dell’ unico criterio legislativamente previsto,
cioè quello di specialità. È ben possibile interpretare l'articolo 15 del codice penale, che fa
riferimento al principio di specialità, come una norma che intende disciplinare non il generale
fenomeno del concorso di norme, ma una specifica ipotesi di concorso: quella nella quale le norme
concorrenti si trovano il rapporto di genere a specie. L'articolo 15 non può di conseguenza
escludere che nel nostro ordinamento possono operare altri criteri legislativamente non previsti.
La tematica del concorso apparente di norme costituisce tutt'oggi uno dei capitoli più controversi
del diritto penale.
2. SPECIALITA’
L'articolo 15 dispone: quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale
regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o la
disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito. La disposizione richiama il
principio della prevalenza della legge speciale rispetto a quello generale. Di conseguenza, la norma
generale ha un'estensione più ampia rispetto a quella speciale; ma il rapporto tra le due norme è
tale per cui, ove la seconda mancasse, i casi che rientrano sarebbero riconducibili alla prima.
Adottando un linguaggio formalizzato, può anche dirsi che la disposizione speciale contempla un
sottoinsieme dei casi contemplati dalla disposizione generale, come nel caso 64, dove è
prospettato un fatto riconducibile a prima vista ad entrambe le fattispecie. Pur ravvisarsi altresì un
rapporto di specialità ad esempio tra il sequestro di persona semplice o tra la rapina e la violenza
privata. Il rapporto di specialità può intercorrere non solo tra norme incriminatrici, ma anche tra
norme incriminatrici da un lato e norme cosiddette di liceità dall'altro. Secondo un orientamento,
oggi diffuso però più in giurisprudenza che in dottrina, il concetto di “stessa materia” non solo
alluderebbe alle esigenze di un medesimo fatto apparentemente riconducibile a più norme, ma
presupporrebbe anche l'identità od omogeneità del bene protetto, con la conseguenza che il
rapporto di specialità intercorrerebbe soltanto tra norme poste a tutela di un medesimo bene
giuridico. Tale interpretazione riprende di inserire, tra presupposti di operatività dell'articolo 15,
un elemento che ne stravolge la funzione: infatti il rapporto di specialità ha natura logico-formale
e, pertanto, sono esclusi estranea apprezzamenti di valore di tipo di quelli che è invece necessario
emettere in sede dell'individuazione dell'oggettività giuridica.
Secondo un altro indirizzo interpretativo, il concetto di stessa materia farebbe riferimento non
solo alle ipotesi nelle quali un medesimo fatto rientro più norme incriminatrici, ma anche a quelle
in cui il medesimo fatto concreto è riconducibile a due o più figure criminose, pur se tra le
medesime non sussiste in astratto un rapporto di genere a specie. Il rapporto di specialità in
concreto andrebbe risolta applicando la norma che meglio si adatta al caso di specie,
normalmente ravvisata in quello che prevede il trattamento più severo: nella specie dunque si
applicherebbe soltanto la norma che punisce il millantato credito, la quale, in quanto
caratterizzato ad un maggiore disvalore , assorbirebbe in sé quella sulla truffa. Non si comprende
però come mai un rapporto di genere a specie fra due norma possa dipendere dalle particolarità di
fatto concreto; come rapporto tipicamente sussistente tra norme astratte, la specialità o esiste o
non esiste: tertium non datur.
Altra parte della dottrina estende il rapporto di specialità ai casi di c.d. specialità reciproca o
bilaterale: tale relazione sussisterebbe allorchè nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna
è ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano elementi specifici ed elementi
generici rispetto ai corrispondenti dell'altra. L' ambito di applicazione del principio in esame va
circoscritto entro i limiti connaturati alla sua accezione originaria; cioè il rapporto di specialità
sussiste soltanto tra fattispecie astratte in senso univoco. Ne deriva che il concetto di stessa
natura, cui fa riferimento l'articolo 15, sta semplicemente indicare il presupposto dell’ instaurarsi
di un rapporto di specialità tra fattispecie , vale a dire che ricorre una medesima situazione di fatto
sussumibile sotto più norme.
3. SUSSIDIARIETA’
Il principio di sussidiarietà intercorre tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un
medesimo bene: in modo tale l'offesa maggiore assorbe la minore e, di conseguenza, l'applicabilità
dell' una norma è subordinata al non applicazione dell'altra. In alcuni casi è lo stesso legislatore di
indicare un rapporto di sussidiarietà tramite l'utilizzo di una clausola di riserva; ma esistono anche
casi di sussidiarietà tacita, come ad esempio un rapporto intercorrente tra la contravvenzione di
atti contrari alla pubblica decenza e il delitto di atti osceni. La riserva principale è che non sempre
esso risulta facilmente distinguibile dal criterio dell'assorbimento.
6. REATO COMPLESSO
L'articolo 84 stabilisce che le disposizioni sul concorso di reati non si applicano quando la legge
considera come elementi costitutivi, o come circostanza aggravanti di un solo reato, fatti che
costituirebbero, presso stessi, reato. Tale norma disciplina il reato complesso, il quale consiste in
una unificazione legislativa sotto forma di identico reato di due o più figure criminose, i cui
rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall ‘ unificazione. La
funzione pratica cui assolverà l’articolo 84, è quella di evitare che l'interprete sia indotto ad
applicare il regime del concorso di reati laddove il legislatore ha proceduto ad una unificazione
normativa di fatti che integrerebbero autonome fattispecie incriminatrici. Alla figura di reato
complesso fanno riferimento alcune norme di disciplina contenuta nel codice penale: in primo
luogo, il 2° comma dell'articolo 84 stabilisce che qualora la legge, nella determinazione della pena
del reato complesso, si riferisce alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non
possono essere superati i limiti massimi indicati nell’ articolo 78 e 79. A sua volta, l'articolo 131
dispone che nei casi preveduti dall' articolo 84, per reato complesso si procede sempre d'ufficio ,
se per taluno dei reati che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si deve procedere
d ufficio. Infine l'articolo 170, comma 2, stabilisce che è la causa estintiva di un reato, che è
elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non sia assente il reato
complesso.
PARTE SETTIMA: LE SANZIONI
CAPITOLO 1: I PRESUPPOSTI TEORICI E POLITICO-CRIMINALI DEL SISTEMA
SANZIONATORIO VIGENTE
1. PREMESSA
Parlare di sanzione penale equivale ad evocare l'idea di un castigo inflitto all'autore di un fatto
illecito. Il momento afflittivo implicito nella pena può essere strumentalizzato per il
raggiungimento di fini diversi: questi fini, a loro volta, mutano in funzione delle più generali
concezioni della società e dello Stato che via via emergono nel corso dell’evoluzione storica.
L'evoluzione storica- sociale influisce sia sugli scopi della pena ma anche sulle tecniche adoperate
di volta in volta per punire l'autore dell’ inflazione. I sistemi penali moderni non si basano più sulla
sola pena, sia pure articolati molteplici specie. Il concetto di sanzione penale oggi si intende sino a
ricomprendere la cosiddetta misura di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur
sempre alla commissione di un reato, ma la cui funzione si differenzia da quella delle pene in senso
stretto: scopo nelle misure di sicurezza sarebbe quello di risocializzare l'autore di un reato in
quanto soggetto socialmente pericoloso. Le vicende del nostro sistema sanzionatorio ruotano
attorno alle tre fondamentali linee guida: retribuzione, prevenzione generale e prevenzione
speciale. Il prevalere di una prospettiva rispetto alle altre e/o il loro reciproco combinarsi, si
manifestano in tempi e forme che riflettono sia la logica interna del sistema penale ma anche dal
contesto politico-sociale e culturale di riferimento. Nella retribuzione vige l'idea che la sanzione
penale deve servire a compensare la colpa per il male commesso (puniatur quia peccatum est).
L'idea retributiva implica anche il concetto di proporzione: la risposta sanzionatoria se deve
compensare il male provocato all' azione illecita, non può non essere proporzionata alla gravità del
reato medesimo . L'idea della prevenzione generale si fonda sull’ assunto che la minaccia della
pena serve a distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi. La
teoria della prevenzione speciale fa leva sull’ idea che l' inflizione della pena a un determinato
soggetto, serve ad evitare che il medesimo compia in futuro altri reati.
La funzione di prevenzione generale viene tutta affidata alla penna. Alla retribuzione, definita
funzione satisfattoria, viene attribuito un ruolo non autonomo, ma strumentale rispetto all'
obiettivo della prevenzione generale: questo nesso strumentale retribuzione- prevenzione
generale caratterizza anche alcuni orientamenti cosiddetti neoretribuzionistici emersi nell'ambito
del dibattito penalistico di questi ultimi anni. La funzione di prevenzione speciale è, invece,
affidata alle misure di sicurezza, le quali sono dirette neutralizzare la pericolosità sociale del reo e
hanno come scopo quello di evitare che un medesimo soggetto incorra nella commissione di
futuro i reati. La dizione sistema del doppio binario non esprime solo la compresenza in uno stesso
ordinamento di sanzioni penali di natura diversa, ma indica qualche cosa di più: e cioè la possibilità
di applicare un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso imputabile e socialmente pericoloso,
tanto la pena che la misura di sicurezza.
A) Per attenuare il contrasto tra la pena dell' ergastolo e la finalità rieducativa contrasto,
evidentemente, dovuto alla contraddizione tra il carattere perpetuo della pena e la prospettiva
della rieducazione, la legge 25 novembre 1962, n. 1634, modificando l'articolo 176 del codice, ha
stabilito che il condannato all' ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando
abbia scontato almeno 26 anni di pena. In seguito, la riforma penitenziaria del 1986 ha esteso
anche agli ergastolani la possibilità di beneficiare della semilibertà e della liberazione anticipata.
C) L'espressione più significativa del finalismo rieducativo è però costituita dalla riforma
dell'ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975. I punti più qualificanti di tale riforma
consistono nel ricezione dell' ideologia del trattamento rieducativo e nell’ introduzione di misure
alternative alla detenzione ispirata all'idea del probation. La prospettiva rieducativa, che ispira
misura alternative quali l'affidamento in prova, la semilibertà nella liberazione anticipata si
esprime in una tendenza al recupero sociale attuato non attraverso il trattamento penitenziario,
ma mediante il reinserimento del condannato nell’ ambiente esterno. La necessità di contrastare
gravi forme di criminalità induce a restringere l' applicabilità dei nuovi istituti attraverso una serie
di preclusioni oggettive concernenti gli autori dei reati più gravi. Ulteriore inversione di tendenza,
è sollecitata nei primi anni 90 dalla necessità di fronteggiare la criminalità organizzata di stampo
mafioso. La prospettiva che viene a delinearsi è duplice: da un lato, si inasprisce la disciplina
penitenziario dei condannati per delitti riconducibili alla criminalità organizzata; Dall'altro lato, si
introducono misure premiali finalizzata allo scopo di incentivare la collaborazione giudiziaria. Il
problema consiste nello stabilire se la collaborazione giudiziaria possa assurgere a sintomo
credibile di rieducazione. la legge 12 luglio 1999, n. 231 e la legge 27 maggio 1998 n. 165,
cosiddetta riforma Simeone, si è inciso sul terreno dell’ esecuzione della pena assumendo una
direzione del tutto opposta all’ inasprimento del trattamento perseguito con la legislazione
antimafia. In particolare, si sono ulteriormente ampliate le condizioni di accesso alle misure
alternative.
D) Ulteriore significativa è l'ideologia rieducativa della legge 24 novembre 1981, n. 689, delle
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. La sostituzione con sanzioni di altro tipo serve ad
evitare che il soggetto subisca il contagio criminale prodotto dall' impatto con la realtà carceraria.
E) Segni del finalismo rieducativo si intravedono nella nuova disciplina della pena pecuniaria,
introdotta con la legge n. 689 del 1981. Questo nuovo meccanismo tende ad agevolare il reo nel
processo di riacquisizione del rispetto dei valori offesi.
Quale che sia il nucleo di verità dell’ idea della prevenzione generale c.d. negativa in forma di
coazione psicologica, la rivalutazione della concezione general-preventiva cui in atto si assiste
poggia però su altre basi. Si tende a sottolineare che la minaccia della pena adempie una funzione
morale- pedagogica o di orientamento culturale dei consociati, prevenzione generale cosiddetta
positiva. La funzione di orientamento culturale s'indebolisce, laddove risulti insufficiente o incerta
la stigmatizzazione del comportamento nella morale collettiva. Un ulteriore presupposto di
efficacia è costituito da un buon livello di credibilità del sistema penale complessivo, essendo da
escludere che stimoli all' osservanza dei precetti un sistema percepito come ingiusto sia efficace.
