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DIRITTO PENALE

INTRODUZIONE
1.IL DIRITTO PENALE PRE MODERNO – CENNI

L’ evoluzione del diritto penale pre-moderno caratterizza il periodo che va dal ‘700 all ‘800. In questo
periodo gran parte del diritto pubblico si fonda sulla sanzione della limitazione della libertà personale ad
esempio la carcerazione. La confusione tra l’oggetto della sanzione penale e la punibilità dei cittadini si
articola in quella che è la creazione di scenari del sistema punitivo che sono diversi e confusi. Una delle
principali concezioni era di confondere il crimine con il peccato e il diritto con la morale.

La responsabilità penale consta del fatto offensivo che non può caratterizzare solo la morale. Nel codice
1830 la c.d. VIOLENZA CARNALE con altri diritti erano collocati nei delitti contro la morale pubblica non
tenendo conto degli interessi personali in tema di sessualità. Dal 1996 in poi ci fu un tentativo
interpretativo non più basato sulla morale e una diversa posizione della “nuova” violenza sessuale ( ad es.
lo stupro verso la moglie antecedentemente non era punibile).

Bisogna capire che l’offesa del BENE GIURIDICO in ogni situazione e non l’atteggiamento morale dell’autore
dell’illecito. Gli scenari penali pre-moderni erano caratterizzati da eccessi (la c.d. SPETTACOLARITA’E LA
SANZIONE CRUDELE E AFFLITTIVA). Anche la punizione era diversa rispetto a quella odierna . Le stesse
modalità del PROCESSO PENALE erano profondamente differenti si parla di un processo inquisitorio,scritto
e con un’assenza di pubblicità. IL SUPERAMENTO DELL’IMPOSTAZIONE PREMODERNA si ha con il
GIUSNATURALISMO LAICO.

2. L’ILLUMINISMO PENALE

Nella metà del ‘700 si parla di ILLUMINISMO PENALE attraverso filosofi e autori laici (ad es Pagani,
Montesquie, Filangieri, Beccaria). L’ illuminismo penale è una scienza della legislazione e non di mera
tecnica del diritto. Le principali caratteristiche sono dettate da ragione e razionalità scientifica in campo
penale come strumento UTILE per prevenire i fatti delittuosi (reati). Il tutto alla luce di una separazione tra
diritto e morale. Le due matrici filosofiche d’interesse sono IL CONTRATTUALISMO e L’UTILITARISMO, il
primo prevede che le società siano fondate sul contratto sciale finalizzato alla tutela dei diritti dei cittadini
(art 25.2 COST),sottomettendosi ad un potere sovrano (PARLAMENTO). Il secondo nasce essenzialmente
per prevenire i reati. Secondo BEUTAU è utile ciò che ha come conseguenza la più grande tipicità del
maggior numero di persone. Secondo BECCARIA solo le leggi possono limitare le persone: certezza del
diritto, aspettattiva dei singoli e libertà personale.

Dallo storico PRINCIPIO DI LEGALITA’ ne discende oggi il PRINCIPIO DI DEMOCRATICITA’ ed il presupposto


per una MAGGIORE CERTEZZA DEL DIRITTO o possibilità di PREVEDERE L’ESITO DELLE AZIONI. Il giudice
deve essere la semplice bocca della verità e non un autore di norme. La ratio è di rinunciare ad una
porzione di libertà personali ai fini sociali dettando quindi una proporzionalità tra: PENA E NON SEVERITA’.
Il simbolo del pensiero illuministico era la GHIGLIOTTINA per esecuzione della sanzione penale come pena
di morte, meno crudele di ciò che doveva avvenire in precedenza. Cesare Beccaria,ne DEI DELITTI E DELLE
PENE sancisce il PRINCIPIO DI LEGALITA’ concernente la pena e l’interpretazione della norma (art. 25.1
COST). IL SILLOGISMO DELLA NORMA permette al legislatore una produzione e applicazione della norma
giuridica. Questo è caratterizzato da una PREMESSA MAGGIORE (norma) e da una PREMESSA MINIORE
(azione in parte conforme alla legge )questi due elementi caratterizzano la RATIO LEGIS. Se la legge è
oscura il legislatore deve far bene il proprio lavoro interpretando la norma. Rispetto del principio di laicità
(distinzione tra diritto e morale). L’unica vera misura dei delitti è il DANNO rivolto alla comunità. Il principio
di unaminizzazione delle pene ( contratto sociale ) e fine della pena non è affliggere o tormentare un essere
sensibile ma un impedimento nal reo di commettere danni (prevenzione generale). Gli illuministi per ‘’
tutelare” la discrezionalità del giudice prevedono una pena fissa per eliminare il soggettivismo presente
non solo nell’interpretazione ma anche nell’individuazione della PENA a volte anche discriminatoria. L’
EXTREMA RATIO è che la soluzione penale deve essere l’ultima spiaggia poiché è volta a limitare una
porzione di libertà individuale.

3. LA NASCITA DELLA SCUOLA MODERNA SCIENZA PENALISTICA ITALIANA; E LA COSIDDETTA


SCUOLA CLASSICA.

Dall’ 800 in poi si sono sviluppate le cd. SCUOLE : CLASSICA, TECNICO GIURIDC A E POST COSTITUZIONE.

La scuola classica porta alla nascita della moderna scuola penale. I principali esponenti sono F. Carrara, P.
Rossi, E. Messina. Sul piano teorico la scuola classica delineava una CONCEZIONE DEL REATO
GIUSNATURALISTICA: IL REATO COME ENTE GIURIDICO. L’ entità giuridica veniva da LEGGE ASSOLUTA che
prevedeva il dato positivo del legislatore : si effettuava dunque una violazione tutelata da una legge
superiore. La scuola classica inoltre si fonda su una teoria generale del reato , in senso metafisico. Il reato è
un’ azione umana scaturita dal LIBERO ARBITRIO dell’uomo, moralmente resposabile e generalmente
imputabile. Carrara scomponeva inoltre il reato in elemento oggettivo (forza fisica) ed elemento soggettivo
( forza morale). IL REATO COME ENTE è un singolo fattp delittuoso che viene valuato senza dare peso al
contesto in cui l’uomo si incastonava. In luce del Codice Zanardelli che è il primo codice penale italiano di
impronta liberale venivano valutati i fatti e non la morale umana. La scienza penale per i classici è qualcosa
di superiore rispetto al futuro tecnicismo giuridico mediante la mera esegesi del diritto positivo. Gli
approcci erano eterogenei.

4. LA SCUOLA POSITIVA.

I principali esponenti della scuola positiva sono: Lombroso, Garofalo, Ferri. Il positivismo criminologico si
incastona nella filosofia positivista, nata nella prima metà dell’ 800 in Francia. La scuola riteneva di poter
combattere la criminalità con la scienza. I positivisti non guardano il reato come ente giuridico ma lo
studiano come FENOMENO NATURALE. La scuola ha come fondamento la negazione della colpevolezza-
responsabilità della scuola classica. Il libero arbitrio è visto come illusione metafisica , non dimostrabile con
la scienza. Si parla di DETERMINISMO attraverso non la libertà umana ma con CAUSA: il comportamento
dell’uomo avviene prima della volontà , quindi non è scontata la TEORIA DEL LIBERO ARBITRIO . Le
categorie tradizionali quale morale, responsabilità e retribuzione della pena vengono meno poiché si parla
di PERICOLOSITA’ e CONSEGUENZA del delitto dunque di DIFESA SOCIALE. Il delinquente era visto come un
“malato” biologicamente determinato a commettere reato. Con Ferri nasce la SOCIOLOGIA CRIMINALE i
fattori che determina il reato sono fattori socio- economici ed ambientali.
5. GENESI ED EVOLUZIONE DELL’INDIRIZZO TECNICO-GIURIDICO.
Nella genesi ed evlozione dell’indirizzo tecnico giuridico si ha un sinallagma tra male del delitto e male della
pena. Nel positivismo criminologico si parlava di PREVENZIONE DEL REATO in misura indeterminata nel
tempo. Vi è oggi , una presunzione assoluta di pericolosità per chi è autore del reato. La differenza tra
scuola classica e scuola positiva determinano il DIRITTO COME FENOMENO MUTABILE NEL TEMPO;
contriamente alla scuola classica in cui il REATO ERA FEMONENO METAFISICO IMMUTABILE NEL TEMPO.
Tra la fine dell’ 800 e inizio ‘900 si sviluppano altre correnti della scuola penalistica : LA TERZA SCUOLA (O
SCUOLA CLASSICA), fondata da B. Alimena , in cui si cercò di prendere ispirazione dalle antecedenti scuole,
sopprimendo o traendone ispirazione. La scuola non si fonda sul libero arbitrio ma sulla NORMALITA’
PSISCOLOGICA, legata all’imputabilità.

LA CORRENTE SOCIALISTA fortemente ideologica-politica che attribuiva al diritto penale una visione
classicista . I fautori (Vaccaro) ritenevano che la pena fosse strumento borghese contro la classe
operaia,mirante una riforma.

LA CORRENTE TEDESCA (scienza penale integrata) compromesso tra diritto penale e scienze sociali.

Il TECNICISMO GIURIDICO ha ascendenze giuspositiviste. Portato avanti da Arturo Rocco determina la


necessità dell’integrazione tra diritto penale e politica sociale, contrapponendosi alla visione integrata di
Lits. La scuola trova le sue ascendenze nell’ambito della teoria di BRINDING il quale riteneva che il diritto
penale era un diritto positivo . Si affermava la STORICITA’ DEL DIRITTO ATTRAVERSO UN DATO
LEGISLATIVO, TECNICO E POSITIVO. Il PRIMO LIBRO del codice Rocco dispone la soglia di punibilità che non
può superare gli atti inidonei al comportamento del reato. IL SECONDO LIBRO invece determina le singole
fattispecie che derogano la portata generale dell’art 56. I REATI ASSOCIATIVI dispongono la rilevanza
penale che non necessita del comportamento del delitto. Sia la norma del primo che del secondo libro
vengono disposte sul secondo piano, anche se sono presenti delle contraddizioni. Gli artt del codice sono
presenti nella COSTITUZIONE ad esempio il PRINCIPIO DI LEGALITA’ (ART 25 COST) e ART 1 e 2 del CODICE
PENALE.

6. IL MOVIMENTO DELLA NUOVA DIFESA SOCIALE


Questo movimento si sviluppò in Francia con l’obiettivo di ammodernare il diritto penale soprattutto il
movimento criminologico e punitivo. E’ un movimento che nel suo sviluppo ha generato una serie di
correnti contrapposte. Tra queste correnti ritroviamo l’inquadramento di una politica criminale tesa
essenzialmente al completo superamento del tradizionale diritto punitivo. Il termine di riferimento della
reazione sanzionatoria era connessa esclusivamente alla struttura bio- psichica della personalità. La nuova
difesa sociale secondo la concezione di Ancel rappresenta un atteggiamento spirituale. Le istanze più
innovative concernono il piano dell’esecuzione penale .

7. GLI ORIENTAMENTI ATTUALI DELLA SCIENZA PENALISTICA


L’attuale dottrina penalistica si sviluppò intorno agli anni settanta con l’insieme dei principi e valori
consacrati nel testo costituzionale che diventa il metro critico per ricostruire e rivisitare un sistema penale
in gran parte figlio del passato regime. Si aveva la preoccupazione che con la forza innovativa dei principi
costituzionali non si riuscivano ad evitare insanabili contraddizioni. La concezione costituzionalistica del
diritto penale non è riuscita a sfociare in ricostruzioni sufficientemente univoche e largamente condivise.
Negli ultimi anni si è manifestato in seno alla dottrina italiana un ritorno d’interesse per un modello
‘’integrato’’ di scienza penale: una rielaborazione teorica che tenga conto delle valutazioni politiche e
criminali degli istituti indagati.
PARTE PRIMA: DIRITTO PENALE E LEGGE PENALE

CAPITOLO 1: CARATTERISTICHE E FUNZIONI DEL DIRITTO PENALE

1. PREMESSA
Dagli anni settanta gli orientamenti della scienza penalistica italiana sono mutati rispetto al tecnicisimo. Si
parla di INVERSIONE METODOLOGICA . LA RESPONSABILITA’ PENALE E’ PERSONALE (art 27.1 comma ).
Questo articolo venne sminuito nel suo contenuto, affermando che la personalità penale avrebbe redatto
questo principio della responsabilità per fatto altrui. SENTENZA 364/88 sul TEMA DELLA INGNORANTIA
LEGIS. Storicamente la RESPONSABILITA’ PRETERINTENZIONALE era responsabilità oggettiva e si
caratterizzava per il solo nesso causale. Riportando il giusto metodo tra Codice e costituzione si è arrivati a
dire che è il codice ad essere reinterpretato evolutivamente alla luce della Costituzione. Agli inizi degli anni
70 si è riusciti a ridisegnare il sistema penale sulla base dei principi costituzionali in alcuni casi può dare dei
problemi quindi è stato solamente raggiunto in parte. Il DIRITTO PENALE è positivo ed inoltre è una branca
del diritto pubblico che si occupa del reato. LA SCIENZA PENALE è una materia di studio più ampia ma non è
esatta. Le sanzioni o misure di sicurezza limitano la libertà personale e tutelano interessi pubblici in
processo compare lo Stato mediante la figura del PM. Il codice penale del 1930 ha un SISTEMA BINARIO:
sanzioni penali ed amministrative. L’elemento soggettivo (personalità - resp. penale) caratterizza il diritto
penale cioè si avvale in modo inferiore nel diritto civile. Le diversità strutturali tra penale e civile sono forti,
diversamente per il diritto amministrativo .Le sanzioni amministrative riguardano il pagamento di una
somma di denaro, di natura interdittiva o restitutiva o ripristino della situazione precedente. Il reato ruota
tendenzialmente attorno a tre principi-cardine:

1) non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un comportamento esterno
(c.d. principio di materialità)
2) non basta la realizzazione di un comportamento materiale ma è necessario che tale
comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici( c.d. principio di necessaria lesività o
offensività.
3) Un fatto materiale lesivo di beni giuridici può essere penalmente attribuito all’autore soltanto a
condizione che gli si possa muovere un rimprovero per averlo commesso (c.d. principio di
colpevolezza).

LA LEGGE 689/1981 è riconosciuta come LEGGE DI DEPENALIZZAZIONE. Molte norme appartenenti al diritto
penale vengono depenalizzate nei confronti del diritto amministrativo le cui sanzioni possono essere anche
punitive . E’ l’autorità amministrativa a irrogare sanzioni amministrative , poi c’è la possibilità del rimedio
giurisdizionale. La differenza la si ha con il diritto processuale penale il quale accerta il reato ed applica
delle pene in processo. Bisogna distinguere le MISURE DI SICUREZZA fatto costituente reato (salvo quasi
reato art 49 e 115). MISURE DI PREVENZIONE sono senza reato, questo non si è ancora costituito. Il potere
esecutivo- amministrativo a prevedere fatti con opportune misure di prevenzione queste nascono in Italia
dall’ 800 ed erano volte alla repressione dei vagabondi e degli oziosi. In un primo momento, la minaccia
della sanzione penale tende a togliere la generalità dei consociati dal commettere reati (prevenzione c.d.
generale); in un secondo momento, la concreta inflizione della pena mira a impedire che il singolo autore
del reato torni a delinquere (prevenzione c.d. speciale).
2. FUNZIONI DI TUTELA DEL DIRITTO PENALE: LA PROTEZIONE DEI BENI
GIURIDICI
Il diritto penale contribuisce tendenzialmente ad assicurare le CONDIZIONI ESSENZIALI della convivenza,
predisponendo la SANZIONE PIU’ DRASTICA a difesa dei BENI GIURIDICI: tali sono comunemente definiti i
beni socialmente rilevanti. La definizione teoricamente più appagante di bene giuridico non può, da sola,
fungere da automatico spartiacque tra oggetti meritevoli e non meritevoli di protezione penale. La
definizione che tendenzialmente meglio riflette il carattere dinamico del bene giuridico nel senso predetto,
è quella che lo identifica come UNITA’ DI FUNZIONE. L’idea della protezione dei beni giuridici recupera
visioni illuministiche. Si assiste ad una lieve divaricazione tra la concezione teorica del diritto penale e la
realtà dell’ordinamento. La prima definizione di bene giuridico si fa risalire al tedesco Birnbaum che
determina una punizione di fatti lesivi di beni considerati di rango particolare. Alla fine dell’ ottocento si
cerca di concepire il diritto penale come strumento effettivo di tutela dei beni giuridici. Listz propone un
CONCETTO MATERIALE di bene giuridico basato su esigenze preesistenti alla valutazione del legislatore. La
concezione del reato come lesione di un bene giuridico ha ricevuto in Italia una completa esposizione
nell’opera di Arturo Rocco, la scelta di questa angolazione orientata maggiormente al diritto positivo. La
storica tripartizione è priva di una reale utilità proprio sotto un profilo tecnico. All’ oscillazione tra
orientamenti che ne privilegiano la FUNZIONE DOGMATICA E SISTEMATICA in rapporto ad un determinato
ordinamento positivo, ora la funzione politico-criminale anche in prospettiva DE IURE CONDENDO ha
predisposto il terreno per l’emersione di nuovi orientamenti che hanno finito col portare alle estreme
conseguenze il predetto processo di formalizzazione la c.d. CONCEZIONE METODOLOGICA. Si parla in
questo contesto di un’ INTERPETAZIONE DI SCOPO. L’intervenuto mutamento del rapporto Stato-cittadino
fa si che al centro del reato si ha la VIOLAZIONE DEL DOVERE DI FEDELTA’ NEI CONFRONTI DELLO STATO
ETICO, impersonato dal FUHRER. Alla base di questi studi e queste teorie si ha la COSTITUZIONE che è un
CRITERIO DI RIFERIMENTO NELLA SCELTA DI CIO’ CHE PUO’ ASSURGERE A REATO. In Costituzione possiamo
citare una serie di articoli come il 25.2 , 27.1, 27.3 ( attribuisce alla pena una funzione rieducativa
presupponendo una delimitazione dell’area dell’ illecito penale ) che affermano l’avvenuta
costituzionalizzazione del principio che ammette il ricorso allo strumento penale. Ad esempio l’art 13 COST
dispone il carattere INVIOLABILE della libertà personale. Soccorrono inoltre i PRICIPI DI MERITEVOLEZZA DI
PENA E SUSSIDARIETA’ che servono per tutelare il bene mediante tecniche sanzionatore extrapenali. Il
problema della compatibilità con la Costituzione delle figure di reato può essere sottoposto ad una duplice
analisi: da un lato la fattispecie è posta a tutela di un bene SUFFICIENTEMENTE DEFINITO, dall’altro lato ad
una serie di TECNICHE COSTITUZIONALI. Quanto al primo profilo si discorre essenzialmente di REATI SENZA
BENE GIURIDICO es pornografia, giuoco d’azzardo, bestemmia. Bisogna determinare l’individuazione del
bene giuridico quale entità specifica e facilmente afferrabile o a quelle finalizzate alla protezione di interessi
superindividuali ad esempio beni cui il regolare esercizio dell’attività giudiziaria o il buon funzionamento
della pubblica amministrazione. Problematici appaiono i DELITTI OMISSIVI c.d. PROPRI, consistenti nella
mera inosservanza di un obbligo di condotta penalmente sanzionatoria. Quanto al secondo modello
bisogna determinare la tecnica di strutturazione della fattispecie:

REATI DI SOSPETTO discostano dal principio di offensività, il legislatore incrimina fatti che , considerati in se
stessi, non ledono né pongono in pericolo il bene protetto. La repressione preventiva serve ad assicurare
una tutela anticipata del patrimonio.

ostacolo, in quanto la funzione delle relative norme è quella di frapporre un impedimento al compimento
dei fatti concretamente offensivi.
REATI DI PERICOLO PRESUNTO (in senso stretto) fatti che secondo una regola di esperienza, è presumibile
provochino una messa in pericolo del bene protetto. L’ammissibilità di simili di reato non è esclusa in
partenza ma è subordinata alla presenza di alcune rigorose condizioni e di alcuni correttivi.

DELITTI DI ATTENTATO è una figura di reato tipica del diritto penale politico è presenta caratteristiche
essenzialmente illiberali colpisce gli atti preparatori di condotte destinate ad offendere interessi di
personalità appartenenti allo STATO.

REATI DI DOLO SPECIFICO CON CONDANNA NEUTRA si tratta di illeciti basati su di una condotta che viene
considerata in se stessa e che può addirittura costituire esercizio di un diritto costituzionalmente
riconosciuto e che può assumere rilevanza penale.

Il controllo di legittimità della Corte costituzionale esclude ogni valutazione politica e ogni sindacato
sull’uso del potere discrezionale del Parlamento. Non risultano casi di espressa recezione da parte della
corte della teoria costituzionale dei beni giuridici negli stessi termini in cui essa viene proposta dalla più
recente elaborazione dottrinale. L’applicazione dei vari pareri ha dato luogo a pronunce inquadrabili sotto
tre diverse tipologie:

SENTENZE DI RIGETTO sono la maggior parte e la Corte ha operato il salvataggio facendo leva sul rilievo che
la fattispecie sarebbe tutelata dal bene giuridico, dotato a loro volta di rango costituzionale.

SENTENZE MANIPOLATIVE DEL BENE PROTETTO hanno in alcuni casi introdotto la Corte a riformulare
l’oggetto della tutela , in modo da renderlo compatibile con la Costituzione. Per quanto riguarda la
legittimità della ridefinizione di bene giuridico, la prima condizione ammissibile dipende dal LIVELLO DI
UNIVOCITA’ del ricordo ai principi costituzionali; la riformulazione del bene protetto non è altro che il
risultato di una REINTERPRETAZIONE COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA. La seconda condizione di
ammissibilità attiene al RISPETTO DEL TENORE LETTERALE della fattispecie incriminatrice.

SENTENZE DI ACCOGLIMENTO sono la minor parte; la mancata legittimità della norma penale viene fatta
dipendere dalla sua attitudine a comprimere diritti di libertà costituzionalmente garantiti, senza tale
incidenza possa considerarsi giustificata dall’esigenza di tutelare altri bene o interessi costituzionalmente
rilevanti.

Il diritto penale non si presta ad essere impiegato come strumento di trasformazione sociale o come
strumento atto a far conseguire l’acquisizione di beni futuri.

3. I PRINCIPI DI << SUSSIDARIETA’>> E DI << MERITEVOLEZZA DI PENA>>


Si parla di CARATTERE SUSSIDIARIO DEL DIRITTO PENALE per esprimere appunto, l’idea dello strumento
penale come extrema ratio . La prospettiva della sanzione punitiva appaia sin dall’inizio inidonea a
conseguire l’obiettivo perseguito, il ricorso ad essa appare illegittimo perché inutili e ingiustificati ne
risulterebbero i costi a carico del singolo condannato. Il principio di sussidarietà appare in questo contesto
come un generale principio di proporzione e cioè un principio logico immanente nello Stato di diritto che
ammette ricorso a misure restrittive del diritto dei singoli solo in casi di stretta necessità. Secondo una
concezione ristretta il ricorso allo strumento penale appare ingiustificato o superfluo quando la
salvaguardia del bene in questione sia già ottenibile mediante sanzioni di natura extrapenale. Una
concezione più ampia riguarda i casi in cui la sanzione penale ha una funzione stigmatizzante propria della
pena in senso stretto. Un ulteriore criterio di criminalizzazione è costituito dal principio delle c.d.
MERITEVOLEZZA DI PENA. Esprime l’idea che la sanzione penale deve essere applicata non in presenza di
qualsivoglia attacco ad un bene degno di tutela , bensì solo nei casi in cui l’espressione raggiunga un tale
livello di gravità.

4. IL PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’
Il diritto penale ha carattere FRAMMENTARIO ovvero si raccolgono solo le forme più grossolane di
manifestazione. Il PRINCIPIO DI FRAMMENTARIETA’ è solitamente considerato operante a tre livelli . In
primo luogo alcune fattispecie di reato tutelano il bene oggetto di aggressione soltanto in presenza di
SPECIFICHE FORME DI AGGRESSIONE. In secondo luogo la sfera di ciò che rileva penalmente è molto
limitata rispetto alla sfera di ciò che è qualificato come ANTIGIURIDICO alla stregua dell’intero
ordinamento. In una prospettiva di PREVENZIONE GENERALE si è rilevata la frammentarietà della tutela
contrasterebbe con l’esigenza di reprimere tutti i comportamenti capaci di ledere il bene protetto, anche se
non formalmente tipizzati. Dal punto di vista della PREVENZIONE SPECIALE si è osservato che la
frammentarietà contrasta con l’esigenza di risocializzazione. IL PROCESSRIEDUCATIVO HA LO SCOPO DI
FAVORIRE NEL REO LA RIACQUISIZONE DEI VALORI. La frammentarietà finisce con l’esaltare l’ispirazione
liberale della moderna concezione di un diritto penale costituzionalmente orientato.

5. IL PRINCIPIO DI << AUTONOMIA >>


Binding attribuisce al diritto penale una funzione SECONDARIA O ACCESSORIA E SANZIONATORIA: e cioè la
sua funzione specifica consisterebbe nel rafforzare con la propria sanzione i precetti e le sanzioni degli altri
rami del diritto. LA SANZIONE PENALE SERVE COSI DI COMPLETAMENTO E DI RAFFORZAMENTO ALL’ALTRA
SANZIONE PENALE. Sarebbe errato parlare di accessorietà in una prospettiva dogmatica incentrata sul
diritto positivo. Anche quando l’illecito penale è costruito su di un evento lesivo che fa
contemporaneamente da presupposto ad illeciti extrapenali, la sua autonomia può riempire vari profili. Il
primo profilo si ricollega al principio di frammentarietà; il secondo alle specifiche esigenze dell’imputazione
penalistica che posso richiedere la specificazione dei precedenti concetti.

6. PARTIZIONI DEL DIRITTO PENALE


Il codice penale è costituito da una parte generale e da una speciale. La parte generale comprende la
disciplina dei criteri oggettivi, soggettivi, di imputazione del fatto delittuoso al suo autore, delle
conseguenze giuridiche del reato e si ogni altro elemento condizionante la punibilità. La parte speciale
contiene il catalogo della fattispecie che descrivono i singoli comportamenti illeciti. La parte generale
presuppone la conoscenza della parte speciale. I principi generali abbisognano di un riferimento alle teorie
della pena ed alle concezioni di Stato. La parte speciale è organizzata secondo un criterio sistematico che fa
capo al concetto di BENE GIURIDICO DI CATEGORIA.
7. CARATTERISTICHE DEL CODICE ROCCO
Il codice Rocco emanato in epoca fascista non appare tutto connesso all’ideologia del regime. La ricerca
delle sue ascendenze politico-ideologiche e culturali rimanda a influenze e filoni diversi. La parte generale
rimanda maggiormente alle concezioni politiche tipiche del regime . La parte speciale è caratterizzata
essenzialmente dalla tradizione penalistica liberale .Si tratta di una stretta rigoristica realizzata con tecniche
non esclusive di uno stato totalitario fascista, ma suscettive di essere inquadrate in un modello astratto di
risposte adottabili in uno Stato autoritario. La novità essenziale è dettata dall’introduzione delle misure di
sicurezza , in aggiunta o in sostituzione della pena (sistema del c.d. doppio binario).

8. CODICE ROCCO, INTERVENTI RIFORMATORI E LEGISLAZIONE SPECIALE


Il codice del 1930 con il passare degli anni ha subito una serie di modifiche volte a determinare se il codice
effettivamente era caratterizzato da un’impronta fascista. I principali interventi riformatori sono dettati da :
a) la scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari nei confronti del pubblico ufficiale;

b) la c.d. exceptio veritatis, cioè l’istituto in virtù del quale si attribuisce all’imputato il diritto di provare la
verità dell’addebito di fronte ad un fatto determinato; c) le attenuanti generiche e cioè non tipizzate che
spetta al giudice individuare. E’ stata abolita la pena di morte, riformata la disciplina penale della
responsabilità dei reati commessi con la stampa, riformati gli istituti della sospensione condizionale della
pena e della liberazione condizionale. La cd novella 1974 ha introdotto : a) la possibilità del giudizio di
comparazione tra le circostanze aggravanti ; b) il cumulo giuridico delle pene ; c)estensione della disciplina
del reato; d)la trasformazione dell’aggravante della recidiva; e)estensione dei limiti della sospensione
condizionale anche nei casi di seconda condanna. Il secondo intervento riguarda la riforma
dell’ordinamento penitenziario, caratterizzata dal duplice obiettivo di disciplinare l’esecuzione della pena in
armonia con gli altri principi. Il terzo grande intervento riguarda il sistema sanzionatorio che introduce le
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Il legislatore è stato costretto a revisionare anche la parte
speciale in una prospettiva detta di EMERGENZA. Altre modifiche riguardano i reati sessuali, i reati in
materia informatica e di sfruttamento sessuale dei minori o ancora i delitti contro il sentimento degli
animali. Si cerca di sottolineare maggiormente un ORIENTAMENTO CULTURALE del codice penale , inteso
come tavola dei valori oggetto della protezione penale.

CAPITOLO 2: LA FUNZIONE DI GARANZIA DELLA LEGGE PENALE


CASO 1 IN UNA GIORNATA MOLTO CALDA UN UOMO, PER RICEVERE REFRIGERIO , SI IMMERGE NUDO IN
UNA FONTANA DI HYDE PARK. DENUNCIATO , E’ CHIAMATO A RISPONDERE PENALMENTE PER LA
VIOLAZIONE DELLE NORME CHE PROIBISCONO DI INDOSSARE ABBIGLIAMENTI CONTRARI AI BUONI
COSTUMI (ANEDDOTO GIURIDICO INGLESE).

1. PREMESSE GENERALI
Il PRINCIPIO DI LEGALITA’ ha una genesi non strettamente penalistica, ma prettamente politica. L’idea della
tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del potere statuale si esprime, nel DIVIETO DI
RETROATTIVITA’ della legge penale. Più che alle regole di comportamento questo divieto si applica
prettamente alla sanzione , la quale si trasforma in una misura arbitraria. Il fondamento politico del
principio di legalità avviene grazie ad un criminalista tedesco Feuerbach , il quale lo concretizza con la
formula latina NULLA POENA SINE LEGE. L’art 25, comma 2°, Cost, dispone che nessuno può essere punito
se non in forza ad una legge che sia entrata in vigore prima dl fatto commesso. L’art 1 del codice penale
afferma che, nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato
dalla legge, né con pene che non siano da esse stabilite. In riferimento al caso 1 vero o fantastico che sia , il
comportamento dell’uomo rientra in una considerazione basata sulla ratio di tutela, tra le condotte che la
norma incriminatrice dovrebbe reprimere. Il principio di legalità ha come destinatari sia il legislatore che la
il giudice quest’ultimo si articola in quattro sotto-principi: 1) riserva di legge; 2) la tassatività o sufficiente
determinatezza della legge penale; 3)l’irretroattività della legge penale; 4) il divieto di an analogia in
materia penale.

2. LA RISERVA DI LEGGE : FONDAMENTO E PORTATA


CASO 2 UN INDIVIDUO TURBA UN PUBBLICO COMIZIO TENUTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEI
DEPUTATI ALL’ASSEMBLEA REGIONALE SICILIANA: VIENE INCRIMINATO AI SENSI DELL’ART 67 L. REG.SIC 20
MARZO 1951, N.29 CHE ESTENDE ALLE ELEZIONI REGIONALI LE NORME PENALI PREVISTE DAL T.U. 5
FEBBRAIO 1948,N 26 PER LE ELEZIONI DEL PARLAMENTO NAZIONALE.

CASO 3 UN AUTOMOBILISTA , SORPESO SENZA LIBRETTO DI CIRCOLAZIONE, NON OTTEMPERA ALL’ ORDINE
PERENTORI INTIMATOGLI DALL’AGENTE DI POLIZIA STRADALE DI ESIBIRE ENTRO UN CONGRUO TERMINE LA
CARTA DI CIRCOLAZIONE ALL’UFFICIO DI POLIZIA: ONDE, RITNUTO RESPONSABILE DEL REATO PREVISTO
DALL’ ART 650 C.P. CHE INCRIMINA L’INOSSERVANZA DI UN PROVVEDIMENTO DELL’AUTORITA’.

CASO 4 AD UN INDUSTRIALE SI CONTESTA DI PRODURRE SOSTANZE ALIMENTARI CON AGGIUNTA DI


ADDITIVI CHIMICI NON AUTORIZZATI DAL MINISTRO DELLA SANITA’: LA DIFESA ECCEPISCE CHE NELLA
SPECIE IL REATO E ‘ CONFIGURATO NON DALLA NORMA PENALE MA DA UN DECRETO DEL MINISTRO.

Il principio di riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato fatto di assenza una legge
preesistente che lo configuri come reato: in particolare esso tende a sottrarre la competenza in materia
penale al potere esecutivo. Nell’ordinamento italiano il principio delle riserva di legge non è stato inteso del
tutto in linea con la motivazione ideologica ad esso sottesa, ma sono prevalse interpretazioni ispirate alla
preoccupazione di conservare buona parte dell’ordinamento penale esistente anche se ereditato dal
precedente regime politico. Si è così tentato di ridimensionare il valore della riserva , degradandola a
RELATIVA. LA RISERVA ASSOLUTA esclude che il legislatore possa attribuire il potere normativo penale ad
una fonte di grado inferiore.

3. IL CONCETTO DI <<LEGGE>> NELL ART.25 , COMMA 2 , COST. E NELL’ART 1 C.P.


Le caratteristiche della legge delegata e del decreto legge appaiono poco compatibili con la ratio sottesa al
principio di riserva di legge. La prima si pone con la legge delega all’incirca nello stesso rapporto in cui si
pongono le fonti normative secondarie nei confronti di una legge che si limiti a configurare il precetto
sostanziale. Muovendo dal monopolio della legge statale in materia penale, la dottrina dominante e la
quasi unanime giurisprudenza escludono dal novero la LEGGE REGIONALE. Nell’ambito della giurisprudenza
costituzionale l’esclusione di una potestà normativa penale delle Regioni è contenuta nella sentenza
487/89, nella quale si afferma : LA CRIMINALIZZAZIONE COMPORTA, UNA SCELTA TRA TUTTI I BENI E
VALORI EMEREGENTI NELL’INTERA SOCIETA’, TALE SCELTA NON PUO’ ESSERE REALIZZATA DAI CONSIGLI
REGIONALI PER LA MANCANZA DI UNA VISIONE GENERALE DEI BISOGNI ED ESIGENZE DELL’INTERA
SOCIETA’. Il caso 2 esemplifica una ipotesi di legge regionale tendente a munire di tutela penale un settore
in specie quello elettorale , che a livello di disciplina regionale risulta sprovvisto.

4. RAPPORTO LEGGE-FONTE SUBORDINATA : I DIVERSI MODELLI DI INTEGRAZIONE


I modelli di integrazione tra legge e fonte subordinata sono cosi schematizzati:

a) la legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente punibili (c.d.
norme penali in bianco) (art.650 c.p.);
b) la fonte secondaria disciplina uno o più elementi che concorrono alla descrizione dell’illecito penale
(art.659 c.p.)
c) l’atto normativo subordinato assolve alla funzione di specificare , in via tecnica , elementi di
fattispecie legislativamente riaffermati.
d) la legge consente alla fonte secondaria di scegliere i comportamenti punibili tra quelli disciplinati.

La prima ipotesi di NORMA PENALE IN BIANCO disposta dall’art 650 c.p. prevede che la fattispecie
corrispondente è molto generica e simile ad un contenitore vuoto: la disposizione si limita ad affermare che
è punito colui che non osserva un provvedimento emanato dall’autorità amministrativa. L’ipotesi
esemplificata nel caso 4 dispone che è certamente illegittimo l’ultimo modello di integrazione quello cioè
nel quale la legge consente alla fonte secondaria di selezionare i comportamenti punibili.

5. RAPPORTO LEGGE-CONSUETUDINE
La consuetudine nel diritto penale è considerata pacifica, proprio in forza del principio di riserva di legge,
l’inattitudine della consuetudine a svolgere funzione INCRIMINATRICE O AGGRAVATRICE del trattamento
punitivo. Ad analoga conclusione di deve pervenire riguardo alla consuetudine cosiddetta ABROGRATICE O
DESUETUDINE. Al concetto di consuetudine integratrice spesso si fa ricorso per alludere a quei casi in cui il
giudizio penale presuppone il rinvio a criteri sociali di valutazione. Ammissibile è il richiamo alla
consuetudine cosiddetta SCRIMINANTE.

7. IL PRINCIPIO NULLA POENA SINE LEGE


Per predeterminazione della sanzione non si intende l’esclusione di ogni potere discrezionale del giudice. Si
ha l’esigenza di adattare la pena al disvalore del reato commesso, la necessità di rispettare i principi
costituzionali della individualizzazione della pena e del finalismo rieducativo. Anche rispetto alle pene il
principio di legalità opera come riserva di LEGGE ASSOLUTA. Oltre alla ratio ispiratrice del principio di
legalità, in questo senso depone altresì il nesso inscindibile che lega, all’interno della norma penale, il
momento precettivo ed il momento sanzionatorio. La riserva di legge riguarda non solo le pene principali
ma anche quelle accessorie, nonché gli effetti della condanna.

8. IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’: PREMESSSA


CASO6: ALDO BRAIBANTI, ACCUSATO DI AVERE, MEDIANTE SUGGESTIONE, SOTTOPOSTO DUE RAGAZZI AL
PROPRIO POTERE FINO A METTERLI IN TOTALE STATO DI SOGGEZIONEPSICOLOGICA, VIENE CONDANNATO
PER PLAGIO.

CASO7: UNA DONNA PRENDE IL SOLE A SENO NUDO IN UNA PUBBLICA SPIAGGIA: TALE COMPORTMENTO
COSTITUISCE REATO PER LA CASS. 12 LUGLIO 1982, INEDITA, MENTRE E’ CONSIDERATO LECITO PER LA
CASS. 22 SETTEMBRE 1982.

Appartiene alla stessa ragione ispiratrice del principio di legalità l’esigenza della tassatività o sufficiente
determinatezza della fattispecie penale. Il principio di determinatezza coinvolge la tecnica di formulazione
della fattispecie criminosa e tende a salvaguardare i cittadini contro eventuali abusi del potere giudiziario.
Tendenzialmente la tutela penale è apprestata contro determinate forme di aggressine, è necessario che il
legislatore specifichi i comportamenti che integrano modalità aggressive. Cioè, la determinatezza
rappresenta una condizione indispensabile perché la norma penale possa efficientemente fungere da guida
del comportamento cittadino: quanto più il cittadino è posto in condizione di discernere senza ambiguità
tra le zone del lecito e dell’illecito, tanto più cresce il suo rapporto di fiducia partecipativa nei confronti
dello Stato e delle sue istituzioni. Lo scarto tra il principio di tassatività e la realtà dell’ordinamento penale
dipende non solo dall’obiettiva difficoltà di rinvenire a livello sufficiente determinatezza della fattispecie
incriminatrici, ma anche da un eccessivo self-restraint della Corte Costituzionale. I settori della
Giurisprudenza hanno la ricorrente tentazione di sovrapporre alle scelte legislative politiche giudiziarie di
tutela dei beni giuridici e di fatti agevolare l’ambiguità dei testi legislativi: bisogna evitare illusioni. Il
legislatore, nel tipizzare i reati impiega termini linguistici “aperti” suscettibili di assumere più significati,
tutti astrattamente ammissibili. Ciò che conta è la capacità della dottrina e della giurisprudenza di
accrescere il tasso di determinazione delle fattispecie incriminatrici con l’esigenza di evitare soluzioni che
oltrepassano i confini testuali.

9. IL PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ E TECNICHE DI REDAZIONE DELLA FATTISPECIE


PENALE
Le principali tecniche di legiferazione sono: 1) Normazione descrittiva la quale descrive il fatto criminoso
mediante l’impiego di termini che alludono a dati della realtà empirica. 2)Normazione sintetica: il
legislatore adotta una qualificazione di sintesi mediante l’impiego di elementi normativi, rinviando a una
fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice come parametro per la regola di giudizio da applicare al
caso concreto. Gli strumenti di tecnica legislativa atti a garantire la tassatività della fattispecie sono i cd
elementi descrittivi cioè elementi che traggono il loro significato direttamente dall’esperienza sensibile
(delitti di omicidio, lesione personale o danneggiamento). Tali elementi risultano indeterminati proprio
perché alla descrittività linguistica non corrispondono tipi delittuosi ben profilati nella realtà sociale. Gli
elementi normativi invece necessitano di una etero-integrazione mediante il rinvio a una norma diversa da
quella incriminatrice. Gli elementi normativi si dividono in: giuridici, ove la norma è facilmente
individuabile, ed extragiuridici, cioè rinvianti a norme sociali o del buon costume poiché è incerto il limite
tra livello di determinatezza e carattere indefinito dell’elemento del fatto del reato. Difatti, la
determinazione legislativa e/ giudiziale di parametri valutativi di fonte sociale risulterà tanto più univoca,
quanto più si sarà in gravo di avvalersi di criteri di rilevazione degli stessi obiettivamente controllabili.

10. IL PRINCIPIO DI IRRETROATIVITA’


CASO8: TIZIO VIENE INCRIMINATO AI SENSI DELL’ART 636 C.P. PER AVER FATTO PASCOLARE
ABUSIVAMENTE IL PROPRIO GREGGE I UN TERRENO DI PROPRIETA’ ALTRUI. SUCCESSIVAMENTE
INTERVIENE UNA MODIFICA LEGISLATIVA CHE INTRODUCE LA PUNIBILITA’ A QUERELA DEL REALTO IN
QUESTIONE: CONTINUA A ESERE PUNIBILE TIZIO IN ASSENZA DELLA QUERELA DI PARTE?

CASO9: DURANTE LA REPUBBLUCA DI SALO’ VIENE FALSAMENTE DENUNCIATO DI APPARTENERE A BANDA


PARTIGIANA, MA IN SEGUITO ALL’INTERVENUTO MUTAMENTO ISTITUZIONALE, L’APPARTENENZA A GRUPPI
PARTIGIANI CESSA I ESSEEE QUALIFICATA REATO: PERMANE IL DIRITTO DI CALUNNIA A CARICO DEL
DENUNCIANTE?

Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in
vigore. Tale principio è previsto per tutte le leggi dall’art 11 delle disposizioni preliminari, il quale stabilisce
che la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Il legislatore sancisce come il
principio di irretroattività sia ispirato alla garanzia della libertà personale del cittadino nei confronti dei
detentori del potere legislativo. Il 2° e 3°comma appaiono inspirati al diverso principio della retroattività di
una eventuale norma più favorevole, successivamente emanata. La ratio sottesa al principio, favorevole al
reo, è identica a quella che giustifica il riconoscimento costituzione all’irretroattività. È da precisare però
che il divieto di retroattività riguarda il diritto penale sostanziale, non quello processuale penale. Il divieto
concerne tutti gli elementi dell’illecito, comprese le condizioni di punibilità, le modifiche in mala partem
degli altri istituti e le conseguenze penali.

11. LA DISCIPLINA DETTATA DALL’ART.2 DEL CODICE PENALE


Il 1° comma stabilisce: ”Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato”. Questo è il fenomeno cd nuova incriminazione, che ricorre quando una
legge introduce una figura di reato prima inesistente. Il divieto di punire comportamenti considerati illeciti
da una legge emanata successivamente alla realizzazione, non soddisfa soltanto un’esigenza di giustizia ma
una limitazione dei cittadini al rischio. Il principio di irretroattività si salda dunque con quello di legalità,
fondendosi nella formula nullum crimen, nella poena sine “previa” lege penale.

Il 2° comma dispone: “Nessun può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione egli effetti penali.” La norma allude al
fenomeno dell’abolizione di incriminazioni prima esistenti. Gli autori del reato oggetto di abrogazione non
solo non possono più essere puniti ma, se hanno subito una sentenza di condanna ancorché definitiva, ne
cessa l’esecuzione e si estinguono tutti i connessi effetti penali.
La successione delle leggi penali segue orientamenti diversi. Secondo il primo, si ha successione perché nel
passaggio dalla vecchia norma alla nuova permane la continuità del tipo di illecito: si valutano sia l’interesse
protetto sia le modalità e gli elementi che rimangono identici. Il criterio in esame però mostra un duplice
criterio critico: le condizioni sopra citate si verificherebbero solo in caso di perfetta identità del fatto di
reato. La tesi finisce per risultare incerta. La funzione di garanzia propria del principio di irretroattività
richiede parametri di valutazione certi da scongiurare eventuali elusioni. Appare far leva su un “rapporto di
continenza” tra la vecchia e nuova fattispecie: occorre un rapporto strutturale tra le fattispecie considerate,
tale per cui possa instaurarsi una relazione di genere e specie. Ciò si verifica quando la fattispecie
successiva sia pienamente contenuta nella precedente. Vi sono casi in cui la Suprema Corte ha ritenuto
sufficiente la mera riconducibilità del fatto concreto ad entrambe le norme considerate.

12. SEGUE: SUCCESSIONE DI LEGGI E APPLICABILITA’ DELLA DISPOSIZIONE PIU’


FAVOREVOLE AL REO
Il 4° comma dell’art2 stabilisce che “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono
diverse, sia applica quella le cui disposizioni sono più favorevole al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile”. Il fondamento del principio è la garanzia del favor libertatis, che assicura al cittadino
il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento della realizzazione
del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché precedenti alla sentenza di condanna. Per la Corte
il principio di retroattività trova il proprio limite di derogabilità nella stessa norma costituzionale (art3 cost)
da cui trae legittimazione: eventuali deroghe alla retroattività della lex mitior possono risultare
costituzionalmente legittime qualora superino una soglia di ragionevolezza. Il principio in esame della legge
ha in seguito beneficiato di un arricchimento dei suoi fondamenti normativi grazie all’importante
contributo dato dalla Corte di Strasburgo la quale ha elevato il diritto a ricevere il trattamento penale più
favorevole a un ulteriore diritto fondamentale dell’uomo. A ragione di ciò è ricavabile la regola secondo la
quale se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi posteriori adottate
prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più
favorevoli. Il fenomeno della successione delle leggi va riferito non solo al tipo e alla natura della sanzione,
ma anche al regime giuridico della procedibilità. Il raffronto tra vecchia e nuova disciplina va effettuato in
concreto mettendo a confronto i rispettivi risultati dell’applicazione di ciascuna di esse alla situazione
concreta oggetto di giudizio. La legge 85 del 2006 ha aggiunto all’art2 ipotesi della modifica nel tempo del
trattamento sanzionatorio intervenuta dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Se vi è
stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena
detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art 135. La
pena pecuniaria va applicata anche ai fatti commessi prima.

13.SUCCESSIONE DI LEGGI INTEGRATICI DI ELEMENTI NORMATIVI DELLA


FATTISPECIE CRIMINOSA (MODIFICHE C.D. MEDIATE DALLA FATTISPECIE
INCRIMINATRICE)
SI discute se la disciplina di cui all’art2 sia applicabile alle modifiche normative che non incidono
direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, ma che vi incidono in maniera
soltanto indiretta o mediata. Essendo difficile stabilire con certezza in quali casi la modifica mediata incida
realmente sulla fattispecie incriminatrice astratta si fa leva sulla tesi dell’incorporazione della disposizione
integratrice dell’elemento normativo nella stessa norma incriminatrice. Parte della dottrina ritiene sempre
preclusa l’operatività del principio di retroattività della norma più favorevole se il mutamento concerne
norme culturali.

14. SUCCESSIONE DI LEGGI TEMPORANEE, ECCEZIONALI E FINANZIARIE


Ai sensi dell’art2 comma 5° il principio della retroattività in senso più favorevole al reo è inoperanti rispetto
alle leggi temporanee e alle leggi eccezionali. Si definiscono eccezionali quelle leggi, in cui l’ambito di
operatività temporale è segnato dal persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori
dall’ordinario (guerre, epidemie); sono temporanee le leggi rispetto alle quali è lo stesso legislatore a
prefissare la durata. La ratio è identica in entrambi i casi. Le disposizioni penali delle leggi finanziarie e
quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali
disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della
loro applicazione. All’art20, ormai abrogato, il principio di retroattività più favorevole al reo risultava
inapplicabile anche se la legge successiva, abrogatrice o più mite, era pur essa di natura finanziaria, diverso
il caso se la legge più mite era una legge finanziaria che modificava una precedente legge ordinaria.

15.DECRETI LEGGE NON CONVERTIBILI


L’ultimo comma dell’art 2 stabilisce che la disciplina della successione delle leggi non si applica nei casi di
decadenza, e di mancata ratifica di un decreto legge e nel caso di un decreto legge convertito in legge con
emendamenti. Il codice Rocco si adeguava all’ordinamento costituzionale dell’epoca, il quale stabiliva che
gli effetti del decreto legge non convertito cessavano con efficacia ex nunc, facendo salvi gli effetti prodotti
durante la sua vigenza. Però il legislatore costituente ha introdotto l’opposto principio della cessazione ex
tunc degli effetti con decreto non convertito (art77 Cost). Il fenomeno della successione presuppone la
valida applicazione della legge preesistente al fatto, mentre la caducazione con efficacia ex tunc di un
decreto legge impedirebbe di continuarlo ad applicare anche ai fatti commessi sotto la sua vigenza. Si pensi
ad esempio a un decreto legge che abroghi un’incriminazione preesistente o ne attenui il trattamento
sanzionatorio.

Il principio di irretroattività della legge penale incriminatrice o più sfavorevole sancito dall’art25 comma 2°
cost non può mai essere derogato, dal momento che appartiene al novero dei principi che la stessa
Costituzione detta come propri e irrinunciabili della materia penale, a garanzia del ruolo primario spettante
al favor libertatis. La tesi che attribuisce prevalenza al principio di retroattività della legge penale più
sfavorevole, sembra a prima vista contraddetta dalla Corte Costituzionale: con la sentenza n.51/1985, la
Corte l’ha infatti dichiarato illegittimo. L’illegittimità dell’ultimo comma dell’art2 va circoscritta soltanto ai
casi in cui esso renderebbe applicabile il decreto non convertito ai fatti pregressi, commessi cioè
anteriormente alla sua entrata in vigore. La Corte si limita a valutare i fatti pregressi al decreto implica, in
verità, che si continui a osservare il divieto di retroattività di una legge penale sfavorevole: in seguito alla
mancata conversione del decreto torna infatti a essere applicata la stessa legge vigente al momento del
fatto. Il divieto di retroattività della legge più sfavorevole sarebbe invece effettivamente violato nella
diversa ipotesi di fatti concomitanti, commessi cioé durante la vigenza del decreto più favorevole non
convertito.
16. LEGGI DICHIARATE INCOSTITUZIONALI
La dichiarazione di incostituzionalità di una legge trova la sua disciplina, innanzitutto, nell’art136 1° comma
il quale stabilisce che quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge di un atto
avente forza di legge la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo dalla pubblicazione della
decisione. La dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne produce ex nunc la cessazione di efficacia:
cosi opinando, era perfettamente ipotizzabile una successione di leggi tra una legge antecedente e una
posteriore successivamente dichiarati incostituzionali. A un riesame della questione , oggi si ritiene che la
dichiarazione di incostituzionalità abbia effetto ex tunc, quindi la legge invalidata non può essere più
applicata neppure le situazioni verificatasi sotto la sua vigenza. Identiche soluzioni per il decreto legge non
convertito , la legge invalidata si applicherà comunque quando risulti più favorevole il reo rispetto ad una
precedente disposizione incriminatrice.

17. SINDACATO DI COSTITUZIONALITA’ SULLE NORMI PENALI “DI FAVORE”


L’esigenza di rispettare il principio di irretroattività pone problemi di limiti a sindacato di costituzionalità
delle leggi penali cd di favore, cioè di quelle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi un
trattamento penale più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme penali comuni o
generali. La Corte Ha mostrato di superare in modo esplicito l’assunto dell’inammissibilità di qualsiasi
denuncia di norme penali più favorevoli al reo, per necessaria irrilevanza nel giudizio a quo. Si è infatti
affermato che altro è la garanzia del favor libertatis assicurata dallart25 2° comma da considerare come
autonomo principio di diritto penale che spetta comunque al giudice ordinario osservare, altro è il
sindacato di costituzionalità delle leggi penale anche di favore che non può essere sottratto alla corte a
pena di costituire zone franche del tutto impreviste dalla costituzione, all’interno delle quali la legislazione
ordinaria diverrebbe incontrollabile. Sollecitazioni provenienti dalla dottrina esprimono un concetto di
rilevanza incentrato più che sul concreto esito del giudizio a quo, sui dati normativi coinvolti nella decisione
di specie. In linea di principio, le nuove aperture della Corte sul concetto di rilevanza meritano di essere
condivise. Al legislatore spetta decidere non solo se un fatto debba essere incriminato, ma anche in che
limiti debba esserlo e se vi siano situazioni particolari da sottrarre alla sfera del penalmente rilevante. Il
sindacato della Corte è da ritenere ammissibile soltanto ad alcune condizioni: cioè quando una volta
accertato che la scelta legislativa è in linea di principio quella di penalizzare un certo numero di condotte
appaia arbitraria alla stregua del principio di uguaglianza, un eventuale discriminazione nel trattamento
punitivo delle condotte appartenenti allo stesso tipo. La non punibilità dei membri del Consiglio superiore
della magistratura per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni è sancito dalla tutela di un
interesse superiore.

18. TEMPO DEL COMMESSO REATO


I criteri prospettati in dottrina sull’individuazione della legge penale nel tempio è determinata dal tempus
commissi delicti. In assenza di un’esplicita presa di posizione legislativa si distinguono tre criteri: 1) la teoria
della condotta, la quale considera il reato commesso nel momento in cui si è realizzata l’azione o
l’omissione; 2) teoria dell’evento, secondo cui il reato è commesso allorché si verifica il risultato lesivo
causalmente riconducibile alla condotta e necessario ai fini della configurazione dell’illecito; 3) la teoria
mia, che guarda tanto all’azione quanto all’evento, nel senso che il reato si considera indifferentemente
commesso quando si verifichi l’uno o l’altro estremo.

Si respinge sia la teoria dell’evento che la teoria mista: la prima perché porterebbe a un’applicazione
retroattiva della legge penale in tutti i casi, nei quali la condotta si sia svolta sotto il vigore di una
precedente legge e l’evento si sia, invece, dopo l’introduzione di una nuova norma incriminatrice nel
frattempo eventualmente emana; la seconda perché non sembra ragionevole considerare commesso il
reato indifferentemente sotto la vigenza di due norme incriminatrici diverse. Resta la teoria della condotta:
è questo il momento in cui il soggetto mette in atto l proposito criminoso, si tratta di un frangente
temporale decisivo. L’applicazione del criterio si atteggia diversamente in funzione delle diverse tipologie
delittuose. La determinazione del tempus commissi delicti solleva qualche problema innanzitutto nei reati
causalmente orientati cd a forma libera, nei quali cioè manca la tipizzazione legislativa di specifiche
modalità di realizzazione dell’evento lesivo. Di distinguono: reati dolosi, nei quali il tempo del commesso
reato coincide con la realizzazione dell’ultimo atto sorretto dalla volontà colpevole, e colposi in cui la
realizzazione di quell’atto che, nel complesso degli atti causalmente collegati con l’evento per primo da’
luogo a una situazione di contrarietà con regole di diligenza, prudenza, ecc. Nei reati cd di durata, si
registrano divergenze di opinioni. Cominciando dal reato permanente, contraddistinto dal perdurare di una
situazione illecita volontariamente rimovibile dal reo, fissa il tempo del commesso reato nell’ultimo
momento di mantenimento nella condotta antigiuridica. Appare pertanto preferibile l’orientamento
minoritario che fissa il tempo del commesso reato nel primo atto che da’ avvio alla consumazione del reato
permanente medesimo. Un discorso analogo vale rispetto al reato abituale, caratterizzato dalla reiterazione
nel tempo di condotte della stessa specie. Mentre una parte della dottrina individua il tempus commissi
delicti nel compimento dell’ultima condotta, occorre anche qui fare riferimento alla realizzazione del primo
atto che integra il reato abituale. Quanto al reato continuato esso non rappresenta un fatto unitario: ci si
trova piuttosto in presenza di un concorso materiali di reati, ciascuno dei quali presenta un proprio tempus
commissi delicti. Nei reati omissivi, infine, occorre fare riferimento al momento in cui scade il tempo utile
per realizzare la condotta doverosa.

19. DIVIETO DI ANALOGIA


CASO10: UN IMPRENDITORE EDILE, DOPO AVER COSTRUITO UN COMPLESSO DI APPARTAMENTI, LI
SOTTRAE DELIBERATAMENTE E PROLUNGAMENTE AL MERCATO DGLI ALLOGI SFITTI AL FINE DI ELUDERE LA
LEGGE SULL’EQUO CANONE: E’ IPOTIZZABILE IL REATO DI AGGIOTAGGIO CD MOBILIARE PREVEDUTO
DALL’’ART501BIS C.P.

CASO11: UN SOGGETTO INOLTRA AL COMUNE UNA DOMANDA DI ASSEGRAZIONE DI ALLOGGIO IN


LOCAZIONE DICHIARANDO FALSAMENTE DI ESSERE DISOCCUPATO E PRIVO DI ABITAZIONE: E’
CONFIGURABILE IL DELITTO DI REATA TRUFFA?

L’analogia consiste in un processo di integrazione dell’ordinamento attuato tramite una regola di giudizio
ricavata dall’applicazione dell’ipotesi di specie, non regolata espressamente da alcuna norma, di
disposizioni regolanti casi o materie simili: il presupposto di tale procedimento integrativo è costituito dal
ricorrere dell’identità di ratio. Il ricorso all’analogia non è sempre ammissibile. L’art14 delle disposizioni
della legge in generale esclude il procedimento analogico in due casi, uno di questo è la legge pensale. È
implicitamente ricavabile nel codice penale agli articoli 1 e 199. Il divieto di analogia è costituzionalizzato
implicitamente: il criterio ispiratore del divieto di analogia in materia penale si rifà alla medesima ratio di
garanzia di libertà del cittadino sottesa al nullum crimen sine lege. Cio nonostante non sempre riesce
agevole distinguere tra analogia e interpretazione estensiva. La soluzione proposta rientra nell’ambito dei
possibili significati letterari dei termini impiegati nel testo di legge circa i limiti dell’interpretazione
estensiva. Come nel caso 11 il comportamento del falso disoccupato potrebbe rientrare nell’art640, se il
termine danno , come truffe, non viene limitato al piano strettamente personale come nell’interpretazione
tradizionale, ma viene esteso anche agli scopi di assistenza pubblica e materia d’alloggi. La dottrina
maggioritaria sancisce il divieto di applicazione analogica della legge penale, se l’interpretazione si estende
maggiormente dal testo di legge, considerato sia nelle piccole parti che nel suo significato unitario. Nel caso
10, il bene casa non può considerarsi né materia prima né genere alimentare di largo consumo o prodotto
di prima necessità. Il divieto di analogia è ancora violato in tutti i casi, nei quali il legislatore fra ricorso a
formula di chiusura “nei casi simili” , “nei casi analoghi”, non riempibili interpretativamente mediante
l’applicazione di un criterio univoco.

E’ controversa, però, l’ampiezza del divieto di analogia: il divieto avrebbe carattere ASSOLUTO, nel senso
che riguarderebbe sia norme incriminatrici, sia norme a favore (si adduce il primato dell’esigenza di
certezza del comando penale). La concezione assoluta è però da contestare in quanto l’art25 sancisce non il
primato di certezza, ma della libertà del cittadino. Riconosciuto che il divieto di analogia ha carattere
RELATIVO perché riguarda solo l’interpretazione delle norme sfavorevoli, si precisa il limite entro cui sia
consentita un’interpretazione analogia in bonam partem. Sono norme regolari quelle che disciplinano
situazioni generali in cui può versare chiunque al ricorrere di determinati presupposti; sono norme
eccezionali quando viene introdotta una disciplina che deroga, rispetto a particolari casi, alla efficacia
potenzialmente generale di una o più disposizioni. È da precisare che non tutte le norme che prevedono
cause di punibilità latu sensu intese hanno carattere eccezionale (ad es. cause di giustificazione o esclusione
della colpevolezza). Il ricorso al procedimento analogico è precluso rispetto a quelle cause di non punibilità
che fanno riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni politico-criminali specifiche. L’analogia
risulta di conseguenza inammissibile rispetto a) cd immunità, le quali derogano al principio della generale
obbligatorietà della legge penale rispetto a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; b) alle cause
di estinzione del reato e della pena, che derogano alla normale disciplina dell’illecito penale e delle
conseguenze sanzionatorie; c) alle cause speciali di non punibilità, che rispecchiano le valutazioni politico-
criminali legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione. Infine, il problema
dell’applicabilità dell’analogia è privo di importanza pratica in seguito all’introduzione delle cd attenuanti
generiche.

CAPITOLO 3: L’INTERPRETAZIONE DELLE LEGGI PENALI


1. PREMESSA

L’applicazione delle norme penali implica la selezione di caratteristiche giuridicamente rilevanti


dell’accadimento concreto; questo processo selettivo postula l’individuazione del significato e della portata
della legge da applicare. L’interpretazione va intesa sia come attività (problema interpretativo) che come
risultato (interpretazione restrittiva o estensiva).
2. CLASSIFICAZIONI DELL’INTERPRETAZIONE IN BASE AI SOGGETTI TIPICI
l’interpretazione viene tradizionalmente distinta in “autentica”, ”ufficiale”, “giudiziale” (o giurisprudenziale)
e “dottrinale”. Si definisce interpretazione autentica quella fornita dallo stesso organo che ha prodotto la
norma da interpretare. Per interpretazione ufficiale si intende l’attività ermeneutica svolta dai pubblici
funzionari dello Stato nell’ambito delle competenze istituzionali. L’interpretazione giudiziale è tipicamente
effettuata dai giudici nell’emanare sentenze: è attività interpretativa che maggiormente influenza la
concreta applicazione del diritto. Per interpretazione dottrinale è da intendere quella realizzata dagli
studiosi di diritto nelle opere di dottrina. Essa è tipicamente finalizzata alla concreta decisioni delle
controversie e riesce a influenzare l’applicazione del diritto solo in virtù della sua intrinseca forza
persuasiva.

3. LE RAGIONI DELLA PROBLEMATICITA’ DEL VINCOLO DEL GIUDICE ALLA


LEGGE PENALE
Le teorie sull’interpretazione del diritto si sono tradizionalmente preoccupati di fissare regole ed elaborare
criteri idonei a guidare l’attività dei giudici. L’esigenza di evitare l’arbitrio giudiziale è stata avvertita
nell’ambito del pensiero illuministico: è in questa chiave che si spiega l’ideale iiluministico di un giudice
mero esecutore della volontà legislativa (bouche de la loi). A dispetto dell’antico brocardo in claris no fit
interpretatio, anche la formula legislativa apparentemente più chiara necessita di interpretazione: ciò che
veramente conta è l’obiettivo di tutela. C’è bisogno di un equilibrio tra precisione ed elasticità, difatti la
tecnica legislativa va incontro agli stessi limiti oggettivi inerenti all’uso del linguaggio, per cui è inevitabile
un certo scarto tra linguaggio e realtà. L’atto interpretativo diventa indispensabile per scegliere, all’interno
dello spazio semantico, di una data espressione linguistica, il significato più congruo alla volontà legislativa.
È necessaria un’indagine ermeneutica imposta dalla stessa natura del procedimento cd di sussunzione del
caso concreto alla norma generale e astratta: ciò impegna di giurista-interprete a una continua
interpretazione delle normi vigenti, per verificare se la portata della norma da applicare sia tale da poter
ricomprendere anche i nuovi casi emergenti. In tal modo, mai l’atto interpretativo difficilmente possa
ridursi a operazioni ideologicamente neutra. L’operatore giuridico finisce con l’essere inevitabilmente
influenzato da tutta una serie di fattori, che vanno ben al di là del tenore letterale della fattispecie.
L’incidenza delle pregiudiziali politico-ideologiche sull’attività interpretativa è diventata più frequente e
visibile anche nell’ambito del diritto penale, particolarmente laddove la tutela di interessi collettivi di
particolare importanza sollecita i giudici a un’attività di cd supplenza nei confronti di un potere politico
ritenuto incapace e insufficiente: si evidenza la componente creatrice di un’attività interpretativa
politicamente orientata. Occorre compiere ogni sforzo in vista di un realistico e ragionevole recupero del
legame del giudice alla legge.

4. LA LETTERA DELLA LEGGE E L’INTERPRETAZIONE DEL LEGISLATORE


L’ordinamento italiano contiene una norma, la quale si preoccupa di indicare all’interprete i criteri da
seguire nel processo ermeneutico: si allude all’art12 delle disposizioni preliminari del codice civile, il quale
vale anche per il diritto penale. La norma fornisce all’operatore due criteri: il significato proprio delle
locuzioni legislative e l’intenzione del legislatore. La maggiore debolezza dell’art12 è data dall’omessa
esplicitazione di un loro ordine gerarchico, in caso di eventuale conflitto tra i due criteri, la scelta di dare la
prevalenza all’uno o all’altro finisce appunto con l’essere affidata alla discrezionalità dell’interprete.
L’assenza di sicuri punti di riferimento legislativi induce a ricercare i criteri di orientamento nelle teorie
dell’interpretazione elaborate dalla dottrina.

5 TRADIZIONALI CANONI. ERMENEUTICI

L’elaborazione tradizionale tramanda uno strumentario articolato complessivamente in un insieme di


canoni interpretativi divisi in: a) criterio semantico; b) criterio storico; c) criterio logico-sistematico; d)
criterio teologico. Tali criteri si atteggiano tutti a mezzi potenzialmente concorrenti in un’attività
ermeneutica che rimane unitaria nel suo scopo fondamentale: quello cioè di individuare la portata e i limiti
della tutela apprestata dal legislatore penale nelle singole fattispecie. Dunque il processo interpretativo si
fonda su un’immediata intuizione che si snoda nei diversi passaggi dell’interpretazione. Non di agevole
soluzione è il problema di coordinamento o gerarchia tra i diversi canoni ermeneutici astrattamente
utilizzabili.

Il primo canone ermeneutico, definito grammaticale e semantico, tende a individuare il senso della norma
facendo leva sul significato lessicale dei termini utilizzati nella formula legislativa. È abbastanza ovvio che
ogni contenuto di pensiero va ricavato dal linguaggio che lo esprime: il significato proprio delle parole
equivale al significato “comune”, che le parole stesse possiedono nel lessico quotidiano. Tuttavia il
riferimento al linguaggio comune non sempre offre un orientamento sicuro. Inoltre, il linguaggio legislativo
adotta termini tecnico-giuridici che non appartengono al linguaggio comune, ma che non danno vita a un
linguaggio specialistico. Ciò è evidente nel caso delle definizioni stipulative, come ad esempio la definizione
del concetto di pubblicità. Ma l’esigenza di privilegiare il significato tecnico-giuridico di un’espressione che
può affiorare anche in assenza di definizioni stipulative introdotte dallo stesso legislatore, es. concetto di
appartenenza.

Il criterio storico, nella sua formulazione più tradizionale, mira a ricostruire la volontà espressa dal
legislatore al momento dell’emanazione delle norme. I sostenitori di questo canone ne rivendicano la
coerenza col principio della separazione dei poteri. La volontà storica si divide da un lato come volontà
soggettiva del legislatore del tempo, ed è questa la concezione più antica che finisce col ridurre la volontà
legislativa a un dato psicologistico, come se assumesse rilevanza per il diritto il contenuto della presa id
posizione di un legislatore personificato. La seconda più corretta accezione tende a identificare la volontà
del legislatore con la volontà storica obiettiva nella legge; l’indagine in questo senso deve avere ad oggetto
il contesto storico nel quale la legge si inscrive. La ricognizione della volontà storica pur così intesa è di
regola sufficientemente agevole rispetto a norme emanate nell’ambito di un regime autoritario. È sempre
utile consultare i cd lavori preparatori, ma è purtroppo un dato che non tutti i partecipanti al processo di
legiferazione per mancanza di interessa o di conoscenze specialistiche, hanno reale cognizione dell’oggetto
di cui discutono. In un regime parlamentare come il nostro, la produzione legislativa è espresso frutto di
compromessi contingenti e contrattazioni tra le varie forze politiche, le quali possono concernere solo il
testo e non il significato delle parole. Pur con tutti questi limiti, il metodo storico di interpretazione se
utilizzato non in via esclusiva ma concorrente, rimane strumento di grande utilità per l’interprete. I risultati
dell’applicazione del criterio storico possono ritenersi appaganti in sede di ricostruzione di dettagli della
fattispecie di parte speciale. Infine, l’interpretazione storica è preferibile con riguardo a norme emanate dal
legislatore a preciso scopo di risolvere questioni dogmatico-interpretative assai controverse.
Altro importante canone ermeneutico è quello logico-sistematico la cui specificità consiste nel cogliere le
connessioni concettuali esistenti tra le norme da applicare e le restanti norme sia del sistema penale
strettamente inteso sia dell’intero ordinamento giuridico. Può risultare necessario accertare il tipo di
collegamento che lega l’elemento in parola a elementi di altre fattispecie. Il nesso sistematico tra le norme
penali, e norme facenti parte di altri settori dell’ordinamento è evidente nei casi in cui la fattispecie
incriminatrice contiene elementi normativi la cui determinazione implica il riferimento a norme extra
penali. Il collegamento sistematico tra normativa penale ed extra penale è altresì indispensabile per
risolvere le situazioni di conflitto normativo determinato dalla presenza di cause di giustificazione che
possono trovare la loro fonte in tutto l’ordinamento giuridico. Si comprende come il criterio logico-
sistematico costituisca sempre uno strumento finalizzato a garantire l’unità concettuale dell’ordinamento.

Nell’ambito della letteratura penalistica è da tempo tendenzialmente dominante un modello di


interpretazione di tipo oggettivo che va sotto il nome di teologico. L’interprete deve sforzarsi di attualizzare
il senso della norma, in base al più congruo scopo di tutela che ad essa può essere assegnato nel preciso
momento in cui si procede all’atto interpretativo. Nell’ambito di questa ricognizione di scopi, assume un
ruolo centrale la considerazione del bene o interesse protetto: bene considerato dinamicamente, nel senso
che l’interprete è legittimato a sviluppare le considerazioni di valore e gli obiettivi finalistici presi di mira al
momento dell’emanazione della norma. Nella prospettiva di fondo di una interpretazione orientata
secondo gli scopi di tutela si colloca l’interpretazione orientata secondo le conseguenze, la quale cioè
raccomanda all’interprete di scegliere la soluzione ermeneutica che provoca l’impatto più favorevole al reo
e/o all’ambiente cui la decisione si rivolge.

6. RECENTI SVILUPPI DELLA TEORIA DELL’INTERRETAZIONE


Ultimamente viene posto in crisi l’assunto secondo cui l’interpretazione e l’applicazione della legge
poggerebbero su un atto di meccanica sussunzione logica del caso concreto nella norma astratta. Il criterio
della mera sussunzione logica presenta un ostacolo: esiste un nucleo centrale di significato riscontrabile
con certezza nei casi normali che ricorrono più frequentemente ma residuano incertezze ai margini allorché
il termine generale in questione debba essere applicato a casi nuovi o meno evidenti di quelli che
corrispondono alla prassi più diffusa. Per risolvere queste incertezze ai margini, il giudice fa auna
valutazione sostanziale cioè valuta se il caso in esame presenti sufficienza somiglianza con casi tipici che
rientrano nell’area della norma: egli deve fare riferimento a un termine di tertium comparationes idoneo a
porre il rapporto al fine di meglio determinare lo scopo di tutela. L’interpretazione e l’applicazione della
norma finisce così con nel trascorrere continuamente dalla legge al caso e dal caso alla legge. Il processo
ermeneutico sollecita nuovi atti valutativi da parte del giudice, i quali si aggiungono alle originarie
valutazioni del legislatore ma circoscrivendo lo spazio entro i limiti corrispondenti al significato letterale. La
messa in crisi delle vecchie concezioni positivistiche dell’interpretazione è stata provocata dall’esigenza di
evitare applicazioni eccessivamente formalistiche delle norme; applicazioni che trascurano cioè l’effettiva
congruenza tra i casi concreti e gli scopi di tutela perseguiti dal legislatore. Questo contesto è servito anche
per dilatare l’ambito della punibilità: la giurisprudenza ha esteso il novero dei comportamenti punibili,
anche al di là di una loro previsione espressa. Dai principi analizzati emerge l’idea del diritto penale come
extrema ratio, nonché i criteri di sussidiarietà, meritevolezza di pena e frammentarietà. La punibilità del
delitto omissivo cd improprio presuppone la violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento. Ma non
basta la violazione di un qualsiasi obbligo giuridico di attivarsi: occorre selezionare obblighi di agire con
caratteristiche precise. Con riferimento alla parte speciale è diffusa la tendenza a utilizzare fattispecie di
truffa per poi ricondurre una serie eterogenea di nuove forme di frode.

CAPITOLO 4: AMBITO DI VALIDITA’ SPAZIALE E PERSONALE DELLA LEGGE PENALE

SEZIONE 1: AMBITO DI VALIDITA’ SPAZIALE DELLA LEGGE PENALE

1. I PRINCIPI CHE PRESIEDONO ALL’APPLICAZIONE DELLA LEGGE PENALE NELLO


SPAZIO: PREMESSA
Per determinare i limiti spaziali dell’applicabilità della legge penale sono prospettati quattro principi: 1) il
principio di territorialità, per la quale la legge nazionale si applica a chiunque delinque nel territorio dello
Stato; 2) il principio di difesa o tutela, che rende applicabile la legge dello stato cui appartengono i beni
offesi o cui appartiene il soggetto passivo del reato; 3) il principio di universalità, a tenore del quale la legge
nazionale si applica a tutti i delitti e da chiunque commessi; 4) il principio di personalità, in virtù del quale si
applica sempre la legge dello stato di appartenenza del reo. Nel nostro ordinamento nessuno di questi
principi predomina in modo assoluto: piuttosto, si sussiste ad una combinazione di principi diversi.

2. REATI COMMESSI NEL TERRITORIO DELLO STATO: CONCETTO DI


TERRITORIO
L’art6 comma 1° sancisce innanzitutto il principio di territorialità. È da precisare che il territorio dello Stato
è costituito dalla superficie terrestre compresa nei suoi confini politico-geografici, nonché del mare costiero
e dallo spazio aereo. Il mare territoriale si estende per dodici miglia marine dalla linea costiera e dalle rette
che uniscono i promontori; e lo spazio aereo incontra il suo limite nella zona cd “ultraterritoriale”.
Ovviamente fa parte del territorio dello stato anche il sottosuolo fino alle profondità raggiungibili con
l’impiego di mezzi meccanici. Un concetto convenzionale di territorio vale invece per le navi e gli aeromobili
che si considerano come territorio dello stato, ovunque si trovino secondo il principio detto della bandiera,
è incondizionata per le navi e gli aeromobili di Stato, mentre per quelli privati è limitata alle ipotesi in cui
essi si trovino in alto mare.

3. SEGUE: LOCUS COMMISSI DELICTI


L’art6, comma 2°, secondo il principio della ubiquità, stabilisce che il reato si considera commesso nel
territorio italiano quando l’azione od omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero
si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. Ci si chiede se la parte di azione od
omissione compiuta nel territorio dello Stato debba o no, per assumere rilevanza penale, integrare gli
estremi dl tentativo punibile. Sembra preferibile la tesi negativa: bisogna accertare che la parte o la
frazione di azione compiuta rappresenti un anello essenziale della condotta conforme al modello criminoso.
Al fine di stabilire se la parte di azione realizzata in Italia costituisca parte integrante del fatto complessivo,
ci si dovrà avvalere oltre che da un giudizio ex ante ma anche di un giudizio a posteriori e in concreto
riferito a un delitto interamente consumatosi. Il reato si considera commesso nel territorio italiano sia se
l’azione venga iniziata all’estero e proseguita in Italia (o viceversa), sia nel caso in cui, pur essendo reato
eseguito interamente all’estero, un qualsiasi atto di partecipazione sia compiuto in Italia (o viceversa). Assai
problematica risulta l’applicabilità del principio rispetto al reato continuato: a fronte di un orientamento
che nega l’applicabilità della legge italiana ai fatti verificatisi all’estero, in dottrina si è sostenuta
l’applicabilità dell’art6 alle ipotesi in esame, tutte le volte in cui ne derivi un concreto vantaggio
all’imputato.

4. REATI COMUNI COMMESSI ALL’ESTERO


Gli artt7,9,10 del c.p. contemplano diverse ipotesi di reati comuni commessi all’estero, rispettivamente
differenziate in ragione della natura del reato in questione e/o della nazionalità di appartenenza dell’autore
del fatto criminoso.

A) Alcuni reati, commessi in territorio estero non importa se da un cittadino o da uno straniero, vengono
incondizionatamente secondo la legge italiana. L’art7 dispone delitti: 1) contro la personalità dello Stato; 2)
di contraffazione del sigillo dello stato e l’uso di tale sigillo contraffatto; 3) di falsità in monete aventi corso
legale nel territorio dello stato, o in valori di bollo o in carte di pubblico credito italiano; 4) commessi da
pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni; 5)
ogni altro reato per il quale speciale disposizione di legge o convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge italiana. Le figure di reato in 1 e 4 si spiega in base al principio di difesa, che rende
applicabile la legge dello stato in cui appartengono i beni offesi; reato in 5 si fonda sul principio di
universalità (ovvero principio di difesa e ragioni di opportunità).

B) L’art9 continua la punibilità del cittadino per i reati comuni commessi all’estero, in cui la punibilità risulta
subordinata alla presenza di alcune condizioni e cioè: 1) delitto in cui la legge stabilisce l’ergastolo o la
reclusione non inferiore nel minimo a tre anni; 2) che il cittadino si trovi nel territorio dello Stato. La ratio di
tale principio va ravvisato o nell’accoglimento del principio della personalità o nell’ulteriore applicazione
del principio di difesa. In dottrina e giurisprudenza si ritiene che la condizione della presenza del reo nel
territorio dello stato vale per ogni tipo di reato. Il base al 2° comma dell’art9, ove si tratti di delitti punibili
con una pena inferiore ai tre anni, occorre, oltre alla presenza del reo nel territorio dello stato, la richiesta
del Ministro della giustizia, ovvero l’istanza o la querela della persona offesa. Se invece si tratta di delitto
comune commesso all’estero a danno di uno stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a
richiesta del Ministro della giustizia, sempreché l’estradizione non sia stata concessa o accettata.

C) l’art10 disciplina l’ipotesi dello straniero che commette all’estero delitti comuni a danno dallo Stato o di
un cittadino italiano, ovvero a danno di uno stato estero o di uno straniero. La punibilità è subordinata alla
presenza di condizioni che mutano in ragione del mutare del soggetto passivo. La perseguibilità del reato
commesso all’estero è subordinata agli stessi requisiti richiesti per il caso in cui il fatto sia compiuto nel
territorio dello stato italiano, cui la proposizione della querela rappresenta una condizione imprescindibile
nel caso in cui essa sia prevista dalla legge in via generale. Se il reato sia commesso dallo straniero a danno
di uno stato estero o di un cittadino straniero, l’art10, 2° comma, oltre alla presenza del reo nel territorio e
alla richiesta del Ministro, che sia prevista per il delitto la pena dell’ergastolo ovvero la reclusione non
inferiore nel minimo a tre anni e che l’estradizione non sia stata concessa o accettata.
5. DELITTO POLITICO COMMESSO ALL’ESTERO: NOZIONE
La nozione di delitto politico è fornita dal 3° comma dell’art8: “Agli effetti della legge penale, è delitto
politico ogni delitto, che offendo un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È
altresì considerato delitto politico il delitto politico determinato, in tutto o in parte da motivi politici”. Il
concetto di delitto politico è molto ampio: tale nozione si specifica in due sottospecie, una in senso
oggettivo, definibile tale in considerazione della natura del bene o interesse leso; e l’altra di tipo soggettivo,
caratterizzato dalla motivazione psicologica che spinge l’autore a commettere il fatto. Il delitto politico
offende quell’interesse dello Stato considerato nella sua essenza unitaria comprensiva di popolo, territorio,
indipendenza, forma di governo, ecc: es, delitti contro la personalità dello Stato, leggi speciali, mentre non
vi rientrano i delitti che offendono il potere amministrativo o il potere giudiziario detto Stato medesimo.
Delitto oggettivamente politico è ancora quello che offende un diritto politico del cittadino, cioè il diritto
del cittadino di partecipare alla vita dello stato e di contribuire alla formazione della sua volontà. Sembra
però preferibile la tesi che mantiene distinti i due concetti, concependo come politico quel motivo del reato
che determina la condotta in funzione di una concezione ideologica relativa alla struttura dei poteri dello
stato e dei suoi rapporti col cittadino; e, rispettivamente come sociale quel motivo che orienta la condotta
dell’agente in funzione di una concezione della società che non necessariamente riflette in maniera
immediata sulla forma politica. Si ammette che il motivo politico possa coesistere con un movente
personale, purché il primo risulti prevalente. La determinazione del delitto politico è data dalla presenza di
due norme costituzionali le quali, nel menzionare il delitto politico in relazione sia all’estradizione sia al
diritto d’asilo, non ne forniscono alcuna definizione: ci si chiede se la nozione codicistica sia stata
costituzionalizzata o se, di contro, dalla Carta fondamentale sia desumibile un concetto di delitto politico
diverso ed autonomo. Nel corso degli anni è mutata la sensibilità costituzionale ed è oggi divenuta
prevalente la tesi “autonomistica”, seppur determinata in formule diverse. Assume criterio discretivo dalla
natura politica del reato il tipo di rapporto intercorrente tra il fatto commesso e le libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana. In tal odo, la nozione di delitto politico tende ad acquistare una
connotazione oggettiva, evitandosi il rischio di una indiscriminata accettazione del principio del favor rei.

SEZIONE 2: AMBITO DELLA VALIDITA’ PERSONALE DELLA LEGGE PANALE

1. PREMESSA
La legge penale italiana obbliga tutti coloro che si trovano sul territorio dello stato e tutti coloro che si
trovano all’estero nei casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale (sia cittadino che
straniero). Il principio di obbligatorietà della legge penale, sancito dall’art3 del codice, deve considerarsi
nello stato moderno una proiezione o una concretizzazione del più generale principio dell’uguaglianza. È
considerato cittadino colui che è in possesso dei requisiti della legge per l’acquisto della cittadinanza;
mentre è straniero colui che è legato da rapporto di cittadinanza con un altro stato, oppure l’apolide
residente all’estero. Il predetto principio fa salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal
diritto internazionale e si risolvono nella sottrazione di un soggetto all’applicabilità della sanzione; vengono
denominate immunità penali e definiscono un complesso di situazioni, tra loro anche disomogenee sia per
la ratio che per il contenuto, unificate soltanto dall’effetto finale della sottrazione al potere coercitivo dello
stato. Alcune immunità hanno carattere assoluto perché si estendono a tutti i reati; altre hanno carattere
relativo perché riconosciute solo in costanza di carica e richiedono un’autorizzazione al procedimento
penale. Si distinguono ancora le immunità di natura sostanziale, che sono riferite agli atti compiuti, alle
opinioni espressi e ai voti dati dall’esercizio di funzioni, dalle immunità processuali riferite agli atti compiuti
fuori dall’esercizio delle funzioni, e perseguibili al momento della cessazione della carica. Il riconoscimento
dell’immunità penale dipende e dal rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti
inalienabili della persona richiede che l’autorità giudiziaria non rimanga inerte difronte agli illeciti e
l’esigenza di tutela di particolari funzioni costituzionali o delle relazioni internazionali.

2. FONTE GIURIDICA DELL’IMMUNITA’: IL DIRITTO PUBBLICO INTERNO


La fonte dell’immunità può essere il diritto pubblico interno ovvero il diritto internazionale. Le immunità
derivanti dal principio pubblico interno mirano a garantire e proteggere l’espletamento di determinate
funzioni o uffici di particolare importanza per il corretto funzionamento del nostro sistema politico. Lr
immunità sono: 1) Il Presidente della Repubblica, quale capo dello stato, non è responsabile ex art.90 Cost
degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per altro tradimento o per attentato alla
Costituzione. Per gli atti non compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, il Presidente è equiparato a un
comune cittadino e, come tale, è sottoposto alla coercizione penale. La sua responsabilità penale è piena
nel caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione: per questo reato egli è messo in stato di accusa
dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri e giudicato dalla Corte
costituzionale integrata (ma per la definizione di questi concetti va consultato il codice penale e il c.p.
militare). Occorre una legge penale di attuazione volta a precisare le due fattispecie criminose.

2) il Presidente del Senato, che esercita funzioni di Presidente della Repubblica, gode delle stesse immunità
per tutto il periodo della supplenza.