Ma la prospettiva della prevenzione generale positiva o cd allargata può offrire il fianco a due
riserve di fondo. Da un lato, essa cioè si presta a rilegittimare la stessa concezione retributiva della
pena. Dall’ altro la teoria in parola finisce col privilegiare la soddisfazione dei bisogni collettivi di
stabilità e sicurezza.In una fase di crisi della pena e delle sue giustificazione si impone una
valutazione del diritto penale quale extrema ratio. Le funzioni di deterrenza e di orientamento
culturale rispetto alla generalità dei cittadini si esplicano soprattutto nella fase della minaccia: se si
vuole raggiungere l'obiettivo di impedire la commissione di fatti socialmente lesivi, occorre fare in
modo che il sistema penale esercita la sua influenza prima della loro commissione. La funzione di
prevenzione generale , concepita nella duplice dimensione, occupa invece uno spazio più ristretto
nella fase dell’ inflazione giudiziale della pena ad un singolo reato: se si infliggono condanne
esemplari, cioè talmente pesanti da provocare nei potenziali rei il terrore di potere incorrere in
una rigorissima posizione, si ricorrerebbe il rischio di strumentalizzare il singolo delinquente per
fini di politica criminale. Si tratterebbe di un di un sacrificio ingiusto che non si può legittimamente
infliggere al singolo: proprio il rispetto dell’ uomo concepito anche come fine in sé, e non come
semplice strumento, vincola il giudice a infliggere una pena di ammontare tale che non superi la
colpevolezza insita nel singolo fatto di reato. La funzione di prevenzione generale svolge un ruolo
decisamente secondario durante la fase di esecuzione della pena: qui domina la preoccupazione
per il trattamento rieducativo, mentre efficacia deterrente per i consociati in genere rimane
affidata alla natura inevitabilmente afflittiva di ogni trattamento punitivo.
8. B) LA RETRIBUZIONE
L'idea della retribuzione rappresenta uno dei fondamentali poli attorno da cui da sempre ruota il
dibattito sul concetto e sulle funzioni della pena. Quando si parla di retribuzione, oggi ci si riferisce
non alla prospettiva degli scopi della pena, ma a qualche cosa di diverso che presuppone come già
risolto il problema del perché si debba pulire. L'idea retributiva implica l'idea di proporzione tra
entità della sanzione e gravità dell' offesa arrecata, tra misura della pena e grado della
colpevolezza. Il reo deve avvertire che la pena sia giusta e che perciò assuma un atteggiamento di
maggiore disponibilità psicologica verso il processo rieducativo. L'idea retributiva troverebbe una
base empirica nei bisogni emotivi di punizioni esistenti nella società e in ciascun individuo di fronte
alla perpetrazione dei reati. Si sottolinea che lo spettacolo di chi delinque costituisce un esempio
potenzialmente contagioso, essendo vivo nell’ inconscio di ciascuno il desiderio di trasgredire le
proibizioni. La reazione punitiva dello Stato verso il delinquente conferma e rafforza la fedeltà ai
valori tutelati. Riserve critiche a tale tesi sono il rischio di punizioni terroristiche non proporzionate
all' obiettiva gravità del reato commesso e l'idea retributiva. Si finisce così, con l' assecondare
tendenze regressive che la privano proprio di quella funzione di limite e di garanzia. Tra i compiti
di un diritto penale moderno e razionale rientra anche quello di filtrare criticamente le istanze di
punizione emergente dai contesti sociali. La principale obiezione è che, proprio perché privilegia la
funzione positiva che la pena assolve per la società, si disinteressa del destino del singolo
delinquente, così dimenticando alla corresponsabilità della società nella genesi del delitto. Proprio
la presa d’atto di questa corresponsabilità impedisce di rinunciare a ravvisare nella pena uno
strumento razionale capace di incidere positivamente anche sul singolo individuo delinquente: è
proprio questa tensione verso il finalismo rieducativo che pone lo Stato in una condizione di
superiorità morale, che lo legittima punire chi ha delinquito.
9. C) LA PREVENZIONE SPECIALE
La funzione di prevenzione speciale tende ad impedire che chi si è già reso responsabile di un
reato torni a delinquere anche in futuro. La tecnica più elementare consiste nella neutralizzazione
del soggetto potenzialmente pericoloso ottenuta grazie all'impiego della coercizione fisica. La
neutralizzazione può essere ottenuta anche attraverso forme di interdizione giuridica, che
impediscono al reo di continuare a svolgere attività che hanno occasionato la commissione di un
delitto : si pensa ad esempio il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione. Un altro modo
di operare si manifesta in forma di condizionamento della personalità del reo attraverso
l’ammenda morale, già presente in Seneca. Nei tempi moderni la prevenzione speciale assume a
criterio la rieducazione concepita come risocializzazione. Tale prospettiva presiede alla fase
esecutiva della pena, e ne costituisce la sede naturale: è durante l'esecuzione della pena che si
procede al trattamento individualizzato del colpevole, al fine di favorire il più possibile il
riadattamento. La funzione educativa svolge anche un ruolo decisivo nella fase antecedente dell'
inflizione o commisurazione giudiziale della pena. Dominante fino agli anni Sessanta è l'ideologia
di risocializzazione; oggi, però, alcuni autori parlano di mito di risocializzazione. La strana
inversione di tendenza muove alla pressa d’atto di un presunto fallimento degli sforzi sinora
compiuti sul piano della concreta realizzazione del finalismo rieducativo. Riserve critiche a tale
prevenzione sono la valutazione dei metodi statistici: il fallimento di cui si parla riguarderebbe il
trattamento inteso soprattutto nell’ accezione specifica di terapia della personalità, condotta da
esperti in psicologia secondo criteri scientifici. Ma l'ideologia della rieducazione può essere
tradotta in atto attraverso tecniche variamente articolate, che non necessariamente
presuppongono l' adesione al modello medico. Tale tecnica lungi dall' essere stata sinora applicata
in maniera generalizzata ed è stata circoscritta a piccoli gruppi di detenuti ben selezionati e
all'interno di specifici istituti. La riaffermazione della validità teorica e politico-criminale del
finalismo rieducativo non deve indurre nell’ equivoco che la rieducazione costituisca un fine in sé.
La prevenzione speciale come risocializzazione costituisce soltanto una tecnica finalizzata all'
obiettivo primario della protezione dei beni giuridici.
Decadenza o sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (art 34) : Tale pena consiste nella
privazione della capacità di esercitare diritti e doveri che la legge ricollega alla posizione di
genitore. La decadenza dalla potestà importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore
spetti sui beni del figlio; essa consegue ipso iure alla condanna all'ergastolo e alla condanna per
determinati delitti, in particolare contro la moralità pubblica e il buon costume. La sospensione
dall'esercizio della potestà importa anche l'incapacità di esercitare, durante la sospensione,
qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio; essa consegue alla condanna alla
reclusione per almeno 5 anni; la condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei
genitori importa la sospensione dall'esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della
pena inflitta. Pene accessorie previste perle contravvenzioni
Sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte: Prevista dall'art 35, ha un contenuto
afflittivo identico all'interdizione dall'esercizio di una professione o di un'arte, ma tuttavia se ne
differenzia perché non comporta la decadenza del permesso già regolarmente ottenuto, ma si
limita a sospendere, per il periodo di tempo fissato, la capacità di esercitare la professione. Alla
scadenza del predetto periodo tale esercizio può essere ripreso senza ulteriori formalità. Consegue
ad ogni condanna per contravvenzione commessa con abuso della professione, o con violazione
dei doveri ad essa inerenti, quando la pena inflitta è pari almeno ad un anno di arresto. Tale pena
accessoria può avere una durata compresa tra i 15 giorni e i 2 anni.
Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese: Ha un contenuto
afflittivo identico alla interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Il
legislatore ha ritenuto opportuno far conseguire alla condanna all'arresto questa pena, in
considerazione del notevole disvalore penale di alcune contravvenzioni. Consegue ad ogni
condanna all'arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti all'ufficio e può avere una durata compresa tra 15 giorni e 2anni. 4. Pubblicazione della
sentenza penale di condanna. All'art 36 il codice penale prevede tale pena accessoria comune ai
delitti e alle contravvenzioni. Questa pena deve essere ordinata dal giudice e viene eseguita
mediante la pubblicazione, di regola per estratto e sempre una sola volta, della sentenza di
condanna in uno o più giornali stabiliti dal giudice, ed a spese del condannato. Consegue alla
condanna per delitti o contravvenzioni nei casi stabiliti dalla legge. La sentenza di condanna alla
pena dell'ergastolo, inoltre, è pubblicata mediante affissione nel comune ove è stata pronunciata,
in quello in cui fu commesso il delitto e in quello in cui il condannato aveva l'ultima residenza.
Problemi di costituzionalità di questa pena accessoria sono stati prospettati in dottrina, con
riferimento al principio di umanità di cui all'art 27 comma 3° della Costituzione.
Affidamento in prova al servizio sociale: è la più importante delle misure alternative. Si ispira
all'istituto di origine anglosassone del probation, ma a differenza di questo che lascia il soggetto in
libertà con il rispetto di determinate prescrizioni e sotto il controllo e l'aiuto di personale
specializzato, l'affidamento in prova presuppone quasi sempre iniziata l'esecuzione della pena
detentiva. A causa della sua natura ibrida viene definito forma di probation penitenziario. L'art 47
dell'ordinamento penitenziario fissa la disciplina: il condannato a pena detentiva di massimo 3
anni può essere affidato al servizio sociale fuori dall'istituto per un periodo uguale a quello della
pena da scontare. Le prescrizioni imposte all'affidato costituiscono il contenuto della sanzione
alternativa. Secondo il sistema della legge, alcune di queste prescrizioni sono espressamente
previste, mentre altre sono genericamente indicate nelle loro direttive d'ordine generale. Esso è
revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate,
appaia incompatibile con la prosecuzione della prova: la revoca dunque non consegue ipso iure
alla commissione di un nuovo reato o alla trasgressione delle prescrizioni imposte, ma è necessaria
un'ulteriore valutazione in termini di incompatibilità con la continuazione della prova. L'esito
positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale, ma non le pene
accessorie né le obbligazioni civili derivanti da reato.
Affidamento in prova per tossicodipendenti e alcool dipendenti: Particolare ipotesi di affidamento
in prova al servizio sociale previsto in considerazione delle specifiche peculiarità legate allo stato di
dipendenza del condannato. Si applica su domanda dell'interessato che abbia in corso un
programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi e che deve scontare una condanna entro
il limite dei 4 anni. Mira a proseguire o a concordare l'attività terapeutica sulla base di un
programma stabilito con una unità sanitaria locale o con un ente privato, associazione o
cooperativa ad hoc previsti. Con tale misura si sono volute evitare le conseguenze negative
derivanti dall'interruzione del programma di attività terapeutica in corso, o dall'impedimento
dell'inizio del programma.
Detenzione domiciliare: Dal punto di vista della natura giuridica, più che una misura alternativa
alla detenzione in senso proprio costituisce una mera modalità di esecuzione della pena per talune
categorie di condannati nei confronti dei quali la sanzione penale normalmente eseguita non
svolgerebbe alcuna funzione risocializzante. Il tribunale di sorveglianza stabilisce le prescrizioni e le
modalità esecutive. Essa è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle
prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura. Una forma speciale di
detenzione domiciliare riguarda i soggetti affetti da HIV in fase di cura.
Semilibertà: Consiste in una parziale limitazione della libertà personale, alternata con un periodo
di libertà. L'art 48 dell'ordinamento penale afferma che la semilibertà consiste nella concessione al
condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad
attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Anche questa misura
rappresenta una modalità di esecuzione della detenzione, in quanto attenua lo stato di privazione
della libertà. Può essere concessa ab initio per le pene detentive brevi e anche per quelle di lunga
durata. Il tempo trascorso in semilibertà è sempre considerato come pena detentiva
effettivamente scontata. Essa può essere revocata se il soggetto si dimostra inidoneo al
trattamento o rimane assente dall'istituto senza giustificato motivo per un massimo di 12 ore (se
l'assenza si protrae invece per un tempo maggiore, viene considerata evasione e punita con la
reclusione).
Liberazione anticipate: L'art 54 dell'ordinamento penitenziario dispone che al condannato a pena
detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione è concessa, quale
riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una
detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il
periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare. Questa progressiva
riduzione di pena persegue l'obiettivo di agevolare il trattamento penitenziario, incentivando la
partecipazione del detenuto con il prospettargli la concreta possibilità di una liberazione
anticipata: essa ha dunque un carattere premiale, e va considerata come un momento del
trattamento penitenziario, progressivo e individualizzato.
Permessi premio: Si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare condotta (hanno
manifestato cioè senso di responsabilità e correttezza nella vita carceraria) e che non risultano
socialmente pericolosi, per consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.
L'esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di trattamento e deve essere
seguita dagli educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del
territorio. La durata dei permessi non può essere superiore a 45 giorni in ciascun anno di
espiazione.
Art 4 bis dell'ordinamento penitenziario: Articolo introdotto nel 1991, realizza un doppio binario
tra i condannati per reati comuni e i condannati appartenenti alla criminalità organizzata o
eversiva, fatte salve le eccezioni per coloro che collaborano con la giustizia e, a certe condizioni,
per coloro nei confronti dei quali può escludersi in maniera sicura l'attuale esistenza di
collegamenti con la criminalità organizzata medesima. L'assegnazione al lavoro esterno, i permessi
premio e le misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la liberazione anticipata),
possono essere concessi ai detenuti per delitti commessi al fine di agevolare l'attività di
associazioni mafiose, solo nei casi in cui essi collaborino con la giustizia. Riguardo a detenuti per
delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, tali
benefici possono essere concessi solo se non ci sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di
collegamenti con la criminalità organizzata. Questa disciplina vuole costituire un forte deterrente
contro la pericolosità sociale di questi delinquenti, sollecitandoli all'uscita dall'associazione
criminale mediante incentivi premiali.
-dai precedenti penali e giudiziari e dalla condotta dalla vita del reo antecedenti al reato;
A) Motivi a delinquere. Il motivo o movente viene comunemente definito come la causa psichica,
lo stimolo che induce l'individuo a delinquere. Si tratta di un’ inclinazione affettiva, cioè di un
impulso o di un istinto: la psicologia del profondo insegna che il motivo dell'azione può anche
essere inconscio perché ignoto allo stesso agente.
B) Carattere del reo. Gli psicologi tendono a concepire il carattere come il termine di transizione
tra i fattori endogeni (temperamento), ed esogeni (ambiente), che contribuiscono a integrare la
personalità. Quindi il carattere costituisce il risultato della lotta tra questi fattori. Come risultato di
questa tensione, di questa opposizione tra l'uomo e la realtà esterna, il carattere rappresenta una
struttura di autocontrollo: è uno strumento di orientamento dell’ individuo nella scelta tra le
diverse possibilità di azione. Si comprende quale ruolo generale assume il carattere come
elemento diagnostico della capacità criminale : l’ articolo 133 allude al carattere nell’ accezione più
lata, cioè comprensiva di tutte le componenti della personalità.
E) Le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. L'azione di questi elementi serve a
calcolare l'incidenza dell'ambiente esterno all'interno del processo criminogenetico. Se ci si pone
ad esempio nell'ottica della colpevolezza, una forte pressione esterna nella dinamica del fatto farà
apparire meno riprovevole l'autore. Mentre se ci si colloca nella diversa prospettiva della
pericolosità sociale, tanto più cresce il tasso di criminalità latente del soggetto, quanto più
determinanti risultano le influenze dell'ambiente, e viceversa.
A) L'articolo 27, comma uno, costituzione avendo riconosciuto il principio della responsabilità non
solo personale ma anche colpevole, riflette il sistema penale diretto alla valorizzazione dell'
intento soggettivo del reato. Da ciò derivano conseguenze ben precise sul piano
dell'interpretazione del 1° comma dell'articolo 133: tra gli indici della gravità del reato il giudice
dovrà considerare prevalente l'intensità del dolo o il grado della colpa , ma il peso attribuito alla
gravità del danno non può spingere all'organo giudicante a infliggere una pena superiore a quella
proporzionata al grado della colpevolezza. L'articolo 27, comma 1° riesce a illuminare il problema
della commisurazione della pena anche usata in diversa angolazione del divieto di responsabilità
per fatto altrui. Si tratta di scoraggiare l'eventuale valorizzazione giudiziale dell’ indice della gravità
del danno o del pericolo per far prevalere preoccupazione di prevenzione generale. La scelta di
irrogare pene esemplari finisce col cozzare col divieto di responsabilità per fatto altrui, perché
esaspera il ruolo di capro espiatorio del singolo delinquente: il reo viene infatti a scontare una
misura una pena di misura eccedente la sua colpevolezza in vista dell' esigenza di bandire la
reiterazione di fatti analoghi da parte di terzi soggetti.
Condizioni obiettive intrinseche: incidono sull'interesse protetto, nel senso di approfondire una
lesione già implicita nella commissione del fatto;
Condizioni obiettive estrinseche: nulla aggiungono alla lesione dell'interesse protetto dalla norma
incriminatrice, ma si limitano a riflettere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse
esterno al profilo offensivo del reato. Senza dubbio oggi l'istituto delle condizioni obiettive si
espone a riserve critiche. Se è vero che non di rado l'introduzione di una condizione obiettiva si
spiega con l'intento di superare le difficoltà di accertamento del dolo rispetto all'evento-
condizione, ciò deve indurre a riflettere sui limiti di compatibilità di una tale scelta legislativa con il
principio della responsabilità.
Vi è rischio che il ricorso alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità rappresenti una sorta
di comodo alibi per sottrarre alla disciplina del dolo e della colpa elementi del fatto delittuoso. Il
problema della compatibilità tra le condizioni obiettive di punibilità e il principio di colpevolezza si
aggrava quanto più si tratta di eventi condizionanti che hanno la capacità di incidere sull'offesa
insita nel fatto tipico, approfondendola o aggravandola. In proposito la sentenza costituzionale n.
364 del 1988 ha sancito il fondamentale principio secondo cui la colpevolezza, almeno nella forma
minima della colpa, deve coprire tutti gli elementi significativi del fatto, cioè quelli da cui dipende il
disvalore dell'offesa tipica. Non possono sottrarsi dunque al principio di colpevolezza le condizioni
di punibilità intrinseche, quali accadimenti capaci di incidere sull'offesa insita nel fatto tipico, e il
principio di colpevolezza potrà considerarsi rispettato ove tali condizioni siano, sul piano
soggettivo, coperte quantomeno dalla colpa. Infatti, l'art 44, ammettendo che l'evento
condizionale possa essere anche non voluto, esclude solo che il dolo costituisca necessario
presupposto di imputazione dell'evento medesimo; ma nulla dice sulla colpa, e ciò non impedisce
che l'interprete ne richieda la presenza in una prospettiva di ricostruzione in chiave costituzionale
dell'istituto. Per rimuovere il contrasto tra le condizioni oggettive di punibilità e il principio di
colpevolezza si potrebbe percorrere un'altra strada più diretta, che consiste nel respingere come
infondata la distinzione tra condizioni intrinseche ed estrinseche, nel presupposto che tutte le
condizioni di punibilità soddisfano interessi esterni ed antagonistici rispetto al bene giuridico
sottostante al reato e, perciò, ininfluenti rispetto all'offesa tipica. All'interno di tale impostazione,
le condizioni obiettive mantengono la sola funzione di ridurre la rilevanza penale di fatti altrimenti
punibili, e di conseguenza, avvantaggiando il reo, non porrebbero alcun problema di imputazione
soggettiva: da qui la loro estraneità o indifferenza rispetto al principio di colpevolezza.
esse possono essere generali se collocate nella parte generale del codice e perciò riferibili a tutti
o comunque ad un gran numero di reati; oppure speciali se applicabili a uno o più reati
determinati e previste in leggi speciali o nella parte speciale del codice;
possono essere condizionate (es. sospensione condizionale della pena) o incondizionate (es.
morte del reo prima della condanna) a seconda che tra i requisiti di applicabilità figurino o no
requisiti riconducibili alla volontà del soggetto;
hanno efficacia personale, nel senso che operano solo nei confronti della persona cui si
riferiscono, salvo che la legge disponga diversamente;
devono essere dichiarate immediatamente dal giudice in ogni stato e grado del processo, salvo sia
evidente il proscioglimento nel merito;
sottostanno al principio del favor rei nell'ipotesi di concorso tra più cause estintive, nel senso che
l'effetto estintivo del reato o della pena dovrà essere prodotto dalla causa comparativamente più
favorevole. Esse hanno natura sostanziale, e non più processuale (salvo la remissione della
querela, che infatti viene trattata in procedura penale).
la soluzione negativa si fonda sul mancato accertamento dell'esistenza del reato e quindi sulla
mancanza di una sentenza o di un decreto penale di condanna, che costituisce il normale
presupposto per l'applicazione di una misura di sicurezza;
ma la dottrina prevalente è orientata per la tesi che la morte del reo non impedisce l'adozione
della confisca, la quale esclude il ricorso all'art 210, che afferma la regola dell'inapplicabilità delle
misure di sicurezza a seguito del fenomeno estintivo. La morte del reo non esclude il
proscioglimento nel merito quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato
non l'ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato;
non esclude neanche la possibilità per il giudice civile, in sede di accertamento incidentale del
fatto ai fini del risarcimento dei danni anche morali, di valutare autonomamente la fattispecie
accogliendo la pretesa risarcitoria. Nell'ipotesi di fondato dubbio sull'esistenza in vita
dell'imputato, il giudice deve sospendere il procedimento (es. dichiarazione di assenza)
• reato consumato: sia esso di mera condotta o di evento, attivo o omissivo, si fa riferimento al
momento della realizzazione della condotta o della verificazione dell'evento o del mancato
compimento dell'azione dovuta;
• delitto tentato: si deve considerare il momento in cui si sono realizzati gli atti idonei
inequivocabilmente diretti a commettere il delitto;
• concorso di reati: l'amnistia si applica ai singoli reati per i quali è concessa. Anche per l'amnistia
vale il principio che essa non si estende al reato complesso di cui il reato amnistiato rappresenta
elemento costitutivo o circostanza aggravante (così ad esempio, l'amnistia concessa per la violenza
privata non estinguerà il delitto di rapina). La legge che contiene l'atto di clemenza deve indicare i
reati amnistiati: vengono utilizzati a questo scopo diversi criteri di selezione, quali il numero
dell'articolo, il nomen juris o il tetto di pena entro il quale è concedibile il beneficio. Nel nostro
sistema, si è fatto uso in passato di tutti e tre i criteri congiuntamente (anche se quello del tetto
della pena può creare problemi per l'influenza che su di esso possono esercitare le circostanze
aggravanti e attenuanti). L'amnistia non è applicabile, salva diversa volontà legislativa, nel caso in
cui il soggetto autore del reato astrattamente ricompreso nel provvedimento sia stato dichiarato
dal giudice recidivo aggravato e reiterato oppure delinquente abituale, professionale o per
tendenza: tali dichiarazioni di delinquenza qualificata devono essere già definitivamente adottate
al tempo in cui l'amnistia entra in vigore. Va notato che l'art 151 limita la sua sfera di efficacia ai
delinquenti, con conseguente esclusione dei contravventori qualificati, per i quali l'amnistia è
applicabile. L'amnistia sia propria che impropria può essere subordinata a condizioni o a obblighi,
che in virtù del principio di legalità devono comunque essere espressamente previsti dalla legge.
L'amnistia è rinunciabile. In caso di rinuncia all'amnistia, il giudizio prosegue nelle forme regolari e
può sfociare sia in una pronuncia di condanna che di assoluzione.