3) i membri del Parlamento, a norma dell’art68Cost non possono chiamati a rispondere delle opinioni
espresse e dei voti dati all’esercizio delle loro funzioni. Si tratta di un’immunità assoluta che esclude ogni
forma di responsabilità, sia penale, sia civile, sia disciplinare (in essa rientrano pure interrogazioni e
interpellanze). L’art3 della legge 20 giugno 2003, n.140 stabilisce che l’immunità debba applicarsi non
soltanto alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, ma anche ad ogni altra
attività. La Corte Costituzionale ha invece ribadito che la norma si limita a rendere esplicito il contenuto
della disposizione costituzionale perché l’estensione agli atti non tipici deve essere connesso alle funzioni
parlamentare. I parlamentari godono, inoltre, di altre prerogative le quali si riducono al mantenimento di
alcune tradizionali garanzie della libertà personale e all’introduzione di nuovi limiti all’attività d’indagine. Il
fondamento sostanziale di simili categorie viene individuato nella necessità di salvaguardare l’indipendenza
del Parlamento in sé o nella persona dei singoli deputati. Continua ad apparire difficile il bilanciamento tra
gli interessi messi in gioco. In tal modo, neppure la modifica all’art 68, realizzata sugli scandali politici di
eccezione gravità che hanno fortemente scosso la pubblica opinione: l’interesse a proteggere l’attività
parlamentare da indebite incursioni giudiziarie tende ad affermarsi a totale discapito dell’interesse a
pronta ed efficace repressione del reato. La vicenda sull’immunità suscita però non pochi problemi.

4) i giudici della Corte costituzionale, per effetto dell’art3 della legge costituzionale 1948, n.1 godono di
immunità analoga a quella de parlamentari.

5) i membri dei consigli regionali godono soltanto godono solo della garanzia dell’irresponsabilità per le
opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni ma si nega l’estensione delle prerogative
parlamentari.
6) I membri del Consiglio superiore della magistratura godono di una irresponsabilità per le opinioni
espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

3. SEGUE: IL DIRITTO INTERNAZIONALE


Le immunità derivanti dal diritto internazionale sono riconosciute dall’ordinamento italiano. L’art.10,
comma 1° della Costituzione garantisce la conformità della nostra legislazione “alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute”. Il meccanismo di adeguamento automatico non potrà in alcun
modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, operando in
un sistema che ha i suoi cardini nella sovranità popolare e nella rigidità costituzionale. Le immunità sono:

1) La persona del Sommo Pontefice è considerata sacra ed inviolabile. Questa immunità è assoluta e viene
riconosciuta non solo in veste di capo di stato estero ma anche come Capo della cristianità.

2) I capi di stato esteri e i Reggenti che si trovano in tempo di pace nel territorio dello Stato beneficiano di
un’immunità totale che deriva dal diritto internazionale generale.

3) il presidente del consiglio e i ministri per gli affari esteri godono di un’immunità per tutti i fatti commessi
nell’esercizio delle loro funzioni.

4) Gli agenti diplomatici godono dell’immunità penale assoluta dello stato accreditato e dell’esenzione di
qualsiasi misura esecutiva, a norma della Convenzione di Vienna del 1961 (e conviventi). Il personale di
rango inferiore delle rappresentanze diplomatiche gode, invece, di un’immunità funzionale.

5) I funzionari internazionali godono della sola immunità funzionale per gli atti compiuti nell’esercizio delle
loro funzioni: trova fonte nei trattati internazionali.

6) I parlamenti europei, a norma del protocollo di Bruxelles 1965, godono sia della prerogativa
dell’irresponsabilità, sia delle immunità riconosciute ai membri del parlamento del loro paese, nonché sul
territorio di ogni Stato membro, dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da procedimenti
giudiziali, per la durata delle sessioni dell’assemblea.

7) I consoli e gli agenti consolari si avvantaggiano dell’immunità se ciò è stabilito dai trattati internazionali
tra l’Italia e gli altri stati.

8) Gli agenti diplomatici e gli inviati dei governi presso la Santa Sede godono delle stesse immunità degli
agenti diplomatici presso lo stato italiano.

9)l’immunità sussiste altresì per i giudici della Corte dell’Aja, e in mura più ridotta per i giudici della Corte
europea dei diritti dell’uomo.

10) Beneficiano ancora di immunità i membri e le persone al seguito delle ferze armate della Nato di stanza
nel territorio italiano che sono soggetti alle leggi e alla giurisdizione militare dello stato di appartenenza.

11) Godono infine di immunità i militari stranieri che si trovano nel territorio dello stato, previa
autorizzazione.
4. NATURA GIURIDICA DELLE IMMUNITA’
Tutti i fenomeni di immunità esaminati sono espressione di una medesima natura giuridica nel senso che
tutti riconducibili alla categoria di cause di esclusione della pena. Questa tesi si limita a registrare l’effetto
finale, non tipico, del suo operare: essa assimila le immunità assolute concernenti atti funzionali ed
extrafunzionali, immunità assolute riguardanti solo atti funzionali, immunità operanti sul piano processuale,
immunità aventi natura solamente processuale. Per determinare la natura giuridica delle immunità occorre
individuare l’effetto tipico della situazione di immunità di volta in volta esaminata. Con riferimento al
contesto si distingue l’immunità a seconda se si tratta di immunità funzionali di diritto interno (la tutela
attiene a interessi coessenziali all’integrità del nostro sistema) o internazionale (il riconoscimento
dell’immunità discende dalla necessità di mantenere relazioni diplomatiche con Stati esteri, a garanzia di
una pacifica convivenza tra i popoli).

CAPITOLO 5: NOZIONI DI TEORIA GENERALE DEL REATO

SEZIONE 1: CONCETTI GENERALI


1. DEFINIZIONE FORMALE DI REATO

Si definisce reato “ogni fatto umano cui la legge ricollega una sanzione penale”. La definizione accennata fa
leva sul modo col quale l’ordinamento reagisce nei confronti dell’autore cioè è determinato soltanto dalle
conseguenze giuridiche che il legislatore riconnette ai fatti in questione. La definizione del reato appare
tuttavia insufficiente. L’illecito penale presenza infatti le seguenti caratteristiche: a) è creazione legislativa
perché soltanto una legge in senso stretto può disciplinare gli elementi costitutivi; fonti di livello secondario
possono soltanto contribuire a specificare elementi; b) è formulazione tassativa perché la legge deve fissare
con la maggiore determinatezza possibile i fatti costituenti reato; c) ha carattere personale nel senso che è
vietata ogni forma di responsabilità per fatto altrui e che il reato deve atteggiarsi a fatto tendenzialmente
colpevole. Queste caratteristiche sono sufficienti per differenziare l’illecito penale dall’illecito civile: il
diritto civile è terreno privilegiato della cd legislazione per principi e dell’uso delle cd clausole generali e
sono ammesse forme di responsabilità indiretta (resp. per rischio) e senza colpevolezza (resp. oggettiva). Di
maggiore affinità è il rapporto tra illecito penale e illecito amministrativo, specie a seguito della
regolamentazione con la legge 24 Novembre 1981, n689, dell’illecito cd depenalizzato. La loro differenza
dipende, sul piano formale, dalla natura della sanzione principale prescelta dal legislatore, cioè sanzione
amministrativa di carattere pecuniario, e dalla natura amministrativa del procedimento e dell’organo
competente ad infliggere la sanzione medesima.

2. IL PROBLEMA DELLA CODIFICAZIONE SOSTANZIALE DEL REATO


La dottrina penalistica si è sforzata di individuare le ragioni sostanziali che inducono a considerare
criminoso un determinato comportamento: è ricerca tendenzialmente scientifica delle ragioni e dei criteri
del processo di criminalizzazione delle condotte umane spesso accompagnata dalla sovrapposizione di
schemi concettuali desunti dalle concezioni dello Stato e della società. È per questo che è facile criticare
molte delle principali definizioni sostanziali di reato via via proposte. La maggior parte degli orientamenti
penali incriminano non solo comportamenti che non ledono gravemente l’ordine etico, ma anche condotte
eticamente indifferenti. Di maggior consapevolezza sociologica è l’affermazione che considera reato ogni
comportamento umano che rende impossibile o mette in pericolo l’esistenza e la conservazione della
società. Movendo dal modello teorico, il reato viene definito come fenomeno disfunzionale che ostacola la
società. I più recenti approcci di tipo sociologico assumono l’esperienza sociale dei valori orientata contro la
Costituzione a criterio di selezionare fatti che meritano la qualifica di reato (ci si muove verso concezione
teologica dell’illecito e la propensione a ricostruire gli scopi del sistema penale alla luce della Costituzione).
Il reato va definito come lesione o messa in pericolo di un bene giuridico e più precisamente di un bene
giuridico che appaia meritevole di protezione penalistica. Occorre tener altresì conto di altri criteri così il
reato come fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione dal legislatore
che si muove nel quadro dei valori costituzionali e che le sanzioni non penali sia ritenute insufficienti a
garantire un’efficace tutela. Nessun tentativo di definizione sostanziale può avere l’efficacia di una formula
magica che esima il legislatore dalla responsabilità delle scelte di criminalizzazione.

3. SEGUE: PORTATA E LIMITI DEL CD PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’


È opportuno soffermare l’attenzione sul problema dell’effettiva portata e dei limiti del cd principio di
offensività: cioè di quel principio che induce a ravvisare lo zoccolo duro del reato nell’aggressione di uno o
più beni giuridici. Il suo riconoscimento è del tutto coerente con il rifiuto di incentrare il reato sulla
pericolosità o sull’atteggiamento interiore dell’autore. Il suo fondamento è giuridico-positivo a livello
codicistico o di altre fonti ordinamentali ed è basato su una astratta ristrutturazione legislativa dei fatti di
reato e sull’interpretazione-ristrutturazione delle fattispecie incriminatrici. Manca tutt’oggi
nell’ordinamento italiano una disposizione che enunci il principio di offensività, attribuendogli il ruolo di
principio generale del diritto penale. Ciò spiega la tendenza a concepire detto principio come criterio
implicito o immanente nel nostro sistema penale, ricavabile per via interpretativa. Il primo tentativo
dottrinale prende le mosse da una peculiare interpretazione dell’art 49 comma 2°: accantonate le
interpretazioni più tradizionali della disposizione suddetta, i sostenitori della lettura ermeneutica tendono a
reinterpretarla come principio generale: non può esservi reato senza effettiva lesione o messa in pericolo di
un bene giuridico. L’articolo, col riconoscere implicitamente il criterio dell’offensività ha ad es. escluso la
punibilità del cd falso grossolano o innocuo. Nell’ambito della stessa Cassazione non mancano prese di
posizione che rinnegano il principio dell’offensività in maniera eccessivamente sbrigativa. Dal secolo scorso
si è individuata nella stessa Costituzione la fonte leggittimatrice del principio di offensività come principio
cardine del sistema penale: è norma chiave che si trova implicitamente negli artt25 comma 2° e 27 commi
1° e 3°. La dottrina maggioritaria oggi si muove tendenzialmente a sostenere fondamentali principi
costituzionali in materia penale. Il reato non può incentrarsi su un atto di infedeltà all’autorità statale o
sulla pericolosità soggettiva dell’autore: esso deve consistere in un fatto socialmente dannoso, e cioè in un
fatto oggettivamente lesivo di beni o interessi rilevanti e meritevoli di tutela. Il principio di offensività è a
sua volta suscettibile di essere considerato operante su un duplice piano: da un lato come criterio di
conformazione legislativa dei fatti punibili a livello di fattispecie incriminatrici astratte; e dall’altro, tende ad
atteggiarsi a criterio giudiziario-interpretativo che impegna il giudice in sede applicativa a qualificare come
reati soltanto fatti che siano idonei anche in concreto a offendere beni giuridici. Ciò che davvero conta non
è il riconoscimento verbale della rilevanza decisiva del criterio dell’offensività, ma la sua portata effettiva
derivante da come esso viene concretamente inteso e applicato dalla Corte in rapporto alle fattispecie
problematiche.
4. DELITTI E CONTRAVVENZIONI
Il codice Rocco opera una summa divisio nell’ambito degli illeciti penali. In linea di principio, i delitti
dovrebbero rappresentare le forme più gravi di illecito penale; le contravvenzioni, viceversa, le forme meno
gravi. Storicamente, buona parte delle contravvenzioni costituiscono il risultato della recezione del diritto
penale dei cd illeciti di polizia, affidati prima dell’illuminismo alla competenza dell’Autorità amministrativa. I
criteri sostanziali di differenziazione tra delitti e contravvenzioni hanno finito con l’essere inevitabilmente
influenzata da eccezioni politico- criminali di volta in volta dominanti. Secondo Beccaria, i delitti
offenderebbero la sicurezza pubblica e privata, mentre le contravvenzioni violerebbero soltanto leggi
destinate a promuovere il pubblico bene. Secondo un’altra teoria, i delitti offenderebbero le condizioni
primarie, essenziali per il vivere civile, mentre le contravvenzioni minaccerebbero le condizioni secondarie e
contingenti alla convivenza. Altra concezione risalente ad Arturo Rocco fa leva sull’idea che le
contravvenzioni sono azioni ed omissioni contrarie all’interesse amministrativo dello stato. Neppure questo
criterio si presta a sorreggere una sicura differenziazione tra delitti e contravvenzioni. La differenza tra le
due tipologie di reato poggia su un criterio quantitativo, nel senso cioè che esse vengono distinte solo in
ragione della maggiore o minore gravità. Negli ultimi tempi la rivalutazione dell’illecito amministrativo
giustifica l’interrogativo se non sia opportuno superare la vecchia bipartizione dei reati in delitti e
contravvenzioni, trasferendo l’intero blocco degli illeciti contravvenzionali nel campo degli illeciti puniti con
sanzione pecuniaria amministrativa. Esistono, però, illeciti posti in una posizione intermedia che non
tollerano una loro riduzione a mero illecito amministrativo. La distinzione tra i due può differenziarsi in
funzione delle peculiarità strutturali di determinati illeciti: l’attività del futuro legislatore dovrebbe tendere
a rendere più univoco e rigoroso l’orientamento emergente del sistema positivo. Su questa scia si trova la
Circolare della Presidenza del consiglio dei ministri 5 febbraio 1986: è fattispecie di carattere preventivo-
cautelare finalizzata alla tutela di beni primari quale la vita, ed è fattispecie concernenti la disciplina di
attività sottoposte a un potere amministrativo, in vista del perseguimento di uno scopo di pubblico
interesse. La loro inosservanza è sia elemento psicologico (dolo o colpa), mentre in attività amministrative
l’illiceità dipende da una valutazione operata dalla P.A. La circolare ha il merito di introdurre elementi di
razionalizzazione per la scelta legislativa tra delitti e contravvenzioni. Il suo limite, tuttavia consiste nella
tendenza a privilegiare certe indicazioni provenienti dall’ordinamento vigente. Una scelta plausibile
potrebbe essere quella di prevedere una disciplina delle contravvenzioni unicamente inspirata al criterio di
una loro minore gravità rispetto ai delitti. Sul piano del diritto positivo vigente, il criterio più sicuro di
distinzione rimane quello della natura formale, facente leva sul diverso tipo di sanzioni rispettivamente
comminate. Il criterio distintivo è di facile applicazione con riferimento al codice penale. Risulta di
applicazione più incerta nell’ambito della legislazione penale cd speciale, soprattutto se si considera che le
leggi penali anteriori all’emanazione del codice le sanzioni ricevevano una diversa denominazione. La
distinzione assume rilevanza in diversi istituti e ha importanza rispetto all’elemento soggettivo del reato e
al tentativo. Mentre i delitti richiedono il dolo e la punibilità a titolo di colpa rappresenta l’eccezione,
nell’ambito delle contravvenzioni si risponde indifferentemente a titolo di dolo o colpa. La distinzione può
altresì assumere rilievo in rapporto alla professionalità e abitualità del reato, alle misure di sicurezza, alle
cause di estinzione del reato e della pena, ecc.

5. IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO


Si definisce soggetto attivo o autore colui il qual realizza un fatto conforme a una fattispecie astratta di
reato; può essere soltanto una persona umana, appartenendo ormai a un lontano passato i tempi in cui i
processi si intentavano anche nei confronti di animali o di cose. Parte della dottrina parla di capacità penale
per alludere all’attitudine di tutte le persone a porre in essere un fatto rilevante per il diritto penale. Si
differenziano diverse capacità in funzione dei requisiti che incidono sull’idoneità a diventare destinatari di
conseguenze giuridiche o di un tipo ben determinato di conseguenze giuridiche: si parla così di capacità
della pena (imputabilità), capacità di misure di sicurezza (pericolosità sociale) e di immunità come
incapacità di essere assoggettati a conseguenze penali. La maggior parte delle fattispecie penali contenute
nel codice possono essere commesse da qualsiasi soggetto: quando soggetto attivo può essere appunto
chiunque, il fatto incriminato prende il nome di reato comune. In altri casi, la fattispecie incriminatrice
richiede il possesso di particolari requisiti o qualità in capo al soggetto attivo. In questi casi la fattispecie
incriminatrice prende il nome di reato proprio: si sottolinea lo stretto rapporto intercorrente tra la speciale
qualifica soggettiva rivestita dal soggetto e il bene giuridico assunto a oggetto di protezione penale. Le
questioni emergenti in tea di reato proprio riguardano soprattutto tra il dolo e le qualifiche soggettive,
nonché il modo d’atteggiarsi del concorso di persone.

6. IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITA’ PENALE DELLE PERSONE


GIURIDICHE
Il nostro diritto positivo sconosce forme di responsabilità penale a carico di persone giuridiche; tale
esclusione è implicita e dedotta dall’art197 del codice, il quale prevede una obbligazione civile di garanzia
della persona giuridica per il caso in cui colui il quale ne abbia rappresentanza o l’amministrazione
commetta un reato o in violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita. Alcune tra le più gravi forme
di criminalità economica sono vere e proprie manifestazioni di criminalità d’impresa o cd societaria in cui
l’illecito è conseguenza di precise scelte di politica d’impresa: per cui la mancata punizione dell’impresa si
traduce in un ingiustificato accollo di responsabilità ad un altro soggetto. Altra fattispecie è il delitto
commesso dall’ente societario che, come tale viene sanzionato. Innovazione in questo senso è stata
introdotta nel novo codice penale francese, che ammette la responsabilità delle persone giuridiche a titolo
di concorso con quelle fisiche. La teoria cd organicistica, riconosce soggettività reale e non mera finzione
all’ente collettivo in virtù di un pregresso rapporto di rappresentanza organica tra l’ente e le persone
fisiche; con la conseguenza che l’attività degli organi diventa automaticamente imputabile alla persona
collettiva. Il problema rimane però nello stabilire chi intende applicare il predetto principio di personalità
come inclusivo del requisito di colpevolezza alla base del reato: se l’ente collettivo dunque è capace di agire
con dolo o con colpa. Si aggiunga inoltre che lo stesso principio costituzionale di personalità, inteso nella
sua eccezione più pregnante, impone una valutazione penale, soprattutto in rapporto all’atteggiamento
psicologico dell’agente, da risultare difficilmente effettuabile riguardo alle manifestazioni proprie della
persona giuridica.

7. LA RESPONSABILITA’ DA REATO DEGLI ENTI COLLETTIVI


Con il dlgs 8 giugno 2001, n.231, viene disposta la responsabilità amministrativa degli enti collettivi per i
reati commessi dai loro organi o dai loro sottoposti. Questo decreto ha dato attuazione alla legge delega de
29 settembre 2000, n.200, di ratifica ed esecuzione di alcune convenzioni internazionali relative alla lotta,
alla corruzione dei pubblici ufficiali straniere nelle operazioni economiche internazionale o dei funzionari
degli stati membri dell’Unione per la tutela delle finanze comunitarie. La disciplina predisposta in questo
contesto è normativamente articolata per far suscitare l’impressione che il legislatore abbia voluto
formalmente definire amministrativa una responsabilità che, nella sostanza, assume un volto penalistico.
L’obiettivo dichiarato e perseguito dal legislatore è indubbiamente quello di apprestare un forte presidio
contro la tentazione di commettere reati nell’ambito della politica d’impresa. Si denunzia quindi la
sussistenza di una pluralità di anomalie, le principali delle quali si concentrano nel comportamento della
media dirigenza (cd quadri) i quali per raggiungere massimi vertici non esitano a tenere comportamenti ai
margini della legalità. Presupposti:

A) le disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti si applicano ai destinatari, agli enti e alle
società, art1.

B) la fattispecie obiettiva costitutiva dell’illecito amministrativo dipendente da reato va desunta da diverse


disposizioni contenute nel decreto: a)la commissione da parte di una persona fisica di un dato reato,
consumato o tentato, espressamente previsto dalla legge ai fini della responsabilità dell’ente; b) l’esistenza
di un rapporto qualificato tra l’autore del reato e l’ente ovvero gestione o controllo di fatto oppure un
rapporto di dipendenza del soggetto autore del reato; c) l’interesse o il vantaggio dell’ente; d) il carattere
non territoriale, non pubblico o non di rilievo costituzionale; e) l’inesistenza di un provvedimento di
amnistia per il reato da cui dipende l’illecito. In virtù di sub.c è opportuno chiarire perché il decreto richieda
che il reato sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente: il primo caratterizza la condotta della
persona fisica, il secondo potrebbe essere ricavato anche quando la persona fisica non agisca per un
interesse proprio.

C) quanto ai criteri di valutazione soggettiva, è stato normativamente configurato un modello di


colpevolezza sui generis: una colpevolezza concepita come rimproverabilità soggettiva ma connessa al fatto
che il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale. I criteri di imputazione soggettiva
del reato vengono poi differenziati a seconda che il reato sia commesso da soggetti in posizione apicale,
art6, ovvero da persone sottoposte all’altrui direzione, art7. Nel primo caso bisogna dimostrare: a) che gli
apicali medesimi hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente il modello di organizzazione e di
gestione; b) che non vi è stata omessa o insufficiente sorveglianza da parte dell’organismo di vigilanza
dell’ente. Per il reato commesso dai sottoposti l’ente è responsabile solo se la commissione del reato è
stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

D) è introdotto il principio dell’autonomia della responsabilità dell’ente, nel senso che quest’ultimo
risponde anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, e quando il reato si
estingue per una causa diversa dall’amnistia.

E) la responsabilità degli enti non ha portata generale, ma è circoscritta a figure di reato espressamente
previste. Il quadro complessivo dei reato-presupposto risulta, oggi, comprensivo di figure codicistiche
rispettivamente rientranti tra: reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la fede pubblica, reati
con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, reati contro la persona, reati contro la
personalità individuale, reati informatici, reati contro il patrimonio, reati contro l’industria e il commercio.
Fuori dal codice, sono elevati a presupposto di responsabilità degli enti figure di reato tipicamente
suscettibili di coinvolgimento delle imprese, come i reati societari e gli abusi di mercato, nonché ipotesi di
reato poste a tutela anche di beni individuali, come i delitti in materia di violazione del diritto d’autore.

F) variegato risulta infine il ventaglio delle misure sanzionatorie, il quale per l’ente prevede sanzioni
pecuniarie, interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna.
8. IL PROBLEMA DEI SOGGETTI RESPONSABILE NEGLI ENTI E NELL’IMPRESA

Il soggetto formalmente titolare dei numerosi obblighi di condotta penalmente sanzionati non è sempre in
grado di adempiervi personalmente: ciò induce il titolare originario a delegare l’adempimento degli obblighi
predetti ad altri soggetti suoi collaboratori. Il problema che sorge è appunto il fenomeno della delega che
assuma rilevanza penale, sia sotto il profilo di un’eventuale sanzione da responsabilità del titolare originario
sia sotto quello di un’assunzione di responsabilità da parte del nuovo soggetto di fatto preposto
all’adempimento. La delega non deve avere carattere fraudolento e deve, pertanto, risultare in modo certo
e inequivoco: a tale scopo si richiede ora espressamente che essa risulti da atti scritto recante data certa e
che sia accettata dal delegato per iscritto. La delega deve essere attribuita a persona tecnicamente
competente. In terzo luogo, deve comportare il trasferimento dei poteri di organizzazione, gestione e
controllo. Il decreto esplicita come requisito aggiuntivo di validità l’autonomia di spesa, cioè l’attribuzione
al soggetto delegato il potere di disporre in modo autonomo delle risorse finanziarie per poter svolgere
effettivamente le sue funzioni. Nell’ambito delle imprese, il decreto all’art2, comma 1, lett. b, conferisce
rilievo all’investitura formale dei ruoli apicali; ma non contempo si tiene conto dell’esercizio di fatto di
funzioni dirigenziali: le posizioni di garanzia spettanti ai dirigenti in senso formale gravano su colui il quale
eserciti in concreto i poteri giuridici. In ogni caso, sui soggetti deleganti incombe un obbligo di vigilanza allo
scopo di prevenire la responsabilità degli enti collettivi devono prevedere anche un idoneo sistema di
controllo sull’effettiva attuazione di tutte le misure ab carattere precauzionale.

9. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO


La nozione di soggetto passivo davvero rilevante sul piano giuridico-penale è quella che lo identifica col
titolare del bene protetto dalla singola fattispecie incriminatrice di parte speciale: in questo senso, il
soggetto coincide con quella che viene definita persona offesa del reato. La nozione di soggetto passivo si
differenzia da quella di oggetto materiale del reato, che allude invece alla persona o cosa sulla quale
materialmente ricade l’attività delittuosa; infatti, mentre in taluni casi le due nozioni di fatto coincidono,
altre rimangono distinte. Il concetto di soggetto passivo on coincide neppure con quello di soggetto
danneggiato dal reato, cioè colui che subisce un panno patrimoniale o non patrimoniale di danno risarcibile
e che pertanto legittimato a costituirsi parte civile nel processo. Il soggetto passivo può essere anche uno
stato o una persona giuridica. Si parla anche di reati a soggetto passivo indeterminato, es. i reati contro
l’incolumità pubblica. Può aversi anche una pluralità di soggetti passivo. Ciò si verifica quando una stessa
offesa coinvolge più titolari dello stesso bene. La qualità di soggetto minore è essenziale per la realizzazione
dei delitti di corruzione del minore, oppure di sottrazione dello stesso. Le caratteristiche del soggetto
passivo possono ance determinare il mutamento del titolo del reato, ad esempio il delitto di violenza
privata. Possono incidere sulla disciplina anche le relazioni che legano il soggetto passivo a soggetto attivo.
Possono incidere sulla disciplina penale anche le relazioni che legano il soggetto passivo a quello attivo,
come la qualità di figlio nel soggetto passivo è elemento costitutivo del delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare, art570. Più di recente si ricorre all’espressione reati senza soggetto passivo o senza
vittima per indicare ipotesi di incriminazione dietro le quali bisogna individuare il bene giuridico, es reati
contro la moralità pubblica o i reati ostativi, vale a dire figure di illecito a pericolo astratto che incriminano
atti che rappresentano una concreta aggressione. Lo studio del soggetto passivo forma altresì oggetto di
una branchia della criminologia, la cd vittimologia. In materia bisogna definire il profilo politico-criminale in
quanto fornisce al legislatore una base essenziale per modellare la tutela penale. Se per la querela è
sufficiente, in base al principio dell’indivisibilità, che la presenti uno dei soli soggetti passivi, l’operatività del
soggetto passivo è subordinato alla tutela della volontà di tutti gli interessi protetti.

SEZIONE 2: STRUTTURA DEL REATO


1. PREMESSA

La varietà fenomenica dei diversi tipi di reato non ha impedito alla dottrina penalistica di tendere alla
costituzione di una teoria generale del reato intesa a unificare, mediante un processo di astrazione e
generalizzazione concettuali, tutti gli elementi comuni alle varie tipologie delittuose. In sede di applicazione
giudiziale, al richiamo delle categorie dogmatiche deve accompagnarsi la capacità di cogliere le particolarità
del caso concreto. A partire dal secondo dopoguerra, la parte consapevole della dottrina si è impegnata in
una verifica degli abusi di generalizzazione compiuti dalle dottrine generali del reato tradizionalmente
ricevute: ne è derivata la scoperta che le diverse tipologie delittuose presentano elementi che non possono
essere appiattiti all’interno di una teorizzazione generale. Inoltre, il rifiuto di una dogmatica astrattamente
concettualistica, e la conseguente adesione a una prospettiva teologica, sollecitano un costante raccordo
tra l’elaborazione della teoria generale del reato e le indagini di parte speciale; è dalle singole figure
criminose, infatti, che le categorie generali traggono vita e giustificazione. Le nozioni di teoria generale del
reato esposte sono ricavate in base a un procedimento di massima astrazione generalizzatrice.

2. ANALISI DELLA STRUTTURA DEL REATO


Pietra angolare del reato è un fatto umano corrispondente alla fattispecie obiettiva: il giudizio di
corrispondenza tra il fatto e lo schema legale di una specifica figura di reato si traduce nel concetto di
tipicità. Per poter integrare un illecito penale, il fatto deve dunque da un lato risultare conforme alla
fattispecie astratta di reato; e dall’altro deve essere veramente realizzato contra ius: l’effettivo contrasto
tra fatto tipico e ordinamento si riassume nel giudizio di antigiuridicità. Ulteriore presupposto per la
punibilità del fatto è che esso sia riconducibile alla responsabilità di un soggetto che ne risulta autore: le
condizioni di questa riconducibilità si riassumono col concetto di consapevolezza. Il reato è dunque
definibile come fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Nell’ambito della dottrina italiana, la concezione
tripartita convive con la teoria della cd bipartizione, la quale si limita a scomporre il reato in un elemento
oggettivo e in elemento soggettivo: manca l’antigiuridicità come elemento costitutivo autonomo del
concetto di illecito penale. Nonostante siano astrattamente legittime diverse sistematiche, ad avviso di chi
scrive è la concezione tripartita quella che riesce meglio a soddisfare le esigenze di indagine peculiare
fenomeno giuridico che va sotto il nome di reato, cioè incline a costruire categorie dogmatiche tenendo
conto della specifica funzione che esse devono assolvere all’interno del settore giuridico considerato.
Funzione specifiche del reato sono il fatto tipico, l’antigiuridicità e la colpevolezza. La concezione tripartita
è quella che più si presta a venire incontro alle esigenze di chiarezza e semplicità dell’esposizione didattica,
riflettendo un utile raccordo tra teoria e prassi.
3. FATTO TIPICO
Nell’ambito del diritto penale, il concetto di fatto tipico o fattispecie o tipo delittuoso va inteso in
un’accezione più ristretta, comprendente cioè il complesso degli elementi che delineano il volto di uno
specifico reato: perciò il “fatto”, come oggetto del giudizio di tipicità, ingloba soltanto contrassegni che
adempiono a un particolare modello delittuoso. Il fatto tipico rispecchia le caratteristiche di fondo della
materia penalistica cariche di implicazioni politico-ideologiche e politico-criminale. In questo senso
compiuto del fatto tipico è, infatti, quello di circoscrivere specifiche forme di aggressione ai beni
penalmente tutelati: il legislatore selezione le forme e giustifica il ricorso all’extrema ratio della sanzione
punitiva e, nel frattempo delinea i limiti e i confini della tutela, che il diritto penale accorda ai beni giuridici
considerati meritevoli di protezione. La categoria del fatto tipico deve essere il più possibile idonea a
rispettare tutte le esigenze poste dal principio di materialità, cioè dal principio che esige che il reato si
manifesti in contegno esteriore accertabile nella realtà fenomenica: è necessario evitare che il legislatore
crei tipi artifici artificiali di reato che non trovano alcun riscontro nella realtà concreta (il giudice non sarà in
grado di accertare il fatto materiale). Nell’ambito di un diritto penale veramente rispettoso dei principi di
legalità, materialità e tassatività, la categoria del fatto tipico dovrebbe assolvere l’ulteriore funzione di
ancorare modelli delittuosi a tipi di comportamento basati su ben definite tipologie empirico-
criminologiche.

4. TIPICITA’ E OFFESA DEL BENE GIURIDICI


Compito primario di un moderno diritto penale è quello di garantire la salvaguardia dei beni giuridici, la
categoria del bene giuridico non può occupare un ruolo centrale nella costruzione della fattispecie
criminosa. Così tale categoria, oltre ad assumere un ruolo costitutivo o fondante della punibilità quale
criterio legislativo di criminalizzazione e a fungere da criterio ermeneutico in una prospettiva teologica.

5. ANTIGIURIDICITA’
La tipicità o la conformità alla fattispecie fornisce un indizio antigiuridico del fatto da considerare poi
illecito. In alcuni casi il fatto presumibilmente antigiuridico in quanto penalmente tipico risulta, tuttavia, ad
un attento esame, giustificato o consentito in base a una valutazione effettuata alla stregua non solo del
solo sistema penale ma dell’intero ordinamento giuridico. Nell’esame dell’antigiuridicità si circoscrive con
precisione l’ambito di tutela della norma penale, si pone in relazione la norma penale col complesso delle
altre norme e se ne chiarisce il reciproco condizionamento. La rilevanza del giudizio di antigiuridicità in
seno all’intero ordinamento è comprovata da norme processuali che regolano rapporti tra processo penale,
civile e amministrativo (artt 651-652 c.p.). Esso si risolve strutturalmente nella verifica che il fatto tipico non
è coperto da alcuna causa di giustificazione o secondo un sinonimo. All’interno della concezione tripartita
del reato, la categoria dell’antigiuridicità ha carattere oggettivo: essa cioè costituisce una qualità oggettiva
del fatto tipico che, come tale prescinde ed è distinta dalla colpevolezza. L’art59, nel fissare la regola della
rilevanza “obiettiva” delle cause di giustificazione, nel senso che esse operano anche se non conosciute
dall’agente, presuppone infatti un’antigiuridicità concepita puramente in senso oggettivo. Per spiegare sul
piano dogmatico l’operatività delle cause di giustificazione taluni autori fanno, infatti, ricorso al concetto di
elementi negativi del fatto: cioè di elementi che devono mancare perché l’illecito penale si configuri. La
ragione storica degli elementi negativi era costituita dalla ricerca di espedienti concettuali che
consentissero di risolvere il problema dell’errore sull’esistenza di cause di giustificazione nell’ambito di
ordinamenti, come quello tedesco-occidentale, privi di una norma ad hoc: nell’ordinamento italiano si
esprime espressamente l’errore sulle scriminanti. Bisogna affiancare a questo il concetto di antigiuridicità
materiale, che determina ragioni sostanziali che stanno alla base dell’incriminazione. D’altra parte le ragioni
sostanziali, che stanno a fondamento della scelta legislativa di penalizzare un determinato comportamento,
vanno al di là di quelle riconducibili all’antigiuridicità materiale, così come tradizionalmente concepita. Nel
linguaggio penalistico si suole parlare di antigiuridicità o illiceità speciale riguardo ai casi nei quali la stessa
condotta tipica è contraddistinta da una nota di illiceità desumibile da una norma diversa rispetto a quella
incriminatrice. Si consideri per esempio il delitto di cui all’art348 incrimina chiunque abusivamente esercita
una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato: l’avverbio abusivamente
richiede appunto il contrasto con le disposizioni amministrative che disciplinano l’esercizio delle attività
professionali. La distinzione tra illiceità speciale effettiva ed apparenti sono questioni interpretative.

6. COLPEVOLEZZA
La colpevolezza riassume le condizioni psicologiche che consentono l’imputazione personale del fatto di
reato all’autore. Nel giudizio di colpevolezza rientra la valutazione del legame psicologico o comunque il
rapporto di appartenenza tra fatto e autore. Il diritto penale come strumento di controllo sociale non può
attendere la dimostrazione specifica della libertà del potere. Fin quanto ha storicamente predominato la
concezione retributiva, la pena era concepita come una reazione avente lo scopo di compensare la
colpevolezza del reo. In questo momento storico caratterizzato da una concezione più laica del diritto
penale, la colpevolezza si spoglia di implicazioni tipicizzanti e perde di conseguenza il tradizionale ruolo di
fondamento della pena stessa. La legge penale garantisce la libertà di scelta individuale proprio nella
misura in cui rifiuta la responsabilità oggettiva e subordina la punibilità alla presenza di coefficienti
soggettivi come dolo e colpa. La Corte costituzionale nell’importante sentenza n.364 del 1988, relativa
all’efficacia scusante dell’errore inevitabile di diritto, ha ravvisato la ratio della colpevolezza nell’esigenza di
garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione. Se oggi nessuno contesta il ruolo fondamentale
della colpevolezza come principio di civiltà è dato dal senso pacifico che abbraccia i requisiti minimi del dolo
e della colpa. Nello stesso tempo in essi esistenti tra la categoria della colpevolezza, da un lato, la teoria
della pena e la concezione della società e lo stato dall’altro, hanno fatto si che la ricostruzione della
colpevolezza storicamente risentisse dei vari orientamenti.

7. COSTRUZIONE SEPARATA DEI TIPI DI REATO


L’elaborazione delle dottrine generali del reato si è sviluppata tenendo come modello l’illecito commissivo
doloso e in particolare il delitto di omicidio. In seguito all’evoluzione del diritto penale sono stati inseriti
una serie di fattispecie penali incentrate sull’inosservanza di obblighi positivi di condotta. L’effetto più
rilevante del processo di revisione è sfociato in un’inversione di tendenza, segnata dal passaggio dalla
costruzione unitaria dell’illecito penale alla costruzione separata delle diverse categorie di delitto, che sono:
delitto doloso, delitto colposo, delitto commissivo e delitto omissivo.
8. CLASSIFICAZIONE DEI TIPI DI REATO
Tra i vari tipi di reato distinguiamo i reati di evento, caratterizzati dalla fattispecie incriminatrice
caratterizzata da un evento esteriore, separabile dall’azione e a questa legato in base a un nesso di
causalità. Nell’ambito dei reati di evento si opera un ulteriore distinzione a seconda che il legislatore
specifichi o no le modalità di produzione del risultato lesivo. Nel primo caso si parla di reati di evento a
forma vincolata; es. art 438 che incrimina chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di geni
patogeni. Nel secondo caso si parla di reati causali puri, es. l’art 575 che punisce chiunque cagiona la morte
di un uomo. Sono suscettibili di conversione soltanto le fattispecie causali. Altra tipologia di reato è formata
dai reati di azione che consistono nel semplice compimento dell’azione vietata, ad esempio l’evasione dal
carcere nell’ipotesi delittuosa, di cui all’art385. Si distinguono al loro interno quelle relative al momento
consumativo del reato e quelle determinate dalle questioni commesse. Ulteriore distinzione viene posta in
funzione delle due forme tipiche della condotta umana, distinguendo i reati in commissivi ed omissivi; i
reati omissivi si distinguono a loro volta i reati omissivi propri e reati omissivi impropri. Si configura un
reato omissivo improprio quando l’evento lesivo dipende dalla mancata realizzazione di un’azione
doverosa, ad esempio omicidio colposo dovuto dalla mancata osservanza di un bambino. Il reato omissivo
proprio consiste invece nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da una norma penale di
comando, ad esempio omissione di soccorso, di referto od omessa denuncia di reato. I reati si distinguono
ancora in istantanei e permanenti: nei primi la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa, ad
esempio nell’omicidio la lesione si esaurisce nel momento in cui si verifica la morte; nei secondi si ha il
protrarsi dell’offesa che dipende dalla volontà dell’autore, ad esempio il delitto di invasione di edifici o di
terreni (art633), ovvero al delitto di ordinaria evasione o occupazione di aziende agricole o industriali (art
508). La dottrina dominante respinge la concezione bifasica dl reato permanente, secondo la quale la fase
dell’instaurazione si realizza con un’azione e quella del mantenimento con un’omissione. Prive di reale
autonomia sono le figure del reato eventualmente permanente e del reato istantaneo con effetti
permanenti. Il reato permanente è un reato unico in quanto lesivo di uno stesso bene giuridico. Per reato
abituale si intendono quegli illeciti penali per cui è necessaria la reiterazione nel tempo di più condotte
della stessa specie, es. reato di maltrattamento in famiglia, art 572. Un discorso analogo vale rispetto al
delitto di sfruttamento della prostituzione, art 3 n.8, legge 75/1958. Il reato abituale si distingue in proprio
ed improprio: nel primo caso le condotte sono irrilevanti, nel secondo caso, come ad esempio nella
relazione incestuosa, art 564 comma 2°, ciascun singolo atto integra in se un’altra figura di reato. Quanto
all’amnistia e all’indulto è possibile scindere il reato abituale in due parti purché autonomamente capaci di
integrare i presupposti minimi della punibilità. A seconda che siano realizzabili da chiunque ovvero da
soggetti qualificati, i reati si distinguono in comuni e propri. Il reato proprio è quell’illecito che può essere
commesso soltanto da chi riveste una particolare posizione, es. qualifica di pubblico ufficiale ai fini della
commissione dei reati contro la pubblica amministrazione. La distinzione tra reati propri e reati comuni
assume rilevanza soprattutto ai fini della determinazione del dolo. I reati si distinguono in illeciti di danno
ed illeciti di pericolo, a seconda che la condotta criminosa comporti la lesione effettiva ovvero la semplice
messa in pericolo o lesione potenziale del bene giuridico. Con reato di danno si consideri il delitto di
omicidio. Come esempio di reato di pericolo si consideri, invece, il delitto di incendio preveduto dall'
articolo 423: il fatto di cagionare un incendio e punito per i risultati lesivi che possono derivarne a carico di
una cerchia indeterminata di persone. Mentre i reati di danno rappresentano i modelli delittuosi classici, e
come tali costituiscono il nucleo centrale delle legislazioni penali tradizionali, i reati di pericolo hanno subito
una rilevante espansione in tempi più recenti. I reati di pericolo vengono tradizionalmente, distinti in due
categorie di pericolo concreto o effettivo e di pericolo presunto o astratto. Nei primi il pericolo rappresenta
un elemento costitutivo bella fattispecie incriminatrice, dove spetta al giudice, in base alle circostanze
concrete del singolo caso, accertarne l'esistenza a titolo esemplificativo si consideri l'articolo 422, che
ravvisa il delitto di strage nel fatto di chi al fine di uccidere, compie atti tali da porre in pericolo la pubblica
incolumità. Nei reati di pericolo della seconda categoria invece si presume, in base ad una regola di
esperienza, che al compimento di certe azioni si accompagni l' insorgere di un pericolo. Per esemplificare, si
consideri il reato di incendio di cosa altrui preveduto dall' articolo 423, comma primo: il legislatore si limita
a tipizzare il fatto mediante la formula chiunque cagiona un incendio è punito virgola e ciò nella
presunzione che l'incendio sia nella generalità dei casi un accadimento di comune pericolo. Mentre i reati a
pericolo concreto sollevano problemi soprattutto dal punto di vista dell'individuazione dei relativi criteri di
accertamento, quelli a pericolo astratto sono apparsi e continuano ad apparire non esenti da obiezioni
sotto il profilo costituzionale. Da qui il rilievo che reati di pericolo presunto rischiano di reprimere la mera
disobbedienza della gente, vale a dire la semplice in ottemperanza ad un precetto penale senza che a
questa si accompagni una effettiva esposizione a pericolo del bene protetto. In realtà il problema sta tutto
nella corretta individuazione dei settori, nel cui ambito appare consigliabile se non addirittura necessario
anticipare la tutela sino alla soglia dell' astratta pericolosità. L' incrimina bilità delle condotte pericolose in
se stesse a prescindere cioè dalla prova di una concreta esposizione a rischio di individui ben determinati
presenta due inestimabili vantaggi : per un verso, si pone un argine alla particolare diffusività del pericolo
insito in questo tipo di condotte; per altro verso, essendo non ti rado scientificamente ignoto lo specifico
meccanismo che conduce alla verificazione dell’effetto dannoso si evita la probatio diabolica dell' attitudine
del fatto. Vi sono poi dei beni collettivi o super individuali, come l'ambiente o l'economia pubblica, che per
loro natura, possono essere danneggiati soltanto da condotte cumulative, vale a dire da molteplici condotte
che si ripetono nel tempo: ciò che rende impossibile provare che una singola condotta tipica sia in concreto
idonea come ad esempio a compromettere l'integrità dell'ambiente ovvero a provocare uno squilibrio nella
bilancia dei pagamenti o simili. Tale principio, evocabile in tutti i settori in cui le conoscenze scientifiche
disponibili non consentono di verificare con certezza la dannosità o pericolosità di determinati fenomeni è
riconosciuto a livello normativo nel riveduto articolo 174 del trattato istitutivo della comunità europea
relativo alle politiche ambientali. In realtà, il principio di precauzione non può oggi essere considerato un
criterio sostanziale capace di imporre il ricorso a forme di tutela penale. Esso, piuttosto, ha una funzione
orientativa sul piano politico criminale innanzitutto i rischi o pericoli non devono essere frutto di semplice
sospetto o mera congettura: ancorché non riscontrabili con certezza, i rischi o pericoli in questione devono
comunque poggiare su fondamenti seri, riconosciuti come tali dagli esperti. Occorre inoltre che vi sia
adeguata proporzione tra il rango dei beni da proteggere ed i costi conseguenti all' anticipazione della
tutela al livello del pericolo astratto. La dottrina penalistica ha operato ulteriori distinzioni dotate di diversa
rilevanza pratica. Ad esempio si possono accennare i reati aggravati dall' evento, per i quali è previsto un
aumento di pena se dalla realizzazione del delitto base deriva come conseguenza non voluta un evento
ulteriore si pensi ad esempio all' omissione di soccorso aggravata dalla morte della persona in pericolo. Si
definiscono ancora delitti di attentato quelle forme di lecito consistenti nel compiere atti o nell’usare mezzi
diretti ad offendere un bene giuridico.
PARTE SECONDA: IL REATO COMMISSIVO DOLOSO
CAPITOLO 1: TIPICITA’

1. PREMESSA: LA FATTISPECIE E I SUOI ELEMENTI COSTITUTIVI


Per fattispecie di reato si intende il complesso degli elementi che contraddistinguono ogni singolo illecito
penale: gli elementi costitutivi delle fattispecie variano, dunque, in funzione delle diverse tipologie e
delittuose. Come categoria che ricomprende e circoscrive il contenuto dei fatti punibili, la fattispecie legale
assolve innanzitutto una fondamentale funzione di garanzia. Concepita nell’accennata funzione di garanzia,
la fattispecie o tipo legale abbraccia tutti gli elementi che condizionano la punibilità: essa ricomprende non
solo i contrassegni oggettivi o materiali di ogni fatto criminoso, ma anche il criterio di imputazione
soggettiva e ogni altro requisito capace di influire sulle conseguenze giuridico penali. Gli elementi a
carattere materiale vanno dunque identificati nella condotta e negli eventuali presupposto e note che la
caratterizzano, nonché nel rapporto causale e nell’ evento lesivo come ad esempio la fattispecie del furto
che sarebbe costituita dal fatto materiale dell'impossessamento e della sottrazione della cosa. Secondo la
concezione oggi dominante concetto di fatto tipico va inteso in un'accezione più ampia. non solo perché il
fatto può ricomprendere, oltre ad elementi descrittivi, elementi normativi, ma per la ragione più
assorbente che il fatto in senso oggettivo o materiale, pur conservando il ruolo di spina dorsale della
tipicità virgola non le esaurisce completamente. Il contributo dell'elemento soggettivo alla ricostruzione del
fatto tipico rimane tuttavia un punto fermo anche più in generale. Le differenze strutturali tra reati dolosi e
reati col posi, lungi dall' essere circoscritte al solo piano della colpevolezza, cominciano infatti ad emergere
già a livello del fatto tipico, per cui il dolo e la colpa finiscono con l'assumere una doppia rilevanza
sistematica. La categoria del fatto tipico può ricomprendere, nel contempo, sia elementi obiettivi di natura
descrittiva o normativa, sia elementi a carattere soggettivo. Delimitazioni rigorose non sono sempre
tracciabili né tra gli elementi descrittivi e normativi, né tra gli elementi obiettivi e subiettivi. Si consideri, ad
esempio, che la stessa nozione di uomo solleva problemi di natura valutativa allorché si tratta di stabilire se
in essa rientri il feto o il mostro; analogamente, se nel concetto di cosa rientri anche l'animale.

2. CONCETTO DI AZIONE
L'azione umana rappresenta la base su cui poggia l'intera costruzione dogmatica del reato commissivo
doloso. Il ruolo del concetto di azione nella struttura di questo tipo di illecito non va, tuttavia,
sopravvalutato. La dottrina affidava, al concetto di azione due compiti fondamentali: da un lato, quello di
fornire una nozione superiore unitaria capace di adattarsi tanto all' azione dolosa e all' azione colposa,
quanto all' azione e all' omissione punto nel tentativo di perseguire obiettivi così ambiziosi, la dottrina
dell'azione a storicamente prospettato diverse concezioni, delle quali le principali sono la teoria causale, la
teoria finalistica, la teoria sociale. Secondo la teoria causale nel nucleo essenziale presta il fianco a due
obiezioni. Primo: la definizione dell'azione come modificazione del mondo fisico non si adatta all' omissione
quale forma di condotta priva di substrato naturalistico punto secondo: il dolo non esaurisce la sua
funzione sul piano della colpevolezza, ma funge anche da componente dell’azione perché non di rado
soltanto la direzione della volontà colpevole decide della stessa tipicità di un dato comportamento.
Secondo la teoria finalistica, l'azione umana consiste nell’ esercizio di un'attività orientata verso uno scopo.
L'attività finalistica e l'agire consapevolmente diretto verso un obiettivo, mentre l accadere meramente
causale non è governato da uno scopo, ma rappresenta il risultato causale delle condizioni causale di volta
in volta presenti. La teoria finalistica considera il dolo come elemento costitutivo dell’azione e quindi del
fatto tipico, negando al contempo che esso rappresenti una forma di colpevolezza. Innanzitutto, non è
sempre vero che le azioni volontarie siano esercizio di attività rigorosamente programmate te secondo lo
schema delle pre determinazioni del rapporto mezzo scopo: si pensi alle azioni impulsive o automatiche
virgola che certamente prescindono, pur essendo volontarie , da una consapevole orientazione finalistica.
In secondo luogo, nell ambito dei reati colposi e dei reati omissivi, alla finalità reale si sostituisce una
finalità soltanto potenziale; Nel senso che il rimprovero penale secondo la stessa teoria in esame in questi
casi si incentra sul mancato esercizio di azioni finalisticamente dirette agli obiettivi di tutela presi di mira dal
legislatore punto sono un toglie tuttavia che, tra gli esiti involontari degli sforzi compiuti dagli studiosi
finalisti, sia da annoverare proprio un ulteriore conferma dell' inutilità dei tentativi diretti a prospettare un
concetto di azione valido per tutte le tipologie delittuose. Secondo la teoria sociale, il comportamento
penalmente rilevante consiste in ogni risposta dell'uomo ad una pretesa nascente da una situazione
riconosciuta o almeno riconoscibile attuata grazie alla messa in atto di una possibilità di reazione
liberamente scelta tra quelle disponibili. Diversamente dalla teoria causale e da quella finalistica, la
concezione in esame non desume delle sue premesse di fondo dirette implicazioni di ordine dogmatico:
essa, dal momento che fa leva su di una mera possibilità di reagire in modo non collegato agli stimoli
dell'ambiente esterno, si adatta in realtà a tutte le forme delittuose; Ma punto perché di contenuto assai
generico, finisce col rivelarsi priva di contenuto informativo rispetto alle caratteristiche che il
comportamento assume in ognuna delle principali categorie criminose. L'unità raggiunta dal concetto
sociale di azione è perciò meramente terminologica. Le teorie film qui ricordate sono fallite, perché hanno
voluto trascurare una verità che oggi soltanto in pochicontesterebbe.ro. I criteri che presiedono alla
determinazione del concetto di azione si uniformano ai principi dell'imputazione penale virgola e non
viceversa. Quali siano i criteri di attribuzione della responsabilità , lo stabilisce l'ordinamento penale di volta
in volta considerato punto la condotta criminosa assume la forma di un azione in senso stretto punto nel
procedere ad una maggiore specificazione del concetto, si delinea il richiamo dell’ articolo 42, comma
primo, il quale stabilisce: nessuno può essere punito per un'azione preveduta dalla legge come reato, se
non l'ha commessa con coscienza e volontà punto la formula coscienza e volontà dell'azione non esprime
un identica realtà psicologica comune a tutte le forme delittuose essa richiama dati diversi , a seconda che
l'azione acceda ad un reato doloso ovvero ad un reato colposo.

3. AZIONE DETERMINATA DA FORZA MAGGIORE O DA COSTRINGIMENTO FISICO.


CASO FORTUITO.
Il nostro legislatore si è, però, preoccupato di tipici zare due situazioni nelle quali non può mai giungersi ad
un giudizio di colpevolezza , perché manca già in partenza la precondizione di un addebito a titolo di dolo o
di colpa: precondizione cioè rappresentata dalla possibilità di considerare l'azione criminosa come opera
propria di un determinato soggetto appunto le situazioni cui si fa riferimento vanno sotto il nome di forza
maggiore e costringimento fisico punto come dispone l'articolo 45 non è punibile chi ha commesso il fatto
per forza maggiore. Quest'ultima viene tradizionalmente definita come qualsiasi energia esterna contro la
quale il soggetto non è in grado di resistere e che perciò lo costringe necessariamente ad agire. Per
esemplificare, si pensi al caso di scuola dell'uccisione di un passante da parte di un operaio che cade da
un'impalcatura perché travolto da una tromba d'aria. Qui l'azione causativa dell'evento non è certamente
riconducibile al potere dell operaio, onde si può dire che l'azione non gli appartiene punto non si può
parlare più di forza maggiore se la gente dispone di un sufficiente margine di scelta : in questi casi, la
coazione ad agire è soltanto relativa, potranno risultare applicabili le norme sullo stato di necessità o sulla
coazione morale. Stabilisce inoltre l'articolo 46 che non è pulibile chi ha commesso il fatto per esservi stato
da altri costretto .In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l'autore della violenza
punto è pacifico che il costringimento fisico non costituisce null'altro se non una specificazione della forza
maggiore. Si tratta di una forza irresistibile che promana non già dalla natura ma dall’ uomo il quale si serve
materialmente di un altro essere umano come strumento di realizzazione dell'obiettivo criminoso. Il codice
all'articolo 45 ammette un ulteriore causa di esenzione da responsabilità, stabilendo che non è punibile chi
ha commesso il fatto per caso fortuito. La forza maggiore annulla la Signoria del soggetto sulla condotta :
esso,in quanto risulta dall’incrocio tra un accadimento naturale ed una condotta umana, da cui deriva
l'imprevedibile verificarsi di un evento lesivo, impedisce però egualmente che la gente possa essere
chiamato a rispondere dell’evento cagionato col concorso di fattori che sul danno dall’ordine normale delle
cose punto il realtà, le diverse concezioni del caso fortuito non necessariamente si escludono a vicenda, ma
possono interagire in quanto capaci di riflettere aspetti differenti del fenomeno punto così, in alcuni casi
esso potrà essere valutato nell’ambito dell’ elemento soggettivo .In altri casi, il caso fortuito potrà
assumere invece rilevanza come fattore di esclusione del nesso causale tra condotta ed evento.

4. PRESUPPOSTI DELL’AZIONE
La categoria dei presupposti dell'azione o del fatto è stata talora utilizzata in un’accezione ampia quanto
fuorviante, coincidente con l'insieme dei presupposti del reato: così sono stati considerati presupposti la
stessa norma penale, il bene giuridico, il soggetto attivo, il soggetto passivo. Evidente che la categoria dei
presupposti del reato intesa in questa accezione errata ed inutile punto il concetto di presupposto
dell'azione è invece utile in una prospettiva di scomposizione analitica dell'illecito, se circoscritto alle
circostanze che in taluni casi devono preesiste re o essere concomitanti alla condotta perché questa
assuma un significato criminoso: si pensi ad esempio al precedente stato di gravidanza nel delitto di aborto.
E’ appena il caso di precisare che le circostanze predette, pur essendo estranee alla condotta illecita in
quanto tale, rientrano comunque nel fatto tipico come i suoi elementi costitutivi. I presupposti del fatto
tipico nel senso precisato possono riferirsi al soggetto attivo del reato specificandone un ruolo o una
qualità, o all'oggetto materiale della condotta, o il contesto che deve preesistere alla condotta, ovvero al
soggetto passivo.

5. OGGETTO MATERIALE DELL’AZIONE


Oggetto materiale dell'azione si definisce la persona o la cosa sulla quale ricade l'attività fisica del reo. Per
esemplificare bisogna considerare che nel delitto di falso l'oggetto materiale della condotta è costituito dal
documento falsificato, mentre il bene giuridico protetto e la fede pubblica. Analogamente, nel delitto di
frode processuale, l'oggetto materiale sul quale ricade l'azione tipica è rappresentato dalla situazione
esterna che viene materialmente modificata dalla gente, mentre il bene protetto e l'amministrazione della
giustizia. L'oggetto materiale della condotta può essere tanto unico che plurimo: e più di uno, ad esempio,
nel furto di più cose ovvero nel delitto di rapina, ricadendo l'azione tipica di quest'ultimo reato sia su di una
persona sia su di una cosa appunto la separazione concettuale tra oggetto dell'azione e oggetto della tutela
penale tanto più si accentua a, quanto più il bene giuridico subisce un processo di spiritualizzazione. Per
converso, si può assistere ad una tendenziale immedesimazione tra oggetto dell'azione oggetto della tutela,
laddove il bene protetto sia su suscettivo di esteriorizzarsi in un substrato naturalistico il cui concreto
danneggiamento integra la lesione giuridica: si pensi appunto al corpo umano nei delitti di omicidio e di
lesioni personali punto non poche fattispecie, si individuano o differenziano reciprocamente proprio in
funzione delle caratteristiche dell'oggetto materiale della condotta punto le caratteristiche dell'oggetto
materiale dell’azione assumono, di conseguenza, ulteriore rilevanza quali elementi che possono o devono
riflettersi nell’ aspetto conoscitivo del dolo.

6. EVENTO
L'evento è concepito come risultato esteriore causalmente riconducibile all' azione umana: esempio del
delitto di omicidio, nel quale la lesione del bene protetto si materializza in una modificazione della realtà
naturale concettualmente e fenomenicamente separabile dalla condotta omicida punto il concetto di
evento assume, un' accezione più tecnica e ristretta rispetto a quella propria del linguaggio comune virgola
che identifica invece l'evento come un accadimento qualsiasi della realtà esterna. L'evento naturalistico
può anche consistere in un risultato esteriore che concretizza non già l'effettiva lesione, ma la messa in
pericolo di un bene protetto: si considera ad esempio l'articolo 434 che incrimina chiunque commette un
fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione, se dal fatto deriva Luca incolumità. L'evento di pericolo
è configurabile soltanto nell'ambito di quelle figure di reato che la dottrina tradizionale definisce a pericolo
concreto. L'importanza pratica della categoria dogmatica in esame emerge soprattutto sul terreno del
rapporto di causalità: l'evento naturalistico costituisce, il secondo polo del nesso causale e quindi un
requisito del fatto tipico nell'ambito dei reati che lo contemplano nella loro struttura. La disputa sul
concetto di evento è determinata essenzialmente dagli articoli 40, 41,43 e 49, che riconnettono ad ogni
reato un evento dannoso o pericoloso, come risultato dell’azione criminosa. Bisogna identificare inoltre il
concetto di offesa con quello di evento l'evento in questo caso è concepito virgola in quanto ritenuto
comune a tutti i reati, secondo un'accezione diversa da quella prima esplicata. Emerge così ulteriore
concetto di evento in senso giuridico, consiste nell’offesa all' interesse protetto dalla norma penale.
Bisogna quindi distinguere gli aspetti dogmaticamente deteriori e fuorvianti della tradizionale disputa sul
concetto di evento da quelli che sottendono, invece, seppure a volte camuffando le, problematiche di più
ampio respiro che superano i limiti di una scomposizione strutturale dell'illecito penale. Nell’ambito dei
reati di mera condotta, definiti tali perché privi di un evento naturalistico, a rigore non è necessario
ipotizzare un evento giuridico come risultato che consegue o si aggiunge alla condotta medesima: l'offesa
all' interesse protetto non è un entità materiale che si somma all' azione, ma la stessa azione considerata
come confliggente con la norma posta a tutela del bene in questione. Il rilievo appare incontrastabile
soltanto in linea astratta o di principio.se si considera lo stato attuale della nostra legislazione penale, ci si
avvede che l'equazione reato lesione di un bene giuridico talora suona più come una retorica affermazione
di principio, che come un dato che trova conferma nella realtà. L'ordinamento penale vigente, contiene
anche fattispecie criminose strutturate in modo così difettoso sotto il profilo della tecnica legislativa, da far
cadere in crisi l' asserto della necessaria compenetrazione tra tipicità e offesa al bene punto dal punto di
vista tecnico va, dunque, mantenuta la sola nozione di evento naturalistico, inteso quale conseguenza
dell’azione consistente in una modificazione fisica e la realtà esterna punto non è necessario che esso si
verifichi quasi contestualmente all' azione punto è altresì rilevante che l'evento si verifichi in un luogo
diverso da quello in cui è stata realizzata l'azione criminosa.
7. RAPPORTO DI CAUSALITA’: PREMESSA.
Caso 12: i dirigenti della ditta farmaceutica Grunenthal mettono in commercio un preparato che viene
ingerito anche da donne gestanti: quasi tutte partoriscono figli con malformazioni congenite, ma non è
scientificamente chiaro il meccanismo di produzione del fenomeno.

Caso 13: gli abitanti della zona in cui è sita una fabbrica di alluminio che emette fumi all'esterno vengono
colpiti da manifestazioni morbose cutanee a carattere epidemiologico (cosiddette macchie blu) e
lamentano anche danni alle bestie e alle colture (lo stesso fenomeno si è manifestato trent'anni prima al
momento dell'apertura della fabbrica); Neppure in questo caso però si riescono a individuare con certezza
le cause del fenomeno.

Caso 14: C fa saltare in aria con un candelotto di dinamite alla casa di campagna del sindaco lui ostile; si
accerta tuttavia che la casa sarebbe stata ugualmente distrutta da un incendio di vaste proporzioni
scoppiato nelle vicinanze per cause naturali quasi completamente al fatto (causalità alternativa ipotetica).

Caso 15: A e B, all'insaputa l'uno dell'altro, versano due dosi di veleno, ciascuna capace di produrre le
l’evento letale, nel bicchiere di birra di un loro comune nemico, il quale muore dopo aver bevuto (causalità
addizionale)

Caso 16: uno spacciatore istiga un giovane tossicodipendente, appena dimesso da una cura di
disintossicazione, a riprendere il consumo di eroina di per sé non mortale a causa di preesistente
alterazione organica accertata imperizia.

Caso 17: S colpisce con un pugno Z e lo lascia cadere sulla sede stradale: Z muore per il sopraggiungere di
una automobile che lo investe.

La fattispecie obiettiva di un reato commissivo di evento ricomprende il nesso di causalità che lega l'azione
all'evento medesimo : l' imputazione di un evento lesivo richiede come per supposto di partenza che il reo
abbia materialmente contribuito alla verificazione del risultato dannoso. Il concetto di causalità non è
univoco, ma varia in base al punto di vista di volta in volta prescelto dal soggetto dell'indagine. Da questo
punto di vista, la causalità funge dunque da criterio di imputazione oggettiva del fatto a soggetto: il nesso
causale tra condotta ed evento di regola comprova che non solo l'azione ma lo stesso risultato lesivo e
opera dell’agente, per cui quest'ultimo può essere chiamato a risponderne penalmente. Ancora, tutt'oggi
però si dibatte circa la scelta della teoria più idonea. Apparentemente, il compito dell’interprete sembra
agevolato dalla circostanza che il codice Rocco contiene una disciplina esplicita del nesso causale. Il
richiamo degli articoli 40 e 41 non ha impedito agli interpreti di assumere la disciplina codicistica come
elemento di conferma di soluzione ricavate in via aprioristica; questi articoli si prestano a letture diverse
perché non riescono indicare un modello ben definito e univoco di causalità. Da un lato ci si è accontentati
di sottolineare che l'azione del soggetto deve porsi come condizione necessaria dell'evento, dall'altro
l'attenzione sia prevalentemente appuntata sull’interpretazione dell'articolo 41 per il quale le cause
sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da solo sufficienti a determinare
l'evento.
8. LA TRADIZIONALE TEORIA CODICISTIA: INSUFFICIENZE
L'esigenza di un legame causale tra azione ed evento è esplicitamente riconosciuta dall' articolo 40 comma
1°, il quale richiede che l'evento dannoso pericoloso, dal quale dipende l'esistenza del reato, sia
conseguenza dell'azione del reo. Purché l'azione umana assurga causa è sufficiente che essa rappresenti
una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo. Per accertare tale nesso condizionalistico,
la dottrina vuole ricorrere al procedimento di “eliminazione mentale”: consente riscontri immediati e
inconfutabili. Anche se, sono prospettabili casi meno usuali rispetto ai quale l'azione della formula non
riesce a fornire indicazioni probanti in merito all'esistenza del nesso eziologico. Nei casi 12 e 13 non si
ricava alcun risultato perché mancano le indispensabili conoscenze che fanno da presupposto al
procedimento di eliminazione mentale. In verità, per poter asserire che l'evento lesivo viene meno occorre
prima sapere che l'azione in questione appartiene al novero di quelle che sono generalmente in grado di
produrre effetti dannosi del tipo di quello verificatosi in concreto. Ne deriva che la formula della condicio
sine qua non possiede un'efficacia limitata appunto si è altresì rilevato che la teoria in esame condurrebbe
a considerare causali anche i remoti antecedenti dell'evento delittuoso: la teoria condizionalistica sembra
presentare ulteriori inconvenienti nell’ipotesi di causalità alternativa ipotetica e di causalità addizionale.
Nella causalità cosiddetta alternativa ipotetica si suppone che, in mancanza dell’azione del reo, l'evento
sarebbe stato ugualmente prodotto da un'altra causa intervenuta all'incirca nello stesso momento (caso
14); nella causalità cosiddetta addizionale, si suppone che l'evento sia prodotto dal concorso di più
condizioni, ciascuna però capace da sola di produrre risultato (caso 15). Un ulteriore obiezione fa
riferimento all' ipotesi caratterizzata dal sopraggiungere di una causa successiva idonea da sola a
determinare l'evento: in ipotesi del genere l'evento permarrebbe come conseguenza della prima.

9. SEGUE: CORRETTIVI
Nella prima obiezione si selezionano come antecedenti causali le sole condotte che assumono rilevanza
rispetto alla fattispecie incriminatrice di volta in volta considerata. In ogni caso, l'obiezione relativa
all'eccessiva estensione del concetto di causa non tiene conto della operatività del dolo e della colpa, come
fattori che contribuiscono a circoscrivere l'ambito di rilevanza di tutti i possibili antecedenti del risultato
lesivo. La teoria dell’equivalenza appare perciò eccessivamente rigorosa soprattutto nei casi di cosiddetta
responsabilità oggettiva, dove manca la possibilità di ricorrere al correttivo del dolo della colpa. Nella
seconda obiezione risultano superabili le accennate obiezione mosse sul terreno della causalità addizionale
e della causalità alternativa ipotetica. Dunque, l'evento deve essere considerato come evento concreto; ciò
che importa è che una catena causale sussista tra l'azione dell'autore e questo evento concreto, mentre è
irrilevante la circostanza che potrebbero verificarsi eventi analoghi per effetto di altre causi operanti
all'incirca nel medesimo momento.

10. LA TEORIA CONDIZIONALISTICA ORIENTATA SECONDO IL MODELLO DELLA


“SUSSUNZIONE SOTTO LEGGI SCIENTIFICHE”
Il metodo della eliminazione mentale non funziona ove non si sappia in anticipo se in generale sussistono
rapporti di derivazione tra determinati antecedenti e determinate conseguenti. Proprio riferimento a ciò, si
profilano due possibili modelli alternativi di ricostruzione del rapporto di causalità. Secondo un primo
metodo, definibile individualizzante, l'accertamento del rapporto di causalità si svolge tra accadimenti
singoli e concreti, non importa se unici o riproducibile nel futuro. Il giudice si deve comportare come lo
storico nel ricostruire le vicende e si limita a individuare le connessioni. A favore di un metodo di
spiegazione causale generalizzante militano esigenze di garanzia: la sua determinazione non può essere
affidata alla discrezionalità del giudice, ma deve essere effettuata alla stregua di criteri tendenzialmente
certi ed il più possibile controllabili. È soprattutto in omaggio al principio di tassatività che il criterio della
condicio va inteso in senso generalizzante e non individualizzante. Il giudizio causale deve fornire una
spiegazione adeguata all'evento concreto alla stregua di quello che è il modello della sussunzione sotto
leggi scientifiche. Secondo questo modello un antecedente può essere configurato come condizione
necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quelli antecedenti che, sulla base di una successione
regolare conforme ad una legge dotata di validità, portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in
concreto. Occorrerà in una seconda fase passare da questo piano di causalità generale a quello della
causalità individuale, cioè dimostrando che la legge scientifica trova applicazione anche nel caso oggetto di
giudizio; E che, pertanto, alla strega di essa e consentito fornire tutte le spiegazioni causali dell’evento
concreto. Le leggi scientifiche che spiegano le relazioni tra accadimenti si distinguono in universali e
statistiche punto sono leggi universali quelle in grado di affermare che la verificazione di un evento è
invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento: questo tipo di leggi soddisfino al
massimo livello le esigenze di rigore scientifico e di ser tezza. Le leggi statistiche si limitano invece, ad
affermare che il verificarsi di un evento e accompagnato dal verificarsi di un altro evento soltanto in una
certa percentuale di casi: dalle leggi sono più dotate di validità scientifica e sono suscettibili di trovare
applicazione in un numero sufficientemente alto. Raramente accade che nelle scienze naturali si sia in
grado di spiegare tutte le condizioni necessarie di un evento alla stregua di altrettanti legge scientifiche. La
stessa limitatezza delle conoscenze umane induce ricorrere a una serie di assunzioni tacite. Se ciò è vero, il
giudice finisce con l'essere soggetto a limiti di conoscenza ancora maggiori. Trova certezza che in sede di
accertamento giudiziale della causalità ci si debba accontentare di una misura di certezza inferiore a quella
garantita dall’applicazione di leggi universali. Il giudice sarà soltanto in grado di asserire che è probabile che
la condotta dell’agente costituisca una condizione necessaria dell'evento. A conferire carattere
probabilistico all' accertamento contribuisce alla circostanza che le condizioni causali sottese a fatti
criminosi sono spesso riconducibili solo alla stregua di legge statistiche: esse affermano che la relazione tra
determinati eventi sussiste soltanto in una certa percentuale di casi. Ai fini dell’accertamento giudiziale
della causalità, quindi, non occorre che il giudice disponga di leggi universali, ma è sufficiente che gli faccia
ricorso a leggi statistiche. Ecco allora che è lo specifico punto di vista giuridico-penale ad influenzare la
portata e i limiti del concetto di casualità penalmente rilevante. In tal modo, sono distinte due nozioni: la
probabilità statistica (o frequentista o empirica), e la probabilità logica: queste sono riferibili
rispettivamente alla causalità generale, riferita cioè il tipo di evento, e alla causalità individuale, riferita cioè
il singolo evento concreto. È erroneo pensare di poter risolvere il problema cercando di quantificare una
volta per tutte il livello minimo di probabilità di verificazione dell'evento sufficiente fini del riconoscimento
del nesso causale: la percentuale di probabilità non potrà che variare da caso a caso virgola in ragione della
peculiarità dei fenomeni di volta in volta osservati. È importante segnalare che la teoria condizionalistica,
secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, ha finito col trovare un crescente
accoglimento nella prassi giurisprudenziale dove si segnala in particolare un'importante sentenza delle
sezioni unite. Tale sentenza riguarda uno specifico caso di responsabilità colposa del medico per decesso
del paziente. Ai fini della prova giudiziaria della causalità ciò che conta è poter ragionevolmente confidare
nel fatto che la legge statistica in questione trova applicazione anche nel caso concreto cioè oggetto di
giudizio. Più è elevato il grado di credibilità razionale delle ipotesi di spiegazione causale privilegiata, più è
consentito fare impiego a criteri probabilistici-statistici. Continuano a incombere il rischio che i giudici non
facciano un’applicazione coerente con il rigore metodologico nei casi concreti. Da un lato, sono i limiti stessi
dell’accertamento processuale, l’insufficiente cultura del giudice medio, a ostacolare una verifica della
causalità. Dall’altro, la ricostruzione del nesso causale è sempre finalizzato a un giudizio di responsabilità
penale, ed è inevitabile che in tale ricostruzioni si insinuano giudizi di valore e preoccupazioni relative
necessità e/o meritevolezza di pena in funzione della diversa gravità dei casi singoli.

11. LA TEORIA DELLA CAUSALITA’ ADEGUATA


Questa teoria, sorta sul finire del secolo scorso, si prospetta all'origine, come correttivo alla teoria
condizionalistica nella sfera dei delitti aggravati dall’ evento. L’ esigenza di operare una selezione tra i
diversi antecedenti causali equivalenti, tende a selezionare quelli veramente rilevanti in sede giuridica. Si
consideri il caso 16 del tossicodipendente che muore in seguito all' assunzione di una dose di eroina di per
sé non mortale a causa di una preesistente alterazione organica: tali situazione , astrattamente
riconducibile alla disciplina di cui all'articolo 586, comporterebbe un aggravamento di pena per lo
spacciatore ove l'evento morte gli venisse attribuito come mera conseguenza materiale del delitto di
spaccio di stupefacenti. La teoria dell' adeguatezza tende a selezionare come causali soltanto alcuni
antecedenti : cioè è considerata causa, quella condizione che è tipicamente idonea o adeguata a produrre
l'evento in base ad un criterio di prevedibilità basato su l' id quod plerumque accidit. La connessione azione
vento deve dunque porsi come una connessione di generalizzazione e non deve rappresentare soltanto una
peculiarità del caso concreto. I criteri di accertamento della generale attitudine causale dell'azione sono
costituiti dei giudizi di probabilità che si immettono nella vita pratica. Per evitare la contraddizione di
utilizzare la teoria della condicio come concezione della causalità in diritto penale virgola e di ricorrere ad
una diversa teoria causale per il particolare settore dei reati aggravati dell’ evento , i sostenitori della teoria
della causalità hanno finito col proporla come teoria generale della causalità penalmente rilevante. Quanto
al giudizio di probabilità, si concorda per lo più nel ritenere che esso vada effettuato sulla base delle
circostanze presenti al momento dell’ azione e conoscibili ex ante da un osservatore avveduto. È inoltre da
escludere che siano azioni adeguate rispetto all' omicidio lo spaccio di una dose di per sé non mortale di
eroina ovvero il provocare una lieve ferita: beninteso salvo virgola in questi due casi virgola che la gente sia
rispettivamente a conoscenza delle preesistenti alterazioni organiche del tossicodipendente. Una delle
principali critiche mosse dalla categoria in esame prende spunto virgola non a caso, dalle incapacità di essa
a risolvere casi in cui l'azione criminosa appare ex ante idonea a cagionare l'evento e questo, tuttavia, si
verifica per il sopraggiungere di circostanze del tutto imprevedibili. In altri termini ci si chiede: l'evento
lesivo, quale secondo polo del rapporto causale, va considerato come evento astratto, ovvero come evento
concreto. le vere riserve di fondo virgola che si oppongono all' accoglimento della teoria dell'adeguatezza
come modello di spiegazione causale, si collocano su altri piani. Primo: non è agevole conciliare il requisito
della prevedibilità ex ante dell'evento con l'accertamento della causalità che dovrebbe invece basarsi su
giudizi ex post e di natura rigorosamente oggettiva. Secondo: sul terreno specifico della dottrina generale
del reato, la teoria dell'adeguatezza finisce per includere nell’ ambito della causalità considerazioni che,
invece, appartengono alla sfera della colpevolezza. Terzo: lo stesso concetto di adeguatezza virgola in
quanto fondato sui giudizi di probabilità propri della vita sociale, è inevitabilmente soggetto ad applicazioni
incerte.
12. TEORIE MINORI: LA CAUSALITA’ UMANA
La teoria della causalità è, tra le concezioni causali minori punto la premessa da cui si muove e che possono
considerarsi causati dall’uomo soltanto i risultati che egli può dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e
volitivi. Per l'esistenza del rapporto di causalità nel senso del diritto, dunque, occorrono due elementi: uno
positivo e uno negativo il positivo è che l'uomo con la sua azione abbia posto in essere una condizione
dell'evento virgola e cioè un antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato appunto il
negativo e che risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali. Bisogna porre l'attenzione sul
fattore eccezionale come fattore in grado di interrompere il nesso causale virgola non ci si preoccupa di
precisare a quale elemento l'eccezionalità stessa vada riferita. Il fatto è che l'eccezionalità di un
accadimento non è un dato che si ritrova in natura, ma il risultato di un giudizio che muta al variare
dell'angolo visuale da cui si osservano i fenomeni. Bar rilevato inoltre che la dominabilità del fatto
attraverso i poteri conoscitivi o volitivi dell'uomo, richiama criteri di imputazione che più propriamente
coinvolgono il problema della colpevolezza.

13. LA TEORIA DELL’IMPUTAZIONE OBIETTIVA DELL’EVENTO


La comuna e premessa di partenza si fonda sul rilievo che il nesso causale costituisce presupposto
indispensabile della responsabilità virgola in quanto è ordinariamente in grado di riflettere la potenza
dell'uomo sul fatto : esso comprova quelle più conta per il diritto penale, cioè che l'evento cagionato è
opera della gente punto non sempre, tuttavia, alla sussistenza di un nesso causale in senso condizionali
stico, si accompagna la capacità umana di governare e controllare il decorso eziologico. E evidente, come la
teoria in esame muova da preoccupazioni identiche a quelle che hanno ispirato la teoria della causalità
punti in questo senso, la teoria dell’ imputazione obiettiva costituisce uno sviluppo aggiornato della teoria
della causalità adeguata. Un evento lesivo può essere obiettivamente imputato alla gente, soltanto se esso
realizza il rischio giuridicamente non consentito illecito creato dall’ autore con la sua condotta. Secondo il
punto di vista dell’aumento del rischio l'imputazione obiettiva dell'evento presuppone, oltre al nesso
condizionali stico, violazione in questione abbia di fatto aumentato la probabilità di verificazione
dell'evento annoso. Sarebbero, infatti, giuridicamente vietate soltanto le azioni che vanno al di là del rischio
socialmente consentito e che producono eventi costituenti realizzazioni del rischio vietato: mentre
sarebbero lecite le condotte che non comportano un pericolo disapprovabile o che non aumentano le
chances di verificazione di eventi lesivi. Secondo il punto di vista della norma violata, l' imputazione viene
meno tutte le volte in cui il fatto che si verifica virgola non costituisce concretizzazione dello specifico
rischio che la norma in questione tende a prevenire. Concludendo: la teoria dell' imputazione come fino ad
oggi elaborata virgola non si è ancora tradotta in formulazioni rigorose e convincenti punto la teoria dell’
aumento del rischio sembra destinata a mantenere o guadagnare terreno in tutti quei settori della
responsabilità penale in cui la prova del nesso causale è altamente problematica punto e proprio con
riferimento ai problemi di imputazione dell'evento in settori nevralgici come questi ora accennati virgola
che è una ulteriore elaborazione teorica dei presupposti logici e metodologici delle spiegazioni in chiave
probabilistica potrebbe dare buoni frutti.
14. CONCAUSE
Il nostro legislatore, ha dedicato un'apposita norma cioè l'articolo 41 al fenomeno delle concause; O, come
più correttamente dovrebbe dirsi, al fenomeno del concorso di più condizioni nella produzione di uno
stesso evento come stabilisce il primo comma dell'articolo 41 stabilisce in proposito che il concorso di cause
preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole
virgola non esclude il rapporto di causalità tra l'azione e l'evento. Più problematica sembra la disposizione
del secondo comma dell'articolo 41, dove si afferma che le cause sopravvenute da sole sufficienti a
produrre l'evento escludono il rapporto di causalità. In base al principio della conservazione delle norme, si
impone dunque una diversa interpretazione: e cioè, la disposizione in parola deve essere intesa come
norma che tende a temperare gli eccessi punitivi derivanti da una rigorosa applicazione del criterio
condizionalistico. Il caso 17 nel quale è da ritenere che il rapporto causale non si è interrotto ma permanga:
qui è vero che l'evento morte è direttamente dovuto ad una causa sopravvenuta, ma non si può nel
contempo affermare che ci si trovi davanti ad una vera ipotesi di interruzione del nesso causale penalmente
rilevante.

CAPITOLO 2: ANTIGIURIDICITA’ E SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE

1. PREMESSA
L' antigiuridicità viene meno se una norma diversa da quella incriminatrice, e desumibile dall’ intero
ordinamento giuridico, facoltizza o impone quel medesimo fatto che costituirebbe reato: si definiscono
cause di esclusione dell' antigiuridicità o cause di giustificazione quelle situazioni normativamente previste,
in presenza delle quali appunto, viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad una fattispecie
incriminatrice e l'intero ordinamento giuridico. Verranno esaminate in particolare le cause di giustificazione
prevedute dagli articoli 50 e seguenti del codice penale virgola in quanto si tratta di esimenti riportata
generalissima, come tali applicabili a quasi tutti i reati.

2. FONDAMENTO SOSTANZIALE E SISTEMATICA DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE


La dottrina penalistica si è da tempo sforzata di elaborare i principi generali che presiedono alle cause di
giustificazione virgola in ciò sollecitata dal duplice intento di rinvenire il fondamento sostanziale e di dare
adeguata sistemazione concettuale alla materia appunto bisogna individuare il fondamento delle
scriminanti che può essere utile nell’ interpretazione punto per altro verso, la conoscenza della ratio loro
sottesa si rivela indispensabile ai fini di un applicazione analogica delle esimenti. Proprio per spiegare il
fondamento sostanziale delle cause di giustificazione, la dottrina adotta un modello esplicativo ora di tipo
monistico, ora di tipo pluralistico. Tra i criteri solitamente più invocati, rientrano i due principi dell’interesse
prevalente e dell'interesse mancante: il primo spiega le scriminanti dell’esercizio del diritto, dell'
adempimento del dovere , della difesa legittima e dell’uso legittimo delle armi; Il secondo spiega, invece, le
altre due scriminanti generali del consenso dell'avente diritto e dello Stato di necessità.
3. DISCIPLINA DELLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE
Il nostro ordinamento penale sottopone le cause di giustificazione ad alcune regole comune previste dagli
articoli 55 e 59 del codice. L'articolo 59, comma primo stabilisce che le circostanze che escludono la pena
non valutate a favore della gente, anche se da lui non riconosciute o da lui per errore ritenute inesistenti.
Ad esempio lo stato di costrizione virgola che la legge menziona nella difesa legittima o nello stato di
necessità, andrebbe nonostante qualche contraria apparenza, interpretato come condizione obiettiva
accertabile da un osservatore esterno. Non è da escludere che la struttura particolare delle singole
scriminanti possa rendere inevitabile la presa in considerazione di eventuali coefficienti soggettivi:
individuare quando ciò avvenga e compito affidato al l'interprete. Ci sono alcuni casi nei quali la legge fa
dipendere la configurabilità della causa di giustificazione dalla presenza di stati psicologici, sono perlopiù
individuabili nell ambito delle scriminanti speciali. L'ultimo comma dell'articolo 59 stabilisce che, se l'agente
ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore
di lui punto il nostro codice attribuisce, dunque, l' irrilevanza alla figura delle scriminanti putative, così
equiparando la situazione di chi agisce effettivamente in presenza di una causa di giustificazione a quella di
chi confida erroneamente nella sua esistenza appunto va precisato che l'errore deve, per spiegare efficacia
scusante, investire: i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione stessa, ovvero una norma
extrapenale integratrice di un elemento normativo della ma ti specie giustificante. È da escludere la
rilevanza di un errore di diritto, sfociante nell’erronea convinzione che la situazione nella quale la gente si
trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante. La regola,
secondo cui l'erronea supposizione di una causa di giustificazione fa venir meno la punibilità, costituisce a
ben vedere il frutto di una estensione alle scriminanti della disciplina generale dell’errore di fatto e
enunciata nell’articolo 47. Sempre a norma dell'articolo 59, ultimo comma, se l'errore sulla presenza di una
scriminante è dovuto a colpa della gente, la punibilità non è esclusa appunto la disciplina in esame è la
stessa dell’articolo 47 comma primo: come l'erronea supposizione che manchino uno più elementi
costitutivi di un reato quando è dovuto a colpa ad una responsabilità per delitto colposo, lo stesso accade
nel caso dell'erronea credenza che sussistano situazioni scriminanti. A norma dell'articolo 55 quando, nel
commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51,50 2,53 e 54, si eccedono colposamente i limiti
stabiliti dalla legge o dall' ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. La disposizione citata si
riferisce alla figura dell' eccesso colposo, la quale ricorre allorché sussistono i presupposti di fatto di una
causa di giustificazione, ma la gente per colpa ne travalica i limiti punto la situazione di eccesso colposo si
distingue da quella di erronea opposizione di una scriminante, che abbiamo prima esaminato: mentre in
questa la causa di giustificazione non esiste nella realtà ma soltanto nella mente di chi agisce, nel caso ora
in esame la scriminante di fatto esiste . Parte della dottrina distingue esattamente due forme di eccesso
colposo: il primo sia quando si cagiona un determinato risultato volutamente, perché si valuta
erroneamente la situazione di fatto; Il secondo si verifica quando la situazione di fatto e valutate
esattamente, ma per un errore esecutivo si produce un evento più grave di quello che sarebbe stato
necessario cagionare. Si è fuori dai limiti dell’eccesso colposo se la gente, essendo ben a conoscenza della
situazione concreta e dei mezzi necessari al raggiungimento dell'obiettivo consentito, superi
volontariamente i limiti dell'agire scriminato: ad esempio tizio, pur rendendosi conto che basterebbero
delle semplici per coste a fare desistere un assalitore disarmato, lo ferisce con un coltello per provocargli
uno sfregio duraturo. In questo caso l eccesso si riferisce non già ai mezzi, ma gli stessi fini dell’agire: la
volontà e cioè diretta non alla realizzazione dell'obiettivo consentito, ma di un fine criminoso, onde l'
eccesso e doloso il soggetto deve rispondere del reato commesso a titolo di dolo. Parte della dottrina e la
giurisprudenza ritengono che sia applicabile anche l'ipotesi di scriminante putativa ovvero quando l'eccesso
si riferisca ad una causa di giustificazione.

4. CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO


Caso 18: Tizio si impossessa di alcuni oggetti altrui, desumendo il consenso dell'avente diritto dal rapporto
di amicizia e familiarità che lo Lega al proprietario dell'appartamento dal quale gli oggetti stessi vengono
sottratti.

Caso 19: ad un cittadino americano viene trapiantata una ghiandola sessuale offertagli, dietro pagamento,
da uno studente napoletano: e punibile il chirurgo che ha effettuato l'operazione di trapianto?

L'articolo 50 stabilisce che non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, con il consenso della
persona che può validamente disporne. Si tratta della scriminante ispirata al tradizionale principio volenti
et consentienti non fit iniuria, è evidente che questo è il fondamento. Dalla specifica sfera di operatività
della causa di giustificazione in esame, e sull’ anno le ipotesi nelle quali il consenso costituisce un elemento,
la cui presenza può venir meno lo stesso fatto tipico. Un discorso analogo vale ad esempio per il rispetto ai
reati di violenza privata o violenza sessuale, i cui corrispondenti fatti tipici presuppongono un’azione
realizzata contro la volontà del soggetto passivo appunto lo specifico ambito di operatività dell'articolo 50,
come norma che introduce una causa di liceità, va per contro circoscritto alle ipotesi nelle quali il giudice
accerta un fatto tipico al completamento dei suoi elementi. Quanto alla qualificazione tecnica, il consenso
non ha natura di negozio giuridico né di diritto privato, né di diritto pubblico: conformemente all' opinione
oggi dominante, esso va qualificato come un semplice atto giuridico. Quando, il consenso è sempre
revocabile, a meno che l'attività consentita, per le sue stesse caratteristiche virgola non possa essere
interrotta se nonna ad avvenuto esaurimento. Il consenso deve essere libero ovvero spontaneo: esso cioè
deve essere immune da violenza, errore o dolo. Data la sua natura non negoziale, la relativa validità
prescindere dai requisiti di forma punto può anche essere desunto dal comportamento oggettivamente
univoco dell'avente diritto purché sussista al momento del fatto. il consenso e putativo se il soggetto
agisce nella erronea supposizione della sua esistenza articolo 59, comma 4: ma la sua efficacia scriminante
viene meno Hope debba escludersi virgola in base alle circostanze del caso concreto, la ragionevole
persuasione di operare con l' assenso della persona che può validamente disporre del diritto punto il
consenso dell' offeso e presunto quando si può fondatamente ritenere che il titolare del bene lo avrebbe
concesso se fosse stato a conoscenza della situazione di fatto punto in applicazione di queste premesse,
l'articolo 50 sarebbe inapplicabile in un'ipotesi come quella esemplificata nel caso 18: dall' esistenza di
pregressi rapporti di familiarità e amicizia tra agente e offeso non potrebbe desumersi l'esistenza , benché
putativa virgola di un consenso in atto. La legittimazione a prestare il consenso spetta al titolare del bene
punto può in secondo luogo spettare al rappresentante legale o volontario punto il soggetto legittimato a
consentire deve possedere la capacità di agire. Peraltro in alcuni casi è lo stesso legislatore a fissare un età
minima ad esempio 14 anni in materia di corruzione di minorenne punto la maggiore età, oggi fissata al
compimento del diciottesimo anno, è invece necessaria per poter validamente consentire alla lesione di
diritti patrimoniali. Lo stesso articolo 50 circoscrive la sfera di operatività della scriminante in esame ai casi
in cui il consenso abbia oggetto diritti disponibili. L'interesse della repressione, infatti viene meno soltanto
se il consenso ha ad oggetto la lesione di beni di pertinenza esclusiva del privato o di chi non è titolare.
L'articolo 50 non precisa però quali siano i diritti disponibili, il compito di individuarli non può che spettare
al l'interprete, il quale deve ricavarli dall’ intero ordinamento giuridico. comunemente virgola si ritengono
disponibili beni che non prestano un’immediata utilità sociale e che lo stato riconosce esclusivamente per
garantire al singolo il libero godimento . Nel caso 18 relativo all' impossessamento di oggetti altrui, essendo
la fattispecie di furto finalizzata alla protezione di interessi tipicamente patrimoniali la scriminazione ha
appunto la natura degli interessi tutelati. Di solito vengono condotti all'area dei diritti disponibili anche gli
attributi della personalità. Rispetto al bene dell’ integrità fisica e opinione dominante che è la portata del
consenso scriminante vada determinata innanzitutto assumendo come parametro di riferimento l'articolo 5
codice civile: secondo il quale gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente dell'integrità fisica ; Ovvero, siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine
pubblico o al buon costume una simile conclusione discende da una lettura aggiornata della stessa ratio
dell'articolo 5. Sempre in applicazione dei criteri desumibili da questo articolo è quantomeno dubbio invece
che possano ritenersi ammissibili i trapianti di ghiandole sessuali: e ad esempio l'ipotesi di cui al caso 19,
che ha dato luogo ad una pronuncia favorevole della Suprema Corte. Indisponibili comunemente si
considerano, invece, tutti gli interessi che fanno capo allo stato, agli enti pubblici e alla famiglia. Tra i beni
indisponibili va, indubbiamente annoverato il bene della vita, come si desume dagli articoli 579 e 580 che
incriminano l'omicidio del consenziente e l'istigazione al suicidio.

5. ESERCIZIO DI UN DIRITTO
Caso 22: una nota giornalista pubblica un libro di inchiesta contenente addebito obiettivamente diffamatori
a carico di un presidente della Repubblica e dei suoi familiari, accusati di strumentalizzare l'altissima carica
per conseguire i vantaggi illeciti di varia natura: si configura il reato di diffamazione?

Caso 21: alcuni lavoratori in sciopero, tenendosi a braccetto e formando un cordone attorno a un loro
colleghi intenzionato a recarsi al lavoro, gli impediscono di entrare in fabbrica: si configura il reato di
violenza privata?

A norma dell'articolo 51 del codice penale, l'esercizio di un diritto esclude la punibilità. La ragione
giustificatrice della scriminante verrà avvisata nella prevalenza dell’interesse di chi agisce esercitando un
diritto rispetto agli interessi eventualmente confliggenti. Invece, la ragion d'essere della non punibilità
riposa sull’esigenza di rispettare il principio di non contraddizione all'interno di uno stesso ordinamento
giuridico. Ai fini dell'articolo 51, il concetto di diritto va inteso nell’accezione più ampia: cioè, come potere
giuridico di agire. Non rientro nella nozione degli interessi legittimi i cosiddetti interessi semplici, perché
strutturalmente non suscettibili di esercizio. La fonte del diritto può essere assai varia: legge in senso
stretto cioè ordinaria o costituzionale, regolamento, atto amministrativo, provvedimento giurisdizionale,
contratto di diritto privato, consuetudine. L'applicabilità dell'articolo 51 presuppone già soltanto
l'apparente conflitto tra la norma autorizzativa e la norma incriminatrice a favore della prima. Il criterio
invocabili al fine di stabilire se la norma attributiva del diritto limite ossia, per contro, limitata dalla norma
penale, sono essenzialmente 3: gerarchico, cronologico, di specialità. Non basta vantare in astratto un
diritto ma è necessario che l'attività realizzata costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà
inerente al diritto in questione. Connessa alla problematica dell'abuso è la questione inerente ai limiti cui il
diritto e il relativo esercizio vanno incontro, in conseguenza della necessità di salvaguardare altri diritti
ugualmente meritevoli di protezione. I limiti si distinguono in: interni, desumibili dalla natura e dal
fondamento del diritto esercitato ed esterni, ricavati dal complesso delle norme di cui fa parte la norma
attributiva del diritto. In particolare, riguardo ai diritti previsti da una legge ordinaria, i relativi limiti si
desumono sia dalla fonte dalla quale il diritto promana, sia dal complesso delle leggi contenute nell’intero
ordinamento. Se si tratta invece di diritti riconosciuti a livello costituzionale, il principio della gerarchia delle
fonti impedisce di ricavare limiti al loro esercizio da norme di rango inferiore. Se i limiti sono opponibili
all'esercizio di diritti costituzionali, questi non possono che essere ricavati dallo stesso ordinamento
costituzionale. Ipotesi particolarmente significative di esercizio di diritto sono: A) diritto di cronaca
giornalistica: l'attività informatica svolta dagli organi di stampa si traduce nell’esposizione di fatti lesivi
dell'onore e della reputazione di terze persone. La giurisprudenza riconosce che il diritto di cronaca
costituisce estrinsecazione del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, per cui si ritiene
ammissibile il ricorso alla scriminante. Solo che il diritto di cronaca non può essere esercitato
illimitatamente perché il bene è contrapposto (cioè l'onore) è anch'esso dotato di rango costituzionale; da
qui l'esigenza di bilanciare gli interessi costituzionali confliggenti e le relative conseguenze. B) diritto di
sciopero: si sostiene che l'esercizio del diritto di sciopero incontra limite di duplice natura: interni,
desumibili dalla natura e della ratio del diritto in questione; e limiti esterni, derivanti dall' esigenza di
tutelare altri diritti costituzionalmente rilevanti che con quello di sciopero entrano eventualmente in
conflitto (caso 21). C) Ius corrigendi: è il diritto dei genitori esercenti le parentele potestà di educare i figli,
il cui esercizio talora può sfociare infatti corrispondenti a fattispecie di reato. Tale paradigma soggiace a
limiti: è difficile individuare con certezza l'aria scriminante del diritto di correzione, stante la mutevolezza
storica dei canoni di giudizio. Nell'attuale momento storico la sfera degli interventi correttivi ritenuti leciti
va restringendosi in conseguenza dell'accresciuta sensibilità per la tutela della personalità e dell’autonomia
degli stessi minori. D) offendicula: la causa di giustificazione in esame viene invocata per giustificare
l'efficacia esimente del ricorso ai cosiddetti offendicula, cioè quei mezzi di tutela della proprietà il cui
impiego provoca talora offese ai terzi: l'efficacia scriminante viene subordinata all'esistenza di un rapporto
di proporzione tra mezzo usato e bene da difendere.

6. ADEMPIMENTO DI UN DOVERE
Caso 22: il trasportatore ed il titolare di un deposito di carburante commettono una contravvenzione
relativa allo svolgimento della loro attività a seguito di ordini impartiti da parte del legale rappresentante
della compagnia petrolifera.

Caso 23: l'ufficiale cassiere di una capitaneria di porto compie operazioni contabili manifestamente illecite,
integranti reati di peculato e falso ideologico, per ordine del comandante della Capitaneria.

L'articolo 51 stabilisce che l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine
legittimo della pubblica autorità escluda la punibilità. La ratio della scriminante va individuata nell’esigenza
di rispettare il principio di non contraddizione all'interno di uno stesso ordinamento giuridico. Quanto alla
fonte, il dovere può scaturire o da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità; si
traggono due ipotesi: a) dovere imposto da una norma giuridica. Tipici esempi sono quelli del poliziotto che
esegue un arresto, dell'ufficiale giudiziario che procede a un pignoramento. Nulla quaestio nell’ipotesi in cui
l'obbligo di agire derivi da una legge o di un atto normativo equiparato. Il problema può sorgere per i doveri
di agire che trovano la loro fonte nei regolamenti, ove si ritenga che la riserva assoluta di legge debba
estendersi anche alle cause di giustificazione. Dunque, per norma giuridica si intende qualsiasi precetto
giuridico, non importa se esaminato dal potere legislativo o da quello esecutivo. In conformità all'articolo
10 costituzione il dovere scriminante potrà trovare la sua fonte anche in un ordinamento straniero, purché
il diritto internazionale esiga che tale dovere sia riconosciuto come valido anche dallo stato italiano.
b) dovere imposto da ordine dell'autorità; l'ordine consiste in una manifestazione di volontà che un
superiore rivolge a un subordinato, in vista del compimento di una data condotta. È necessario che tra il
superiore e l'inferiore intercorra un rapporto di subordinazione di diritto pubblico: non scrimina
all'adempimento di ordini che si inquadrano all'interno di rapporti di subordinazione regolati dal diritto
privato.

Quanto ai limiti del concetto di pubblica autorità, quale fonte dell'ordine, si oscilla tra un’interpretazione
restrittiva che vi ricomprende i soli pubblici ufficiali, e un'interpretazione più estensiva, che include gli
incaricati di pubblici servizi legati da un rapporto di supremazia, o soggetti esercenti servizi di pubblica
necessità. Ai fini della non punibilità, non basta l'esigenza di un ordine ma occorre che questi sia
legittimato. Bisogna distinguere tra presupposti formali e presupposti sostanziali di legittimità. I primi si
riferiscono alla competenza del superiore ad emanare l'ordine, alla competenza dell'inferiore ad eseguirlo e
alla forma prescritta; i secondi attengono all'esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l'emanazione
dell'ordine. Il subordinato ha il potere di sindacare la legittimità dell'ordine. L'articolo 51 esclude la
punibilità dell'esecutore in un ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla
legittimità dell'ordine medesimo; Al di fuori da queste ipotesi espressamente eccettuata, la sindacabilità del
carattere legittimato dell'ordine è la regola. Questo principio vale particolarmente nell'ambito degli
ordinamenti democratici dove vige l'esigenza di sottoporre a un controllo di legalità l'azione dei pubblici
poteri in ciascun individuo l'auto responsabilità. Questa ampiezza del potere di sindacato presuppone che
al subordinato l'ordinamento attribuisca un ruolo non meramente esecutivo, ma caratterizzato
dall’esercizio di un potere di valutazione autonoma. Per verificare il limite del potere di sindacato
dell'inferiore occorrerà considerare sia la natura dell’ordine che viene in questione, sia il tipo di rapporto
che intercorre tra il subordinato il superiore: quanto più aumenta la subordinazione gerarchica, altrettanto
diminuisce il potere del subordinato di sindacare la legittimità sostanziale dell'ordine. Laddove il controllo
di legittimità non venga effettuato dai subordinati legittimati a farlo, la regola è che anche loro rispondono
penalmente dell'eventuale reato commesso in esecuzione dell'ordine legittimo. La regola, secondo la quale
risponde anche l'esecutore dell'ordine legittimo, patisce due eccezioni: l'esecutore cioè è esentato da
responsabilità se per errore di fatto, ha ritenuto di obbedire a un ordine legittimo (costituisce
un'applicazione al caso di specie dei principi generali in tema di errore di fatto cioè deve farsi rientrare
anche l'errore su legge extrapenale), oppure se la legge non gli consente alcun sindacato della legittimità
dell'ordine (si riferisce ai rapporti di subordinazione di natura militare o assimilabile, cioè acque rapporti
caratterizzati dal fatto che la legge impone all' inferiore la più stretta e pronta obbedienza). Insindacabilità
di dagli ordini vincolanti e in ogni caso soltanto relativa, nel senso che riguarda la loro legittimità sostanziale
punto è invece sempre sindacabile la legalità esteriore dell'ordine. La punibilità dell'esecutore viene meno
per ragioni di fondo che più propriamente attengono al piano della colpevolezza: l'esecutore vincolato a
un’obbedienza pronta non ha, infatti, quella normale libertà di autodeterminazione necessaria per esigere
un comportamento diverso conforme al diritto. Sia la dottrina che la giurisprudenza concordano oggi
nell’ammettere che vi è un limite all' impossibilità di sindacare la legittimità sostanziale dell’ordine da parte
dello stesso inferiore vincolato alla più pronta obbedienza: tale limite viene individuato nella manifesta
criminosità dell'ordine medesimo.

7. LEGITTIMA DIFESA
Caso 24: il proprietario di un fondo, avendo sorpreso un ladro a rubare alcune piante di cavolfiore, esplode
in aria un colpo di fucile a scopo intimidatorio. Il ladro quindi si dà alla fuga e, dopo un tratto di circa 50 m,
abbandona la refurtiva costituita da tre piante di cavolfiori. Ciononostante il derubato, sempre armato di
fucile, muove all'inseguimento del ladro per raggiungerlo ed eventualmente arrestarlo: venutosi a trovare a
circa 10 m di distanza dal fuggiasco, tenta di esplodergli contro un colpo di fucile; Il ladro vistosi a sua volta
aggredito, estrae la pistola che porta addosso e ferisce il proprietario in seguitore.

Caso 25: una sera d'inverno, poco prima della chiusura dei negozi, un popolare calciatore della squadra
della Lazio inscena uno scherzo, poi rilevato si è tragico: entrati in una gioielleria col bavero alzato e le mani
in tasca come per impugnare una pistola, con l'espressione tesa e dura intima presenti “fermi tutti, questa
è una rapina”. Il gioiellere impugna prontamente la pistola e uccide il presunto rapinatore.

L'articolo 52, primo comma del codice stabilisce: “non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato
costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all' offesa”. La legittima difesa rappresenta un residuo di
autotutela che lo stato concede al cittadino: il fondamento è oggi quasi unanimemente ravvisato nella
prevalenza attribuita all' interesse di chi sia ingiustamente aggredito rispetto all' interesse di chi si è posto
fuori dalla legge. La struttura della legittima difesa ruota attorno a due comportamenti che si
contrappongono: una condotta aggressiva e una condotta difensiva. La minaccia deve provenire da una
condotta umana. Può scaturire anche da animali o cose, soltanto se individuabile un soggetto tenuto ad
esercitare su di esso una vigilanza. Il pericolo di offesa può anche provenire da una condotta omissiva: ad
esempio il rifiuto del proprietario di richiamare il cane mastino che sta aggredendo un bambino integra
un’omissione e ciò giustifica il padre che impugna un'arma per costringere il proprietario medesimo a far
allontanare l'animale. L'aggressione giustifica la reazione difensiva anche se l'aggressore sia un soggetto
immune o non imputabile: il che si spiega considerando che l'antigiuridicità della condotta rileva in termini
puramente oggettivi: cioè è sufficiente che l'aggressore ponga in essere un comportamento contrastante
con l'ordinamento giuridico considerato nel suo complesso, anche se la specifica illeceità penale viene
meno per difetto di requisiti di natura soggettiva. L'attacco deve avere ad oggetto un diritto altrui: cioè
qualsiasi interesse giuridicamente tutelato. Il termine generico di diritto deduce la facoltà di difesa
esercitabile per la salvaguardia di tutti i beni indistintamente, inclusi i diritti patrimoniali. Presupposto
fondamentale della difesa legittima è che l'aggressione provochi un pericolo attuale di difesa : non si deve
trattare né di un pericolo corso, né di un pericolo futuro. Occorre, dunque, uno minaccia di lesione in
compente al momento del fatto. Nella nozione di pericolo attuale deve farsi rientrare anche il pericolo
perdurante: si riscontra non solo nei reati permanenti, ma anche in quei casi nei quali, non essendosi del
tutto esaurita l'offesa, non sia ancora completato il trapasso della situazione di pericolo a quella di danno
effettivo. La giurisprudenza e parte della dottrina inclinano a ritenere che la scriminante in esame non sia
invocabile se la situazione di pericolo è volontariamente cagionata dal soggetto che reagisce: in tal caso
verrebbe infatti meno o il requisito della necessità della difesa o quello dell'ingiustizia dell'offesa. La
ragione che induce ad escludere l'applicabilità della legittima difesa nei casi di sfida fatta ed attuata è, in
verità, desumibile dalla stessa ratio sottesa alla scriminante: i soggetti non si trovano nella medesima
situazione di chi non può invocare tempestivamente il soccorso delle autorità, per la semplice ragione che
concorrono a creare un pericolo che sarebbe stato il loro potere non fare sorgere. D'altraparte la stessa
giurisprudenza finisce con l'ammettere la sua operatività in taluni casi particolari di pericolo
volontariamente cagionato da chi reagisce: precisamente, quando la reazione della vittima della
provocazione risulti assolutamente imprevedibile e del tutto sproporzionata. Il concetto di offesa ingiusta
riguarda l'offesa provocata contra jus, cioè offesa antigiuridica, arrecata in violazione delle norme che
tutelano l'interesse minacciato. In realtà, l’estremo dell'antigiuridicità è già implicito nel concetto di offesa
ad un diritto a un interesse protetto ma è preferibile accedere ad un'interpretazione diversa dove il
riferimento all'ingiustizia dell’offesa sta a significare che l'aggressione, oltre a minacciare un diritto altrui,
non deve essere espressamente facoltizzata dall’ordinamento. Dunque, non può invocare la legittima difesa
chi pretende di reagire contro una persona, la quale agisca, sua volta, nell’esercizio di una facoltà legittima
espressamente stabilito dall' ordinamento, o nell’adempimento di un dovere. La difesa deve apparire
necessaria per salvaguardare il bene posto in pericolo: l'aggredito, di fronte all'alternativa tra reagire
subire, non puoi evitare il pericolo se non reagendo contro l'aggressione. Il giudizio di necessità-inevitabilità
non è assoluto, ma relativo perché si deve tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto; È
comprensibile come una stessa reazione, mentre può risultare giustificata per individuo debole, può invece
non apparire più tale per una persona fisicamente robusta ovvero in presenza di diverse condizioni. Si
discute se la legittima difesa esuli dove l'aggredito possa mettersi in salvo con la fuga. Opinione diffusa
distingue tra fuga e commodus discessusin questo senso si sarebbe tenuto a fuggire solo quando le
modalità della ritirata siano tali da non far apparire vile il soggetto aggredito; Nel caso contrario
l'aggressore dovrebbe tollerare tutte le conseguenze della sua condotta illecita appunto il nodo dei rapporti
tra reazione fuga va sciolto tenendo conto del principio del bilanciamento degli interessi: il soggetto non è
tenuta a fuggire in tutti quei casi, nei quali la fuga e esporrebbe bene i suoi personali o di terzi a rischi
maggiori di quelli incombenti sui beni propri del soggetto contro il quale si reagisce. Problemi più complessi
e delicati sorgono al momento del determinare il significato e limiti del secondo requisito necessario perché
la reazione possa apparire giustificata: cioè quello della proporzione tra difesa e offesa. La tesi della
proporzione riferita ai mezzi va incontro ad obiezione difficilmente superabili: l'articolo 52 richiede che il
requisito in esame intercorre tra la difesa, da un lato e l'offesa, dall’altro. L'espressione offesa indica
sempre nell’uso legislativo, la lesione o la messa in pericolo dell'interesse protetto. Ancora, si dovrebbe
giungere alla conclusione che la difesa di un bene meramente patrimoniale possa giustificare anche la
lesione di un bene personale come la vita o l'integrità fisica. Non è consentito aggredire la vita altrui per
difendere diritti di natura meramente patrimoniale o, comunque, gerarchicamente inferiori alla vita
all'integrità fisica della persona. È da cogliere l'orientamento che assume a termine del giudizio di
proporzione il rapporto di valore tra i beni o interessi in conflitto: occorre operare un bilanciamento tra il
bene minacciato e il bene leso, con la conseguenza che all' aggredito che si difende non è consentito di
ledere un bene dell’aggressione marcatamente superiore a quello posto in pericolo dall’iniziale aggressione
illecita. Il raffronto tra i beni in conflitto va operato secondo il rispettivo grado di messa in pericolo di
lesione cui sono esposte gli interessi dinamicamente confliggenti nella situazione concreta. Se il conflitto
intercorre tra beni omogenei si dovrà porre a raffronto il rispettivo grado di lesività dell’azione aggressiva e
dell azione difensiva; se parliamo di beni eterogenei dovrà farsi ricorso all' ausilio di indicatori diversi, quali
l'eventuale rilevanza costituzionale del bene, la valutazione offerta dal legislatore penale attraverso l'entità
delle sanzioni previste nel caso di sua violazione, la valutazione di norme extra penali. La disciplina
codicistica della legittima difesa è stata innovata con la legge 13 Febbraio 2006, numero 59, la quale ha
aggiunto all'articolo 52 io nuovi commi destinata appositamente a regolamentare l'esercizio del diritto
all'autotutela un privato domicilio: lo scopo perseguito dal legislatore tende ad ampliare presupposti di
difesa legittima nei casi in cui l'aggressore sorprende l'aggredito in casa ho altro luogo chiuso assimilabile.
L'aspetto di maggiore novità consiste nella modifica di disciplina del requisito della proporzione: si tratta di
una riforma che ha suscitato reazioni fortemente contrastanti anche all'interno della dottrina penalistica. Vi
è rischio che la riforma veicola il messaggio fuorviante che l'ordinamento concede d'ora in avanti licenza di
uccidere ladri e rapinatori che si introducono nelle abitazioni o nei negozi. Anche a prescindere dagli
obiettivi politico criminali presi di mira, la modifica legislativa risulta fallimentare sotto il profilo della
tecnica normativa: piuttosto che riuscire ad indicare in modo preciso e univoco come possa legittimamente
reagire il padrone di casa o di negozio minacciato dal ladro da un rapinatore, il testo infine approvato dal
legislatore risulta così mal congegnato, che ogni sua possibile interpretazione si espone a diverse critiche. Il
nuovo comma dell'articolo 52 precisamente stabilisce: nei casi previsti dall' articolo 614, primo e secondo
comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno
legittimamente presente in uno dei luoghi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo
idoneo al fine di difendere: la propria e altrui incolumità e beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e
vi è pericolo di aggressione. Il nuovo terzo comma aggiunge: la disposizione di cui al secondo comma si
applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata
un'attività professionale, commerciale o imprenditoriale. Dall' esame emerge la necessità di difendersi.
Oltre alla presunzione di proporzione, ulteriori elementi di novità sono costituiti dallo specifico contesto
situazionale in cui l'aggredito viene sorpreso, dalle condizioni concomitanti che devono essere presenti
perché la reazione all' armata risulti legittima e dunque scriminata. Quanto al contesto, occorre la necessità
di una violazione di domicilio: si deve cioè trattare o di un estraneo che si introduce arbitrariamente
nell’abitazione altrui. Non basta una situazione oggettiva di pericolo attuale di offesa ingiusta, ma occorre
che l'aggredito si rappresenti soggettivamente tale situazione e che reagisca animato da un animus
difendenti suscettibile di autonoma certamente giudiziale. La difesa deve avere ad oggetto la propria e
altrui incolumità. Se così è, esiste un rapporto di omogeneità qualitativa tra i beni personali che l’aggredito
difende, e i beni che gli lede mediante l'uso delle armi e danni dell'aggressore. Stando al tenore letterale e
lo spirito dell’innovazione legislativa il giudice non deve verificare approfonditamente la congruità tra i
mezzi offensivi e quelli difensivi ma l'uso dell'arma dovrebbe risultare scriminato anche in quelle situazioni
nelle quali, per respingere l'aggressione, sarebbe stato a rigore sufficiente una reazione non armata o,
comunque, meno lesiva.

Tuttoggi è considerabile davvero necessaria soltanto quella condotta difensiva non sostituibile con una
meno lesiva. La proposta di un simile collettivo ermeneutico è plausibile. Secondo alcuni autori il criterio
della proporzionalità è deducibile piuttosto che dall' interpretazione del requisito di necessità di difendersi
in sé considerato, da un coerente sviluppo delle implicazioni ermeneutiche dello stesso concetto di
proporzione. Si considera presuntivamente proporzionato l'uso di un'arma, o di un altro mezzo di reazione
violenta, finalizzato allo scopo di difendere i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza di aggressione.
La legittimità dell’impiego dell'arma è subordinata alla presenza di due requisiti ulteriori rispetto alla
minaccia dell’aggressione al patrimonio: occorre, per un verso, che l'intruso aggressore non desista; e, per
altro verso, che sussiste un pericolo di aggressione. Il significato delle due condizioni suddette assume
rilievo decisivo per stabilire l'effettiva portata della nuova disciplina normativa. La desistenza viene vista in
termini di onere ed intimidazione o avvertimento rivolto dall’aggredito all'aggressore: si intende sostenere
che il padrone di casa, prima di poter legittimamente usare mezzi difensivi violenti nei confronti della due
intruso, dovrebbe intimargli di desistere punto e solo se questi insisterà virgola e se dimostrerà pericoloso,
potrà far uso dell’arma o di un altro attrezzo incisivo. Purché una reazione difensiva violenta risulti
scriminata, occorrerà presenza di un pericolo incombente di aggressione ai beni personali del soggetto che
li difende. La presunzione legislativa di proporzione finisce così con riferirsi solo al rapporto tra la rispettiva
entità dei pregiudizi arrecati ai beni oggetto di difesa e di offesa. Se la difesa armata sia azionata da un
soggetto che possiede l'arma senza un valido titolo di legittimazione, se verrà meno la presunzione di
proporzione, sarà pur sempre applicabile la scriminante tradizionale della legittima difesa, fatta salva la
configurabilità di illeciti penali relativi alla illegittima detenzione dell'arma medesima.

8. USO LEGITTIMO DELLE ARMI


Caso 26: un commando di terroristi, appartenente a “comitati autonomi “, lancia alcune bottiglie molotov
contro due ingressi laterali del ministero della giustizia, in segno di protesta contro una sentenza di
condanna emessa a carico di un simpatizzante della loro organizzazione: compiuto l'attentato, i componenti
del commando fuggono precipitosamente, e sparpagliandosi in gruppetti per le strade adiacenti. Due agenti
di polizia di servizio al ministero si danno gli inseguimenti e una di testi, approssimandosi a uno dei
terroristi fuggiaschi, gli esplode contro un colpo di pistola, uccidendolo.

La scriminante dell’uso legittimo delle armi è stata configurata come causa di giustificazione autonoma
soltanto dal legislatore nel 1930. La ragione dell’innovazione legislativa è da ravvisare nell’intento del
legislatore fascista di sottolineare la prevalenza del potere di coercizione statuale nelle situazioni che
pongono in conflitto i cittadini all'autorità. Da qui la necessità di interpretare la causa di giustificazione in
esame in modo restrittivo, cioè conforme ai principi che caratterizzano il nuovo ordinamento democratico.
Dall’articolo 53 si desume che la causa di giustificazione dell'uso legittimo delle armi ha natura sussidiaria,
nel senso che si fa luogo alla sua applicazione soltanto ove difettino i presupposti della legittima difesa o
dell'adempimento del dovere. Il fine perseguito dal pubblico ufficiale deve essere quello di adempiere a un
dovere del proprio ufficio: la scriminante esclusa in presenza di uno scopo di vendetta o di arbitraria
sopraffazione. Il ricorso alla coazione fisica è giustificato di fronte alle necessità di respingere una violenza o
di vincere una resistenza all'autorità: tale necessità sussiste quando il pubblico ufficiale non ha altra scelta.
Considerato il carattere di extrema ratio della scriminante in esame, il requisito della necessità va
interpretato anche nel senso che il pubblico ufficiale deve impiegare quello meno lesivo. La violenza deve
consistere in un comportamento attivo tendente a frapporre ostacoli all' adempimento del dovere d’ufficio.
La minaccia deve essere seria e particolarmente grave, a pena l'abbandono di quell’interpretazione
restrittiva. Si insegna tradizionalmente che la resistenza deve essere attiva: non basterebbe una resistenza
passiva: si tratta di richiedere un rapporto di proporzione da un lato tra i mezzi di equazioni impiegate il
tipo di resistenza da vincere e, dall'altro, beni in conflitto. Con l'emanazione dell'articolo 14 della legge 22
maggio 1975, numero 152 al primo comma sono state aggiunte le parole “delitti di strage, di naufragio,
sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e
sequestro di persona. L'ultimo comma dell'articolo 53 fa riferimento a ulteriori ipotesi di uso legittimo della
coazione fisica; vanno ricordate alcune speciali disposizioni in tema di repressione del contrabbando,
espatrio clandestino, evasione detenuti, eccetera.

9. STATO DI NECESSITA’
Caso 27: i componenti di una famiglia napoletana virgola in condizioni economiche disperate in precario
stato di salute, occupano un appartamento vuoto di proprietà dell’istituto autonomo case popolari subito
dopo essere stati improvvisamente sloggiati dalla loro abitazione pericolante.

Caso 28: alcuni agenti del NOCS virgola dopo avere catturate posti in arresto cinque “brigatisti rossi”
responsabili del sequestro di un generale americano, sottopongono a gravi violenze morali e fisiche uno dei
terroristi arrestati per ottenere informazioni ritenute necessarie a salvare il paese dal pericolo
dell’eversione.

In ipotesi di Stato di necessità si agisce per sottrarsi al pericolo di un danno grave alla persona e l'azione
difensiva ricade non già su di un aggressore, bensì su di un terzo estraneo, vale a dire su di una persona che
non ha provocato la situazione di pericolo. Per molto tempo la dottrina ha considerato lo stato di necessità
come causa di esclusione della colpevolezza , ma una ricostruzione unitaria in chiave soggettiva del
fondamento della scriminante è di ostacolo l’equiparazione di disciplina tra azione necessitata diretta a
porre in salvo bene dello stesso gente e quella diretta invece difendere un bene di una terza persona
(cosiddetto ricorso di necessità). L'idea della inesigibilità psicologica di una condotta diversa può giustificare
la non punibilità di chi agisca pur mettendo in salvo se medesimo, un congiunto, ovvero una persona
effettivamente vicina, ma non sarebbe in grado di spiegare perché debba andare esente da pena colui il
quale agisce in modo necessitato per salvaguardare un estraneo o uno sconosciuto. Si comprende allora, la
ragione giustificatrice della scriminante viene fatta risiedere nella mancanza di interesse dello Stato a
salvaguardare l'uno o l'altro dei beni in conflitto. In base al principio del bilanciamento degli interessi è
necessario che il bene sacrificato sia di rango inferiore o equivalente o di poco superiore rispetto a quello
salvato. Sul piano strutturale lo stato di necessità presenta forte analogia con la legittima difesa, ma se ne
differenzia per due elementi fondamentali: l'azione necessitata si dirige non contro l’autore di
un'aggressione ingiusta, ma contro un individuo innocente; e l'azione giustificata non deve tendere a
salvaguardare un qualsiasi diritto come nella difesa legittima, ma deve mirare a scongiurare il pericolo
attuale di un danno grave alla persona. Il pericolo deve essere attuale, ma va comunque precisato che non
sempre il criterio temporale consente una corretta determinazione dell'attualità del pericolo. Non di rado,
è opportuno agire anticipatamente per impedire l'aggravamento delle potenzialità lesive insita nella
situazione pericolosa. L'articolo 54 richiede che il pericolo sia inoltre non volontariamente causato, né
altrimenti evitabile: nello stato di necessità si ledono gli interessi non di un aggressore virgola bensì di un
terzo incolpevole. Se l'ambito di operatività dell'articolo 54 va circoscritto in considerazione della posizione
di terzo innocente di chi subisce il danno derivante dalla condotta necessitata, è giusto non riconoscere la
causa di giustificazione quando l’agente che si trova in pericolo abbia contribuito colpevolmente, e quindi
responsabilmente, alla sua verificazione. L' esplicita menzione dell'inevitabilità sta ad indicare che
nell’ambito dello Stato di necessità non solo può scriminare solo la condotta che arrechi il minor danno al
terzo coinvolto senza sua colpa, ma che la valutazione dell'inevitabilità stessa deve essere effettuata con
criteri più rigorosi che non nella legittima difesa. La Cassazione giunge a ritenere inapplicabile l'articolo 54
nei casi di bisogno economico: la motivazione riguarda i bisognosi. Per verificare se una data condotta sia
veramente necessaria o no a scongiurare il pericolo di danno occorre accertare se queste condotte
alternative posseggono in concreto pari o analoga idoneità a porre in salvo il bene in questione. Il pericolo
deve avere ad oggetto un danno grave alla persona. Alcuni autori tendono a circoscrivere il danno grave
alla persona alla morte e alla lesione grave, per cui fanno rientrare nell’area di tutela dell'articolo 54 i soli
beni della vita della dell'integrità fisica; ma la maggior parte degli autori appare oggi propenso a dilatare il
novero dei beni di natura personale, fino includervi quelli relativi alla personalità morale dell'uomo. Ora il
concetto è idoneo a ricomprendere qualsiasi lesione minacciata a un bene personale giuridicamente
rilevante, si tratti di bene tutelato nell'ambito penale, o in quello extrapenale. La gravità del danno può
essere determinata mediante un duplice indice: o considerando l'eventuale rango del bene minacciato
oppure tenendo conto del grado di pericolo che combe sul bene. Il giudizio di proporzione deve avere ad
oggetto il rapporto di valore tre bene confliggenti: in questo senso sussiste il rapporto di proporzione tra
fatto e pericolo. Per superare quest’ottica ristretta, occorre integrare il raffronto del valore dei beni con
l'’esame comparativo dei rischi rispettivamente incombenti sul bene da salvaguardare e su quello del terzo
che viene aggredito: da questo esame comparativo può infatti risultare che al maggior rango dell'uno
corrisponde un inverso rapporto di misura nel grado dei rispettivi pericoli. Il 1° comma dell'articolo 54
contempla anche l'ipotesi del cd soccorso di necessità, la quale ricorre se l'azione necessitata è compiuta
non dallo stesso soggetto minacciato, ma da un terso soccorritore. Il 2° comma dell'articolo 54 stabilisce
che la scriminante dello Stato di necessità non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi
al pericolo: un esempio sono i vigili del fuoco. Si deve ritenere che la scriminante sia applicabile se chi ha un
particolare dovere di esporsi al pericolo realizza un’azione necessitata per salvare non se stesso, ma terzi in
pericolo. L'ultimo comma dell'articolo 54 estende l'ambito di operatività della causa di giustificazione in
esame ai casi in cui lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia. Si tratta delle ipotesi della cd
coazione morale, esemplificata dal caso dell’automobilista che provoca un incidente perché spinto a
correre sotto la minaccia di una pistola. Un’efficacia scriminante della coazione morale deve ritenersi
subordinata all' esigenza di tutti i requisiti dello Stato di necessità come fin qui esaminati. Rimane da
precisare che, sul piano delle conseguenze sanzionatorie, lo stato di necessità si differenza dalla legittima
difesa. Infatti, ai sensi dell'articolo 2045 del codice civile, in caso di Stato di necessità al danneggiato è
dovuta un’indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice.

CAPITOLO 3: SEZIONE 1: NOZIONI GENERALI

1. PREMESSA
Perché sia punibile il fatto commissivo deve essere non solo tipico e anche antigiuridico, ma anche
colpevole: la colpevolezza è dunque il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato. L'affermazione
del principio penalistico nulla poena sine culpa presuppone l'accettazione, anche implicita, di un modello di
personalità umana come entità costitutiva da più strati posti il rapporto di successione evolutiva. Il
presupposto è che l'uomo sia in grado, grazie ai suoi poteri di signoria, i cosiddetti strati superiori della
personalità, di controllare gli istinti e di reagire agli stimoli del mondo esterno in base alle scelte fra diverse
possibilità di condotta, nonché di orientarsi secondo sistemi di valori. Il ruolo centrale del principio di
colpevolezza è confermato dalla sua rilevanza costituzionale dell'articolo 27 comma 1° della costituzione. Il
legislatore costituzionale ha espresso il principio secondo cui l'applicazione della pena presuppone la
attribuibilità psicologica del singolo fatto di reato alla volontà ante doverosa del soggetto. L' imputazione
del fatto criminoso deve considerarsi conforme al principio di personalità, a condizione che il fatto stesso
sia attribuibile all'autore almeno a titolo di colpa. Il ruolo indefettibile della colpevolezza è altresì
confermato dal collegamento sistematico tra il comma uno e il comma tre dell'articolo 27, che sancisce il
finalismo rieducativo della pena. È la stessa Corte costituzionale a riconoscere il rapporto tra colpevolezza e
rieducazione. La categoria della colpevolezza rappresenta la sede cui spetta la funzione di racchiudere i
presupposti della attribuibilità soggettiva del fatto criminoso. L'idea di colpevolezza presuppone il rifiuto
della responsabilità per l'evento (responsabilità cd oggettiva). Il rimprovero di colpevolezza implica che si
presupponga come esistente una possibilità di agire diversamente da parte del soggetto cui il fatto viene
attribuito. In tema di colpevolezza sono riscontrabile diverse forme di partecipazione interiore al fatto:
distinzione tra dolo, cioè volontarietà del fatto, e colpa, cioè involontarietà del fatto. Da qui consegue che
deve sussistere un rapporto di proporzione tra forme di colpevolezza e intensità della risposta
sanzionatoria: la sanzione penale deve essere proporzionata o commisurata al grado della partecipazione
interiore del soggetto. In un diritto penale ispirato ai principi oggettivi di materialità e lesività, la
colpevolezza può solo significare colpevolezza per il fatto e per aver commesso un fatto lesivo di un bene
realmente protetto. È inammissibile la figura della colpa d'autore, nella duplice versione della colpevolezza
per il carattere e della colpevolezza per la condotta di vita. Tradizionalmente, il concetto di consapevolezza
si contrappone a quello di pericolosità sociale: il primo, concerne soltanto i soggetti capaci di intendere e di
volere ed esprime un rimprovero per la commissione di un fatto delittuoso; il secondo invece, privilegia la
personalità dell'autore e far riferimento alla probabilità che l'autore continua a delinquere in futuro.
Quindi, mentre la colpevolezza costituisce il presupposto dell'applicazione della pena in senso stretto, la
pericolosità giustifica l'applicazione di una misura di sicurezza.
2. CONCEZIONI DELLA COLPEVOLEZZA PSICOLOGICA
Le concezioni della colpevolezza appaiono storicamente influenzate da ragioni dogmatiche interne alla
costituzione e da presupposti desunti sia dal generale contesto politico-ideologico ma anche dal modo di
intendere gli scopi e le funzioni del diritto penale. La prima concezione della colpevolezza, cosiddetta
psicologica, risulta influenzata dal liberalismo dominante nel secondo 800 e viene propugnata dei nostri
penalistica classici. Secondo la teoria in esame la colpevolezza consiste in una relazione psicologica tra fatto
e autore. La colpevolezza è intesa come concetto di genere ricomprendendo sia dolo che colpa. La
concezione psicologica esprime l'esigenza di circoscrivere la colpevolezza all'atto di volontà relative al
singolo reato, a prescindere da ogni valutazione della personalità complessiva dell’agente e del processo
motivazionale che sorregge la condotta. L'imposizione è andata incontro a due obiezioni di fondo. Essa non
riesce a fornire un concetto superiore veramente in grado di ricomprendere il dolo e la colpa: mentre infatti
il dolo consta di coscienza e volontà come atteggiamenti psicologici effettivi, ad integrare la colpa sono
sufficienti anche atteggiamenti psicologici potenziali. La concezione psicologica sul piano funzionale, poi,
non valorizza tutte le potenzialità della colpevolezza come elemento della responsabilità penale,
soprattutto perché non tiene conto delle diverse motivazioni che includono a delinquere.

3. SEGUE: LA CONCEZIONE NORMATIVA


La concezione normativa della colpevolezza si sviluppa non solo per rimediare agli inconvenienti dogmatici
della concezione psicologica, ma soprattutto perso di spade pressanti esigenze pratiche imposte al diritto
penale. Questo tipo di valutazione che riflette l'effettivo modo di operare della prassi giudiziaria nella
commisurazione della pena non ogni fatto volontario merita lo stesso rimprovero. La concezione normativa
della colpevolezza dà appunto la risposta dogmatica all' esigenza di introdurre la valutazione delle
circostanze dell'agire punto la colpevolezza consiste cioè nella valutazione normativa di un elemento
psicologico, e precisamente nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologico tenuto dall'autore. È
opportuno a questo punto determinare che il concetto di rimproverabilità evochi l'idea di una valutazione
del comportamento tenuto effettuata alla stregua di criteri puramente morali appunto colpevolezza
giuridica e colpevolezza morale si collocano, invece, su piani diversi. La colpevolezza non può che tradursi in
un rimprovero per il fatto di aver commesso azioni dannose socialmente.

4. ORIENTAMENTI ATTUALI
Nel passato la colpevolezza era legata alla teoria retributiva perché La retribuzione, congenita come
reazione afflittiva al male commesso, presuppone, logicamente, una colpevolezza da annullare. L'entrata in
crisi della tradizionale concezione retributiva della pena, dovuta ad un complesso di fattori che vanno dal
fallimento della prassi penale ad essere ispirata allo stesso orientamento interventista dello Stato sociale di
diritto che si preoccupa sempre più di rimuovere le cause della delinquenza, solleva il problema di una
nuova giustificazione delle categorie della colpevolezza. una volta accertata la colpevolezza virgola in
quanto serve a distogliere altri da commettere reati ovvero impedire che lo stesso autore del fatto torni a
delinquere si parla di prevenzione speciale. Secondo una parte della dottrina contemporanea, la
colpevolezza quale presupposto del reato riceve oggi una rinnovata legittimazione proprio grazie al suo
rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventiva della pena. La funzione individual garantistica
della colpevolezza risalta con evidenza ancora più spiccata sul terreno della commisurazione giudiziale della
pena e cioè nella fase in cui il giudice stabilisce il concreto trattamento punitivo da infliggere al condannato.
In materia di colpevolezza come presupposto a garanzia della libertà di scelta individuale bisogna
determinare il ricorso a forme di responsabilità oggettiva se siano idonee o meno a rafforzare la funzione
generale preventiva della pena, ne deriva allora questa importante conseguenza: la prevenzione generale
non implica, come condizione indefettibile, la colpevolezza quale presupposto del reato. Fa accordata alle
esigenze di prevenzione sarebbe così netta, da far passare ingiustificatamente in secondo piano un esigenza
tipica di ogni moderno stato di diritto: l'esigenza cioè di salvaguardare il singolo da interventi che
predispongono il grado di colpevolezza del reo in questo contesto collegare l' autonomia e la dignità della
singola persona umana si parla di strumentalizzazione per fini di politica criminale. Il principio di
colpevolezza assolve dunque una funzione limitativa della punibilità in sede di commisurazione giudiziale
della pena perché il rispetto è esso dovuto vieta, pur nel perseguire scopi di prevenzione generale e/o
speciale, di infliggere pene di ammontare superiore al limite massimo corrispondente all' entità della
colpevolezza individuale. Un altro punto su cui verte l'attuale disputa concerne la portata dei limiti della
possibilità di agire diversamente come presupposto del rimprovero di colpevolezza. Insistono sull’ esigenza
di valutare la capacità individuale di agire diversamente, coloro i quali non senza ragione il temono che il
riferimento all'uomo medio sottragga al giudizio di colpevolezza ogni fondamento reale, con la
conseguenza di trasformare la colpevolezza stessa in una categoria vuota di contenuto perché
completamente asservita ad esigenze di prevenzione. Se la colpevolezza è priva di requisiti positivi
autonomi virgola e se alcuni de presupposto che dovrebbero integrarla vengono ricostruiti alla stregua
degli scopi preventivi della pena è veramente credibile che la stessa colpevolezza possa svolgere come
invece si pretenderebbe il ruolo di presidio della libertà e dignità della persona nei confronti di un
eventuale politica criminale illiberale.

5. STRUTTURA DELLA COLPEVOLEZZA


La concezione normativa oggi dominante afferma che è colpevole un soggetto imputabile, il quale abbia
realizzato con dolo colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere
necessaria l'azione illecita appunto la colpevolezza in senso normativo è un concetto necessariamente
complesso, i cui presupposti sono così riassumibili: l’imputabilità; Dolo o colpa; Conoscibilità del divieto
penale; Assenza di cause di esclusione della colpevolezza. Tradizionalmente ha dominato nell’ area
penalistica italiana la tesi secondo la quale l'imputabilità costituirebbe una qualificazione soggettiva,
estranea alla teoria del reato è rientrante piuttosto conformemente alla collocazione codicistica di tale
elemento nel titolo quarto del libro primo virgola che riguarda appunto il reo e non il reato. L'impostazione
teorica molto diffusa anche nella norma giurisprudenziale fa leva fondamentalmente sul seguente rilievo: le
norme del codice penale che ricollegano i minimi di durata delle misure di sicurezza dell'ospedale
psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziario alla gravità i reati commessi, contengono un implicito
riferimento anche attraverso l'indiretto richiamo dell'articolo 133 all' intensità del dolo e al grado della
colpa. Una simile impostazione dogmatica risulta alquanto riduttiva: essa pecca di formalismo perché perde
di vista la relazione intima che sotto più di un profilo sostanziale intercorre tra l'imputabilità e l'illecito
penale. In altri termini un rimprovero intanto ha senso in quanto il destinatario abbia la maturità mentale
per discernere il lecito dall' illecito e, dunque, per conformarsi alle aspettative dell'ordinamento giuridico.
Bar rilevato inoltre che il dolo e la colpa del soggetto imputabile non possono coincidere col dolo la colpa
del soggetto capace di intendere e di volere. A ben vedere, essi sono meri stati psichici: il dolo, come
volontarietà psichica del fatto nella sua materialità ricomprendere la consapevolezza del suo significato
estensivo; Inoltre, l'errore di fatto condizionato proprio dalla malattia mentale può non escludere la
pericolosità del non imputabile può perciò pur sempre confortare l'applicabilità, nei suoi confronti, di una
misura di sicurezza.

SEZIONE II: IMPUTABILITA’

1. PREMESSA
Caso 29: una giovane madre di un bambino in tenera età, afflitta da problemi esistenziali e familiari, decide
di suicidarsi gettandosi in una cosiddetta marrana assieme al figlio punto il figlio le sfugge di mano ed
annega mentre la donna viene tratto in salvo appunto sottoposta a perizia psichiatrica, la madre risulta
affetta da una malattia mentale la cosiddetta depressione reattiva virgola molto grave ma dalla prognosi
favorevole.

Caso 32 : una giovane donna affettivamente immatura e con rigidissimi meccanismi di difesa diretti a
negare la realtà, dopo aver psicologicamente rimosso il suo stato di gravidanza nel periodo della
gestazione, sopprime al momento del Parto il neonato mediante una condotta non controllata dalle
funzioni superiori dell'io la cosiddetta reazione a cortocircuito.

La colpevolezza presuppone una consapevole capacità di scelta tra diverse alternative di azione, allora
l'imputabilità costituisce la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e
antigiuridico commesso dalla gente. L'odierno giurista, attento alla prospettiva scientifica delle moderne
scienze sociali, è ormai ben consapevole che la volontà umana è soggetta molteplici condizionamenti : una
volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio virgola non
esiste punto la volontà umana può definirsi libera in un' accezione meno pretenziose più realistica, nella
misura in cui il soggetto non soccomba passivamente agli impulsi psicologici che lo spingono ad agire in un
determinato modo, ma riesca a esercitare poteri di inibizione controllo idonei acqua in sentirli scelte
consapevoli tra motivi antagonistici. Una simile libertà relativa o condizionata presenta, gradazioni diverse
in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, che il soggetto subisce prima di agire: quando più
forte la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti quella delle pulsioni, tanto più difficile risulterà allo
sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo e viceversa. L' imputabilità come categoria penalistica alla
base giustificazioni diverse punto ed invero questo nesso cresce quanto più si accentui la dimensione
normativa della colpevolezza virgola e rimprovero non avrebbe infatti senso se rivolto a soggetti del tutto
privi della possibilità di agire diversamente. Il fondamento penalistico dell'imputabilità ed a maggior
ragione rinvenibile sul terreno delle funzioni della pena. Se la minaccia delle sanzioni punitive deve
esercitare un'efficacia generale preventiva un necessario presupposto è che i destinatari siano
psicologicamente in grado di lasciarsi motivare dalla minaccia stessa. Questa motiva abilità normativa,
intesa come attitudine a recepire l'appello della norma penale, non è presente allo stesso modo in tutti gli
individui punto la limitazione del trattamento punitivo in senso stretto ai soli soggetti ecologicamente
maturi, d'altra parte, continua a riflettere la concezione socialmente dominante della responsabilità
umana: la coscienza sociale avvertirebbe, ancora oggi, come ingiusta la sottoposizione appena di chi non è
campos sui.
2. LA CAPACITA’ DI INTENDERE E VOLERE
L'articolo 85 del codice fissa i presupposti dell'imputabilità nella capacità di intendere di volere: tale duplice
capacità deve sussistere al momento della commissione del fatto che costituisce reato. Lo stesso legislatore
puntualizza la disciplina dell’istituto attraverso il riferimento ad alcuni parametri legalmente
predeterminati: l'età del soggetto e l'assenza di infermità mentale o di altre condizioni capaci di incidere
sull’autodeterminazione responsabile dell’agente. Quanto al concetto di capacità di intendere di volere, è
appena il caso di precisare che esso va inteso come necessariamente comprensivo di entrambe le attitudini:
ma imputabilità difetta se manca anche una sola capacità. Va ancora osservato che la menzione legislativa
separata dalla capacità di intendere e dalla capacità di volere, considerata alla stregua delle moderne
conoscenze psicologiche, suscita riserve. Considerata l'estrema genericità della formula capacità di
intendere e di volere, è poi evidente il rischio che ogni tentativo di definire in positivo questi concetti si
risolva in una esplicitazione pressoché tautologica. La capacità di intendere può continuare a essere definita
come l'attitudine ad orientarsi nel mondo esterno secondo una percezione non distorta della realtà. La
capacità di volere invece consiste nel potere di controllare gli impulsi ad agire e di determinarsi secondo il
motivo che appare più ragionevole o preferibile in base a una concezione di valore: è attitudine a scegliere
in modo consapevole tra motivi antagonistici.

3. MINORE ETA’
Precisamente l'articolo 97 dispone che non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, non
aveva compiuto i 14 anni: è stata così introdotta una presunzione di incapacità di natura assoluta perché
non è ammessa la prova in contrario. Rispetto ai minori ricompresi tra i 14 e 18 anni, l'articolo 98, comma
1° dispone che è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto 14 anni, ma non
ancora i 18, se aveva capacità di intendere e di volere; Ma la pena è diminuita: non esiste dunque alcuna
presunzione legale né di capacità né di incapacità, ma è il giudice a dovere in concreto accertare volta per
volta se il minore sia imputabile o no. La giurisprudenza dominante attribuisce al concetto di imputabilità
minorile un carattere relativo, nel senso che la maturità del minore viene concretamente accertata in
relazione alla natura del reato commesso. La capacità d'intendere e di volere è invece presunta dal
legislatore al compimento del diciottesimo anno di età: si tratta di una presunzione relativa, perché la
capacità è esclusa o diminuita in presenza del vizio totale o parziale di mente delle altre cause
legislativamente previste.

4. INFERMITA’ DI MENTE
L'articolo 88 stabilisce che non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per
infermità virgola in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere. Lo stretto rapporto,
stabilito dal legislatore tra inimputabilità e infermità incidente sullo stato mentale, solleva complessi
problemi interpretativi e di accertamento giudiziale. La complessità e la delicatezza dell’accertamento sono
acutizzate dalla circostanza che la stessa scienza psichiatrica e da alcuni anni attraversata da una crisi
d'identità, per cui anche nel suo ambito il concetto di malattia mentale è tutt'altro che univoco. Dal punto
di vista definitorio, si pone il problema di stabilire se il termine infermità adottato dall’articolo
precedentemente citato sia o no equivalente a quello di malattia. Nel suo significato letterale, l'infermità è
concetto più ampio perché ricomprende nel suo ambito anche disturbi psichici di carattere non
strettamente patologico. D'altra parte, la tesi della maggior ampiezza del concetto di infermità riceve
sostegno se si considera lo scopo sotteso alle norme sull’imputabilità. È da precisare che l'infermità, cui
fanno espresso riferimento gli articoli del codice può avere origine anche da una malattia fisica, sia pure a
carattere transitorio, purché produttiva di vizio di mente, ad esempio uno stato febbrile. A sostegno di una
simile conclusione è conducibile un argomento letterale: i predetti articoli parlano non già di infermità
mentale, bensì genericamente di infermità tale da provocare uno stato di mente che esclude l’imputabilità.
A differenza dell'indirizzo medico di attribuire significato patologico anche alle alterazioni mentali atipiche,
esemplificate dalle psicopatie: si tratta cioè di disarmonia della personalità che virgola in presenza di
condizioni di particolare gravità, bloccano le controspinte inibitorie del soggetto e le impediscono di
rispondere in maniera critica agli stimoli esterni. Tipiche delle psicopatie sono ad esempio le cosiddette
reazioni a cortocircuito determinate dal caso 30.

Merita di essere apprezzata positivamente l'evoluzione della giurisprudenza di legittimità allorchè ha deciso
che anche disturbi della personalità virgola che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle
malattie mentali, possono rientrare è il concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e
gravità tali da incidere concretamente sulla capacità d'intendere o di volere. un discorso in parte analogo
vale rispetto agli stati emotivi e passionali. L'articolo 90 stabilisce espressamente che gli Stati emotivi o
passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità punto una disposizione così rigorosa riflette
l'equivalenza tra infermità escludente l'imputabilità e malattia mentale in senso stretto; E, in secondo
luogo, si spiega con la preoccupazione politico criminale di evitare di dichiarare incapace di intendere e di
volere ogni autore di delitto impulsivo. La rilevanza scusante degli stati emotivi e passionali può essere
ammessa soltanto in presenza di due condizioni: che lo stato di coinvolgimento emozionale si manifestino
una personalità per altro verso già debole; e che lo stato emotivo passionale assuma, significato e valore di
infermità sia pure transitoria come ad esempio uno sconquasso emotivo. Il codice distingue diversi gradi del
vizio di mente. In base al disposto dell'articolo 88, il vizio di mente è totale se l'infermità, di cui il soggetto
soffre al momento della commissione del fatto tale da escludere del tutto la capacità di intendere e di
volere. La capacità di intendere e di volere può essere completamente esclusa anche da un’infermità
transitoria, purché sia sempre tale da far venire meno i presupposti dell'imputabilità: è l'ipotesi
esemplificata dal caso 29. Nella prassi applicativa si propende per una possibile affermazione di
responsabilità nei cosiddetti intervalli di lucidità: ciò tutte le volte in cui sia accertabile uno stato di lucidità
sufficientemente avulso dall' influenze che è la malattia può esercitare sulla psiche complessiva
dell’individuo. A seguito dell’abolizione della pericolosità presunta, all' imputato prosciolto per vizio totale
di mente la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario può essere applicata
soltanto previo accertamento concreto della sua pericolosità sociale. La capacità di intendere e di volere è
diminuita in presenza di un vizio parziale di mente. La distinzione tra forma totale e parziale di vizio di
mente è affidata a un criterio non qualitativo, ma quantitativo, prendendo la legge in considerazione il
grado e non l'estensione della malattia mentale. Vizio parziale, dunque è quello che investe tutta la mente
ma in misura meno grave. Ai fini dell’accertamento dell’imputabilità diminuita, sono da respingere gli
schematismi rigidi: non esistono forme che comportano sempre l'infermità totale o parziale ma solo un
apprezzamento quantitativo delle infermità che deve essere effettuata in concreto caso per caso. Secondo
la giurisprudenza, il vizio parziale di mente è compatibile con le aggravanti della premeditazione e dai
motivi abbietti e futili, come pure con l'attenuante della provocazione e con le circostanze attenuanti
generiche. Sul piano sanzionatorio, il vizio parziale di mente comporta una diminuzione della pena.
5. UBRIACHEZZA E INTOSSIFICAZIONE DA STUPEFACENTI
I fenomeni dell'etilismo e dell’intossicazione da stupefacenti sono presi in considerazione dal legislatore
penale perché non di rado contribuiscono alla genesi del crimine il codice Rocco ha finito con l'accentuare
le preoccupazioni preventivo repressive suscitate da due fenomeni. Il codice prevede un trattamento
articolato in base alla causa dello Stato di ubriachezza. A) l'ubriachezza esclude l'imputabilità solo se dovuta
a caso fortuito o forza maggiore; se l'ubriachezza dovuta a tali cause e tali da far scemare la capacità di
intendere e di volere la pena è diminuita: questa ipotesi va sotto il nome di ubriachezza accidentale perché
la perdita, totale o parziale, della capacità di autocontrollo è determinata o da un fattore del tutto
imprevedibile o da una forza esterna. La medesima disciplina vale per l'intossicazione accidentale da
stupefacenti.

B) non fa scemare invece, né esclude l'imputabilità l'ubriachezza volontaria o colposa: questa disciplina
prevista anche per l'intossicazione da stupefacenti è quella che ha dato più luogo a discussioni. La ratio
della disposizione è molto evidente: chi si è ubriacato volontariamente o per leggerezza, non può
pretendere di accampare scuse: se realizza un reato, deve rispondere come se fosse pienamente capace di
intendere e di volere. Una parte della dottrina meno recente, riproponendo fondamentalmente lo schema
dell'actio libera in causa, sosteneva che per cercare l'elemento psicologico del reato commesso dal
l'ubriaco, occorre stabilire al momento nel quale egli si pone in condizione di ebrietà: per cui il reato
sarebbe doloso o colposo a seconda che l'ubriaco si sia ubriacato volontariamente o involontariamente.
Dunque, è facile obiettare che in questo modo si confonde lo stato psicologico che provoca la condizione di
ubriachezza con quello che accompagna la successiva commissione dello specifico reato. Si comprende
perciò, come l'orientamento in atto dominante propenda per una soluzione diversa: si ritiene che il dolo o
la colpa dell’ubriaco vadano accertati con riferimento al momento nel quale reato in questione viene
commesso. L'ubriaco in realtà si trova in una condizione psicologica che non gli consente una sufficiente
capacità di discernimento e di autocontrollo. Il dolo dell'ubriaco equivarrà ad impulso psicologico
volontario, a volontà cieca, non a quella volontà veramente consapevole che indicherà che integra il dolo
autentico; Allo stesso modo, la colpa dell'ubriaco si ridurrà era violazione il di una misura oggettiva del
dovere di vigilanza difficilmente superabili.

C) L’ ubriachezza è preordinata, o comporta un aumento di pena, quando è provocata al fine di commettere


il reato o di prepararsi una scusa: è principio secondo cui l'incapacità preordinata deroga alla regola della
coincidenza temporale tra imputabilità e commissione del fatto criminoso, senza disattendere la sostanza
del principio di colpevolezza. Nel caso dell’ubriachezza preordinata di cui al secondo comma dell'articolo
92, distinta dall' ipotesi di ubriachezza volontaria o colposa, il soggetto si ubriaca proprio allo scopo di
commettere un reato: ciò perché lo stato di ubriachezza facilita la commissione di un fatto criminoso che lo
stesso soggetto non sarebbe capace di commettere, o commetterebbe con maggiori difficoltà.

D)L' ubriachezza abituale virgola e lo stesso vale per l'abituale intossicazione da stupefacenti virgola non
solo non esclude o diminuisce l'imputabilità, ma comporta un aumento di pena, nonché la possibilità di
applicare la misura di sicurezza della casa di cura o di custodia o della libertà vigilata. L' abitualità è
subordinata al ricorrere dei due presupposto della dedizione all'uso eccessivo di bevande alcoliche e del
frequente stato di ubriachezza o di intossicazione. L'ubriaco abituale è visto in parte come un vizioso che
deve rispondere per la stessa condotta di vita, cosiddetta colpevolezza per la condotta di vita virgola e in
parte come soggetto bisognoso di trattamento riabilitativo.
E) I compilatori del codice, mossi dall’esigenza di arginare il duplice vizio dell’alcolismo e della tossicomania,
hanno stabilito che tanto l'uno che l'altro possono arrivare ad escludere, o far scemare grandemente la
capacità di intendere e di volere, soltanto nel caso estremo di cronaca intossicazione. è definibile
intossicazione cronica da alcolismo quella che provoca alterazioni patologiche permanenti, tali da far
apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica. Criticabile risulta
l'equiparazione legislativa tra cronica intossicazione da alcol e cronica intossicazione da sostanze
stupefacenti: convince poco l'assunto che pretende di ravvisare nell’intossicazione da stupefacenti le stesse
caratteristiche riscontrabili nell’intossicazione da sostanze alcoliche. Ricerche condotte in campo medico
psichiatrico dimostrano che la capacità d'intendere e soprattutto di volere del tossicodipendente è già
gravemente compromessa nella situazione di dipendenza psico fisica da sostanza stupefacente,
contrassegnata dall’insorgere della cosiddetta sindrome di astinenza.

6. SORDISMO
Il codice penale prevede un'apposita disciplina del sordismo sul presupposto che la mancanza di udito e di
parola pregiudichi la capacità di autodeterminazione responsabile dell’individuo. L'articolo 96 stabilisce il
principio per cui tanto l'incapacità, quanto la capacità devono formare oggetto di concreto accertamento
del giudizio. Si accerta che il sordo al momento della commissione del fatto era capace nonostante la sua
affezione congenita, l'imputabilità non è esclusa, mentre lo è in caso contrario. L’articolo 96 non può essere
applicato nei casi di solo mutismo o di sola sordità, ma occorre che sussistono entrambe le affezioni punto
si distinguono poi un sordo ismo congenito o precocemente acquisito virgola che ostacola gravemente lo
sviluppo psichico e un sardismo tardivamente acquisito, che cioè insorge in una fase successiva
all'apprendimento del linguaggio e che può lasciare integro il patrimonio linguistico già conseguito. Anche
se il testo dell'articolo 96 non opera distinzioni, sembra che la disposizione faccia soprattutto riferimento ai
sordi dalla nascita o prima dell’infanzia.

7. ACTIO LIBERA IN CAUSA


L'articolo 87, nel disciplinare allo stato preordinato di incapacità di intendere e di volere stabilisce : la
disposizione della prima parte dell'articolo 85, secondo cui l' imputabilità deve sussistere al momento della
commissione del reato, non si applica chi si è messo in stato di incapacità d'intendere e di volere al fine di
commettere il reato , o di prepararsi una scusa appunto il principio generale riceve una esemplificazione
codicistica della disciplina dell’ ubriachezza preordinata: stabilisce infatti che se l' ubriachezza era
preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata. Per giustificare
l'affermazione di responsabilità in casi come quello in esame, si è soliti ricorrere al paradigma della actiones
liberae in causa, escogitato con specifico riferimento alle condotte peccaminose posti in essere senza libera
volontà al momento della loro realizzazione: l'azione è libera in causa appunto perché la gente aveva il
potere di porsi o di non porsi in condizione di incapacità. Nel caso dell'incapacità procurata il legislatore
deroga alla regola generale della necessaria corrispondenza temporale tra imputabilità e commissione del
fatto: il soggetto preordinatamente incapace, infatti, nel momento in cui realizza il reato, ha già perduto il
pieno autocontrollo dei propri atti. Parte della dottrina ha sostenuto che l'attività esecutiva del reato posta
in essere dall' incapace inizia già nel momento in cui egli si pone volontariamente in condizione
dell'incapace. Altra parte della dottrina si accontenta di rinvenire fondamento della responsabilità nel
semplice nesso causale e cioè, colui che determina una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, deve
rispondere dell'evento medesimo, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultima sia previsto e
voluto. La soluzione migliore riconduce proprio nella disciplina della colpevolezza anche le ipotesi di
incapacità procurata: al soggetto può cioè essere mosso un rimprovero per essersi liberamente posti quella
condizione di incapacità virgola che gli ha reso possibile o più agevole la realizzazione del reato
programmato. Ai fini della punibilità, occorre che il reato concretamente posti in essere sia del tipo di
quello inizialmente programmato, perché, altrimenti si creerebbe una frattura tale da recidere la necessaria
corrispondenza tra fatto e colpevolezza.

SEZIONE 3: STRUTTURA E OGGETTO DEL DOLO

1. IL DOLO: FUNZIONI E DEFINIZIONE LEGISLATIVA


Il delitto doloso costituisce il modello fondamentale di illecito penale, dal momento che il dolo rappresenta
il normale criterio di impugnazione soggettiva. L'articolo 42 comma 2° spiega come mai il legislatore nel
configurare le singole fattispecie incriminatrice, presupponga a esplicitarlo di volta in volta. Gli altri criteri di
imputazione soggettiva operano soltanto nei casi espressamente previste dalla legge. Il dolo assolve, nel
processo di imputazione penale, varie funzioni il rapporto diversi piani in cui si articola la struttura
dell'illecito. Innanzitutto, esso rappresenta un elemento costitutivo del fatto tipico e non potrebbe essere
diversamente. La seconda funzione del dolo consiste nel connotare la forma più grave di colpevolezza: chi
agisce con dolo aggredisce il bene protetto in maniera più intensa di chi agisce con colpa; E la maggiore
carica aggressiva dell’azione dolosa viene percepita non solo dalla singola o dalle singole vittime del fatto
delittuoso, ma anche dalla collettività. La dimensione, oggettiva e soggettiva, del dolo rappresenta sul
piano fenomenico una entità unitaria: il fatto delittuoso è in questo senso composto da un elemento
oggettivo e da un elemento soggettivo che si saldano reciprocamente. L'articolo 43, comma 1°, stabilisce
che il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato
dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, e dall’agente preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Secondo la definizione legislativa la nozione
del dolo si incentra su tre elementi: previsione, volontà, evento dannoso o pericoloso. I primi due sono di
natura strutturale, mentre il terzo è di natura oggettiva. la teoria della rappresentazione concepiva la
volontà e la rappresentazione quali fenomeni psichici distinti, come tali riferibili a dati diversi: i sostenitori
di questa teoria ritenevano che la volontà potesse avere ad oggetto soltanto il movimento corporeo
dell'uomo; Mentre le modificazioni del mondo esterno provocate dalla condotta si reputava potessero
costituire solo oggetto di rappresentazione mentale anticipata. La teoria della volontà, privilegia l'elemento
volitivo del dolo , nel convincimento che potessero costituire oggetto di volontà anche i risultati della
condotta. Quello che è il valore vincolante normativo, delle formule definitori e contenute nella parte
generale del codice, da tempo si riconosce che la definizione del dolo contenuta nell’articolo 43, è in ogni
caso parziale: la disciplina normativa del dolo, infatti si ricava dal complesso delle disposizioni.

2. STRUTTURA DEL DOLO: RAPPRESENTAZIONE E VOLONTA’


Il dolo strutturalmente consta di due componenti psicologiche: rappresentazione e volontà. Hanno dal
punto di vista analitico punti di riferimento diversi. Esistono elementi di fattispecie che possono costituire
oggetto tanto di rappresentazione che è di volontà. esistono, invece, altri elementi di fattispecie suscettivi
di rappresentazione e non altrettanto di volontà intesa in senso strettamente psicologico, ad esempio il
precedente matrimonio nel reato di bigamia o il rapporto di parentela nell’incesto. L'elemento intellettivo
del dolo costa della rappresentazione o conoscenza degli elementi che integrano la fattispecie oggettiva più
in particolare la componente conoscitiva del dolo si atteggia diversamente, a seconda che abbia come
punto di riferimento elementi descrittivi oppure elementi normativi di fattispecie. Nel primo caso, è
sufficiente che il soggetto sia a conoscenza degli elementi del mondo esterno così come appaiono nelle loro
dimensioni. Qualora si tratti invece di elementi cosiddetti normativi, per l'esistenza del dolo non basta che
la gente sia a conoscenza di meri dati di fatto: egli deve, piuttosto, rappresentarsi anche gli aspetti che
fondano la rilevanza giuridica delle situazioni di fatto richiamate dalla fattispecie. È sufficiente ripetere una
formula abbastanza diffusa che recita: una conoscenza parallela nella sfera laica che in altri termini va a
determinare l'esempio del furto, non è necessario che il ladro conosca le norme civili che disciplinano la
proprietà, ma basta che egli sappia quando secondo il senso comune la cosa è di altri. La rappresentazione
o conoscenza si atteggia più precisamente a previsione con riferimento agli accadimenti futuri che si
prospettano come risultato della condotta criminosa. La rappresentazione è sufficiente ai fini del dolo è
compatibile con il principio dello Stato di dubbio in ordina uno o più elementi di fattispecie. La sufficienza
dello Stato nel dubbio a integrare il dolo è tuttavia da escludere, la piena conoscenza di uno più elementi
del fatto del reato, ad esempio la fattispecie di calunnia. Il dolo non è semplice rappresentazione degli
elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, ma volontà consapevole di realizzare il fatto tipico. Il dolo
come volontà del fatto non va confuso col motivo o movente dell’azione delittuosa. L' imputazione a titolo
di dolo, in omaggio al principio cogitationis poenam nemo patitur presuppone che la volontà si traduca in
realizzazione come disposto dall' articolo 56. Proprio perché la volontà rileva come espressione di un
potere di conformazione della realtà, e non come mero dato psicologico, e privo di rilevanza tanto il dolo
antecedente quanto il dolo susseguente: occorre in realtà che il dolo sussista al momento del fatto. Il dolo
può presentare un’intensità diversa, in rapporto al rispettivo grado di consistenza della componente
rappresentativa e volitiva. Per quanto riguarda la componente conoscitiva, la sua graduabilità dipende dal
livello di chiarezza e certezza con il quale il soggetto si rappresenta gli elementi del fatto di reato. L'intensità
del momento volitivo va rapportata al grado di adesione psicologica del soggetto al fatto, nonché alla
complessità e alla durata del processo deliberativo punto possiamo distinguere il dolo in dolo d’impeto,
dolo di proposito, caratterizzato cioè da un rilevante stacco temporale tra il momento della decisione e
quello dell’esecuzione: ne costituisce sottospecie aggravata, ex articolo 577, comma 1°, numero 3 e 582, la
cosiddetta premeditazione che si configura quando il proposito criminoso non solo perdura per un rilevante
lasso di tempo, ma tradisce un'ostinazione criminosa particolarmente riprovevole.

3. OGGETTO DEL DOLO


L'articolo 43, comma I , riferisce la volontà colpevole all'evento dannoso o pericoloso. Si accoglie
inoltre la tesi che l'articolo 43 alluda all'evento in senso naturalistico, come risultato lesivo
causalmente riconducibile all' azione tipica, si perviene alla conseguenza inaccettabile di dover
ritenere che la definizione legislativa del dolo lasci fuori i reati di mera condotta. La
consapevolezza del carattere lesivo del fatto non può prescindere dalla conoscenza del divieto
penale: ma in proposito si frappone l'ostacolo insuperabile dell'articolo 5. A ben vedere però il
diritto penale riconosce come oggetto del dolo il fatto tipico. Una simile conclusione, trova, in
verità, un preciso riscontro normativo nell’ articolo 47 che, concorre a delineare la disciplina del
dolo. Il dolo deve anche investire i cosiddetti elementi normativi della fattispecie cioè quegli
elementi la cui determinazione presuppone il rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice
che viene in questione come ad esempio il diritto di furto non si configura, per mancanza della
volontà colpevole, se la gente non si rende conto che la cosa di cui si appropria è di proprietà altrui
a causa di un erronea interpretazione delle norme sulla proprietà.

4. DOLO E COSCIENZA DELL’OFFESA


Uno dei punti più problematici della teoria del dolo concerne l'interrogativo, se il dolo includa oltre
alla coscienza e volontà del fatto materiale anche la coscienza dell'offesa. Il concetto di offesa,
quale oggetto del dolo, può assumere più significati. Esso potenzialmente indica: l’antigiuridicità o
illiceità penale del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice della quale si presuppone
a sua volta la conoscenza. L'offesa concepita secondo la prima accezione, e cioè come sinonimo di
illiceità penale, e sulla dall' oggetto del dolo. La volontà colpevole presupponga la coscienza
effettiva o attuale dell'illiceità del fatto si scontra, a livello di diritto positivo con l'articolo 5 del
codice penale: il quale esplicitamente stabilisce che nessuno può invocare a propria scusa
ignoranza della legge penale. Il dolo come viene concepito oggi fa sì che si evita il rischio di ridurre
la volontà colpevole ad un coefficiente psicologico esangue, carente di valenza significativa della
specie ottica che interessa al diritto penale: se il dolo deve rappresentare a tutti oggi la forma più
grave di colpevolezza, esso non può equivalere a un requisito psicologico neutro. Rimane da
chiedersi virgola in quale misura l' assunto teorico dell' inerenza del dolo della coscienza dell'
offesa risulti di fatto compatibile con l'attuale sistema delle incriminazioni. Per i reati di pura
creazione legislativa, disseminati soprattutto nell'ambito della legislazione extra codicistica
rispetto ai quali non di rado manca un contenuto di disvalore evidente e da tutti percepibile: in
questi casi, la consapevolezza della lesione dell'interesse protetto può non aversi senza essere
previamente a conoscenza della disposizione incriminatrice della cui violazione si tratta, ma così
incorrendo nella norma di sbarramento di cui all'articolo 5.

5. FORME DEL DOLO. CENNI SULLA PROBLEMATICA DELL’ACCERTAMENTO


Il dolo è definibile intenzionale quando il soggetto ha di mira proprio la realizzazione della
condotta criminosa, ovvero la causazione dell'evento. La realizzazione del fatto illecito costituisce
l'obiettivo finalistico che da causa alla condotta, lo scopo in vista del quale il soggetto agisce.
Risponde a titolo di dolo intenzionale ad esempio anche il tiratore in esperto che, agendo al fine di
provocare un evento mortale è tuttavia dubbioso di riuscire a cagionarlo. Il dolo è diretto tutte le
volte in cui la gente si rappresenta con certezza negli elementi costitutivi della fattispecie
incriminatrice, e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà. Rientra in questa
forma di dolo anche il caso definito, però, da una parte della dottrina, dolo indiretto in cui l'evento
lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente connessa alla realizzazione
volontaria del fatto principale. Controversa è la struttura della terza forma di dolo che va
tradizionalmente sotto il nome di dolo eventuale: la problematicità di questa figura di dolo deriva
anche dal suo collocarsi in una zona limite con la colpa con previsione o cosciente, secondo
l'articolo 61 numero 3, comporta un aggravamento di pena. La configurabilità del dolo eventuale
ha per presupposto che il soggetto agisca senza il fine di commettere il reato: altrimenti, egli
agirebbe con dolo intenzionale. L'unità divenute sussiste soltanto rispetto al momento conoscitivo
del dolo eventuale: occorre cioè, come requisito minimo, che la gente preveda la concreta
possibilità del verificarsi di un evento lesivo. Risponde in senso affermativo la teoria della
possibilità, secondo la quale agisce già dolosamente chi prevede la concreta possibilità di
provocare la lesione di un bene giuridico appunto una variante è in proposito costituita dalla
cosiddetta teoria della probabilità, secondo cui occorre che la gente si rappresenti non soltanto
come concretamente possibile ma come probabile per la verificazione dell'evento lesivo. La terza
teoria che esaminiamo è la teoria del consenso: in un approvazione interiore della realizzazione
dell'evento preveduto come possibile. È necessario, piuttosto, che l'atteggiamento interiore
manifestato dal soggetto si avvicini il più possibile ad una presa di posizione della volontà capace
di influire sullo svolgimento degli accadimenti punto la cosiddetta teoria dell’ accettazione del
rischio. Per contro, ove il soggetto si rappresenti la possibilità dell'evento lesivo ma confido nella
sua concreta non verificazione, si avrà colpa cosciente o con previsione. Possiamo ipotizzare che
Caio, effettuando un sorpasso automobilistico in una curva pericolosa, si rappresenti la possibilità
di provocare uno scontro; facendo leva però sulla conoscenza della strada e sulla sua consumata
abilità di guidatore, egli si convince di poter in ogni caso evitare l'incidente che tuttavia però si
verifica. Nonostante si tratti di una forma di dolo strutturalmente molto complessa, e di difficile
accertamento processuale, si è negli anni assistito ad un fenomeno di progressiva estensione
applicativa del dolo eventuale. Siamo dolo alternativo quando la gente prevede, come
conseguenza certa o possibile della sua azione, il verificarsi di due eventi, ma non sa quale si
realizzerà in concreto punto il dolo alternativo non va considerato come una forma di dolo
veramente autonoma, bensì esso situazioni in cui il soggetto, agendo con dolo diretto eventuale, si
rappresenta come conseguenza del suo agire più eventi, tra loro incompatibili. Un'altra distinzione
diffusa è quella tra dolo generico e dolo specifico. Il primo corrisponde alla reazione tipica del
dolo, nel senso che esso consiste nella coscienza e volontà di realizzare gli elementi costitutivi di
un reato caratteristica del dolo generico e la congruenza tra volontà e realizzazione. Il dolo
specifico invece consiste in uno scopo o in una finalità particolare e ulteriore che la gente deve
prendere di mira, ma che non è necessario si realizza effettivamente perché il reato si configuri la
previsione legislativa di un dolo specifico può assumere diverse funzioni. Una prima consiste nel
restringere l' ambito della punibilità, perché questa senza il perseguimento della particolare
finalità indicata dalla legge viene meno: ma questo effetto restrittivo opera realmente se il dolo
specifico si aggiunge un fatto base già illecito, che potrebbe essere dal legislatore incriminato
come tale. Una seconda funzione può consistere, nel determinare la punibilità di un fatto che
risulterebbe altrimenti lecito; Una terza funzione nel produrre un mutamento del titolo del reato.
Bisogna ancora distinguere tra il dolo di danno e dolo di pericolo: il primo consiste nella volontà di
realizzare un fatto che provoca la completa lesione dell'interesse protetto; Il secondo nella volontà
di provocare la semplice esposizione a pericolo del bene. Se il ricorso a massime di esperienza è
legittimo perché diversamente la prova del dolo si trasformerebbe in una probatio diabolica,
inammissibile appare in utilizzazione di schemi presuntivi: il concetto stesso di presunzione di
prova col dolo inteso come coscienza e volontà le ali di un fatto criminoso.

SEZIONE IV: LA DISCIPLINA DELL’ERRORE

1.PREMESSA
Nella trattazione della colpevolezza riveste un ruolo fondamentale la problematica dell'errore. Ed
infatti, se la volontà colpevole presuppone la conoscenza degli elementi costitutivi del fatto
criminoso, la mancata o falsa rappresentazione di uno o più requisiti dell' illecito penale avrà come
effetto di escludere la punibilità. Anche nell'ambito del diritto penale è radicata la tradizionale
distinzione tra errore di fatto ed errore di diritto. All'errore è equiparata l'ignoranza, in quanto sia
la mancanza di conoscenza, sia l' erronea conoscenza di un dato elemento provocano il medesimo
effetto psicologico. Distinto dall’ errore o dall’ ignoranza è lo stato di dubbio: finché il soggetto
versa l' incertezza circa la presenza ,l'assenza di determinati requisiti di fattispecie , mancano i
presupposti sia di una conoscenza del tutto esatta, figlia di un vero e proprio errore. Il diritto
penale, particolarmente complesso è il problema dell'errore di diritto. Quest'ultimo si distingue in
errore sul precetto penale e in errore su norma extrapenale. L'errore sul precetto, che cioè ricade
sulla norma incriminatrice, ha ad oggetto l'illiceità penale del fatto. Si consideri il caso in cui Tizio
provoca la morte di un feto vivo, credendo che quest'ultimo non rientri nel concetto di uomo
quale soggetto passivo del delitto di omicidio. L’ errore su norma extrapenale ha invece ad oggetto
una norma diversa da quella penale incriminatrice: ad esempio Tizio era nell’ interpretazione della
legge civile che disciplina il matrimonio, e si ipotizzi che questo errore in gira sulla sua
consapevolezza di compiere un fatto conforme al delitto di bigamia; perché questa specie di
errore scusi è necessario, conformemente al disposto dell'articolo 47, comma 3°, che esso si
risolva o converta in un errore sul fatto di reato: occorre cioè e la gente ne risulti fuorviato al
punto tale da non essere consapevole di compiere un fatto materiale conforme a quello previsto
dalla legge.

2. ERRORE DI FATTO SUL FATTO


Caso 31: il bracconiere, scorgendo in un canneto una sagoma simile a quella di un cinghiale, spara
per abbatterlo. Poco dopo si scopre che il bersaglio colpito è un ragazzo che ha perduto la vita:
omicidio?

Caso 32: un uomo si congiunge carnalmente con una ragazza minore di 14 anni, che egli ha per
errore ritenuto almeno sedicenne a causa del notevole sviluppo fisico.