6. LA PRESCRIZIONE
Al decorso del tempo l'ordinamento ricollega di solito effetti giuridici. Nel diritto penale il decorso
del tempo può avere effetti sia sul reato, sia sulla pena. La prescrizione del reato è una causa
estintiva costituita appunto dal decorso del tempo senza che alla commissione del reato segua una
sentenza di condanna irrevocabile. Con il decorso del tempo appare inutile e inopportuno
l'esercizio della stessa funzione repressiva, perché vengono a cadere le esigenze di prevenzione
generale che presiedono alla repressione dei reati: esse a poco a poco si affievoliscono fino a
spegnersi del tutto. Tuttavia, in una prospettiva di valorizzazione dei diritti fondamentali
dell'uomo, insieme con la necessità di garantire il diritto costituzionale alla difesa in giudizio (e
nello specifico il diritto ad ottenere il riconoscimento dell'innocenza), la Corte costituzionale ha
dichiarato l'illegittimità dell'art 157, nella parte in cui non consentiva la rinunciabilità della
prescrizione. Nell'attuale formulazione dunque, la prescrizione è sempre espressamente
rinunciabile dall'imputato. Per alcuni reati è in ogni caso stabilita l'imprescrittibilità: sono quelli per
cui è prevista la pena di morte e dell'ergastolo, e ciò in considerazione della loro gravità, del fatto
che più a lungo durano nel ricordo degli uomini e quindi non attenuano l'interesse statale alla loro
repressione. La disciplina giuridica della prescrizione è stata radicalmente riformata nel 2005: si è
voluta soddisfare l'esigenza di assicurare maggiore certezza nel calcolo del tempo dell'oblio,
rimediando all'inconveniente di far dipendere tale calcolo anche da una postuma valutazione
giudiziale ampiamente discrezionale. Il nuovo art 157:
comma 1°: per determinare il tempo necessario a prescrivere, abbandona il precedente criterio
delle classi di gravità dei reati individuate per fasce di pena e lo sostituisce con il nuovo criterio
della pena massima edittale di ciascun reato, ma contemporaneamente introduce una soglia
minima inderogabile di tempo di almeno 6 anni se si tratta di delitto e di almeno 4 anni se si tratta
di contravvenzione, ancorchè puniti con la sola pena pecuniaria.
commi 2° e 3°: allo scopo di rendere più certo ex ante il tempo necessario a prescrivere, elimina la
rilevanza della diminuzione di pena per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze
aggravanti. Con un'eccezione relativa alle aggravanti autonome a effetto speciale, ove si tiene
conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante.
comma 2°: detta una disciplina differenziata per i recidivi, stabilendo che ai fini del computo del
tempo necessario a prescrivere rilevano le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce
una pena diversa da quella ordinaria e quelle a effetto speciale e che si tiene conto dell'aumento
massimo di pena previsto. Dunque nei casi in cui la recidiva opera come circostanza aggravante,
con un aumento della pena superiore a 1/3, occorre calcolare ai fini della prescrizione anche
questo ulteriore aumento. Solo la recidiva semplice, per la quale si è mantenuto l'aumento di pena
fino a un terzo, sfugge a questo meccanismo di allungamento dei tempi prescrizionali.
comma 6°: prevede un raddoppio degli ordinari tempi di prescrizione per alcune tipologie di
illeciti penali espressamente indicati: o ipotesi di responsabilità colposa caratterizzate da
un'accentuata carica lesiva nei confronti di beni importanti quali la pubblica incolumità e la vita
(es. incendio colposo, oppure omicidio colposo commesso con violazione delle norme relative alla
circolazione stradale); o ipotesi delittuose che rientrano nel paradigma della criminalità
organizzata latamente inteso (es. associazione di tipo mafioso o finalizzata al traffico di
stupefacenti, tratta di persone, ecc). Su entrambe queste scelte legislative si sono espresse riserve
critiche: per un verso anche reati non tipici del crimine organizzato potrebbero giustificare
deroghe ai normali tempi prescrizionali, e per altro verso non si capisce perché un esito infausto
da colpa grave medica meriti un tempo di prescrizione inferiore rispetto all'evento morte frutto di
violazione delle norme stradali. Questo nuovo regime giuridico comporta termini prescrizionali di
regola più ridotti rispetto al passato per delitti di rilevante gravità (peculato, concussione,
bancarotta fraudolenta) o di media gravità punibili con una pena di massimo 5 anni (corruzione
propria). Ma esso contemporaneamente allunga i tempi prescrizionali per i delitti di minore gravità
e per le contravvenzioni. Sulla decorrenza del termine per la prescrizione (il cosiddetto dies a quo)
il codice stabilisce delle regole ben precise:
reato continuato: col nuovo art 158 è stato abrogato il riferimento al giorno in cui la
continuazione è cessata. Ad esso ora si applica la regolamentazione atomistica di un comune
concorso di reati. Se la punibilità del reato dipende dal verificarsi di una condizione, il termine
della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Se il reato è invece punibile
a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato.
In ogni caso il dies a quo non si computa nel termine. Il corso della prescrizione può essere
sospeso o interrotto. La sospensione è un effetto giuridico (che si verifica in presenza di alcune
cause ostative del procedimento penale) per il quale la decorrenza del termine della prescrizione
si arresta per il tempo necessario a rimuovere l'ostacolo, in modo che la porzione di tempo già
trascorsa rimanga valida e si possa sommare al periodo di tempo successivo decorrente dal giorno
della cessazione della causa sospensiva. La prescrizione rimane sospesa:
nei casi di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle
parti e dei difensori o su richiesta dell'imputato o del suo difensore. La prescrizione riprende il suo
corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. In caso di autorizzazione a procedere,
il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l'Autorità competente accoglie la richiesta. L'
interruzione è un effetto giuridico per il quale, in presenza di alcuni atti giuridici, il termine di
prescrizione già decorso viene meno e comincia a decorrere ex novo et ex integro.
ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida di fermo o dell'arresto;
interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice;
• decreto di fissazione dell'udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena;
• Oblazione comune: l'art 162 dispone che nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la
sola pena dell'ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del
dibattimento, o prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del
massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del
procedimento. Il pagamento estingue il reato. Si individua tradizionalmente la ratio dell'istituto
nell'esigenza dello Stato di definire con economia e sollecitudine i procedimenti concernenti i reati
di minima importanza. Più controversa è la qualificazione dogmatica di questa forma di oblazione:
secondo un orientamento, essa determina la trasformazione o la riduzione dell'illecito penale in
illecito amministrativo; secondo un altro, essa costituisce una forma volontaria di esecuzione della
pena. Queste tesi però trascurano di considerare un dato rilevante, cioè che l'ordinamento
riconosce alla manifestazione di volontà del contravventore il potere di estinguere il reato: sembra
perciò più corretto considerare l'oblazione una causa estintiva. L'oblazione (giudiziale) di cui
stiamo parlando non va confusa né con l'oblazione in via amministrativa, che va eseguita presso
l'autorità amministrativa, né con l'oblazione in via breve prevista dal codice della strada e da
alcune leggi finanziarie. L'oblazione giudiziale si applica in presenza delle seguenti condizioni: o che
si tratti di contravvenzione per la quale la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda di qualsiasi
ammontare; o che il contravventore presenti domanda di ammissione all'oblazione prima
dell'apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna; o che il contravventore adempia
tempestivamente all'obbligo di pagamento assunto, obbligo che ammonta a 1/3 del massimo
dell'ammenda previsto dalla legge. In presenza di queste condizioni l'applicazione dell'oblazione è
automatica. L'oblazione equivale ad una depenalizzazione di fatto.
• Oblazione special: introdotta dall'art 162 bis, è da un lato prevista per le contravvenzioni punite
con la sola pena alternativa dell'arresto e dell'ammenda e, dall'altro, deve essere applicata
discrezionalmente dal giudice. Il campo di applicazione è molto ampio perché comprende reati tra
loro eterogenei. La somma di denaro, che il contravventore potrà essere ammesso a pagare, è pari
alla metà del massimo dell'ammenda prevista, oltre alle spese del procedimento. Presentata la
domanda di oblazione (che a differenza di quella relativa all'oblazione comune può essere
riproposta sino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado), il giudice potrà
ammettere il contravventore all'oblazione stessa se non ricorrono alcune ipotesi di esclusione, che
ricorrono se è contestata la recidiva reiterata o se è ritenuta l'abitualità nelle contravvenzioni o la
professionalità nel reato, o se permangono le conseguenze dannose o pericolose del reato,
nonché se il giudice ritenga il fatto grave. L'oblazione speciale, almeno nei casi di reati di una certa
gravità, si risolve in una depenalizzazione giudiziale, ossia in una depenalizzazione affidata al
personale gusto del giudice.
L'articolo 162-ter, introdotto nel codice penale dalla legge 23/6/2017 n.103, stabilisce che, nei
reati perseguibili a querela, il giudice dichiara l’estinzione del reato quando l'imputato ha riparato
interamente il danno con le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato, ove possibile, le
conseguenze dannose o pericolose del reato. Questa causa di estinzione del reato, però,
è esclusa quando la querela non è soggetta a remissione, cioè è irrevocabile (come è previsto dalla
legge per i reati di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenne).L’imputato può -
personalmente o tramite il proprio difensore – chiedere che il reato sia dichiarato estinto, A
condizione che abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o
il risarcimento, ed abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Di solito, tale condotta riparatoria induce il querelante a rimettere la querela (con conseguente
estinzione del reato: v. art.152 c.p.). La novità sostanziale introdotta con l'art. 162-ter c.p. sta nel
fatto che, anche se la persona offesa non ha rimesso la querela, il giudice dichiara estinto il reato
allorché riconosce che il danno da esso cagionato è stato interamente riparato dall'imputato. In
particolare, il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale
formulata dall'imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità
della somma offerta a tale titolo. La richiesta va presentata (entro il termine in seguito precisato)
al Giudice che procede. Se l’'imputato ha già riparato interamente il danno, chiederà al giudice di
riconoscerlo e dichiarare estinto il reato. E se ha fatto offerta reale di risarcimento, non accettata
dalla persona offesa, chiederà che il giudice anzitutto riconosca la congruità della somma offerta.
Quando ,invece, la riparazione non è ancora avvenuta, se l'imputato dimostra di non aver potuto
adempiere in tempo per fatto a lui non addebitabile, potrà chiedere al giudice la fissazione di un
termine per provvedere al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento. Il giudice sente le
parti e la persona offesa. Ma, anche se quest'ultima si oppone, il giudice potrà ritenere la
tempestività e congruità della condotta riparatoria e, quindi, dichiarare estinto il reato. Se
l'imputato dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il
termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, e chiede al giudice la
fissazione di un ulteriore termine (non superiore a sei mesi) per provvedere al pagamento, anche
in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento, il giudice, se accoglie la richiesta, ordina
la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e
comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni.
Per le cause antecedenti alla data del 03/08/2017 il giudice - oltre a tener conto (come si dirà)
anche delle condotte riparatorie compiute dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado nella prima udienza successiva al 03/08/2017 decide sull'eventuale richiesta
dell'imputato di fissazione di un termine per provvedere alle restituzioni e ai pagamenti. Tale
termine non sarà superiore a 60 giorni. Tuttavia, se l'imputato dimostra di non poter adempiere,
per fatto a lui non addebitabile, nel termine di 60 giorni, il giudice potrà fissare un ulteriore
termine, non superiore a sei mesi, e potrà ammettere che il pagamento avvenga in forma rateale.
In tutti i casi in cui concede il termine, il giudice ordina la sospensione del processo, con
conseguente sospensione del corso della prescrizione. All'esito positivo delle condotte riparatorie,
il giudice dichiara l'estinzione del reato. Pertanto, l'imputato sarà esente da pene (principali o
accessorie), effetti penali e misure di sicurezza – ad eccezione della confisca, nei casi in cui l'art. La
riparazione integrale del danno deve essere fatta entro il termine massimo del dibattito in primo
grado. Tuttavia, per i processi in corso alla data del 03/08/2017 (giorno di entrata in vigore della
citata legge n.103 del 2017):
il giudice dichiara l'estinzione anche quando le condotte riparatorie siano state compiute oltre il
termine su indicato;
l'imputato, in qualunque grado si trovi il processo (tranne quello davanti alla Corte di cassazione),
nella prima udienza successiva alla data del 03/08/2017 può chiedere la fissazione di un termine,
non superiore a sessanta giorni, per provvedere alle restituzioni, al pagamento di quanto dovuto a
titolo di risarcimento e all'eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del
reato;
nella stessa udienza l'imputato, qualora dimostri di non poter adempiere, per fatto a lui non
addebitabile, nel termine di 60 giorni, può chiedere al giudice di fissare un ulteriore termine, non
superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a
titolo di risarcimento. L’ art 40, comma 2, c.p. la prevede obbligatoria.
7. LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA
Tra le cause di estinzione del reato una posizione molto importante assume la sospensione
condizionale della pena. In realtà, per certi versi essa va annoverata tra le misure sospensive,
mentre per altri versi è un fenomeno tipicamente estintivo. Nell'ordinamento italiano, la
sospensione condizionale ha subito un processo di snaturamento che l'ha trasformata in una
misura clemenziale applicata automaticamente dal giudice, con la conseguenza di provocare un
fenomeno di inammissibile fuga dalla sanzione. Essa fu introdotta in Italia per soddisfare l'esigenza
di sottrarre all'ambiente deleterio e pericoloso del carcere, e recuperare imputati ancora
emendabili con l'aiuto e l'assistenza di tutori. A seguito degli interventi riformatori, non si può più
affermare che la sospensione condizionale costituisca un mezzo di lotta alle pene detentive brevi
(come avveniva in origine secondo la formulazione originaria): essa piuttosto svolge una generica
funzione di prevenzione speciale fondata sulla presunzione di sufficienza della sola pronuncia di
condanna e sulla minaccia della sua futura esecuzione. La legge n. 145 del 2004 ha introdotto 2
deroghe alla disciplina:
• la prima rende virtuale il cumulo tra pena detentiva e pena pecuniaria ai fini del calcolo del
requisito del limite massimo di pena sospendibile, nell'ipotesi in cui a seguito della conversione di
pena pecuniaria sia superata la soglia massima di concedibilità del beneficio, con l'evidente finalità
di incentivare il ricorso al patteggiamento allargato;
I presupposti di applicazione della sospensione condizionale ordinaria della pena sono due:
• una sentenza di condanna a pena detentiva, o a pena pecuniaria che, sola o congiunta a pena
detentiva, non superi un determinato limite;
• una prognosi favorevole sulla personalità del condannato. Il limite oggettivo di pena è stato
elevato con riforma del '74: la pena detentiva o quella pecuniaria, da sola o congiunta a pena
detentiva (e ragguagliata ex art 135), non può essere superiore a due anni. Se si tratta di minore di
18 anni il limite è di 3 anni. Se si tratta di giovani adulti (maggiorenni di età compresa tra i 18 e i 21
anni) o di ultrasettantenni, il limite è di 2 anni e 6 mesi. Se la pena concretamente inflitta non
supera tali limiti, il giudice concederà la sospensione condizionale della pena qualora, avuto
riguardo alle circostanze indicate nell'art 133, presuma che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati. Questo presupposto viene nella pratica deplorevolmente obliato. Eppure esso
esprime l'essenza stessa dell'istituto: il giudizio di non pericolosità del condannato infatti consente
di considerare, ai fini della prevenzione speciale, sufficiente la sola sentenza di condanna e non
anche la sua esecuzione. La prima deroga prevista dal nuovo art 163 permette la concessione della
sospensione condizionale nell'ipotesi in cui i limiti massimi di pena siano superati per effetto della
conversione della pena pecuniaria: essa sterilizza ai fini della concessione del beneficio la
conversione della pena pecuniaria, se la pena detentiva rimane nei rispettivi limiti previsti dalla
legge. La conversione resta un dato virtuale che non paralizza la concessione della sospensione
condizionale, se la pena detentiva non supera i 2 anni per i delinquenti normali, i 2 anni e 6 mesi
per i giovani adulti e gli ultrasettantenni, i 3 anni per i minori di 18anni. La seconda deroga prevista
dal nuovo art 163, concerne l'ipotesi in cui il giudice applichi una pena detentiva non superiore a 1
anno e il colpevole adempia gli obblighi risarcitori: essa riduce sensibilmente il tempo necessario a
produrre l'effetto estintivo del reato da 5 anni a 1 anno. La sospensione condizionale non può
tuttavia essere concessa in presenza di alcune condizioni ostative. L'art 164 comma 2, stabilisce
che essa non può essere concessa:
• a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta
la riabilitazione;
• a colui il quale è stata inflitta, in aggiunta alla pena, una misura di sicurezza personale perché
persona che la legge presume socialmente pericolosa. Il giudice può subordinare la concessione
della sospensione condizionale all'adempimento, nel termine fissato in sentenza, dell'obbligo delle
restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno e
provvisoriamente assegnata sull'ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di
riparazione del danno; nonché salvo che la legge disponga altrimenti, all'eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella
sentenza di condanna. La legge 145 del 2004 ha allargato la gamma degli obblighi includendovi
anche la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato,
comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice
nella sentenza di condanna. A condizione tuttavia che il condannato non faccia opposizione. Le
modifiche legislative hanno reso possibile la concessione della sospensione condizionale a chi ne
abbia già usufruito una volta. La seconda concessione del beneficio ricorre nell'ipotesi in cui il
giudice, nell'infliggere una nuova condanna, irroghi una pena che, cumulata con la precedente
condanna per delitto, non superi i limiti oggettivi. La seconda concessione deve essere
subordinata, salvo che sia impossibile, all'adempimento di almeno uno degli obblighi risarcitori. La
sospensione condizionale è revocata di diritto se, nei termini durante i quali la condanna rimane
sospesa, il condannato:
• commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena
detentiva, o non adempia agli obblighi impostogli;
• riporti un'altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pene che, cumulate a quelle
precedentemente sospese, superino i limiti stabiliti dall'art 163. La sospensione condizionale può
essere revocata dal giudice se il condannato riporta un'altra condanna per delitto anteriormente
commesso a pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, non superi i limiti stabiliti
dall'art 163, avuto riguardo all'indole e alla gravità del reato.
Quanto agli effetti, la concessione della sospensione condizionale sospende la pena principale per
il periodo di 5 anni, se la condanna è per delitto; e di 2 anni, se la condanna è per contravvenzione.
Se nei termini stabiliti il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa
indole e adempie agli obblighi imposti, il reato è estinto. L'effetto estintivo concerne la pena,
mentre cessa l'esecuzione delle pene accessorie. Restano però in vita gli effetti penali della
condanna. Sono sospendibili condizionalmente anche le pene accessorie.
• che il colpevole, al tempo della commissione del reato, non abbia compiuto i 18, ma abbia
compiuto i 14 anni;
• che non sia stato già condannato a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta
riabilitazione, né che sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale;
• che il tribunale dei minorenni ritenga di poter applicare in concreto una pena detentiva non
superiore a 2 anni, o una pena pecuniaria non superiore a 1549,37 € anche se congiunta a detta
pena;
• che il giudice presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.
La concessione di tale beneficio presuppone l'accertamento del fatto e della responsabilità del
minore: sebbene la sentenza che applica il perdono giudiziale sia una sentenza di proscioglimento,
si tratta pur sempre di una sentenza che ha accertato la presenza di tutte le condizioni necessarie
per un rinvio a giudizio o per una condanna. La concessione del perdono giudiziale è possibile non
solo quando il minore abbia commesso un reato, ma anche qualora abbia commesso più reati,
legati o no dal vincolo della continuazione. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato
l'illegittimità dell'art 169, sia nella parte in cui non consentiva che potesse estendersi il perdono ad
altri reati che si legano con il vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso, sia
nella parte in cui escludeva che potesse concedersi un nuovo perdono in caso di reato commesso
anteriormente alla prima sentenza di perdono e di pena che, cumulata con quella precedente, non
superava i limiti per l'applicabilità del beneficio. Per quanto riguarda gli effetti, con il passaggio in
giudicato della sentenza che concede il perdono giudiziale, il reato è estinto. La concessione del
perdono è sempre incondizionata ed irrevocabile. La concessione del perdono impedisce
l'applicazione delle misure di sicurezza, ad eccezione della confisca obbligatoria. Con la legge di
riforma del processo penale minorile (448/1988) sono stati introdotti due nuovi istituti:
• Non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: se nell'ambito delle indagini preliminari risulta la
tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il pm, quando ritenga che l'ulteriore corso
del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne, è tenuto a richiedere
all'organo giudicante sentenza di non luogo a procedere. Se la richiesta viene accolta, per il fatto
commesso dal minore non si procede. Il nuovo istituto opera in presenza di tre condizioni, due
oggettive e concorrenti, e una soggettiva: o tenuità del fatto (oggettiva): sia nel senso di fatto
meramente materiale che in quello di fatto di reato, come tale comprensivo anche
dell'atteggiamento psicologico; o occasionalità del comportamento (oggettiva): fa riferimento alla
genesi del comportamento medesimo che deve apparire come il frutto di particolari e
momentanee condizioni psicologiche del minore e non come il risultato di un progetto (ciò
significa che l'occasionalità può essere ritenuta anche nei confronti dei minori recidivi); o
pregiudizio educativo derivante dall'ulteriore corso del processo (soggettiva): condizione di natura
squisitamente psicologico-pedagogica. La ricostruzione di tale requisito è affidata sostanzialmente
alla discrezionalità del giudice.
• Sospensione del processo con messa alla prova: viene disposta dal giudice quando ritiene di
dover valutare la personalità del minorenne all'esito di una prova, nel corso della quale il minore
viene affidato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in
collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.
Si persegue così l'obiettivo di consentire la formulazione di un serio giudizio prognostico sul
reinserimento sociale del minore a seguito dell'avvenuta interiorizzazione di modelli di
comportamento socialmente apprezzabili. Il giudizio prognostico rappresenta a sua volta l'esito di
una complessa valutazione che si fonda sull'esame della personalità del minore, sulla condotta di
vita precedente, contemporanea e successiva al reato, sulle modalità del fatto criminoso, sui
motivi a delinquere e su ogni altra circostanza idonea a fornire indicazioni sullo sviluppo delle sue
strutture psichiche e comportamentali; devono essere inoltre tenute in considerazione le
indicazioni specifiche, eventualmente impartite dal giudice col provvedimento di sospensione, che
mirano a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la
vittima del reato. All'accertamento dell'esito positivo della prova segue la dichiarazione giudiziale
di estinzione del reato.
• Estinzione della pena della reclusione: avviene con il decorso di un termine pari al doppio della
pena inflitta con il provvedimento di condanna. Se però si tratta di reclusione il cui raddoppio
equivale a un tempo inferiore a 10 anni, l'estinzione avviene in 10 anni. Se invece il doppio supera i
30 anni, l'estinzione avviene alla scadenza dei 30 anni.
• Estinzione della multa: avviene in 10 anni. Se congiuntamente alla reclusione è inflitta la multa,
per l'estinzione dell'una e dell'altra si ha riguardo esclusivamente al decorso del tempo necessario
per la maturazione dell'estinzione della reclusione.
• Estinzione nel caso di concorso di reati: si ha riguardo a ciascuno di essi, anche se le pene sono
state inflitte con la medesima sentenza di condanna. Il dies a quo del termine di estinzione decorre
dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile o dal giorno in cui il condannato si è sottratto
volontariamente all'esecuzione già iniziata della pena. Il decorso del tempo estingue anche le
misure di sicurezza ad eccezione della confisca e di quelle ordinate come misure accessorie di una
condanna alla reclusione per un tempo superiore ai 10 anni. Non estingue invece l'ergastolo, le
pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. L'estinzione della pena della reclusione e
della multa non ha luogo se si tratta di recidivi o di delinquenti abituali, professionali o per
tendenza, o se il condannato durante il tempo necessario per l'estinzione della pena riporta una
condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole. La prescrizione è rinunciabile.
14. L’INDULTO
L' indulto è un provvedimento di carattere generale, espressione di un potere di clemenza, che
condona in tutto o in parte la pena, o la commuta in una pena di specie diversa ma dello stesso
genere. Anche l'indulto viene concesso con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti
di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale e si riferisce ai reati commessi
antecedentemente alla presentazione del disegno di legge. Si distingue:
• indulto proprio: quando il condono interviene nella fase esecutiva rispetto ad una sentenza
irrevocabile di condanna;
• indulto improprio: se è applicato al momento della sentenza dal giudice della cognizione. Limita
i suoi effetti alle pene principali, e non estingue né le pene accessorie né gli effetti penali della
condanna, salvo che il decreto disponga altrimenti. Se l'indulto si limita a condonare o a
commutare la pena, non fa cessare le misure di sicurezza. Se invece condona completamente la
pena inflitta con la sentenza di condanna, fa cessare di diritto l'esecuzione delle misure di
sicurezza conseguenti ad una condanna alla reclusione per un tempo superiore a 10 anni, o
l'esecuzione della confisca. Nessun limite oggettivo è previsto dalla legge per l'applicabilità
dell'indulto, anche se di solito il condono è limitato ad una determinata quantità di pena, sia
detentiva che pecuniaria: entro questi limiti esso si applica alla sentenza di condanna per qualsiasi
tipo di reato. La legge di concessione prevede però spesso per determinati reati l'esclusione
dell'indulto o una misura di pena diversa ed inferiore a quella generalmente prevista. La legge può
altresì stabilire limiti soggettivi differenti, per coloro che per la medesima condanna hanno goduto
o possono godere di precedenti indulti. Esso può essere sottoposto a condizioni o obblighi, e non
può essere applicato ai recidivi nei casi di recidiva aggravata o reiterata, né ai delinquenti abituali,
professionali o per tendenza, salvo che sia disposto diversamente.