Le prove di fatto costituiscono il rovescio della componente conoscitiva del dolo. L'errore può
derivare da ignoranza o falsa rappresentazione della situazione di fatto nella quale il soggetto si
trova ad agire: tanto la mancanza assoluta di conoscenza di un elemento rilevante del fatto
concreto, quanto l' erronea rappresentazione di esso possono, egualmente sfociare nell’ effetto di
impedire a chi agisce di rendersi conto del significato della sua condotta. Questa forma di errore
prende anche il nome di errore motivo: come tale va distinto dall' errore inabilità. L'articolo 47,
comma 1 °, del codice stabilisce: l'errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità della
gente. Sia l'errore che l'ignoranza devono vertere su elementi essenziali del fatto: cioè su
elementi, la mancata conoscenza dei quali impedisce che il soggetto si rappresenta un fatto
corrispondente al modello legale. E’ questo ad esempio il caso 31 del bracconiere : l'errore qui
scusa perché l'omicidio doloso presuppone che la gente sia consapevole di dirigere l'azione contro
l'uomo, essendo la qualità di uomo requisito essenziale del soggetto passivo del reato. Sono invece
errori di regola irrilevanti quelli conseguenti allo scambio tra soggetto oppure tra oggetti, che
rivestono una posizione equivalente sul piano della fattispecie incriminatrice. O lo scambio di
persone od oggetti che occupano rango diverso di fronte al diritto, l'errore può avere invece come
effetto di far venir meno il reato, ovvero di far scattare l' applicabilità di una diversa figura
criminosa o ancora di incidere sul regime delle circostanze aggravanti. E’ da ritenere irrilevante
l'errore sul nesso causale, almeno finché la divergenza tra decorso causale prefigurato e decorso
causale effettivo non sia tale vola da far escludere che l'evento costituisca pur sempre
realizzazione dello specifico rischio insito nell’ iniziale azione del soggetto. L'errore di fatto non
esclude necessariamente la responsabilità penale: può residuare una responsabilità a titolo di
colpa, purché de sussistano i presupposti. Primo presupposto è che l' errore di percezione sia
rimproverabile ; Secondo è che il fatto sia espressamente preveduto dalla legge come delitto
colposo. Particolari problemi suscita il trattamento dell' errore del soggetto imputabile
condizionato ed errore non condizionato. In mancanza di espressa indicazioni normative, è da
ritenere che l'errore condizionato non abbia rilevanza scusante : diversamente si perverrebbe all'
inaccettabile conseguenza di rendere inapplicabile la misura di sicurezza propria nei casi in cui il
soggetto può a causa della sua malattia risultare socialmente pericoloso. La disciplina normativa
dell'errore presenta alcune peculiarità in materia di reati sessuali in particolare con riferimento all'
ignoranza o all'errore del colpevole circa l'età della persona offesa come nel caso 32. La Corte
costituzionale con la sentenza numero 322/2007 ha finito con riconosce uno spazio alla rilevanza
scusante dell’errore sull’ età della persona fisica, estendendo a questa specifica ipotesi i principi in
materia di ignorantia legis elaborati con la fondamentale sentenza n. 364/1998. Meno pacifica
risulta la disciplina dell'errore che ricada su elementi degradanti il titolo di reato. L'esempio
classico è quello del soggetto che cagiona la morte di una persona, nella sua posizione erronea che
la vittima abbia prestato il suo consenso all' uccisione.

3. ERRORE SUL FATTO DETERMINATO DA ERRORE SU LEGGE EXTRAPENALE


Caso 33: il padre di una studentessa presenta una dichiarazione non veritiera sul reddito familiare
al fine di far ottenere il presalario alla figlia: imputato di truffa ai danni dell’opera universitaria, il
genitore si difende eccependo che le dichiarazioni non veritiere sulla situazione economica del
nucleo familiare dipendono da un errata interpretazione delle norme fiscali e delle norme che
regolano la concessione dell' assegno di studio.
L'articolo 47, comma terzo, stabilisce che l'errore su una legge diversa dalla legge penale esclude
la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato. Secondo un primo
orientamento, consolidato nella giurisprudenza, occorrerebbe distinguere tra: norme extra penali
e norma penale incriminatrice, in quanto ne costituiscono un necessario presupposto, e finiscono
perciò con l' incorporarsi in quest'ultima, per cui l’ errore che la coinvolge si scusa allo stesso
modo di un errore sul precetto penale; le norme extra penali, che non integrano invece la norma
incriminatrice, rimangono distinte da quest'ultima, per cui un errore su di esse scusa come un
qualsiasi altro errore sul fatto. Secondo un autorevole orientamento dottrinale, occorrerebbe
invece muovere dalla premessa che le norme extra penali richiamate dalla norma ma le integrano
sempre la fattispecie incriminatrice. L'articolo 47, comma terzo, del codice penale ed i principi
generali relativi alla responsabilità dolosa presuppongono che il dolo determini la conoscenza di
tutti gli elementi del fatto corrispondenti alla fattispecie astratta, ove sia la stessa fattispecie
astratta a contenere elementi giuridicamente qualificativi da norme extra penali. Pur in mancanza
di una disposizione esplicita sul punto, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che anche
nel caso di errore su legge extrapenale possa residuare una responsabilità a titolo di colpa,
beninteso sempre in presenza della pubbliche condizioni che l'errore sia dovuto a colpa e il fatto
sia preveduto dalla legge come delitto colposo. Quanto al significato dell'espressione legge
extrapenale prevale ormai l'opinione per la quale l'articolo 47 intende richiamare non soltanto
norme di natura non penale, ma anche norme penali diverse dalla norma incriminatrice che viene
in questione nel caso di specie. Il quadro delle possibili tipologie di un errore su legge extrapenale,
incidente sull’esatta conoscenza del fatto di reato, è così sintetizzabile:

A) l'errore su legge extrapenale avrà sempre efficacia scusante ove si converta in un errore sui
cosiddetti elementi normativi della fattispecie penale, cioè elementi per la definizione dei quali
soccorre rinvio ad una norma diversa da quella incriminatrice.

B) Un'altra soluzione adottata per gli elementi normativi di natura giuridica deve essere estesa al
trattamento degli elementi normativi di natura e dico sociale.

C) L'errore può escludere la responsabilità anche quando ricada su di una norma extrapenale
integratrice di una norma penale in bianco.

D)L'errore può infine ricadere su di una norma extrapenale che in concreto rileva ai fini della
valutazione del significato di un elemento costitutivo del fatto, pur non instaurandosi però sul
piano della fattispecie astratta un rapporto di richiamo espresso può essere ad esempio il caso
dell’errore del genitore sulle norme fiscali.

4. ERRORE DETERMINATO DALL’ALTRUI INGANNO


L'errore sul fatto può anche derivare dall’ inganno in cui l’agente sia tratto per opera di un’altra
persona. Al riguardo, l'articolo 48 stabilisce che le disposizioni dell'articolo precedenti si applicano
anche se l' errore sul fatto che costituisce reato è determinato dall' altrui danno. L'inganno come
fonte dell'errore deve consistere nell’ impiego di mezzi fraudolenti sostanzialmente assimilabili
agli artifici e raggiri del delitto di truffa: esso può consistere in un qualunque artificio o in qualsiasi
espediente atto sorprendere l'altro buona. E’ da ritenere che, al fine di affermare la responsabilità,
basti la sola condotta ingannatrice è: il semplice fatto di ingenerare in altri un errore può, infatti,
considerarsi un efficace mezzo di determinazione dell’ altrui volontà.

5. REATO PUTATIVO
L'articolo 49, comma primo, stabilisce che non è punibile chi commette un fatto non costituente
reato, nella sua posizione erronea che esso costituisca reato. È la situazione che va
tradizionalmente sotto il nome di reato putativo, cioè un fatto criminoso immaginato da chi
agisce, ma di fatto inesistente. L'errore sul fatto può derivare, oltre che da un errore di fatto anche
da un errore su legge extrapenale. Nel secondo caso, e cioè in quello di errore su norma penale, si
ipotizzi che è un soggetto continua a supporre che costituisca reato l'adulterio, ovvero ritengo che
costituisca illecito penale un rapporto omosessuale. È vero che l'autore di un reato putativo può
rivelare un’ inclinazione soggettiva a delinquere, idonea ad assurgere a eventuale indice di
pericolosità sociale.

SEZIONE V: IL REATO ABERRANTE

1. ERRORE- INVALIDITA’
Caso 34: Tizio, nell’ aggredire mortalmente Caio, presunto amante della moglie, per errore infligge
colpi di coltello anche a sempronio intervenuto per separare i contendenti.

La divergenza tra voluto e realizzato può dipendere non solo da un errore che incide sul momento
formativo della volontà, ma anche da un errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o da un
errore dovuto ad altra causa. In proposito, l'articolo 82, comma uno, stabilisce che quando, per
errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un'altra causa, è cagionata offesa a persona
diversa da quella alla quale l'offesa era diretta, il colpevole risponde come se avesse commesso il
reato in danno della persona che voleva offendere, salve, per quanto riguarda le circostanze
aggravanti e attenuanti, le disposizioni dell'articolo 60. E’ l'ipotesi della aberratio ictus mono
lesiva, la quale si verifica per l'appunto quando, a causa di un errore esecutivo, mutano l'oggetto
materiale e il soggetto passivo. Secondo l'indirizzo oggi dominante, la norma in esame sarebbe
superflua in quanto conforme ai principi generali sull’elemento psicologico del reato. L'offesa è
normativamente equivalente a quella voluta dal soggetto, onde il dolo permane proprio perché
per la sua configurazione basta che la gente si rappresenti gli elementi del fatto rilevanti. Questa
tesi appare tuttavia contestabile, ove si privilegi una ricostruzione del dolo che ne salti la completa
dimensione psicologica. Non si tratta di dimostrare l'esistenza di un dolo astratto, riferito cioè ad
un qualsiasi evento lesivo purché dello stesso tipo di quello previsto dalla fattispecie
incriminatrice. Presupposto di una siffatta qualificazione e la reale congruenza fra voluto e
realizzato. Il soggetto agente voleva colpire un bersaglio ben determinato, ma non lo ha colpito,
per cui il contenuto della volontà colpevole non si è tradotto in realizzazione. Se si dibatte sul
titolo di attribuzione della responsabilità, si riconoscono però senza contrasti che il vero elemento
di novità introdotto dalla disposizione in esame concerne l'inciso, salve, per quanto riguarda le
circostanze aggravanti e attenuanti: in questo modo si applica, infatti, una disciplina delle
circostanze orientata al principio della prevalenza del putativo sul reale. Dispone il secondo
comma dell'articolo 82 che qualora oltre alla persona diversa sia offesa anche quella alla quale
l'offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita, aumentata fino alla metà appunto
questa ipotesi è esemplificata dal caso 34. Si parla di aberratio ictus plurilesiva e si pone il
problema relativo ai criteri di attribuzione della responsabilità appunto la norma non richiede ai
fini dell attribuzione dell' ulteriore dentro non voluto virgola che si accetti l'esistenza di un agire
colposo: così nel caso 34, tizio risponderà le ferite di sempronio anche se per l'errore esecutivo in
cui è in corso può essere rimosso alcun rimprovero di imprudenza punto il trattamento penale
dell' aberratio plurilesiva, ispirato alla preoccupazione di rafforzare la risposta punitiva rispetto ad
azioni particolarmente pericolose, appare molto rigoroso.

2. ABBERATIO DELICTI
Caso 35: uno scioperante lancia un sasso contro un autobus ma, a causa di un errore nel tiro,
colpisce alla testa un passante.

Caso 36: un giovane, nel congiungersi carnalmente con una minore di anni 14, le procura lesioni
personali (strappo delle tribulazione degli organi genitali).

Stabilisce il primo comma dell'articolo 83 che fuori dei casi preveduti dall' articolo precedente, se,
per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato, o per un'altra causa, si cagiona un evento
diverso da quello voluto, il colpevole risponde, a titolo di colpa, dell'evento non voluto, quando il
fatto è preveduto dalla legge come detto colposo. Questo articolo afferma inoltre, che l' evento
cagionato il luogo di quello voluto sta carico della gente a titolo di colpa: vien da chiedersi, però, se
la formula legislativa a titolo di colpa esprima davvero l' intendo di subordinare la punibilità alla
cercata violazione di norme di condotta a contenuto preventivo. Se è vero infatti che le norme
penali hanno una finalità genericamente preventiva, è altrettanto vero che non tutte le norme
penali sanzionano la violazione di regole specificatamente cautelari del tipo di quelle necessarie ad
integrare la responsabilità colposa. Il capoverso dell'articolo 83 prevede che se il colpevole ha
cagionato altresì l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso di reati; per cui la gente
risponde di due reati, uno doloso ed uno colposo.
SEZIONE VI: LA COSCIENZA DELL’ILLICEITA’

1. LA POSSIBILITA’ DI CONOSCERE IL PRECETTO PENALE


Caso 37: un medico, detentore di due pistole regolarmente denunciate, acquisisce una terza
pistola e si presenta all'autorità competente per denunciarne il possesso, dichiarando il numero
complessivo delle armi possedute: l' autorità competente lo assicura che questa denuncia è
sufficiente ai sensi della vigente normativa in materia di armi. (costituisce invece reato detenere
più di due armi comuni da sparo senza licenza di collezione rilasciata dal questore ).

All'interno della concezione normativa della colpevolezza, gioca un ruolo la coscienza dell' illiceità
concepita come elemento costitutivo autonomo : cioè quale requisito distinto che si aggiunge all'
imputabilità, al dolo o alla colpa e all' assenza di cause di discolpa. L'aspetto veramente nodale
riguarda, però, la portata ed i limiti dell'affermazione, secondo cui non esiste colpevolezza senza
coscienza dell’illiceità. L' accoglimento del principio in esame nella sua più ampia portata trovava
virgola in realtà, la sua razione l'incondizionata prevalenza della legge degli interessi pubblici da
essa rappresentati, rispetto ad una più puntuale valutazione delle condizioni personali che ne
abbiano accompagnato la violazione. L'ordinamento penale moderno, infatti ricomprende accanto
al tradizionale nucleo dei delitti naturali, un numero sempre più crescente di delitti di pura
creazione legislativa regola cioè di tipi di lecito penale che sono tali per volontà del legislatore,
senza che ad essi presi sta una corrispondente e diffusa disapprovazione sociale. La chiave di volta
per un’interpretazione correttiva dell'articolo 5 del codice penale e virgola in verità, rappresentata
dall’articolo 27, comma primo, costituzione, il quale, sancendo il carattere personale della
responsabilità penale, impedisce perciò stesso di ritenere irrilevante la mancata percezione del
disvalore personale inerente al fatto commesso. Per soddisfare l'esigenza costituzionale di una
maggiore compenetrazione tra fatto e autore, mediata dalla coscienza del disvalore penale, non è
però necessario richiedere la rispettiva conoscenza da parte della gente del carattere criminoso
del comportamento. La possibilità di conoscenza del carattere illecito del fatto rende evitabile e,
perciò, inescusabile l'ignoranza l'errore in cui il soggetto è eventualmente cada. Il concetto di
possibilità di conoscenza della legge penale richiama, dunque, due coppie concettuali simmetriche
e opposte: da un lato, evitabilità inescusabilità dell'ignoranza, con conseguente riconoscimento
della colpevolezza e affermazione della responsabilità penale; Dall'altro, inevitabilità scusabilità
dell'ignoranza medesima, cui consegue l'assenza di colpevolezza e l'esclusione della punibilità.
Quello relativo al l'individuazione dei criteri, in base ai quali emettere il giudizio sull’inevitabilità
scusabilità dell'ignoranza errore, è il punto veramente nevralgico per i riflessi pratici. Nel solco
delle indicazioni desumibili dalla sentenza della Corte sono prospettabili: A) criteri soggettivi
cosiddetti puri, che cioè fanno prevalentemente leva sulle caratteristiche personali del soggetto
agente: e cioè, livello di intelligenza e di maturazione della personalità, grado di scolarizzazione e
cultura, ambiente sociale di provenienza;

B) Criteri oggettivi puri, cioè che tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza
della legge penale da parte di ogni consociato, quali che ne siano le caratteristiche personali. C)
Criteri misti, che tengono cioè contemporaneamente conto delle circostanze oggettive che
inducono a ignorare la legge penale e delle caratteristiche personali del soggetto agente. È
opportuno avvertire che il modello esposto di accertamento della inevitabilità scusabilità si presta
ad essere influenzato, nella sua concreta applicazione, dalla concezione della colpevolezza dalla
quale più a Monte si prendono le mosse. Infatti può accadere: a) che l'autore del fatto , prima di
agire, si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico e che,
ciò nonostante, lo realizzi senza adempiere preventivamente l'obbligo di maggiore informazione;
b)può anche accadere che egli non si rappresenti tale possibilità, perché senza dubbio, nessun
pensiero nessuna preoccupazione raffiorino alla sua mente circa il carattere lecito illecito del fatto
da realizzare. La rimproverabilità dell’ ignoranza trova fondamento proprio nel processo
psicologico che si è realmente sviluppato nell’autore. La scusabilità del comportamento è da
escludere anche nel caso di soggettività invincibilità del dubbio è da ammettere nel caso di dubbio
oggettivamente irrisolvibile. Nel caso in cui la colpevolezza gioca un ruolo nella concezione dalla
quale essa si muove il rimprovero da rivolgere al soggetto per aver ignorato il carattere illecito del
fatto e privo di una base psicologica reale. È evidente che un giudizio così normativizzato di
colpevolezza risulta più funzionale alla funzione repressiva e preventiva del diritto penale, con
conseguente arretramento delle preoccupazioni individualgarantiste.

SEZIONE VII: CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA

1. DOLO E NORMALITA’ DEL PROCESSO MOTIVAZIONALE; LA COSIDETTA


INESIGIBILITA’
Secondo la concezione normativa, il rimprovero di colpevolezza presuppone infine l’assenza di
circostanze anormali. Parte della dottrina ha fatto assurgere a causa generale di esclusione della
colpevolezza la c.d. inesigibilità, cioè l'impossibilità di pretendere virgola in presenza delle
circostanze concrete in cui la gente si è trovato ad operare, un comportamento diverso da quello
effettivamente tenuto.

a) così, una parte della dottrina configura come causa di esclusione della colpevolezza lo stato di
necessità e la coazione morale, la gente si trovi sotto la pressione di circostanze esterne che,
impedendogli dal punto di vista psicologico di assumere un comportamento diverso da quello
effettivamente tenuto, farebbero apparire come non più rimproverabile il fatto commesso.

b) ma, a prescindere dai casi di espresso riconoscimento legislativo, al principio di inesigibilità si


intende attribuire la funzione di valvola che permette un sistema di norme di respirare in termini
umani. Il carattere, dunque è aperto e analogico, come tale potenzialmente idonea o operare
anche qualche canone extra legislativo di indirizzo, cioè come categoria valida che ad escludere la
colpevolezza pure un'ipotesi non esplicitamente previste dalla legge.

c)un’applicazione analogica del principio di inesigibilità sarebbe configurabile nelle situazioni


caratterizzate da un conflitto di doveri. Si pensi all' ipotesi di un soggetto, titolare di due più
obblighi giuridici di pari rango, il quale ne adempia solo uno perché è impossibilitato ad adempiere
contemporaneamente entrambi.

d) alla problematica del conflitto di doveri lato sensu intesa possono essere ricondotte anche le
situazioni caratterizzate da un conflitto tra norma di condotta appartenenti a sfera normative
diverse e autonome, come l'ordinamento giuridico, da un lato e un sistema morale o religioso,
dall’altro. In questo senso si parla anche di illecito o di delinquente per convinzione di alludere a
fatti criminosi avvenuti come motivazione psicologica un convincimento morale, politico o
religioso.

Tra le regole formali che presiedono all' imputazione penale è escludere che la cosiddetta
inesigibilità possa assumere quel ruolo ampiamente scusante ipotizzato da una parte della
dottrina. Se ci si limita ad asserire che un comportamento non è colpevole perché non era esigibile
un comportamento diverso, rimane ancora senza risposta l'interrogativo più importante, che è
quello di sapere perché non si sarebbe potuto giro altrimenti. Secondo l'opinione dottrinale
predominante di natura tedesca, alla non esigibilità non compete più ruolo di causa generale di
discolpa ma proprio spazio viene tutt'oggi riconosciuto all’inesigibilità nell'ambito dei reati colposi
e dei reati omissivi. Il che non deve sorprendere se si considera che in entrambi i modelli delittuosi
l'osservanza del precetto penale presuppone il possesso di determinati requisiti psico-fisici da
parte il soggetto titolare dell'obbligo di condotta. Nell’ambito dei reati dolosi la considerazione
delle circostanze anomali concomitanti, se non vale ad escludere la colpevolezza, verrà ad
attenuare la misura del rimprovero ed inciderà dunque sulla graduazione della pena. Il
riconoscimento di una discrezionalità giudiziale nella determinazione della misura della
colpevolezza trascende il caso particolare dell'illecito per convinzione. La graduabilità in senso
attenuante del giudizio di colpevolezza potrà essere invocata in generale, cioè in tutti quei casi
dove le circostanze dell’agire rendono psicologicamente poco esigibile un comportamento lecito.

2. SCUSANTI LEGALMENTE RICONOSCIUTE


Senza esclusione dell’inesigibilità possa assurgere a causa generale ciò non impedisce di assumere
un atteggiamento di maggiore apertura rispetto a un riconoscimento più cauto e ben circoscritto
del principio stesso: ciò dire, limitatamente alle sole ipotesi nelle quali il principio stesso assurge a
fondamento plausibile di cause di esclusione della colpevolezza o scusanti espressamente previste
dal legislatore. I limiti ristretti, nel nostro ordinamento sono riconducibili alla categoria dogmatica
delle scusanti alcune situazioni:

A) lo stato di necessità scusante (o cogente) e la coazione morale. Solo nel caso in cui il pericolo di
un danno grave alla persona incombe sullo stesso agente o su un prossimo congiunto, si può
ritenere che una condotta diversa era da parte di chi ha agito psicologicamente inesigibile. La
coazione morale fa riferimento alla situazione di chi compie l'azione criminosa sotto la minaccia
psicologica esercitata da un'altra persona.
B) l'ordine criminoso insindacabile della pubblica autorità. L' adempimento di un ordine criminoso
insindacabile da parte di chi lo esegue non esclude l’illiceità del fatto commesso. Per esentare da
responsabilità penale il subordinato che commette un reato eseguendo un ordine legittimo del
superiore al quale non può disobbedire, si fa leva sulla situazione di forte pressione psicologica
nella quale egli si trova ad agire.

C) l'ignoranza o errore inevitabile scusabile della legge penale a seguito della sentenza
costituzionale n. 364/1988. Anche l'ignoranza invincibile dell'illiceità del fatto può essere
ricondotta nell'ambito delle situazioni, nelle quali non si può psicologicamente presentare da chi
ha agito un comportamento diverso conforme al diritto. L'ignoranza è inevitabile, ed in questo
caso l’agente non era in condizione di comportarsi in modo da non incorrere nella commissione di
un fatto di reato.

SEZIONE 8: LA COLPEVOLEZZA DELLE CONTRAVVENZIONI

1. I CRITERI DI IMPUTAZIONE SOGGETTIVA: DOLO E COLPA


Il codice penale prevede una specifica disciplina dell'elemento soggettivo delle contravvenzioni.
L'interpretazione dell'articolo 42, comma 4°, ha dato luogo a contrastante opinioni soprattutto
subito dopo l'entrata in vigore del codice vigente. Risulta superata quella tesi che riteneva
sufficiente ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico la mera coscienza e volontà della
condotta, indipendentemente dal dolo o dalla colpa. Invero, l'inciso dell'articolo 42, ultimo
comma, sta a significare non tanto che la punibilità della contravvenzioni possa prescindere la dal
dolo o dalla colpa, quanto che indifferente la presenza dell'una o dell'altra specie di colpevolezza.
Infatti, mentre nel campo dei diritti il dolo rappresenta il criterio tipico di imputazione e la colpa
l'eccezione, rispetto alle contravvenzioni sarà sufficiente solo la colpa. Parte della dottrina sostiene
che la legge avrebbe dispensato il giudice dall’agire sull’atteggiamento psichico del
contravventore, sancendo una presunzione juris tantum di colpevolezza e addossando all’agente
l'onere della prova contraria. Secondo altri, sarebbe sufficiente in sede di accertamento far ricorso
alle comuni regole di esperienza. Simili impostazioni sono in realtà del tutto prive di appigli
normativi: infatti non vi è alcuna disposizione che esplicitamente consenta di derogare, nella
materia penale, ai principi generali in tema di accertamento. L'articolo 43, comma 2°, attribuendo
rilevanza alla distinzione tra dolo e colpa anche sul terreno delle contravvenzioni, ammette che
dall’intensità del dolo e del grado della colpa il giudice debba tenere conto ai fini della
commisurazione della pena: ne discende che il giudice deve prima accertare se l'illecito
convenzionale sia stato commesso con un dolo o colpa e poi poter compiere la valutazione. Alcune
contravvenzioni, in considerazione della loro natura o della tecnica legislativa con cui sono
configurate dal legislatore, possano essere commesse soltanto con dolo o con colpa. La distinzione
tra dolo e colpo rileva, oltre che in sede di commisurazione della pena, agli effetti dell'abitualità,
dell'amnistia limitata, reati colposi, eccetera.
CAPITOLO 4: CIRCOSTANZA DEL REATO
Caso 38: tizio reagisce con un violento schiaffo le ingiurie di Caio e gli provoca, come conseguenza
non voluta, una grave scoliosi del setto nasale con connessi disturbi alla respirazione nasale stessa.

1. PREMESSA
L'esigenza di attribuire rilevanza a situazioni o a fattori diversi dagli elementi costituitivi del reato ,
incidono sull’attenuante o sull’aggravante della pena: è però da partire dall' illuminismo che sorge
il problema di un' espressa previsione legislativa di quelle situazioni che vanno oggi sotto il nome
di circostanze di reato, cioè di elementi che stanno intorno o accedono a un reato già perfetto
nella sua struttura, e la cui presenza determina soltanto una modificazione della pena. Si parla
anche di accidentalia delicti per sottolineare che le circostanze sono elementi contingenti che
possono mancare senza che reato venga meno; mentre, se manca un elemento essenziale del
reato a far difetto è la stessa figura criminosa. Grazie alla disciplina del codice Rocco si è finito col
costituire oggetto di tipizzazione legislativa non soltanto a circostanze attenuanti comuni, , cioè
riferibili a tutti i reati, e aggravanti speciali, relative a specifiche ipotesi di reato, ma anche
circostanze aggravatrici di pena applicabile a tutti i reati (cosiddetti aggravanti comuni). Nel
sistema delle circostanze il legislatore ha mirato a tener conto di circostanze particolari che,
incidendo in concreto sulla gravità dell'astratta figura di reato permettono di meglio adeguare la
pena ai singoli e variegati casi criminosi, e far sì che a tale adeguamento sanzionatorio non
rimanga affidato al puro potere del giudice, ma si attui entro confini legislativamente
predeterminati. Per molto tempo si è discusso se l'elemento circostanziale integri di per sé una
fattispecie autonoma cioè se dia luogo a una fattispecie penale complessa. Se ci si muove dalla
premessa di teoria generale che ogni elemento che incide sulla sanzione non può rientrare tre
presupposto della conseguenza giuridica virgola e coerente contestare la tradizionale distinzione
tra elementi accidentali ed elementi essenziale del reato: infatti, rispetto alla fattispecie
circostanziata, le circostanze sono elementi essenziali come gli altri. In pratica assumono rilevanza
due problemi. Il primo concerne la determinazione dei criteri idonee a distinguere tra elementi
essenziali e circostanze di reato; Il secondo problema per solito trascurato, riguarda il rapporto tra
le circostanze in senso stretto e criteri di commisurazione della pena. La disciplina delle
circostanze del reato è stata pesantemente innovata con modifica al codice penale e alla legge 26
luglio 1975, n. 354 in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio, di comparazione
delle circostanze di reato per i recidivi e l'altro. Questo intervento ha sviluppato una sorta di
guerra al crimine che, trasformando lo stato assistenziale caduto in crisi in stato penale, identifica
nei delinquenti recidivi pericolosi nemici dell’ordine costituito, da isolare e naturalizzare con lunga
detenzione in carcere. Dal punto di vista politico- criminale si tratta di una riforma settoriale
ispirata da un intento di differenziazione del trattamento penale, creando una sorta di doppio
binario, l'uno assai più mite destinato ai rei primari, l'altro assai più severo destinato ai famigerati i
recidivi. Questa differenziazione in senso discriminatorio della risposta punitiva viene attuata
attraverso uno stravolgimento della disciplina della recidiva.
2. CLASSIFICAZIONE DELLE CIRCOSTANZE
Distinguiamo:

A) Le circostanze aggravanti comportano per lo più un aumento della pena comminata per il reato
base, variazione cd quantitativa; Ma vi sono dei casi, in cui la presenza dell'aggravante ha per
effetto di modificare qualitativamente la sanzione. Le circostanze attenuanti comportano
viceversa una diminuzione quantitativa della pena prevista, oppure una modifica qualitativa che
però è volta a vantaggio del reo.

B) Si definiscono comuni le circostanze prevedute nella parte generale del codice, perché
potenzialmente applicabili a un insieme non predeterminabile di reati. Sono invece speciali le
circostanze prevedute dal legislatore solo il rapporto a specifiche figure di reato.

C) Sono oggettive le circostanze che concernono la misura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il
luogo e ogni altra modalità dell'azione, la gravità del danno del pericolo, le condizioni o le qualità
personali dell'offeso; sono soggettive quelle che riguardano l'intensità del dolo o il grado della
colpa, o le condizioni, le qualità personali del colpevole, i rapporti tra il colpevole l'offeso, o sono
inerenti alla persona del colpevole.

D) La distinzione tra circostanze tipiche e generiche dipende dal diverso grado di determinatezza
raggiunto in sede di tipizzazione legislativa delle situazioni assunte ad elementi circostanziali. Nella
maggior parte dei casi, l'elemento che integra la circostanza è fatto oggetto di puntuale
descrizione normativa. Non mancano, però, ipotesi nelle quali spetta al giudice concretizzare
elementi circostanziali indicate dal legislatore soltanto in forma assai generica. Si è in proposito
adottata l'etichetta di aggravanti indefinite, cioè denunciare un deficit di tassatività incensurabile.
Le attenuanti indefinite risultano compatibili con l'articolo 25, comma 2° costituzione, poiché il
principio di tassatività viene in questione solo quando si tratta di restringere la sfera di libertà del
reo e non quando l'effetto giuridico va a suo beneficio.

3. CRITERI DI IDENTIFICAZIONE DELLE CIRCOSTANZE


Per tracciare la distinzione tra circostanze ed elementi costitutivi, non si può prescindere dalla
considerazione della specifica funzione che le circostanze stesse assolvono: esse si limitano a
comportare una modificazione quantitativa o qualitativa della pena prevista per il reato semplice.
In assenza di indici sicuri forniti dallo stesso legislatore, la dottrina ha elaborato diversi criteri di
differenziazione, di natura ora formale ora sostanziale. Va segnalato come oggi prevalga un
criterio discretivo che fa leva sull’esistenza di un rapporto di specialità tra l'ipotesi circostanziata e
l'ipotesi semplice di reato: la prima deve porsi in relazione di “specie” a “genere” rispetto alla
seconda, in quanto deve includerne tutti gli elementi con l'aggiunta di uno o più requisiti
specializzanti. La specialità è condizione necessaria. È per questa ragione che possono soccorrere
ancora oggi criteri cosiddetti ausiliari: si tratta cioè degli indici tradizionalmente costituiti da
nomen juris, così, l'individuazione degli elementi circostanziali finisce con il rappresentare un
tipico problema interpretativo da risolvere da caso a caso.

4. CRITERIO DI IMPUTAZIONE DELLE CIRCOSTANZE


La disciplina normativa del criterio di imputazione delle circostanze ha subito una profonda
modifica. Rispetto all' imposizione originaria del codice dove le circostanze venivano attribuite in
base a un criterio puramente oggettivo, con la legge 7 Febbraio 1990, n. 19, intitolata: “modifica in
tema di circostanze, sospensione condizionale e destituzione dei pubblici dipendenti”, il legislatore
ha modificato il modello oggettivo sottoponendo anche le circostanze, e più precisamente quelle
aggravanti, a un regime di imputazione soggettiva. Infatti, il nuovo testo dell'articolo 59, comma
2°, stabilisce: le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se
da lui conosciute o ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Per
effetto di questa nuova disciplina, dunque, il principio nulla poena sine culpa è stato esteso
legislativamente anche alle circostanze che aggravano la pena. È rimasta inalterata l'imputazione
obiettiva delle circostanze attenuanti poiché coincidono in ogni caso favorevolmente sul
trattamento punitivo e che non sollevano alcun problema di rispetto del principio di colpevolezza.
Introducendo la nuova disciplina in esame il legislatore ha proposto una regola di imputazione
soggettiva differenziata, a seconda che la circostanza aggravante acceda ad un reato doloso o
colposo: l' effettiva conoscenza dell'elemento circostanziale sarebbe richiesta solo rispetto a un
illecito base attribuito a titolo di dolo; Mentre, rispetto al reato colposo è sufficente che il reo non
ne abbia conosciuto per colpa l'esistenza. La lettura del nuovo testo dell'articolo 59 ammette una
ulteriore interpretazione: la specifica colpevolezza relativa alle circostanze aggravanti esige in tutti
i casi la colpa. Una disciplina peculiare, nel senso di un'adesione ancora più piena al principio di
colpevolezza, è prevista per ipotesi di errore sulla persona offesa da un reato. Im proposito
l'articolo 50 del codice dispone che nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono
poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della
persona offesa, o rapporti tra offeso e colpevole. Sono invece valutate a favore le circostanze
attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti.
L'articolo 60 prospetta rispetto ai casi di errore sulla persona offesa una regola di imputazione
soggettiva delle circostanze aggravanti, che risulta per il reo più favorevole di quella prevista oggi
più in generale da un novellato articolo 59, comma 2. L'ultimo comma dell'articolo 60 ripristina i
criteri generali di imputazione di cui all'articolo 59, comma 2 qualora si tratti di circostanze che
riguardano l'età o altre condizioni o qualità, fisiche o psichiche, della persona offesa.

5. CRITERI DI APPLICAZIONE DEGLI AUMENTI O DIMINUIZIONE DI PENA


L'effetto giuridico tipico delle circostanze è quello di modificare il regime sanzionatorio previsto
per la figura semplice di un reato, i criteri però non sono sempre uguali. Occorre distinguere tra
circostanze ad efficacia comune e circostanze ad efficacia speciale. Le prime sono caratterizzate
dal fatto che l'aumento o la diminuzione di pena è dipendente dalla pena ordinaria, nel senso che
si effettua una variazione frazionaria, fino a un terzo, della pena prevista per il reato semplice.
Sono circostanze ad effetto speciale, a norma dell'articolo 63, comma 3, quelle che importano un
aumento o una diminuzione della pena superiore a un terzo; vale la stessa regola secondo cui
l'aumento o la diminuzione per altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla
pena stabilita per la circostanza speciale. Il legislatore del 1984, mosso dall' intento di alleggerire il
carico di lavoro dei tribunali, aveva ampliato per materia del pretore fissando il principio per cui
quest'ultima andava determinata tenuto conto degli aumenti di pena indotti soltanto dalle
circostanze ad efficacia speciale. A tal fine, l'articolo 51,31 luglio 1984, n. 400 ha riformulato
l'articolo 63, comma tre, non soltanto introducendo espressamente l'etichetta “circostanza ad
effetto speciale”, ma anche fornendone una esplicita definizione legislativa. Tale articolo
menziona le circostanze cosiddette indipendenti, e cioè che determinano la misura della pena in
modo indipendente dalla pena ordinaria ma solo a condizione che determinano, in base a un
ideale calcolo frazionario, uno aumento o una diminuzione superiore a un terzo. La vera novità
della modifica introdotta dal legislatore del 1984 consiste nell’aver risolto in senso positivo il
dubbio relativo alla possibilità di far rientrare, nella categoria delle circostanze effetto speciale,
anche quelle che comportano una variazione frazionaria della pena base superiore a un terzo.

6. CONCORSO DI CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI


A un medesimo fatto di reato possono talora accedere più circostanze: si parla di concorso
omogeneo per designare le ipotesi nelle quali sono compresenti più circostanze della stessa
specie. La disciplina del concorso omogeneo si differenza, a seconda che si tratti di circostanze ad
efficacia comune o ad efficacia speciale. Nel primo caso se concorrono più circostanze aggravanti o
più circostanze attenuanti, l'aumento o la diminuzione si opera sulla qualità di pena risultante
dall’aumento o dalla diminuzione precedenti, sempre nei limiti previsti. Infatti, l'articolo 66
dispone in proposito che gli aumenti non possono superare il triplo del massimo stabilito dalla
legge: in ogni caso, non può eccedere il limite degli anni trenta se si stratta di reclusione, e degli
anni cinque se si tratta di arresto. In ipotesi di concorso di circostanze attenuanti, la pena da
applicare non può essere inferiore ai dieci anni se la pena prevista per il delitto è l'ergastolo,
mentre negli altri casi non può essere inferiore a un quarto. La disciplina del concorso omogeneo
delle circostanze ad efficacia speciale è diversa: l'articolo 63, comma 4, stabilisce che, se
concorrono più circostanze aggravanti, si applica la pena stabilita per la circostanza più grave ;
Mentre il colma 5, stabilisce che se concorrono più attenuanti si applica solo la pena meno grave
stabilita per le circostanze predette. Se parliamo di concorso omogeneo tra circostanze efficacia
comune e circostanze effetto o efficacia speciale, l'articolo 63, comma 3, stabilisce che l'aumento
o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena
stabilita per la circostanza anzidetta. Fuori dai casi di specialità è valutata a carico a favore del
colpevole soltanto la circostanza aggravante o la circostanza attenuante, la quale importa il
maggiore aumento o la maggiore diminuzione della pena.
Si ha concorso eterogeneo quando a un medesimo fatto di reato eccedono,
contemporaneamente, circostanze aggravanti e attenuanti. La precedente regolamentazione del
codice Zanardelli si è innovata: il legislatore del 1930 ha introdotto il diverso principio del
bilanciamento. A norma dell'articolo 69 il giudice deve procedere a un giudizio di prevalenza o
equivalenza tra le circostanze eterogenee con la conseguenza di far luogo all'applicazione delle
sole circostanze ritenute prevalenti, ovvero della pena che sarebbe stata inflitta in assenza di
circostanze. L’innovazione fu motivata dalla necessità che il giudice avesse una visione organica e
completa del colpevole del reato commesso. Il giudizio di bilanciamento, in origine era limitato alle
circostanze ed efficacia comune: l'esclusione delle circostanze ad efficacia speciale era motivata
dall’esigenza di sottrarre al sindacato valutativo del giudice la gravità di circostanza già
automaticamente valutate dal legislatore. Oggi con la riforma novellistica dell'aprile 1974, il
giudizio di comparazione però non incontra alcun limite: le disposizioni dell'articolo 69, comma 4,
consentono il giudizio di prevalenza o equivalenza solo alle circostanze inerenti alla persona del
colpevole ed altra qualsiasi circostanza per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa o
determina la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato. Secondo
l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente, i criteri di valutazione relativi alla
comparazione di circostanze vanno ricavati dagli stessi parametri forniti dall’articolo 133, che
disciplina il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena. Però, l'articolo si
limita ad enunciare una serie di elementi di cui tener conto in sede di commisurazione della pena,
senza fissare alcuna gerarchia nell’eventualità di un conflitto tra tali elementi. Sembra pertanto da
preferire l'opinione ancora oggi di minoranza, secondo la quale il giudizio di comparazione
andrebbe effettuato mettendo al reciproco confronto le circostanze eterogenee, considerate però
nella loro specifica intensità accertata in concreto. Tale criterio è tuttavia suscettibile di
applicazione né generale né certa. Vi sono infatti circostanze talmente eterogenee tra di loro da
non consentire alcuna valutazione e anche il criterio dell’intensità in concreto non esente da
apprezzamenti soggettivi e arbitrari. Il giudizio di comparazione tra circostanze è stato preso di
mira dal legislatore della riforma del 2005 che ha ritenuto necessario intervenire anche
sull’articolo 69 per vincolare il giudice ad un maggior rigore repressivo in sede di comparazione,
eliminando gli orientamenti di fatto sia in merito all' eccesso di discrezionalità, sia in merito alla
sottovalutazione del disvalore della recidiva. Questo obiettivo è stato realizzato con la stesura
dell'ultimo comma dell'articolo 69, il quale introduce un divieto di prevalenza delle circostanze
attenuanti sulle circostanze aggravanti: nei casi di recidiva reiterata di cui al rinnovato articolo 99,
comma 4; nei casi previsti dagli articoli 111 e 112, comma 1, numero 4, relativi alla determinazione
reato di persone non imputabili o non punibili. La ratio della prevalenza a favore dei recidivi
reiterati pone l'esigenza di apprezzare non solo la reale entità del fatto criminoso, ma anche la
personalità del colpevole, onde conseguire il miglior adattamento della pena al caso concreto. Se
così è bisogna partire dal principio di eguaglianza ai principi di individuazione del trattamento
punitivo e di rieducazione ex articolo 27 costituzione.
7. APPLICAZIONE DELLE CIRCOSTANZE E COMMISURAZIONE DELLA PENA
Le circostanze cosiddetta ed efficacia comune comporta un aumento o una diminuzione fino a un
terzo della pena che si sarebbe altrimenti inflitta per il reato base. È affidata dunque alla
discrezionalità del giudice la determinazione della quantità ricompreso tra un minimo, cioè un
giorno, e il massimo, cioè 1/3, della variazione di pena prodotta dalle circostanze. Considerata
questa struttura bifasica del meccanismo di determinazione della pena in concreto, sorge il rischio
che circostanze di identico contenuto siano oggetto di valutazione due volte: una prima volta, al
momento di determinare la differenza tra minimo e massimo, e una seconda volta, nello stabilire
l'entità della variazione connessa alla circostanza. Con la doppia valutazione di elementi identici o
analoghi si deve ritenere che uno stesso elemento di fatto siete computare virgola in sede di
determinazione della pena, una sola volta.

8. LE SINGOLE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI COMUNI


L'articolo 61 contiene il catalogo delle circostanze aggravanti comuni punto sono:

1) “L’avere agito per motivi obietti o futili”. Il motivo si distingue dallo scopo: mentre lo scopo
costituisce l'obiettivo delle azioni, il motivo rappresenta l'impulso che spinge psicologicamente ad
agire. È abietto il motivo turpe, ignobile, che si rileva nell’agente un tale grave di perversità, da
destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media normalità. Il motivo si considera
futile quando sussiste un enorme sproporzione tra il movente e l'azione delittuosa. Secondo
l'orientamento giurisprudenziale prevalente, la circostanza in esame è incompatibile sia con
l'attenuante della provocazione che con il vizio parziale di mente, posto che non può farsi carico
alla gente di una malvagità che si trova spiegazione nell’ambito di un quadro morboso. L'
aggravante in parola ha natura soggettiva.

2) “L'aver commesso il reato per eseguirne od occultare un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri il prodotto il profitto o il prezzo ovvero l'impunità di un altro reato”.
L'aggravante in questione viene giustificata in base alla maggiore pericolosità di colui il quale, pur
di attuare il suo intento criminoso, non arretra di fronte alla commissione di un reato- mezzo. Si
ritiene che per integrare l'aggravante del nesso teologico non è necessario che l’agente abbia
conseguito lo scopo che si prefigurava, ma si reputa sufficiente che la sua volontà fosse diretta a
commettere un altro reato: il reato- mezzo è aggravato anche quando il reato- fine non sia stato
commesso o tentato. Tende in giurisprudenza affermarsi la tese la tesi secondo cui l'aggravante
non è esclusa dal fatto che i reati teleologicamente connessi derivano da una sola condotta
criminosa, purché risulti la loro connessione finalistica. L' aggravante applicabile anche se la
procedibilità del reato- fine è impedita dalla mancanza di querela. Il reato continuato oggi si
configura anche in presenza della violazione di leggi che configurano reati diversi, purché
beninteso ricorra un medesimo disegno criminoso. Bisogna rilevare che sussiste una profonda
analogia tra la medesimemezza del disegno criminoso e il nesso teologico. La tesi della tacita
abrogazione dell'articolo 61, n. 2, è tuttavia respinta dalla giurisprudenza prevalente.
3) “L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell'evento”. È l'ipotesi della colpa
cosciente o con previsione che opportuno trattare, ratione materiae , nell’ambito del delitto
colposo.

4) “L'avere adoperato sevizie, o l'aver agito con crudeltà verso le persone”. Le sevizie consistono
nell’inflizione di sofferenze fisiche non necessarie alla realizzazione del reato; La crudeltà si
traduce nell’inflizione di sofferenze morali che oltrepassano il limite del normale sentimento di
umanità, e che appaiono superflue rispetto ai mezzi necessari per l'esecuzione del fatto delittuoso.
È controverso se l'aggravante attenga alle modalità dell’azione ed abbia dunque natura oggettiva,
o se denoti una maggiore criminosità dell’agente e possegga carattere soggettivo. Si ritiene inoltre
che la circostanza in esame sia compatibile con l'attenuante della provocazione.

5) “L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo di persona, anche riferimento all'età


avanzata, tale da ostacolare la pubblica o privata difesa”. La circostanza è denominata minorata
difesa, e presuppone che l’agente abbia consapevolezza della situazione di vulnerabilità in cui
versa il soggetto passivo. È da considerare circostanza di natura di natura oggettiva perché attiene
alle modalità dell'azione.

6) “L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente


alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per
un precedente reato”. L' aggravante si riferisce alla situazione definibile come latitanza: ma gli
effetti giuridici conseguono alla situazione di fatto sottesa la qualifica giuridica. Se ne deve dedurre
che l'ultimo comma dell'articolo 296 c.p.p. equipari l'evaso al latitante che la circostanza sia
applicabile reati commessi dall’evaso. La ragione viene ravvisata nella più accentuata volontà di
ribellione manifestata da chi commette un nuovo reato dopo essersi sottratto al potere coercitivo
dello Stato. La circostanza ha natura soggettiva perché si riferisce alle condizioni qualità personali
del colpevole.

7) “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, che comunque offendono il patrimonio, o nei delitti
determinati da motivi di lucro, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
rilevante gravità”. La rilevanza del danno deve essere valutata sul piano oggettivo , prescindendo
dalla capacità economica del danneggiato perché è elemento sussidiario di valutazione , cui
ricorrere soltanto quando la valutazione del danno non consente di stabilire con certezza se esso
sia di rilevante gravità. Sempre fini della stima del danno, si ritiene che esso deve essere accertato
tenendo conto del momento in cui il reato viene commesso. Si afferma anche che costituisce un
elemento di danno valutabile pure il lucro cessante, quale danno economico arrecato al
patrimonio del danneggiato. I delitti che offendono il patrimonio riguardano le circostanze
pregiudizievoli che in concreto ne discendono a carico dell’altrui patrimonio. Nel caso del reato
continuato, ai fini della valutazione della rilevanza del danno occorre prendere in considerazione i
singoli episodi criminosi. La circostanza di cui si discute ha un evidente natura oggettiva.

8) “l' aver aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso”. La condotta
che integra la circostanza in esame è autonoma e successiva rispetto a quella che dal vita al reato:
occorre l'intenzione di aggravare anche all' ipotesi del tentato aggravamento. L' aggravante è di
rara applicazione giurisprudenziale, come ad esempio chi, dopo aver ferito gravemente taluno,
rimuova la fasciatura per provocare una emorragia. La sua natura è controversa: appare soggettiva
se si pone l'accento sul profilo relativo alla persistenza del proposito criminoso; mentre sembra
oggettiva se si valorizza il profilo inerente alla gravità del danno o del pericolo.

9) “L'avere commesso il fatto con abuso di poteri, o con violazione dei doveri inerenti una pubblica
funzione, un pubblico servizio, ovvero la qualità di ministro di un culto”. L' applicabilità di questa
aggravante esula in tutti i casi, nei quali l'abuso costituisce elemento integrante il reato- base. Ai
fini della configurabilità della circostanza, non basta il mero possesso della qualifica di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma necessario che la qualifica
stessa abbia in qualche modo agevolato l'esecuzione del reato. L’aggravante non può essere più
applicata se l'abuso non è doloso: essa, dunque si applica solo se effettivamente conosciuta e
voluta. L'opinione dominante attribuisce ad essa natura soggettiva, perché riguarda qualità
personali del colpevole.

10) “L'avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico
servizio, o rivestita dalla qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato, o
contro un agente diplomatico o consolare di uno stato estero, nell'atto OA causa dell'
adempimento delle funzioni o del servizio ”. L' aggravante è posta a tutela di determinati soggetti
in considerazione dello speciale ruolo rispettivamente investito. Si richiede che il reato sia
commesso nell’atto o a causa delle funzioni svolte da soggetti passivi, ma non è necessaria
l'esistenza di un rapporto di omogeneità tra il reato stesso e le funzioni in questione. La
circostanza ha natura oggettiva perché riguarda la persona dell'offeso.

11) “L'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, o con abuso di
relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione o di ospitalità ”. La ratio di questa
aggravante consiste nell’abuso di fiducia commesso da chi compie un reato a danno di persone
legate da particolari relazioni col soggetto attivo : la relazione di fiducia deve essere però ritenuta
presunta, nel caso che non occorre di volta in volta la prova della sua esistenza concreta. Si ha
abuso di autorità quando si profitti di una condizione di supremazia nei confronti del soggetto
passivo. Si ha abuso di relazioni domestiche quando le persone coinvolte appartengono ad un
medesimo nucleo familiare, anche se non legate da un vincolo di reciproca parentela. Le relazioni
di ufficio possono consistere anche in relazione di mero fatto, indipendentemente dalla
corrispondente qualificazione giuridica (può trattarsi anche di relazione temporanee). Il concetto
di prestazione d'opera riguarda qualsiasi rapporto in virtù del quale l’agente presta a qualunque
titolo la propria opera a favore di altri. In giurisprudenza si afferma che nella nozione di
coabitazione rientra la convivenza e la permanenza non momentanea di due più persone in un
luogo idoneo alla vita domestica, a prescindere dal fatto che tale permanenza sia volontaria o
imposta da ragioni esterne. Per ospitalità si ritiene sufficiente che il soggetto attivo venga, anche
occasionalmente, accolto con il consenso dell' ospitante. La circostanza natura soggettiva perché
riguarda i rapporti tra colpevole e offeso.

11 BIS) “L'avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio
nazionale”. Questa circostanza è dichiarata costituzionalmente illegittima.
11 TER) “L’avere commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all'interno
o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione”. Questa circostanza è riconducibile è una
preoccupazione politico- criminale contingente, nel senso cioè che mira fronteggiare il fenomeno
del cosiddetto bullismo fortemente enfatizzato dai media nel corso degli ultimi tempi. La
circostanza natura oggettiva.

11 QUATER) “L’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era
messo una misura alternativa alla detenzione”. L’aggravante mira a rafforzare l'efficacia e
l'effettività delle misure alternative alla detenzione, sanzionando più gravemente chi ha
commesso un reato doloso durante il tempo in cui godeva di una misura alternativa.

11 QUINQUIES) “L’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la
libertà personale nonché nel delitto di cui all'articolo 572, commesso il fatto in presenza un danno
di un minore di anni 18 o in danno di persona di in stato di gravidanza”. Tale circostanza
aggravante intende proteggere in maniera rafforzata più rigorosa le vittime di reato considerate
vulnerabili.

9. LE SINGOLE ATTENUANTI COMUNI


L'articolo 62 contiene il catalogo delle circostanze attenuanti comune. Esse sono:

1) “L’avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale”. È una condotta illecita perché
criminosa, e mai l'azione potrebbe assurgere ad espressione di un motivo meritevole. L'attenuante
dei motivi di particolare valore morale e sociale non può essere concessa a chi, determinandosi ad
agire per fini di maggiore giustizia sociale, pretenda di realizzarli mediante l'uso della violenza.
Occorre tenere separate la valutazione dell'azione e quella del motivo. Adottando questo criterio
di giudizio, l'attenuante de qua finisce per essere applicabili a tutti i reati e, quindi, anche i casi più
gravi. Fra l'azione delittuosa e il motivo apprezzabile deve, però, sussistere un rapporto di
congruenza esteriormente accertabile: l'azione commessa deve rappresentare una risposta
riconoscibile e non incongrua rispetto il motivo allegato. La circostanza ha natura soggettiva e può
concorrere con la premeditazione.

2) “L’avere reagito in stato d'ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”. È questa l'attenuante
della provocazione, caratterizzata dal punto di vista strutturale da un momento soggettivo e da
uno oggettivo. Il primo è costituito dallo stato d'ira, cioè da un impulso emotivo incontenibile che
provoca nell’agente la perdita dei poteri di autocontrollo; il secondo momento è rappresentato da
un fatto ingiusto, cioè contrario non solo a norme giuridiche, ma anche all'insieme delle regole
sociali vigenti in un contesto di civile convivenza. Il fatto deve essersi effettivamente verificato. È
opinione giurisprudenziale che manca il nesso causale tra fatto ingiusto del soggetto passivo e
reazione della gente, tutte le volte in cui non vi sia proporzione e adeguatezza tra fatto
provocatorio e fattore attivo. L' attenuante può concorrere con quella dei motivi di particolare
valore morale e sociale, col vizio parziale di mente, mentre è incompatibile con la premeditazione.
La circostanza ha natura soggettiva.
3) “L’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunione
assembramenti vietati dalla legge o dall'autorità, e colpevole non è delinquente o contravventore
abituale o professionale, o delinquente per tendenza”. È dato dell’esperienza che le folle possono
talora esercitare un’efficacia e suggestiva che allenta i freni inibitori e facilita la commissione dei
reati. Dal punto di vista strutturale, la circostanza presuppone non solo la presenza di una
moltitudine di persone in stato di intensa e violenta tensione emotiva, ma che l’agente si trovi di
fatto coinvolto e che riceva stimolo ad agire dalla suggestione esercitata dalla folle. L' attenuante
ha natura soggettiva.

4) “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato
alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, o, nei delitti determinati
da motivi di lucro, l'aver agito per conseguire vuole avere comunque conseguito un lucro di
speciale tenuità, quanto anche l'evento dannoso pericoloso sia di speciale tenuità”. La
formulazione normativa della circostanza deriva da un'integrazione del testo originario
dell'articolo 62, numero 4, ad opera della già citata legge n. 19/1990: l'elemento di novità è
costituito dalla presa in considerazione del lucro e della sua entità, mentre in precedenza la norma
faceva esclusivo riferimento al danno. Il danno deve essere valutato in relazione al valore della
cosa, mentre costituisce criterio soltanto sussidiario il riferimento alle condizioni economiche del
soggetto passivo. Per l'accertamento occorre aver riguardo al momento della consumazione, con
esclusione quindi di ogni giudizio successivo al verificarsi del reato. Occorre che l'offesa arrecata
dal fatto determinato da motivi di lucro appaia, per qualità o grado, privati serio disvalore penale.
In ipotesi di reato continuato, la valutazione deve essere compiuta in relazione ai singoli episodi
delittuosi punto la circostanza evidente natura oggettiva.

6) “L’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso, e,
quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l' essersi, prima del giudizio e fuori del caso
preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente
per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato“. In realtà, l'articolo 62
prevede due distinte circostanze attenuanti: la prima circostanza, denominata risarcimento o
riparazione del danno, presuppone che il ristoro del danno medesimo sia effettivo ed integrale, in
modo da compensare sia il danno patrimoniale che quello non patrimoniale. Considerata carattere
soggettivo da una dottrina dominante, la circostanza in questione è stata invece ricostruita in
chiave essenzialmente oggettiva dalla Corte costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto
n. 138 del 1998: secondo la Corte, il risarcimento integrale e indice non solo della irrilevanza
dell'atteggiamento interiore del reo, ma del preminente risvolto che si entente dare alle esigenze
che il pregiudizio subito dalla persona offesa sia interamente ristorato. La seconda ipotesi consiste
nell’adoperarsi in modo spontaneo ed efficace al fine di elidere o attenuare le conseguenze del
reato. È sufficiente che lo sforzo del colpevole sia frutto di una libera scelta e non l'effetto della
pressione di circostanze esterne. La giurisprudenza ritiene che le conseguenze cui si riferisce
l'attenuante de qua sono diverse da quelle di natura patrimoniale: si esclude l'applicabilità della
circostanza ai reati contro il patrimonio. Si tratta di una circostanza di natura soggettiva.
10. CIRCOSTANZE ATTENUANTI GENERICHE
Con l'articolo 62 bis sono state reinserite nel nostro codice penale le cosiddette attenuanti
generiche, che il legislatore del 1930 aveva ritenuto invece opportuno sopprimere in coerenza con
l'ispirazione accentuatamente rigoristica propria dell'originario impianto del codice Rocco.
L'articolo dispone che il giudice, indipendentemente dalle circostanze prevedute nell’articolo 62,
può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una
diminuzione della pena. Esse sono considerate, in ogni caso, come una SOLA circostanza, la quale
può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62. Secondo
l'orientamento più tradizionale l'articolo 62 bis costituirebbe una appendice dell'articolo 133,
funzionale a una riduzione del minimo edittale della pena, qualora questo minimo si rilevi
sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del colpevole. Va preferita
l'opinione che attribuisce all'articolo 62 bis una funzione autonoma, consistente nel permettere al
giudice di cogliere un valore positivo del fatto, nuovo diverso rispetto ai valori espressamente
presi in considerazione dall' articolo 62. Si tratta dunque di circostanze in senso tecnico,
indipendentemente dalla valutazione complessiva del fatto e della personalità dell’agente. La
conseguenza pratica dell'articolo 62 bis è che questo può essere applicato anche se la pena-base
sia irrogata in misura superiore al minimo e il fatto criminoso sia obiettivamente grave ed il reo
abbia precedenti penali. Per quanto riguarda le circostanze attenuanti generiche vige il principio
del divieto della doppia valutazione; i valori attenuante riconducibili all’aperta e generica
previsione dell'articolo 62 bis sono insuscettibili di esaustiva elencazione. Il riconoscimento della
natura circostanziale delle attenuanti generiche comporta che ad esse si applicano tutte le norme
che presiedono alla disciplina delle circostanze in senso tecnico. Le circostanze generiche si
considerano sempre come una sola circostanza e sono soggette al principio del bilanciamento.

Con la legge di riforma del 2005 si ha l'obiettivo di ridurre la discrezionalità valutativa del giudice ai
fini della concedibilità delle circostanze generiche nelle specifiche ipotesi di recidiva reiterata di cui
al nuovo comma 2 dell'articolo 62 bis: allo scopo di legare le mani all'organo giudicante gli si
preclude di tener conto dei criteri di commisurazione giudiziale della pena che fanno riferimento
all' intensità del dolo e alla capacità di delinquere del colpevole. Con la conseguenza che la
valutazione giudiziale dovrà incentrarsi su parametri di carattere oggettivo relativi alla gravità del
danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, nonché alla natura, alla specie, ai
mezzi, all'oggetto, al tempo, al luogo e ogni altra modalità dell'azione. La valutazione a carattere
oggettivo implica che risulta giustificata una presunzione normativa a carattere assoluto circa
l'elevata intensità del dolo delinquere. La scelta di comprimere gli spazi di discrezionalità giudiziale
appare criticabile: una volta che legislatore fa dipendere la valutazione giudiziale dalla gravità del
reato dall’utilizzo di criteri a carattere sia oggettivo che soggettivo, non si comprende quale sia la
logica che consente di derogare ad alcuni di questi criteri con riferimento ad alcuni tipi di autori e
ad alcune tipologie e sia pur gravi di illecito penale. La Corte costituzionale con sentenza del 10
giugno 2011 ha dichiarato parzialmente illegittima la norma in questione per contrasto con il
principio di rieducazione e di ragionevolezza. La disciplina delle circostanze attenuanti generiche è
stata resa ancora più restrittiva con la legge di conversione del “decreto sicurezza” 2008 n.42. Il
legislatore, escludendo da autorità la rilevanza attenuante dello stato di incensuratezza, intende
sollecitare i giudici ad un maggiore impegno nel motivare le ragioni che giustificano la diminuzione
della pena.

11. LA RECIDIVA
Tra le circostanze inerenti la persona del colpevole il codice annovera la recidiva che letteralmente
equivale a ricaduta nel reato. L'istituto della recidiva è stato oggetto di modifiche ad opera della
legge di riforma del 2005 n.. 251. L' intenzione perseguita dal legislatore è stata quella di reagire a
rischio di un'eccessiva svalutazione applicativa della recidiva, con conseguente attenuazione della
risposta punitiva , quell’effetto di un eccesso di clemenzialismo dovuto alla discrezionalità
giudiziale. Si spiega così il fatto che la recidiva sia stata trasformata da facoltativa in obbligatoria.
La prima importante modifica ha riguardato l'individuazione dei reati-presupposto identificati
adesso solo nei delitti non colposi. Recidivo è dunque chi dopo aver sta dopo essere stato
condannato per un delitto non colposo, ne commetto un altro parimenti non colposo. Il fenomeno
del recidivismo cominciò a destare allarme a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ma esso
come categoria giuridica tardò ad affermarsi: la previsione di un aumento di sanzione come
conseguenza della ricaduta nel reato da parte dello stesso autore finiva con l' alterare quel
rapporto di perfetti equilibri implicito nell’equazione gravità del reato- pena. La recidiva ha però
finito col far ingresso nella maggior parte dei codici per soddisfare esigenze di prevenzione
speciale cioè, essa giustificherebbe un aumento di pena proprio perché la misura di pena inflitta in
occasione delle precedenti condanne si è rilevato insufficiente a distogliere il reo dal commettere
nuovi reati. È di evidenza il suo possibile nesso col concetto di capacità a delinquere: da questo
punto di vista, la recidiva assumerebbe alla maggiore capacità delinquere del soggetto. Il reo
recidivo dimostrerebbe sia una maggiore insensibilità ai dettami dell’ordinamento, sia una
maggiore propensione a delinquere in futuro. L'articolo 99 prevede tre forme di recidiva, che si
distinguono sia nei presupposti, sia negli effetti giuridici:

1) La recidiva semplice consiste nella commissione di un delitto non colposo a seguito della
condanna irrevocabile per un altro delitto non colposo: è indifferente il tempo trascorso dalla
precedente condanna. L'aumento di pena è di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto
non colposo. Presupposto dell' applicabilità dell' aggravamento di pena è che il precedente delitto
sia stato accertato con una sentenza definitiva di condanna. Dal momento che la recidiva va
annoverata tra i cosiddetti effetti penali della condanna, ai fini della sua sussistenza si tiene anche
conto delle precedenti condanne per le quali sia intervenuta una causa di estinzione del reato
della pena.

2) La recidiva è aggravata se il nuovo delitto non colposo è dalla stessa indole (recidiva cosiddetta
specifica), o è stato commesso entro 5 anni dalla condanna precedenti (recidiva cosiddetta
infraquinquennale ), o è stato realizzato durante o dopo l'esecuzione della pena oppure ancora
durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena stessa.
In tutte le ipotesi la pena può essere aumentata fino alla metà: alla maggioranza dell' incremento
di pena si accompagna però il mantenimento del suo carattere il flessibile discrezionale. sono
considerati reati della stessa indole non soltanto quelli che violano una stessa disposizione di
legge, ma anche quelli che, pur essendo preveduti da disposizione diverse di questo codice o da
leggi diverse per la natura dei fatti che li costituiscono ed emotivi che li determinarono,
presentano caratteri fondamentali comuni. Quando si tratta invece di reati che violano
disposizione incriminatrice diverse, tra i reati stessi, considerati nella loro concretezza, dovranno
intercorrere caratteri fondamentali comuni . Queste note comuni vanno desunte da un confronto
dei reati operati da un duplice aspetto: dal punto di vista della natura dei fatti che li costituiscono,
cioè accertare una sostanziale omogeneità dei fatti concreti considerati nelle effettive modalità di
realizzazione e nei risultati lesivi che ne conseguono; e dai motivi che determinarono la
commissione dei reati , verificando se alla base dei diversi fatti criminosi vi sia un' identica o un un'
analoga motivazione psicologica.

3) La recidiva è reiterata se il nuovo delitto non colposo è commesso da chi è già recidivo.
L'aumento di pena è della metà nel caso di recidiva semplice; è di due terzi se la precedente
recidiva è stata aggravata specifica o infraquinquennale o si riferisce un delitto non colposo
commesso durante o dopo l'esecuzione della pena, o durante il tempo in cui il condannato si
sottrae volontariamente alla esecuzione della pena stessa.

4) Il novellato articolo 99, comma 5, prevede una nuova figura di recidiva reiterata obbligatoria
che si riferisce al soggetto recidivo che commette uno dei delitti indicati nell'articolo 407, comma
2, lettera a) del codice di procedura penale. Tale catalogo viene assunto a fondamento per la
disciplina di un istituto di diritto sostanziale quale appunto è la recidiva, senza una ragionevole
motivazione politico criminale. L'ipotesi di recidiva obbligatori in esame non è limitata ai casi di
reiterazione, ma include anche quelli di recidiva aggravata di cui al comma 2 , rispetto ai quali si
stabilisce che la pena non può essere inferiore a un terzo della pena da infliggere per il nuovo
delitto.

5) L’ultimo comma dell'articolo 99 dispone che in nessun caso l'aumento di pena per effetto della
recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione
del nuovo delitto non colposo. La recidiva comporta oltre agli aumenti di pena, ulteriori
conseguenze giuridiche minori il rapporto all' amnistia, all' indulto, alla sospensione condizionale,
al l'estinzione della pena, al perdono, eccetera. A parte l'ipotesi di recidiva reiterata obbligatoria,
l'applicazione della recidiva resta facoltativa in ragione del potere discrezionale ai limiti dell’arbitro
giudiziale. L'innovazione introdotta dalla riforma del 1974 ha però finito con il riproporre anche il
anche il problema relativo alla natura giuridica dell'istituto. Già in passato parte della dottrina
aveva contestato la recidiva sul presupposto che sia concettualmente difficile concepire come
circostanza del fatto di reato uno status personale del soggetto derivante da una precedente
condanna per un altro reato: a questo rilievo oggi se ne aggiunge un secondo facendo leva sulla
generalizzata facoltatività dell’istituto. La giurisprudenza è orientata a ritenere da un lato
obbligatoria la contestazione della recidiva in quando circostanza e ammette il giudizio di
comparazione e, dall'altro, limita la facoltatività al solo aumento di pena. Contro tale
orientamento giurisprudenziale giustamente si appuntano le critiche di una parte della dottrina, la
quale sottolinea come sia poco ragionevole ammettere che il giudice possa escludere l'effetto
principale della recidiva e tenerne conto per gli effetti minori. Queste conclusioni possono
ritenersi ancora valide dopo la riforma del 2005 perché la limitata obbligatorietà di applicazione
non sembra in grado di intaccare la sostanza dell’istituto nella sua generalità.

CAPITOLO 5: DELITTO TENTATO

1. PREMESSA: LA CONSUMAZIONE DEL REATO


CASO 39: un ladro, intenzionata a sottrarre tutta una serie di oggetti, riesce ad esportarne soltanto
alcuni per cause indipendenti dalla sua volontà: furto consumato o tentato?

Il concetto di consumazione esprime alla compiuta realizzazione di tutti gli elementi costitutivi di
una fattispecie criminosa : si è in presenza di reato consumato tutte le volte in cui il fatto concreto
corrisponde integralmente al modello legale delineato dalla norma incriminatrice in questione.
Così, nell'ambito dei reati di mera condotta, la consumazione coinciderà con la compiuta
realizzazione della condotta vietata. Nei reati di evento , invece, la consumazione presuppone,
oltre al compimento dell'azione, anche la produzione dell'evento. La determinazione del momento
consumativo del reato assume rilevanza sotto diversi profili: a) in ordine al l'individuazione della
norma da applicare nel caso successione di leggi penali; b) Rispetto all'inizio della decorrenza del
termine di prescrizione; c) Ai fini dell' amnistia ed e dell'adulto, di solito concessi limitatamente ai
fatti commessi fino al giorno precedenti la data della legge ; d) Ai fini della competenza
territoriale; e) Per l'applicazione della legge penale italiana rispetto la legge penale straniera.

Il concetto di consumazione funge da imprescindibile termine di riferimento rispetto alla distinta e


autonoma figura del tentativo. Ai fini della consumazione del delitto di furto, è sufficiente che
l’agente si impossessi anche di un solo oggetto.

2. DELITTO TENTATO: IN GENERALE


CASO 40: una domestica, figlia di un contadino friulano, in occasione della visita settimanale al
vecchio genitore verso cui nutre motivi di rancore, versa nella botte di vino dosi letali di fosfuro di
zinco al fine di provocarne la morte. Il contadino spilla vino dalla botte e ne ingerisce alcuni sorsi:
accorgendosi però del colore più torbido e del gusto leggermente diverso del liquido, provvede a
travasarlo in un altro recipiente per far riacquistare ad esso l'originaria limpidezza; In conseguenza
della quantità di vino già bevuta, egli accusa era soltanto dolore allo stomaco.

CASO 41: un venditore ambulante detiene all'interno di un'auto scatole destinate ad essere
smerciate e contenenti in apparenza sigarette, ma in realtà riempita con patate.

CAS0 42: Un gruppo di malviventi si apposta nelle immediate vicinanze di una banca con pistole
cariche , calze per mascherarsi, guanti per non lasciare impronte, sacchi per riporvi la refurtiva,
dopo aver parcheggiato le automobili in posizione tale da facilitare la fuga e tenendovi a bordo
targhe di immatricolazione diverse da quelle proprie dell’autovettura.

Ricorre la figura del delitto tentato o tentativo nei casi in cui l’agente non riesce a portare a
compimento il delitto programmato, ma gli atti parzialmente realizzate sono tali da esteriorizzare
l' intenzione criminosa. Il fondamento politico-criminale della punibilità del tentativo è costituito
dall’esigenza di prevenire l'esposizione a pericolo dei beni giuridicamente protetti (teoria
cosiddetta oggettiva); risultano invece prive di legittimazione teorica e politico-criminale le teorie
soggettive e le teorie miste. Le teorie soggettive possono avere una matrice politica e culturale
diversa ; Esse fanno riferimento al positivismo criminologico che ha a fondamento della punibilità
del tentativo l'azione tentata come l'indice di una volontà ribelle. Le teorie miste si sforzano di
mettere insieme la motivazione oggettiva e quella soggettiva: si muovono dal presupposto che il
tentativo è espressione di una volontà ribelle, ma ritengono meritevoli di punizione solo quelle
manifestazioni di volontà ribelle che siano in grado di scuotere la fiducia dei cittadini
nell’ordinamento penale. La teoria oggettiva del fondamento della punibilità è preferibile perché si
collega in maniera più coerente ai presupposti di un diritto penale del fatto: ciò spiega l'esigenza
che il proposito criminoso traduca un comportamento materiale e che, a sua volta, produca un'
effettiva lesione, o almeno una messa in pericolo obiettivamente accertabile, del bene protetto.
Consumazione e tentativo riflettono rispettivamente la lesione effettiva e la lesione potenziale del
bene oggetto di protezione: ed è il minor grado di aggressione al bene che giustifica la minore
severità del trattamento penale del tentativo. In conseguenza del più basso livello di offensività il
delitto tentato rappresenta una sorta di delitto di minore grado. Considerato dal punto di vista
strutturale, il tentativo è al contrario un delitto perfetto perché rappresenta tutti gli elementi
necessari per l'esistenza di un reato. Sicchè, sul piano normativo, il delitto tentato costituisce un
titolo autonomo di reato, caratterizzato da un profilo offensivo ad esso proprio. In questo senso, la
configurazione del tentativo come illecito autonomo nasce dall' incontro di due norme: la norma
incriminatrice di parte speciale che eleva al reato un determinato fatto e l'articolo 56 che svolge
una funzione estensiva della punibilità. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica del delitto
tentato assume rilevanza anche sul piano pratico; ne consegue che gli effetti giuridici riconnessi da
una norma penale alla consumazione di un reato non possono essere automaticamente estesi alla
figura del delitto tentato. Dunque, per stabilire se il riferimento di una legge all’ipotesi tipica
escluda o no i riferimenti a quella tentata, si dovrà avere riguardo alla materia cui la legge si
riferisce e alla ratio relativa.

3. L’ “INIZIO” DELL’ATTIVITA’ PUNIBILE


L'aspetto più problematico in materia di tentativo è rappresentato dalla determinazione dell' inizio
dell'attività punibile: la soglia della punibilità sarà raggiunta soltanto in coincidenza con la messa in
pericolo del bene protetto. Nell'ottocento liberale in garanzia della libertà individuale vengono
differenziati due atti, preparatori ed esecutivi punto il codice Zanardelli del 1889 identificava il
tentativo col cominciamento dell'esecuzione del diritto programmato: in tal modo considerava
penalmente irrilevanti tutti gli atti preparatori, in quanto atti non ancora aggressivi del bene
protetto. Ma la distinzione tra atti preparatori (non punibili) e atti esecutivi (punibili come
tentativo), si rilevò assai più incerta. Per risolvere il problema della distinzione sono stati proposti
diversi criteri, ma nessuno in grado di pervenire a risultati applicativi sempre soddisfacenti. Il
primo criterio risale a Francesco Carrara che definisce preparatori tutti gli atti che siano
contrassegnati da una perdurante equivocità; Esecutivi sono gli atti univoci. Il secondo criterio
utilizzato sempre da Carrara, considerava preparatori tutti gli atti che rimangono nella sfera del
soggettivo, esecutivi quelli che riescono ad invadere la sfera personale del soggetto passivo. Il
terzo criterio dell'azione tipica appare frutto di una più matura evoluzione della scienza
penalistica. Esso, c.d. teoria formale oggettiva, qualifica esecutivi solo gli atti che danno inizio
all'esecuzione della condotta descritta dalla fattispecie di parte speciale. Ma tale teoria finisce con
restringere troppo l'ambito della punibilità del tentativo. L'esigenza di superare le difficoltà
connesse alla distinzione predetta indussero il legislatore del 1930 ad abbandonare il criterio
dell’inizio di esecuzione. L'articolo 56 del codice penale vigente dispone: chi compie atti idonei,
diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non
si compie l'evento non si verifica. L'attuale definizione codicistica del delitto tentato fa leva sul
duplice requisito dell' idoneità e dell’univocità degli atti.

4. IDONEITA’ DEGLI ATTI


Secondo l'articolo 56, comma 1, si ha tentativo se l'azione non si compie o se l'evento non si
verifica: la duplice previsione allude alla contrapposizione tra tentativo incompiuto e tentativo
compiuto. La ricostruzione della struttura oggettiva del tentativo poggia sulla determinazione del
significato da attribuire all' espressione atti idonei diretti in modo non equivoco alla
commisurazione di un delitto. A differenza del codice del 1889, l' idoneità è riferita all'atto, e non
al mezzo. Mezzo è lo strumento utilizzato per commettere un delitto, atto è l'impiego del mezzo. Il
requisito dell' idoneità ha natura oggettiva, ma nel procedere alla specificazione del concetto non
sempre si assiste a una convergenza di vedute del suo contenuto. Specie in passato si era soliti
risolvere il concetto di idoneità in quello di efficienza causale: gli atti realizzati dovrebbero essere
capaci di cagionare l'evento del reato preso di mira. L' idoneità a produrre l'evento non può essere
intesa in senso strettamente causale. Se fosse veramente adottabile un' ottica di tipo causale, il
giudizio relativo all’ idoneità dovrebbe compiersi ex post: ma secondo tale valutazione non vi
sarebbe mai tentativo punibile. un concetto di idoneità così inteso richiama l'idea di capacità
potenziale, attitudine, congruità dell’atto compiuto rispetto alla realizzazione del delitto preso di
mira. Si concorda, oggi, nel ritenere che il parametro di accertamento dell' idoneità consiste in un
giudizio ex ante e in concreto (criterio della cosiddetta prognosi postuma): il giudice collocandosi
realmente nella stessa posizione dell’agente all'inizio dell'attività criminosa deve accertare se gli
atti erano in grado di sfociare nella commisurazione del reato. Il giudizio prognostico viene
effettuato si dopo la commisurazione degli atti di tentativo, ma ponendosi con la mente nel
momento iniziale dell'attività delittuosa: solo questa prognosi a posteriore consente di accertare
se l’agente concreto sia in possesso di conoscenze ulteriori rispetto a quelle proprie dell'uomo
medio. Il giudizio di idoneità è a base parziale in quanto tiene conto soltanto delle circostanze
conosciute o conoscibili, al momento dell’azione, da un uomo avveduto pensato al posto
dell’agente concreto; Mentre esso non tiene conto di circostanze eccezionali oggettivamente
presenti sin dall'inizio, ma conosciute dopo. L'utilizzo del criterio della prognosi postuma su base
parziale tende a contemperare la dimensione di concreta pericolosità del tentativo con esigenze di
prevenzione generale. Per accertare l' idoneità dell'azione occorre prendere in esame tutte le
circostanze già presenti al momento del fatto, anche se conosciuta in un momento successivo.

Non sussiste unitarietà di vedute circa il grado o livello di idoneità necessarie fini della
configurazione del tentativo punibile. Le posizioni si differenziano in ragione della diversa misura
d'idoneità richiesta: gli atti se gli atti rendono meramente possibile il verificarsi dell'evento, se ci si
appaga di una ragionevole possibilità di raggiungere risultato, se si considera idonea l'azione
adeguata rispetto all'evento voluto, altre volte si esige che appaia verosimile la capacità dell’atto
rispetto allo scopo criminoso o si richiede la probabilità di verificazione del reato. Il termine
idoneità può altrettanto essere identificato sia con la semplice possibilità, sia con la probabilità di
verificazione del risultato delittuoso preso di mira. Posto che il pericolo presuppone la probabilità
di verificazione dell'evento lesivo, per potere plausibilmente sostenere che gli atti di tentativo
realizzati pongono in pericolo il bene protetto è necessario accettarne la rilevante attitudine a
conseguire l'obiettivo: la loro idoneità deve essere più vicina alla probabilità che alla mera non
impossibilità.

5. UNIVOCITA’ DEGLI ATTI


Francesco Carrara esprimeva la funzione esercitata dall' univocità degli atti come ulteriore
requisito strutturale del delitto tentato. È di comune esperienza che determinati atti, pur dotati di
per sè del requisito dell' idoneità, o vengono commessi per scopi leciti o possono tendere alla
commissione di più reati. L'articolo 56, col richiedere l' ulteriore requisito della univocità o non
equivocità degli atti tenta impedire la dilatazione dell’istituto del tentativo. Secondo la concezione
cosiddetta soggettiva, il requisito in esame fa riferimento a un criterio di prova : cioè l' univocità
degli atti indica, in sede processuale, l'esigenza che sia raggiunta la prova del proposito criminoso:
la prova è desumibile, oltre che dall’atto in sé considerato, anche dai precedenti e dalla
personalità del reo secondo la concezione cosiddetta oggettiva, la direzione non equivoca degli
atti rappresenta un criterio del senza: cioè l' univocità va considerata come una caratteristica
oggettiva della condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono in se stessi possedere l'
attitudine a denotare il proposito criminoso perseguito. Concependo l' univocità come
caratteristica oggettiva della condotta si rischia però di restringere eccessivamente l' ambito di
operatività del tentativo. Occorre pertanto una puntualizzazione. L'esigenza di configurare l'
univocità come caratteristica dell’azione non esclude che la prova del fine delittuosa possa essere
desunta in qualsiasi modo, facendo applicazione dei consueti canoni probatori in tema di
elemento soggettivo del reato. Una volta conseguita anche aliunde la prova del fine verso cui
tende l’ agente è necessaria una seconda verifica, accertando se gli atti, considerati nella loro
oggettività, riflettono in maniera sufficientemente congrua la direzione verso il fine criminoso già
accertato per altra via. Allo scopo di accertare l' univocità è peraltro possibile seguire un’ulteriore
prospettiva, nella cosiddetta teoria materiale oggettiva individuale che ruota attorno al concetto
di tipicità degli atti e fa riferimento al concreto piano criminoso dell’agente. Questa impostazione
rende necessaria una verifica processuale del piano delittuoso di volta in volta elaborato del
soggetto. Così normalmente non costituisce ancora tentativo punibile il semplice procacciamento
o il semplice apprestamento degli strumenti con cui si agirà.

6. ELEMENTO SOGGETTIVO
Nel nostro ordinamento penale, il tentativo è punibile soltanto se commesso quando lo: non è
configurabile nel silenzio della legge, invece, un tentativo colposo. la questione che rimane da
risolvere è se il dolo del tentativo sia identico o no al dolo della consumazione. Se si accoglie la tesi
dell’identità strutturale, ne deriva infatti che il tentativo è realizzabile con tutte le forme di dolo
configurabili nell'ambito della consumazione, compresso il dolo eventuale. Ma è proprio
quest'ultimo il punto che costituisce un vero e proprio oggetto di controversia. Una parte
minoritaria della dottrina, e una giurisprudenza fino ad alcuni anni addietro dominante, muovono
dal presupposto che il nostro ordinamento positivo non contiene alcuna norma che esplicitamente
distingua i due tipi di dolo: essendo la differenza tra tentativo e consumazione circoscritta dalla
stessa legge al piano della sovrastruttura oggettiva, se ne ricava che il dolo del tentativo e quello
della consumazione non possono che essere identici. La tesi contraria, oltre a essere sostenuta
dalla dottrina maggioritaria, è andata sempre più affermandosi nella giurisprudenza più recente.
Riducendo l'univocità all' esigenza di provare in giudizio l' intenzione criminosa dell’agente, la non
equivocità della condotta finisce col coincidere con la prova di una volontà intenzionalmente
diretta a commettere un reato; Ma perché si richiede una volontà intenzionale , è da escludere la
compatibilità tra tentativo ed o l'eventuale. La tesi dell' incompatibilità può essere poggiata da
alcuni argomenti : proprio sull’autonomia strutturale della fattispecie tentata , rispetto alla
corrispondente fattispecie del reato consumato, giustifica che anche il dolo del tentativo assume
una connotazione peculiare non coincidente del tutto con quella della consumazione; Rimane
comunque ferma l' incompatibilità strutturale tra dolo eventuale e requisito dell' univocità della
condotta. Si prende atto che nel concetto stesso di tentativo è insito nella tendenza orientata
verso uno scopo , e non la mera accettazione del rischio di un evento possibile o probabile. In
termini conclusivi la direzione finalistica dell’atto deve essere certa tanto sul piano materiale che
su quello psicologico: tra due aspetti deve esservi piena corrispondenza e congruenza. Mentre non
può dirsi univoco, né obiettivamente né soggettivamente, un comportamento che l’agente realizzi
senza tendere a realizzarlo, ma soltanto accettando il rischio della sua verificazione.
7. IL PROBLEMA DELLA CONFIGURABILITA’ DEL TENTATIVO NELL’AMBITO DELLE
VARIE TIPOLOGIE DELITTUOSE
La concreta configurabilità di un delitto tentato dipende dalla possibilità di rendere compatibili i
requisiti previsti dall' articolo 56 con le conseguenze oggettive dei vari tipi delittuosi presenti nel
nostro ordinamento: occorre trattare separatamente le diverse figure di reato:

1) Per espressa disposizione legislativa, il tentativo non è ammissibile nelle contravvenzioni. In


questo caso l'esclusione del tentativo deriva da motivazioni di ordine politico- criminale: la minore
gravità dei reati contravvenzionali rende inopportuna la loro perseguibilità anche al titolo di
tentativo.

2) Dipende da ragioni strutturali l' inammissibilità del tentativo nell’ambito dei delitti colposi: se la
colpa si connota per l'assenza della volontà delittuosa, costituirebbe contraddizione ammettere
che il tentativo possa coesistere con la mancanza dell’ intenzione di commettere il reato.

3) Reati omissivi.

4) Nel delitto preterintenzionale il tentativo non è ammissibile perché, nell’eventualità che il


soggetto passivo sopravviva, la responsabilità rimane circoscritta al delitto di lesione o percosse.

5) Il tentativo è da escludersi rispetto ai reati cosiddetti unisussistenti, dal momento che non
consentono la frazionabilità del processo esecutivo in più atti: compiuto l'unico atto che
costituisce il delitto, l'azione criminosa è completa.

6) Il tentativo non è ammissibile nei delitti di attentato o nei delitti cosiddetti a consumazione
anticipata, e ciò in base a un duplice rilievo: in questi modelli delittuosi il tentativo equivale già
consumazione e sarebbe un non senso ipotizzare atti idonei diretti in modo non equivoco a
commettere “atti diretti a…”.

7) Discussa è la configurabilità del tentativo nei reati di pericolo. Anche se una parte della dottrina
ritiene strutturalmente prospettabile la realizzazione in forma tentata almeno di alcuni reati di
pericolo, è da condividere la tesi negativa, e ciò sul presupposto che punire il tentativo di un reato
di pericolo equivarrebbe a reprimere il pericolo di un pericolo, così finendo con l' anticipare
eccessivamente la soglia della punibilità.

8) Nei reati aggravanti dall’evento il tentativo è ipotizzabile, tutte le volte in cui l'evento ulteriore
può realizzarsi indipendentemente dall’esaurimento della condotta vietata.

9) Nei reati condizionati, la configurazione del tentativo dipende dalla possibilità del verificarsi
delle condizioni obiettiva di punibilità indipendentemente dal perfezionarsi della condotta tipica.

10) Il tentativo è escluso nei reati abituali, dal momento che le singole azioni non assumono
rilevanza penale autonoma.

11) Nei reati permanenti la configurabilità del tentativo è possibile a condizione che la condotta
positiva sia frazionabile.
8. TENTATIVO E CIRCOSTANZE
Si opera una distinzione tra la figura del tentativo circostanziato di delitto e quella del tentativo di
delitto circostanziato : la prima si avrebbe quando le circostanze si realizzano compiutamente, o
soltanto in parte, nel contesto della stessa azione tentata; La seconda si configurerebbe allorché
un delitto, se fosse giunto a consumazione, sarebbe stato qualificato dalla presenza di uno o più
circostanze. Nessun dubbio sussiste sulla compatibilità strutturale tra tentativo e circostanze
punto le riserve cominciano ad apparire giustificate a partire un'ipotesi di tentativo circostanziato
di delitto caratterizzate da una realizzazione soltanto parziale delle circostanze. Ma suscita a
maggior ragione riserva la figura del tentativo di delitto circostanziato, riconosciuta dalla
giurisprudenza soprattutto a proposito delle circostanze del danno patrimoniale di rilevante
gravità o del danno patrimoniale di speciale tenuità. Le riserve trovano fondamento in un duplice
ordine: da un lato , non si vede quale sia la ragione per ritenere che in questo settore le esigenze
connesse al principio della legalità possono essere drogate ; Dall'altro esistono invalicabili limiti di
ordine ontologico strutturale: le circostanze relative all'evento consumativo del reato risultano
compatibili solo con la compiuta realizzazione dell' illecito penale. Le uniche circostanze
compatibili col tentativo sono quelle che si realizzano compiutamente nello stesso contesto
dell'azione tentata.

9. DESISTENZA E RECESSO ATTIVO


CASO 43: un ladro interrompe l'azione furtiva perché non riesce a vincere la chiusura posta a
protezione delle cose che voleva sottrarre.

CASO 44: Tizio , dopo avere inferto due colpi di coltello alla zona toracica di Caio, si rende conto
dell' imminente pericolo di vita della vittima e ne scongiura la morte richiedendo l'intervento del
medico.

CASO 45: Una donna, spinta dal proposito di uccidere il marito dormiente, apre il rubinetto del gas
ed esce di casa; Vendita si poco dopo, avverte la polizia appunto le agenti si limitano ad aprire le
finestre a dare alle stanze , dato che l'uomo non aveva ancora subito alcun danno.

In alcuni casi ad impedire la consumazione del reato non è un ostacolo esterno, ma un’iniziativa
dello stesso agente il quale, mutando proposito, recede dall’azione criminosa già intrapresa.
L'articolo 56 stabilisce , al comma 3 e 4, che se il colpevole volontariamente desiste dall'azione,
soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano di per sé un reato
diverso e che se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto
tentato, diminuita da un terzo alla metà. Le due situazioni contemplate da due commi vanno sotto
il nome di desistenza volontaria e recesso attivo (o pentimento operoso). Entrambe trovano una
legittimazione politico-criminale nella teoria del cosiddetto ponte d’oro: l’ordinamento, al fine di
prevenire l’offesa ai beni giuridici, farebbe assegnamento sulla promessa di impunità come
controspinta psicologico alla spinta criminosa. Una ragione giustificatrice del fondamento
sostanziale della desistenza può essere individuata nell'ottica degli scopi della pena e sul duplice
piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale: chi ritorna di sua iniziativa sui suoi
piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale: chi ritorna di sua iniziativa su suoi
passi da un lato non rappresenta un esempio pericolosi degli altri e dall'altro, dimostra di non
possedere alcuna volontà criminosa di tale intensità da giustificare il ricorso ad una pena
rieducativa. La distinzione tra desistenza e recesso si basa su un criterio ex post , che fa leva
sull’esaurimento o no dell'azione esecutiva. Per essere efficaci, sia la desistenza sia il pentimento
operoso devono verificarsi volontariamente. Talvolta si afferma che la libertà è esclusa da fattori
esterni che rendono irrealizzabile l'impresa criminosa oppure si afferma che la libertà di scelta è
già compromessa dalla percezione soggettiva di elemento di rischio, o si ritiene che la scelta è
giusta quando la situazione appare talmente rischiosa , che nessuna persona ragionevole fa
sarebbe disposta ad andare fino in fondo.

10. TENTATIVO E ATTENTATO


I delitti di attentato si caratterizzano per il fatto che il legislatore ha considerato reato perfetto il
compimento di atti diretti a offendere un bene ritenuto meritevole di protezione anticipata perché
di rango particolarmente elevato. L'attentato è una tecnica di riduzione della fattispecie penale
utilizzata soprattutto nei settori dei delitti contro la personalità dello Stato. In mancanza di una
disposizione di parte generali che lo regoli ci si chiede se il delitto attentato punisca già l'attività
preparatoria oppure condizione la soglia della rilevanza penalistica alla presenza degli elementi
strutturali del tentativo. Il codice Rocco ha fatto retrocedere la soglia della punibilità ad uno stadio
precedente rispetto a quello presente nel codice Zanardelli e ha equiparato la punibilità del
tentativo e dell’attentato, a livello di attività preparatoria. Mentre per il tentativo si è imposta
progressivamente un'interpretazione restrittiva , per l'attentato si è in un primo tempo registrato
un orientamento diverso che tendeva a conferirli un autonoma strutturale rispetto al tentativo:
verso la fine degli anni sessanta del Novecento , la dottrina e la giurisprudenza hanno reagito
interpretando la forma “l’atto diretto a” come “fatto idoneo diretto a” e la formula “chiunque
attenta a” come equivalente all'altra “chiunque compie atti idonei diretti a”, valorizzando così il
requisito dell' idoneità presente nella struttura del tentativo e ritenuto un criterio concernente
l'intera materia penale. Per la punibilità del tentato, occorre dunque che l'attività sia anch'essa
idonea a ledere il bene protetto , con esclusione quindi delle mere attività preparatorie.

11. REATO IMPOSSIBILE


CASO 46: un borseggiatore introduce una mano nella tasca dell'abito della vittima designata, senza
però riuscire ad impossessarsi di denaro perché la tasca è vuota.
l'articolo 49, comma due, stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per la inidoneità dell'azione
o per l' inesistenza dell'oggetto di essa, impossibile l'evento dannoso pericoloso , e che il giudice
può ordinare che l'imputato prosciolto sia sottoposto a misura di sicurezza. Secondo
l'interpretazione tradizionale la disposizione è superflua perché si limiterebbe a riesprimere in
negativo i requisiti positivamente richiesti per la punibilità del tentativo. In questo senso, il reato
impossibile altro non sarebbe che un tentativo impossibile. Non pochi autori ritengono di poter
desumere dall' articolo 49 cpv un principio estendibile all'intero sistema penale: si tratta del
principio generale che funge da criterio ispiratore della concezione per la quale non può essere di
reato, senza una lesione una messa in pericolo effettiva del bene protetto (concezione cosiddetta
realistica). La rilevanza pratica del principio di necessaria lesività emergerebbe nei casi di mancata
corrispondenza tra tipicità e offesa del bene protetto. Di fronde cioè a condotte formalmente
conforme alla fattispecie incriminatrice, ma di fatti in luogo perché incapaci di ledere l'interesse
protetto. La tesi in questione pretenderebbe di poggiare anche sul confronto fatto tra la rispettiva
disciplina del reato impossibile e del tentativo: in questo senso l'articolo 49 non rappresenterebbe
il semplice aspetto negativo o rovescio dell'articolo 56, ma si caratterizzerebbe per la presenza di
elementi autonomi. A questa tesi emergono obiezioni innanzitutto perchè l'articolo 49 cpv non
può riuscire di ausilio nello stabilire quando sussista la lesione o la messa in pericolo del bene
protetto perché non informa sulla natura degli interessi tutelati; ne consegue allora che se il bene
protetto deve essere desunto riesce impossibile ipotizzare un fatto conforme a quest'ultima ma
non lesivo del primo. La giustificata preoccupazione dell' accoglimento di tale tesi potrebbe
rappresentare una fonte di grave pericolo per lo stato di diritto: se infatti il giudice dovesse far
seguire alla già accertata corrispondenza tra fatto e modello legale un secondo giudizio, relativo
all' effettiva lesività, risulterebbe minacciata la certezza del diritto e sorgerebbe il rischio di
confondere le distinte situazioni giudiziarie legislative.

Il rifiuto del recupero dell’articolo 49 cpv non deve indurre a concludere che la disposizione si
limiti a riflettere il mero aspetto negativo del diritto tentato. Il legislatore del 1930 ha inteso
fugare ogni dubbio relativo alla rilevanza penale del tentativo assolutamente inidoneo in concreto
a mettere in pericolo il bene protetto. Da questo punto di vista il tentativo esula quando un fatto
astrattamente idoneo, al momento dell'azione, a raggiungere l'obiettivo criminoso perseguito ,
non potrebbe in ogni caso sfociare in un delitto consumato per la presenza di circostanze che ne
rendono in concreto impossibile la realizzazione. Per accertare se il bene in questione abbia corso
un reale pericolo bisogna effettuare un giudizio in base alla sola ottica del soggetto gente ma
anche nell'ottica della vittima come titolare del bene posto in pericolo. I casi di tentativi inidoneo,
se non mettono in pericolo il bene protetto, possono tuttavia assurgere a indicare uno stato di
pericolosità sociale dell’agente; è per questa ragione che il giudice può ordinare che il prosciolto
sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata.
CAPITOLO 6. CONCORSO DI PERSONE
CASO 47: un passante si accorge che un ladro sta rubando e decide, all'insaputa di quest'ultimo , di
fargli da palo: ma la sua attività si limita una mera presenza , non essendo necessario intervenire
durante l'azione furtiva , che si compie in maniera del tutto indisturbata.

CASO 48: A uccide B in presenza di un proprio congiunto, il quale esprime compiacimento per il
fatto che si compie dinanzi i suoi occhi.

CASO 49: un soggetto viene condannato a titolo di concorso morale nel lancio di materie
esplodenti per non essersi allontanato dal luogo del fatto dopo i primi lanci: la sua permanenza sul
posto con atteggiamento aggressivo avrebbe apportato un contributo di natura psichica ed
avrebbe provocato un rafforzamento nell’altrui proposito criminoso.

CASO 50: Tizio dà mandato a Caio e Sempronio di rubare un determinato quadro in un museo. Gli
esecutori del furto , di fronte all' impossibilità di sottrarre il quadro commissionato, si
impossessarono di un altro dipinto per rifarsi delle spese.

CASO 51: un gruppo di correi concorda inizialmente di commettono un furto: mentre uno dei
partecipi si limita a fare da basista e palo, gli esecutori materiali commettono , in difformità
dell’accordo iniziale, una rapina e un sequestro ai danni del soggetto rapinato.

1. PREMESSA
L'istituto del concorso di persone nel reato disciplina i casi nei quali più persone concorrono alla
realizzazione di un medesimo reato. Il fenomeno della commissione in comune di un reato appare
sempre più come tipico del nostro tempo, anche per effetto del costante incremento delle forme
di cosiddetta criminalità collettiva organizzata. Secondo l’orientamento tradizionale consolidato ai
diversi tipi di associazione a delinquere presuppongono un vincolo stabile tra più soggetti un
programma criminoso riferito ad un insieme indeterminato di fatti delittuosi; il concorso di
persone nel reato determina invece, un vincolo occasionale tra più persone circoscritto alla
realizzazione di uno o più reati determinati. In questo senso, il concorso di persone dà vita ad un'
entità collettiva contingente, creata da coloro che ne fanno parte sul presupposto che l'unione
delle forze renda possibile la commissione del reato astrattamente realizzabile. Il concorso di
persone suole essere qualificato eventuale per distinguerlo dalla diversa figura del concorso
cosiddetto necessario: figura, quest'ultima che ricorre quando è la stessa fattispecie incriminatrice
di parte speciale a richiedere alla presenza di più soggetti per la integrazione del reato.

2. IL PROBLEMA DEI MODELLI DI DISCIPLINA DEL CONCORSO CRIMINOSO


Le fattispecie incriminatrici contenute nei codici moderni sono modellate sulla figura dell'autore
individuale: esse quindi non sono direttamente applicabili a quei concorrenti che apportano sì un
contributo alla realizzazione del fatto, ma limitandosi a porre in essere atti da soli non sufficienti a
integrare la figura di reato in questione. Le norme sul concorso di persone del reato assolvono la
funzione di rendere punibili anche comportamenti che non lo sarebbero in base alla singola norma
incriminatrice: le norme sul concorso integrano le singole disposizioni di parte speciale, così
contribuendo alla salvaguardia dei medesimi beni protetti dalle varie fattispecie incriminatrici
costruite sull’ autore singolo. Dunque la disciplina esplicita della partecipazione penalmente
rilevante permette di punire, in un sistema ispirato al principio di legalità, anche comportamenti
atipici rispetto alla fattispecie di parte speciale : in astratto sono infatti prospettabili non uno, ma
più modelli di disciplina del concorso criminoso. Il legislatore si trova di fronte all' alternativa di
scegliere tra un modello differenziato e un modello unitario di tipizzazione del fatto. Nel primo
caso il legislatore si sforzerà di tipizzare in maniera autonoma le diverse forme di partecipazione,
distinguendole in funzione dei ruoli rispettivamente rivestiti dai vari concorrenti. Questa tecnica si
preoccupa di differenziare la responsabilità di ciascun concorrente sul piano della tipicità del fatto.
Se si accoglie un modello unitario di disciplina, invece, il legislatore inclinerà per la cosiddetta
tipizzazione causale: in questo senso sono riconducibili alla fattispecie concorsuale tutte le
condotte dotate di efficienza eziologica nei confronti dell'evento lesivo , e non assume più
importanza la precisa demarcazione tra forme primarie e forme secondarie di partecipazione. Il
modello della tipizzazione autonoma di varie forme di partecipazione corrisponde alla tradizionale
penalistica delle codificazioni liberale ottocentesche, ed è ancora recepito nella legislazione di
alcuni stati europei. Anche negli ordinamenti in atto caratterizzati dalla previsione espressa delle
diverse forme di partecipazione, le formule normative di tipizzazione mantengono infatti margini
più o meno ampi di genericità , e ciò di fatto consente alla giurisprudenza di manipolarle al fine di
reprimere i contributi partecipativi più atipici. È tuttavia altrettanto vero che la strada della
tipizzazione costituisce pur sempre un argine potenzialmente in grado di circoscrivere gli spazi di
manovra del giudice.

Il legislatore italiano del 1930 ha optato per il modello della tipizzazione unitaria basato sul criterio
dell'efficienza causale della condotta di ciascun concorrente. L'articolo 110 del codice si limita a
stabilire che quanto più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla
pena per questo stabilita: dunque concorre a pari titolo chi apporta un contributo qualsiasi,
purché dotato di rilevanza causale nell’ ambito della realizzazione collettiva del fatto. La riforma
del 1930 era buona parte influenzata dal pensiero positivistico- naturalistico, incline a valorizzare il
dogma delle casualità anche sul terreno dei presupposti della responsabilità penale. D'altra parte
ragioni di coerenza sistematica imponevano di orientare anche la disciplina del concorso secondo
il criterio dell’ equivalenza causale dei contributi dei singoli concorrenti. Ancora, era forte
l'influenza del positivismo criminologico di matrice lombrosiana e ferriana. La prassi si lamentava
della mancanza di sicuri criteri di demarcazione che consentissero distinguere le diverse forme di
partecipazione: la tesi della maggiore impraticabilità della tipizzazione differenziata è ribadita da
parte della dottrina italiana anche a livello manualistico; non va trascurato che le scelte politico-
criminali sottese alla riforma del concorso costituivano una proiezione delle tendenze autoritarie-
repressive tipica della politica penale del 1930: la rinuncia alla distinzione tra compartecipi primari
(autore, coautore, determinatore) e secondari (istigatore e complici) corrispondeva a una sorta di
affrancazione dei concetti di marca liberar - garantistica. L'articolo 114 prescrive: il giudice,
qualora ritenga che l'opera prestata da talune delle persone che sono concorse nel reato a norma
degli articolo 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del
reato , può diminuire la pena. D'altra parte, la rinuncia a una distinzione analitica, da parte
legislatore, delle varie forme di partecipazione , non ha agevolato il consolidarsi di una prassi
applicativa veramente appagante . Se per un verso è venuta meno la necessità di impelagarsi nella
controversa distinzione tra i vari tipi di concorrenti , questa apparente semplificazione ha per altro
verso prodotto un costo tutt'altro che lieve: quello cioè di un' eccessiva dilatazione della
responsabilità a titolo di concorso favorito da una certa tendenza giurisprudenziale a sorvolare sui
requisiti oggettivi minima di una legittima responsabilità concorsuale.

3. LE TEORIE SUL CONCORSO CRIMINOSO


Per spiegare il fondamento tecnico- giuridico della punibilità di condotte concorsuali atipiche
rispetto alle fattispecie incriminatrice di parte speciale, la dottrina penalistica ha escogitato
diverse teorie.

A) Secondo una teoria che ha per lungo tempo dominato specie in passato, la partecipazione
criminosa ha natura accessoria: ciò vuol dire che la condotta atipica del semplice partecipe non ha
rilevanza penale autonoma, ma l' acquista nella misura in cui accede alla condotta principale o
tipica dell'autore. La teoria dell' accessorietà appare permeata da preoccupazione a sfondo
garantistico : Si ribadisce l'esigenza che anche l'istituto del concorso criminoso rispetta il principio
di tipicità oggettiva. La teoria stessa ha ricevuto formulazioni diverse: la punibilità della condotta
di partecipazione dipende dalla realizzazione di una condotta principale a sua volta punibile in
concreto (accessorietà cosiddetta estrema); oppure, nella versione dominante ci si accontenta di
un'azione principale obiettivamente antigiuridica (accessorietà cosiddetta limitata) in cui il
complice che fornisce lo strumento sarebbe punibile anche se l'esecutore materiale non fosse in
concreto assoggettabile a pena. Tale teoria non riuscirebbe però a giustificare la punibilità dei
concorrenti nei casi di cosiddetta esecuzione frazionata, nei quali cioè nessuno realizza un’ azione
qualificabile come principale, mentre l'azione tipica risulta solo dall’ incontro di diversi contributi
dei singoli compartecipi; ancora, seconda obiezione è che posto infatti che in queste ipotesi la
condotta principale non potrebbe che essere realizzata dal soggetto che riveste la qualifica
soggettiva, si dovrebbe rinunciare all' incriminazione a titolo di reato proprio per avventura a
porre in essere la condotta esecutiva fosse l'estraneo prima di qualifica.

B) l'esigenza di ovviare ad inconvenienti del tipo di quelli accennati, ha indotto parte della dottrina
a escogitare la teoria della fattispecie plurisoggettiva eventuale: tale sarebbe la fattispecie del
concorso di persone , quale fattispecie nuova, autonoma e diversa da quella incriminatrice di parte
speciale modellata sulla torre singolo.

C) Autorevole dottrina inclina a ritenere che dall’ incontro delle norme di parte speciale con le
norme sul concorso non nascerebbe una sola fattispecie plurisoggettiva eventuale, bensì
discenderebbero tante fattispecie plurisoggettive differenziate, quanti sono i soggetti concorrenti:
tutte queste fattispecie avrebbero in comune il medesimo nucleo di accadimento materiale, ma si
distinguerebbero tra loro per l'elemento psichico e per taluni aspetti esteriori.

Le teorie dell' accessorietà e della fattispecie plurisoggettiva eventuale appaiono entrambe in


grado di contribuire a spiegare la punibilità delle condotte di mera partecipazione: a sostegno sia
dell'una , che dell'altra teoria si sono richiamate proprio le norme che il codice detta in materia di
concorso criminoso. La teoria della fattispecie plurisoggettiva spiega meglio, sul piano logico-
formale, il fenomeno della punibilità delle condotte atipiche. Resta però ancora insoluto il
problema dei criteri idonei a determinare la rilevanza delle semplici condotte di partecipazione nei
confronti della fattispecie concorsuale come fattispecie autonoma e diversa rispetto alla
fattispecie meno soggettiva. In mancanza di una tipizzazione legale delle varie forme di concorso, il
compito di fissare i requisiti minimi di una partecipazione penalmente rilevante desta in definitiva
affidato alla dottrina e alla giurisprudenza. Occorre orientare la ricostruzione dogmatica in base
alle effettive caratteristiche strutturali delle varie forme di concorso: rinunciando alla
sovrapposizione di artificiosi schemi unitari e cercando di valorizzare il più possibile le indicazioni
contenute nella disciplina positiva.

4. STRUTTURA DEL CONCORSO CRIMINOSO: PLURALITA’ DI AGENTI


Nel nostro ordinamento i requisiti strutturali del concorso di persone nel reato sono 4: 1) pluralità
di agenti; 2) la realizzazione della fattispecie oggettiva di un reato; 3) il contributo di ciascun
concorrente alla realizzazione del reato comune;4) l'elemento soggettivo. Nel primo requisito si
può parlare di concorso , in quanto il reato sia commesso da più soggetti punto nei casi di
realizzazione collettiva di un reato realizzabile anche monosoggettivamente, sono necessarie
sufficienti almeno due soggetti. Oggi si concorda nel distinguere il carattere plurisoggettivo della
fattispecie concorsuale della diversa questione della concreta punibilità nei singoli concorrenti. In
questo senso, il concorso si configura anche se uno dei concorrenti non è punibile per ragioni
inerenti alla sua persona (es. difetto di dolo). L'articolo 112, ultimo comma, stabilisce che gli
aggravanti di pena da esso previsti si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è
imputabile o non è punibile : da ciò si desume che , ai fini della sussistenza del concorso criminoso,
si prescinde dalla punibilità di qualcuno dei concorrenti. L'articolo 119, comma 10, afferma che le
circostanze soggettive, le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato,
hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono. Alla stregua di queste promesse, si
possono ricondurre al concorso criminoso le seguenti ipotesi: 1) costringimento fisico a
commettere un reato; 2) reato commesso per un errore determinato dall’altrui inganno; 3)
costringimento psichico a commettere un reato o coazione morale; 4) determinazione in altri dello
Stato di incapacità allo scopo di far commettere un reato; 5) determinazione del reato di persona
non imputabile o non punibile.
5. SEGUE: REALIZZAZIONE DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA DI UN REATO
Anche la fattispecie concorsuale si compone di un elemento oggettivo e di uno soggettivo.
Dunque, significa che i contributi dei singoli concorrenti devono confluire nella realizzazione
comune della fattispecie oggettiva di un reato. Quale ruolo ciascuna partecipe rivesta
nell’esecuzione del fatto , non ha importanza ; Altro problema è quello relativo alla
determinazione dei coefficienti minimi della rilevanza penale di ciascuna condotta di
partecipazione . Sempre in applicazione dei principi generali , non occorre che il fatto collettivo
giunga a consumazione, ma è sufficiente che alla realizzazione comune si traduca in atti idonei
diretti in modo non equivoco a commettere un reato: c.d. delitto tentato. L'esigenza minima che
siano almeno realizzati gli estremi oggettivi di un delitto tentato è desumibile dall' articolo 115:
nessuno è punibile per il semplice fatto di essersi accordato con altri qualora all'accordo non segue
la messa in atto del fatto programmato; o per il semplice fatto di avere istigato altri, qualora il
reato non sia stato commesso. Poiché sia l'accordo che l' istigazione possono assurgere a indici di
pericolosità sociale, articolo 115 attribuisce al giudice la facoltà di applicare la misura di sicurezza
della libertà vigilata. In questi casi, “salvo che la legge disponga altrimenti”, allude alle ipotesi nelle
quali già il semplice accordo o la mera istigazione sono elevati ad autonome figure di reato.
Esempio sono i delitti contro la personalità dello Stato e tra quelli contro la pubblica
amministrazione.

6. SEGUE. CONTRIBUTO DI CIASCIUN CONCORRENTE: A) CONCORSO MATERIALE


La responsabilità a titolo di concorso presuppone che ciascun concorrente arrechi un contributo
personale alla realizzazione del fatto delittuoso. La natura del contributo arrecato si distingue tra
concorso materiale e concorso morale. Si ha il primo se si interviene personalmente, si configura il
secondo se si dà un impulso psicologico. Il concorso materiale può essere prestato assumendo
ruoli di rango diverso. In propositi si è soliti distinguere tra: -l'autore, identificato come colui il
quale compie gli atti esecutivi del reato: ad esempio il soggetto che nell’omicidio spara o nel furto
sottrae la cosa mobile; o il coautore , definito come chi interviene insieme con altri nella fase
esecutiva: si pensa a due assassini che sparano contemporaneamente; -L'ausiliatore o complice
rappresentato da quel partecipe che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto materiale nella
preparazione o nell’ esecuzione del reato: si pensi a chi fornisce il veleno per un omicidio
commesso da altri o chi si limita a fare da palo durante l'esecuzione di una rapina. La prestazione
di aiuto del complice ricade sempre al di fuori della fattispecie incriminatrice di parte speciale.

Se è pacifica la responsabilità di chi nell’esecuzione del fatto assume il ruolo di autore o coautore,
meno ovvia appare la punibilità del semplice complice: si dibatte sui coefficienti minimi che ne
giustificano l' incriminazione a titolo di concorrente nel reato . L'opinione più tradizionale esige
che l'azione del compartecipe costituisca condicio sine qua non del fatto punibile. Si è obiettato
questo criterio per le varie forme di complicità meritevoli di punizione; per superare le pretese
della formula condizionalistica nelle ipotesi di partecipazioni non necessaria, parte della dottrina
ha proposto un nuovo modello di causalità: si allude alla causalità cosiddetta agevolatrice o di
rinforzo. È ritenuto penalmente rilevante non solo l’ausilio necessario , che non può essere
mentalmente eliminato senza che il reato venga meno, ma anche quello che si limita ad agevolare
e facilitare il conseguimento dell' obiettivo finale. Nella prassi giudiziaria è consolidata la tesi,
secondo cui il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale,
ma anche quando assume la forma di un contributo agevolato , e cioè quando il reato senza la
condotta di agevolazione sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o
difficoltà; Se ne desume che, ai fini della punibilità , è sufficiente che la condotta di partecipazione
si manifesta in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla
commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l' agevolazione
dell'opera degli altri concorrenti , e del partecipe, abbia aumentato le possibilità di produzione del
reato. Secondo altri autori, neppure il modello della causalità agevolatrice sarebbe dotato di
validità generale.

Ciò che si propone è in realtà l'abbandono dell’approccio causale e la sua sostituzione con giudizio
di semplice prognosi: in questo senso, basterebbe che l'azione del partecipe appaia ex ante idonea
a facilitare la commissione del reato, accrescendone le probabilità di verificazione. L'articolo 56
confermerebbe che, ai fini della tipicità, i giudizi causali possono essere formulati non solo
nell'ottica di un legame effettivo tra una certa condotta un determinato evento, ma anche sul
piano di una pura attitudine causale. Quest'ultimo impostazione non convince perché trascura le
forme di complicità cui si fa riferimento le quali accedono ad un fatto collettivo che si giunge a
consumazione, sia pure a prescindere dell'asilo rilevato sia posteriore inutile. La valutazione dell'
attitudine della condotta ad influire sulla realizzazione del fatto sarebbe infatti sufficiente soltanto
in sede di tentato; Ma proprio la disposizione dell’articolo 56 non è invocabile: si comprende come
la norma sposta legittimare la punibilità di atti di partecipazioni che si inseriscono in una
realizzazione collettiva che giunge a compimento. In questi casi la punibilità è da escludere proprio
perché si tratta di forme di complicità soltanto potenziali, nelle quali l'ausilio inizialmente prestato
manca di convertirsi in rapporto effettivo e perdurante , che confluisce concretamente sulla
realizzazione del fatto.

Rimane confermato che non può esservi partecipazione materiale penalmente rilevante a
prescindere da un influsso effettivo sull’ azioni tipica o sull’ evento costitutivo del reato: si tratta di
precisare portata e i limiti del contributo materiale del complice. Bisogna ammettere che la
formula della causalità cosiddetta agevolatrice tocca il segno: assume rilevanza penale sia la
condotta di partecipazione che rende possibile la perpetrazione del fatto, ma anche quella che si
limita a facilitarne o agevolarne la realizzazione. Non fondata appare la pretesa che l'idea di una
casualità agevolatrice rifletta davvero un diverso modello di spiegazione causale. Ciò che importa è
che una catena causale sussista tra un antecedente e un evento concreto che si verifica. Mentre è
irrilevante la circostanza che un evento analogo avrebbe potuto verificarsi come conseguenza di
fattori ipotetici rimasti di fatto in operanti. I medesimi criteri valgono in sede di accertamento del
contributo causale della condotta di partecipazione. Occorre considerare il fatto nella sua modalità
concreta, prescindendo al tempo stesso dal tener conto di cause alternative che non hanno avuto
sviluppo. L’ entrata in crisi della causalità in senso condizionalistico si manifesta nell’ ambito della
responsabilità colposa e dalla responsabilità omissiva. Mentre l'attenzione in questo capitolo si è
incentrata sul settore della compartecipazione criminosa un reato commissivo doloso, cioè un
settore comparativamente meno complesso in cui la tematica causale mantiene un volto più
tradizionale.

7. SEGUE: B) CONCORSO MORALE


Il contributo del partecipe può anche manifestarsi sotto forma di impulso psicologico ad un reato
materialmente commesso da altri. Tradizionalmente viene definita concorso morale o
partecipazione psichica, e si è soliti distinguere due figure: -il determinatore definito come
compartecipe che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente; -l' istigatore, cioè
colui il quale si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso già esistente. Si tratta
di due figure che hanno un diverso disvalore: il determinatore ha un ruolo più decisivo rispetto a
chi si limita ad eccitare un proposito delittuoso già formato. Ed è per questo che è, in altri
ordinamenti, i due ruoli ricevono una configurazione giuridica autonoma e un differenziato
trattamento punitivo. La rilevanza penale dell'istigatore è desumibile dall' articolo 115, comma 30:
stabilendo alla non punibilità dell' istigatore rimasto sterile, tale norma riconosce implicitamente
che, quando l' istigazione viene accolti da un reato e commesso, l' istigatore ne risponde a titolo di
concorso. Nel nostro ordinamento assumono rilevanza non solo le condotte istigatorie che
pongono un antecedente causale del reato commesso dall' esecutore, ma anche quelle che
veramente determinanti non sono, perché si limitano a risaldare l'altrui proposito criminoso. La
prova del legami causali risulta più difficile nelle relazioni interpersonali , tanto che si dibatte se la
causalità psicologica sia una vera e propria forma di casualità. Come ad escludere la complicità
fisica in mancanza di una condotta che, considerata ex post, risulta avere almeno agevolato la
commissione del delitto, similmente non può esservi complicità morale, a prescindere da un'
effettiva influenza sulla psiche dell’esecutore materiale del reato. La condotta istigatoria può
avvalersi dei mezzi più diversi: mandato, consiglio, suggerimento. Ma non sono sufficienti
indicazioni puramente teoriche o semplici informazioni. È da escludere quindi che sia sufficiente
ad integrare la complicità morale la connivenza o l’ adesione psichica, sia pure riconoscibilmente
manifestata a chi esegue il reato.

Una particolare forma di istigazione è quella realizzata dal cosiddetto agente provocatore: cioè
colui il quale provoca un delitto al fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura è andata
nel corso del tempo ampliandosi fino a ricomprendere sia casi in cui l'agente provocatore assume
la veste di soggetto passivo del reato, sia quelle in cui il soggetto si infiltra in un’ organizzazione
criminale allo scopo di scoprirne la struttura o denunciare i partecipanti. Ora, il problema è di
stabilire se lo speciale scopo perseguito dall' agente neutralizzi la rilevanza penale, a titolo di
concorso , di una condotta che rimane pur sempre istigatrice. Secondo un orientamento
rigoristico, il fine di far perseguire i rei non potrebbe giustificare un comportamento che ha
contribuito a mettere in pericolo o ledere un bene giuridico. Sulla stessa linea rigorosa la
giurisprudenza era solita affermare che l'opera dell' agente provocatore non esclude la punibilità,
ad eccezione però delle ipotesi nelle quali la sua attività non si risolva in altro che osservazione,
controllo e contenimento delle azioni illecite altrui. L'agente provocatore non può essere punito ,
per mancanza di dolo , tutte le volte in cui egli abbia agito allo scopo di assicurare i colpevoli alla
giustizia e non abbia accettato neppure il rischio dell’ effettiva consumazione del reato.

8. L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL CONCORSO CRIMINOSO


Ciascuna condotta di partecipazione deve essere sorretta da un corrispondente requisito
psicologico. L'elemento soggettivo del concorso è costituito da due componenti: la coscienza e la
volontà del fatto criminoso da un lato , e dall'altro da un quid pluris rappresentato dalla volontà di
concorrere con altri alla realizzazione di un reato comune. Oggi si concorda nell’ escludere che la
volontà di concorrere presupponga necessariamente il previo accordo o la reciproca colpevolezza
dell’altrui concorso. La coscienza del concorso potrà indifferentemente manifestarsi o come previo
concerto, o come intesa istantanea, o ancora come semplice adesione all' opera di un altro che ne
rimane ignaro. Nei casi in cui la fattispecie incriminatrice monosoggettiva richiede la presenza di
un dolo specifico , è sufficiente ai fini della configurabilità di un concorso punibile che la
particolare finalità presi in considerazione dalla legge penale sia perseguita almeno da uno dei
soggetti che concorrono alla realizzazione del fatto.

È controversa l' ammissibilità di una partecipazione dolosa a delitto colposo e , rispettivamente, di


una partecipazione colposa a delitto doloso: il problema non è meramente teorico, ma assume
anche rilevanza pratica. Con riferimento alla prima ipotesi si è rilevato che, se si negasse la
configurabilità della partecipazione dolosa a reato colposo, rimarrebbero ingiustificatamente
impuniti coloro che, con una condotta tipica, concorrono nell’ altrui fatto colposo. Senonché,
contro la possibilità che più partecipi rispondono del medesimo fatto a titoli diversi, sembra essere
di ostacolo più di un argomento: il primo, l'articolo 110, stabilendo che riferimento concorsuale si
riferisce al medesimo reato, parrebbe legittimare una concezione unitaria della partecipazione
criminosa appunto altro argomento e virgola laddove legislatore ha voluto riconoscere la
possibilità che più partecipi rispondono del medesimo reato titolo diversi , lo ha fatto in maniera
esplicita. Da una previsione espressa dell'articolo 116, di un'ipotesi di concorso a titoli soggettivi
diversi sembra lecito a contrario desumere che il fenomeno della diversità di titoli, lungi dal
costituire la regola, rappresenta l'eccezione. Ancora più problematico appare l' accoglimento della
figura del concorso colposo al delitto doloso; alle argomentazioni già accennate se ne aggiungono
altre relative al carattere specifico di questa presunta forma di concorso. Secondo un principio
generale nel nostro ordinamento la responsabilità colposa presuppone un' espressa violazione
legislativa. L'articolo 113 ammettendo espressamente la sola cooperazione nel delitto colposo,
sembra escludere implicitamente la cooperazione colposa del delitto doloso. Si aggiunga ancora
che l’inammissibilità di principio di un concorso colposo a fatto doloso sempre ricevere un
ulteriore conferma dalla previsione espressa di ipotesi tassative di agevolazione colposa di un fatto
altrui doloso. Se si presuppone di ciascun individuo normale l' attitudine ad una
autodeterminazione responsabile, ne consegue che ognuno deve evitare soltanto i pericoli
derivanti dalla propria condotta, mentre non si ha l’obbligo di impedire comportamenti pericolosi
di terze persone altrettanto capaci di scelta responsabile. Da queste premesse discende che non
possono essere definite colpose quelle azioni le quali sono pericolose non in se stesse, ma
semplicemente perché forniscono ad altri l'occasione di delinquere.

9. IL CONCORSO NELLE CONTRAVVENZIONI


Le contravvenzioni sono indifferentemente punibili a titolo di dolo o di colpa. Per quanto attiene al
concorso nelle contravvenzioni dolose , non sorgono ostacoli nel ricondurre la relativa disciplina
alla disposizione generale di cui all'articolo 110: il termine reato in esso contenuto è egualmente
riferibile ai delitti e alle contravvenzioni imputabile a titolo di dolo. Il problema sorge, invece,
rispetto alle contravvenzioni colpose, Secondo l'orientamento prevalente esse rientrerebbero
nell'ambito di disciplina di cui all'articolo 110: a sostegno della tesi si afferma che il riferimento
contenuto al concetto generico di reato implicherebbe il richiamo dei criteri soggettivi di
imputazione delle contravvenzioni posta all'articolo 42, ultimo comma. Per poter assumere
rilevanza rispetto ai delitti, la colpa deve essere espressamente prevista come il titolo di
incriminazione in conformità al disposto dell’articolo 42, comma 20 ; mentre ciò non occorre per le
contravvenzioni, le quali in base all'articolo 42, comma 40 sono indifferentemente punibile a titolo
di dolo di colpa. Si affida una vasta portata incriminatrice ad una norma implicita, dedotta in via
interpretativa dell'articolo 110, mentre, per giungere a risultati talmente rigorosi in termini di
criminalizzazione, sarebbe più che legittimo prendere una disciplina espressa.

10. LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI


Nonostante la disciplina del concorso poggi sulla piattaforma comune di una parificazione di
principio della responsabilità di ciascun concorrente, allo stesso legislatore non è sfuggita la
diversità di ruoli e apporti che per solito caratterizza la fenomenologia della partecipazione
criminosa: da qui l' esplicita previsione di circostanze aggravanti e attenuanti introdotte allo scopo
di graduare la pena in funzione dell' effettivo contributo di ciascun soggetto alla realizzazione
comune. L'applicazione delle circostanze aggravanti obbligatoria.

1) L’ articolo 112 stabilisce un aggravamento di pena per l'ipotesi in cui il numero delle persone ,
che sono concorse nel reato , è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti. La ragione è
ravvisata nel maggior allarme sociale e nella maggiore capacità a delinquere dimostrata dei
concorrenti che agiscono in gruppi; il calcolo del numero delle persone prescinde dalla
colpevolezza, imputabilità o punibilità dei singoli concorrenti: basta che i concorrenti partecipano
nel numero richiesto alla realizzazione della fattispecie oggettiva.

2) La seconda aggravante si applica chi ha promosso, organizzato o diretto la partecipazione al


reato. La ratio relativa è che il legislatore ha voluto colpire con maggiore rigore la condotta di chi
assume una posizione di preminenza e/o direzione nella preparazione nell’esecuzione dell’0
impresa delittuosa. Promotore è colui che ha ideato l'impresa criminosa prendendo l'iniziativa;
organizzatore è chi predispone il progetto esecutivo, scegliendo i mezzi e le persone che lo devono
attuare; direttore è definibile chi assume una funzione di guida ed amministrazione.

3) Ulteriore aggravante si applica a chi, nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha
determinato a commettere il reato persone adesso soggette. Per la configurazione dell'
aggravante non è sufficiente che esista una forma qualsiasi di soggezione psicologica, ma è
necessario che la persona dotata del potere di supremazia abbia realizzato una vera e propria
coazione psicologica sul soggetto sottoposto.

4) Ultima circostanza aggravatrice di pena è prevista per chi ha determinato a commettere il reato
un minore di anni 18 , o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, o si è comunque
avvalso degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è
previsto l'arresto in flagranza. L'esigenza di contrastare il crescente fenomeno dell’ utilizzazione di
soggetti non imputabili nell'ambito della criminalità organizzata ha indotto il legislatore a
introdurre nuove aggravamenti di pena. In seguito alle aggiunte apportate dalle leggi n. 203/1991
e n. 172/1992, l'articolo 112 del codice contiene due nuovi commi: la pena è aumentata fino alla
metà per chi si avvalso di persone non imputabili o non punibili, a ragione di una condizione, o
qualità personale, nella commissione di un delitto per il quale è previsto l'arresto in flagranza. Se
chi ha determinato altri a commettere il reato o sia avvalso di altri nella commissione del delitto
ne è il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dal numero 4 del primo comma la pena
aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena aumentato fino a due
terzi.

11. LE CIRCOSTANZE ATTENUANTI ED IN PARTICOLARE IL CONTRIBUTO DI


“MINIMA IMORTANZA”
L'applicazione delle circostanze attenuanti è facoltativa. L'articolo 114 ne prevede 2: la più
importante è disciplinata dal 1° comma, il quale stabilisce che il giudice può diminuire la pena
qualora ritenga che l'opera prestata da taluno dai concorrenti abbia avuto minima importanza
nella prestazione o nell’ esecuzione del reato. Si tratta di una sorta di clausola generale, non
sempre agevole di fronte alla varietà tipologica delle condotte di partecipazione. Secondo
l'opinione dominante, la determinazione della minima importanza presuppone una valutazione
giudiziale dell’ efficienza: una volta accertato il nesso causale tra un certo contributo e il fatto
concorsuale nelle sue modalità concrete, si tratta di vagliarne il grado di imprescindibilità in
rapporto ai fattori ipotetici rimasti inoperanti nella situazione concreta, ma che avrebbero potuto
ugualmente condurre al risultato in assenza della condotta in questione. In tal modo si impiega la
formula invalsa nell’ odierna manualistica, secondo la quale la minima importanza ricorre soltanto
quando l'azione del correo può essere facilmente sostituita con l'azione di altre persone, o con una
diversa distribuzione dei compiti. La circostanza non solo viene applicata raramente, ma lo viene
proprio in quei casi nei quali dovrebbe essere esclusa la stessa partecipazione al reato.
Emblematica è l'applicazione della disposizione in esame in un ipotesi, nella quale il partecipe si
trovava soltanto presente nel luogo del delitto, così rafforzando il proposito omicida di un
assassino. La seconda attenuante preveduta dall' articolo 114, comma 30 , è detta della
minorazione psichica ed è stabilita a favore di chi è stato determinato a commettere il reato o a
cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni della coercizione esercitata da un soggetto
investito di autorità oppure della minorità o infermità mentale.

12. LA RESPONSABILITA’ DEL PARTECIPE PER IL REATO DIVERSO DA QUELLO


DOVUTO
L'articolo 116 disciplina una particolare ipotesi di aberratio delicti in ragione della sua frequente
verificabilità nell'ambito del fenomeno concorsuale. Esso stabilisce che qualora il reato commesso
sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questo ne risponde, se l'evento è
conseguenza della sua azione od omissione. Nel capoverso si aggiunge che se il reato commesso è
più grave di quello dovuto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave. L'articolo
116 configura un indubbia ipotesi di responsabilità oggettiva, cioè che prescinde dal dolo o dalla
colpa. La rinuncia al requisito della colpevolezza obbedisce al proposito di introdurre un
trattamento punitivo così rigoroso da disincentivare la realizzazione in concorso di attività
criminose. Già partire dal dopoguerra una giurisprudenza minoritaria subordinava però la
punibilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto all' ulteriore requisito della previsione
dell'evento medesimo. Nonostante questi tentativi il prevalere, da un lato dell’orientamento
ermeneutico più rigoristico e la progressiva valorizzazione del principio della personalità della
responsabilità penale, indussero eccepire il contrasto dell'articolo 116 con l'articolo 27, comma 10
costituzione. La Corte costituzionale, con una sentenza interpretativa di rigetto, ha respinto
l'eccezione prescrivendo che l'articolo 116 poggia su una sussistenza sia in base al rapporto di
causalità materiale , che di casualità psichica. La giurisprudenza ordinaria propende oggi per la tesi
che presupposto della responsabilità ex articolo 116 siano 2: in primo luogo, il rapporto di
causalità tra l'azione di ogni partecipe al reato diverso da quello programmato; in secondo luogo,
la prevedibilità di tale reato diverso non voluto. In particolare si registrano due varianti
interpretative: secondo un primo indirizzo tendenzialmente maggioritario , è sufficiente la
prevedibilità in astratto: l' illecito non voluto deve appartenere al tipo astratto di quelli che , in
linea logica, si prospettano come sviluppo del reato originariamente voluto. La prevedibilità in
astratto fa riferimento al rapporto tra fattispecie incriminatrice poste a priori a confronto. Alla
stregua di un secondo indirizzo deve richiedersi la prevedibilità in concreto: per stabilire se il reato
diverso effettivamente realizzato rappresenta un prevedibile sviluppo di quello originariamente
programmato, occorre tener conto di tutte le circostanze relative alla singola vicenda concreta. In
virtù di questa reinterpretazione correttiva o educatrice , la responsabilità perde i suoi connotati
rigidamente oggettivo causa tendendo ad orientarsi secondo il modello dell' imputazione colposa,
pur non integrando le tutti i requisiti. L’ opinione dominante che la disposizione di quell’ articolo
116 si applichi non solo in presenza di un solo reato diverso da quello evoluto , ma altresì quando
insieme con reato concordato se ne commette un altro che costituisce un prevedibile sviluppo nel
primo. Va ancora precisato che per reato diverso deve intendersi quello avente un differente
nomen iuris: non sarebbe tale un reato aggravato realizzato il luogo di un reato semplice. Precisa il
2° comma dell'articolo 116 che la disciplina prevista al 1° comma si applica a prescindere dalla
maggiore o minore gravità del reato non voluto rispetto a quello voluto. È da precisare che la
valutazione di gravità va effettuata in via ipotetica, cioè ipotizzando quella che sarebbe stata la
gravità del fatto programmato o ponendola a confronto con quella del fatto realizzato.

13. CONCORSO NEL REATO PROPRIO E MUTAMENTO DEL TITOLO DEL REATO PER
TALUNO DEI CONCORRENTI
Si riconosce che un soggetto privo della qualità personale (cosiddetta extraneus) possa concorrere
alla commissione di un reato realizzabile soltanto da un soggetto qualificato (cosiddetto
intraneus): è questa l'ipotesi del concorso nel reato proprio. Anche il concorso nel reato proprio
rientra nella disciplina dell'articolo 110: l'estraneo contribuisce col suo comportamento di
partecipe alla lesione del bene protetto. Secondo i principi generali la sua responsabilità
presuppone però la consapevolezza di concorrere a un reato proprio, il che presuppone che egli
sia a conoscenza della qualifica dell' intraneus. Può accadere che la qualifica posseduta da taluno
dei concorrenti non sia determinata ai fini dell’ esistenza di un reato , ma comporti soltanto la
diversa qualificazione giuridica di un fatto che già costituirebbe reato ad altro titolo. Se l'estraneo
è a conoscenza della qualifica posseduta dell' intraneo, nulla quaestio: sempre in applicazione dei
principi generali si configura un concorso di reato proprio. Secondo la comune interpretazione ,
proprio a tale situazione fa riferimento l'articolo 117, a tenore del quale se, per le condizioni e le
qualità personali del colpevole, o per i rapporti tra il colpevole l' offeso, muta il titolo del reato per
taluno di coloro che vi sono concorsi, anche gli altri rispondono dello stesso reato. Non di meno, se
questo è più grave, il giudice può , rispetto a coloro per i quali non sussistono le condizioni, le
qualità o i rapporti predetti, può diminuire la pena; analogamente alla disciplina prevista dall'
articolo 116, anche la norma in esame finisce con l' introdurre una forma di responsabilità
oggettiva: invero , non è conforme, ma contrasta coi principi dell' imputazione dolosa che un
partecipe debba rispondere di concorso in un reato proprio, pur ignorando la qualifica posseduta
dal soggetto o dei soggetti rispetto ai quali muta il titolo di reato. Parte della dottrina esclude che
la norma in esame deroga normali principi del concorso nel reato proprio perché come disciplinato
l'articolo 110. Reinterpretando l'articolo 117 in maniera conforme al principio costituzionale di
colpevolezza, la sua applicabilità andrebbe circoscritta ai soli casi in cui la qualifica soggettiva in
questione, sebbene ignorata dal partecipe, fosse però conoscibile in base a parametri di un uomo
ragionevole che si trovasse al suo posto.

Perché si verifichi il mutamento del titolo di reato è necessario che sia l' intraneus a porre in
essere l'attività esecutiva , o il ruolo di esecutore può anche essere assunto dall' estraneo?
L'articolo 117 omette di specificare quali siano le circostanze nelle quali ha luogo il mutamento del
titolo del reato a causa delle particolari qualità del colpevole dei suoi rapporti con l’ offeso. In
presenza di questa omissione non rimane che farsi guidare dall' interpretazione delle fattispecie di
parte speciale di volta in volta considerate. Secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale
che oggi tende a prevalere sarebbe proprio l' accoglimento della teoria plurisoggettiva eventuale a
rendere indifferente, ai fini della configurabilità del concorso nel reato proprio, il ruolo investito
dall’intraneus nell'ambito dell'esecuzione del fatto. La stessa disposizione in esame stabilisce una
circostanza attenuante facoltativa a favore di chi volle il reato meno grave. Secondo il condivisibile
orientamento prevalente, tale attenuante è applicabile soltanto al soggetto ignaro della qualifica
che comporta la diversa qualificazione giuridica del fatto.

14. LA COMUNICABILITA’ DELLE CIRCOSTANZE


Riguardo il problema della comunicabilità o estendibilità delle circostanze ai diversi soggetti agenti
in concorso, si è verificato un mutamento di disciplina a seguito della riforma del regime di
imputazione delle circostanze realizzata con la legge n. 19 del 1990. L'articolo 118 del codice, così
come modificato da tale legge, si limita a stabilire la seguente regola: le circostanze che aggravano
o diminuiscono le pene concernenti motivi a delinquere, l'intensità del dolo, il grado della colpa e
le circostanze inerenti alla persona del colpevole sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si
definiscono. Posta la regola dell' inestendibilità agli altri compartecipe delle circostanze sia
aggravanti che attenuanti rimane da chiedersi a quale tipo di disciplina soggiacciono le circostanze
diverse da quelle ora menzionate. L’ alternativa che si prospetta è se dette circostanze si
estendono automaticamente a tutti i concorrenti. La soluzione più corretta è quella di ritenere
applicabile il regime generale di imputazione , dal momento che il nuovo articolo 59 ha mirato all'
obiettivo di affermare anche su questo terreno il principio di colpevolezza. In applicazione della
norma predetta, vale la regola della persistente rilevanza oggettiva delle circostanze attenuanti, e
della conseguente loro estendibilità a tutti i compartecipi. Con riferimento invece alle circostanze
aggravanti, l'articolo 59 fissa la regola che esse possono essere applicate soltanto in quanto
conosciute o conoscibili dal reo. Se ne deduce che l’ attribuibilità dell' aggravante non può
presupporre un coefficiente di colpevolezza riferito a ciascuno dei singoli concorrenti, per cui le
circostanze aggravanti si applicano soltanto i compartecipi che ne abbiano avuto conoscenza
effettiva o soltanto potenziale.

15. LA COMUNICABILITA’ DELLE CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA PENA


Si estendono a tutti i concorrenti le circostanze oggettive di esclusione della pena: sono tali le
cause di giustificazione o scriminanti, la cui presenza elide l' antigiuridicità obiettiva del fatto
criminoso: Se le cause di giustificazione fanno venir meno il contrasto tra il fatto tipico e
l'ordinamento giuridico, rendendo leggi del fatto medesimo, la liceità di esso non può non
proiettarsi su tutte le condotte che concorrono alla sua realizzazione. Non si comunicano invece,
ma si applicano solo ai correi cui personalmente si riferiscono, le cause soggettive di esclusione
della pena. Anche la ratio di questa incomunicabilità è chiara: se le cause soggettive lasciano
sussistere l’illiceità del fatto , e si limita al fa venir meno la punibilità per ragioni sarebbe del tutto
ingiustificato estenderne gli effetti al di là dei soggetti cui direttamente si riferiscono.

16. DESISTENZA VOLONTARIA E PENTIMENTO OPEROSO


L’atto di resistenza del correo presenta modalità di manifestazioni diverse, seconda del ruolo che
egli assume nella realizzazione collettiva. Ove il soggetto che desiste rivesta la posizione di
esecutore , il recesso si manifesterà in forma negativa: colui il quale pone in essere atti esecutivi è
in grado di sottrarsi alla commissione del fatto semplicemente interrompendo l'attività già iniziata.
La desistenza dell' esecutore produce invece nello stesso tempo l'effetto di impedire la
consumazione del reato. Assai più problematiche è la posizione del complice. Chi si limita a fare il
complice spesso ha interamente fornito il proprio apporto ancor prima della realizzazione
collettiva; da ciò deriva una conseguenza: tutte le volte in cui ha già esaurito il suo contributo
dell’azione collettiva, il partecipe dovrà necessariamente attivarsi per neutralizzare le conseguenze
della collaborazione già prestata. Anche nell'ambito del concorso di persone il problema della
responsabilità non può che essere individuale e personale. Proprio in aderenza al principio della
personalità della responsabilità penale, è da ritenere che la desistenza del partecipe sia
configurabile anche se si limita a reutralizzare la condotta già realizzata , elidendone gli effetti
rispetto alla produzione collettiva dell'evento. Nella misura in cui riesce a privare la realizzazione
comune del proprio apporto, il complice si emancipa infatti dalla commissione di un fatto che non
può più essere considerato opera sua. Posto che la desistenza rientra tra le cause personali di
esclusione della pena , essa non si estende a tutti i concorrenti, ma esime da responsabilità
soltanto i soggetti cui si riferisce. La configurabilità del pentimento operoso presuppone, a sua
volta , che l'azione collettiva sia giunta ad esaurimento e che uno dei concorrenti riesca ad
impedire il verificarsi dell'evento lesivo. Il pentimento operoso ha natura di circostanza attenuante
soggettiva.

17. ESTENDIBILITA’ DELLA DISCIPLINA DEL CONCORSO “EVENTUALE” AL


CONCORSO “NECESSARIO”
Ricorre la figura del concorso necessario o del reato necessariamente plurisoggettivo quando è la
stessa disposizione incriminatrice di parte speciale a richiedere la presenza di più soggetti per
l'integrazione del reato. I reati per la loro natura realizzabili non monosoggettivamente sono
fondamentalmente distinguibile in plurisoggettivi propri e impropri: i primi, sono contraddistinti
dalla circostanza che vengono assoggettati a pena di tutti quanti gli agenti; nei secondi, la norma
incriminatrice dichiara punibili soltanto uno o alcuni dei partecipanti al fatto. Nell'ambito del
secondo gruppo dei reati plurisoggettivi , non può porsi il problema se il concorrente necessario,
esentato da sanzione dalla norma incriminatrice di parte speciale, possa essere invece ritenuto
responsabili in base alle norme che disciplinano il concorso eventuale. Parte della dottrina ritiene
che tale problema andrebbe risolto verificando se l' esenzione della responsabilità del concorrente
necessario che risponda corrisponda o no allo scopo delle norme incriminatrice violata vuole
direttive generali dell'ordinamento giuridico. È da preferire l'opinione tradizionale che nega
comunque la punibilità del concorrente non espressamente incriminato dalla norma incriminatrice
di parte speciale. Un secondo problema riguarda l' applicabilità ai concorrenti necessari, punibile
in base alla norma incriminatrice di parte speciale, delle norme sul concorso eventuale relativa alle
circostanze aggravanti e attenuanti, nonché alla comunicabilità sia delle conseguenze medesime
sia delle cause di esclusione della pena. La dottrina oggi dominante ritiene che tali norme sono
applicabili anche a concorso necessario, essendo espressione di una disciplina generale relativa al
carattere plurisoggettivo della fattispecie. Un concorso eventuale è ammissibile anche nella
realizzazione di un reato necessariamente plurisoggettivo: la partecipazione eventuale si dovrà
configurare da parte di soggetti diversi dai concorrenti necessari.

18. CONCORSO EVENTUALE E REATI ASSOCIATIVI


Questione di maggiore interesse teorico e di attualità sono: da un lato, si tratta di stabilire in
presenza di quali condizioni i membri di un'associazione criminosa rispondono, a titolo di concorso
eventuale, anche dei cosiddetti reati- scopo materialmente seguite dagli altri associati. Dall'altro,
sorge il problema di verificare se virgola e in presenza di quelli per supposti, sia configurabile un
concorso esterno ad un'associazione criminosa da parte di soggetto estraneo all'associazione
medesima.

A) Cominciando dalla prima questione, bisogna evitare il rischio di attribuire una sorta di
responsabilità di posizione e capi dell’ associazione criminali: evitandoli cioè al ruolo di concorrenti
morali, sotto forma di determinazione o istigazione anche implicita, nei singoli delitti commessi da
altri associati. In applicazione delle regole generali è da accertare in concreto caso per caso i
presupposti minimi. Cioè , non basta che singoli atti delittuosi materialmente commessi da altri
associati rientrino nelle direttrice programmatiche fissate in linee generali da capi medesimi: è
necessario, piuttosto, che le direttrici generali del programma delle associazioni contengono già
tratti essenziali dei singoli comportamenti delittuosi realizzate dai compartecipe. Ne deriva che
una responsabilità concorsuale a titolo di dolo dovrebbe riconoscersi anche in ipotesi in cui i vertici
lanciano agli altri associati invita all' azione apparentemente in determinati, ma in realtà idonei a
concretizzarsi solo in un numero circoscritto di reati.

B) La seconda delle questioni attiene alla configurabilità di un concorso eventuale nel reato
associativo (cosiddetto concorso esterno) da parte di soggetti estranei all' associazione criminosa.
Se si muove dal presupposto che la rilevanza penale di una condotta di partecipazione interna al
reato associativo implichi necessariamente l'acquisizione del ruolo precostituito e formali di
associato , possono aprirsi vuoti di tutela; per colmare questi vuoti di tutela penale non rimane
che ipotizzare un concorso eventuale esterno ex articolo 110 e ss del codice, nel reato associativo
che di volta in volta viene in questione. Il potenziale spazio di operatività dell'istituto in questione
risulta influenzato dal pregiudiziale modo di concepire le condotte di partecipazione interna. Se si
adotta un concetto ampio di partecipe l' ambito applicativo da riservare alla figura di concorrente
esterno si distingue, e viceversa. Con la presa di posizione più recente, le sezioni unite compiono
un passo avanti nel definire i contorni del concorso esterno , in quanto tale definizione è
preceduta da un opportuno sforzo di precisazione della stessa nazione di partecipazioni interna
nell’ associazione. Secondo la distinzione che viene proposta , è definibile partecipe interno colui
che risulta in rapporto stabile organico con penetrazione nel tessuto organizzativo
dell’associazione criminale, tale da implicare l'assunzione di un ruolo dinamico e funzionale ,
rimanendo a disposizione dell’ ente per il perseguimento dei comuni scopi criminosi. Una simile
definizione pone in risalto anche la proiezione dinamica del ruolo di componente organico , così
conferendo al ruolo di partecipazione uno spessore più coerente con i principi di materialità e di
offensività. Per converso, assume la veste di concorrente esterno il soggetto che, pur non essendo
inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’ associazione, fornisce tuttavia adesso un
concreto contributo. Sulla base di una simile definizione, il fondamento della rilevanza penale del
concorso esterno tende centrarsi soprattutto sull’ efficacia causale del contributo fornito dall'
estraneo. La Cassazione si è preoccupata di precisare che tale efficace eziologiche deve essere
accertata ex post , cioè proprio alla stregua nei medesimi criteri rigorosi. Proprio per evitare un
eccesso di discrezionalità giudiziale da caso a caso, sarebbe auspicabile un intervento legislativo
diretto a precisare, mediante la configurazione di uno più fattispecie incriminatrice di parte
speciale, nelle forme di continuità davvero intollerabile perciò meritevoli di repressione penale.
PARTE III: IL REATO COMMISSIVO COLPOSO
CAPITOLO 1: IL REATO COMMISSIVO COLPOSO

SEZIONE I: TIPICITA’

1. PREMESSA
Negli ultimi decenni si è assistito ad un impressionante aumento della criminalità colposo. Di qui la
necessità di un maggiore approfondimento dogmatico della struttura del delitto colposo, che ha
infine indotto la dottrina più recente a costruire la fattispecie colposa in modo separato ed
autonomo rispetto al modello doloso di reato. Il reato colposo non costituisce soltanto una
seconda e meno grave forma di colpevolezza da affiancare al dolo. Rappresenta un modello
specifico di illecito penale dotato di struttura e caratteristiche proprie che emergono già sul piano
della tipicità e che si riflettono fin sul terreno della colpevolezza.

2. IL FATTO COMMISSIVO COLPOSO TIPICO: AZIONE


L'elaborazione dottrinale della teoria del reato è iniziata all'ombra del modello fondamentale cioè
il reato doloso e si è poi assistito alla tendenza a trasferire meccanicamente dogmi costruiti in
quella fede sul reato colposo. Il vero significato pratico del concetto di azione consiste nella sia
funzione selettiva dei componenti penalmente rilevanti, nel senso che tale concetto serve ad
escludere le non azioni dell’ area del penalmente sanzionabile. Da questo punto di vista, il terreno
nevralgico è costruito proprio dal delitto colposo nel cui ambito assumono rilevanza penale non
solo comportamenti coscienti e volontari, ma anche comportamenti che non corrispondono al
concetto di azione quale dato sorretto dalla coscienza e volontà come coefficienti psicologici
effettivi la cosiddetta colpa incosciente. Cosa significa allora cosciente e volontaria nel diritto
colposo a prima vista, esulerebbero da tale nozione gli atti riflessi ad esempio la ritrazione di un
arto seguito di una puntura, gli atti istintivi ad esempio il protendere le braccia per parare una
caduta, gli atti automatici ad esempio il premere il piede sul freno come atto abituale nella guida,
gli atti incoscienti ad esempio un atto commesso a causa di un improvviso malore alla guida
appunto nella prassi giudiziaria comune, tuttavia, molti di tali atti sono puniti a titolo di colpa,
onde si dovrebbe pervenire alla conclusione paradossale che vengono incriminate come delitti
colposi delle Nazioni. Fuori di paradosso, il fatto è che nel campo del delitto colposo vi è azione
penalmente rilevante finché è possibile muovere un rimprovero per colpa: in altri termini, i
presupposti dell'azione finiscono col coincidere con le condizioni che rendono possibile
l'imputazione colposa. Detto in breve: azione colpa stanno accade un insieme dei reati dolosi,
dunque, la coscienza e volontà consiste in un coefficiente psicologico, ora con un dato normativo
la cosiddetta colpa incosciente in quest'ultimo senso l'azione si considera voluta anche quando
risulta soltanto dominabile dal volere. All' agente si rimprovera cioè di non aver attivato quei
poteri di controllo che doveva e poteva attivare per scongiurare l'evento normativo proprio
perché il rimprovero si fonda, essenzialmente, sul fatto che la gente non ha osservato, pur
potendolo, lo standard di diligenza richiesto nella situazione concreta.

3. INOSSERVANZA DELLE REGOLE PRECAUZIONALI DI CONDOTTA


L'articolo 43 definisce il delitto colposo, o contro l' intenzione, quando l'evento, anche se previsto,
non è voluto dall' agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per
inosservanza leggi, regolamenti, ordini o discipline. Va chiarito che la violazione delle regole
cautelari costituisce, in primo luogo, un elemento di tipicità, prima ancora che è un'espressione di
colpevolezza. L'inserimento dell' inosservanza delle regole cautelari tra gli elementi della tipicità
consente di enucleare una misura oggettiva di diligenza, che tra l'altro concorre a rafforzare la
tutela dei beni giuridici. Inoltre la predeterminazione tendenzialmente uniforme dei limiti della
responsabilità permette di evitare che possono pretendersi dal singolo comportamenti che vanno
al di là delle norme capacità di prestazione di uguaglianza fra tutti i cittadini.

4. CRITERI DI INDIVIDUAZIONE DELLE REGOLE DI CONDOTTA: PREVEDIBILITA’ ED


EVITABILITA’ DELL’EVENTO. IL LIMITE DEL CASO FORTUITO
Alla base delle norme precauzionali di diligenza, prudenza o perizia stanno regole di esperienza
ricavate da giudizi ripetuti nel tempo sulla pericolosità di determinati comportamenti: da questo
punto di vista le regole di diligenza vigenti nei vari contesti sociali di riferimento, rappresentano la
cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo. La prevedibilità e
l'evitabilità dell'evento costituiscono quindi criteri di individuazione delle misure precauzionali da
adottare nelle diverse situazioni concrete, una volta che sia sorta o stia per insorgere una
situazione di pericolo. Non basta tuttavia ad esimere la responsabilità la semplice osservanza di
una regola cautelare virgola che la gente adotti proprio perché socialmente diffusa appunto può
infatti accadere che una regola di condotta, benché socialmente accettata, si riveli in un numero
rilevante di casi di fatto inadeguata a far conseguire l'obiettivo precauzionale preso di mira
appunto proprio in considerazione di ciò la gente non dovrà limitarsi ad adottare cautele
tradizionalmente suggerite dagli usi sociali, ma dovrà di volta in volta emettere un rinnovato
giudizio di prevedibilità ed evitabilità, inteso a verificare la persistente validità della regola
cautelare che dovrebbe essere osservata appunto può accadere addirittura che la gente si trovi ad
operare in situazioni nelle quali l'uso sociale non sia ancora pronunciato in quei casi proprio
perché mancano norme preesistenti di condotta, il soggetto si trova costretto a compiere ex novo
il giudizio prognostico relativo alla pericolosità dell'azione punto lo stesso principio di precauzione
funge in questi casi da criterio atto a sollecitare un rafforzamento dei doveri di attenzione di
informazione tendenti a verificare col massimo scrupolo la fondatezza dei pericoli o dei rischi
paventabili. L' osservanza di regole precauzionali trova un limite nell’ambito delle attività rischiose,
ma consentite dall’ordinamento per la loro elevata utilità sociale. Il criterio della prevedibilità di
evitabilità dell’evento opera anche nel caso di colpa specifica dovuta all' inosservanza di regole
scritte di condotta. Una riprova della funzione fondante del criterio in esame non può essere
ricavata da quell’ordinamento tradizionale che considera limite negativo della colpa il caso
fortuito, finendo così col costruire due concetti come complementari tra loro. Il caso fortuito
esclude la colpa perché consiste in un accadimento imprevedibile, che fuoriesce dal novero di
quegli accadimenti preventivamente rappresentabili cui possono riferirsi le regole di condotta ha
contenuto precauzionale.

5. FONTI E SPECIE DELLE QUALIFICHE NORMATIVE RELATIVE ALLA FATTOSPECIE


COLPOSA
Le regole precauzionali richiamate dalle fattispecie colpose hanno una fonte sociale o una fonte
giuridica.

1) Colpa generica da fonte sociale: contempla le ipotesi in cui sono violate norme di diligenza
sociale che trovano la loro fonte nell’ esperienza della vita sociale e non in norme giuridiche. Vi
rientrano i casi di negligenza, imprudenza e imperizia. Si ha negligenza quando si viola una regola
cautelare che impone un'attività positiva, ad esempio controllare che il gas sia chiuso prima di
uscire di casa. L’imprudenza consiste nella trasgressione di un obbligo di non realizzare una
determinata azione o di compierla con modalità diversa da quella tenta ad esempio non mettersi
alla guida in stato profondo di stanchezza. L’ imperizia consiste in una forma di imprudenza o
negligenza qualificata e si riferisce ad un'attività che esistono particolari conoscenze tecniche. In
passato si riteneva che nel caso di imperizia, l'errore del medico sarebbe stato penalmente
censurabile solo se rientrante nei limiti della colpa grave. Si portava a sostegno l'articolo 2236 del
codice civile, secondo cui ove la prestazione d'opera implichi la soluzione di problemi tecnici di
speciale difficoltà il prestatore d'opera risponde solo in caso di dolo o colpa grave. Attualmente si
sostiene che l'articolo 2236 abbia carattere eccezionale e non sia applicabile in via analogica: la
colpa per imperizia andrebbe valutata in base agli stessi canoni valevoli per la negligenza e l'
imprudenza ossia senza distinzione tra colpa grave colpa lieve. Questo anche per evitare il rischio
che è un aprioristico abbassamento del grado di perizia esigibile dal medico comporta un’
eccessiva indulgenza, con conseguente disparità di trattamento rispetto alle altre categorie
professionali.

2) Colpa specifica da fonte giuridica: sussiste quando vengono violate regole cautelari poste da
fonti scritte o giuridiche. L'articolo 43 parla di leggi, regolamenti, ordini o discipline: nel mondo
moderno si assiste al fenomeno di una crescente e positivizzazione delle regole di prudenza, ai fini
di disciplinare le situazioni di pericolo più tipiche e più rilevanti. Nel concetto di leggi potrà
rientrare non una qualsiasi legge penale, ma soltanto quella che abbia una specifica finalità
precauzionale. I regolamenti contengono norme a carattere generale predisposte dall’ autorità
pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività. Gli ordini e le discipline contengono
norme indirizzate ad una specifica cerchia di destinatari e possono essere emanati da autorità sia
pubbliche che private. Occorre di volta in volta a verificare se le norme scritto esauriscono la
misura di diligenza richiesta alla gente delle situazioni considerate: solo in questo caso l'
osservanza delle stesse esclude la responsabilità penale. Ove invece risulti uno spazio di esigenze
preventive non coperte dalla disposizione scritta, il giudizio di colpa può tornare a basarsi sull’
inosservanza di una generica misura precauzionale. Ad esempio un motociclista pur rispettando i
limiti di velocità prescritti si accorge che alcuni bambini giocano in mezzo alla strada deve adottare
ulteriori misure cautelari o in caso di incidente risponderà penalmente. Le norme giuridiche a
contenuto prudenziale possono essere RIGIDE: quando predeterminano in maniera assoluta le
regole di condotta ad esempio fermarsi col rosso. ELASTICHE : quando la regola di condotta va
specificata in base alle circostanze del caso concreto ad esempio distanza di sicurezza dei veicoli
che verrà portata allo spazio di frenata.

6.CONTENUTO DELLA REGOLA DI CONDOTTA


Il contenuto della regola di condotta dispone: obbligo di astensione dal compiere una determinata
azione, ad esempio non mettersi alla guida se si è stanchi perché il compierla porterebbe con sé
un rischio troppo elevato di realizzazione della fattispecie e colposo. Talora può gravare su coloro i
quali non sono sufficientemente esperti per svolgere prestazioni che richiedono particolari
conoscenze tecniche, ad esempio il medico ancora inesperto deve astenersi dal compiere
un'operazione che richiede grande competenza. L’ obbligo di adottare misure cautelari, ad
esempio rispettare dei limiti di velocità. L'obbligo di preventiva informazione ad esempio l'
imprenditore deve preventivamente informare di tutte le norme di sicurezza prescritte. L'obbligo
di controllo sull’ operato altrui che riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata ha anche
l'obbligo di scegliere adeguatamente i propri collaboratori virgola di istruirli e di controllare
l'operato.

7. STANDARD OGGETTIVO DEL DOVERE DI DILIGENZA


Il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell'evento deve essere effettuato ex ante in base al
parametro oggettivo dell’ homo eiusdem professionis et condicionis: la misura della diligenza,
della perizia e della prudenza dovute, sarà cioè quella del modello di agente che svolga la stessa
professione, lo stesso mestiere, la stessa attività dell’ agente reale. Così chi dispone le tegole sul
tetto della propria abitazione, anche se di mestiere nella vita fa tutt'altro, sarà giudicato col metro
dell’ operaio specializzato. Nell'ambito della stessa categoria è possibile a volte individuare una
pluralità di tipi di agenti modello. In alcuni casi se l’agente reale possiede conoscenze superiori
rispetto a quelle proprie del tipo di appartenenza, queste dovranno essere tenute in
considerazione nel ricostruire l'obbligo di diligenza da osservare, al fine di non dar luogo ad
esenzioni non giustificate di responsabilità. Parte della dottrina penalistica sostiene che
l'accertamento della colpa debba eseguire due fasi si parla in tal senso di doppia misura della colpa
appunto in sede di tipicità: si accerta la violazione del dovere obiettivo di diligenza commisurato
alla stregua della gente modello; in sede di colpevolezza, rimarrebbe da verificare se il soggetto
che ha agito in concreto era in grado di impersonare il tipo ideale di agente collocato nella
situazione data.

8. LIMITI DEL DOVERE DI DILIGENZA: A) RISCHIO CONSENTITO


Se il giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell'evento fosse da solo sufficiente a circoscrivere l'area
della colpa penale, si dovrebbe affermare la responsabilità tutte le volte in cui si verificano eventi
dannosi riconducibili ad azioni notoriamente pericolose. Senonchè il giudizio di colpa presuppone
che siano oltrepassati ulteriori limiti: a) quello del rischio consentito; b) quello del principio
dell'affidamento. Il rischio consentito detto anche adeguatezza sociale prevede che esistano delle
attività che, anche se pericolose, sono consentite perché indispensabili o utili alla vita sociale.
Qualora un danno si verifichi nonostante il diligente svolgimento delle suddette ciò che manca è il
disvalore tipico dell'illecito colposo. Sorge il problema di stabilire entro quali limiti il rischio sia
consentito: la soluzione dipende da un delicato bilanciamento di interessi punto la questione
appare particolarmente delicata con riferimento alla responsabilità per il tipo di produzione cioè
per la specie di attività produttiva svolta da una determinata impresa. Un criterio per individuare
l'area del rischio consentito è rappresentato dalle autorizzazioni amministrative che rendono
esplicitamente lecito lo svolgimento di determinate attività, subordinando nell’ esercizio rispetto
di precise norme cautelari.

9. SEGUE: B) PRINCIPIO DELL’AFFIDAMENTO E COMPORTAMENTO DEL TERZO.


Dall’ esistenza a carico di ciascun consociato di un dovere obiettivo di diligenza nella vita di
relazione, derivano anche obblighi cautelari relativi alla condotta di terze persone? Per rispondere
occorre distinguere a seconda che la regola violata sia scritta o desumibile dagli usi sociali. Se si
violano norme scritte occorre verificare se nello scopo della disposizione cautelare rientri anche l'
impedimento di eventi cagionati da terzi. Ciò avviene ad esempio nel caso dell’ agente di polizia
tenuto a perquisire tutti coloro che si avvicinano ad un uomo politico: se la perquisizione non è
effettuata e il politico subisce un'aggressione, l’ agente sarà responsabile per lesioni. Se si violano
regole di diligenza non scritte bisogna distinguere a seconda che la condotta del terzo dia luogo a
sua volta ad una responsabilità qualcosa o dolosa. Nel caso di responsabilità colposa del terzo la
dottrina ritiene che la prevedibilità che il nostro comportamento possa agevolare la condotta
colposa di un terzo non è sufficiente a farci incorrere in una responsabilità penale, poiché per il
principio dell' affidamento ogni consociato poter completare nel rispetto da parte degli altri delle
regole precauzionali. Tale principio subisce delle eccezioni: Quando le circostanze concrete lascino
presumere che il terzo non sia in grado di rispettare le regole di condotta; Quando per la posizione
di garanzia investita sia l'obbligo di controllare la condotta del terzo ad esempio l'infermiere deve
impedire al pazzo di compiere azioni pericolose; va affrontato in questa categoria anche il
problema della responsabilità colposa nelle attività di equipe ad esempio un urologo nel chiudere
un operazione dimentica una garza nel ventre della paziente la quale decede: risponde di omicidio
colposo anche il chirurgo capo equipe allontanatosi poco prima ? La regola generale è che ogni
partecipante ad un attività medica di equipe risponde solo del corretto adempimento dei doveri di
diligenza e perizia inerenti i compiti che gli sono specificatamente affidati. Nello specifico, la
responsabilità colposa per il decesso del paziente potrà gravare anche sul chirurgo capo equipe
solo se la dimenticanza dell’ urologo direttamente responsabile è dovuto a una situazione di
difficoltà conosciuta o conoscibile da parte del capo appunto nel caso di responsabilità dolosa del
terzo vale a maggior ragione il principio di autoresponsabilità per cui ciascuno risponde delle
proprie azioni deliberate in modo libero e responsabile punto il principio di autoresponsabilità
subisce delle deroghe: nel caso in cui l'agente riveste una posizione di garanzia che consiste nella
difesa di un bene rispetto anche alle aggressioni dolose di terzi ad esempio guardia del corpo; nei
casi in cui il soggetto deve svolgere una funzione di controllo di fonti di pericolo.

10. NESSO DI RISCHIO TRA COLPA ED EVENTO


Nel reato colposo il risultato lesivo rappresenta la conseguenza della condotta illecita anche in
questo modello di reato, il nesso di causalità si accerta secondo la teoria condizionalistica, con la
precisazione che in questo punto l'evento deve apparire come la concretizzazione del rischio che la
norma di condotta violata tendeva a prevenire appunto l'evento che ha aggiornato deve In altre
parole appartenere al tipo di quelli che la norma di condotta mirava a prevenire. Se così non fosse
si finirebbe col punire in base al semplice nesso di causalità materiale. E’ discusso se la
prevedibilità dell'evento conforme al tipo di quelli che la norma precauzionale mirava impedire,
debba essere verificate in astratto in concreto: secondo la tesi della preventibilità in astratto, ai
fini dell’attribuzione di responsabilità basterà accertare l'avvenuta violazione della norma
cautelare, nella presunzione assoluta che la sua osservanza sarebbe valsa di impedire l'evento ,
specie quando sempre senza di leggi cautelari scritte in cui il giudizio di abitabilità è stato già
espresso dal legislatore; Una simile tesi va incontro al rischio di degradare la responsabilità colposa
ha responsabilità oggettiva; La tesi della prevedibilità in concreto è preferibile punto e tuttavia
appare difficile spiegare sul piano dogmatico perché la responsabilità venga meno in tutti i casi in
cui l'evento lesivo si sarebbe verificato comunque anche tenendo la condotta conforme all'obbligo
di diligenza punto tra i correttivi proposti quello che più convince il criterio dell'aumento del
rischio: ai fini del giudizio di responsabilità occorre verificare se l' inosservanza della regola di
condotta ha determinato un aumento del rischio di verificazione dell'evento lesivo.

SEZIONE II: ANTIGIURIDICITA’

1. PREMESSA
Anche nel caso del reato colposo, va accertata l'assenza di cause di giustificazione, ai fini della
formulazione del giudizio di antigiuridicità. La tipicità ha qui funzione indiziante rispetto all’
antigiuridicità concepita come assenza di cause di giustificazione. La diversità strutturale tra reato
doloso e colposo fa sì che per quanto riguarda quest'ultimo non sono forse prospettabili tutte le
scriminanti esistenti: si fa riferimento soprattutto alle questioni riguardanti il consenso dell'avente
diritto, la legittima difesa e lo stato di necessità.

2. CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO


La giurisprudenza prevalente tende ad escludere l' efficacia scriminante del consenso nei reati col
posi facendo leva su due ordini di raccomandazioni: il consenso quale volontà di lesione è
incompatibile con il carattere involontario del reato colposo; il consenso dell'avente diritto si può
parlare solo il rapporto ad un reato doloso; il consenso dell'avente diritto non può intervenire
come causa di giustificazione in relazione beni di vita integrità fisica, beni indisponibili a presidio
dei quali si pongono reati colposi. Contro queste affermazioni si può obiettare: si può consentire
ad un'attività pericolosa senza per questo volere l' effettiva verificazione dell'evento lesivo ad
esempio dei giovani salgono sulla motocicletta di un amico pur consapevoli che la strada
sconnessa può provocare una caduta virgola che poi si verifica. Così la volontaria assunzione del
rischio da parte del titolare del bene verrà certamente a scagionare l’agente. Anche se sono pochi
esistono comunque dei reati colposi posti a tutela di diritti disponibili. D'altra parte non è neanche
del tutto vero che non si possa mai a consentire ad esporre a pericolo il bene della vita. L’obbligo
di non esporre a rischio la vita altrui trova un limite nel riconoscimento del principio di
autodeterminazione responsabile. La causa di giustificazione del consenso è stata in passato
invocata anche per legittimare l'attività medica e l'attività sportiva appunto oggi invece si tende a
ridimensionare la funzione scriminante del consenso ed a rinvenire il fondamento della liceità di
tali attività. Nell’ articolo 51 codice penale ed il consenso richiamato quale condizione aggiuntiva o
per rendere legittime delle condotte che fuoriescono dallo schema di quelle autorizzate.

3. LEGITTIMA DIFESA
Secondo parte della giurisprudenza la legittima difesa è incompatibile con il delitto colposo perché
presuppone la volontà di ledere l'aggressore mentre nel reato colposo fa difetto proprio la volontà
dell' offesa appunto tale assunto non convince : è ben possibile che nell’ambito dell’azione
difensiva si possa provocare anche un evento lesivo non voluto e che l’agente avrebbe potuto
evitare con l'uso della diligenza dovuta. Oltretutto sarebbe davvero strano se l'ordinamento
consentisse di ledere volontariamente l'aggressore e punisse invece le conseguenze involontarie di
un'azione difensiva ad esempio tizio, attorniato da alcuni giovani che stanno per percuoterlo,
estrae un'arma e li minaccia: ma i giovani, anziché fuggire, tentano di disarmarlo per cui, nella
colluttazione che ne segue, parte involontariamente un colpo che uccide uno degli aggressori.
4. STATO DI NECESSITA’
È ammessa in maniera pacifica la configurabilità dello Stato di necessità nel delitto colposo, sia
dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Ad esempio un padre alla guida dell'auto vede il figlio
pedone in pericolo ed arresta bruscamente il mezzo , provocando le lesioni di un motociclista che
si scontra con il mezzo imprudentemente abbandonato. La giurisprudenza in casi simili, tratta lo
stato di necessità come esclusione della colpa e non come causa di giustificazione. Perché sussista
lo stato di necessità occorre che l'azione necessitata violi il dovere di diligenza. In altre ipotesi
invece, l'azione viola solo apparentemente il dovere di diligenza. Ad esempio nel caso dell'autista
dell'autobus che per evitare un incidente freni bruscamente provocando lesioni ai passeggeri il
comportamento del soggetto, essendo diretto tutelare anche il bene della persona che le risulta
offesa, realizza in concreto il migliore adempimento possibile del dovere generale di prudenza
posso a garanzia della sicurezza della circolazione. Distinguere tra due casi è importante non potrà
riconoscersi il diritto all' indennità fissato dall’ articolo 2405 del codice civile quando il fatto tipico
viene a mancare per la conformità del comportamento necessitato alla regola precauzionale. L'
indennità si riconoscerebbe quindi solo al motociclista e non ai passeggeri dell'autobus.

SEZIONE III: COLPEVOLEZZA

1. STRUTTURA PSICOLOGICA DELLA COLPA


Per quanto concerne il terzo elemento strutturale, anche nel reato colposo la colpevolezza ha la
funzione di racchiudere i presupposti dell' imputazione soggettiva del fatto al soggetto agente.
Con riguardo all' imputabilità e alla coscienza dell' illiceità valgono le stesse considerazioni fatte
per il reato doloso punto dal punto di vista psicologico la colpa presuppone innanzitutto l'assenza
della volontà diretta a commentare il fatto: la realizzazione della fattispecie colposa deve essere
dunque non voluta. Nei manuali si distingue tra: Colpa propria caratterizzata dalla mancanza di
volontà dell'evento, rappresenterebbe l'ipotesi tipica di colpa; Colpa impropria: costituirebbe
un’ipotesi eccezionale in quanto riguarda le ipotesi in cui l'evento è voluto e che è tuttavia si fanno
rientrare nella fattispecie colposo. Fiandaca e Musco non condividono questa distinzione poiché,
se è vero che nell’ipotesi di colpa impropria all'evento voluto, è anche vero che si tratta di fatti
comunque strutturalmente col posi virgola in cui il dolo non è configurabile poiché manca la
coscienza e la volontà dell’ intero fatto tipico, da tale erronea rappresentazione di elementi non
corrispondenti della realtà appunto inoltre ciò che si rimprovera alla gente non è di aver voluto
l'evento, ma di averlo provocato con negligenza o imperizia. Non esiste incompatibilità tra colpa e
previsione dell'evento ex articolo 43 comma tre; si distingue a proposito tra: colpa cosciente che
sussiste quando la gente non vuole commettere il reato ma si rappresenta l'evento come
conseguenza possibile della sua condotta; Colpa incosciente ricorre quando il soggetto non si
rende conto di poter con il proprio comportamento porre in pericolo beni giuridici altrui; In questi
casi il rimprovero che si muove al soggetto e di non aver prestato sufficiente attenzione alla
situazione pericolosa. In realtà la maggior parte dei casi di colpa incosciente difesa di coscienza e
volontà come coefficienti psicologici reali. Il giudizio di imputazione diventa così di natura
normativa e l'accertamento della colpa qui tende a coincidere con la possibilità di muovere il
soggetto un rimprovero per non aver osservato le norme di comportamento necessarie a
prevenire la lesione dei beni giuridici.