15. LA GRAZIA
La grazia, tipica espressione dell'indulgentia principis, condona in tutto o in parte la pena inflitta, o
la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo
che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna. È un
provvedimento di esclusiva prerogativa del Presidente della Repubblica e non necessita di leggi di
concessione. Le caratteristiche essenziali dell'istituto consistono:
• nel fatto che l'organo competente ad emettere il relativo provvedimento è solo il Presidente;
• nella natura stessa del provvedimento, che ha un contenuto non generale ma particolare in
quanto si riferisce ad un singolo rapporto esecutivo relativo a una o più condanne a carico di uno
stesso imputato. La grazia presuppone l'esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna. In
ordine agli effetti, essa è caratterizzata dalla mancanza di una loro predeterminazione normativa.
Può estinguere in tutto o in parte la pena principale: la maggiore o minore ampiezza di effetti
dipende dalla valutazione discrezionale dell'organo competente a concederla. Può essere
sottoposta a condizioni (es. risarcimento dei danni entro un certo periodo di tempo). Ragioni che
giustificano la sua concessione sono le esigenze di equità e di giustizia del caso concreto, ma anche
sua attitudine a fungere da strumento di attuazione delle finalità proprie della pena. La grazia
infatti permette di interrompere l'esecuzione della pena quando si è già compiuta la
risocializzazione del condannato, svolgendo così una funzione parallela a quella della liberazione
condizionale, nonché di tener conto di particolari situazioni processuali e familiari del condannato,
o di porre rimedio ad eventuali errori giudiziari non altrimenti riparabili.
16. LA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
Il nuovo testo dell'art 176 dispone che il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di
esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno 30 mesi e
comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i 5 anni.
Se si tratta di recidivo, il condannato, per essere ammesso alla liberazione condizionale, deve aver
scontato almeno 4 anni di pena e non meno di % della pena inflittagli. Il condannato all'ergastolo
può essere ammesso alla liberazione quando abbia scontato almeno 26 anni di pena. La
concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili
derivanti dal reato (es. risarcimento danni), salvo che il condannato dimostri di trovarsi
nell'impossibilità di adempierle. I presupposti di applicazione dell'istituto sono:
• che il condannato non abbia già usufruito del beneficio per la medesima pena.
• comporta l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, trasformata oggi in libertà
vigilata assistita dal servizio sociale.
La liberazione condizionale produce i suoi effetti definitivi con il decorso del tempo della pena
inflitta o, se si tratta di condannati all'ergastolo, con il decorso di 5 anni dalla data del
provvedimento. Viene revocata se durante il periodo di libertà condizionale il liberato commette
un delitto o una contravvenzione della stessa indole, o trasgredisce gli obblighi inerenti alla libertà
vigilata. Per effetto della revoca, il condannato riprende a scontare la pena detentiva ed il tempo
trascorso in liberazione condizionale viene computato nella durata della pena scontata. Alla luce
delle ultime riforme, l'istituto della liberazione condizionale si inserisce a pieno titolo tra le misure
alternative alla detenzione.
17. LA RIABILITAZIONE
La riabilitazione svolge la funzione di reintegrare il condannato, che abbia già scontato la pena
principale, nella posizione giuridica goduta fino alla pronuncia della sentenza di condanna. L'art
178 dispone che la riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della
condanna, salvo che la legge disponga altrimenti. Il riabilitato riacquisisce la capacità giuridica
perduta a seguito della condanna e viene rimesso in condizioni di svolgere la sua normale attività
nella società. La legge n. 145 del 2004 ha ridotto il tempo necessario per godere del beneficio e ha
fissato un termine ancora più breve nell'ipotesi di sospensione condizionale. Ma ha anche
aumentato significativamente il limite massimo previsto per la revoca. La riabilitazione viene
concessa in presenza delle seguenti condizioni:
• che siano decorsi 3 anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo
estinta;
• che il condannato, abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta durante il periodo
• tempo indicato;
• che non sia stato sottoposto a misure di sicurezza, tranne che si tratti di espulsione dello
straniero dallo Stato o di confisca, o che il provvedimento sia stato revocato;
• che abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi
nell'impossibilità di adempierle.
I presupposti della non menzione della condanna sono fissati dall'art 175:
• che si tratti della prima condanna;
• che con la condanna sia inflitta una pena detentiva non superiore ai 2 anni o una pena
pecuniaria non superiore a 516 €, o congiuntamente una pena detentiva non superiore a 2 anni e
una pena pecuniaria che, convertita e cumulata, priverebbe complessivamente il condannato della
libertà personale per un tempo non superiore a 30mesi;
• che il giudice consideri il condannato meritevole del beneficio, avuto riguardo alla gravità del
reato e alla capacità a delinquere. La Corte costituzionale ha dichiarato legittima la concessione di
ulteriori non menzioni di condanne nel certificato del casellario giudiziale, nel caso di condanne,
per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i
limiti di applicabilità dei benefici. Il giudice non deve pronunciarsi sulla concessione del beneficio
nei casi di condanne ope legis non soggette ad iscrizione o che non debbono essere menzionate
nei certificati ai privati. Tale beneficio è revocato di diritto se il condannato commette
successivamente un altro delitto. La revoca può avvenire in ogni tempo poiché la legge non fissa
alcun termine per la commissione del nuovo delitto, per questo la non menzione può essere
qualificata più in termini di mera sospensione a tempo indeterminato dell'effetto penale, che non
di una causa di estinzione vera e propria.
1. Premessa
L'introduzione delle misure di sicurezza detentive viene di solito considerata una delle più
significative novità della codificazione del 1930. Mentre la pena incentrava in sé la funzione
retributiva e di prevenzione generale, la misura di sicurezza veniva ad assolvere una funzione di
prevenzione speciale, in quanto finalizzata alla rieducazione e alla cura del soggetto socialmente
pericoloso (c.d. sistema del doppio binario). Ad esse venne originariamente attribuita natura
amministrativa, e infatti quale mezzo di profilassi avente come scopo la tutela della collettività
mediante la neutralizzazione dell'individuo pericoloso, la misura di sicurezza veniva inquadrata
nell'ambito dell'attività di polizia (un'attività amministrativa tipicamente finalizzata alla difesa
preventiva della società). Oggi la dottrina respinge tale tesi e considera la misura di sicurezza una
sanzione criminale di competenza del diritto penale: di fatto è afflittiva forse più della sanzione
detentiva e viene applicata mediante un processo giurisdizionale. In seguito al riconoscimento
costituzionale del finalismo rieducativo delle stesse pene in senso stretto, è venuta ormai meno
però quella distinzione di scopi che in origine giustificava lo sdoppiamento del sistema
sanzionatorio. La stessa pena dovrebbe farsi carico di neutralizzare la pericolosità del reo e
impedirne la ricaduta nel delitto (da questo punto di vista diventa dunque un problema continuare
a legittimare la sopravvivenza delle misure di sicurezza, che spesso vengono infatti considerate
come residuali). I destinatari delle misure di sicurezza sono:
Alle prime due categorie le misure si applicano cumulativamente con la pena; alla terza si
applicano in modo esclusivo.
• Divieto di retroattività: Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della
loro applicazione, e se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si
applica la legge in vigore al tempo dell'esecuzione. Questa disciplina tratta dall'art 200 solo in
apparenza sancisce il divieto di retroattività. In realtà tutta la materia della successione di leggi
penali non solo per quel che concerne la previsione dei reati, ma anche per ciò che riguarda il tipo
e la quantità di sanzioni da applicare in sede giurisdizionale è regolata dall'art 2. È proprio la ratio
di garanzia che ispira l'art 25 Cost. a far escludere che possa applicarsi una misura di sicurezza per
un fatto che al momento della commissione non costituiva reato (come sappiamo l'irretroattività è
un aspetto del principio di legalità). Non resta dunque che fornire dell'art 200 un'interpretazione
restrittiva: esso può riferirsi solo all'eventualità che una legge successiva disciplini in maniera
diversa mere modalità esecutive di una misura di sicurezza già legislativamente prevista al
momento della commissione del fatto.
• Delinquente abituale: Viene descritto dal legislatore sulla base della legge dell'esperienza, per la
quale la ripetizione di un determinato comportamento attenua sempre più i freni inibitori e rende
perciò più facile la commissione di reati. In base alla disciplina precedente, si distinguevano 3
forme di abitualità: o abitualità nel delitto presunta dalla legge; o abitualità nel delitto ritenuta dal
giudice; o abitualità nelle contravvenzioni; L'art 31 della legge n. 663 del 1986 ha abrogato
l'abitualità presunta. L'abitualità nel delitto vigente nell'ordinamento è dunque quella dichiarata
dal giudice nei confronti di chi, dopo essere stato condannato per 2 delitti non colposi, riporta
un'altra condanna per delitto non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e della gravità
dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del
colpevole, ritiene che egli sia dedito al delitto. L'essere dedito al delitto significa che il soggetto
deve aver acquisito una struttura della personalità che inclina alla commissione di reati: pertanto
non potrebbe non essere considerato pericoloso. Circa l'abitualità nelle contravvenzioni, l'art 104
dispone: chi, dopo essere stato condannato alla pena dell'arresto per 3 contravvenzioni della
stessa indole, riporta condanna per altra contravvenzione, anche della stessa indole, è dichiarato
contravventore abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati del tempo entro
il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole, lo ritiene dedito al
reato.
• Delinquente per tendenza: Per l'art 108 è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non
recidivo o delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo contro la vita o
l'incolumità individuale, e riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa
nell'indole particolarmente malvagia del colpevole. Tale disposizione non si applica se
l'inclinazione al delitto è originata dall'infermità. Il delinquente per tendenza non trova riscontro
nella realtà naturalistica: per questo da tempo la dottrina più avveduta ne denuncia l'inconsistenza
criminologica e ne propone l'estromissione dal codice. Secondo la tipizzazione normativa, può
essere qualificato delinquente per tendenza anche il delinquente primario purchè abbia
commesso un delitto di sangue (in cui la vita o l'incolumità personale sia oggetto di tutela anche
indiretta). Deve trattarsi di soggetti capaci di intendere e volere che manifestano mancanza di
senso morale e che delinquono per un'istintuale malvagità.
• coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza;
• coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non
essendo più sottoposti a misure di sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo, che sia
nuova manifestazione dell'abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere;
• i condannati, per delitto non colposo, a una pena diminuita per infermità psichica, per cronica
intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti o per sordismo;
• i condannati alla reclusione per delitti commessi in stato di ubriachezza, qualora sia abituale, o
sotto l'azione di stupefacenti all'uso dei quali siano dediti, quando non debba essere ordinata altra
misura di sicurezza detentiva o non possa essere applicata la libertà vigilata;
• i sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva se colpiti da infermità psichica che non richieda
il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario;
• le persone in stato di infermità psichica alle quali non possa essere applicata la libertà vigilata
per impossibilità o inopportunità di affidarle ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di
provvedere alla loro educazione o assistenza, e le persone in stato di infermità psichica che
durante la libertà vigilata si rivelino di nuovo pericolose. Un'infermità fisica autorizza l'applicazione
della normativa dell'art 89 (pena diminuita causa ridotta capacità di intendere e di volere) solo
quando si risolva in un'alterazione delle funzioni intellettive, affettive e volitive suscettibile di
essere considerata a livello di infermità psichica. La durata minima dell'assegnazione oscilla tra 6
mesi e 3 anni ed è proporzionata alla pena stabilita dalla legge in astratto. Essa non è compatibile
con altra misura di sicurezza detentiva perché le altre misure attuano lo scopo della custodia ma
non tendono alla cura dell'internato. In via eccezionale, è prevista la possibilità di applicarla prima
dell'esecuzione della pena se il giudice lo ritiene opportuno, tenuto conto delle particolari
condizioni di infermità psichica del condannato, per impedire che l'immediata esecuzione della
pena possa ulteriormente aggravarne le condizioni psichiche. Il provvedimento di ricovero del
condannato seminfermo psichico è subordinato al previo accertamento, da parte del giudice, della
pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima.