2. LA MISURA SOGGETTIVA DEL DOVERE DI DILIGENZA


Una volta accertata oggettivamente la violazione del dovere di diligenza occorre verificare, ai fini
del giudizio di colpevolezza, l' attitudine del soggetto che ha una volta accertata oggettivamente la
violazione del dovere di diligenza occorre verificare, ai fini del giudizio di colpevolezza, l’attitudine
del soggetto che ha agito in concreto ad uniformare il proprio comportamento alla regola di
condotta violata appunto tale verifica dovrebbe tener conto del livello individuale di capacità,
esperienza e conoscenza del singolo agente. Il problema è stabilire quali qualità personali debbano
essere prese in considerazione per stabilire se il soggetto agente aveva la possibilità di agire
altrimenti: certo non si può tener conto di tutte le caratteristiche personali dell' agire concreto
perché si finirebbe per giustificare ogni azione colposa punto la maggiore o minore attenzione a
tali caratteristiche dipende anche dalle esigenze che si vogliono soddisfare: se vi vogliono
privilegiare esigenze di prevenzione generale si terranno in minore considerazione, viceversa se si
vuole potenziare il principio di colpevolezza che si terrà in maggior conto.

3. IL << GRADO>> DELLA COLPA


L'articolo 133 menziona, tra gli indici di commisurazione della pena, il grado della colpa. A scanso
di equivoci va subito escluso che sul terreno penalistico siano automaticamente trasferibili le
tradizionali distinzioni civilistiche relative ai gradi della colpa: il rimprovero penale persegue infatti
finalità diverse da quelle cui tende l' imputazione della colpa civile. Piuttosto il grado di colpa va
valutato con riferimento al grado di divergenza tra il comportamento effettivamente tenuto e la
condotta doverosa sulla base della norma cautelare. In sede di verifica di questo grado di
divergenza soccorreranno un criterio di valutazione oggettivo e uno soggettivo, che nella maggior
parte dei casi si integrano reciprocamente : in un primo momento si tratterà cioè di accertare
quanto il comportamento concretamente realizzato si allontani dallo standard oggettivo della
diligenza richiesta ad esempio il limite di velocità superato di un tot di chilometri; Mentre in un
secondo momento ci si preoccuperà di verificare le cause soggettive che hanno fatto sì che l’
agente concreto non osservasse la misura di diligenza prescritta ad esempio stato di stanchezza
del conducente.

4. CAUSE DI ESCLUSIONE DELLA COLPEVOLEZZA


L' adesione alla concezione normativa della colpevolezza impone di tener conto, anche sul terreno
del reato colposo, delle circostanze anormali concomitanti all' agire la cui presenza è in grado di
incidere sull’esigibilità del comportamento richiesto dall' ordinamento giuridico. Anzi è a maggior
ragione nell’ ambito dei reati colposi che la rilevanza di tali circostanze può giungere sino al punto
di incidere sullo stesso ambito della punibilità: infatti l' adempimento del dovere oggettivo di
diligenza presuppone il possesso, da parte della gente,di determinate attitudini psicofisiche che
possono subire una menomazione in presenza di circostanze particolari capaci di avere incidenza
sulla normalità del processo volitivo. Qualche autore ritiene che rientrino in questa categoria le
ipotesi di caso fortuito , forza maggiore e costringimento fisico. Ma il problema delle circostanze
normali non si pone per queste fattispecie poiché esse sono già tipizzate dal legislatore articolo 45
e 46 ed il giudice sarà ottenuto di certo a tenerne conto, qualsiasi sia la collocazione sistematica
che si intende dal loro. Il problema si pone piuttosto per le circostanze non tipizzate: stanchezza
eccessiva, stordimento, terrore. La rilevanza scusante di tali circostanze può trovare fondamento
in un’interpretazione per un’azione od omissione se non la commessa con conoscenza e volontà,
di conseguenza queste circostanze escludono la colpevolezza perché in grado di inibire poteri di
orientamento cosciente e volontario dell’agente.

SEZIONE IV LA COOPERAZIONE COLPOSA

1 LA DISCIPLINA PREVISTA DALL’ ART 113 C.P.


La disciplina di cui all’articolo 113 stabilisce che nel diritto colposo, quando l’evento è stato
cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il
delitto stesso. La pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto quando
concorrono le condizioni stabilite nell’ art. 111 e nell’art 112 comma 3 e comma 4. All’attenzione
della dottrina si è posto il problema riguardante la distinzione tra cooperazione colposa e concorso
di cause colpose indipendenti. Secondo la tradizionale il discrimine è segnalato dall’esistenza o
meno di un legame psicologico tra i diversi soggetti agenti: si ha cioè cooperazione colposa
quando sussiste un legame; concorso di fatti colposi indipendenti quando detto legame non
sussiste. L’art 113 dunque non avrebbe solo una funzione di disciplina ma anche una funzione
incriminatrice, nel senso che oltre ad assoggettare ad un particolare trattamento penale fatti che
sarebbero già autonomamente reprimibili in base alla fattispecie di parte speciale. Fiandaca e
Musco non appoggiano questa tesi. Non c’è bisogno di ricorrere alla funzione incriminatrice
dell’art 113: la condotta è colposa in sé e per sé. Una funzione incriminatrice può essere svolta
dell’art 113 con riferimento alla fattispecie a forma vincolata. Proprio in questi casi utilizzare l’art
113 con funzione estensiva, può apparire inopportuno sotto il profilo della legalità. Se il legislatore
ha voluto tutelate alcuni ben solo contro quelle specifiche modalità di offesa contemplate,
l’estensione della punibilità a condotte non previste appare infatti una forzatura.
PARTE QUARTA: IL REATO OMISSIVO
CAPITOLO 1: IL REATO OMISSIVO

SEZIONE I: NOZIONI GENERALI

1. PREMESSA
Il modello tipico di illecito penale è tradizionalmente costituito dal reato di azione. E’ coerente ad
un ideologia individualistico liberale l'unico limite alla libertà d'azione del cittadino era
rappresentato dall’ obbligo di non aggredire le altrui posizioni di interesse: dunque fino a buona
parte dell'Ottocento il reato omissivo costituisce l'eccezione. Conformemente all' affermarsi del
diverso principio solidaristico che fa obbligo non solo di astenersi dal compiere azioni lesive,
quando di attivarsi per la salvaguardia dei beni altrui posti in pericolo, si assiste al progressivo
incremento delle forme di responsabilità per omissione. Con il crescere dei reati omissivi aumenta
anche l'attenzione della dottrina per tale figura di reato che merita pertanto uno studio
assestante, un'analisi separata che si preoccupi di porre in evidenza le peculiarità strutturali.

2. DIRITTO PENALE DELL’OMISSIONE E BENE GIURIDICO


Il sempre più frequente ricorso alla fattispecie omissiva propria ha finito con il sollevare il
problema della compatibilità tra la punibilità delle omissioni e l'idea della protezione dei beni
giuridici. Mentre il diritto penale dell’azione reprimerebbe la modificazione in peggio di una
situazione preesistente, e cioè la lesione di un bene giuridico, il diritto penale dell'omissione
tenderebbe invece a promuovere il benessere collettivo: da questo punto di vista la fattispecie
omissiva propria costituirebbe lo strumento tecnico legislativo privilegiato per realizzare la
funzione propulsiva del diritto penale. Parte della dottrina incline a degradare il retromissivo puro
a illecito pura disobbedienza e di in termini analoghi c'è chi sostiene che il disvalore dell'illecito
omissivo proprio consiste non tanto nella lesione di un bene giuridico preesistente, quanto alla
mancata produzione di un bene o di un’utilità futura. Tale orientamento tende a generalizzare e
non tiene in considerazione che una disamina più approfondita consisterebbe di distinguere
ipotesi di pura disobbedienza ipotesi in cui le fattispecie omissive sono poste a presidio di un quid
del tutto assimilabile al concetto di bene giuridico. Nulla impedisce che in certi casi possa
assurgere alla dignità del bene meritevole di protezione penale proprio interesse attuale al
conseguimento di utilità future punto si tratta invece di verificare di volta in volta se l' interesse
tutelabile mediante la creazione di una fattispecie omissiva abbia, nella stessa coscienza sociale,
raggiunto un tale livello di consolidamento da far apparire necessario e legittimo il ricorso alla
tutela penale.
3. LA BIPARTIZIONE DEI REATI OMISSIVI IN <<PROPRI>> E <<IMPROPRI>>
Nel tracciare la linea di demarcazione fra le due forme di illecito omissivo, sono adottabili diversi
criteri: quello più tradizionale fa leva sulla necessità della presenza o no di un evento come
requisito strutturale del fatto di reato. Su questa base i reati omissivi si distinguono in:
propri: consistono nel mancato compimento di un'azione che la legge penale comanda di
realizzare. L’omittente viene punito per non aver realizzato l'azione doverosa, e non per non avere
impedito il verificarsi dell'evento che eventualmente ne deriva. Così il reato di omissione di
soccorso di cui all'articolo 593 incrimina la semplice omissione dell’esistenza alla persona in
pericolo. Se ne consegue la morte prevista un aggravante della pena e non l'incriminazione per
omicidio.
Impropri: consistono nella violazione dell'obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico. Si
tratta di ipotesi in cui l'omittente riveste un ruolo di garante della salvaguardia del bene protetto e
risponde anche dei risultati connessi al suo mancato attivarsi. La distinzione che procede appare
abbastanza plausibile. A nostro avviso va attribuita però rilevanza decisiva non soltanto alla
presenza di un evento nella struttura del reato omissivo improprio, quando invece al fatto che
questo tipo delittuoso è carente di una previsione legislativa espressa. La fattispecie del reato
omissivo improprio nasce dal combinarsi della clausola generale contenuta nell’articolo 40 comma
due con le norme di parte speciale e quindi la trasformazione della fattispecie commissiva in
omissiva.

SEZIONE II: STRUTTURA DEL REATO OMISSIVO


1. TIPICITA’
A) LA FATTISPECIE OBIETTIVA DEL REATO OMISSIVO PROPRIO
1 SITUAZIONE TIPICA
Il legislatore provvede a fissare gli elementi costitutivi della fattispecie omissiva propria. La figura
in esame è strutturalmente costituita da una situazione tipica, che può avere definita come
l'insieme dei presupposti da cui scaturisce obbligo di attivarsi. Ad esempio nell’ omissione di
soccorso la situazione tipica è costituita dalla condizione di pericolo in cui versa il soggetto
bisognoso d'aiuto. Nel descrivere la situazione tipica, la norma incriminatrice indica anche il fine
cui deve tendere il compimento dell'azione comandata; Il contenuto dell'obbligo di agire a volte
specificato, a volte stabilito in forma generica punto nel descrivere la fattispecie il legislatore può
utilizzare elementi descrittivi o elementi normativi giuridici, così come nel reato commissivo. Alla
luce di queste le fattispecie omissive proprie possono essere distinte in due sottocategorie, a
seconda che la relativa situazione tipica sia pregnante o neutra: nel primo caso l'obbligo di attivarsi
a presupposto una realità naturalistico sociale immediatamente percepibile dal soggetto, a
prescindere dalla conoscenza che gli abbia dell'obbligo giuridico di agire; nel secondo caso invece è
difficile che il soggetto possa riconoscere di trovarsi nella situazione che lo obbliga ad attivarsi in
un determinato modo, se gli previamente non conosce la specifica norma giuridica generatrice
dell'obbligo di agire.
2. CONDOTTA OMISSIVA TIPICA E POSSIBILITA’ DI AGIRE
Altra componente fondamentale della fattispecie e la condotta omissiva appunto secondo la
teoria normativa l'omissione è il non compimento di una determinata azione, che era da
attendersi in base ad una norma. Condotta omissiva tipica e, nell’ illecito omissivo proprio, il
mancato compimento dell'azione richiesta in presenza della situazione conforme alla fattispecie
incriminatrice. Questa possibilità può essere esclusa: dall' assenza delle necessarie attitudini psico
fisiche ad esempio non è omissione di soccorso il mancato intervento in aiuto del bagnante in
difficoltà da parte di chi non sa nuotare. Dalle condizioni esterne: ad esempio la lontananza al
luogo. Inoltre ove si tratti di doveri di agire che incombono su più soggetti, e che non
presuppongono necessariamente un adempimento di tipo personale, l'attivarsi da parte di uno dei
co obbligati può far venir meno i presupposti della situazione tipica e, quindi, può rendere
penalmente rilevante l'omissione di coloro i quali rimangono successivamente inattivi.

B. LA FATTISPECIE OBIETTIVA DEL REATO OMISSIVO IMPROPRIO


3. PREMESSA: AUTONOMIA DELLA FATTISPECIE OMISSIVA IMPROPRIA E PRINCIPIO
DI LEGALITA’
L'evento del cui mancato impedimento si è chiamati a rispondere, è quello tipico ai sensi di una
fattispecie commissiva, cioè di una fattispecie sorta in origine per incriminare un patto incentrato
su di un comportamento positivo. Come abbiamo detto di reati omissivi impropri non sono
tipizzati nella parte speciale, ma nascono dall’ incontro tra la clausola di equivalenza dell'articolo
40 e la fattispecie commissiva di parte speciale: ne viene fuori una nuova fattispecie autonoma
incentrata sul mancato impedimento dell'evento, e non una nuova forma di manifestazione della
fattispecie commissiva appunto occorre dunque rivedere il convincimento secondo cui il
legislatore non sarebbe in grado di prevedere, nella parte speciale del codice, tutte le ipotesi di
omesso impedimento dell'evento meritevoli di sanzione penale.

4. LA SFERA DI OPERATIVITA’ DELL’ART 40 CPV. C.P.


La sfera di operatività dell'articolo 40 stabilisce una regola di equivalenza tra il non impedire un
evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire e il cagionarlo, dal luogo ad un fenomeno di
estensione della punibilità: si tratta di accertare se l' operatività della regola in generale vada
limitato solo ad alcuni tipi di reato appunto l'impiego dell'articolo 40 e ovviamente escluso per le
fattispecie rispetto alle quali il legislatore fa esplicita menzione della condotta omissiva, o in via
esclusiva o accanto all' azione in senso stretto appunto altra limitazione negativa riguarda quelle
fattispecie penali che pongono l'accento su una condotta caratterizzata da note descrittive
necessariamente inerenti ad un comportamento positivo come il furto o la rapina e, per le stesse
caratteristiche, i reati di mano propria e reati abituali. Al contrario vi sono fattispecie che
incriminano una violazione di obblighi comportamentali che può avvenire indifferentemente con
una commissione o una omissione . Un'ulteriore indicazione è data dal fatto che la norma
dell'articolo 40 è inserita nella rubrica del rapporto di causalità: la connessione tra quest'ultima e
la regola dell' equivalenza sembra dunque far notare che il campo d'azione della fattispecie
omissiva impropria va limitato ai casi in cui affiora il problema del nesso causale tra condotta ed
evento lesivo , dunque sono le reati di evento. Occorre scartare dal novero dei reati di evento
quelli caratterizzati da elementi strutturali che possono accedere soltanto di una condotta
positiva, evidenziandone le caratteristiche fenomeniche. Specifico campo d'azione della clausola
risulta quindi quello dei reati causali puri. Quei reati di evento il cui disvalore si concentra tutto
nella produzione del risultato lesivo, mentre sono indifferenti le specifiche modalità
comportamentali che nasca nel processo causale. E discussa invece l'operatività dell'articolo 40
rispettate esempi errati posti a tutela del patrimonio. L'idea che l'articolo 40 appare plausibile ove
si trovi di fronte all' esigenza di impedire gravi lesioni interessi patrimoniali, la cui salvaguardia
posso giovare al buon funzionamento dell'economia collettiva. Parte della dottrina invece sostiene
sia possibile rispetto a qualsiasi illecito determinare i limiti individuati mediando missione ad un
reato materialmente commesso.

5. SITUAZIONE TIPICA
Anche per il reato omissivo improprio la fattispecie ricomprende la situazione tipica intesa come il
complesso dei presupposti di fatto che danno vita ad una situazione di pericolo per il bene da
proteggere che per quanto rendono attuale l'obbligo di attivarsi del garante. Peraltro, data la
mancanza di una previsione legale espressa di tutte le componenti costitutive del reato omissivo
improprio, il contenuto e lo scopo del dovere di agire del garante possono specificarsi solo in
rapporto alle circostanze del caso concreto, grazie al lavoro di conversione operato dal giudice.

6.OMESSO IMPEDIMENTO DELL’EVENTO ED EQUIVALENTE NORMATIVO DELLA


CAUSALITA’
Ulteriori elementi costitutivi della fattispecie omissiva impropria sono da un lato la condotta
omissiva di mancato impedimento, e dall'altro l’evento non impedito: ovviamente per attribuire
all' emittente la responsabilità per l'evento occorre dimostrare una connessione tra l'evento stesso
e la condotta omissiva. Nonostante gli sforzi da parte della dottrina in tal senso non è possibile nei
reati omissivi riscontrare un rapporto di causalità uguale a quello esistente dei reati di evento
commessi mediante azione. Mentre nei reati commissivi si tratta di stabilire un nesso di
derivazione tra dati reali del mondo esterno, nell'ambito della fattispecie omissiva impropria il
problema di verificare e se in che modo l'eventuale compimento dell'azione dovuta avrebbe inciso
sul corso degli accadimenti e virgola in particolare, se sarebbe valso evitare la verificazione
dell'evento lesivo. Di conseguenza per determinare il nesso omissione evento si emette un giudizio
ipotetico o prognostico. Il giudice deve immaginare come realizza l'azione doverosa omessa e
verificare sempre senza di essa l’evento lesivo che sarebbe venuto meno appunto per effettuare il
giudizio prognostico, infatti si ricorre a leggi scientifiche. Ad esempio per verificare il nesso di
causalità tra l' omissione del medico che non pratica l'iniezione antitetanica e la morte di un ferito
provocato dall'infezione tetanica occorre verificare l'esistenza di una legge biologica che asserisca
che è l' inoculazione del siero rende generalmente inattivo il focolaio infettivo. Dopo avere
individuato la legge di copertura in virtù della quale sia consentito affermare che al verificarsi di
certi antecedenti vengono generalmente meno determinate conseguenze, si potrà anche questa
volta usare, la formula della condicio sine qua non, la quale nell’ illecito omissivo improprio va così
articolata: l'omissione è causa dell’evento quanto non può essere mentalmente sostituita dall’
azione doverosa, senza che l'evento venga meno. Si può parlare in questi casi di causalità
ipotetica: l'essenziale è che si sia consapevoli che si tratti non di un rapporto causale vero e
proprio , bensì di un suo equivalente ai fini dell' imputazione giuridica, al soggetto garante
dell'evento non impedito. Il grado di certezza raggiungibile nella causalità omissiva non deve
essere lo stesso del nesso causale vero e proprio. Solo dovrebbe indurre ad accontentarsi di
richiedere, in sede di applicazione della formula della condicio, che l'azione doverosa, ove
compiuta, valga di impedire elemento con una probabilità vicina alla certezza. Una simile opinione
ha il merito di porre in evidenza che dai giudizi prognostici esula per definizione ogni certezza
assoluta: essa però diventerebbe poco accettabile se la si intendesse nel senso che l'accertamento
della causalità omissiva dispenserebbe il giudice dal far ricorso a criteri veramente attendibili. Il
campo in cui maggiormente si sono manifestate le problematiche della causalità nel reato
omissivo improprio è il settore della responsabilità medica. in alcuni casi giudici non affrontano
autonomamente il problema causale, ritenendolo assorbito nell’ accertamento della posizione di
garanzia del medico e del conseguente obbligo di impedire l'evento: per cui se si ritiene
sussistente la posizione di garanzia, se ne ricava in maniera pressoché automatica il nesso di
causalità tra l'omissione del sanitario. In altri casi la giurisprudenza far ricorso a criteri statistico
probabilistici piuttosto rigorosi come riconoscimento della causalità omissiva anche in presenza di
poche probabilità di successo dell’ intervento sanitario indebitamente omesso. In altri casi ancora
utilizza il criterio dell'aumento del rischio in una sentenza della Cassazione del 2002 ha invece
prospettato la necessità di un equilibrato bilanciamento tra la probabilità statistica e la probabilità
logica.
Caso: i genitori di una bambina affetta da talassemia, per motivi religiosi decidono di interrompere
la terapia di trasfusioni a cui la figlia viene periodicamente sottoposta, non impedendone così la
morte sopraggiunta per grave anemia appunto e qui chiaramente ravvisabile il collegamento
causale tra il comportamento omissivo il decorso del male della bambina , per cui si deve
affermare l'esistenza del nesso di condizionamento che viene stabilito non già tra l'interruzione
delle trasfusioni e le ventole tale concepito come evento astratto ma tra l'interruzione predette la
morte così come si verifica hic et nunc.

7. LA POSIZIONE DI GARANZIA
Perché la Cassazione e il mancato impedimento di un evento risultino penalmente equivalenti non
basta accertare il nesso di causalità ipotetica tra l'evento stesso e la condotta omissiva. Il meno
che la causalità ipotetica possiede rispetto alla causalità reale, deve essere infatti compensato da
un altro elemento, secondo l'articolo 40 nella violazione di un obbligo giuridico di impedire
l'evento. Il problema è dunque quello di individuare gli obblighi giuridici di attivarsi, la cui
violazione consenta l'affermazione di responsabilità penale. La dottrina tradizionale accoglie la
teoria formale: l'obbligo di impedire l'evento deve essere espressamente previsto in fonti formali.
In particolare sono rilevanti gli obblighi di attivarsi che trovano fonte: nella legge, nel contratto,
nella precedenti azione pericolosa; parte della dottrina ha esteso l'ambito delle possibili fonti
ricomprendendo la negotiorum gestio e la consuetudine. Tale teoria è stata criticata, non essendo
in grado di spiegare in modo appagante perché il diritto penale a singole omissione non impediva
all' azione causale, e perché solo in alcuni casi. La dottrina più recente ha elaborato invece la
teoria contenutistico funzionale. Essa integra i tradizionali criteri giuridico formali di individuazione
degli obblighi di garanzia con criteri materiali desunti dalla specifica funzione attribuibile alla
responsabilità per omesso impedimento dell'evento nel nostro sistema penale. Ai fini di un
individuo azione degli obblighi di impedire l'evento rilevanti sul terreno del diritto vigente, è
opportuno dal conto qui di seguito soprattutto delle acquisizioni che oggi formano oggetto di più
ampio consenso alla luce della più recente evoluzione dottrinale in materia appunto si parte dalla
premessa che la responsabilità per omissione è prevista al fine di apprestare una tutela rafforzata
a determinati beni, data l'incapacità dei loro rispettivi titolari di proteggerli adeguatamente. Ai fini
della responsabilità penale per omissione non basta perciò un qualsiasi obbligo giuridico ma
occorre una posizione di garanzia nei confronti del bene protetto. In base a tali considerazioni è
evidente che, anche nel caso dei genitori della bambina affetta da talassemia, si può parlare di
responsabilità dei genitori per omicidio mediante emissione in quanto essi si trovano senza dubbio
una posizione di garanzia punto gli obblighi di garanzia hanno un carattere speciale poiché
incombono solo su alcuni soggetti e non sulla generalità dei cittadini. Le posizioni di garanzia
possono essere inquadrate in due tipologie fondamentali: posizione di protezione che allo scopo di
perseverare determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciare l'integrità, quale
che sia la fonte da cui scaturiscono; Posizione di controllo che allo scopo di neutralizzare
determinati fonti di pericolo in modo da garantire l'integrità di bene giuridici che ne possono
risultare minacciati. Rientrano tra le posizioni di protezione penalmente rilevanti: quelli che
trovano la loro fonte direttamente nella legge, e in particolare nel diritto di famiglia: il vincolo di
protezione tra genitori e figli minori di quell’ articolo 30 della costituzione. La ratio di questo
obbligo di protezione sta nell’ incapacità naturali minori a difendersi dai pericoli punto di
conseguenza l'obbligo non è reciproco se non in casi eccezionali punto la protezione dovuta sia
rispetto alle aggressioni di terzi che rispetto a fatti naturali. L'obbligo impone di impedire che i figli
subiscono lesioni alla vita all'integrità fisica; il rapporto tra coniugi l'obbligo di reciproca assistenza
previsto dal codice civile può tramutarsi in un obbligo di garanzia penalmente rilevante a
condizione che tra i coniugi sussiste un rapporto di concreto affidamento circa la reciproca
protezione; Posizioni di protezione sono previste dall' ordinamento penitenziario a carico dei
dipendenti dell'amministrazione penitenziaria favore dei detenuti di cui sono tenuti a tutelare la
vita e l'incolumità personale; Quelle che scaturiscono da un atto di autonomia privata qual è il
contratto come ad esempio la baby sitter punto al di fuori di un rapporto contrattuale, la posizione
di protezione può altresì scaturire sono assunzione volontaria dei compiti di garante che,
determina o accentui una situazione di rischio per il bene protetto.
Tra le posizioni di controllo rientra invece obblighi di controllo sfondi di pericolo che si configurano
in presenza di due condizioni: che il titolare del bene si trovi nell’ impossibilità di proteggere il
bene medesimo, e che il garante tenga sotto la sua sfera di Signoria la sorgente da cui si origina la
situazione di pericolo a carico di terzi. Il proprietario della cosa pericolosa deve impedire che dalla
stessa possano derivare danni a terzi, che in quando non proprietari della sorgente non possano
proteggersi da sé perché vi sarebbe inferenza nella sfera altrui.
Al paradigma delle posizioni di controllo su fonti di pericolo possono essere ricondotti anche casi
in cui il garante è obbligato a impedire l'agire illecito di un terzo. Configurarsi di questa specifica
posizione di garante dipende in alcuni casi dalla presenza di due condizioni: che il terzo sia carente
dei requisiti necessari a governare in modo responsabile il proprio comportamento; e che a causa
di tale stato di incapacità naturale, egli debba sottostare al potere di controllo e vigilanza di un
garante. Alcune volte la posizione di garanzia in esame si fonda sull’esistenza di un potere giuridico
che pone determinati soggetti in condizione di impedire la commissione di reati da parte di altri
soggetti. È discusso se si possa configurare una posizione di controllo sull’ agire illecito dei terzi
anche a carico degli appartenenti alle forze dell'ordine. Inoltre la funzione di prevenzione che lo
stato esercita mezzo delle forze dell'ordine non muove affatto dalla premessa che tutti i cittadini
siano individui responsabili, da tenere sotto continuo controllo ricorrendo alla predisposizione di
appositi garanti. Le posizioni di garanzia si distinguono ulteriormente in originarie nascono in capo
a determinati soggetti in considerazione dello specifico ruolo o della speciale posizione di volta in
volta rivestita; Derivate tra passano dal titolare originario ad un soggetto diverso, per lo più
mediante un altro di trasferimento negoziale appunto di solito tale passaggio delega avviene
attraverso un mandato. Perché gli obblighi di attivarsi di fonte contrattuale possano assumere
rilevanza ai sensi dell'articolo 40 sono necessarie alcune condizioni: l'intervento del titolare del
bene protetto di un garante a titolo originario virgola che il nuovo garante assume in concreto la
funzione di tutela, affidamento nella validità del contratto. Obblighi di garanzia penalmente
rilevanti possono anche derivare da un' assunzione volontaria della posizione di garante punto ai
fini della rilevanza penalistica delle posizioni di garanzia spontaneamente assunte quel che
veramente conta è che l'intervento del garante determina c'è più un esposizione a pericolo del
bene da proteggere o impedisca la attivarsi di istanze di protezione alternative.

8. LA DISTINZIONE TRA <<AGIRE>> ED <<OMETTERE>> NEI CASI PROBLEMATICI


La distinzione tra azione ed omissione non è sempre netta. Vi sono ipotesi in cui la condotta
presenta una forma ambivalente, nel senso che il giudice penale potrebbe, in base a criteri
normativi di valutazione, ravvisare tanto una condotta attiva quanto una condotta omissiva. Un
primo nodo problematico sta nelle ipotesi di illecito colposo imperniate su un’azione. E ’il caso di
chi guida nella notte coi fari spenti provocando un incidente. Si può sostenere anche che
l'incidente sia dovuto all' omissione della regola che impone di tenere i fari accesi. Il punto è che
nella colpa è sempre insito un moment omissivo. Il criterio descrittivo tra azione colposa ed
omissione può essere la verifica in capo al soggetto della posizione di garante. Nell'esempio della
guida a fari spenti tale posizione non sussiste. Il dovere di prudenza cui è tenuto l' automobilista
ha infatti come presupposto il fatto stesso di compiere un'azione positiva pericolosa e non una
posizione di garanzia in senso tecnico. Altri casi problematici riguardano i reati dolosi, ad esempio i
casi di impedimento di azioni soccorritrice altrui o di interruzione di un personale intervento
soccorritore. Ad esempio nella prima tipologia Caio minaccia tizio con una pistola, impedendogli di
portare sempronio all'ospedale. Caio risponderà di omicidio mediante azione e non di omissione di
soccorso, poiché egli non si limita a non prestare aiuto ma annulla anche strumenti di salvataggio
altrui. L'esempio 1 della seconda tipologia dispone che A, accorgendosi che B è caduto in un pozzo,
gli lancia una fune ma poco dopo se ne pente e la ritira; Si configura omissione di soccorso se A tira
la fune prima che questa ha aggiunto B, se invece la fune sottratta nel momento in cui B sta già
per servirsene si configura omicidio doloso mediante azione. L'esempio 2 della seconda tipologia
dispone che in alcuni casi definire il fatto come azione come omissione non ha rilevanza. E’ il caso
del medico che applica ad un paziente la macchina cuore polmoni ma poco dopo la disattiva senza
ragione. Il medico risponderà in ogni caso di omicidio trovandosi nella posizione di garante
dell'ammalato.

II ANTIGIURIDICITA’
Relativamente alle cause di giustificazione valgono le stesse regole del reato commissivo:
l'antigiuridicità esplica la funzione di convalidare l’ illiceità indiziata della conformità al tipo,
dunque se sussiste una causa di giustificazione l'omissione non risulta antigiuridica e la punibilità
viene meno. È più facile configurare omissioni giustificate dallo stato di necessità ad esempio:
omissione di soccorso perché il salvataggio metterebbe in pericolo la propria vita.

III COLPEVOLEZZA

1 PREMESSA
Anche la struttura della colpevolezza nei reati omissivi è fondamentale analoga a quella già
esaminata nello studio del reato di azione. Con specifico riferimento ai reati omissivi impropri si
prospetta il problema dell'equiparabilità del cagionare il non impedire sotto il profilo dello stesso
trattamento sanzionatorio. Una dottrina minoritaria, ad esempio, sostiene che in materia di reati
omissivi la colpevolezza sia meno grave dal momento che lasciare le cose come stanno implica una
carica di minore pericolosità, onde se n’è dedotto che i delinquenti per omissione meriterebbero
un trattamento punitivo meno severo.

2. DOLO OMISSIVO
Nel settore dei reati omissivi, la ricostruzione degli aspetti strutturali e contenutistici del dolo
risulta complessa e delicata. Ciò vale in particolare per le ipotesi omissive proprie, in quanto
caratterizzate dall’ assenza non solo di una condotta positiva ma anche di un evento
naturalisticamente percepibile: perché sia individuabile il dolo diventa essenziale la conoscenza
della norma. A tal proposito occorre distinguere i reati omissivi propri in due categorie:

Fattispecie con situazione tipica pregnante: sono i casi in cui l'obbligo di attivarsi ha per
presupposto una realtà immediatamente percepibile a prescindere dalla conoscenza dell'obbligo
di agire ad esempio nell’ omissione di soccorso la visione di un ferito provoca la spinta psicologica
ad agire anche se il soggetto ignora l'esistenza della norma che punisce l' omissione di soccorso.

Fattispecie hai con situazione tipica neutra: sono gli illeciti di creazione legislativa a cui non
preesiste un disvalore socialmente percepibile punto in questi casi parte della dottrina ritiene che
per la sussistenza del dolo senza del comando penale virgola in deroga all'articolo 5 del codice
penale.
Occorre la conoscenza dei presupposti del dovere di attivarsi ma anche la consapevolezza della
possibilità di agire nella direzione voluta dalla norma. Negli atti omissivi impropri il dolo abbraccio
anche presupposti di fatto della posizione di garanzia appunto entra a far parte del dolo la
conoscenza dell'obbligo extrapenale di agire, derivante ad esempio da un contratto.

3. COLPA
Anche la ricostruzione della colpa solleva problemi particolari nella fattispecie omissiva. Il difetto
di diligenza può riferirsi al mancato riconoscimento della situazione tipica da parte dell’ omittente
oppure all' errata scelta dell’ azione doverosa da compiere. L' adempimento del dovere di
diligenza presuppone ovviamente che il soggetto obbligato abbia la possibilità di agire nel senso
richiesto punto tale possibilità di agire si articola in:

conoscenza o riconoscibilità della situazione tipica;

Possibilità obiettiva di agire;

Conoscenza e riconoscibilità del fine dell’azione doverosa;

Conoscenza riconoscibilità dei mezzi necessari al raggiungimento del fine medesimo.

In un secondo momento si terrà conto ai fini della rimproverabilità dell'omissione delle capacità
effettive dell’emittente sotto il profilo psicologico fisico. Nell’ambito dei delitti omissivi impropri è
da rilevare che, quanto a contenuto, doveri di diligenza obbligo di impedire l'evento finiscono, nell’
ipotesi concreta, con l'intersecarsi e coincidere: il garante cioè tenuto a fare, per impedire la
verificazione di determinati eventi, quando gli viene imposto dall’ osservanza delle regole di
diligenza dettate dalla situazione particolare.

4. COSCIENZA DELL’ILLICEITA’
Nell’ambito dei reati omissivi la coscienza dell'illiceità equivale alla conoscenza del comando di
realizzare una determinata azione: tale conoscenza effettiva però non è richiedibile ai fini della
punibilità appunto ai fini della sussistenza della colpa bellezza è sufficiente la possibilità di
conoscere il precetto penale. Dunque nei reati omissivi la possibilità di non conoscere il precetto
penale va sempre presa in considerazione, mentre in quello dei reati commissivi tale possibilità è
da tenere in conto solo in presenza di circostanze oggettive.

IV TENTATIVO

1 IL TENTATIVO
E ’pacificamente riconosciuto che il tentativo nei reati omissivi impropri è configurabile. Si ha
tentativo di omissione quando l'evento non si verifica per circostanze indipendenti dalla volontà
della gente. Ad esempio la madre non nutre il figlio ma questi non muore per l'intervento nella
vicina. Potrebbe sorgere un dubbio circa l'individuazione del momento iniziale della missione
punibile. Si deve ritenere che l'omissione tentata assume rilevanza penale quando provoca un
pericolo diretto per il bene tutelato, appaiono più controverse la questione circa la configurabilità
del tentativo per i reati omissivi propri. L'opinione negativa in merito fa leva sul rilievo decisivo
attribuito al termine di adempimento: se il termine utile per compiere l'azione prescritta non è
ancora scaduto, di azione dovuta e ancora punibile; Se il termine è scaduto il reato è già perfetto.
Parte della dottrina ritiene che comunque il tentativo sia configurabile tutte le volte in cui il
soggetto compie atti positivi diretti in modo non equivoco non adempie raccomandazione. Ad
esempio il pubblico ufficiale si reca all'estero al fine di non essere presente nel tempo e nel luogo
in cui dovrebbe compiere un atto d'ufficio, ponendo in essere così un tentativo di omissione di
archi l'ufficio.

V PARTECIPAZIONE CRIMINOSA

1 PARTECIPAZIONE NEL REATO OMISSIVO


Si possono configurare due ipotesi di partecipazione di più persone alla condotta criminosa
omissiva:

concorso mediante omissione in un reato omissivo: il fenomeno è ammissibile allorché più


soggetti obbligati decidano, di comune accordo perché ciascuno non adempirà al suo obbligo di
condotta ad esempio più persone convergono di non prestare soccorso ad un ferito. Qui in realtà il
ricorso alla figura del concorso appare superfluo poiché le singole condotte omissive integrano
ciascuna già di per sé la fattispecie incriminatrice.

Concorso mediante azione in un reato omissivo: ad esempio Tizio istiga Caio non a soccorrere un
ferito. Anche in casi come questo il ricorso all'istituto della partecipazione criminosa si rivela
superfluo, qualora pure l'istigatore sia personalmente in grado di soccorrere la persona anche egli
infatti potrà assumere direttamente il ruolo di autore il diritto di omissione di soccorso.

2 PRESUPPOSTI E LIMITI DELLA PARTECIPAZIONE MEDIANTE OMISSIONE NEL


REATO COMMISSIVO

Si può concorrere mediante omissione alla realizzazione di un evento commissivo,


solo a condizione che lo mittente sia garante dell'impedimento dell'evento: evento
questa volta costituito dal reato direttamente commesso da terzi. In tal modo il
problema della partecipazione mediante emissione finisse in parte con il risolversi in
quello dell'individuazione dei presupposti in presenza dei quali si possa affermare
che sussiste a carico di un determinato soggetto l'obbligo di impedire un evento
reato. La giurisprudenza ha mostrato orientamenti contrastanti: in un caso una
madre fu ritenuta responsabile di compartecipazione alla violenza ai danni della
figlia per essere rimasta inerte. In un altro caso di fronte al non impedimento da
parte della madre della prostituzione della figlia, la giurisprudenza ha escluso che il
dovere di vigilanza sui minori in capo ai genitori potesse essere tale da configurare
una responsabilità penale punto non sono mancati correttivi dottrinali nel tentativo
di riconoscere in casi simili delle graduazioni di responsabilità.
PARTE QUINTA: LA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA
CAPITOLO 1: LA RESPONSABILITA’ OGGETTIVA

1. PREMESSA
Dolo e colpa costituiscono i normali criteri di imputazione soggettiva di un fatto al suo autore: ma
essi non esauriscono i criteri di imputazione accolti nel nostro ordinamento. L'articolo 42 dopo
aver stabilito il 2° comma che un fatto delittuoso si risponde a titolo di dolo colpa, aggiunge al 3°
comma che la legge determina i casi nei quali l'evento è posto altrimenti a carico dell'agente,
come conseguenza della sua azione od omissione. Non si richiede, dunque, non è che l'evento
costituisca oggetto di una volontà colpevole (dolo), né che sia conseguenza di una condotta
contraria a regole di diligenza sociale o scritte (colpa). Proprio perché l’agente è chiamato a
rispondere a prescindere da qualsiasi legame psicologico con l'evento di cui trattasi, i casi di
responsabilità oggettive introducono vistose eccezioni al principio di colpevolezza. Le ragioni
politico-criminali sottese all'istituto in esame possono mutare nel corso del tempo in relazione sia
alle diverse esigenze di tutela , sia all' evolvere delle concezioni intorno alla stessa funzione del
diritto penale. Nella prospettiva di una tendenziale identificazione tra diritto e peccato si riteneva
che il delinquente- peccatore dovesse rispondere di tutte le conseguenze oggettivamente
cagionate dalla sua precedente azione criminosa, non importa se voluto non volute, prevedibile
fortuita. A partire dall’epoca illuministica, lo stesso principio del versari in re illicita viene
reinterpretata in chiave di prevenzione generale: cioè la colpevolezza, da parte del potenziale
autore, che l'ordinamento gli addosso a tutte le conseguenze materialmente connesse alla sua
azione illecita, dovrebbe costituire fattore capace di inibire la spinta criminosa. è poco realistico
ipotizzare che la maggior parte dei potenziali rei siano così esperti in diritto penale da poter
cogliere la sottile distinzione tra responsabilità colpevole e responsabilità obiettiva e da lasciarsi
condizionare dal surplus di deterrenza che si dovrebbe specificatamente connessa alla seconda. le
possibili funzioni politico- criminali della responsabilità oggettiva emergono anche sul terreno
processuale: il ricorso a essa cioè può servire a eliminare difficoltà probatorie, con riguardo a quei
casi in cui risulta particolarmente complesso l'accertamento giudiziale del dolo e della colpa. Le
ragioni che indussero lo stesso legislatore del 1930 a rinunciare a esplicite deroghe della
colpevolezza motivate da esigenze meramente probatorie, non soltanto sono tutt'oggi valide, ma
appaiono rafforzate dal crescente riconoscimento del carattere costituzionalmente inderogabile
del principio di colpevolezza. Il mancato accertamento in concreto della colpevolezza è tanto più
ingiustificabile alla stregua dei principi generali , in quanto la configurazione legislativa dell' illecito
di per sé richiede il dolo o la colpa quali presupposti dell' imputazione soggettiva. Nella
manualistica corrente, la trattazione della responsabilità oggettiva come istituto autonomo è
collocata nella stessa sede riservata alla colpevolezza: qui l'argomento viene affrontato dopo la
trattazione dei tipi di illecito , in base alla considerazione che la responsabilità oggettiva non
configura un modello delittuoso autonomo , e nel nostro ordinamento si innesterà
strutturalmente le diverse tipologie delittuose: reati dolosi e colposi, commissivi ed omissivi.
2. RESPONSABILITA’ OGGETTIVA E PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'articolo 27, comma 1°, cost. sancisce il principio del carattere personale della responsabilità
penale; secondo una prima interpretazione fondamentalmente accolta tale comma si limiterebbe
a bandire la sola responsabilità per fatto altrui. Alla stregua di questa interpretazione minima del
principio della personalità, la responsabilità oggettiva sarebbe perfettamente costituzionale
perché pur sempre ancorata alla condotta dello stesso soggetto destinatario della sanzione. La
tesa richiamata non convince però, perché mortifica il significato innovativo dell' affermazione del
principio fatto dal legislatore costituzionale: in verità, il divieto di responsabilità per fatto altrui
appartiene già ai primordi della civiltà giuridica, e come tale sarebbe stato osservato anche se
prescindere da un suo solenne riconoscimento costituzionalistico. Le obiezioni di incostituzionalità
sollevate all'istituto prendono corpo se il principio della personalità lo si interpreta nella sua
espansione massima, cioè come sinonimo di responsabilità personale colpevole. Se per fondare un
rimprovero di colpevolezza è necessario infatti almeno la presenza di una condotta contraria del
dovere di diligenza , di colpevolezza non puoi certo parlarsi nel caso della responsabilità oggettiva
basata sul semplice nesso di causalità materiale. A conclusione non dissimile si può giungere
argomentando anche il comma 3. La stessa funzione rieducativa della pena postula che il fatto
addebitato sia psichicamente riportabile, almeno nella forma della colpa al soggetto da rieducare.
La tesi dell' avvenuta costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, argomentando in base al
collegamento sistematico dei commi 1 e 3 dell'articolo 27 cost. è stata recepita nelle sentenze n.
364/1988 e n. 1085/1988. La corte giunge a sostenere che il dolo la colpa devono
immancabilmente coprire gli elementi più significativi della fattispecie incriminatrice e che, perché
l'articolo 27 al primo comma, sia pienamente rispettato , è indispensabile che tutti e ciascuno degli
elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente
collegata all’agente ed è altresì indispensabile che tutte e ciascuno dei predetti elementi siano allo
stesso agente rimproverabile cioè anche soggettivamente disapprovati.

La presa d’atto che sussiste in contrasto tra la responsabilità oggettiva del principio costituzionale
della personalità della responsabilità penale può indurre a prospettare un interpretazione più
conforme a costituzione delle norme penale coinvolte. È sostenuto che la norma costituzionale
dell'articolo 27, comma 1, consenta già di respingere il tradizionale assunto che la
preterintenzione stessa sia un misto di dolo e responsabilità oggettiva e di affermare che essa sia
un’ipotesi di dolo misto a colpa. La Cassazione ha affermato principi generali così riassumibili: la
responsabilità per l'evento non voluto presuppone, oltre un nesso di causalità con la condotta
dell’agente , che sia accertata in capo a quest'ultimo la presenza di un elemento soggettivo
costituito da una colpa in concreto, a sua volta ancorato a un coefficiente di prevedibilità ed
evitabilità dell'evento valutato al punto di vista razionale agente modello. Di conseguenza, il modo
di intendere il concetto di colpa in concreto in un contesto base illecito dipenderà non poco anche
dal modo di concepire il modello di agente razionale e ragionevole. All'interno del dibattito
dottrinale in prospettiva di riforma, se si concorda sull’ esigenza di rivedere l'attuale disciplina dei
casi di responsabilità obiettiva, vi è tuttavia anche sottolinea l'opportunità di mantenere forme di
trattamento penale più severo per alcun ipotesi di delitto aggravato dall’evento, caratterizzate da
una tipica accentuata pericolosità del fatto criminoso base.
3. CASI DI RESPONSABILITA’ OGGETTIVA “PURA”
la responsabilità oggettiva si manifesta in origine nel codice Rocco secondo combinazioni
strutturali diverse: si distinguono i casi di responsabilità oggettiva pura da casi di responsabilità
oggettiva mista a dolo o ha colpa. I casi del primo tipo sono i seguenti i:

a) Aberratio delicti. L'articolo 83 stabilisce che, se per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del
reato, o per altra causa, si cagiona un evento diverso da quello voluto, il colpevole risponde, titolo
di colpa, dell'evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo: è
fatta salva la possibilità di un' interpretazione correttiva. Il che significa che si applicano le stesse
pene previste per il reato colposo, mentre il criterio di attribuzione della responsabilità rimane di
natura obiettiva.

B) Responsabilità del partecipe per il reato diverso da quello voluto. L'articolo 116 stabilisce che,
qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne
risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione . In questo caso è sempre fatta salva la
possibilità di un' interpretazione correttiva in cui legislatore attribuisce il diverso reato realizzato
anche al partecipe che non ha voluto virgola in base al semplice nesso di causalità materiale.

4. SEGUE: REATI DI STAMPA


L'articolo 57 nell’ originaria formulazione, chiamava rispondere di omesso impedimento dei reati
commessi a mezzo stampa il direttore e vice direttore di giornale , e ciò sulla base del ruolo di
supremazia rivestito da tali soggetti. Cioè bastava il fatto oggettivo di un omissione di controllo da
parte dei soggetti indicati , a prescindere dalla prova del carattere colposo del comportamento
omissivo medesimo . La Corte costituzionale con sentenza n. 3/56 da un lato respingeva
l'eccezione di incostituzionalità, ma dall'altro sollecitava il legislatore a provvedere in sede di
riforma. La riforma, realizzata con la legge 4 Marzo 1958, numero 127, ha condotto all'attuale
formulazione dell'articolo 57, il quale dispone: salva la responsabilità dell'autore della
pubblicazione , fuori dei casi di concorso, il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette
di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col
mezzo della pubblicazione commessi reati , è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso,
con la pena stabilita per tale reato, diminuito in misura non eccedente un terzo. La dottrina e la
giurisprudenza prevalente considerano oggi la figura del reato previsto dall’ articolo 57 come
colposa a tutti gli effetti. Al direttore deve potersi rivolgere l' addebito o di non avere controllato,
a causa di un atteggiamento negligente, il contenuto dell'articolo, ovvero di averne
superficialmente valutato la liceità penale. Per evitare però che la responsabilità del direttore si
trasformi di fatto in una sorta di responsabilità di posizione, occorre precisare il più possibile la
portata e limiti dell'obbligo di controllo. È da respingere tuttavia, la tesi che attribuisce all'organo
giudicante una delega in bianco ai fini dell'individuazione della diligenza richiesta. In questa
prospettiva di bilanciamento, l' ambito dei poteri di controllo del direttore dovrà essere
circoscritta tenendo conto almeno di un duplice aspetto: modalità di funzionamento, struttura e
articolazione dei ruoli all'interno delle moderne aziende giornalistiche e , natura informativa,
valutativa dello scritto da controllare. Qualora l' omesso controllo del direttore dipende non già da
negligenza, ma dalla precisa volontà di assecondare la pubblicazione di un articolo di contenuto
penalmente illecito, si configura una normale ipotesi di concorso doloso del direttore nel fatto
doloso dell'autore dello scritto.

5. CASI DI RESPONSABILITA’ OGGETTIVA “MISTA”: LA PRETERINTENZIONE


Gran parte delle ipotesi di responsabilità oggettiva presente nel nostro ordinamento si innestano
su una precedente fattispecie, la quale a sua volta risulta per lo più incentrata su un’ azione
dolosa; Non mancano però ipotesi di responsabilità oggettiva connessa a una fattispecie colposa.
Esaminiamo i casi principali, cominciare dalla preterintenzione. Dall' articolo 42 si deduce che il
legislatore considera la preterintenzione come un criterio autonomo di iscrizione di responsabilità,
diverso da un lato dal dolo e dalla colpa , e dall'altro, dalla responsabilità oggettiva: si parla di
diritto preterintenzionale al secondo comma, mentre alla responsabilità oggettiva si fa riferimento
nel terzo. Le ipotesi pacifiche di preterintenzione il nostro ordinamento sono soltanto due. La
principale è contenuta nel codice penale ed è costituita dall’ omicidio preterintenzionale , che si
realizza allorché un soggetto, con atti diretti a percuotere ledere, ragiona involontariamente la
morte di un uomo; la seconda è quella dell'aborto preterintenzionale, la quale ricorre quando, con
azioni dirette a provocare lesioni, si cagiona come effetto non voluto l'interruzione della
gravidanza. Secondo la definizione contenuta nell’ articolo 43, comma 2, il delitto è
preterintenzionale o oltre l' intenzione, quando dall'azione od omissione deriva un evento
dannoso pericoloso più grave di quello voluto dall' agente. Ci troviamo di fronte dunque alla
combinazione tra azione diretta a commettere un delitto meno grave e la realizzazione di un
evento più grave di quello voluto. Se ne deduce che l'evento più grave viene accollato sulla base
del semplice nesso di causalità materiale e in base al criterio della responsabilità oggettiva. Talora,
la opposta tesi che ravvisa nella preterintenzione un misto di dolo e colpa, fa leva sull’ argomento
che nella specie si sia in presenza di un caso di colpa per inosservanza di leggi: l'evento più grave
non voluto conseguirebbe alla violazione della norma penale che vieta l'azione dolosa diretta a
commettere il reato meno grave. Ma l'argomentazione va incontro a un’obiezione, ovvero l'
aberratio delitti: la colpa per inosservanza di leggi consegue la violazione non di una legge
qualsiasi, ma solo di quella finalità precauzionale , aventi specificamente per scopo l' impedimento
di eventuali di eventi del tipo di quello che si verifica. Quale che ne sia la ricostruzione più corretta
sul piano del diritto positivo sta di fatto che la figura del delitto preterintenzionale altro non
rappresenta se non una filiazione del dolo indiretto, vale a dire di una concezione del dolo da
molto tempo giustamente abbandonata. Proprio sulla scorta di tali obiezioni critiche non
sorprende che si prevede all'abrogazione dell' istituto della preterintenzione così come finora
disciplinato.
6. I REATI AGGRAVATI DALL’EVENTO
Si definiscono aggravati o qualificati dell'evento i reati che subiscono un aumento di pena per il
verificarsi di un evento ulteriore rispetto ad un fatto base che già costituisce reato. Il fenomeno
dei delitti aggravati dall' evento è riscontrabile soprattutto nell’ ambito dei reati commissivi dolosi:
ad esempio il reato di avvelenamento di acque di sostanze alimentari è punito gravemente; non
mancano però ipotesi dei reati omissivi, ad esempio si vede in tema di omissione di soccorso, di
delitti colposi, o di contravvenzioni, parimenti aggravati dal verificarsi di un evento più grave.
L'evento aggravatore viene accollato all’agente in base al mero nesso causale , e perciò a
prescindere da qualsiasi requisito di colpevolezza. Tradizionalmente si distinguono due i gruppi di
reati aggravati dall'evento a seconda che sia indifferente che l'evento aggravante sia voluto o
meno. Come esempio del primo gruppo si considerano: il delitto di calunnia , che rimane tale a
prescindere dalla circostanza che l'evento aggravante sia voluto o no; i delitti di falsità in valori
pubblici , che rimangono tali a prescindere dalla violazione dalla mancata volizione dell'evento
aggravatore. Come esempio del secondo gruppo , in cui l’evento un deve essere voluto perché
altrimenti si configurano una diversa fattispecie di reato si pensa ai delitti di abuso di mezzi di
correzione o disciplina, o di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli. Il vero problema è
costituito dalla di battitura in questione della natura giuridica dei reati in esami. Al momento
dell'emanazione del codice si riteneva che l'evento aggravatore fosse da attribuire all’agente in
base al semplice nesso di causalità materiale; invece, il dibattito teorico è andato incentrandosi sul
problema dell' inquadramento formale dei reati in esame tra le figure di reato circostanziato oltre
le fattispecie autonome di reato. A seguito della riforma del 1990 il regime di imputazione delle
circostanze aggravatrici non risponde più alla logica della responsabilità obiettiva, ma presuppone
qualcosa di simile alla colpa come coefficiente minimo di responsabilità, sotto forma di
conoscenza o conoscibilità del fatto aggravanti la circostanza. In base ai rilievi che precedono,
risulta fortemente la problematicità della categoria in esame. Parte della dottrina più sensibile
auspicano l’intervento del legislatore volto a trasformare almeno le più significative ipotesi di
reato aggravanti dall’evento in fattispecie misto di dolo e colpa. Ma altra parte della dottrina
ritiene che la soluzione predetta sarebbe inidonea a riflettere il particolare disvalore di alcune
ipotesi di reato aggravato contrassegnata dalla circostanza che l'azione base dolosa presenta di
regola caratteristiche di intrinseca e accentuata pericolosità rispetto ad eventi più gravi di un certo
tipo. Proprio con riferimento a ipotesi siffatte, si auspica la creazione legislativa di un nuovo
modello di reato aggravato dell'evento.

7. SEGUE: CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITA’


A norma dell'articolo 44 quando per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una
condizione, il colpevole risponde del reato, anche se all'evento, da cui dipende il verificarsi della
condizione , non è da lui voluto. L' interferenza tra la responsabilità obiettiva e le condizioni
obiettive di punibilità è dovuta dalla circostanza che l’evento-condizione può verificarsi a
prescindere da qualsiasi relazione psicologica col soggetto. Le condizioni obiettive di punibilità non
sono necessariamente legate da un nesso di casualità materiale con l'azione illecita. Esse sono
distinguibili in intrinseche ed estrinseche, a seconda che contribuiscono no ad approfondire la
lesione dell'interesse protetto. È da ritenere che anche l'attribuzione a titolo puramente oggettivo
delle condizioni intrinseche di punibilità finisca col contrastare col principio della responsabilità
personale colpevole; ed infatti, dette condizioni rientrano certamente negli ambito degli elementi
significativi della fattispecie.
PARTE SESTA: CONCORSO DI REATI E CONCORSO DI NORME
CAPITOLO 1: CONCORSO DI REATI
CASO 61: un automobilista, volendo raggiungere al più presto una stazione sciistica invernale,
guida imprudentemente sulla strada ghiacciata: ad un tratto perde il controllo dell’ auto e investe
più persone provocando nella morte.

CASO 62: Un borseggiatore sottrae un portafoglio dalla tasca di un passeggero di un tram. Il


derubato se ne accorge e tenta di reagire: a questo punto interviene un agente di pubblica
sicurezza che viaggia sullo stesso tram. Il borseggiatore usando la violenza nei confronti del
derubato e dello stesso agente riesce a divincolarsi, e approfittando di una fermata, fugge con la
refurtiva.

CASO 63: Tizio, per vendicarsi di un’offesa subita da parte di Caio, decide di sparargli alle gambe; A
tal fine ruba una pistola, la tiene addosso pur essendo privo di porto d'armi e si reca nelle
vicinanze dell’ abitazione dell’ offensore: mentre Caio sta per uscire gli esplode ripetuti corpi agli
altri inferiori.

1.PREMESSA
Può accadere che nei confronti di una medesima condotta confluiscono più norme incriminatrici:
tale confluenza può dar luogo a un vero e proprio concorso di reati, o un concorso apparente di
norme. Il concorso di reati si distingue in materiale e formale. Si ha concorso materiale di reati
quando uno stesso soggetto, con più azioni od omissioni, realizza più reati. Si ha concorso formale
quando uno stesso soggetto commette più reati, con una sola azione od omissione. In queste due
ipotesi di concorso si registra uno stesso fenomeno cioè l'esistenza di una pluralità di reati. La
disciplina giuridica non è però identica: mentre nel concorso materiali si applicano tante pene
quanti sono i reati, nel concorso formale si applica la pena prevista per la violazione più grave
aumentata fino al triplo. La figura di concorso apparente di norme ricorre invece, quando una
medesima condotta soltanto in apparenza risulta riconducibile a più fattispecie incriminatrice, ma
in realtà integra un solo reato. Concorso di reati e concorso apparente di norme rappresentano
dunque, dal punto di vista concettuale, fenomeni simmetrici e contrari: è questa la ragione che
giustifica la loro trattazione della stessa sedes materiae.

2. UNITA’ E PLURALITA’ DI AZIONE


Punto di partenza della teoria del concorso di reati è la distinzione tra unità e pluralità di azione.
Questa distinzione è preliminare rispetto a quella tra concorso materiale e concorso formale di
reati. Si avrà una azione quando si realizzano i presupposti minimi che integrano la fattispecie
incriminatrice, anche se la condotta tipica risulta dal compimento di più atti : si pensi ad esempio
ad un'azione omicida che rimane unitaria anche se in concreto commessa con una pluralità di colpi
di pugnale. Unità di azione si ha pure quando già la stessa fattispecie astratta richiede la
realizzazione di più atti ai fini della sussistenza del reato: si pensi ad esempio alla rapina. Unità d
azione, nonostante una eventuale molteplicità di azioni naturalistiche, si ha anche nei cosiddetti
delitti di durata; Ad esempio un sequestro di persona, realizzato mediante la reiterazione di
comportamenti diretti a impedire che la vittima riacquisti la libertà. La vera difficoltà tra
distinzione di azione unica e plurima concerne i casi di reiterazione della stessa azione tipica entro
un breve lasso di tempo. Al fine di individuare il criterio guida della distinzione si suole da tempo fa
ricorso un approccio di tipo normativo sociale, sostanzialmente basato sul senso comune: nel
determinare il carattere unitario dell'azione si richiede cioè il duplice requisito della contestualità
degli atti e delle unicità del fine. Tale concetto normativo sociale di azione unitaria non sembra in
grado di offrire un criterio di delimitazione sicuro e al riparo da applicazione arbitrarie. La
considerazione dell’unicità sia di scopo che di contesto non va disgiunta dalla contemporanea
ricognizione del significato normativo della fattispecie che vengono di volta in volta in questione.
Dunque, la distinzione tra unità e pluralità di azione, se talora coincide con quella di unità e
pluralità di reati, in altri casi lascia del tutto impregiudicate la questione del carattere uniche
plurimo del reato.

3. UNITA’ DI AZIONE NEI REATI COLPOSI E NEI REATI OMISSIVI


Nei reati colposi sussiste unità di azione se, nonostante la violazione di più obblighi di diligenza,
l'evento tipico si è verificato una sola volta. Laddove si siano invece verificati più eventi tipici o lo
stesso evento si sia verificato più volte, si tratta di stabilire se l'autore, tra un evento e l'altro, fosse
o no in grado di adempiere all'obbligo di diligenza; Nel primo caso si avrà pluralità, nel secondo
unità di azione. Criteri analoghi valgono sul terreno del reato omissivi. Così, nel reato dell’ illecito
omissivo improprio, è da ritenere sussista una sola omissione se il garante poteva impedire i
diversi eventi soltanto attivandosi contemporaneamente; Si configurano invece diverse omissioni
se, dopo il verificarsi del primo evento, gli altri potevano ancora essere impediti. Nell'ambito dei
reati omissivi impropri, si verifica una pluralità di omissioni se l’omittente viola
contemporaneamente più obblighi di condotta, ma i diversi obblighi potevano essere adempiuti
uno dopo l'altro.

4. CONCORSO MATERIALE
Si ha concorso materiale quando un soggetto realizza, con più azioni od omissioni , più violazioni
della stessa (concorso materiale cosiddetto omogeneo) o di diverse norme incriminatrici (concorso
materiale cosiddetto eterogeneo). Al concorso materiale si riferiscono due norme del codice
penale: l'articolo 71 che tratta nell’ ipotesi in cui una sola sentenza o un solo decreto si deve
pronunciare condanna per più reati contro la stessa persona; e l'articolo 80 che fa riferimento all'
ulteriore ipotesi in cui, dopo una sentenza o un decreto di condanna, si deve giudicare la stessa
persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima,
o quando contro la stessa persona si debbono eseguire più sentenze o più decreti di condanna. Il
codice Rocco ha voluto rendere più rigoroso il trattamento sanzionatorio del concorso materiale
introducendo il diverso principio del tot crimina, tot poena (c.d. cumulo materiale): si cumulano le
pene previste per ciascuno dei delitti commessi. Nell’ adottare il principio del cumulo materiale
delle sanzioni lo stesso legislatore del 1930 ha ritenuto opportuno introdurre alcuni limiti diretti a
stabilire l' ergastolo o di reati che comportano pene detentive temporanee: al concorso di reati
che comportano pene detentive temporanee o pene pecuniarie della stessa specie; Al concorso di
reati che comportano pene detentive rispetto diversa; pene pecuniarie di specie diversa; ulteriori
limiti che sono previsti dagli articoli 76 e 79. Va condiviso oggi l'orientamento prevalente che
tende a negare il concorso materiale di reati una specifica rilevanza come autonomo istituto di
diritto sostanziale. Di qui il giustificato dubbio circa la possibilità di continuare a considerare il
concorso di reati come forma di manifestazione del reato medesimo accanto al delitto tentato, al
delitto circostanziato e al concorso di persone. Dotati di specifica rilevanza sul terreno del diritto
sostanziale sono, invece, gli istituti del concorso formale e del reato continuato.

5. CONCORSO FORMALE: REQUISITI


Si ha concorso formale di reati nei casi in cui uno stesso soggetto commette una pluralità di
violazioni della legge penale con una sola azione od omissione. Anche il concorso formale si
distingue in omogeneo ed eterogeneo: nel primo, la pluralità di violazioni ha per oggetto la stessa
disposizione incriminatrice (caso 61) ; nel secondo, la pluralità di violazioni riguarda diverse
disposizioni incriminatrici (caso 62). Il concorso formale può aversi sia a seguito degli illeciti dolosi,
si e riguardo agli illeciti col posi. Per chiarire le condizioni in presenza delle quali una stessa
condotta realizza davvero più reati in concorso formale, è opportuno affrontare separatamente le
ipotesi di concorso eterogeneo e quelle di concorso omogeneo.

a) Di regola, l'equivalenza unità di azione-unità di reato poggia sul fatto che l'azione tipica
esaurisce il contenuto di una sola fattispecie incriminatrice. Vi sono però dei casi in cui una stessa
condotta realizza contemporaneamente elementi riconducibile a diverse fattispecie incriminatrice.
La confluenza di più fattispecie verso la stessa condotta deve essere effettiva.

b) Per stabilire se si configuri un concorso formale omogeneo occorre verificare quante volte una
medesima azione violi una stessa disposizione incriminatrice. Appare decisiva la distinzione tra
fattispecie incriminatrici che tutelano beni altamente personali, esempio la vita, e fattispecie che
proteggono beni di una natura diversa . Rispetto alle prime e fuori di dubbio che si configura una
pluralità di reati se con una medesima azione si ledono soggetti passivi diversi (caso 61). Rispetto
alle seconde, in presenza di una sola azione pur lesiva di soggetti passivi diversi non sempre invece
configurabile una pluralità di reati. Unicità di furto si avrebbe anche se l' impossessamento avesse
ad oggetto più cose, in quanto una pluralità degli oggetti rubati comporterebbe soltanto un
aggravamento quantitativo di un offesa qualitativamente unitaria.
6. SEGUE: DISCIPLINA GIURIDICA
A norma dell'articolo 81, comma 1°, chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni
di legge o commette più violazioni della medesima disposizione di legge, è punito con la pena che
dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata al triplo. Tale disposizione ha modificato
l'originario regime giuridico previsto dal legislatore del 1930 attraverso la riforma 1974 : al regime
del cumulo materiale codificato nella vecchia formulazione dell articolo 81, è subentrato il regime
del cumulo giuridico, consistente nell’ applicazione della pena prevista per il reato più grave con
un aumento corrispondente non alla somma delle altre pene, ma ad una quota proporzionale
prefissata dalla legge. Le ragioni sostanziali che comunemente adducono contro il cumulo
materiale e a favore del cumulo giuridico, sono di duplice ordine. Si rileva che il peso umano della
sofferenza si accresce progressivamente con la durata delle pene e pertanto si violerebbe quel
rapporto di proporzione tra numero dei reati ed entità delle pene implicito nella stessa idea
ispiratrice del cumulo materiale delle sanzioni; in secondo luogo si afferma che chi compie più
reati con una sola azione attua una sola risoluzione criminosa perciò dimostrano una minore
pericolosità sociale. La mancanza di un adeguata era approfondita preparazione della riforma
emerge con evidenza maggiore sul terreno della tecnica di relazione le legislativa, caratterizzato
dal lacune e difetti di formulazione. Il legislatore ha omesso di compiere una precisazione: non ha
cioè esplicitato se il regime del cumulo giuridico delle sanzioni sia applicabile anche nei casi in cui
le pene previste per i reati in concorso siano di specie diversa. Da qui l'incertezza sull’ applicabilità
del cumulo giuridico nel caso di concorso formale tra delitti e contravvenzioni. La riforma 2005 ha
aggiunto all'articolo 81 un nuovo comma: “ fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i
reati in concorso formale in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali
sia stata applicata la recidiva prevista dall’ articolo 99, 4 comma, l’aumento della quantità di pena
non può essere comunque inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave”. Anche
qui va sottolineato che la recidiva aggravata reiterata finisce con l' assumere una duplice rilevanza,
nel senso che suo effetto sul carico sanzionatorio complessivo viene a prodursi più volte: sia in
sede di determinazione della pena-base e sia di determinazione del trattamento connesso al
concorso formale o alla continuazione.

7. REATO CONTINUATO: PREMESSA


L'istituto del reato continuato rappresenta una particolare figura di concorso materiale, disciplinati
in materia autonoma in ragione del fatto che la pluralità dei reati commessi dalla stessa persona
appare emanazione di un medesimo disegno criminoso: ciò dimostrerebbe una minore
riprovevolezza complessiva dell’agente e giustificherebbe un trattamento penale più mite. Si tratta
di un assunto politico-criminale: non mancano, però, autori inclini a ravvisare una ragione di
aggravamento, piuttosto che di attenuazione della colpevolezza. Il nostro codice non solo ha
recepito la figura del reato continuato, ma ha anche dilatato l' ambito di operatività al di là dei
limiti che adesso tradizionalmente propri. Mentre legislatore del 1930 continuava ad annoverare
tra i requisiti del reato continuato la molteplice violazione di una stessa disposizione di legge,
l'attuale articolo 81 cpv ammette la continuazione dei reati anche in presenza della violazione di
norme incriminatrici eterogenee: detta norma identifica il reato continuato nel fatto di chi, con più
azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi
più violazioni della stessa o diverse disposizioni di legge. Oggi l'unico elemento caratterizzante
l'istituto rimane l'unità del disegno criminoso. Se così è, si comprende come delineare i reali
confini del reato continuato contribuisca in modo di intendere il concetto di disegno criminoso. La
riforma del 1974 non ha invece introdotto alcune modifiche sul piano del trattamento
sanzionatorio, posto che il criterio del cumulo giuridico quale regime penale del reato continuato
era già stato recepito dallo stesso legislatore del 1930. Tale disciplina è integrata degli articoli
186,187 e 188 delle disposizioni di attuazione: in particolare, l'articolo 187 stabilisce che si
considera violazione più grave quella per la quale è stata inflitta la pena più grave, anche quando
per alcuni reati si sia proceduto per giudizio abbreviato. La motivazione di fondo verrà avvisata
nell’esigenza di controbilanciare la scelta a favore della separazione dei processi, e quindi la
minore possibilità di applicare la continuazione nella fase dibattimentale.

8. ELEMENTI COSTITUTIVI DEL REATO CONTINUATO


Gli elementi costitutivi del reato continuato sono: 1) una pluralità di azioni od omissioni; 2) Più
violazioni di legge; 3) Medesimo disegno criminoso.

1) La pluralità di azioni od omissioni deve intendersi come pluralità di condotte autonome, che
danno luogo ad altrettanti episodi criminosi. Il reato continuato esula se la pluralità di azioni è tale
in senso soltanto naturalistico, in quanto le diverse azioni devono essere invece unificabili nel
quadro di un'azione giuridicamente unitaria. L'articolo 81 cpv precisa che le diverse azioni od
omissioni possono essere commesse anche in tempi diversi. Quanto maggiore sarà la distanza
temporale tra diversi episodi delittuosi, tanto più gravosa risulterà la prova della medesimezza del
disegno criminoso.

2) Il secondo requisito del reato continuato è costituito dalla pluralità delle disposizioni di legge
violate. Il riformato articolo 81 cpv ammette la configurabilità dell’ istituto in esame anche in
presenza della commissione di reati diversi, non importa se dotati di caratteri fondamentali
comuni o del tutto eterogenei tra di loro.

3) La portata e i limiti dell’ istituto in esame oggi si definiscono in sede di interpretazione del
requisito della medesimezza del disegno criminoso che è rimasto il solo elemento caratterizzante il
reato continuato. Secondo un orientamento il requisito sarebbe stato assunto dal legislatore in un'
accezione puramente delle attiva: stesso disegno criminoso equivarrebbe ad una sorta mera
rappresentazione mentale anticipata dei singoli episodi delittuosi poi di fatto commessi dallo
stesso agente.

Unicità del disegno criminoso equivale all' unicità dello scopo: per aversi reato continuato occorre
che diverse episodi delittuosi costituiscono attuazione di un preciso e concreto programma diretto
alla realizzazione di un obiettivo unitario. Ne deriva che i diversi reati devono porsi in un rapporto
di interdipendenza funzionale certo al conseguimento di un unico fine. Questa seconda
interpretazione è da preferire: cioè il rilievo che la medesimezza del disegno criminoso
rappresenta l'unico elemento dei reati di continuazione. Ne consegue che il disegno medesimo
può avere ad oggetto soltanto fatti criminosi sorretti dalla volontà di commetterli: sussistendo
incompatibilità strutturale tra unicità del programma e assenza di volontà rispetto a uno più
episodi delittuosi , ne deriva che il norme sulla continuazione risultano inapplicabile reati colposi.
La continuazione invece è ammissibile anche nell'ambito delle contravvenzioni, purché si
manifestano in concreto nella forma dolosa.

9. SEGUE: REGIME SANZIONATORIO


Articolo 31 cpv. stabilisce che al reato continuato si applica la pena che dovrebbe infliggersi per il
reato più grave. È lo stesso regime del cumulo giuridico. L'ultimo comma dell'articolo 81 prevede
che la pena non può essere comunque superiore a quella che sarebbe applicata sommando le
singole pene previste per i reati in concorso.

a) Il primo problema che sorge in proposito, concerne la determinazione del concetto di violazione
più grave; secondo il primo orientamento, per accertare quale sia la violazione più grave occorre
fare riferimento all' astratta previsione legislativa , cioè alla qualità e l'entità delle sanzioni
applicabile per i singoli reati in continuazione. In questa valutazione astratta si fanno rientrare
anche gli elementi in grado di incidere sulla gravità delle azioni di tali comminate per i singoli reati.
Altra parte della dottrina e la giurisprudenza sono inclini verso una determinazione in concreto. Si
sostiene che è necessario fare riferimento non soltanto al titolo di reato e alle rispettive pene
edittali, ma tutti gli altri elementi che possono incidere sulla valutazione dei singoli episodi in
continuazione. Ad accogliere questo indirizzo però si rischia di stravolgere la valutazione operata
dal legislatore in merito all' obiettiva gravità delle diverse figure delittuosi. È dunque preferibile la
tesi più tradizionale, che ravvisa la violazione più grave in quella più gravemente punibile in
astratto.

b) In assenza di una esplicita presa di posizione legislativa, assai controversa appare l' applicabilità
del cumulo giuridico nei casi in cui reati commessi siano puniti con pene eterogenee. in proposito
si assiste a conflitto tra due esigenze egualmente meritevoli di considerazione: da un lato quella di
salvaguardare il principio della legalità delle pene; dall'altro, quella di rendere operante nella
prassi l'intento legislativo di attribuire all' istituto della continuazione la massima espansione. In un
primo momento nella prassi applicativa era emersa la tendenza a escludere la continuazione tra
reati puniti con pene eterogenee, e cioè in base alla ritenuta violazione del principio della legalità
delle pene: nel senso che l' applicabilità dell’ istituto avrebbe comportato l' irrogazione di una
pena diversa da quella prevista per ciascun reato , o anche più grave di quella prevista per uno dei
reati riuniti. Successivamente, sono emersi orientamenti favorevole, sia pure entro limiti non
sempre coincidenti punto nel caso di reati puniti con pene di specie diversa, dopo interventi di
segno contrario delle stesse Sezioni Unite, ha infine preso posizione la Corte costituzionale che,
con sentenza interpretativa n. 312 del 1988, afferma che non esiste alcuna ragione di principio per
non dare massima espansione all'istituto del reato continuato e ai relativi benefici. Rimane
controversia l'ammissibilità della continuazione nel caso di reati puniti con pene di genere diverso,
cioè di reati puniti, rispettivamente, con pene detentive: la soluzione attiene all' individuazione
alla cui stregua operare l'aumento della pena prevista per il reato ritenuto più grave. Altra
questione controversa, rispetto alla quale si è registrato un’ evoluzione giurisprudenziale, riguarda
la possibilità di ammettere la continuazione fra i reati giudicati con sentenza irrevocabile e reati
ancora sub judice. Anche al reato continuato si applica la nuova disciplina, già esaminati in sede di
trattazione del concorso formale di reati, relativa al trattamento del soggetto recidivo reiterato
che ha commesso reati in continuazione.

10. SEGUE: NATURA GIURIDICA


Con la riforma del 1974 è sparita dal terzo comma dell'articolo 81 la fase che esplicitava che alle
diverse violazioni legate dal vincolo della continuazione si considerano come un solo reato.
L'argomento non appare decisivo in quanto tale soppressione costituisce più l'effetto involontario
di un ritocco linguistico, che non risulta di una scelta precisa e deliberata. Appare quindi oggi
sostenibile la tesi, secondo la quale la stessa ratio dell'istituto impone di considerare il reato
continuato come reato unico o come una pluralità di reati, in funzione del carattere più o meno
favorevole degli effetti che all' accoglimento dell’uno o dell’ altro punto di vista discendono nei
confronti del reo. In applicazione del predetto criterio, il reato continuato va ritenuto come reato
unico ai fini dell'applicazione della pena e della dichiarazione di abitualità e professionalità; va
considerato invece il reato plurimo ai fini dell' amnistia propria, dal computo della durata del
tempo necessario a prescrivere, dalla responsabilità dei concorrenti nell'ambito del concorso di
persone, dell' applicabilità delle circostanze.

CAPITOLO 2. CONCORSO APPARENTE DI NORME


CASO 64: Tizio si impossessa di un oggetto altrui di tenue valore per provvedere a un grave
urgente bisogno.

CASO 65: Caio fa mendaci dichiarazione prima dinanzi alla polizia giudiziaria, e poi dinanzi al
giudice, al fine di favorire l'autore di un reato.

1. PREMESSA
In alcuni casi il confluire di più norme incriminatrice nei confronti di un medesimo fatto non è
reale, ma solo apparente. Per indicare tale fenomeno, si è soli di ricorrere all' espressione
concorso o conflitto apparente di norme. I presupposti sono: l'esistenza di una medesima
situazione di fatto; e la convergenza di una pluralità di norme che sembrano prestarsi a regolarla.
Trattandosi però di una convergenza che si rileva fallace, occorre individuare i criteri che
consentono di accertare la realtà o l'apparenza del concorso. Per identificare i casi di concorso
apparente sono stati escogitati tre criteri: 1)specialità; 2) sussidiarietà; 3) consunzione (o
assorbimento). Di questi criteri solo quello di specialità trova riconoscimento nel codice penale; gli
altri due costituiscono frutto di elaborazioni dottrinali. Nel convincimento che il problema del
concorso apparente debba essere risolta alla stregua dell’ unico criterio legislativamente previsto,
cioè quello di specialità. È ben possibile interpretare l'articolo 15 del codice penale, che fa
riferimento al principio di specialità, come una norma che intende disciplinare non il generale
fenomeno del concorso di norme, ma una specifica ipotesi di concorso: quella nella quale le norme
concorrenti si trovano il rapporto di genere a specie. L'articolo 15 non può di conseguenza
escludere che nel nostro ordinamento possono operare altri criteri legislativamente non previsti.
La tematica del concorso apparente di norme costituisce tutt'oggi uno dei capitoli più controversi
del diritto penale.

2. SPECIALITA’
L'articolo 15 dispone: quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale
regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o la
disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito. La disposizione richiama il
principio della prevalenza della legge speciale rispetto a quello generale. Di conseguenza, la norma
generale ha un'estensione più ampia rispetto a quella speciale; ma il rapporto tra le due norme è
tale per cui, ove la seconda mancasse, i casi che rientrano sarebbero riconducibili alla prima.
Adottando un linguaggio formalizzato, può anche dirsi che la disposizione speciale contempla un
sottoinsieme dei casi contemplati dalla disposizione generale, come nel caso 64, dove è
prospettato un fatto riconducibile a prima vista ad entrambe le fattispecie. Pur ravvisarsi altresì un
rapporto di specialità ad esempio tra il sequestro di persona semplice o tra la rapina e la violenza
privata. Il rapporto di specialità può intercorrere non solo tra norme incriminatrici, ma anche tra
norme incriminatrici da un lato e norme cosiddette di liceità dall'altro. Secondo un orientamento,
oggi diffuso però più in giurisprudenza che in dottrina, il concetto di “stessa materia” non solo
alluderebbe alle esigenze di un medesimo fatto apparentemente riconducibile a più norme, ma
presupporrebbe anche l'identità od omogeneità del bene protetto, con la conseguenza che il
rapporto di specialità intercorrerebbe soltanto tra norme poste a tutela di un medesimo bene
giuridico. Tale interpretazione riprende di inserire, tra presupposti di operatività dell'articolo 15,
un elemento che ne stravolge la funzione: infatti il rapporto di specialità ha natura logico-formale
e, pertanto, sono esclusi estranea apprezzamenti di valore di tipo di quelli che è invece necessario
emettere in sede dell'individuazione dell'oggettività giuridica.

Secondo un altro indirizzo interpretativo, il concetto di stessa materia farebbe riferimento non
solo alle ipotesi nelle quali un medesimo fatto rientro più norme incriminatrici, ma anche a quelle
in cui il medesimo fatto concreto è riconducibile a due o più figure criminose, pur se tra le
medesime non sussiste in astratto un rapporto di genere a specie. Il rapporto di specialità in
concreto andrebbe risolta applicando la norma che meglio si adatta al caso di specie,
normalmente ravvisata in quello che prevede il trattamento più severo: nella specie dunque si
applicherebbe soltanto la norma che punisce il millantato credito, la quale, in quanto
caratterizzato ad un maggiore disvalore , assorbirebbe in sé quella sulla truffa. Non si comprende
però come mai un rapporto di genere a specie fra due norma possa dipendere dalle particolarità di
fatto concreto; come rapporto tipicamente sussistente tra norme astratte, la specialità o esiste o
non esiste: tertium non datur.

Altra parte della dottrina estende il rapporto di specialità ai casi di c.d. specialità reciproca o
bilaterale: tale relazione sussisterebbe allorchè nessuna norma è speciale o generale, ma ciascuna
è ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano elementi specifici ed elementi
generici rispetto ai corrispondenti dell'altra. L' ambito di applicazione del principio in esame va
circoscritto entro i limiti connaturati alla sua accezione originaria; cioè il rapporto di specialità
sussiste soltanto tra fattispecie astratte in senso univoco. Ne deriva che il concetto di stessa
natura, cui fa riferimento l'articolo 15, sta semplicemente indicare il presupposto dell’ instaurarsi
di un rapporto di specialità tra fattispecie , vale a dire che ricorre una medesima situazione di fatto
sussumibile sotto più norme.

3. SUSSIDIARIETA’
Il principio di sussidiarietà intercorre tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un
medesimo bene: in modo tale l'offesa maggiore assorbe la minore e, di conseguenza, l'applicabilità
dell' una norma è subordinata al non applicazione dell'altra. In alcuni casi è lo stesso legislatore di
indicare un rapporto di sussidiarietà tramite l'utilizzo di una clausola di riserva; ma esistono anche
casi di sussidiarietà tacita, come ad esempio un rapporto intercorrente tra la contravvenzione di
atti contrari alla pubblica decenza e il delitto di atti osceni. La riserva principale è che non sempre
esso risulta facilmente distinguibile dal criterio dell'assorbimento.

4. ASSORBIMENTO: “NE BIS IN IDEM” SOSTANZIALE


Il principale criterio non logico, ma di valore utilizzato per risolvere i casi di conflitto apparente tra
norme non risolubili alla stregua del rapporto di specialità, è quello dell' assorbimento o della
consunzione : esso esclude il concorso di reati in tutte le ipotesi nelle quali la realizzazione di un
reato comporta la commissione di un secondo reato, il quale perciò finisce, ad una valutazione
normativo sociale, con l’apparire assorbito dal primo. Il criterio in questione ha a fondamento il
generale principio del ne bis in idem, il quale fa divieto di più unire due volte il medesimo fatto
punto caratteristiche essenziali del principio sono: 1) non poggia sul rapporto logico tra norme, ma
sul rapporto di valore, in base al quale l' apprezzamento negativo del fatto concreto appare tutto
già compreso nella norma che prevede il reato più grave, con la conseguenza che è la
contemporanea applicazione della norma che prevede il reato meno grave condurrebbe all’
ingiusto moltiplicarsi di sanzioni. 2) Esso richiede la non identità naturalistica, bensì l' unitarietà
normativo sociale del fatto. A identificare la norma cosiddetta prevalente soccorre il principio del
trattamento penale più severo; così è ad esempio nel caso 65: la norma sulla falsa testimonianza
dopo la riforma del 1992 ha sia il minimo che il massimo edittale più alto rispetto a quelle che
configura il favoreggiamento. L'esigenza di fare ricorso al principio dell'assorbimento nei casi non
risolubile alla stregua del principio di specialità, appare giustificata poiché l'interprete si trova ad
operare all'interno di ordinamenti caratterizzati da un' eccessiva moltiplicazione dei tipi di reato.
L'atteggiamento della giurisprudenza oggi dominante, incline a disattendere il principio
dell'assorbimento appare privilegiare per contro il concorso di reati, si giustificherebbe soltanto
nell'ambito di un contesto ordinamentale diverso da quello vigente, cioè nell'ambito di un sistema
penale più razionale incentrato su fattispecie incriminatrice realmente dotato di autonomi spazi di
tutela.

5. PROGRESSIONE CRIMINOSA, ANTEFATTO E POSTFATTO NON PUNIBILI


Si definisce progressione criminosa il fenomeno del contestuale susseguirsi di aggressioni di
crescente gravità nei confronti di un medesimo bene. Si parla, altresì, di antefatto non punibile per
indicare quei casi nei quali un reato meno grave costituisce, il mezzo ordinario di realizzazione di
un reato più grave. Per converso, si parla di postfatto non punibile con riferimento ad una
condotta criminosa susseguente, il cui disvalore è da ritenere già incluso in una condotta
precedente che integra un reato più grave. Mentre la nota caratteristica dell' antefatto non
punibile è il passaggio dal mezzo al fine delittuoso, nel postfatto si realizza invece uno dei mezzi
ordinari di attuazione del fine proprio del reato principale.

6. REATO COMPLESSO
L'articolo 84 stabilisce che le disposizioni sul concorso di reati non si applicano quando la legge
considera come elementi costitutivi, o come circostanza aggravanti di un solo reato, fatti che
costituirebbero, presso stessi, reato. Tale norma disciplina il reato complesso, il quale consiste in
una unificazione legislativa sotto forma di identico reato di due o più figure criminose, i cui
rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall ‘ unificazione. La
funzione pratica cui assolverà l’articolo 84, è quella di evitare che l'interprete sia indotto ad
applicare il regime del concorso di reati laddove il legislatore ha proceduto ad una unificazione
normativa di fatti che integrerebbero autonome fattispecie incriminatrici. Alla figura di reato
complesso fanno riferimento alcune norme di disciplina contenuta nel codice penale: in primo
luogo, il 2° comma dell'articolo 84 stabilisce che qualora la legge, nella determinazione della pena
del reato complesso, si riferisce alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non
possono essere superati i limiti massimi indicati nell’ articolo 78 e 79. A sua volta, l'articolo 131
dispone che nei casi preveduti dall' articolo 84, per reato complesso si procede sempre d'ufficio ,
se per taluno dei reati che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti, si deve procedere
d ufficio. Infine l'articolo 170, comma 2, stabilisce che è la causa estintiva di un reato, che è
elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non sia assente il reato
complesso.
PARTE SETTIMA: LE SANZIONI
CAPITOLO 1: I PRESUPPOSTI TEORICI E POLITICO-CRIMINALI DEL SISTEMA
SANZIONATORIO VIGENTE

1. PREMESSA
Parlare di sanzione penale equivale ad evocare l'idea di un castigo inflitto all'autore di un fatto
illecito. Il momento afflittivo implicito nella pena può essere strumentalizzato per il
raggiungimento di fini diversi: questi fini, a loro volta, mutano in funzione delle più generali
concezioni della società e dello Stato che via via emergono nel corso dell’evoluzione storica.
L'evoluzione storica- sociale influisce sia sugli scopi della pena ma anche sulle tecniche adoperate
di volta in volta per punire l'autore dell’ inflazione. I sistemi penali moderni non si basano più sulla
sola pena, sia pure articolati molteplici specie. Il concetto di sanzione penale oggi si intende sino a
ricomprendere la cosiddetta misura di sicurezza, cioè una misura ulteriore che consegue pur
sempre alla commissione di un reato, ma la cui funzione si differenzia da quella delle pene in senso
stretto: scopo nelle misure di sicurezza sarebbe quello di risocializzare l'autore di un reato in
quanto soggetto socialmente pericoloso. Le vicende del nostro sistema sanzionatorio ruotano
attorno alle tre fondamentali linee guida: retribuzione, prevenzione generale e prevenzione
speciale. Il prevalere di una prospettiva rispetto alle altre e/o il loro reciproco combinarsi, si
manifestano in tempi e forme che riflettono sia la logica interna del sistema penale ma anche dal
contesto politico-sociale e culturale di riferimento. Nella retribuzione vige l'idea che la sanzione
penale deve servire a compensare la colpa per il male commesso (puniatur quia peccatum est).
L'idea retributiva implica anche il concetto di proporzione: la risposta sanzionatoria se deve
compensare il male provocato all' azione illecita, non può non essere proporzionata alla gravità del
reato medesimo . L'idea della prevenzione generale si fonda sull’ assunto che la minaccia della
pena serve a distogliere la generalità dei consociati dal compiere fatti socialmente dannosi. La
teoria della prevenzione speciale fa leva sull’ idea che l' inflizione della pena a un determinato
soggetto, serve ad evitare che il medesimo compia in futuro altri reati.

2. LE ORIGINARIE SCELTE SANZIONATORIE DEL CODICE ROCCO


Il legislatore del 1930 enfatizza l'obiettivo della lotta alla criminalità come uno dei punti più
qualificanti di uno stato forte. A partire dalla fine dell'Ottocento si assisteva a una recrudescenza
della criminalità: fenomeno che costituiva uno dei più drammatici costi dell’accelerazione dello
sviluppo industriale ed evidenziava però, la crisi degli strumenti penalisti ottocenteschi rilevatisi
inefficaci mezzi di lotta contro il delitto e la recidiva. Infatti, il legislatore raccoglie alcune
indicazioni di fondo del dibattito europeo , tendenti a riorganizzare il sistema sanzionatorio
attorno ai poli della prevenzione generale e speciali, affidati a strumenti sanzionatori di natura
diversa. L'obiettivo è quello di sanare il contrasto tra la scuola classica e la scuola positiva, che
divideva gli studiosi italiani dell'epoca in posizioni contrapposte. Il tentativo però sfociò in un
risultato che fece apparire la nostra legislazione come avanguardistica; si allude all' introduzione
del sistema del cosiddetto doppio binario, cioè un sistema per il quale si prevede, accanto e in
aggiunta la pena tradizionale inflitta sul presupposto della colpevolezza, una misura di sicurezza
fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione.

La funzione di prevenzione generale viene tutta affidata alla penna. Alla retribuzione, definita
funzione satisfattoria, viene attribuito un ruolo non autonomo, ma strumentale rispetto all'
obiettivo della prevenzione generale: questo nesso strumentale retribuzione- prevenzione
generale caratterizza anche alcuni orientamenti cosiddetti neoretribuzionistici emersi nell'ambito
del dibattito penalistico di questi ultimi anni. La funzione di prevenzione speciale è, invece,
affidata alle misure di sicurezza, le quali sono dirette neutralizzare la pericolosità sociale del reo e
hanno come scopo quello di evitare che un medesimo soggetto incorra nella commissione di
futuro i reati. La dizione sistema del doppio binario non esprime solo la compresenza in uno stesso
ordinamento di sanzioni penali di natura diversa, ma indica qualche cosa di più: e cioè la possibilità
di applicare un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso imputabile e socialmente pericoloso,
tanto la pena che la misura di sicurezza.

3. CONTRADDIZIONI E INSUFFICIENZE DEL SISTEMA DEL DOBBIO BINARIO


Il meccanismo del doppio binario introdotto dal codice Rocco non è riuscito a tradursi in un
sistema di sanzioni organico e coerente: la sua natura eccessivamente compromissoria si evidenzia
alcune contraddizioni teoriche e in alcune incongruenze pratiche. L' applicabilità ad un medesimo
soggetto di una pena e di una misura di sicurezza sembra supporre una concezione dell'uomo
come essere diviso in due parti: libero e responsabile per un verso, e come tale assoggettabile alla
pena; determinato e pericoloso per un altro verso, e come tale assoggettabile a misura di
sicurezza. L'articolo 133 nel regolare il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della
pena, stabilisce che si deve tener conto anche della capacità delinquere del colpevole, desunta da
una serie di indici relativi alla sua personalità e il suo ambiente di provenienza. A sua volta
l'articolo 203 relativo all' accertamento della pericolosità quale presupposto della misura di
sicurezza, dispone che alla qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle stesse
circostanze indicate all'articolo 133. La pretesa distinzione tra le due forme di sanzioni penali,
basata altresì sull’ intento di attribuire alle pene e alle misure di sicurezza modalità di esecuzione
diversa si rileva alla prova dei fatti una mistificazione. Tra pene e misure di sicurezza esiste una
sostanziale identità di contenuto afflittivo, dovuta anche al fatto che alla stregua legislativa
differenziata non è mai seguito l' apprezzamento di corrispondenti strutture che consentissero in
concreto un' effettiva diversificazione nell’ esecuzione della pena e delle misure. Da qui l'esigenza
di un superamento delle ragioni teoriche che legittimarono l'introduzione di entrambi i tipi di
sanzione da parte del legislatore del 1930 .

4. LA PENA SECONDO LA COSTITUZIONE


Il problema relativo a fondamento e alla funzione della pena viene a collocarsi in una nuova
prospettiva in seguito all'entrata in vigore della costituzione repubblicana. Il legislatore
costituzionale prende esplicita posizione al riguardo, affermando all'articolo 27, comma 3: “le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”. Nell’ interpretare tale disposizione, la dottrina coeva all'
emanazione della carta costituzionale espresso orientamenti ermeneutici rivolti a restringere la
portata. Essa fa leva sul verbo tendere, cioè come la rieducazione non sia una finalità essenziale ;
sene è dedotto, che lo scopo necessario è la retribuzione, mentre la funzione rieducativa
resterebbe confinata alla fase esecutiva. Si potrebbe obiettare che la rieducazione intesa come
risocializzazione finirebbe con l' annullare la differenza di scopi che tradizionalmente finirebbe a
giustificare la separazione tra pene e misura di sicurezza. Una simile obiezione non coglierebbe nel
segno perché apparirebbe viziata da inversione metodologica, cioè in contrasto con il principio di
gerarchia delle fonti. È agevole replicare che dall' assunzione della finalità rieducativa a scopo
comune sia alle pene che le misure di sicurezza non deriva ancora che entrambe le misure si
riducono ad un inutile doppione: la rieducazione si connota diversamente della sanzione penale. In
astratto, il divieto di trattamenti inumani si può riferire ugualmente bene sia alla retribuzione che
alla rieducazione. Proprio perché la rieducazione deve conciliare con rispetto
all'autodeterminazione del reo, l'esito favorevole del processo rieducativo non è scontato in
partenza il legislatore costituzionale abbia usato l'espressione tendere ne fa riferimento alla
funzione rieducativa. Si tratta a questo punto di segnalare i reali limiti della presa di posizione
costituzionale sulle finalità della pena: il primo limite è individuato nella prevenzione speciale sub
specie di rieducazione che non è da sola sufficiente a esaurire tutte le funzioni cui oggi la sanzione
penale assolve. Il secondo limite verrà avvisato nella stessa genericità del concetto di rieducazione,
sia pure assunto a criterio ispiratore non di tutte, ma di alcune funzioni soltanto della sanzione
penale: ciò sollecita l'interprete ad un impegno rivolto a precisare la portata e limiti della
rieducazione alla stregua dei principi che caratterizzano il nostro sistema costituzionale.

5. SIGNIFICATO E LIMITI DEL’IDEA RIEDUCATIVA


L'idea della prevenzione speciale mediante rieducazione va percepita nel suo significato e nei suoi
limiti, anche al fine di fugare possibili equivoci. Una delle principali obiezioni fa leva sul rilievo che
l'idea rieducativa non consente alcuna predeterminazione temporale della durata delle sanzioni
ma dovrebbe tendere a un trattamento finalizzato alla correzione definitiva. L'esigenza di venire
sottoposto a un trattamento rieducativo potrebbe già derivare dal semplice fatto di comportarsi
da vagabondi, mendicanti, oziosi o di esercitare la prostituzione o di atteggiarsi comunque
persone moleste per la collettività. All'interno di una prospettiva teorica pur favorevole al
principio di rieducazione, si è sostenuto che l'idea retributiva rappresenta un momento logico e
ineliminabile della pena. La retribuzione offrirebbe la garanzia che quel diritto penale mantenga l'
imprescindibile nesso col fatto di reato ed in tal modo preservi la libertà del singolo da uno
illimitata possibilità di intervento statuale. Questa impostazione si rileva frutto di un approccio
idealistico ignaro cioè della dimensione empirica dello stesso fenomeno retributivo. La
retribuzione esprime le istanze emotive di punizione emergenti nei contesti storico sociali di volta
in volta considerati. Inoltre, l'impostazione in parola sempre a dare per scontato che tra il concetto
di retribuzione da un lato, e il principio del diritto penale dall'altro, debba sussistere un rapporto di
necessaria implicazione, Ma così non è, dato che l'idea retributiva si presta anche a esprimere
l'esigenza di compiere una colpevolezza legata più al l'atteggiamento interiore dell’agente, che
non all' obiettiva gravità del fatto commesso. L'articolo 27, comma 3 costituzione è legato
all'articolo 25, comma 2, il quale sancisce il principio di legalità che configura la pena come effetto
giuridico di un fatto criminoso. Ne deriva allora che è il presupposto della stessa pretesa
rieducativa non può che essere costituito dalla commissione di un fatto socialmente dannoso da
parte del soggetto da rieducare. Il principio di proporzione, oltre a caratterizzare l'idea generale di
giustizia, costituisce uno dei criteri guida che presiedono allo stesso funzionamento dello Stato di
diritto: è per questa ragione che il principio costituisce un parametro essenziale di qualsiasi teoria
razionale moderna sulla funzione della pena. Oggi si concorda nell’ osservare che la minaccia di
una pena eccessivamente severa o comunque sproporzionata può suscitare sentimenti di
insofferenza nel potenziale trasgressore e alterare nei consociati la percezione di quella corretta
scala di valori che dovrebbe riflettere nel rapporto tra i singoli reati le sanzioni corrispondenti.
Altro lato della prevenzione speciale ispirata al modello della rieducazione è quello che un
trattamento rieducativo correttamente inteso presuppone che il destinatario si renda consapevole
del torto commesso, e avverta come giusta e proporzionata la sanzione che gli viene inflitta. Da
questo punto di vista, la proporzione tra fatto e sanzione costituisce una premessa
dell’accettazione psicologica di un trattamento diretto a favorire il condannato nel recupero della
capacità di apprezzare i valori tutelati dall' ordinamento. In uno stato democratico di diritto
finalizzato al conseguimento di scopi mondani, rieducare può equivalere non a pretendere il
pentimento interiore di un delinquente concepito come individuo isolato, ma a riattivare il rispetto
dei valori fondamentali della vita sociale. Occorre evitare l'errore di identificare il concetto
costituzionale di rieducazione con quello di ascendenza positivistico-criminologico. Nel delineare il
volto della rieducazione, bisogna operare un collegamento tra l'articolo 27, comma 3 costituzione
e il complesso dei principi ispiratori del nostro sistema costituzionale. In questo senso, la pena
avrebbe funzione rieducativa nella misura in cui sarebbe suo compito di recuperare socialmente i
soggetti che sono indotti a delinquere a causa di una condizione di inferiorità e di emarginazione
sociale. Per superare l' accennata frattura, è necessario operare una distinzione tra rieducazione
quale generale obiettivo da perseguire, e le tecniche che si rendono di volta in volta necessarie per
ottenere il risultato. L'idea di rieducazione come obiettivo allude al processo di riappropriazione
dei valori fondamentali della convivenza da parte del delinquente. Ma lo strumento di
rieducazione muterà a seconda del soggetto che si ha di fronte. Se parliamo di un emarginato non
potrà esservi riappropriazione dei valori della convivenza senza un previo superamento della
condizione di emarginazione cioè, con un reinserimento nella società. Perché il processo
rieducativo non può essere coercitivo nei confronti del destinatario, occorre che vi sia la
disponibilità psicologica di quest'ultimo. In questo caso va accolto l' autentico significato del verbo
tendere, impiegato dal legislatore al terzo comma dell'articolo 27 costituzione: dal momento che
non può essere coercitivamente imposta, la rieducazione trova un ostacolo nell’ eventuale rifiuto
opposto dal soggetto destinatario della sanzione. Una simile attenzione conflittuale tra esigenza
rieducativa e indisponibilità psicologica del reo si fa più acuta e grave nei casi in cui il delitto
costituisce il frutto di una scelta politica ideologica che si pone e pretende di porsi in contrasto con
i principi ispiratori dell’ ordinamento. Al di fuori di queste ipotesi-limite, in una società pluralistica
qual è la nostra, se non si può pretendere l' adesione di tutti ai valori dominanti, si può però
esigere il rispetto delle forme minime della vita in comune.

6. RIEDUCAZIONE E PRASSI LEGISLATIVA


L'idea educativa è assurta a criterio-guida di una serie di interventi riformisti volti a rendere
l'ordinamento vigente più compatibile col principio espresso nell'articolo 27, comma 3,
costituzione.

A) Per attenuare il contrasto tra la pena dell' ergastolo e la finalità rieducativa contrasto,
evidentemente, dovuto alla contraddizione tra il carattere perpetuo della pena e la prospettiva
della rieducazione, la legge 25 novembre 1962, n. 1634, modificando l'articolo 176 del codice, ha
stabilito che il condannato all' ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando
abbia scontato almeno 26 anni di pena. In seguito, la riforma penitenziaria del 1986 ha esteso
anche agli ergastolani la possibilità di beneficiare della semilibertà e della liberazione anticipata.

B) Il finalismo rieducativo ha successivamente ispirato la modifica della disciplina della


sospensione condizionale. Il legislatore del 1974 ha esteso l' ambito di operatività della
sospensione sotto il duplice profilo dell' elevamento fino a due anni del tetto delle condanne
sospendibili e della possibilità di concedere un secondo provvedimento di sospensione. Nel 1981 il
legislatore ha subordinato alla concedibilità nel secondo provvedimento di sospensione all'
adempimento di alcuni obblighi specifici da parte del soggetto.

C) L'espressione più significativa del finalismo rieducativo è però costituita dalla riforma
dell'ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975. I punti più qualificanti di tale riforma
consistono nel ricezione dell' ideologia del trattamento rieducativo e nell’ introduzione di misure
alternative alla detenzione ispirata all'idea del probation. La prospettiva rieducativa, che ispira
misura alternative quali l'affidamento in prova, la semilibertà nella liberazione anticipata si
esprime in una tendenza al recupero sociale attuato non attraverso il trattamento penitenziario,
ma mediante il reinserimento del condannato nell’ ambiente esterno. La necessità di contrastare
gravi forme di criminalità induce a restringere l' applicabilità dei nuovi istituti attraverso una serie
di preclusioni oggettive concernenti gli autori dei reati più gravi. Ulteriore inversione di tendenza,
è sollecitata nei primi anni 90 dalla necessità di fronteggiare la criminalità organizzata di stampo
mafioso. La prospettiva che viene a delinearsi è duplice: da un lato, si inasprisce la disciplina
penitenziario dei condannati per delitti riconducibili alla criminalità organizzata; Dall'altro lato, si
introducono misure premiali finalizzata allo scopo di incentivare la collaborazione giudiziaria. Il
problema consiste nello stabilire se la collaborazione giudiziaria possa assurgere a sintomo
credibile di rieducazione. la legge 12 luglio 1999, n. 231 e la legge 27 maggio 1998 n. 165,
cosiddetta riforma Simeone, si è inciso sul terreno dell’ esecuzione della pena assumendo una
direzione del tutto opposta all’ inasprimento del trattamento perseguito con la legislazione
antimafia. In particolare, si sono ulteriormente ampliate le condizioni di accesso alle misure
alternative.

D) Ulteriore significativa è l'ideologia rieducativa della legge 24 novembre 1981, n. 689, delle
sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. La sostituzione con sanzioni di altro tipo serve ad
evitare che il soggetto subisca il contagio criminale prodotto dall' impatto con la realtà carceraria.

E) Segni del finalismo rieducativo si intravedono nella nuova disciplina della pena pecuniaria,
introdotta con la legge n. 689 del 1981. Questo nuovo meccanismo tende ad agevolare il reo nel
processo di riacquisizione del rispetto dei valori offesi.

7. L’EVOLUZIONE PIU’ RECENTE DEL DIBATTITO SULE FUNZIONI DELLA PENA: A)


PREVENZIONE GENERALE
A partire dalla seconda metà degli anni 60, tende a rioccupare la ribalta del dibattito teorico l'idea
di prevenzione generale. Il crescente e preoccupante aumento della criminalità , registratosi in
diversi paesi tra cui il nostro, ha prospettato l'esigenza di riconsiderare le condizioni che
garantiscono una reale efficacia deterrente della sanzione penale e, in più, alcuni esiti poco
confortanti dalla pressa attuativa dell’ ideologia della risocializzazione hanno indotto parte gli
studiosi a dare per scontata la caduta in crisi dell'idea rieducativa. L'idea che scopo della pena sia
di impedire che vengono commessi in futuro reati è stata fatto oggetto di un’ elaborazione in
chiave psicologica punto secondo questo modello, si presume che l'uomo sia un essere razionale
che, prima di agire, attesta i pro e contro della scelta criminale. Tale modello è giustamente
andato incontro a critiche in tempi recenti. Si è obiettato che l'uomo delinquente non è un
calcolatore, non è un individuo che valuta razionalmente i motivi del proprio agire: per contro, chi
commette reati è soggetto a stimoli inconsci, a spinte emotive difficilmente controllabili.

Quale che sia il nucleo di verità dell’ idea della prevenzione generale c.d. negativa in forma di
coazione psicologica, la rivalutazione della concezione general-preventiva cui in atto si assiste
poggia però su altre basi. Si tende a sottolineare che la minaccia della pena adempie una funzione
morale- pedagogica o di orientamento culturale dei consociati, prevenzione generale cosiddetta
positiva. La funzione di orientamento culturale s'indebolisce, laddove risulti insufficiente o incerta
la stigmatizzazione del comportamento nella morale collettiva. Un ulteriore presupposto di
efficacia è costituito da un buon livello di credibilità del sistema penale complessivo, essendo da
escludere che stimoli all' osservanza dei precetti un sistema percepito come ingiusto sia efficace.
Ma la prospettiva della prevenzione generale positiva o cd allargata può offrire il fianco a due
riserve di fondo. Da un lato, essa cioè si presta a rilegittimare la stessa concezione retributiva della
pena. Dall’ altro la teoria in parola finisce col privilegiare la soddisfazione dei bisogni collettivi di
stabilità e sicurezza.In una fase di crisi della pena e delle sue giustificazione si impone una
valutazione del diritto penale quale extrema ratio. Le funzioni di deterrenza e di orientamento
culturale rispetto alla generalità dei cittadini si esplicano soprattutto nella fase della minaccia: se si
vuole raggiungere l'obiettivo di impedire la commissione di fatti socialmente lesivi, occorre fare in
modo che il sistema penale esercita la sua influenza prima della loro commissione. La funzione di
prevenzione generale , concepita nella duplice dimensione, occupa invece uno spazio più ristretto
nella fase dell’ inflazione giudiziale della pena ad un singolo reato: se si infliggono condanne
esemplari, cioè talmente pesanti da provocare nei potenziali rei il terrore di potere incorrere in
una rigorissima posizione, si ricorrerebbe il rischio di strumentalizzare il singolo delinquente per
fini di politica criminale. Si tratterebbe di un di un sacrificio ingiusto che non si può legittimamente
infliggere al singolo: proprio il rispetto dell’ uomo concepito anche come fine in sé, e non come
semplice strumento, vincola il giudice a infliggere una pena di ammontare tale che non superi la
colpevolezza insita nel singolo fatto di reato. La funzione di prevenzione generale svolge un ruolo
decisamente secondario durante la fase di esecuzione della pena: qui domina la preoccupazione
per il trattamento rieducativo, mentre efficacia deterrente per i consociati in genere rimane
affidata alla natura inevitabilmente afflittiva di ogni trattamento punitivo.

8. B) LA RETRIBUZIONE
L'idea della retribuzione rappresenta uno dei fondamentali poli attorno da cui da sempre ruota il
dibattito sul concetto e sulle funzioni della pena. Quando si parla di retribuzione, oggi ci si riferisce
non alla prospettiva degli scopi della pena, ma a qualche cosa di diverso che presuppone come già
risolto il problema del perché si debba pulire. L'idea retributiva implica l'idea di proporzione tra
entità della sanzione e gravità dell' offesa arrecata, tra misura della pena e grado della
colpevolezza. Il reo deve avvertire che la pena sia giusta e che perciò assuma un atteggiamento di
maggiore disponibilità psicologica verso il processo rieducativo. L'idea retributiva troverebbe una
base empirica nei bisogni emotivi di punizioni esistenti nella società e in ciascun individuo di fronte
alla perpetrazione dei reati. Si sottolinea che lo spettacolo di chi delinque costituisce un esempio
potenzialmente contagioso, essendo vivo nell’ inconscio di ciascuno il desiderio di trasgredire le
proibizioni. La reazione punitiva dello Stato verso il delinquente conferma e rafforza la fedeltà ai
valori tutelati. Riserve critiche a tale tesi sono il rischio di punizioni terroristiche non proporzionate
all' obiettiva gravità del reato commesso e l'idea retributiva. Si finisce così, con l' assecondare
tendenze regressive che la privano proprio di quella funzione di limite e di garanzia. Tra i compiti
di un diritto penale moderno e razionale rientra anche quello di filtrare criticamente le istanze di
punizione emergente dai contesti sociali. La principale obiezione è che, proprio perché privilegia la
funzione positiva che la pena assolve per la società, si disinteressa del destino del singolo
delinquente, così dimenticando alla corresponsabilità della società nella genesi del delitto. Proprio
la presa d’atto di questa corresponsabilità impedisce di rinunciare a ravvisare nella pena uno
strumento razionale capace di incidere positivamente anche sul singolo individuo delinquente: è
proprio questa tensione verso il finalismo rieducativo che pone lo Stato in una condizione di
superiorità morale, che lo legittima punire chi ha delinquito.

9. C) LA PREVENZIONE SPECIALE
La funzione di prevenzione speciale tende ad impedire che chi si è già reso responsabile di un
reato torni a delinquere anche in futuro. La tecnica più elementare consiste nella neutralizzazione
del soggetto potenzialmente pericoloso ottenuta grazie all'impiego della coercizione fisica. La
neutralizzazione può essere ottenuta anche attraverso forme di interdizione giuridica, che
impediscono al reo di continuare a svolgere attività che hanno occasionato la commissione di un
delitto : si pensa ad esempio il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione. Un altro modo
di operare si manifesta in forma di condizionamento della personalità del reo attraverso
l’ammenda morale, già presente in Seneca. Nei tempi moderni la prevenzione speciale assume a
criterio la rieducazione concepita come risocializzazione. Tale prospettiva presiede alla fase
esecutiva della pena, e ne costituisce la sede naturale: è durante l'esecuzione della pena che si
procede al trattamento individualizzato del colpevole, al fine di favorire il più possibile il
riadattamento. La funzione educativa svolge anche un ruolo decisivo nella fase antecedente dell'
inflizione o commisurazione giudiziale della pena. Dominante fino agli anni Sessanta è l'ideologia
di risocializzazione; oggi, però, alcuni autori parlano di mito di risocializzazione. La strana
inversione di tendenza muove alla pressa d’atto di un presunto fallimento degli sforzi sinora
compiuti sul piano della concreta realizzazione del finalismo rieducativo. Riserve critiche a tale
prevenzione sono la valutazione dei metodi statistici: il fallimento di cui si parla riguarderebbe il
trattamento inteso soprattutto nell’ accezione specifica di terapia della personalità, condotta da
esperti in psicologia secondo criteri scientifici. Ma l'ideologia della rieducazione può essere
tradotta in atto attraverso tecniche variamente articolate, che non necessariamente
presuppongono l' adesione al modello medico. Tale tecnica lungi dall' essere stata sinora applicata
in maniera generalizzata ed è stata circoscritta a piccoli gruppi di detenuti ben selezionati e
all'interno di specifici istituti. La riaffermazione della validità teorica e politico-criminale del
finalismo rieducativo non deve indurre nell’ equivoco che la rieducazione costituisca un fine in sé.
La prevenzione speciale come risocializzazione costituisce soltanto una tecnica finalizzata all'
obiettivo primario della protezione dei beni giuridici.

10. IL PROBLEMA DEL SUPERAMENTO DEL DOBBIO BINARIO


Le contraddizioni del sistema del doppio binario sono state più volte denunciate dalla dottrina più
avvertita, specie a partire dagli anni immediatamente successivi all' emanazione della costituzione.
Emergono due orientamenti: il primo, proiettato in una prospettiva di riforma, sollecitava
l'unificazione della pena della misura di sicurezza in un'unica sanzione, che fosse
contemporaneamente in grado di assolvere le finalità dell’ uno e dell’ altra misura. Il secondo
orientamento, di natura applicativa , sotto l'etichetta “fungibilità di pene e misure” tendeva a
detrarre il pericolo di privazione della libertà personale sofferta senza causa dall' ammontare della
misura di sicurezza ad applicarsi dopo la pena. In questa prospettiva si è implicitamente
prefigurato un sistema monistico di sanzioni: per esso ad un reato deve corrispondere una sola
sanzione orientata in senso rieducativo. Se la sanzione deve rivestire i caratteri della pena o della
misura di sicurezza, è scelta ad operare in funzione alle caratteristiche soggettive dei destinatari
della sanzione: le pene andrebbero applicate ai delinquenti psicologicamente normali; le misure
di sicurezza e di linguette affetti da turbe psicologica virgola in quanto tali bisognosi di terapia.

11. ATTUALITA’ E PROSPETTIVE DELLA PENA NELLA REALTA’ DELL’ORDINAMENTO


Le linee di tendenza attualmente riscontrabili nella fenomenologia positiva appaiono tutt'altro che
univoche: emerge un quadro contraddittorio. La tendenza di rimpiazzare la pena carceraria
attraverso misure alternative alla detenzione, potenziata nel 1986 con la c.d. legge Gozzini, ha
puntato obiettivi di ulteriore decarcerizzazione, producendo anche effetti negativi. Nella concreta
prassi si è affermato il fenomeno di fuga della pena detentiva, determinata ad orientamenti in
realtà eccessivamente clemenziali nella concessione della misura dell' affidamento in prova al
servizio sociale. La possibilità offerta al giudice dell'esecuzione di modificare in varia guisa e misure
le pene stabilite dal giudice della cognizione fa sì che la pena stessa si trasformi in un' entità
sempre più teorica, incerta e flessibile, con conseguente indebolimento se non fallimento della sua
funzione preventivo-orientativa. In presenza di una situazione così precaria , si è negli ultimi anni
assistito a una reazione di rinnovata tendenza al massiccio ricorso al carcere. Emblematico, a far
corso dal 1990 il trend di crescita della popolazione detenuta, che ha superato la soglia delle
50.000 presenze anche a causa di un notevole incremento dei detenuti tossicodipendenti ed
extracomunitari. Una simile la tendenza è andata per altre accentuandosi dell'allarme collettivo
per il bene della sicurezza: la legge n. 251 del 2005 identifica nei delinquenti recidivi pericolosi
nemici dell’ ordine costituito, da isolare e naturalizzare con lunghe detenzioni in prigione. È
l'ideologia del controllo sociale attraverso la punizione che ritorna così sulla scena, propagandosi
dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna non solo in America, ma anche in Europa. La crescente paura
collettiva nei confronti di questi nuovi nemici della società contribuisce a spiegare la svolta verso
quelle politiche punitive di stampo populista, di cui vi è un recente esempio anche in Italia. La
questione criminale va progressivamente smarrendo il suo carattere di questione sociale di
problema anche tecnico scientifico di competenza degli esperti, e si ri-politicizza pressoché
interamente, riassumendo il vecchio volto di una questione di mero ordine pubblico da affidare
esclusivamente a politici e legislatori. Ulteriori effetti destabilizzanti nel nuovo sistema processuale
sono i cosiddetti riti alternativi: procedimenti speciali affidati all'iniziativa all' accordo delle parti,
che comportano una sensibile riduzione della pena che sarebbe altrimenti applicabile all' esito del
giudizio normale. Non è chiaro fino a che punto questi meccanismi siano compatibili con gli scopi
di prevenzione generale e speciale che le pene in teoria dovrebbero perseguire. Rimane l'oggettiva
difficoltà di orientare in senso preventivo-rieducativo una pena la cui scelta rimane in larga misura
affidata alle parti. Importanti novità introdotte dalla normativa in tema di criminalità organizzata
di stampo mafioso emanate nel 1991 nel 1992 sono oggetto di approfondita riflessione sul piano
teorico. Il legislatore ha individuato nel campo dell’ esecuzione della pena il terreno privilegiato di
intervento contro la criminalità organizzata, creando un circuito penitenziario ben differenziato
per i soggetti che vi fanno parte. Da un lato ha irrigidito il trattamento penale, che inasprisce la
vita carceraria in una prospettiva di rigorosa retribuzione e neutralizzazione della pericolosità
oggettiva; dall’ altro sconti di pena in forma di attenuante e immediato accesso alle misure
alternative e altri benefici penitenziari per i detenuti ammessi allo speciale programma di
protezione (c.d. pentiti), che decidono di collaborare con la giustizia. L'obiettivo è quello di favorire
il cosiddetto pentimento e la dissociazione dalla criminalità organizzata. Ciononostante può
apparire eccessivo precludere ogni beneficio penitenziario ai mafiosi irriducibili; mentre la
disponibilità a collaborare con la giustizia non è fatto sicuro indice di resipiscenza. È fuori
discussione che nell'attuale ordinamento italiano il fenomeno del punire si presenta come una
realtà complessa, priva di una fisionomia unitaria e caratterizzata da gravi squilibri in termini sia di
efficacia preventiva, sia di garanzia individuale.

CAPITOLO 2 LE PENE IN SENSO STRETTO


1. LE PENE PRINCIPALI
Il nostro diritto positivo distingue le pene in principali ed accessori. L’ articolo 17 dispone che le
pene principali stabiliti per i delitti sono: la pena di morte, l’ ergastolo, la reclusione e la multa; E
che le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono l'arresto e l'ammenda. A sua volta
l'articolo 18 definisce pene detentive o restrittive della libertà personale l'ergastolo, la reclusione e
l'arresto; pene pecuniarie la multa e l'ammenda. Infine l'articolo 20 precisa che le pene principali
sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna, e quelle accessorie conseguono il diritto alla
condanna, come effetti penali di essa. Accanto a quelle sopra indicate previste dal codice, il d. lsg
274/2000 ha introdotto due nuove pene principali di applicazione limitata ai soli reati di
competenza del giudice di pace, e cioè la detenzione domiciliare e il lavoro di pubblica utilità
punto i reati cui si applicano queste nuove sanzioni penali sono tassativamente indicati dall'
articolo quattro del decreto.
Le pene principali per i delitti si distinguono in:
-PENA DI MORTE disposta dall’articolo 17 del codice penale si collocava all'inizio delle pene
principali; ma, soppressa prima del 1944 per i delitti previsti dal codice penale, poi nel 1948 per
quelli previsti da leggi speciali diverse da quelle militari di guerra, e infine nel 1994 anche per gli
illeciti previsti dalle stesse leggi militari di guerra, essa oggi è assorbita dall’ergastolo. La sua
espressione ha trovato il riconoscimento più elevato nella costituzione che all’articolo 27 comma 4
il quale statuisce che non è ammessa la pena di morte, la modifica è avvenuta tramite legge
costituzionale del 2007 prima della quale il testo originario proseguiva che se non nei casi previsti
dalle leggi militari di guerra era ammessa la pena di morte. Nell'ambito della scienza penalistica
moderna, predomina il convincimento che la pena di morte costituisca un residuo arcaico
incompatibile con le dimensioni costituzionali dello Stato di diritto e di un moderno diritto penale,
nonché uno strumento inefficace di controllo della criminalità.
-ERGASTOLO: secondo l'articolo 22, la pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli
stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Il condannato può
essere ammesso al lavoro all'aperto. Controverso è il problema della compatibilità dell'ergastolo
con i principi della costituzione e in particolare con il principio di rieducazione espresso dall'
articolo 27 comma 3: la Corte costituzionale l'ha ritenuto legittimo perché la funzione della pena
non è solo il riadattamento sociale, ma pure la prevenzione generale, la difesa sociale e la
neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati delinquenti. Se non che la natura perpetua
dell'ergastolo è comunque andata sempre più ridimensionandosi, per cui il problema della sua
costituzionalità ha finito con lo sdrammatizzarsi. Infatti il condannato all'ergastolo può, se ha
tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, essere ammesso alla
liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena. Inoltre sul carattere astrattamente
perpetuo dell’ ergastolo hanno inciso ulteriori interventi:
sentenza numero 274 del 1983: ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di
ammettere coda dati all'ergastolo al godimento degli sconti di pena consentiti all'istituto della
liberazione anticipata, con conseguente riduzione dei tempi necessari ai fini della liberazione
costituzionale.
La legge numero 663 del 1986: ha esteso espressamente agli ergastolani l'applicabilità dei due
istituti della semilibertà e della liberazione anticipata.
Sentenza numero 168 del 1994: la Corte costituzionale ha ravvisato un’ incompatibilità insanabile
tra la pena perpetua e la minore età, facendo leva sul particolare significato che la rieducazione
finisce con l'assumere o poi venga riconsiderata alla stregua della speciale protezione che l'articolo
31 accorda ad infanzia e gioventù.
La Corte ha inoltre affermato che in linea di principio, la previsione sanzionatoria fissa non appaia
in armonia con il volto costituzionale del sistema penale salvo che appaiono proporzionale all'
intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato.
-RECLUSIONE: l'articolo 23 stabilisce che la pena della reclusione si estende da 15 giorni a 24 anni,
ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento
notturno. Il condannato, che ha scontato almeno un anno, può essere ammesso al lavoro
all'aperto. La reclusione è la pena temporanea per i delitti. I limiti, minimo e massimo, sono
invalicabili solo per il giudice nella scelta della pena da irrogare nel caso concreto. Il legislatore
invece può fissare liberamente tali limiti. La legge numero 354 del 1975 disciplina l'esecuzione
della reclusione sulla base di alcuni principi:
l'esecuzione della pena avviene nelle case di reclusione; È previsto l'obbligo del lavoro e del
l'isolamento notturno;
Il trattamento penitenziario deve rispondere a particolari bisogni della personalità del
condannato;
Il trattamento si fonda sull’ istruzione, sul lavoro, sulle attività culturali ricreative sportive; Sono
agevolati rapporti con il mondo esterno e con la famiglia;
Il lavoro non deve avere caratteristiche afflittive non deve essere remunerato in misura non
inferiore a 2/3 delle tariffe sindacali.
Il differimento è obbligatorio se l'esecuzione deve aver luogo contro donne incinta o che ha
partorito da meno di sei mesi, contro persona affetta da HIV, nei casi di incompatibilità ai sensi
dell'articolo 286 bis, comma uno codice di procedura penale punto il differimento e facoltativo se
è stata presentata domanda di grazia , se il soggetto si trova in condizioni di infermità fisica, se la
donna ha partorito da più di sei mesi ma meno di un anno e non vi è modo di affidare il figlio ad
altri che alla madre.
-MULTA: l'articolo 24 statuisce che la pena della multa consiste nel pagamento allo stato di una
somma non inferiore a 5 €, né superiore a 5.164 €. Per i delitti determinati da motivi di lucro , se la
legge stabilisce solo la pena della reclusione, il giudice può aggiungere la multa da 5 € a 2.065 €. La
multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti punto il pagamento può avvenire, in relazione alle
condizioni economiche del condannato, in rate mensili da un minimo di 3 a un massimo di 30. L'
ammontare di ciascuna rata non può essere inferiore a 15 €. Se non viene eseguita per insolvibilità
del condannato, la pena della multa si converte in una sanzione di conversione , che era la pena
detentiva ma è stata dichiarata costituzionalmente legittima perché operava una traslazione della
pena dei beni alla persona del condannato. Il legislatore ha introdotto quali nuove sanzioni di
conversione:
-la libertà controllata che consiste in una forte limitazione della libertà personale accompagnata da
una serie di obblighi;
Il lavoro sostitutivo: che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita, a favore della
collettività, da effettuare presso lo stato, le regioni, le province, i comuni, o presso enti,
organizzazioni o corpi di assistenza, di istruzione, di protezione civile e di tutela dell'ambiente
naturale o di incremento del patrimonio forestale. La conversione avviene secondo un ragguaglio
fissato dalla legge: il computo ha luogo calcolando 12 € di pena pecuniaria per un giorno di libertà
controllata e 25 € per un giorno di lavoro sostitutivo punto la multa ed a sua volta prevista in
modo fisso, o in modo proporzionale.
-PENE PRINCIPALI PER LE CONTRAVVENZIONI: ARRESTO disposto dall' articolo 25 statuisce che la
pena si estende da 5 giorni a tre anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati o in
sezioni speciali degli stabilimenti di reclusione, con l'obbligo del lavoro e con l’isolamento
notturno. Il condannato può essere addetto a lavori anche diversi da quelli organizzati nello
stabilimento, ha avuto riguardo alle sue attitudini e alle sue precedenti occupazioni. L'arresto e la
pena detentiva temporanea per le contravvenzioni. L'unica reale differenza tra esecuzione
dell’arresto ed esecuzione della reclusione riguarda la disciplina della semilibertà.
-AMMENDA: secondo il disposto dell'articolo 26, la pena dell' ammenda consiste nel pagamento
allo stato di una somma non inferiore a 2 € né superiore a 1.032 €. E’ la pena pecuniaria prevista
per le contravvenzioni punto la sua regolamentazione giuridica ricalca quella della multa: per ciò
che riguarda pagamento, conversione e varie forme è sufficiente rinviare alla disciplina prima
esposta; per quanto riguarda la commisurazione dell' ammenda si rinvia invece all' apposita
trattazione.
-PENE INTRODOTTE DALL’D.LGS. N.274 DEL 2000, DI APPLICAZIONE LIMITATA AI SOLI REATI DI
COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE.
I reati cui si applicano queste sanzioni sono tassativamente previsti dall' articolo 4 del decreto.
-DETENZIONE DOMICILIARE: l'articolo 53 del D.LGS. stabilisce che la detenzione domiciliare
consiste nel l'obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o il
luogo di cura, assistenza accoglienza nei giorni di sabato e domenica, salvo diversa disposizione del
giudice o richiesta del condannato di eseguirla continuativamente. La sua durata non può essere
inferiore a 6 giorni né superiore a 45 punto il condannato non è considerato in stato di detenzione.
-LAVORO DI PUBBLICA UTILITA’: l'articolo 54 dispone che il lavoro di pubblica utilità consiste nella
prestazione di attività uno retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo stato, regioni,
le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale o di volontariato.
Comporta la prestazione di non più di 6 ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi
che non pregiudicano le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia, e di salute del condannato. Se il
condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un
tempo superiore alle sei ore settimanali, ma la durata della prestazione giornaliera non può
superare le 8 ore.

2. LE PENE ACCESSORIE: PREMESSE GENERALI


Nel disegno originario del codice le pene accessorie sono considerate sanzioni che per il loro
intrinseco carattere mancano di un efficienza tale, per cui possano riuscire da sole a realizzare gli
scopi intimidativi e afflittivi della repressione; Di qui la necessità di cambiarle sempre
congiuntamente ad altre pene, rispetto alle quali sono complementari ed accessorie. Sono
previste dall’ articolo 19 rispettivamente per i delitti e le contravvenzioni, e ve ne è poi una
comune sia ai delitti che alle contravvenzioni: la pubblicazione della sentenza penale di condanna.
Il catalogo dell'articolo 19 non è un numerus clausus, sono infatti numerose le ipotesi di pene
accessorie previste in altri settori dell'ordinamento. Si ritiene comunemente che caratteristica
tipica di tali pene sia l'automaticità di applicazione perché secondo voi il diritto alla sentenza di
condanna: questa opinione però smentita dall’ esistenza di casi in cui l'applicazione è rimessa alla
discrezionalità del giudice della cognizione. L'unica caratteristica comune delle pene accessorie è
invece la loro complementarietà astratta l'essere cioè accessori rispetto ad altre esenzioni nella
fase della loro combinazione punto per quanto riguarda la funzione svolta, l'opinione tradizionale
ritiene che esse tendano ad un obiettivo di prevenzione generale e di difesa sociale.
Recentemente però la dottrina giustamente ha cominciato ad evidenziare anche una funzione di
prevenzione speciale perché fungono da misure volte evitare che il reo ricada nel delitto. Esse
sono comunque fortemente afflittive, limitative anche di diritti costituzionalmente garantiti. In
origine non erano sospendibili condizionalmente pertanto spesso svolgevano di fatto il ruolo
sostitutivo delle pene principali, quale unica sanzione concretamente applicata al condannato.
Tale disciplina è stata però innovata nel 1990 introducendo il principio atipico della sua
spendibilità delle pene accessorie. C’ è stato questo mutamento per l'esigenza di rendere più
omogenea la rispettiva disciplina delle pene principali e delle pene accessorie, anche se questo
finisce con l' accentuare la tendenza indulgenzialistica del nostro sistema sanzionatorio. Le pene
accessorie possono essere perpetue o temporanee. Quando la legge stabilisce che la condanna
comporta l'applicazione di una pena accessoria, e la durata di questa non è espressamente
determinata, la pena accessoria è uguale a quella della pena principale inflitta, che dovrebbe
scontarsi, nel caso di conversione per insolvibilità del condannato. Tuttavia in ciascun caso può
oltrepassare il limite minimo massimo stabilito per ciascuna specie di pena accessoria. La mancata
osservanza delle pene accessorie sanzionata penalmente vale per tutte le pene accessorie c'è la
previsione della sola pena della reclusione.
3. LE SINGOLE PENE ACCESSORIE
PENE ACCESSORIE PREVISTE PER I DELITTI:
INTERDIZIONE DAI PUBBLICI UFFICILI: il suo contenuto afflittivo è stato fortemente ridotto in
seguito a due interventi della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la privazione di
stipendi, assegni e pensioni a carico dello Stato o di enti pubblici. Tale pena priva il condannato:
1.del diritto di elettorato attivo e passivo e di ogni altro diritto pubblico;
2.di ogni pubblico ufficio e di ogni incarico virgola non obbligatorio virgola di pubblico servizio;
3.di gradi e dignità accademica, titoli, decorazioni e virgola in genere virgola di diritti onorifici.
L' interdizione dai pubblici uffici può essere:
perpetua: consegue ipso iure alla condanna all'ergastolo o alla reclusione per almeno 5 anni, come
pure alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto e alla dichiarazione di tendenza a
delinquere;
temporanea: ha una durata tra un anno massimo 5 anni. L' interdizione per la durata di 5 anni
consegue pure alla condanna per un reato realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei
doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio.
INTERDIZIONE DA UNA PROFESSIONE O UN’ARTE: consiste nella perdita della capacità di
esercitare, per tutto il tempo dell'interdizione, una professione, un’arte, un’industria, un
commercio, un mestiere per cui è necessario uno speciale permesso o autorizzazione o
abilitazione o licenza dell'autorità. Si applica nell’ ipotesi di condanna per un delitto commesso con
abuso di una professione punto non può avere durata inferiore ad un mese nel superiore a 5 anni,
salvo i casi espressamente stabiliti dalla legge. Decorso il periodo della pena accessoria, i permessi,
le licenze e le autorizzazioni possono essere ottenuti. Particolari problemi ha sollevato
l'applicazione della interdizione dalla professione nei confronti dei giornalisti: in dottrina in una
posizione minoritaria nega la riconducibilità dell’attività giornalistica al novero di quelle che
necessitano di una speciale abilitazione o autorizzazione dell'autorità. Ma depone in senso
contrario la disciplina desumibile dalla legge numero 69 del 1963 sull'ordinamento della
professione di giornalista appunto all'interno dell'ordinamento maggioritario si riscontrano due
tesi facendo leva sulla distinzione tra attività di giornalista in senso stretto e attività di direttore
responsabile:
per la prima, solo il giornalista professionista potrebbe essere interdetto qualora abbia commesso
un reato con violazione dei doveri inerenti alla funzione;
Per la seconda, la violazione di uno specifico dovere può ravvisarsi solo nella violazione del dovere
di controllo posto a carico del direttore responsabile.
INTERDIZIONE LEGALE: Si tratta della pena accessoria per i delitti di maggiore gravità. Priva il
soggetto della capacità di agire un re punti ad essa si applicano le norme della legge civile
sull’interdizione giudiziale, però con un limite: lo stato di interdizione legale non impedisce
detenuti l'esercizio dei diritti loro riconosciuti dall’ ordinamento penitenziario.
INTERDIZIONE DAGLI UFFICI DIRETTIVI DELLE PERSONE GIURIDICHE E DELLE IMPRESE: Questa
pena ha la funzione di irrobustire la risposta sanzionatoria nei confronti di alcune forme di
criminalità tipiche dei colletti bianchi, e cioè nei confronti dei reati strettamente collegati con
l'esercizio di un'attività imprenditoriale. L' art 32 bis dispone che l'interdizione dagli uffici direttivi
delle persone giuridiche e delle imprese priva il condannato della capacità di esercitare l'ufficio di
amministratore, sindaco, liquidatore, direttore generale e dirigente preposto alla redazione dei
documenti contabili societari, nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona
giuridica o dell'imprenditore (es. institore, procuratore). Essa consegue ad ogni condanna alla
reclusione per almeno 6 mesi, per delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti all'ufficio. La pena interdice dunque lo svolgimento di attività non soggette ad
autorizzazione o licenza da parte della pubblica amministrazione. L'abuso dei poteri o la violazione
di doveri d'ufficio escludono che sia sufficiente un mero rapporto di occasionalità tra l'attività
esercitata e il fatto delittuoso realizzato. La durata della pena accessoria deve ritenersi, in
mancanza di un'espressa determinazione normativa, equivalente a quella della pena principale.
L'interdizione dagli uffici direttivi non si applica nel caso di condanna alla reclusione, per delitto
colposo, inferiore a 3 anni. Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione: L'art 32 ter
dispone che tale incapacità importa il divieto di concludere contratti con la pubblica
amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio.
Incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione: L'art 32 ter dispone che tale incapacità
importa il divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere
le prestazioni di un pubblico servizio. Può avere durata compresa tra 1 e 3 anni. L'interdizione
riguarda solo la persona fisica del condannato e non anche l'impresa nell'esercizio della cui attività
fu commesso il reato. Essa consegue ipso iure alla commissione dei delitti espressamente e
tassativamente previsti dalla legge (concussione, corruzione per un atto d'ufficio, corruzione di
persona incaricata di un pubblico servizio, inadempimento di contratti di pubbliche forniture,
associazione per delinquere, aggiotaggio, truffa ai danni dello Stato, ecc). Per poter applicare tale
pena è necessario che i suddetti reati siano stati commessi a causa o nell'esercizio di un'attività
imprenditoriale.

Decadenza o sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori (art 34) : Tale pena consiste nella
privazione della capacità di esercitare diritti e doveri che la legge ricollega alla posizione di
genitore. La decadenza dalla potestà importa anche la privazione di ogni diritto che al genitore
spetti sui beni del figlio; essa consegue ipso iure alla condanna all'ergastolo e alla condanna per
determinati delitti, in particolare contro la moralità pubblica e il buon costume. La sospensione
dall'esercizio della potestà importa anche l'incapacità di esercitare, durante la sospensione,
qualsiasi diritto che al genitore spetti sui beni del figlio; essa consegue alla condanna alla
reclusione per almeno 5 anni; la condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei
genitori importa la sospensione dall'esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della
pena inflitta. Pene accessorie previste perle contravvenzioni
Sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte: Prevista dall'art 35, ha un contenuto
afflittivo identico all'interdizione dall'esercizio di una professione o di un'arte, ma tuttavia se ne
differenzia perché non comporta la decadenza del permesso già regolarmente ottenuto, ma si
limita a sospendere, per il periodo di tempo fissato, la capacità di esercitare la professione. Alla
scadenza del predetto periodo tale esercizio può essere ripreso senza ulteriori formalità. Consegue
ad ogni condanna per contravvenzione commessa con abuso della professione, o con violazione
dei doveri ad essa inerenti, quando la pena inflitta è pari almeno ad un anno di arresto. Tale pena
accessoria può avere una durata compresa tra i 15 giorni e i 2 anni.
Sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese: Ha un contenuto
afflittivo identico alla interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Il
legislatore ha ritenuto opportuno far conseguire alla condanna all'arresto questa pena, in
considerazione del notevole disvalore penale di alcune contravvenzioni. Consegue ad ogni
condanna all'arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti all'ufficio e può avere una durata compresa tra 15 giorni e 2anni. 4. Pubblicazione della
sentenza penale di condanna. All'art 36 il codice penale prevede tale pena accessoria comune ai
delitti e alle contravvenzioni. Questa pena deve essere ordinata dal giudice e viene eseguita
mediante la pubblicazione, di regola per estratto e sempre una sola volta, della sentenza di
condanna in uno o più giornali stabiliti dal giudice, ed a spese del condannato. Consegue alla
condanna per delitti o contravvenzioni nei casi stabiliti dalla legge. La sentenza di condanna alla
pena dell'ergastolo, inoltre, è pubblicata mediante affissione nel comune ove è stata pronunciata,
in quello in cui fu commesso il delitto e in quello in cui il condannato aveva l'ultima residenza.
Problemi di costituzionalità di questa pena accessoria sono stati prospettati in dottrina, con
riferimento al principio di umanità di cui all'art 27 comma 3° della Costituzione.

5. LE PENE SOSTITUTIVE: GENERALITA’


Tra le più significative innovazioni introdotte dalla legge di Modifiche al sistema penale n. 689 del
1981 vanno annoverate le sanzioni sostitutive delle pene detentive di breve durata. Nell'attuale
momento storico prevale infatti il convincimento che le pene detentive di breve durata siano
inefficaci, desocializzanti e criminogene. Le sanzioni sostitutive previste nel nostro ordinamento
sono: la semidetenzione, la libertà controllata e la pena pecuniaria (multa o ammenda, secondo la
specie della pena detentiva sostituita). Quanto alla funzione specifica, sia la libertà controllata che
la semidetenzione che la pena pecuniaria esplicano efficacia soprattutto in termini di
intimidazione-ammonimento e di non desocializzazione: più che a una funzione di positivo
recupero sociale tendono, per un verso, a esercitare un'efficacia dissuasiva rispetto alla
commissione di futuri reati e, per altro verso, a evitare i tipici effetti desocializzanti della
carcerazione breve. La semidetenzione e la libertà controllata sono sanzioni autonome collocabili
sullo stesso piano delle pene principali. La multa e l'ammenda come sanzioni sostitutive non si
discostano invece dalle corrispondenti pene principali.

6. LE SINGOLE PENE SOSTITUTIVE


Semidetenzione: E' la misura sostitutiva della pena detentiva fino a 2 anni. Comporta: o l'obbligo
di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti penitenziari; o il divieto di detenere a qualsiasi
titolo armi, munizioni e esplosivi, anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; o la
sospensione della patente di guida, il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini
dell'espatrio di ogni altro documento equipollente; o l'obbligo di conservare e di presentare agli
organi di polizia l'ordinanza contenente le prescrizioni imposte. Ha contenuto parzialmente
analogo a quello della semilibertà.
Libertà controllata: E' la misura sostitutiva delle pene detentive fino a 1 anno. Comporta: o il
divieto di allontanarsi dal comune di residenza, salvo autorizzazione concessa di volta in volta e
solo per motivi di studio, lavoro, famiglia e salute; o l'obbligo di presentarsi almeno una volta al
giorno presso il locale ufficio di pubblica sicurezza o presso il comando dell'arma dei carabinieri
territorialmente competente; o il divieto di detenere a qualsiasi titolo armi, munizioni ed esplosivi,
anche se è stata concessa la relativa autorizzazione di polizia; o la sospensione della patente di
guida, il ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell'espatrio di ogni altro
documento equipollente; o l'obbligo di conservare e di presentare agli organi di polizia l'ordinanza
contenente le prescrizioni imposte.
Pena pecuniaria: E' la sanzione sostitutiva delle pene detentive fino a 6 mesi. Si presenta come
multa o ammenda, secondo la specie della pena detentiva sostituita. Il ragguaglio tra la pena
detentiva e le misure in esame varia a seconda del tipo di sanzione sostitutiva: 1 giorno di
detenzione equivale ad 1 giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà controllata o a 38,73 €
(75000 lire) di multa o di ammenda. Le sanzioni sostitutive si applicano in presenza di condizioni
oggettive (pena in concreto irrogata dal giudice e tipo di reato) e soggettive (precedente condanna
superiore a due anni, ecc) fissate dalla legge. L'applicazione delle sanzioni sostitutive è affidata
dalla legge al potere discrezionale del giudice. Possono essere applicate d'ufficio o su richiesta
dell'imputato (mediante l'istituto del patteggiamento). Esse possono essere revocate o convertite
in caso di inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato.

7. LE MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE


Rappresentano uno dei momenti più significativi nella prospettiva della traduzione in atto del principio del
finalismo rieducativo della pena, sancito dall'art 27 comma 3.

Oggi tali misure sono:

Affidamento in prova al servizio sociale: è la più importante delle misure alternative. Si ispira
all'istituto di origine anglosassone del probation, ma a differenza di questo che lascia il soggetto in
libertà con il rispetto di determinate prescrizioni e sotto il controllo e l'aiuto di personale
specializzato, l'affidamento in prova presuppone quasi sempre iniziata l'esecuzione della pena
detentiva. A causa della sua natura ibrida viene definito forma di probation penitenziario. L'art 47
dell'ordinamento penitenziario fissa la disciplina: il condannato a pena detentiva di massimo 3
anni può essere affidato al servizio sociale fuori dall'istituto per un periodo uguale a quello della
pena da scontare. Le prescrizioni imposte all'affidato costituiscono il contenuto della sanzione
alternativa. Secondo il sistema della legge, alcune di queste prescrizioni sono espressamente
previste, mentre altre sono genericamente indicate nelle loro direttive d'ordine generale. Esso è
revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate,
appaia incompatibile con la prosecuzione della prova: la revoca dunque non consegue ipso iure
alla commissione di un nuovo reato o alla trasgressione delle prescrizioni imposte, ma è necessaria
un'ulteriore valutazione in termini di incompatibilità con la continuazione della prova. L'esito
positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale, ma non le pene
accessorie né le obbligazioni civili derivanti da reato.
Affidamento in prova per tossicodipendenti e alcool dipendenti: Particolare ipotesi di affidamento
in prova al servizio sociale previsto in considerazione delle specifiche peculiarità legate allo stato di
dipendenza del condannato. Si applica su domanda dell'interessato che abbia in corso un
programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi e che deve scontare una condanna entro
il limite dei 4 anni. Mira a proseguire o a concordare l'attività terapeutica sulla base di un
programma stabilito con una unità sanitaria locale o con un ente privato, associazione o
cooperativa ad hoc previsti. Con tale misura si sono volute evitare le conseguenze negative
derivanti dall'interruzione del programma di attività terapeutica in corso, o dall'impedimento
dell'inizio del programma.
Detenzione domiciliare: Dal punto di vista della natura giuridica, più che una misura alternativa
alla detenzione in senso proprio costituisce una mera modalità di esecuzione della pena per talune
categorie di condannati nei confronti dei quali la sanzione penale normalmente eseguita non
svolgerebbe alcuna funzione risocializzante. Il tribunale di sorveglianza stabilisce le prescrizioni e le
modalità esecutive. Essa è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge e alle
prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione della misura. Una forma speciale di
detenzione domiciliare riguarda i soggetti affetti da HIV in fase di cura.
Semilibertà: Consiste in una parziale limitazione della libertà personale, alternata con un periodo
di libertà. L'art 48 dell'ordinamento penale afferma che la semilibertà consiste nella concessione al
condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad
attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Anche questa misura
rappresenta una modalità di esecuzione della detenzione, in quanto attenua lo stato di privazione
della libertà. Può essere concessa ab initio per le pene detentive brevi e anche per quelle di lunga
durata. Il tempo trascorso in semilibertà è sempre considerato come pena detentiva
effettivamente scontata. Essa può essere revocata se il soggetto si dimostra inidoneo al
trattamento o rimane assente dall'istituto senza giustificato motivo per un massimo di 12 ore (se
l'assenza si protrae invece per un tempo maggiore, viene considerata evasione e punita con la
reclusione).
Liberazione anticipate: L'art 54 dell'ordinamento penitenziario dispone che al condannato a pena
detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione è concessa, quale
riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una
detrazione di 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il
periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare. Questa progressiva
riduzione di pena persegue l'obiettivo di agevolare il trattamento penitenziario, incentivando la
partecipazione del detenuto con il prospettargli la concreta possibilità di una liberazione
anticipata: essa ha dunque un carattere premiale, e va considerata come un momento del
trattamento penitenziario, progressivo e individualizzato.
Permessi premio: Si concedono ai condannati che hanno tenuto regolare condotta (hanno
manifestato cioè senso di responsabilità e correttezza nella vita carceraria) e che non risultano
socialmente pericolosi, per consentire loro di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro.
L'esperienza dei permessi premio è parte integrante del programma di trattamento e deve essere
seguita dagli educatori e assistenti sociali penitenziari in collaborazione con gli operatori sociali del
territorio. La durata dei permessi non può essere superiore a 45 giorni in ciascun anno di
espiazione.
Art 4 bis dell'ordinamento penitenziario: Articolo introdotto nel 1991, realizza un doppio binario
tra i condannati per reati comuni e i condannati appartenenti alla criminalità organizzata o
eversiva, fatte salve le eccezioni per coloro che collaborano con la giustizia e, a certe condizioni,
per coloro nei confronti dei quali può escludersi in maniera sicura l'attuale esistenza di
collegamenti con la criminalità organizzata medesima. L'assegnazione al lavoro esterno, i permessi
premio e le misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la liberazione anticipata),
possono essere concessi ai detenuti per delitti commessi al fine di agevolare l'attività di
associazioni mafiose, solo nei casi in cui essi collaborino con la giustizia. Riguardo a detenuti per
delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, tali
benefici possono essere concessi solo se non ci sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di
collegamenti con la criminalità organizzata. Questa disciplina vuole costituire un forte deterrente
contro la pericolosità sociale di questi delinquenti, sollecitandoli all'uscita dall'associazione
criminale mediante incentivi premiali.

CAPITOLO 3. LA COMMISURAZIONE DELLA PENA


1. PREMESSA: IL POTERE DISCREZIONALE DEL GIUDICE
Sia le pene restrittive della libertà personale, sia le pene pecuniarie presentano un carattere
mobile perché vanno da un minimo o un massimo legislativamente predeterminati. La sanzione è
altresì prevista in forma alternativa, cioè applicabile una pena detentiva ovvero una pena
pecuniaria. Si definisce commisurazione della pena la determinazione della quantità di pena da
infliggere in concreto al reo tra il minimo e il massimo edittali; come pure, la scelta del tipo di
sanzione da applicare per il reato commesso. Si applica il criterio discrezionale: lo riconosce in
maniera esplicita l'articolo 132, comma 1°, il quale afferma che nei limiti fissati dalla legge il
giudice applica la pena discrezionalmente. Il legislatore però aggiunge che l'organo giudicante
deve indicare i motivi che giustificano l'uso di tale potere discrezionale. Il giudice deve valutare
ogni singolo episodio criminoso in modo concreto e ha il compito di valutare tutti gli aspetti del
fatto rilevante ai fini di un trattamento penale sufficientemente individualizzato. Sorge il problema
di stabilire se il potere discrezionale del giudice per la commisurazione della pena sia libero o
vincolato. È opinione dominante che si tratta di una discrezionalità vincolata. vincoli giuridici
vengono individuati: in primo luogo, nel quadro edittale della pena; In secondo luogo, nella
previsione esplicita degli indici di commisurazione della pena dell’ art. 133; In terzo luogo, nell’
obbligo di motivazione contemplato dallo stesso articolo 132. Occorre verificare in realtà il sistema
di discrezionalità vincolata: da un lato, sul piano della prassi applicativa, si registra una tendenza
giurisprudenziale a svilire l'obbligo della motivazione: sia nella determinazione in concreto delle
pene, nella congestione dei vari benefici, e nelle scelte sanzionatorie operate dei giudici di merito.
Dall'altro, l'articolo 133 soltanto apparentemente indica i criteri di commisurazione della pena
capace di vincolare il potere discrezionale del giudice. Si comprende allora come la crescente presa
di consapevolezza dell' insufficiente l'articolo 133 abbia di recente stimolato un ritorno di
interesse per il problema della commisurazione della pena. L'attribuzione al giudice di un potere di
scelta della misura concreta della sanzione risulta compatibile con il rispetto di legalità riferito non
solo al precetto penale ma anche alle conseguenze sanzionatorie. La stessa Corte costituzionale si
è spinta più oltre, affermando il principio della tendenziale illegittimità delle prese fisse :
l'individuazione della pena in rapporto alle specifiche esigenze del caso concreto costituisce la
naturale conseguenza tanto del principio di uguaglianza, quanto dei principi e della responsabilità
personale e della finalismo rieducativo.

2. CLASSIFICAZIONE SISTEMATICA DEI CRITERI DI COMMISURAZIONE


La dottrina più consapevole si è sforzata di sviluppare una sistematica dei criteri o indici di
commisurazione della pena. Vengono in considerazione i criteri finalistici: il giudice si trova a dover
sciogliere, cioè individuare dei fini da raggiungere mediante la irrogazione della pena. Ciò
nonostante può accadere spesso che,a seconda si privilegi rispettivamente la finalità di
prevenzione generale o speciale o retributiva: da qui l'esigenza di istituire una gerarchia tra diversi
scopi della pena, anche in vista del superamento delle eventuali antinomie riscontrabili nella fase
commisurativa. Il giudice deve preoccuparsi poi di selezionare le circostanze di fatto che assumono
rilevanza alla stregua dei criteri finalistici preventivamente individuati: tali circostanze sono
definibili criteri fattuali di commisurazione della pena. L'ultima fase sarà caratterizzata dalla
valutazione del rispettivo peso degli indici fattuali ai fini di un giudizio sulla complessiva gravità del
reato e di un corrispondente dosaggio della sanzione tra il massimo e il minimo di tali. Tali criteri
sono definibili criteri logici di commisurazione.

3. GLI INDICI DI COMMISURAZIONE PREVEDUTI DALL’ART133 C.P.: A) LA GRAVITA’


DEL REATO
I criteri di commisurazione della pena sono indicati dall' articolo 133, e vengono dallo stesso
legislatore differenziata a seconda che afferiscono alla gravità del reato o alla capacità delinquere
del colpevole. L'articolo 133, comma 1°, stabilisce: Nell’ esercizio del potere discrezionale indicato
nell’articolo precedente il giudice deve tener conto della gravità del reato desunta: dalla natura,
dalla specie, dai mezzi, dall’ oggetto, dal tempo, dal luogo ed ogni altra modalità dell'azione ; dalla
gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; Dalla intensità del dolo
polpa. Gli indici fattuali in considerazione riguardano la gravità del reato considerato nelle
rispettive componenti materiali e psicologiche. Il disvalore dell'azione può desumersi in via
analogica da quelle circostanze di fatto, che legislatore stesso valuta come aggravanti o attenuanti:
ad esempio l'avere maltrattato la vittima di una violenza carnale. La gravità del danno o del
pericolo si valuta assumendo a punto di riferimento l'offesa tipica intesa nell’ accezione
penalistica, e non già le conseguenze dannose in senso civilistico. È da osservare che il danno
concreto è più grave di quello astratto. L’intensità del dolo si misura considerando la forma in cui
esso si manifesta: la volontà colpevole appare di intensità maggiore nel dolo intenzionale e meno
grave nel dolo diretto e nel dolo eventuale. Per il grado della colpa occorre fare riferimento a
criteri quali il quantum rispetto di esigibilità della condotta doverosa. Il riferimento alla gravità del
reato va integrato con la valutazione della capacità delinquere, cioè di un indice ulteriore di
commisurazione che amplia lo spettro dei criteri fattuali e sulla cui portata si registrano in dottrina
opinioni divergenti.

4. SEGUE: B) LA CAPACITA’ A DELINQUERE


Il secondo comma dell'articolo 133 afferma che, nell’esercizio del potere discrezionale in sede di
commisurazione della pena il giudice deve tener conto anche della capacità delinquere del
colpevole desunta:

-dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

-dai precedenti penali e giudiziari e dalla condotta dalla vita del reo antecedenti al reato;

- dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

-dalle condizioni di vita individuale familiare sociale del reo.

La nozione di capacità a delinquere è ambigua: il primo comma rappresenta un segno manifesto


del compromesso raggiunto tra le opposte scuole di diritto penale, mentre il comma successivo
sembra tener conto delle istanze del positivismo criminologico, orientata a considerare l'
attitudine a delinquere ai fini di una prognosi di pericolosità sociale. Si comprende che l'articolo
133 si trova a metà strada tra le opposte teorie. Alcuni autori la capacità a delinquere la proiettano
nel passato, facendola consistere in una sorta di attitudine al reato commesso nel quadro del
giudizio di colpevolezza; Mentre altri intendono a proiettarla nel futuro, identificandola con l'
attitudine a commettere i nuovi fatti delittuosi. Ma va anche aggiunto che si rinvengono posizioni
ulteriormente differenziate; sul versante della proiezione nel passato, parte della dottrina si sforza
di riportare la capacità criminale sul terreno della colpevolezza in cui la personalità morale del reo
si esprime nel fatto commesso. Le opinioni divergono anche sul versante della proiezione nel
futuro. Mentre qualche autore è incline a identificare tout court capacità delinquere pericolosità
sociale, altri propongono una distinzione quantitativa tra i due concetti. Si registra un ulteriore
orientamento di fondo da individuare in una duplice funzione della capacità di delinquere: cioè
una funzione di graduazione della colpevolezza , sul presupposto che tanto più riprovevole è il
fatto, quanto maggiore è l’ attribuibilità morale del fatto stesso all'autore; ed una funzione per un
prognostica, diretta ad accertare la potenzialità criminosa del soggetto in una prospettiva di
prevenzione speciale. In mancanza di indicazioni univoche ricavati dall' articolo 133, si deve
costruire il significato della capacità delinquere mediante il richiamo di elementi esterni, che a loro
volta rimandano alle concezioni di fondo proprie di ciascun autore. Bisogna accennare i singoli
indici fattuali di capacità delinquere menzionate nel secondo comma dell'articolo 133.

A) Motivi a delinquere. Il motivo o movente viene comunemente definito come la causa psichica,
lo stimolo che induce l'individuo a delinquere. Si tratta di un’ inclinazione affettiva, cioè di un
impulso o di un istinto: la psicologia del profondo insegna che il motivo dell'azione può anche
essere inconscio perché ignoto allo stesso agente.

B) Carattere del reo. Gli psicologi tendono a concepire il carattere come il termine di transizione
tra i fattori endogeni (temperamento), ed esogeni (ambiente), che contribuiscono a integrare la
personalità. Quindi il carattere costituisce il risultato della lotta tra questi fattori. Come risultato di
questa tensione, di questa opposizione tra l'uomo e la realtà esterna, il carattere rappresenta una
struttura di autocontrollo: è uno strumento di orientamento dell’ individuo nella scelta tra le
diverse possibilità di azione. Si comprende quale ruolo generale assume il carattere come
elemento diagnostico della capacità criminale : l’ articolo 133 allude al carattere nell’ accezione più
lata, cioè comprensiva di tutte le componenti della personalità.

C) Vita e condotta del reo antecedenti al reato. La personalità di un individuo si ricostruisce


tenendo conto di tutti gli aspetti capaci di illustrarla. Tra questi elementi rientro non solo i
precedenti penali, come le condanne anteriormente riportate, e precedenti giudiziari,
provvedimenti di interdizione o inabilitazione, ma anche altri episodi, atteggiamenti inclinazioni
che possono costituire un significativo indice nel modo di essere comportarsi della persona,
esempio la carriera scolastica.

D) La condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato. Si tratta di indici significativi


proprio in ragione del loro rapporto di vicinanza con il reato commesso: ad esempio segno
particolare e riprovevole è mostrare cinismo e compiacimento durante la commissione del fatto
delittuoso.

E) Le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo. L'azione di questi elementi serve a
calcolare l'incidenza dell'ambiente esterno all'interno del processo criminogenetico. Se ci si pone
ad esempio nell'ottica della colpevolezza, una forte pressione esterna nella dinamica del fatto farà
apparire meno riprovevole l'autore. Mentre se ci si colloca nella diversa prospettiva della
pericolosità sociale, tanto più cresce il tasso di criminalità latente del soggetto, quanto più
determinanti risultano le influenze dell'ambiente, e viceversa.

5. AMBIGUITA’ E SUFFICIENZE DEL MODELLO DI DISCIPLINA CONTENUTO NELL’ART


133 C.P.
Gli indici di commisurazione presenti dall' articolo 133 sono suscettibili di interpretazione
polivalenti. Ciò lo si può notare anche nel rispetto alla gravità del reato: tale gravità può assumere
rilevanza non solo in un' ottica tradizionalmente retributiva orientata all' entità del danno e al
grado della colpevolezza, ma anche in una prospettiva di prevenzione generale e prevenzione
speciale. L' attitudine ad un' utilizzazione plurivalente diventa ancora più evidente sul terreno della
capacità a delinquere. Non è neppure chiaro in quale rapporto gerarchico stiano il primo e il
secondo comma dell'articolo 133, onde sorge il legittimo interrogativo: il principale criterio di
commisurazione è costituito dalla gravità del reato o dalla capacità delinquere o si impone un
contemperamento dei due diversi punti di vista? L’ equivocità della norma dipende dal fatto che
essa si limita a enunciare criteri fattuali di commisurazione, omettendo però di prender esplicita
posizione sui criteri finalistici che dovrebbero presiedere all' irrogazione concreta della sanzione.
La migliore riprova delle insufficienze dell'articolo 133 è fornita proprio dalla sua cattiva riuscita in
sede di applicazione giurisprudenziale. Le ragioni reali della scelta sanzionatoria rimangano
affiatate, in definitiva, all' intuito del giudice, quando non addirittura al suo incontrollabile
arbitrium. Tale orientamento però va incontro a limiti e a rischi: da un lato, l'intento pur
condivisibile di adeguare alla sensibilità dei nostri tempi l'impianto sanzionatorio del codice può
anche sfociare in una forma di poco controllate indulgenza; dall'altro, la tentazione della
supplenza rischia di far sposare una logica che collide con le specifiche esigenze della
commisurazione della pena.

6. ESIGENZA DI UNA RILETTURA COSTITUZIONALMENTE ORIENTATA DELL’ART 133


C.P.
Ci si lamenta sul fatto che il legislatore ha taciuto sugli scopi della pena nello stadio dell'
irrogazione della pena; per saperne di più è legittimo tornare a riprendere le mosse proprio dalle
enunciazioni costituzionale relativi alla materia penale.

A) L'articolo 27, comma uno, costituzione avendo riconosciuto il principio della responsabilità non
solo personale ma anche colpevole, riflette il sistema penale diretto alla valorizzazione dell'
intento soggettivo del reato. Da ciò derivano conseguenze ben precise sul piano
dell'interpretazione del 1° comma dell'articolo 133: tra gli indici della gravità del reato il giudice
dovrà considerare prevalente l'intensità del dolo o il grado della colpa , ma il peso attribuito alla
gravità del danno non può spingere all'organo giudicante a infliggere una pena superiore a quella
proporzionata al grado della colpevolezza. L'articolo 27, comma 1° riesce a illuminare il problema
della commisurazione della pena anche usata in diversa angolazione del divieto di responsabilità
per fatto altrui. Si tratta di scoraggiare l'eventuale valorizzazione giudiziale dell’ indice della gravità
del danno o del pericolo per far prevalere preoccupazione di prevenzione generale. La scelta di
irrogare pene esemplari finisce col cozzare col divieto di responsabilità per fatto altrui, perché
esaspera il ruolo di capro espiatorio del singolo delinquente: il reo viene infatti a scontare una
misura una pena di misura eccedente la sua colpevolezza in vista dell' esigenza di bandire la
reiterazione di fatti analoghi da parte di terzi soggetti.

B) Il 3° comma dell'articolo 27 costituzione afferma il fondamentale principio secondo cui le pene


devono tendere alla rieducazione del condannato. La necessaria operatività del principio di
rieducazione produce conseguenze sul piano dell'interpretazione del 2° comma dell'articolo 133;
l'esigenza di realizzare il finalismo rieducativo sollecita una ricostruzione della categoria della
capacità delinquere in chiave di prevenzione speciale. Lo stesso soddisfacimento di istanze di
risocializzazione del reo troverà pur sempre come limite il rispetto il principio del carattere
personale della responsabilità penale all'articolo 27 1° comma. Si comprende come le esigenze di
prevenzione speciale potranno rilevare soltanto in bonam partem: cioè il giudice potrà applicare
una pena meno elevata rispetto a quella che sarebbe giusto infliggere in base al grado della
colpevolezza, ogni qualvolta egli ritenga che ciò serve a facilitare il processo di reinserimento
sociale del reo. Il principale parametro di commisurazione della pena è offerto dal 1° comma
dell'articolo 133, che indica al giudice di stabilire il massimo edittale di pena entro i limiti della
colpevolezza relativa al fatto oggetto di giudizio. Mentre il 2° comma svolge un ruolo subordinato :
il giudizio sulla capacità delinquere può indurre il giudice a ridurre la pena al di sotto del limite
massimo segnato dalla gravità del fatto colpevole.

7. I TERMINI DELL’ATTUALE DIBATTITO TEORICO


Nell'ambito del dibattito teorico recentemente risvegliatosi nella nostra dottrina, la tesi che nega
alla prevenzione generale il ruolo di autonomo criterio finalistico di commisurazione della pena
non è unimamente condivisa. Parte la dottrina si preoccupa di sottolineare che, se si include la
prevenzione generale tra gli scopi principali della pena, coerenza imporrebbe di riconoscerle il
medesimo spazio nello stadio della sua concreta irrogazione. L' obiezione finirebbe col violare il
divieto di responsabilità per fatto altrui. La competenza del giudice gli farebbe pure difetto per
valutare le esigenze di risocializzazione del reo. In ogni caso, i giudici dovrebbero chiedersi
soltanto una conoscenza intuitiva, basata sull’ esperienza della vita giudiziaria. L'impostazione in
esame trascura che il soddisfacimento delle istanze di protezione generale spetta al legislatore: il
problema dell' impedimento della commissione dei reati, da parte dei cittadini in genere,
costituisce una questione di politica criminale e di politica sociale. In base al principio della
divisione dei poteri, ai giudici spetta soltanto di scegliere la pena adeguata al caso concreto
oggetto di giudizio. Ma, risulta avvalorata la credibilità della minaccia di pena contenuta nei
precetti penali astratti. A livello di prevenzione legislativa dell'entità della sanzione non ci si trova
di fronte ad alcun soggetto del giudicare, mentre lo stadio della commisurazione della pena
presuppone proprio un fatto già commesso. Ne consegue che la legittimazione della pena è nello
stato democratico subordinata all'impegno a ridurre al minimo la strumentalizzazione del reo in
vista dell’ unità generale: il giudice viene escluso dall' utilizzazione ad aggiungere le proprie
preoccupazioni generalpreventive a quelle avvertite dal legislatore nel fissare i limiti massimo e
minimo della sanzione. È lecito concludere che una conoscenza veramente intuitiva può essere di
assai minor aiuto che non ci si debba limitare a scegliere una pena potenzialmente rieducativa per
l'autore di un reato già commesso. Si trascura poi che l'efficacia di una simile operazione dipende
da una serie di condizioni empiriche di difficile verificazione e accertamento. Rimane da precisare
che quanti protendono per una irrogazione in chiave generalpreventiva della sanzione non per
questo escludono che il livello massimo della pena debba pur sempre orientarsi al grado della
colpevolezza. Finché la pena concretamente irrogata non fuoriesca comunque dai limiti massimi
della colpevolezza, l'eventuale irrigidimento di pena determinato da preoccupazioni
generalpreventive non presenterà proporzioni così macroscopiche da fare apparire la scelta
irrogativa come una vera e propria exemplary sentence. In tutte le divergenze è da condividere la
posizione di quegli autori che sollecitano una riforma dell’ attuale articolo 133, volta a recepire
criteri finalisti di commisurazione della pena di derivazione costituzionale. Anche se ciò non
dovesse bastare a risolvere una volta per tutte i problemi della commisurazione, si
introdurrebbero in ogni caso elementi di razionalizzazione idonei a consentire quantomeno un
maggiore controllo sulla prassi giudiziaria.

8. LA COMMISURAZIONE DELLA PENA PECUNIARIA (ART. 133 BIS C.P.)


L'articolo 133 bis, introdotto dalla legge numero 689/81 prende posizione esplicita su criteri di
commisurazione della pena pecuniaria. Tale articolo impone al primo comma, che nella
determinazione dell’ ammontare della multa o dell' ammenda il giudice deve tener conto, oltre
che dei criteri indicati nell’ articolo precedente, anche delle condizioni economiche del reo. Effetto
di tale disposizione è che le condizioni economiche del reo vengono incluse tra criteri di
commisurazione della pena pecuniaria già all'interno degli spazi edittali. Il giudice dovrà tenere
conto delle condizioni economiche del reo in aggiunta ai criteri indicati nell’ articolo 133. Ciò vuol
dire che il legislatore, tra i modelli di pena pecuniaria in astratto adottabile, continua a scegliere
quello più tradizionale cosiddetto della somma complessiva: nel quale gli indici di commisurazione
sono quelli generali della gravità del reato e della capacità delinquere. Sul piano
dell'interpretazione della formula normativa, grave lacuna è rappresentata dalla condizione che il
legislatore tace sugli indici di cui il giudice deve tener conto in sede di valutazione delle condizioni
economiche del condannato. Spetta dunque agli interpreti suggerire criteri di valutazione: è ovvio
che il giudice debba in primo luogo riferirsi al reddito dell'autore del reato al momento della
condanna. Più complesso è il discorso rispetto alla determinazione dell' incidenza del patrimonio
all'interno della situazione economica del reo. Parte della dottrina propone di tener conto soltanto
di beni patrimoniali il cui valore supera uno standard medio rispetto alla contingenza situazione
economico sociale. Dal computo delle disponibilità economiche dovranno essere sottratte le
obbligazioni pecuniarie gravante sul reo, come ad esempio gli obblighi di alimenti nei confronti di
familiari. L'accertamento del reddito non può che essere rimesso ai poteri d'indagine del giudice e
generici accertamenti della polizia giudiziaria: ma un ruolo rilevante deve essere attribuito alle
dichiarazioni fornite dallo stesso condannato. L'articolo 133 bis aggiunge che il giudice può
aumentare la multa e l'ammenda stabilita dalla legge sino al triplo o diminuirle sino a un terzo
quando, per le condizioni economiche del reo, ritenga che la misura massima sia inefficace o che la
misura minima sia eccessivamente gravosa. Va infine rilevato che non hanno effettiva ragion
d'essere i dubbi di costituzionalità, in relazione al principio di uguaglianza, che talora sono stati
manifestati nei confronti di una pena pecuniaria orientata secondo le condizioni economiche del
reo. Questo sistema di commisurazione rappresenta concreta attuazione: esso infatti realizza quel
trattamento differenziato dei distinti, che corrisponde al più autentico significato del principio
costituzionale di uguaglianza, articolo 3 costituzione.

9. POTERE DISCREZIONALE DEL GIUDICE NELLA SOSTITUZIONE DELLE PENE


DETENTIVE BREVI
La legge di modifica al sistema penale numero 689/81 ha esteso i limiti del potere discrezionale del
giudice, prevedendo nuove possibilità di sostituzione delle pene detentive brevi. L'articolo 58,
comma 1°, della legge citata dispone: il giudice, nei limiti fissati dalla legge tenuto conto dei criteri
indicati nell’ articolo 133, può sostituire la pena detentiva e tra le pene sostitutive sceglie quelle
più idonee al reinserimento sociale del condannato. Nel pronunciarsi sulla sostituzione, è stato
osservato che la sostituzione dovrebbe costituire l'ipotesi regolare, tenuto conto dei rigorosi limiti
esterni imposti alla sostituzione. Si tratta di un obiettivo troppo ambizioso rispetto alle reali
caratteristiche delle pene sostitutive, il cui effetto si manifesta soprattutto in forma di
ammonimento-intimidazione e non di socializzazione: il giudice dovrà pertanto accertare quale
sanzione sostitutiva sia più idonea ad ammonire e non a desocializzare il reo. Il 2° comma della
disposizione preclude all'ordine giudicante la possibilità di sostituire alla pena detentiva breve
quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato. L'ultimo comma
dell'articolo 58 obbliga il giudice indicare i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena irrogata.

10. POTERE DISCREZIONALE E MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE


Il nostro ordinamento concede spazio all' esercizio di potere discrezionale anche sul terreno
dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione introdotte dalla legge numero 354/75 e
successivamente dalla legge n. 663/86 prima, e poi dalla legge n. 165/1998. Rispetto
all'affidamento in prova servizio sociale, l'articolo 47, comma 2 ord. penit. stabilisce che il
provvedimento può essere disposto nei casi in cui possa presumersi che il provvedimento stesso
anche attraverso le prescrizioni contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del
pericolo che egli commetta altri reati. Poi l'articolo 50, comma 4 art. penit. dispone che
l'ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione progressi compiuti nel corso del
trattamento. Con riguardo all'istituto della liberazione anticipata, articolo 54, comma 1 ord. penit.
subordina la concessione del beneficio alle condizioni che il condannato a pena detentiva abbia
dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione. Per la concessione dei permessi premio,
articolo 54 comma 1. ord. penit. richiede che il magistrato di sorveglianza accerti che i condannati
abbiano tenuto regolare condotta e non risultano di particolare pericolosità sociale. Infine, articolo
47 ter ord. penit. indica le ipotesi in cui può farsi luogo alla concessione del beneficio della
detenzione domiciliare.