• ai minori di anni 14 e minori di anni 18 riconosciuti non imputabili, che abbiano commesso un
delitto doloso, preterintenzionale o colposo e siano considerati socialmente pericolosi;
• ai minori tra i 14 e i 18 anni riconosciuti imputabili e come tali condannati a pena diminuita;
• ai minori di 18 anni quando sia cessata l'infermità psichica: il giudice accerta che la persona è
socialmente pericolosa e ordina che sia assegnata a un riformatorio.
Anche qui, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità dei minori
non imputabili. La durata minima del riformatorio giudiziario è di un anno. Tale misura può essere
applicata solo in relazione ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione di almeno
12 anni nel massimo. E la misura deve essere eseguita nella nuova forma del collocamento in
comunità: il giudice ordina che il minore sia affidato a una comunità pubblica o autorizzata,
imponendo eventuali specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro o ad altre
attività utili per la sua educazione. Il minore non imputabile può essere sottoposto a misura di
sicurezza solo quando per le specifiche circostanze del fatto e per la sua personalità, sussiste il
concreto pericolo che commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o
diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale o gravi delitti di criminalità
organizzata. L'applicabilità di misure di sicurezza ai minori tende comunque a prospettarsi come
eventualità del tutto eccezionale.
• ai condannati per delitti o contravvenzioni commessi in stato di ubriachezza qualora questa sia
abituale. Nel divieto di frequentazione non è compreso il divieto di recarsi di rado in osterie o
spacci; la norma può considerarsi violata solo dalla tendenza a praticare in modo regolare tali
luoghi. La durata minima della misura è di 1 anno. In caso di trasgressione può essere ordinata la
libertà vigilata o la cauzione di buona condotta.
• ai liberati dalla casa di lavoro o dalla colonia agricola se il giudice non ordina la libertà vigilata;
• cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, anche se non è
stata pronunciata condanna. Il legislatore ha più di recente introdotto un meccanismo di confisca
allargata: nei casi di condanna (o pena patteggiata) per reati di associazione di tipo mafioso,
estorsione, usura, ricettazione, riciclaggio, ecc. è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o
delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui risulta essere
titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla
propria attività economica. Questo a prescindere dunque che tali beni siano ricollegabili a uno dei
reati-presupposto.
1. PREMESSA
Un comportamento umano, oltre che costituire un fatto di reato, può anche realizzare un illecito
civile: tutte le volte che si verifica il fenomeno della doppia valutazione, accanto alla conseguenza
penale saranno dunque applicate le sanzioni civili (es. il cagionare la morte di un uomo da un lato
configura il reato di omicidio, dall'altro costituisce illecito civile e obbliga al risarcimento).
2. LE SINGOLE SANZIONI
• Le restituzioni La restituzione consiste nella reintegrazione dello stato di fatto preesistente alla
commissione del reato. L'art 185 comma 1 stabilisce che ogni reato obbliga alle restituzioni a
norma delle leggi civili. L'obbligo alla restituzione presuppone solo la possibilità, naturalistica o
giuridica, della restitutio in integrum. Può avere a suo oggetto sia cose mobili, sia anche cose
immobili di cui si sia venuti in possesso. L'obbligo alle restituzioni è indivisibile.
• Il risarcimento del danno Consiste nella corresponsione di una somma di denaro equivalente al
pregiudizio arrecato con il reato. Si ricorre a tale sanzione quando la restituzione non è possibile,
oppure non è sufficiente a riparare il danno cagionato. L'art 185 comma 2, stabilisce: ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale, o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui. Il danno
a cui fa riferimento la norma richiamata è un quid differente dall'offesa al bene tutelato necessaria
perchè si configuri il reato. Si tratta del danno patrimoniale risultante dalla lesione degli interessi
civili che fanno sorgere il diritto al risarcimento in sede civile: tale danno consiste nella sottrazione
o nella diminuzione del patrimonio sotto le forme del danno emergente e del mancato guadagno
(c.d. lucro cessante). E si tratta, in secondo luogo, del danno non patrimoniale o morale
consistente nella sofferenza fisica o psichica patita in conseguenza del reato. L'evoluzione
normativa ha spinto a modificare l'interpretazione e a ritenere che il termine reato vada inteso
come fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato.
Il danno risarcibile deve essere conseguenza del reato inteso in questo senso. Il risarcimento del
danno morale avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro la cui funzione non è
chiaramente di reintegra del patrimonio, ma di soddisfazione del male sofferto. Il titolare del
diritto al risarcimento del danno si chiama danneggiato dal reato e può essere anche una persona
diversa dal titolare del bene penalmente tutelato (es. nel caso di omicidio). Una forma particolare
del risarcimento del danno non patrimoniale è la pubblicazione della sentenza di condanna (a
spese del colpevole). Si tratta di un istituto diverso dalla pena accessoria della pubblicazione della
sentenza di condanna. L'obbligo della pubblicazione è indivisibile. Obbligati al risarcimento del
danno sono sia l'autore del reato, sia coloro i quali devono rispondere per il fatto di lui.
Controversa è la questione relativa alla natura giuridica di tale risarcimento: da un lato esso
presenta un carattere privato in quanto tende al riequilibrio delle situazioni giuridiche tra i privati,
e dall'altro possiede un indubbio carattere afflittivo, il che lo rende dotato di riflessi pubblicistici.
•Rimborso delle spese per il mantenimento del condannato Il condannato è civilmente obbligato a
rimborsare allo Stato le spese per il mantenimento negli istituti di pena, risponde di tale
obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili.
Questa obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile e non si trasmette agli
eredi. Sono inoltre poste a carico del condannato le spese per il suo mantenimento durante la
custodia cautelare. Tale obbligo costituisce un effetto risarcitorio civile del reato e non una
sanzione accessoria della pena. La nuova legge sull'ordinamento penitenziario prevede la
possibilità di remissione del debito per le spese del procedimento e del mantenimento nei
confronti dei condannati che versino in disagiate condizioni economiche e si siano distinti per
regolare condotta.
• Obbligazione civile per la multa e per l'ammenda Nel nostro ordinamento sono previste alcune
ipotesi di responsabilità civile quale garanzia dell'adempimento delle sanzioni della multa e
dell'ammenda. Si tratta dell'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda, cioè di una forma di
responsabilità civile di carattere sussidiario e che serve a corresponsabilizzare in qualche misura il
datore di lavoro e, in particolare, la persona giuridica specie in un sistema in cui ancora non vige il
principio societas delinquere potest. o L'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda inflitta a
persona dipendente è disciplinata dall'art 196, per il quale nei reati commessi da chi è soggetto
all'altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita di tale autorità è obbligata, in caso di
insolvibilità del condannato, al pagamento dell'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta al
colpevole, se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali
non debba rispondere penalmente. Qualora la persona preposta risulti insolvibile, si applicano al
condannato le disposizioni dell'art 136 (conversione della pena). o L'obbligazione civile delle
persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende è prevista nell'art 197, per il
quale gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati Stato, regioni, province e comuni, qualora
sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza o l'amministrazione o
sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi
inerenti alla qualità rivestita dal colpevole o sia commesso nell'interesse della persona giuridica,
sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, dell'ammontare della multa o
dell'ammenda. Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato le
disposizioni dell'art 136.
• Il sequestro conservativo penale di beni mobili o immobili dell'imputato o delle somme o cose a
lui dovute nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento, può essere chiesto dal pubblico
ministero in ogni stato e grado del processo, se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si
disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di
ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato. Esso produce l'effetto di rendere privilegiati i crediti
di cui si è appena detto, rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data anteriore e rispetto
ai crediti sorti posteriormente, salvi in ogni caso i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento di
tributi.
• L'azione revocatoria: sono soggetti ad azione revocatoria gli atti fraudolenti compiuti
anteriormente o posteriormente al reato, sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso. Il codice
stabilisce infatti l'inefficacia rispetto ai crediti di cui si è detto: o degli atti a titolo gratuito compiuti
dal colpevole dopo il reato (presunzione iuris et de iure di frode); o degli atti a titolo oneroso
compiuti dopo il reato, che eccedono la semplice amministrazione o la gestione dell'ordinario
commercio, presunti relativamente in frode, purchè sia fornita la prova della malafede dell'altro
contraente; o degli atti a titolo gratuito compiuti nell'anno anteriore al reato, qualora si provi la
frode da parte del colpevole; o degli atti a titolo oneroso compiuti nell'anno anteriore al reato, che
eccedono la semplice amministrazione o la gestione dell'ordinario commercio, presunti
relativamente in frode, purchè sia fornita la prova della malafede dell'altro contraente. I diritti dei
terzi, quando la revocatoria ha luogo in sede penale, sono regolati dalle leggi civili.
• Il prelievo sulla remunerazione corrisposta per il lavoro prestato dai condannati viene effettuato
in 2/5 della medesima e salvo che l'adempimento delle obbligazioni civili sia altrimenti eseguito.
1. PREMESSA
Si è già accennato come sia andato emergendo, negli ultimi tempi, un orientamento di politica
criminale incline a trasformare le ipotesi meno gravi di reato contravvenzionale in corrispondenti
illeciti amministrativi, sanzionati con una pena pecuniaria (c.d. Depenalizzazione). Questo per
tentare di far fronte agli inconvenienti di un'eccessiva proliferazione di reati, e in primo luogo per
ridurre il numero di procedimenti davanti al giudice penale favorendo così il buon funzionamento
della macchina giudiziaria (che può concentrarsi sulla repressione dei delitti più gravi). Lo sviluppo
della società industriale ha infatti portato ad un fenomeno di ipertrofia del diritto penale e alla
necessità di tutelare un numero crescente di interessi collettivi: ma più frequentemente si ricorre
alla pena, tanto meno questa riesce ad esercitare un'efficacia realmente dissuasiva nei confronti
dei consociati. Si è tentato dunque di delimitare l'area della rilevanza penale entro lo spazio
segnato dall'esigenza da un lato di prevenire e reprimere le macro lesioni dei beni essenziali alla
collettività; dall'altro lato, di estromettere dal sistema penale dei reati contravvenzionali incentrati
su microlesioni che non sembrano più giustificare il ricorso alla pena. C'è da dire che fino alla
seconda metà del 18° secolo vi era l'opposta tendenza a trasferire nel campo penale molti degli
illeciti aventi natura di contravvenzioni amministrative durante l'ancien regime: questo passaggio
era sollecitato dall'esigenza di apprestare una più efficace garanzia dei diritti dei cittadini nei
confronti degli eventuali abusi della pubblica amministrazione. Bisogna dunque evitare che
l'attuale fenomeno della depenalizzazione, laddove non fosse accompagnato da opportune
garanzie, potrebbe rappresentare una sorta di ritorno a tecniche ormai superate del passato,
inaccettabili proprio perchè non sufficientemente rispettose dei fondamentali diritti del singolo. La
legge 689 del 1981 contenente "Modifiche al sistema penale", oltre a depenalizzare quasi tutti i
reati (delitti e contravvenzioni) puniti con la pena pecuniaria della multa o dell'ammenda (esclusi
però i reati previsti dal codice penale e da alcune leggi speciali finalizzati alla tutela di beni di
particolare rilievo sociale) ha introdotto anche una serie di principi destinati a regolare la materia
dell'illecito depenalizzato. Ne è derivata la nascita di un nuovo sistema di illecito, che alcuni
collocano in posizione intermedia tra sistema penale e sistema degli illeciti amministrativi
(seppure in stretto collegamento col primo), e che altri non esitano a definire come sottosistema
penale. La prima posizione sembra più corretta. Nel 1999 sono stati poi depenalizzati con decreto
legislativo una serie di reati del codice penale (tra cui l'ubriachezza) e di reati previsti in leggi
speciali (nel settore della circolazione stradale, della navigazione, degli alimenti, degli assegni).
Come già detto, la maggior parte dei principi della nuova disciplina è di ispirazione penalistica:
• il principio di legalità: "nessuno può essere punito con sanzione amministrativa se non in forza di
una legge entrata in vigore prima della violazione" (si tratta dell'esplicito riconoscimento del
duplice principio della riserva di legge e dell'irretroattività); qui il termine legge va interpretato
come comprensivo anche della legge regionale, a differenza di quanto avviene in campo
strettamente penalistico;
• i criteri di imputabilità (capacità di intendere e di volere e limite d'età fissato a 18 anni): "non
può essere assoggettato a sanzioni amministrative chi, al momento in cui ha commesso il fatto,
non aveva compiuto 18 anni e non aveva la capacità di intendere e di volere, salvo che tale stato di
incapacità non derivi da sua colpa o sia stato da lui preordinato"; la menzione della sola mancanza
della capacità di intendere e di volere impedisce che la semimputabilità abbia la stessa rilevanza
che ha in diritto penale; il secondo comma introduce un'ipotesi di colpa in vigilando: eccettuati i
casi in cui lo stato di incapacità derivi da colpa del trasgressore, della violazione risponde chi era
tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto;
• i criteri che stanno alla base della disciplina del concorso di persone ("ciascuno soggiace alla
sanzione disposta per la violazione") e del concorso formale di violazioni (vale la disciplina del
cumulo giuridico: "il soggetto soggiace alla sanzione più grave aumentata fino al triplo");
• il principio della intrasmissibilità agli eredi dell'obbligazione a pagare la somma dovuta per la
violazione, che caratterizza in senso personalistico la sanzione in esame;
• gli indici di commisurazione della sanzione, che fanno riferimento sia alla gravità della violazione
che alla personalità dell'agente, che alle sue condizioni economiche, e richiamano pertanto quelli
previsti per i reati all'articolo 133 c.p.;
• la disciplina del concorso apparente di norme, per cui la legge 689/1981 fissa il principio di
specialità (si tratta di una norma discussa dal momento che comporta il rischio di svuotamento
delle norme penali più generali: la norma infatti dispone che, in caso di convergenza su di un
medesimo fatto di una norma penale e di una norma amministrativa, o di più norme
amministrative, si applichi la norma speciale, salvo il caso si tratti di norma amministrativa di fonte
regionale, nel qual caso prevarrebbe la norma penale).
Di ispirazione civilistica è invece la disposizione che introduce una triplice ipotesi di responsabilità
solidale, rispettivamente a carico: o del proprietario o usufruttuario o titolare di diritto personale
di godimento sulla cosa che servì a commettere la violazione, sempre che non provi che essa fu
utilizzata contro la sua volontà; o del titolare di un potere di autorità, vigilanza o direzione sul
soggetto autore, salvo che non provi di non aver potuto impedire il fatto; o della persona giuridica,
ente o imprenditore di cui l'autore della violazione sia rappresentante o dipendente, se la
violazione è commessa nell'esercizio delle funzioni di quest'ultimo soggetto. In tutte le tre ipotesi,
a chi ha pagato viene concesso tuttavia il diritto di ottenere il regresso per l'intera somma
dall'autore della violazione. Proprio perchè consente col diritto di regresso il recupero della
somma versata, l'utilizzo di tale modello attenua sensibilmente l'efficacia dissuasiva della minaccia
della sanzione amministrativa. Inoltre alla societas viene attribuita una mera obbligazione solidale,
peraltro con diritto di regresso, perdendo così l'occasione per superare il dogma societas
delinquere non potest, in vista della configurazione di una forma di responsabilità diretta della
persona giuridica.
1. PREMESSA
Si tratta di misure special preventive, tradizionalmente considerate di natura formalmente
amministrativa, volte ad evitare la commissione di reati da parte di determinate categorie di
soggetti considerati socialmente pericolosi. Sono anche definite misure ante delictum dal
momento che vengono applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato.
In questo si differenziano rispetto alle misure di sicurezza. Tali misure sono state a più riprese
tacciate di incostituzionalità dal momento che incidono sulla libertà personale prescindendo
dall'oggettiva commissione di un reato, fondandosi su di un semplice sospetto o indizio di
pericolosità (tanto che spesso sono state considerate una sorta di surrogato rispetto a una
repressione penale inattivabile per mancanza dei normali riscontri probatori). E' pressochè
unanime in dottrina l'opinione che, nonostante la loro denominazione formale di misure di
prevenzione, le tradizionali misure personali non siano mai riuscite a sortire un effetto
autenticamente preventivo/rieducativo; anzi, di fatto esse sono state non di rado utilizzate come
strumento di controllo sociale di tipo sostanzialmente repressivo. Inoltre il legislatore ha finito col
contemplare tipologie soggettive, come nel caso degli "oziosi e vagabondi", di dubbia consistenza
criminologica e dai contorni incerti, per cui la qualifica di pericolosità ha finito con l'essere
fittiziamente e ideologicamente sovrapposta a soggetti emarginati censurabili solo in base ad un
opinabile giudizio di demerito sociale. Il testo principale in materia di misure di prevenzione è
quello della legge 1423 del 1956, così come modificato ed integrato dagli interventi legislativi
succedutisi fino ai nostri giorni (vedi in particolare legge Rognoni-La Torre e legge Reale).
• coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti abitualmente a traffici
delittuosi;
• coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che
vivano abitualmente (anche in parte) con i proventi di attività delittuose;
• coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano
dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei
minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Questa nuova disciplina risulta caratterizzata da due aspetti. In primo luogo va segnalata
l'aggiunta degli "elementi di fatto" quale base dell'accertamento richiesto ai fini dell'applicazione
delle misure preventive, per cui almeno in linea teorica non dovrebbero mai ritenersi sufficienti
meri sospetti o labili indizi di pericolosità; di fatto è tuttavia possibile che la prassi continui a
orientarsi in senso meno garantistico, dato che se il giudice della prevenzione esigesse indizi
eccessivamente corposi, vi sarebbero tutti i presupposti per promuovere un normale processo
penale. In secondo luogo, tutte le categorie di destinatari sono individuate in base al riferimento
ad attività potenzialmente costituenti illecito penale: il legislatore dell'88 invece di riformulare le
fattispecie di pericolosità in base alle più moderne conoscenze criminologiche, ha così finito col
ridurre il ruolo della prevenzione personale alla sola funzione di surrogato della normale
repressione penale.
• avviso orale: l'applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è consentita dopo
che il questore, nella cui provincia la persona dimora, ha provveduto ad avvisare oralmente la
stessa che esistono sospetti a suo carico, indicando i motivi che li giustificano; il questore invita la
persona a tenere una condotta conforme alla legge e redige il processo verbale dell'avviso (al solo
fine di dare allo stesso data certa). Costituisce dunque presupposto per la richiesta di applicazione
della sorveglianza speciale nei confronti degli avvisati che non abbiano recepito l'ingiunzione a
mutare vita. Questa misura è stata introdotta nel 1988 in sostituzione della vecchia e discreditata
diffida, inefficace ed inutilmente vessatoria, di cui riprende i caratteri basilari, emendati dai
principali inconvenienti. A differenza della diffida ha efficacia temporanea (limitata a 3 anni).
• rimpatrio con foglio di via obbligatorio: qualora le persone indicate nell'art.1 siano pericolose per
la sicurezza pubblica e si trovino fuori dai luoghi di residenza, il questore può rimandarvele con
provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza
preventiva autorizzazione o comunque per un periodo di massimo 3 anni, nel Comune dal quale
sono allontanate. Questa misura è fortemente sospettata di illegittimità costituzionale per la
violazione di diverse garanzie, da quella del contraddittorio, e quindi della difesa, a quella della
libertà di circolazione.
• sorveglianza speciale della pubblica sicurezza: si applica ai soggetti indicati nell'art.1 che
nonostante l'avviso orale (primo presupposto) non abbiano cambiato condotta (secondo
presupposto), quando siano pericolosi per la sicurezza pubblica (terzo presupposto). La misura
consiste sostanzialmente in una sanzione per l'inottemperanza all'obbligo di condotta. Può essere
applicata solo in seguito ad un procedimento giurisdizionale (il questore presenta richiesta presso
il Tribunale, trascorsi almeno 60 giorni e non più di 3 anni dall'avviso orale; il Tribunale provvede in
camera di consiglio con decreto motivato, con l'intervento del pm e dell'interessato; il Tribunale
stesso ha il potere di compiere gli accertamenti necessari per verificare se il soggetto ha cambiato
vita e se è pericoloso). Alla sorveglianza si accompagna una serie di prescrizioni (es. vivere
onestamente, rispettare le leggi, non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all'autorità
locale di pubblica sicurezza, rispettare alcuni orari, non accompagnarsi a determinati soggetti, non
detenere armi). La durata non può essere inferiore ad 1 anno né superiore a 5. La sorveglianza
speciale può comportare anche l'obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora
abituale, o il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province, diversi da quelli di
residenza o di dimora abituale. La violazione delle prescrizioni di sorveglianza speciale e
dell'obbligo di soggiorno costituisce reato.
3. LA PREVENZIONE ANTIMAFIA
Ai fini della prevenzione antimafia l'applicabilità della misura della sorveglianza speciale (nonché
dell'obbligo o del divieto di soggiorno) è stata estesa anche agli indiziati di appartenere a
associazioni mafiose (1965). In riferimento a questi casi la misura ha subito degli adattamenti: non
sarà necessario il precedente avviso orale del questore. Sempre al fine di potenziare la
prevenzione antimafia sono inoltre state introdotte nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre, nuove
misure preventive di natura patrimoniale, una tipologia ritenuta la più idonea a combattere le
organizzazioni mafiose. Da un lato, l'esperienza giudiziaria ha infatti contribuito a dimostrare che il
vero tallone d'Achille della mafia è rappresentato dalle tracce documentali lasciate dalla grande
circolazione di denaro connessa allo svolgimento delle attività criminose. Dall'altro, poichè le
organizzazioni di stampo mafioso hanno come principale obiettivo l'accumulazione di ingenti
capitali, è ragionevole presumere che la maggior efficacia preventiva sia potenzialmente esercitata
da misure rivolte a impedire od ostacolare l'acquisizione di ricchezza. Le nuove misure sono il
sequestro e la confisca dei patrimoni di sospetta provenienza illecita. Esse sono applicabili
indipendentemente dalle misure personali (principio di reciproca autonomia), indipendentemente
dalla pericolosità sociale del soggetto al momento della richiesta (ciò a causa della pericolosità
intrinseca dei patrimoni riconducibili ai contesti associativi criminali), e possono essere disposte
anche nel caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione (nel caso la morte
sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o degli aventi
causa).
• Sequestro: consiste in una misura provvisoria di tipo cautelare disposta dal Tribunale, anche
d'ufficio, che si applica sui beni di soggetti nei confronti dei quali è stato iniziato un procedimento
e che, sulla base di sufficienti indizi (es. valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o
all'attività economica svolta), si ha motivo di ritenere siano frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego.
• Confisca: si tratta di un provvedimento di natura ablativa, che comporta la devoluzione dei beni
sequestrati, di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza. Una critica può essere mossa
al sistema Rognoni-La Torre. Dal momento che i presupposti dell'applicazione del procedimento di
prevenzione per l'indiziato di mafia sono gli stessi del processo penale, si rischia una
sovrapposizione di procedimenti. La fattispecie penale e quella di prevenzione sono infatti
differenziabili solo alla stregua del diverso livello di prova raggiungibile circa l'appartenenza dei
singoli associati all'associazione: più precisamente, mentre al processo penale finisce col
corrispondere l'area probatoria avente come estremi l'indizio suscettivo di approfondimento e la
prova vera e propria, il processo di prevenzione dovrebbe invece ricomprendere l'area che va dal
sospetto oggettivamente suffragato all'indizio confinante con quello sufficiente ad attivare la
normale repressione penale. Ma nella prassi è difficile tracciare demarcazioni nette, di qui la
problematicità della situazione: è dunque necessario un migliore coordinamento.
• il principio della personalità della responsabilità penale, in quanto sorge il rischio di una
strumentalizzazione del soggetto per scopi di difesa sociale;
• il principio di presunzione di non colpevolezza, posto che si tratta di fattispecie strutturate sul
sospetto o sull'indizio;
• il principio di risocializzazione, che non può dirsi osservato da una disciplina che affida la fase
dell'esecuzione delle misure all'autorità di polizia, senza la contemporanea previsione di strumenti
di ausilio diretti a integrare il soggetto socialmente pericoloso nella comunità sociale. Non si deve
in ogni caso, nonostante i dubbi di incostituzionalità e gli inconvenienti pratici, ritenere che la
logica della prevenzione sia estranea allo stato sociale di diritto: anzi la stessa Costituzione
all'articolo 3 II comma stabilisce come sia compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica
economica e sociale dello Stato stesso. In tale contesto la prevenzione non è più solo un'attività
intesa a impedire la commissione di reati in maniera diretta, ma impegno solidaristico e reale volto
ad assicurare lo sviluppo della persona e a prevenire in via indiretta il reato, attraverso la
rimozione delle sue cause di natura sociale, ambientale e soggettiva.