CAPITOLO 4: LE VICENDE DELLA PUNIBILITA’

1. CONDIZIONI OBIETTIVE DI PUNIBILITA’


In alcuni casi, il legislatore subordina la punibilità del fatto alla presenza di particolari condizioni,
che si aggiungono ai tipici elementi costitutivi essenziali del reato. In proposito l'art 44 afferma:
quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole
risponde del reato anche se l'evento da cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui
voluto (es. il legislatore fa dipendere la punibilità dell'ubriaco dalla circostanza che egli venga
sorpreso in stato di manifesta ubriachezza in un luogo pubblico). Le condizioni obiettive di
punibilità devono consistere in eventi futuri e incerti, concomitanti o successivi rispetto alla
condotta dell'agente (non anche antecedenti perché altrimenti si dovrebbe ammettere la
possibilità che la prescrizione del reato cominci a decorrere ancora prima della sua consumazione).
L'origine storica dell'istituto riflette la necessità di conciliare esigenze contrapposte. Da un lato,
esistono da sempre ragioni di convenienza pratica e opportunità politico-criminale, che inducono a
subordinare l'effettiva punibilità di alcuni tipi di comportamento al verificarsi di determinate
circostanze: procedere a una punizione incondizionata può infatti confliggere con la tutela di altri
interessi meritevoli di considerazione. Dall'altro lato, siffatte valutazioni di convenienza e
opportunità non possono più essere affidate al potere discrezionale del giudice: il principio di
legalità, e il connesso principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, impongono che sia lo stesso
legislatore a tipizzare in forma espressa le circostanze capaci di influenzare la scelta relativa alle
concrete applicazioni della pena. L'introduzione delle condizioni obiettive svolge dunque una
duplice funzione:

una funzione di delimitazione o riduzione della rilevanza penale di determinati comportamenti


(nel senso appunto di prevederne una punibilità non incondizionata, ma subordinata al verificarsi
di circostanze ulteriori);

una funzione di garanzia connessa al rispetto del principio di legalità. È questione


prevalentemente dogmatica, priva di conseguenze pratiche, stabilire se le condizioni di punibilità
rientrino tra gli elementi costitutivi del reato o presuppongano un reato già perfetto, rispetto al
quale rappresentano un quid di aggiuntivo o supplementare, ma ai fini della concreta punibilità del
fatto occorre pur sempre che la condizione di punibilità si verifichi. Inoltre, il momento in cui si
verifica la condizione, acquista rilevanza decisiva ai fini della decorrenza del termine di
prescrizione. Ciò premesso, si tratta di precisare la posizione delle condizioni obiettive di punibilità
rispetto alla struttura del fatto di reato. L'evento-condizione può in concreto anche essere lambito
dalla volontà del reo, ma l'esistenza di un tale nesso psichico non costituisce requisito
indispensabile ai fini della punibilità del fatto (infatti il legislatore afferma che il colpevole risponde
anche se l'evento che integra la condizione obiettiva non è da lui voluto): non di rado l'evento-
condizione consiste nel fatto di un terzo per cui sarebbe irragionevole pretendere che la volontà
dell'agente abbracci eventi che, proprio perché realizzati da altri, sfuggono al suo potere di
signoria. Escluso quindi che la condizione obiettiva debba costituire oggetto di volontà da parte
dell'agente, rimane da precisarne il rapporto con l'azione penalmente rilevante: in altri termini, ci
si deve chiedere se la condizione obiettiva di punibilità debba essere legata all'azione tipica da un
rapporto di causalità materiale. Se in linea di puro fatto nulla impedisce che la condizione obiettiva
di punibilità derivi causalmente dall'azione, non si può invece pretendere che il nesso causale
rappresenti sempre un requisito indefettibile. La condizione di punibilità risale in alcuni casi alla
condotta libera e consapevole di un terzo, la quale difficilmente si atteggia a diretta conseguenza
causale del comportamento dell'agente. Da queste premesse si ricava che le condizioni obiettive
di punibilità costituiscono avvenimenti incerti e futuri, che fanno sì parte della fattispecie astratta,
ma che sono estranei sia al fatto materiale, sia alla colpevolezza. Quanto ai criteri diagnostici da
utilizzare ai fini di un'individuazione della categoria in esame, non si può confidare troppo negli
indici di natura grammaticale (come le particelle se, qualora, sempre chè) che apparentemente
subordinano la punibilità di un fatto già descritto alla verificazione di una condizione ulteriore.
Bisogna fare ricorso ad un contemperamento di indici strutturali (relativi alla collocazione
dell'elemento in questione all'interno della fattispecie astratta) e di parametri sostanziali (relativi
alla determinazione dell'interesse tutelato dalla norma). Così, facendo applicazione di criteri di
tipo strutturale, dal novero delle condizioni obiettive di punibilità dovrebbero essere di regola
esclusi gli eventi legati da un rapporto di causalità necessaria con l'azione tipica, o da un rapporto
psicologico necessario con l'agente (proprio perchè abbiamo visto che tali rapporti possono anche
esserci, ma non sono necessari). Utilizzando come banco di prova indici di natura sostanziale,
dovrebbero escludersi dalle condizioni di punibilità (e dovrebbero quindi considerarsi elementi
costitutivi del fatto) quegli eventi nei quali si incentra l'offesa all'interesse protetto (è quindi da
escludere dalle condizioni obiettive di punibilità il "pericolo per l'incolumità pubblica" previsto
dall'art 423: la fattispecie di incendio di cosa propria, senza quel pericolo, non avrebbe alcun
contenuto offensivo, posto che rappresenterebbe una forma di esercizio di un diritto; ne consegue
che il pericolo per l'incolumità pubblica rappresenta necessariamente un elemento costitutivo del
fatto e non un elemento ad esso estraneo). Infine, quanto all'incidenza della condizione di
punibilità sul piano degli interessi tutelati, è fondamentalmente da condividere
quell'orientamento che inclina a distinguere le condizioni obiettive in intrinseche ed estrinseche.

Condizioni obiettive intrinseche: incidono sull'interesse protetto, nel senso di approfondire una
lesione già implicita nella commissione del fatto;

Condizioni obiettive estrinseche: nulla aggiungono alla lesione dell'interesse protetto dalla norma
incriminatrice, ma si limitano a riflettere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse
esterno al profilo offensivo del reato. Senza dubbio oggi l'istituto delle condizioni obiettive si
espone a riserve critiche. Se è vero che non di rado l'introduzione di una condizione obiettiva si
spiega con l'intento di superare le difficoltà di accertamento del dolo rispetto all'evento-
condizione, ciò deve indurre a riflettere sui limiti di compatibilità di una tale scelta legislativa con il
principio della responsabilità.

Vi è rischio che il ricorso alla categoria delle condizioni obiettive di punibilità rappresenti una sorta
di comodo alibi per sottrarre alla disciplina del dolo e della colpa elementi del fatto delittuoso. Il
problema della compatibilità tra le condizioni obiettive di punibilità e il principio di colpevolezza si
aggrava quanto più si tratta di eventi condizionanti che hanno la capacità di incidere sull'offesa
insita nel fatto tipico, approfondendola o aggravandola. In proposito la sentenza costituzionale n.
364 del 1988 ha sancito il fondamentale principio secondo cui la colpevolezza, almeno nella forma
minima della colpa, deve coprire tutti gli elementi significativi del fatto, cioè quelli da cui dipende il
disvalore dell'offesa tipica. Non possono sottrarsi dunque al principio di colpevolezza le condizioni
di punibilità intrinseche, quali accadimenti capaci di incidere sull'offesa insita nel fatto tipico, e il
principio di colpevolezza potrà considerarsi rispettato ove tali condizioni siano, sul piano
soggettivo, coperte quantomeno dalla colpa. Infatti, l'art 44, ammettendo che l'evento
condizionale possa essere anche non voluto, esclude solo che il dolo costituisca necessario
presupposto di imputazione dell'evento medesimo; ma nulla dice sulla colpa, e ciò non impedisce
che l'interprete ne richieda la presenza in una prospettiva di ricostruzione in chiave costituzionale
dell'istituto. Per rimuovere il contrasto tra le condizioni oggettive di punibilità e il principio di
colpevolezza si potrebbe percorrere un'altra strada più diretta, che consiste nel respingere come
infondata la distinzione tra condizioni intrinseche ed estrinseche, nel presupposto che tutte le
condizioni di punibilità soddisfano interessi esterni ed antagonistici rispetto al bene giuridico
sottostante al reato e, perciò, ininfluenti rispetto all'offesa tipica. All'interno di tale impostazione,
le condizioni obiettive mantengono la sola funzione di ridurre la rilevanza penale di fatti altrimenti
punibili, e di conseguenza, avvantaggiando il reo, non porrebbero alcun problema di imputazione
soggettiva: da qui la loro estraneità o indifferenza rispetto al principio di colpevolezza.

2. LE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO


Nel titolo VI del codice penale il legislatore disciplina il fenomeno "Della estinzione del reato e
della pena", fenomeno dovuto ad un insieme di cause tra loro eterogenee che riflettono ragioni
estranee o confliggenti rispetto alle esigenze di tutela penale del bene protetto e che hanno come
effetto comune di paralizzare la punibilità quale effetto tipico dell'illecito penale. Più precisamente
il codice distingue le cause di estinzione del reato dalle cause di estinzione della pena. Le prime
operano antecedentemente all'intervento di una sentenza definitiva di condanna e incidono sulla
punibilità astratta, estinguendo la stessa potestà statale di applicare la pena minacciata. Le
seconde presuppongono invece l'emanazione di una sentenza di condanna ed estinguono la
punibilità in concreto, paralizzando l'esecuzione della sanzione inflitta dal giudice. Parte della
dottrina rigetta il criterio di distinzione e finisce col riconoscere che sia le cause estintive del reato
che quelle della pena si limitano solo ad escludere effetti del reato, sono cioè solo cause di
esclusione o estinzione di effetti penali del reato: l'unica differenza consisterebbe nella più intensa
e profonda incidenza delle prime rispetto alle seconde su ciò che il reato normalmente comporta.
È improprio in realtà parlare di estinzione del reato, perché se si ha riguardo alla valutazione
giuridica, il reato estinto continua a produrre alcuni effetti anche dopo l'avvenuta estinzione (di
esso si tiene conto, ad esempio, ai fini della dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato).
Le cause di estinzione del reato vengono variamente classificate dalla dottrina sulla base di criteri
eterogenei:

esse possono essere generali se collocate nella parte generale del codice e perciò riferibili a tutti
o comunque ad un gran numero di reati; oppure speciali se applicabili a uno o più reati
determinati e previste in leggi speciali o nella parte speciale del codice;

possono essere condizionate (es. sospensione condizionale della pena) o incondizionate (es.
morte del reo prima della condanna) a seconda che tra i requisiti di applicabilità figurino o no
requisiti riconducibili alla volontà del soggetto;

altro criterio di accorpamento è quello che fa leva sull'individuazione di un fondamento


omogeneo: fatti naturali in cui è del tutto irrilevante la volontà umana, atto di clemenza,
comportamento dello stesso autore. Le regole comuni alle cause di estinzione possono così
enuclearsi:

hanno efficacia personale, nel senso che operano solo nei confronti della persona cui si
riferiscono, salvo che la legge disponga diversamente;

devono essere dichiarate immediatamente dal giudice in ogni stato e grado del processo, salvo sia
evidente il proscioglimento nel merito;

sottostanno al principio del favor rei nell'ipotesi di concorso tra più cause estintive, nel senso che
l'effetto estintivo del reato o della pena dovrà essere prodotto dalla causa comparativamente più
favorevole. Esse hanno natura sostanziale, e non più processuale (salvo la remissione della
querela, che infatti viene trattata in procedura penale).

3. LA MORTE DEL REO


L'art 150 dispone che la morte del reo, avvenuta prima della condanna, estingue il reato (tale
formula è poco felice posto che non è possibile, prima della condanna, parlare di reo). La morte
del reo produce i suoi effetti sui rapporti giuridici di cui è titolare il soggetto deceduto, dunque
estingue sia le pene principali, sia quelle accessorie ed ogni altro effetto penale mentre non tocca
le obbligazioni civili nascenti dal reato (risarcimento del danno) o quelle relative al pagamento
delle spese processuali e al mantenimento in carcere, le quali fanno naturalmente capo agli eredi.
E' controverso se la morte del soggetto prima della condanna definitiva renda applicabile la misura
della confisca:

la soluzione negativa si fonda sul mancato accertamento dell'esistenza del reato e quindi sulla
mancanza di una sentenza o di un decreto penale di condanna, che costituisce il normale
presupposto per l'applicazione di una misura di sicurezza;

ma la dottrina prevalente è orientata per la tesi che la morte del reo non impedisce l'adozione
della confisca, la quale esclude il ricorso all'art 210, che afferma la regola dell'inapplicabilità delle
misure di sicurezza a seguito del fenomeno estintivo. La morte del reo non esclude il
proscioglimento nel merito quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste o che l'imputato
non l'ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato;
non esclude neanche la possibilità per il giudice civile, in sede di accertamento incidentale del
fatto ai fini del risarcimento dei danni anche morali, di valutare autonomamente la fattispecie
accogliendo la pretesa risarcitoria. Nell'ipotesi di fondato dubbio sull'esistenza in vita
dell'imputato, il giudice deve sospendere il procedimento (es. dichiarazione di assenza)

5. L' AMNISTIA PROPRIA


L'amnistia è un provvedimento generale ed astratto, con il quale lo Stato rinuncia a punire un
determinato numero di reati. L'art 151 stabilisce che l'amnistia estingue il reato e, se vi è stata
condanna, fa cessare l'esecuzione della condanna e le pene accessorie. Il codice prevede una
disciplina unitaria per l'amnistia propria e per quella impropria, mentre sarebbe stata più
opportuna una regolamentazione separata: infatti la prima, che si verifica allorchè il
provvedimento di clemenza giunga prima della condanna definitiva, rappresenta una causa
estintiva del reato; mentre la seconda, che presuppone la condanna definitiva, è una causa di
estinzione della pena. Viene tradizionalmente considerata una causa di clemenza e giustificata, sul
piano dell'opportunità pubblica, dalla presenza di situazioni oggettivamente eccezionali e per certi
versi irripetibili (ad esempio viene usata per fronteggiare l'altissimo tasso di inflazione carceraria
rispetto alla capienza degli istituti penitenziari). Secondo l'originaria formulazione dell'art 79 Cost.
veniva concessa sulla base di una legge di delegazione del Parlamento, che il Presidente della
Repubblica successivamente ratificava (dunque fondamentalmente quest'ultimo non aveva potere
di ingerenza), in realtà vedremo come tale articolo sia stato riformato. L'uso frequente di questo
strumento fatto nel nostro Paese spiega l'atteggiamento di ostilità che nei suoi confronti è andato
sempre più diffondendosi sia nell'opinione pubblica che nell'ambito degli studiosi. Appaiono
frustrate la funzione intimidatrice e di deterrenza della pena e l'esigenza di rieducazione del reo, in
quanto il beneficio è fruibile senza che esso sia preceduto da una positiva prognosi circa le chances
di reinserimento sociale del beneficiario. In realtà dietro tale fenomeno si possono individuare
delle ragioni che attengono al sistema penale nel suo complesso: ad esempio il bisogno di amnistia
funge sia da surroga di mancata riforma, necessaria alla giustizia per adempiere alla sua funzione,
sia da forma di decriminalizzazione surrettizia, nel senso che equivale al riconoscimento della
sostanziale inoffensività dei reati amnistiati. L'amnistia può assolvere pure una funzione di
pacificazione sociale, necessaria in alcuni momenti della vita del paese perché, limitando l'efficacia
della legge penale dopo un periodo di gravi conflitti sociali, opera come strumento di
ricomposizione: in questo senso si può forse affermare che essa finisce con lo svolgere di fatto e
indirettamente anche una funzione di recupero sociale. La ragionevolezza di un provvedimento di
clemenza dipende dal rapporto strumentale che si instaura fra esso e le finalità proprie della
legislazione generale del settore cui si riferisce. Per reagire al disinvolto uso che se ne è fatto, è
stato riscritto l'art 79 Cost. con la legge costituzionale n. 1 del 1992. Esso al 1° comma dispone:
l'amnistia e l'indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti di
ciascuna camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale. In primo luogo si è superato il
problema teorico relativo ai limiti di discrezionalità da riconoscere al Capo dello Stato, infatti non
si fa più riferimento al decreto presidenziale di adozione, né ad alcuna legge di delegazione. Si
concentra tutta la titolarità del potere di concessione in capo al solo Parlamento, prevedendo però
quale garanzia per un uso ponderato, l'approvazione a maggioranza qualificata. In questo modo si
è soddisfatta l'esigenza di affidare alla dialettica delle forze parlamentari le delicate valutazioni di
opportunità politica. Al 2° comma si statuisce che: la legge di concessione dell'amnistia e
dell'indulto deve stabilire il termine di efficacia del provvedimento, cioè la data entro la quale i
reati devono essere stati commessi per poter usufruire dell'applicazione del beneficio. Questo
limite è fissato dall'art 79 Cost. nel momento della presentazione del relativo disegno di legge,
mentre l'art 151, con riferimento al "vecchio" art 79, limita gli effetti estintivi dell'amnistia ai reati
commessi sino al giorno precedente la data del decreto. Il canone del tempus commissi delicti, che
serve a determinare l'applicabilità dell'amnistia ad un determinato, singolo delitto, si atteggia
diversamente a seconda del tipo di reato preso in considerazione:

• reato consumato: sia esso di mera condotta o di evento, attivo o omissivo, si fa riferimento al
momento della realizzazione della condotta o della verificazione dell'evento o del mancato
compimento dell'azione dovuta;

• delitto tentato: si deve considerare il momento in cui si sono realizzati gli atti idonei
inequivocabilmente diretti a commettere il delitto;

• reato permanente: è controverso se debba prendersi in considerazione il momento in cui cessa


la permanenza o quello antecedente in cui il reo dà vita all'azione illecita;

• reato continuato: le singole violazioni di legge riacquisteranno la loro autonomia e quindi


avranno un proprio tempo, da individuare secondo la regola generale;

• reato sottoposto a condizione di punibilità: si fa riferimento al tempo di verificazione della


stessa. Nel caso in cui dovessero rimanere margini di incertezza, bisogna privilegiare il favor rei;

• concorso di reati: l'amnistia si applica ai singoli reati per i quali è concessa. Anche per l'amnistia
vale il principio che essa non si estende al reato complesso di cui il reato amnistiato rappresenta
elemento costitutivo o circostanza aggravante (così ad esempio, l'amnistia concessa per la violenza
privata non estinguerà il delitto di rapina). La legge che contiene l'atto di clemenza deve indicare i
reati amnistiati: vengono utilizzati a questo scopo diversi criteri di selezione, quali il numero
dell'articolo, il nomen juris o il tetto di pena entro il quale è concedibile il beneficio. Nel nostro
sistema, si è fatto uso in passato di tutti e tre i criteri congiuntamente (anche se quello del tetto
della pena può creare problemi per l'influenza che su di esso possono esercitare le circostanze
aggravanti e attenuanti). L'amnistia non è applicabile, salva diversa volontà legislativa, nel caso in
cui il soggetto autore del reato astrattamente ricompreso nel provvedimento sia stato dichiarato
dal giudice recidivo aggravato e reiterato oppure delinquente abituale, professionale o per
tendenza: tali dichiarazioni di delinquenza qualificata devono essere già definitivamente adottate
al tempo in cui l'amnistia entra in vigore. Va notato che l'art 151 limita la sua sfera di efficacia ai
delinquenti, con conseguente esclusione dei contravventori qualificati, per i quali l'amnistia è
applicabile. L'amnistia sia propria che impropria può essere subordinata a condizioni o a obblighi,
che in virtù del principio di legalità devono comunque essere espressamente previsti dalla legge.
L'amnistia è rinunciabile. In caso di rinuncia all'amnistia, il giudizio prosegue nelle forme regolari e
può sfociare sia in una pronuncia di condanna che di assoluzione.

6. LA PRESCRIZIONE
Al decorso del tempo l'ordinamento ricollega di solito effetti giuridici. Nel diritto penale il decorso
del tempo può avere effetti sia sul reato, sia sulla pena. La prescrizione del reato è una causa
estintiva costituita appunto dal decorso del tempo senza che alla commissione del reato segua una
sentenza di condanna irrevocabile. Con il decorso del tempo appare inutile e inopportuno
l'esercizio della stessa funzione repressiva, perché vengono a cadere le esigenze di prevenzione
generale che presiedono alla repressione dei reati: esse a poco a poco si affievoliscono fino a
spegnersi del tutto. Tuttavia, in una prospettiva di valorizzazione dei diritti fondamentali
dell'uomo, insieme con la necessità di garantire il diritto costituzionale alla difesa in giudizio (e
nello specifico il diritto ad ottenere il riconoscimento dell'innocenza), la Corte costituzionale ha
dichiarato l'illegittimità dell'art 157, nella parte in cui non consentiva la rinunciabilità della
prescrizione. Nell'attuale formulazione dunque, la prescrizione è sempre espressamente
rinunciabile dall'imputato. Per alcuni reati è in ogni caso stabilita l'imprescrittibilità: sono quelli per
cui è prevista la pena di morte e dell'ergastolo, e ciò in considerazione della loro gravità, del fatto
che più a lungo durano nel ricordo degli uomini e quindi non attenuano l'interesse statale alla loro
repressione. La disciplina giuridica della prescrizione è stata radicalmente riformata nel 2005: si è
voluta soddisfare l'esigenza di assicurare maggiore certezza nel calcolo del tempo dell'oblio,
rimediando all'inconveniente di far dipendere tale calcolo anche da una postuma valutazione
giudiziale ampiamente discrezionale. Il nuovo art 157:

comma 1°: per determinare il tempo necessario a prescrivere, abbandona il precedente criterio
delle classi di gravità dei reati individuate per fasce di pena e lo sostituisce con il nuovo criterio
della pena massima edittale di ciascun reato, ma contemporaneamente introduce una soglia
minima inderogabile di tempo di almeno 6 anni se si tratta di delitto e di almeno 4 anni se si tratta
di contravvenzione, ancorchè puniti con la sola pena pecuniaria.

commi 2° e 3°: allo scopo di rendere più certo ex ante il tempo necessario a prescrivere, elimina la
rilevanza della diminuzione di pena per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze
aggravanti. Con un'eccezione relativa alle aggravanti autonome a effetto speciale, ove si tiene
conto dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante.

comma 2°: detta una disciplina differenziata per i recidivi, stabilendo che ai fini del computo del
tempo necessario a prescrivere rilevano le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce
una pena diversa da quella ordinaria e quelle a effetto speciale e che si tiene conto dell'aumento
massimo di pena previsto. Dunque nei casi in cui la recidiva opera come circostanza aggravante,
con un aumento della pena superiore a 1/3, occorre calcolare ai fini della prescrizione anche
questo ulteriore aumento. Solo la recidiva semplice, per la quale si è mantenuto l'aumento di pena
fino a un terzo, sfugge a questo meccanismo di allungamento dei tempi prescrizionali.

comma 6°: prevede un raddoppio degli ordinari tempi di prescrizione per alcune tipologie di
illeciti penali espressamente indicati: o ipotesi di responsabilità colposa caratterizzate da
un'accentuata carica lesiva nei confronti di beni importanti quali la pubblica incolumità e la vita
(es. incendio colposo, oppure omicidio colposo commesso con violazione delle norme relative alla
circolazione stradale); o ipotesi delittuose che rientrano nel paradigma della criminalità
organizzata latamente inteso (es. associazione di tipo mafioso o finalizzata al traffico di
stupefacenti, tratta di persone, ecc). Su entrambe queste scelte legislative si sono espresse riserve
critiche: per un verso anche reati non tipici del crimine organizzato potrebbero giustificare
deroghe ai normali tempi prescrizionali, e per altro verso non si capisce perché un esito infausto
da colpa grave medica meriti un tempo di prescrizione inferiore rispetto all'evento morte frutto di
violazione delle norme stradali. Questo nuovo regime giuridico comporta termini prescrizionali di
regola più ridotti rispetto al passato per delitti di rilevante gravità (peculato, concussione,
bancarotta fraudolenta) o di media gravità punibili con una pena di massimo 5 anni (corruzione
propria). Ma esso contemporaneamente allunga i tempi prescrizionali per i delitti di minore gravità
e per le contravvenzioni. Sulla decorrenza del termine per la prescrizione (il cosiddetto dies a quo)
il codice stabilisce delle regole ben precise:

reato consumato: il termine decorre dal giorno della consumazione;

reato tentato: dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole;

reato permanente: dal giorno in cui è cessata la permanenza;

reato continuato: col nuovo art 158 è stato abrogato il riferimento al giorno in cui la
continuazione è cessata. Ad esso ora si applica la regolamentazione atomistica di un comune
concorso di reati. Se la punibilità del reato dipende dal verificarsi di una condizione, il termine
della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Se il reato è invece punibile
a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato.
In ogni caso il dies a quo non si computa nel termine. Il corso della prescrizione può essere
sospeso o interrotto. La sospensione è un effetto giuridico (che si verifica in presenza di alcune
cause ostative del procedimento penale) per il quale la decorrenza del termine della prescrizione
si arresta per il tempo necessario a rimuovere l'ostacolo, in modo che la porzione di tempo già
trascorsa rimanga valida e si possa sommare al periodo di tempo successivo decorrente dal giorno
della cessazione della causa sospensiva. La prescrizione rimane sospesa:

• nei casi di autorizzazione a procedere;

nelle ipotesi di questioni deferite ad altro giudizio;

nei casi di sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle
parti e dei difensori o su richiesta dell'imputato o del suo difensore. La prescrizione riprende il suo
corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. In caso di autorizzazione a procedere,
il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l'Autorità competente accoglie la richiesta. L'
interruzione è un effetto giuridico per il quale, in presenza di alcuni atti giuridici, il termine di
prescrizione già decorso viene meno e comincia a decorrere ex novo et ex integro.

La prescrizione viene interrotta dall'intervenire delle seguenti cause:

sentenza o decreto di condanna non irrevocabili (perchè se il provvedimento è passato in


giudicato, può prescriversi soltanto la pena);

ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida di fermo o dell'arresto;
interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice;

• invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l'interrogatorio;


• provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla
richiesta di archiviazione;

• richiesta di rinvio a giudizio;

• decreto di fissazione dell'udienza preliminare;

• ordinanza che dispone il giudizio abbreviato;

• decreto di fissazione dell'udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena;

• presentazione o citazione per il giudizio direttissimo;

• decreto che dispone il giudizio immediato;

• decreto che dispone il giudizio e decreto di citazione a giudizio. La prescrizione interrotta


comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione. La riforma del 2005 ha innovato in
ordine alla rideterminazione della misura del prolungamento del tempo necessario a prescrivere,
che l'interruzione comporta. La nuova disciplina è articolata sia in funzione di alcune tipologie di
reati, sia di alcune tipologie di rei. Si riduce rispetto al passato la durata della dilazione:
l'interruzione può comportare l'aumento massimo di 1 1 del tempo necessario a prescrivere.
L'effetto dilatorio tuttavia cresce sensibilmente se si tratta di autori recidivi: nel caso di recidiva
aggravata l'interruzione può determinare un aumento della metà del tempo prescrizionale; nel
caso di recidiva reiterata un aumento di 2/3; nel caso di abitualità o professionalità nel reato un
prolungamento del doppio. Questa disciplina conferma i precedenti rilievi critici circa la mancanza
di giustificazione in termini di razionalità politico-criminale del peso eccessivo accordato alla
recidiva nel fissare i tempi prescrizionali. Alle predette regole di fissazione del limite massimo di
aumento dei termini prescrizionali fanno però eccezione (per espressa volontà del legislatore della
riforma) i reati gravi indicati nell'art 51, commi 3° bis e 3° quater del codice di procedura penale
(terrorismo e casi particolari di associazione a delinquere), rispetto ai quali i normali termini di
prescrizione sono raddoppiati. Nell'ipotesi di concorso di più persone nel reato, la sospensione e
l'interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato.
Nell'ipotesi di concorso di reati, ciascuno di essi segue la sua strada indipendentemente da ogni
considerazione relativa agli altri, salvo che si proceda congiuntamente per più reati connessi: in
quest'ultimo caso la sospensione o l'interruzione della prescrizione per taluno di essi ha effetto
anche per gli altri.

6. L'OBLAZIONE DELLE CONTRAVVENZIONI


Il codice penale vigente prevede due forme di oblazione, la prima prevista originariamente dal
codice, la seconda introdotta nel 1981 con la legge di Modifiche al sistema penale.

• Oblazione comune: l'art 162 dispone che nelle contravvenzioni, per le quali la legge stabilisce la
sola pena dell'ammenda, il contravventore è ammesso a pagare, prima dell'apertura del
dibattimento, o prima del decreto di condanna, una somma corrispondente alla terza parte del
massimo della pena stabilita dalla legge per la contravvenzione commessa, oltre le spese del
procedimento. Il pagamento estingue il reato. Si individua tradizionalmente la ratio dell'istituto
nell'esigenza dello Stato di definire con economia e sollecitudine i procedimenti concernenti i reati
di minima importanza. Più controversa è la qualificazione dogmatica di questa forma di oblazione:
secondo un orientamento, essa determina la trasformazione o la riduzione dell'illecito penale in
illecito amministrativo; secondo un altro, essa costituisce una forma volontaria di esecuzione della
pena. Queste tesi però trascurano di considerare un dato rilevante, cioè che l'ordinamento
riconosce alla manifestazione di volontà del contravventore il potere di estinguere il reato: sembra
perciò più corretto considerare l'oblazione una causa estintiva. L'oblazione (giudiziale) di cui
stiamo parlando non va confusa né con l'oblazione in via amministrativa, che va eseguita presso
l'autorità amministrativa, né con l'oblazione in via breve prevista dal codice della strada e da
alcune leggi finanziarie. L'oblazione giudiziale si applica in presenza delle seguenti condizioni: o che
si tratti di contravvenzione per la quale la legge stabilisce la sola pena dell'ammenda di qualsiasi
ammontare; o che il contravventore presenti domanda di ammissione all'oblazione prima
dell'apertura del dibattimento o del decreto penale di condanna; o che il contravventore adempia
tempestivamente all'obbligo di pagamento assunto, obbligo che ammonta a 1/3 del massimo
dell'ammenda previsto dalla legge. In presenza di queste condizioni l'applicazione dell'oblazione è
automatica. L'oblazione equivale ad una depenalizzazione di fatto.

• Oblazione special: introdotta dall'art 162 bis, è da un lato prevista per le contravvenzioni punite
con la sola pena alternativa dell'arresto e dell'ammenda e, dall'altro, deve essere applicata
discrezionalmente dal giudice. Il campo di applicazione è molto ampio perché comprende reati tra
loro eterogenei. La somma di denaro, che il contravventore potrà essere ammesso a pagare, è pari
alla metà del massimo dell'ammenda prevista, oltre alle spese del procedimento. Presentata la
domanda di oblazione (che a differenza di quella relativa all'oblazione comune può essere
riproposta sino all'inizio della discussione finale del dibattimento di primo grado), il giudice potrà
ammettere il contravventore all'oblazione stessa se non ricorrono alcune ipotesi di esclusione, che
ricorrono se è contestata la recidiva reiterata o se è ritenuta l'abitualità nelle contravvenzioni o la
professionalità nel reato, o se permangono le conseguenze dannose o pericolose del reato,
nonché se il giudice ritenga il fatto grave. L'oblazione speciale, almeno nei casi di reati di una certa
gravità, si risolve in una depenalizzazione giudiziale, ossia in una depenalizzazione affidata al
personale gusto del giudice.

L'articolo 162-ter, introdotto nel codice penale dalla legge 23/6/2017 n.103, stabilisce che, nei
reati perseguibili a querela, il giudice dichiara l’estinzione del reato quando l'imputato ha riparato
interamente il danno con le restituzioni o il risarcimento e ha eliminato, ove possibile, le
conseguenze dannose o pericolose del reato. Questa causa di estinzione del reato, però,
è esclusa quando la querela non è soggetta a remissione, cioè è irrevocabile (come è previsto dalla
legge per i reati di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenne).L’imputato può -
personalmente o tramite il proprio difensore – chiedere che il reato sia dichiarato estinto, A
condizione che abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o
il risarcimento, ed abbia eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Di solito, tale condotta riparatoria induce il querelante a rimettere la querela (con conseguente
estinzione del reato: v. art.152 c.p.). La novità sostanziale introdotta con l'art. 162-ter c.p. sta nel
fatto che, anche se la persona offesa non ha rimesso la querela, il giudice dichiara estinto il reato
allorché riconosce che il danno da esso cagionato è stato interamente riparato dall'imputato. In
particolare, il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale
formulata dall'imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità
della somma offerta a tale titolo. La richiesta va presentata (entro il termine in seguito precisato)
al Giudice che procede. Se l’'imputato ha già riparato interamente il danno, chiederà al giudice di
riconoscerlo e dichiarare estinto il reato. E se ha fatto offerta reale di risarcimento, non accettata
dalla persona offesa, chiederà che il giudice anzitutto riconosca la congruità della somma offerta.
Quando ,invece, la riparazione non è ancora avvenuta, se l'imputato dimostra di non aver potuto
adempiere in tempo per fatto a lui non addebitabile, potrà chiedere al giudice la fissazione di un
termine per provvedere al pagamento di quanto dovuto a titolo di risarcimento. Il giudice sente le
parti e la persona offesa. Ma, anche se quest'ultima si oppone, il giudice potrà ritenere la
tempestività e congruità della condotta riparatoria e, quindi, dichiarare estinto il reato. Se
l'imputato dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il
termine della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, e chiede al giudice la
fissazione di un ulteriore termine (non superiore a sei mesi) per provvedere al pagamento, anche
in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento, il giudice, se accoglie la richiesta, ordina
la sospensione del processo e fissa la successiva udienza alla scadenza del termine stabilito e
comunque non oltre novanta giorni dalla predetta scadenza, imponendo specifiche prescrizioni.
Per le cause antecedenti alla data del 03/08/2017 il giudice - oltre a tener conto (come si dirà)
anche delle condotte riparatorie compiute dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento di
primo grado nella prima udienza successiva al 03/08/2017 decide sull'eventuale richiesta
dell'imputato di fissazione di un termine per provvedere alle restituzioni e ai pagamenti. Tale
termine non sarà superiore a 60 giorni. Tuttavia, se l'imputato dimostra di non poter adempiere,
per fatto a lui non addebitabile, nel termine di 60 giorni, il giudice potrà fissare un ulteriore
termine, non superiore a sei mesi, e potrà ammettere che il pagamento avvenga in forma rateale.
In tutti i casi in cui concede il termine, il giudice ordina la sospensione del processo, con
conseguente sospensione del corso della prescrizione. All'esito positivo delle condotte riparatorie,
il giudice dichiara l'estinzione del reato. Pertanto, l'imputato sarà esente da pene (principali o
accessorie), effetti penali e misure di sicurezza – ad eccezione della confisca, nei casi in cui l'art. La
riparazione integrale del danno deve essere fatta entro il termine massimo del dibattito in primo
grado. Tuttavia, per i processi in corso alla data del 03/08/2017 (giorno di entrata in vigore della
citata legge n.103 del 2017):

il giudice dichiara l'estinzione anche quando le condotte riparatorie siano state compiute oltre il
termine su indicato;

l'imputato, in qualunque grado si trovi il processo (tranne quello davanti alla Corte di cassazione),
nella prima udienza successiva alla data del 03/08/2017 può chiedere la fissazione di un termine,
non superiore a sessanta giorni, per provvedere alle restituzioni, al pagamento di quanto dovuto a
titolo di risarcimento e all'eliminazione, ove possibile, delle conseguenze dannose o pericolose del
reato;

nella stessa udienza l'imputato, qualora dimostri di non poter adempiere, per fatto a lui non
addebitabile, nel termine di 60 giorni, può chiedere al giudice di fissare un ulteriore termine, non
superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a
titolo di risarcimento. L’ art 40, comma 2, c.p. la prevede obbligatoria.
7. LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA

Tra le cause di estinzione del reato una posizione molto importante assume la sospensione
condizionale della pena. In realtà, per certi versi essa va annoverata tra le misure sospensive,
mentre per altri versi è un fenomeno tipicamente estintivo. Nell'ordinamento italiano, la
sospensione condizionale ha subito un processo di snaturamento che l'ha trasformata in una
misura clemenziale applicata automaticamente dal giudice, con la conseguenza di provocare un
fenomeno di inammissibile fuga dalla sanzione. Essa fu introdotta in Italia per soddisfare l'esigenza
di sottrarre all'ambiente deleterio e pericoloso del carcere, e recuperare imputati ancora
emendabili con l'aiuto e l'assistenza di tutori. A seguito degli interventi riformatori, non si può più
affermare che la sospensione condizionale costituisca un mezzo di lotta alle pene detentive brevi
(come avveniva in origine secondo la formulazione originaria): essa piuttosto svolge una generica
funzione di prevenzione speciale fondata sulla presunzione di sufficienza della sola pronuncia di
condanna e sulla minaccia della sua futura esecuzione. La legge n. 145 del 2004 ha introdotto 2
deroghe alla disciplina:

• la prima rende virtuale il cumulo tra pena detentiva e pena pecuniaria ai fini del calcolo del
requisito del limite massimo di pena sospendibile, nell'ipotesi in cui a seguito della conversione di
pena pecuniaria sia superata la soglia massima di concedibilità del beneficio, con l'evidente finalità
di incentivare il ricorso al patteggiamento allargato;

• la seconda accorcia rilevantemente il tempo necessario all'estinzione del reato, nell'ipotesi di


pena sospesa inferiore ad un anno e di contestuale adempimento degli obblighi latu sensu
risarcitori.

I presupposti di applicazione della sospensione condizionale ordinaria della pena sono due:

• una sentenza di condanna a pena detentiva, o a pena pecuniaria che, sola o congiunta a pena
detentiva, non superi un determinato limite;

• una prognosi favorevole sulla personalità del condannato. Il limite oggettivo di pena è stato
elevato con riforma del '74: la pena detentiva o quella pecuniaria, da sola o congiunta a pena
detentiva (e ragguagliata ex art 135), non può essere superiore a due anni. Se si tratta di minore di
18 anni il limite è di 3 anni. Se si tratta di giovani adulti (maggiorenni di età compresa tra i 18 e i 21
anni) o di ultrasettantenni, il limite è di 2 anni e 6 mesi. Se la pena concretamente inflitta non
supera tali limiti, il giudice concederà la sospensione condizionale della pena qualora, avuto
riguardo alle circostanze indicate nell'art 133, presuma che il colpevole si asterrà dal commettere
ulteriori reati. Questo presupposto viene nella pratica deplorevolmente obliato. Eppure esso
esprime l'essenza stessa dell'istituto: il giudizio di non pericolosità del condannato infatti consente
di considerare, ai fini della prevenzione speciale, sufficiente la sola sentenza di condanna e non
anche la sua esecuzione. La prima deroga prevista dal nuovo art 163 permette la concessione della
sospensione condizionale nell'ipotesi in cui i limiti massimi di pena siano superati per effetto della
conversione della pena pecuniaria: essa sterilizza ai fini della concessione del beneficio la
conversione della pena pecuniaria, se la pena detentiva rimane nei rispettivi limiti previsti dalla
legge. La conversione resta un dato virtuale che non paralizza la concessione della sospensione
condizionale, se la pena detentiva non supera i 2 anni per i delinquenti normali, i 2 anni e 6 mesi
per i giovani adulti e gli ultrasettantenni, i 3 anni per i minori di 18anni. La seconda deroga prevista
dal nuovo art 163, concerne l'ipotesi in cui il giudice applichi una pena detentiva non superiore a 1
anno e il colpevole adempia gli obblighi risarcitori: essa riduce sensibilmente il tempo necessario a
produrre l'effetto estintivo del reato da 5 anni a 1 anno. La sospensione condizionale non può
tuttavia essere concessa in presenza di alcune condizioni ostative. L'art 164 comma 2, stabilisce
che essa non può essere concessa:

• a chi ha riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta
la riabilitazione;

• al delinquente o contravventore abituale;

• a delinquenti o contravventori professionali;

• a colui il quale è stata inflitta, in aggiunta alla pena, una misura di sicurezza personale perché
persona che la legge presume socialmente pericolosa. Il giudice può subordinare la concessione
della sospensione condizionale all'adempimento, nel termine fissato in sentenza, dell'obbligo delle
restituzioni, al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno e
provvisoriamente assegnata sull'ammontare di esso e alla pubblicazione della sentenza a titolo di
riparazione del danno; nonché salvo che la legge disponga altrimenti, all'eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella
sentenza di condanna. La legge 145 del 2004 ha allargato la gamma degli obblighi includendovi
anche la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato,
comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice
nella sentenza di condanna. A condizione tuttavia che il condannato non faccia opposizione. Le
modifiche legislative hanno reso possibile la concessione della sospensione condizionale a chi ne
abbia già usufruito una volta. La seconda concessione del beneficio ricorre nell'ipotesi in cui il
giudice, nell'infliggere una nuova condanna, irroghi una pena che, cumulata con la precedente
condanna per delitto, non superi i limiti oggettivi. La seconda concessione deve essere
subordinata, salvo che sia impossibile, all'adempimento di almeno uno degli obblighi risarcitori. La
sospensione condizionale è revocata di diritto se, nei termini durante i quali la condanna rimane
sospesa, il condannato:

• commetta un delitto o una contravvenzione della stessa indole, per cui venga inflitta una pena
detentiva, o non adempia agli obblighi impostogli;

• riporti un'altra condanna per un delitto anteriormente commesso a pene che, cumulate a quelle
precedentemente sospese, superino i limiti stabiliti dall'art 163. La sospensione condizionale può
essere revocata dal giudice se il condannato riporta un'altra condanna per delitto anteriormente
commesso a pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, non superi i limiti stabiliti
dall'art 163, avuto riguardo all'indole e alla gravità del reato.
Quanto agli effetti, la concessione della sospensione condizionale sospende la pena principale per
il periodo di 5 anni, se la condanna è per delitto; e di 2 anni, se la condanna è per contravvenzione.
Se nei termini stabiliti il condannato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa
indole e adempie agli obblighi imposti, il reato è estinto. L'effetto estintivo concerne la pena,
mentre cessa l'esecuzione delle pene accessorie. Restano però in vita gli effetti penali della
condanna. Sono sospendibili condizionalmente anche le pene accessorie.

8. SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA


Sospensione del processo con messa alla prova: viene disposta dal giudice quando ritiene di dover
valutare la personalità del minorenne all'esito di una prova, nel corso della quale il minore viene
affidato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in
collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.
Si persegue così l'obiettivo di consentire la formulazione di un serio giudizio prognostico sul
reinserimento sociale del minore a seguito dell'avvenuta interiorizzazione di modelli di
comportamento socialmente apprezzabili. Il giudizio prognostico rappresenta a sua volta l'esito di
una complessa valutazione che si fonda sull'esame della personalità del minore, sulla condotta di
vita precedente, contemporanea e successiva al reato, sulle modalità del fatto criminoso, sui
motivi a delinquere e su ogni altra circostanza idonea a fornire indicazioni sullo sviluppo delle sue
strutture psichiche e comportamentali; devono essere inoltre tenute in considerazione le
indicazioni specifiche, eventualmente impartite dal giudice col provvedimento di sospensione, che
mirano a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la
vittima del reato. All'accertamento dell'esito positivo della prova segue la dichiarazione giudiziale
di estinzione del reato.

9. IL PERDONO GIUDIZIALE ED ALTRI ISTITUTI MINORILI


Spiccate esigenze di prevenzione speciale giustificano l'istituto del perdono giudiziale per i
minorenni, disciplinato dall'art 169 del codice penale. La tutela della personalità morale del
minore è uno dei compiti più importanti dello Stato e si traduce nella necessità di evitare al
minore, delinquente primario, impatti deleteri per il suo sviluppo e la sua formazione futura. La
rinuncia all'applicazione della pena impedisce che il minore venga subito stigmatizzato come
deviante e rende più agevole il suo ravvedimento in una condizione di incensuratezza. I
presupposti di applicazione del perdono giudiziale sono:

• che il colpevole, al tempo della commissione del reato, non abbia compiuto i 18, ma abbia
compiuto i 14 anni;

• che non sia stato già condannato a pena detentiva per delitto, anche se è intervenuta
riabilitazione, né che sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale o professionale;
• che il tribunale dei minorenni ritenga di poter applicare in concreto una pena detentiva non
superiore a 2 anni, o una pena pecuniaria non superiore a 1549,37 € anche se congiunta a detta
pena;

• che il giudice presuma che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.

La concessione di tale beneficio presuppone l'accertamento del fatto e della responsabilità del
minore: sebbene la sentenza che applica il perdono giudiziale sia una sentenza di proscioglimento,
si tratta pur sempre di una sentenza che ha accertato la presenza di tutte le condizioni necessarie
per un rinvio a giudizio o per una condanna. La concessione del perdono giudiziale è possibile non
solo quando il minore abbia commesso un reato, ma anche qualora abbia commesso più reati,
legati o no dal vincolo della continuazione. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato
l'illegittimità dell'art 169, sia nella parte in cui non consentiva che potesse estendersi il perdono ad
altri reati che si legano con il vincolo della continuazione a quelli per i quali è stato concesso, sia
nella parte in cui escludeva che potesse concedersi un nuovo perdono in caso di reato commesso
anteriormente alla prima sentenza di perdono e di pena che, cumulata con quella precedente, non
superava i limiti per l'applicabilità del beneficio. Per quanto riguarda gli effetti, con il passaggio in
giudicato della sentenza che concede il perdono giudiziale, il reato è estinto. La concessione del
perdono è sempre incondizionata ed irrevocabile. La concessione del perdono impedisce
l'applicazione delle misure di sicurezza, ad eccezione della confisca obbligatoria. Con la legge di
riforma del processo penale minorile (448/1988) sono stati introdotti due nuovi istituti:

• Non luogo a procedere per irrilevanza del fatto: se nell'ambito delle indagini preliminari risulta la
tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il pm, quando ritenga che l'ulteriore corso
del procedimento pregiudichi le esigenze educative del minorenne, è tenuto a richiedere
all'organo giudicante sentenza di non luogo a procedere. Se la richiesta viene accolta, per il fatto
commesso dal minore non si procede. Il nuovo istituto opera in presenza di tre condizioni, due
oggettive e concorrenti, e una soggettiva: o tenuità del fatto (oggettiva): sia nel senso di fatto
meramente materiale che in quello di fatto di reato, come tale comprensivo anche
dell'atteggiamento psicologico; o occasionalità del comportamento (oggettiva): fa riferimento alla
genesi del comportamento medesimo che deve apparire come il frutto di particolari e
momentanee condizioni psicologiche del minore e non come il risultato di un progetto (ciò
significa che l'occasionalità può essere ritenuta anche nei confronti dei minori recidivi); o
pregiudizio educativo derivante dall'ulteriore corso del processo (soggettiva): condizione di natura
squisitamente psicologico-pedagogica. La ricostruzione di tale requisito è affidata sostanzialmente
alla discrezionalità del giudice.

• Sospensione del processo con messa alla prova: viene disposta dal giudice quando ritiene di
dover valutare la personalità del minorenne all'esito di una prova, nel corso della quale il minore
viene affidato ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia per lo svolgimento, anche in
collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.
Si persegue così l'obiettivo di consentire la formulazione di un serio giudizio prognostico sul
reinserimento sociale del minore a seguito dell'avvenuta interiorizzazione di modelli di
comportamento socialmente apprezzabili. Il giudizio prognostico rappresenta a sua volta l'esito di
una complessa valutazione che si fonda sull'esame della personalità del minore, sulla condotta di
vita precedente, contemporanea e successiva al reato, sulle modalità del fatto criminoso, sui
motivi a delinquere e su ogni altra circostanza idonea a fornire indicazioni sullo sviluppo delle sue
strutture psichiche e comportamentali; devono essere inoltre tenute in considerazione le
indicazioni specifiche, eventualmente impartite dal giudice col provvedimento di sospensione, che
mirano a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la
vittima del reato. All'accertamento dell'esito positivo della prova segue la dichiarazione giudiziale
di estinzione del reato.

10. LE CAUSE DI ESTINZIONE DELLA PENA


Secondo un tradizionale criterio di distinzione già riferito, mentre le cause di estinzione del reato
incidono direttamente sul potere punitivo dello Stato, le cause di estinzione della pena operano
invece soltanto sulla pena concretamente inflitta al soggetto con una sentenza di condanna. Esse
infatti presuppongono l'emanazione di una sentenza irrevocabile di condanna ed estinguono la
punibilità in concreto, paralizzando l'esecuzione della sanzione inflitta dal giudice. Non
aggrediscono il reato nella sua intera dimensione giuridica, il quale anzi continua a produrre tutti
gli effetti che ancora può esplicare. Oltre alle cause di estinzione della pena che stanno per essere
elencate, effetto estintivo della pena hanno pure le misure alternative alla detenzione nonché il
patteggiamento.

11. MORTE DEL REO DOPO LA CONDANNA


Questa causa di estinzione della pena è prevista dall'art 171: la morte del reo, avvenuta dopo la
condanna, estingue la pena. Vengono estinte le pene detentive, pecuniarie, accessorie, tutti gli
effetti penali della condanna, le misure di sicurezza detentive e le obbligazioni civili per il
pagamento dell'ammenda e della multa. Non vengono meno però le obbligazioni civili nascenti dal
reato (risarcimento) né la confisca.

12. L’AMNISTIA IMPROPRIA


L'amnistia impropria è regolata dall'art 151: l'amnistia, se vi è stata condanna, fa cessare
l'esecuzione della condanna e le pene accessorie. A differenza dell'amnistia propria, questa forma
diamnistia presuppone una sentenza di condanna definitiva e irrevocabile, passata cioè in
giudicato, e ovviamente riguarda solo i reati commessi antecedentemente alla presentazione del
disegno di legge. L'amnistia impropria fa cessare l'esecuzione delle pene principali (detentive o
pecuniarie), delle pene accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla confisca. Permangono
tutti gli altri effetti della condanna (ad es. si tiene conto della condanna estinta agli effetti della
recidiva, dell'abitualità, della professionalità, ecc).
13. LA PRESCRIZIONE DELLA PENA
Il decorso del tempo influisce non solo sul reato, ma anche sulla pena inflitta con la sentenza
passata in giudicato. La ratio dell'istituto della prescrizione della pena è identica a quella della
prescrizione del reato: viene meno l'interesse della collettività a far scontare a un condannato la
pena inflittagli quando è trascorso un lungo periodo di tempo dal momento del passaggio in
giudicato della sentenza, perchè l'oblio copre ogni cosa.

• Estinzione della pena della reclusione: avviene con il decorso di un termine pari al doppio della
pena inflitta con il provvedimento di condanna. Se però si tratta di reclusione il cui raddoppio
equivale a un tempo inferiore a 10 anni, l'estinzione avviene in 10 anni. Se invece il doppio supera i
30 anni, l'estinzione avviene alla scadenza dei 30 anni.

• Estinzione della multa: avviene in 10 anni. Se congiuntamente alla reclusione è inflitta la multa,
per l'estinzione dell'una e dell'altra si ha riguardo esclusivamente al decorso del tempo necessario
per la maturazione dell'estinzione della reclusione.

• Estinzione dell'arresto e dell'ammenda: avviene in 5 anni. Se sono inflitte insieme si ha riguardo


al decorso del termine per l'arresto.

• Estinzione nel caso di concorso di reati: si ha riguardo a ciascuno di essi, anche se le pene sono
state inflitte con la medesima sentenza di condanna. Il dies a quo del termine di estinzione decorre
dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile o dal giorno in cui il condannato si è sottratto
volontariamente all'esecuzione già iniziata della pena. Il decorso del tempo estingue anche le
misure di sicurezza ad eccezione della confisca e di quelle ordinate come misure accessorie di una
condanna alla reclusione per un tempo superiore ai 10 anni. Non estingue invece l'ergastolo, le
pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna. L'estinzione della pena della reclusione e
della multa non ha luogo se si tratta di recidivi o di delinquenti abituali, professionali o per
tendenza, o se il condannato durante il tempo necessario per l'estinzione della pena riporta una
condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole. La prescrizione è rinunciabile.

14. L’INDULTO
L' indulto è un provvedimento di carattere generale, espressione di un potere di clemenza, che
condona in tutto o in parte la pena, o la commuta in una pena di specie diversa ma dello stesso
genere. Anche l'indulto viene concesso con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti
di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale e si riferisce ai reati commessi
antecedentemente alla presentazione del disegno di legge. Si distingue:

• indulto proprio: quando il condono interviene nella fase esecutiva rispetto ad una sentenza
irrevocabile di condanna;
• indulto improprio: se è applicato al momento della sentenza dal giudice della cognizione. Limita
i suoi effetti alle pene principali, e non estingue né le pene accessorie né gli effetti penali della
condanna, salvo che il decreto disponga altrimenti. Se l'indulto si limita a condonare o a
commutare la pena, non fa cessare le misure di sicurezza. Se invece condona completamente la
pena inflitta con la sentenza di condanna, fa cessare di diritto l'esecuzione delle misure di
sicurezza conseguenti ad una condanna alla reclusione per un tempo superiore a 10 anni, o
l'esecuzione della confisca. Nessun limite oggettivo è previsto dalla legge per l'applicabilità
dell'indulto, anche se di solito il condono è limitato ad una determinata quantità di pena, sia
detentiva che pecuniaria: entro questi limiti esso si applica alla sentenza di condanna per qualsiasi
tipo di reato. La legge di concessione prevede però spesso per determinati reati l'esclusione
dell'indulto o una misura di pena diversa ed inferiore a quella generalmente prevista. La legge può
altresì stabilire limiti soggettivi differenti, per coloro che per la medesima condanna hanno goduto
o possono godere di precedenti indulti. Esso può essere sottoposto a condizioni o obblighi, e non
può essere applicato ai recidivi nei casi di recidiva aggravata o reiterata, né ai delinquenti abituali,
professionali o per tendenza, salvo che sia disposto diversamente.

15. LA GRAZIA
La grazia, tipica espressione dell'indulgentia principis, condona in tutto o in parte la pena inflitta, o
la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo
che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna. È un
provvedimento di esclusiva prerogativa del Presidente della Repubblica e non necessita di leggi di
concessione. Le caratteristiche essenziali dell'istituto consistono:

• nel fatto che l'organo competente ad emettere il relativo provvedimento è solo il Presidente;

• nella natura stessa del provvedimento, che ha un contenuto non generale ma particolare in
quanto si riferisce ad un singolo rapporto esecutivo relativo a una o più condanne a carico di uno
stesso imputato. La grazia presuppone l'esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna. In
ordine agli effetti, essa è caratterizzata dalla mancanza di una loro predeterminazione normativa.

Può estinguere in tutto o in parte la pena principale: la maggiore o minore ampiezza di effetti
dipende dalla valutazione discrezionale dell'organo competente a concederla. Può essere
sottoposta a condizioni (es. risarcimento dei danni entro un certo periodo di tempo). Ragioni che
giustificano la sua concessione sono le esigenze di equità e di giustizia del caso concreto, ma anche
sua attitudine a fungere da strumento di attuazione delle finalità proprie della pena. La grazia
infatti permette di interrompere l'esecuzione della pena quando si è già compiuta la
risocializzazione del condannato, svolgendo così una funzione parallela a quella della liberazione
condizionale, nonché di tener conto di particolari situazioni processuali e familiari del condannato,
o di porre rimedio ad eventuali errori giudiziari non altrimenti riparabili.
16. LA LIBERAZIONE CONDIZIONALE
Il nuovo testo dell'art 176 dispone che il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di
esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale, se ha scontato almeno 30 mesi e
comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i 5 anni.
Se si tratta di recidivo, il condannato, per essere ammesso alla liberazione condizionale, deve aver
scontato almeno 4 anni di pena e non meno di % della pena inflittagli. Il condannato all'ergastolo
può essere ammesso alla liberazione quando abbia scontato almeno 26 anni di pena. La
concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili
derivanti dal reato (es. risarcimento danni), salvo che il condannato dimostri di trovarsi
nell'impossibilità di adempierle. I presupposti di applicazione dell'istituto sono:

• che il condannato abbia scontato un minimo di pena;

• che la pena residua non superi i 5 anni;

• che il condannato abbia tenuto, durante il tempo dell'esecuzione della pena, un


comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento;

•che abbia adempiuto alle obbligazioni civili;

• che il condannato non abbia già usufruito del beneficio per la medesima pena.

La concessione della liberazione è affidata alla competenza del tribunale di sorveglianza.

Produce i seguenti effetti immediati:

• fa cessare lo stato di detenzione;

• sospende l'applicazione della misura di sicurezza;

• comporta l'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, trasformata oggi in libertà
vigilata assistita dal servizio sociale.

La liberazione condizionale produce i suoi effetti definitivi con il decorso del tempo della pena
inflitta o, se si tratta di condannati all'ergastolo, con il decorso di 5 anni dalla data del
provvedimento. Viene revocata se durante il periodo di libertà condizionale il liberato commette
un delitto o una contravvenzione della stessa indole, o trasgredisce gli obblighi inerenti alla libertà
vigilata. Per effetto della revoca, il condannato riprende a scontare la pena detentiva ed il tempo
trascorso in liberazione condizionale viene computato nella durata della pena scontata. Alla luce
delle ultime riforme, l'istituto della liberazione condizionale si inserisce a pieno titolo tra le misure
alternative alla detenzione.

17. LA RIABILITAZIONE
La riabilitazione svolge la funzione di reintegrare il condannato, che abbia già scontato la pena
principale, nella posizione giuridica goduta fino alla pronuncia della sentenza di condanna. L'art
178 dispone che la riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della
condanna, salvo che la legge disponga altrimenti. Il riabilitato riacquisisce la capacità giuridica
perduta a seguito della condanna e viene rimesso in condizioni di svolgere la sua normale attività
nella società. La legge n. 145 del 2004 ha ridotto il tempo necessario per godere del beneficio e ha
fissato un termine ancora più breve nell'ipotesi di sospensione condizionale. Ma ha anche
aumentato significativamente il limite massimo previsto per la revoca. La riabilitazione viene
concessa in presenza delle seguenti condizioni:

• che siano decorsi 3 anni dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o si è in altro modo
estinta;

• che il condannato, abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta durante il periodo

• tempo indicato;

• che non sia stato sottoposto a misure di sicurezza, tranne che si tratti di espulsione dello
straniero dallo Stato o di confisca, o che il provvedimento sia stato revocato;

• che abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che dimostri di trovarsi
nell'impossibilità di adempierle.

In presenza di queste condizioni la riabilitazione costituisce un vero e proprio diritto del


condannato. Se il riabilitato commette entro 7 anni un delitto non colposo, per il quale sia inflitta
la pena della reclusione per almeno 3 anni o un'altra pena più grave, la sentenza di riabilitazione è
revocata di diritto: come conseguenza della revoca, rivivono le pene accessorie e gli altri effetti
penali della condanna. La riabilitazione può aver luogo anche nel caso di sentenza straniera di
condanna. Una riabilitazione speciale per i minori, che può essere concessa dopo il 18° e prima del
25° anno di età, presuppone che il minore non sia sottoposto a pena o misura di sicurezza e che
risulti completamente emendato e degno di essere ammesso a tutte le attività della vita sociale.

18. LA NON MENZIONE DELLA CONDANNA NEL CASELLARIO GIUDIZIALE


Questo istituto assolve la funzione di evitare che la condanna sia resa nota ai privati che
richiedono i certificati del casellario giudiziale, non per ragioni di diritto elettorale. La non
menzione della condanna si propone di eliminare alcuni ostacoli che potrebbero rendere più
difficile il reinserimento del condannato nella vita sociale e nel mondo del lavoro. Solo in senso
improprio può essere considerata causa di estinzione della pena: piuttosto comporta una
limitazione degli effetti della condanna. La sua concessione è rimessa alla valutazione discrezionale
del giudice.

I presupposti della non menzione della condanna sono fissati dall'art 175:
• che si tratti della prima condanna;

• che con la condanna sia inflitta una pena detentiva non superiore ai 2 anni o una pena
pecuniaria non superiore a 516 €, o congiuntamente una pena detentiva non superiore a 2 anni e
una pena pecuniaria che, convertita e cumulata, priverebbe complessivamente il condannato della
libertà personale per un tempo non superiore a 30mesi;

• che il giudice consideri il condannato meritevole del beneficio, avuto riguardo alla gravità del
reato e alla capacità a delinquere. La Corte costituzionale ha dichiarato legittima la concessione di
ulteriori non menzioni di condanne nel certificato del casellario giudiziale, nel caso di condanne,
per reati anteriormente commessi, a pene che, cumulate con quelle già irrogate, non superino i
limiti di applicabilità dei benefici. Il giudice non deve pronunciarsi sulla concessione del beneficio
nei casi di condanne ope legis non soggette ad iscrizione o che non debbono essere menzionate
nei certificati ai privati. Tale beneficio è revocato di diritto se il condannato commette
successivamente un altro delitto. La revoca può avvenire in ogni tempo poiché la legge non fissa
alcun termine per la commissione del nuovo delitto, per questo la non menzione può essere
qualificata più in termini di mera sospensione a tempo indeterminato dell'effetto penale, che non
di una causa di estinzione vera e propria.

CAPITOLO 5: LE MISURE DI SICUREZZA

1. Premessa
L'introduzione delle misure di sicurezza detentive viene di solito considerata una delle più
significative novità della codificazione del 1930. Mentre la pena incentrava in sé la funzione
retributiva e di prevenzione generale, la misura di sicurezza veniva ad assolvere una funzione di
prevenzione speciale, in quanto finalizzata alla rieducazione e alla cura del soggetto socialmente
pericoloso (c.d. sistema del doppio binario). Ad esse venne originariamente attribuita natura
amministrativa, e infatti quale mezzo di profilassi avente come scopo la tutela della collettività
mediante la neutralizzazione dell'individuo pericoloso, la misura di sicurezza veniva inquadrata
nell'ambito dell'attività di polizia (un'attività amministrativa tipicamente finalizzata alla difesa
preventiva della società). Oggi la dottrina respinge tale tesi e considera la misura di sicurezza una
sanzione criminale di competenza del diritto penale: di fatto è afflittiva forse più della sanzione
detentiva e viene applicata mediante un processo giurisdizionale. In seguito al riconoscimento
costituzionale del finalismo rieducativo delle stesse pene in senso stretto, è venuta ormai meno
però quella distinzione di scopi che in origine giustificava lo sdoppiamento del sistema
sanzionatorio. La stessa pena dovrebbe farsi carico di neutralizzare la pericolosità del reo e
impedirne la ricaduta nel delitto (da questo punto di vista diventa dunque un problema continuare
a legittimare la sopravvivenza delle misure di sicurezza, che spesso vengono infatti considerate
come residuali). I destinatari delle misure di sicurezza sono:

• i soggetti imputabili socialmente pericolosi


• i soggetti semi-imputabili

• i soggetti non imputabili.

Alle prime due categorie le misure si applicano cumulativamente con la pena; alla terza si
applicano in modo esclusivo.

2. PROFILI GARANTISTICI DELLA DISCIPLINA: A) PRINCIPIO DI LEGALITA’; B)


DIVIETO DI RETROATTIVITA’
Principio di legalità: Poichè incidono in senso fortemente restrittivo sulle libertà del singolo, anche
le misure di sicurezza sono sottoposte al principio di legalità. In base all'art 199 del codice,
nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla
legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti. Lo stesso principio è ribadito dall'art 25 comma
3° Cost., per il quale nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti
dalla legge. Tale principio garantisce dunque che ogni attività di applicazione di misure di sicurezza
riceva la sua legittimazione dalla legge, che deve determinare il tipo di misura applicabile ed
elencare tassativamente i casi nei quali il giudice può adottarla. Tuttavia la tassatività in questo
campo va intesa in un'accezione necessariamente più elastica per due ragioni: o le fattispecie
soggettive di pericolosità, in quanto costituite da elementi sintomatici attinenti alla personalità
dell'individuo, sono ricostruibili con minore precisione rispetto alle fattispecie incriminatrici; o il
giudizio prognostico sulla personalità è per sua natura esposto a inevitabili margini di incertezza.

• Divieto di retroattività: Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della
loro applicazione, e se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si
applica la legge in vigore al tempo dell'esecuzione. Questa disciplina tratta dall'art 200 solo in
apparenza sancisce il divieto di retroattività. In realtà tutta la materia della successione di leggi
penali non solo per quel che concerne la previsione dei reati, ma anche per ciò che riguarda il tipo
e la quantità di sanzioni da applicare in sede giurisdizionale è regolata dall'art 2. È proprio la ratio
di garanzia che ispira l'art 25 Cost. a far escludere che possa applicarsi una misura di sicurezza per
un fatto che al momento della commissione non costituiva reato (come sappiamo l'irretroattività è
un aspetto del principio di legalità). Non resta dunque che fornire dell'art 200 un'interpretazione
restrittiva: esso può riferirsi solo all'eventualità che una legge successiva disciplini in maniera
diversa mere modalità esecutive di una misura di sicurezza già legislativamente prevista al
momento della commissione del fatto.

3. IL PRESUPPOSTO DI APPLICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA: IL FATTO


PREVISTO DALLA LEGGE COME REATO
Il fatto previsto dalla legge come reato (presupposto oggettivo) L'applicazione delle misure di
sicurezza è subordinata all'esistenza di due presupposti, uno oggettivo (la commissione di un fatto
previsto dalla legge come reato) e l'altro soggettivo (la pericolosità sociale del soggetto). L'art 202
stabilisce che le misure di sicurezza possono essere applicate solo alle persone socialmente
pericolose, le quali abbiano commesso un reato. La consapevolezza che la stessa misura di
sicurezza incide pesantemente sulle libertà del singolo, ha indotto il legislatore a essere cauto, a
preoccuparsi degli eventuali arbitri connessi all'accertamento giudiziale del manipolabile requisito
della pericolosità sociale: da questo punto di vista il pregresso reato dovrebbe assolvere la
funzione di indice obiettivamente visibile, di sintomo sufficientemente rivelatore della pericolosità
del soggetto. Questo principio subisce 2 eccezioni tassativamente stabilite dalla legge: il giudice
può applicare una misura di sicurezza sia nell'ipotesi del reato impossibile sia nel caso di accordo
criminoso non eseguito o istigazione a commettere un delitto, se l'istigazione non viene accolta. Si
tratta di ipotesi denominate "quasi-reato", si è in presenza cioè di un'azione che, pur non avendo
carattere di reato, si manifesta in modo talmente prossimo al reato da permettere di riconoscere
in essa un indizio sicuro di pericolosità sociale. L'interpretazione della locuzione "fatto previsto
come reato" non pone problemi: è necessario che il fatto sia conforme ad una figura criminosa e
che non esistano al contempo delle cause.

4 SEGUE: LA PERICOLOSITA’ SOCIALE


La pericolosità sociale (presupposto soggettivo) Quale presupposto soggettivo per l'applicazione
delle misure di sicurezza, la categoria della pericolosità sociale è stata dal legislatore del '30
recepita secondo la specifica elaborazione maturata nell'ambito del positivismo criminologico di
fine Ottocento: in questo contesto la pericolosità sociale viene a coincidere con la probabilità che
un soggetto, a causa delle sue caratteristiche psichiche e/o dell'influenza esercitata dall'ambiente,
commetta in futuro fatti di reato. In questo senso si discosta nettamente dalla categoria della
colpevolezza che presuppone una sufficiente signoria dell'individuo sulle proprie azioni. L'art 203
afferma che agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa quella persona, anche se non
imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell'articolo precedente,
quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati. Ai fini
dell'applicabilità di una misura di sicurezza, non basta la semplice possibilità di ricadere nel delitto;
il legislatore esige quell'elevato grado di possibilità corrispondente al concetto di probabilità (la
diversità di grado intercorrente tra mera possibilità e probabilità fungerebbe anche da criterio
differenziatore tra i rispettivi concetti di pericolosità sociale e capacità a delinquere). Oggi la
pericolosità sociale è considerata il risultato di un giudizio prognostico effettuato dal giudice circa
la probabilità di ricaduta nel delitto. Mentre in sede di commisurazione della pena gli indici offerti
dall'art 133 devono essere valutati in funzione del giudizio di responsabilità, questa volta devono
essere utilizzati ai fini della prognosi criminale che fa da presupposto all'applicabilità della misura
di sicurezza. Nell'originaria disciplina codicistica, la regola generale del previo accertamento in
concreto della pericolosità da parte del giudice, subiva rilevanti deroghe in alcuni casi,
espressamente previsti, di presunzione di pericolosità: era la legge stessa cioè, in presenza di
determinati presupposti relativi alla gravità del fatto commesso e/o alle particolari condizioni
psicologiche dell'agente, ad attribuire la qualità di persona socialmente pericolosa, con una
presunzione juris et de jure, che non ammetteva prova contraria. Si obiettò che la pericolosità
presunta era una categoria finzionistica che, potendo dare adito a fratture tra valutazione giuridica
e realtà naturalistica, faceva apparire ingiustificata l'applicazione di una misura di sicurezza; inoltre
non poche ipotesi di pericolosità presunta finivano poi col confliggere in maniera manifesta con
diversi parametri costituzionali. La disciplina delle misure di sicurezza è stata poi radicalmente
rinnovata dall'art 31 della legge n. 663 del 1986, che ha proceduto all'abolizione di ogni forma di
presunzione legale di pericolosità stabilendo che anche nei casi di originaria presunzione
legislativa di pericolosità, il giudice, prima di applicare una misura di sicurezza, è sempre tenuto a
procedere all'accertamento concreto della pericolosità sociale dell'autore. In realtà tale
innovazione è intervenuta in una fase storica nella quale ad essere caduta in crisi è la stessa
categoria della pericolosità sociale. Ciò si può trarre dalla stessa prassi applicativa: vi è un
crescente orientamento astensionistico dei giudici, che tendono ad esempio ad astenersi da
dichiarazioni giudiziali di abitualità e professionalità nel reato, e se ciò si consoliderà in futuro si
finirà con l'assistere a una sorta di soppressione di fatto delle misure di sicurezza potenzialmente
applicabili ai rei capaci di intendere e di volere. A determinare tale crisi della pericolosità sociale
contribuisce anche la crescente presa d'atto delle incertezze e difficoltà connesse al suo
accertamento concreto in sede giudiziale. La verifica giudiziale della pericolosità sociale ripropone
il problema, oggi particolarmente dibattuto, dei limiti di validità scientifica della prognosi criminale
cioè del giudizio che tende a predire il futuro comportamento criminale del reo. In realtà i metodi
di prognosi criminale sono vari e alcuni vantano una maggiore dignità scientifica. Ma la possibilità
di emettere giudizi predittivi dotati di un minimo di affidabilità, deve in ogni caso fare i conti con le
condizioni di praticabilità offerte dalle strutture processuali: e il processo vigente lascia emergere
pochissimi dati empirici utili al giudizio prognostico, per cui la piattaforma conoscitiva della
prognosi resta in gran parte costituita solo da elementi documentali. Ciò spiega come mai il
metodo di accertamento più diffuso sia quello intuitivo: il giudice si forma un quadro generale
della personalità dell'imputato sulla base della sua esperienza e della sua personale attitudine a
conoscere gli uomini. La base di questa prognosi intuitiva è costituita dagli elementi indicati
dall'art 133. Ma essi sono troppo generici: lo stesso art 133 omette di additare il criterio alla cui
stregua il giudice deve valutare gli elementi ivi menzionati. Dunque il giudizio di pericolosità
spesso risulta soggettivamente arbitrario e perciò assai poco affidabile.

5. TIPOLOGIA DI PERICOLOSITA’ SOCIALE <<SPECIFICA>>


Il legislatore del '30 ha codificato alcuni tipi legali riflettenti forme di pericolosità sociale specifica.
Questi 3 tipi criminologici legali corrispondono a soggetti imputabili e al tempo stesso socialmente
pericolosi, quindi nei loro confronti la misura di sicurezza è applicabile in aggiunta alla pena.

• Delinquente abituale: Viene descritto dal legislatore sulla base della legge dell'esperienza, per la
quale la ripetizione di un determinato comportamento attenua sempre più i freni inibitori e rende
perciò più facile la commissione di reati. In base alla disciplina precedente, si distinguevano 3
forme di abitualità: o abitualità nel delitto presunta dalla legge; o abitualità nel delitto ritenuta dal
giudice; o abitualità nelle contravvenzioni; L'art 31 della legge n. 663 del 1986 ha abrogato
l'abitualità presunta. L'abitualità nel delitto vigente nell'ordinamento è dunque quella dichiarata
dal giudice nei confronti di chi, dopo essere stato condannato per 2 delitti non colposi, riporta
un'altra condanna per delitto non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e della gravità
dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del
colpevole, ritiene che egli sia dedito al delitto. L'essere dedito al delitto significa che il soggetto
deve aver acquisito una struttura della personalità che inclina alla commissione di reati: pertanto
non potrebbe non essere considerato pericoloso. Circa l'abitualità nelle contravvenzioni, l'art 104
dispone: chi, dopo essere stato condannato alla pena dell'arresto per 3 contravvenzioni della
stessa indole, riporta condanna per altra contravvenzione, anche della stessa indole, è dichiarato
contravventore abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati del tempo entro
il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole, lo ritiene dedito al
reato.

• Delinquente professionale: Si tratta di un tipo particolare di delinquente abituale. L'art 105


stabilisce: chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta
condanna per un altro reato, è dichiarato delinquente o contravventore professionale se, avuto
riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole, e alle altre circostanze
indicate nell'art 133, debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei
proventi del reato. La dichiarazione di professionalità non presuppone necessariamente quella di
abitualità; è sufficiente invece l'esistenza delle condizioni richieste per la dichiarazione di
abitualità.

• Delinquente per tendenza: Per l'art 108 è dichiarato delinquente per tendenza chi, sebbene non
recidivo o delinquente abituale o professionale, commette un delitto non colposo contro la vita o
l'incolumità individuale, e riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa
nell'indole particolarmente malvagia del colpevole. Tale disposizione non si applica se
l'inclinazione al delitto è originata dall'infermità. Il delinquente per tendenza non trova riscontro
nella realtà naturalistica: per questo da tempo la dottrina più avveduta ne denuncia l'inconsistenza
criminologica e ne propone l'estromissione dal codice. Secondo la tipizzazione normativa, può
essere qualificato delinquente per tendenza anche il delinquente primario purchè abbia
commesso un delitto di sangue (in cui la vita o l'incolumità personale sia oggetto di tutela anche
indiretta). Deve trattarsi di soggetti capaci di intendere e volere che manifestano mancanza di
senso morale e che delinquono per un'istintuale malvagità.

6. LA DURATA DELLA MISURA DI SICUREZZA


La misura di sicurezza ha una durata relativamente indeterminata. L'indeterminatezza riguarda
però solo il limite massimo: le misure di sicurezza non possono infatti essere revocate se le
persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose. Il limite minimo
viene stabilito in via preventiva e presuntiva dal codice, per ogni singola misura, sulla base della
gravità del reato e di considerazioni astratte relative alla pericolosità dei vari soggetti. Alla
scadenza del termine minimo di durata della misura, il giudice riprende in esame le condizioni
della persona che vi è sottoposta per stabilire se essa sia ancora socialmente pericolosa (è da
precisare che, venuto meno il limite minimo tassativo, è il magistrato di sorveglianza a disporre
controlli periodici della pericolosità). Il giudice deve tener conto della condotta dell'internato
durante l'esecuzione della misura, dei risultati del trattamento, del comportamento durante le
licenze, dei contatti personali e, nel caso di soggetto infermo o semi-infermo, delle relazioni
sanitarie. Se il giudizio sulla pericolosità è negativo, il giudice ordina la revoca della misura; se
viceversa è positivo, stabilisce una nuova durata minima, alla fine della quale procede di nuovo al
riesame della personalità e così procederà di volta in volta fino a quando il giudizio risulterà
negativo. Dopo la prima proroga, il riesame della pericolosità può essere compiuto anche prima
della scadenza della durata quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato. La revoca
anticipata prima del decorso della durata minima originaria è di competenza della sezione di
sorveglianza.

7. CLASSIFICAZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA


Il codice distingue le misure di sicurezza in due grandi categorie: personali e patrimoniali. Le misure di
sicurezza personali si distinguono poi in detentive e non detentive.

8. MISURA DI SICUREZZA DETENTIVE: COLONIA AGRICOLA E CASA DI LAVORO


La scelta di una o dell'altra dev'essere fatta dal giudice che la applica, o dal giudice di sorveglianza
nel corso dell'esecuzione, ed è lasciata alla sua piena discrezionalità, se si eccettua l'obbligo di
considerare le condizioni e le attitudini della persona destinataria. Tali misure si applicano ai
soggetti imputabili e pericolosi. Ai sensi dell'art 216 sono assegnati ad una colonia agricola o ad
una casa di lavoro:

• coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza;

• coloro che, essendo stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, e non
essendo più sottoposti a misure di sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo, che sia
nuova manifestazione dell'abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere;

• i condannati o prosciolti nei casi espressamente indicati dalla legge.

La durata minima dell'assegnazione è di un anno. Ma la durata è di 2 anni per i delinquenti


abituali, di 3 anni per i delinquenti professionali e di 4 per quelli di tendenza. La distinzione tra le
due va colta in relazione al tipo di attività che vi si svolge: in una di tipo agricolo, nell'altra di
carattere artigianale o industriale. L'intenzione del legislatore di conseguire il riadattamento
sociale dei delinquenti più pericolosi mediante il lavoro non si è però mai realizzata. Innanzitutto,
la distinzione tra colonia agricola e casa di lavoro è rimasta sulla carta. Poi di fatto nell'esecuzione
di queste misure manca proprio il lavoro, e gli internati vengono impiegati solo nei servizi della
casa (es. cucinieri, lavandai): queste mansioni possono evidentemente tenere occupata solo una
minima parte di soggetti.

9. SEGUE: CASA DI CURA E CUSTODIA


Essa è un ibrido di ideologia curativa e di ideologia custodialistica. Nello specifico vi sono
assegnati:

• i condannati, per delitto non colposo, a una pena diminuita per infermità psichica, per cronica
intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti o per sordismo;

• i condannati alla reclusione per delitti commessi in stato di ubriachezza, qualora sia abituale, o
sotto l'azione di stupefacenti all'uso dei quali siano dediti, quando non debba essere ordinata altra
misura di sicurezza detentiva o non possa essere applicata la libertà vigilata;

• i sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva se colpiti da infermità psichica che non richieda
il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario;

• le persone in stato di infermità psichica alle quali non possa essere applicata la libertà vigilata
per impossibilità o inopportunità di affidarle ai genitori o a coloro che abbiano obbligo di
provvedere alla loro educazione o assistenza, e le persone in stato di infermità psichica che
durante la libertà vigilata si rivelino di nuovo pericolose. Un'infermità fisica autorizza l'applicazione
della normativa dell'art 89 (pena diminuita causa ridotta capacità di intendere e di volere) solo
quando si risolva in un'alterazione delle funzioni intellettive, affettive e volitive suscettibile di
essere considerata a livello di infermità psichica. La durata minima dell'assegnazione oscilla tra 6
mesi e 3 anni ed è proporzionata alla pena stabilita dalla legge in astratto. Essa non è compatibile
con altra misura di sicurezza detentiva perché le altre misure attuano lo scopo della custodia ma
non tendono alla cura dell'internato. In via eccezionale, è prevista la possibilità di applicarla prima
dell'esecuzione della pena se il giudice lo ritiene opportuno, tenuto conto delle particolari
condizioni di infermità psichica del condannato, per impedire che l'immediata esecuzione della
pena possa ulteriormente aggravarne le condizioni psichiche. Il provvedimento di ricovero del
condannato seminfermo psichico è subordinato al previo accertamento, da parte del giudice, della
pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima.

10 SEGUE: OSPEDALE PSICHIATRICO GIUDIZIARIO (SOSTITUITO DALLA REMS)


La misura di sicurezza personale detentiva prevista per i soggetti non imputabili affetti da
infermità di mente, è oggi etichettata ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. Essa si
applica:
• ai prosciolti per infermità psichica o per intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti o per
sordismo, salvo che si tratti di proscioglimento per contravvenzione o per delitto colposo o per
altro delitto punibile in astratto con la reclusione non superiore a due anni o con pena pecuniaria;

• ai sottoposti ad altra misura di sicurezza detentiva colpiti da un'infermità psichica tale da


richiedere il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. La durata è determinata sulla base del
criterio della gravità astratta del reato. È di 10 anni se per il fatto commesso la legge stabilisce la
pena dell'ergastolo; è di 5 anni se prevede la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 10
anni; è di 2 anni in tutti gli altri casi. Anche in questo caso la condizione di pericolosità deve essere
sempre previamente accertata dal giudice. L'eliminazione della presunzione di pericolosità
dell'infermo di mente ha finito col rendere ancora più acuto il problema del suo trattamento: da
un lato ne è derivata una maggiore responsabilizzazione dei periti psichiatri, in quanto, essendo il
loro giudizio determinante ai fini della prognosi di pericolosità del malato, essi vengono
potenzialmente gravati anche dalle esigenze di difesa sociale; dall'altro non è prevista alcuna
forma di trattamento per il soggetto prosciolto per infermità psichica che sia ritenuto socialmente
non pericoloso. Senonchè, la maggiore responsabilizzazione citata è respinta da parte degli attuali
psichiatri forensi, i quali rifiutano un diretto coinvolgimento nel giudizio di pericolosità in base a
tre ragioni: si ritiene scientificamente superata la vecchia equazione malattia mentale -
pericolosità sociale; si prende atto dell'inidoneità della perizia psichiatrica a fornire al giudice
indicazioni sufficientemente certe e univoche; si tende a recuperare la purezza terapeutica della
psichiatria, emancipandola da deleghe di controllo sociale. Ne consegue che la prognosi relativa
alla pericolosità degli stessi infermi di mente perde le caratteristiche di un giudizio tecnico
riservato agli esperti: si tratta piuttosto di un giudizio emesso alla stregua di parametri puramente
giuridico-normativi, come tale di esclusiva competenza del magistrato. Ma una simile conclusione
si presta a riserve: se i giudizi predittivi sulla pericolosità degli infermi di mente pongono in seria
difficoltà gli stessi esperti, non si vede a maggior ragione come possano i giudici formulare
prognosi affidabili sulla base dei soli elementi dell'art 133. Alla crisi della perizia psichiatrica si
aggiunge l'irreversibile fallimento del trattamento custodialistico tipico dell'ospedale psichiatrico
giudiziario, cioè dell'unica misura oggi applicabile all'infermo giudicato socialmente pericoloso. In
tali istituti vi è infatti una sorta di perversa attitudine a provocare fenomeni di disgregazione
morale e di abbrutimento spirituale.

11. SEGUE: RIFORMATORIO GIUDIZIARIO


E’ la misura di sicurezza personale detentiva speciale per i minori di età. Questa misura si applica:

• ai minori di anni 14 e minori di anni 18 riconosciuti non imputabili, che abbiano commesso un
delitto doloso, preterintenzionale o colposo e siano considerati socialmente pericolosi;

• ai minori tra i 14 e i 18 anni riconosciuti imputabili e come tali condannati a pena diminuita;

• ai minori di 18 anni dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza;


• ai minori tra i 14 e i 18 anni condannati per delitto durante l'esecuzione di una misura di
sicurezza precedentemente applicata per difetto di imputabilità;

• ai minori di 18 anni quando sia cessata l'infermità psichica: il giudice accerta che la persona è
socialmente pericolosa e ordina che sia assegnata a un riformatorio.

Anche qui, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la presunzione di pericolosità dei minori
non imputabili. La durata minima del riformatorio giudiziario è di un anno. Tale misura può essere
applicata solo in relazione ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione di almeno
12 anni nel massimo. E la misura deve essere eseguita nella nuova forma del collocamento in
comunità: il giudice ordina che il minore sia affidato a una comunità pubblica o autorizzata,
imponendo eventuali specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro o ad altre
attività utili per la sua educazione. Il minore non imputabile può essere sottoposto a misura di
sicurezza solo quando per le specifiche circostanze del fatto e per la sua personalità, sussiste il
concreto pericolo che commetta delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o
diretti contro la sicurezza collettiva o l'ordine costituzionale o gravi delitti di criminalità
organizzata. L'applicabilità di misure di sicurezza ai minori tende comunque a prospettarsi come
eventualità del tutto eccezionale.

12. MISURE DI SICUREZZA PERSONALI NON DETENTIVE: LIBERTA’ VIGILATA


Tra le misure di sicurezza personali non detentive un posto di rilievo occupa la libertà vigilata, che
consiste in una limitazione della libertà personale del soggetto mediante un complesso di
prescrizioni a contenuto positivo o negativo, dirette ad impedire il compimento di nuovi reati e a
facilitare il reinserimento sociale. Nella libertà vigilata convivono dunque 2 aspetti: il primo
relativo alla difesa sociale e il secondo concernente l'assistenza al sottoposto alla misura. Questo
secondo aspetto è stato potenziato dalla legge di riforma dell'ordinamento penitenziario che ha
stabilito che i sottoposti alla libertà vigilata sono affidati al servizio sociale ai fini del loro
reinserimento nella società. Per effetto di questa nuova normativa, è da ritenere che la libertà
vigilata si sia trasformata in libertà vigilata e assistita. Il codice penale non contiene un'elencazione
tassativa delle prescrizioni che devono essere imposte al vigilato ai fini di una individualizzazione
della misura sia sotto il profilo personale, sia sotto quello familiare ed ambientale. E' previsto solo
l'obbligo per il vigilato di non trasferire la propria residenza o dimora in un comune diverso da
quello che gli è stato assegnato, nonché quello di informare gli organi di vigilanza di ogni
mutamento di abitazione nell'ambito del comune. La legge prescrive che la vigilanza deve essere
esercitata in modo da non rendere malagevole alla persona di attendere al lavoro con la
necessaria tranquillità. La durata minima è di 1 anno. La durata è di almeno 3 anni se è inflitta la
pena della reclusione per almeno 10 anni, e qualora per effetto di indulto o di grazia non debba
essere eseguita la pena dell'ergastolo. La sottoposizione alla libertà vigilata è obbligatoria nei casi
previsti dall'art 230 (sempre previo accertamento in concreto della pericolosità sociale del
vigilando), mentre è facoltativa per quelli previsti all'art 229. Riguardo ai soggetti di età minore, è
applicabile mediante prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ed eventualmente sotto
forma di permanenza in casa.

13. SEGUE: DIVIETO DI SOGGIORNO


E' una misura di sicurezza che consiste nel divieto di soggiornare in uno o più comuni o in una o più
province designati dal giudice e si distingue dal divieto di soggiorno come misura di prevenzione
per un più accentuato carattere rieducativo. Si applica facoltativamente al colpevole di un delitto
contro la personalità dello Stato o contro l'ordine pubblico, o di un delitto commesso per motivi
politici o occasionato da particolari condizioni sociali e morali esistenti in un determinato luogo. La
durata minima è di 1 anno. In caso di trasgressione ricomincia a decorrere il termine minimo e può
essere ordinata la misura della libertà vigilata. Questa misura però solleva dubbi di costituzionalità
perché l'art 16 Cost., nel sancire la libertà di circolazione e di soggiorno, ammette solo limitazioni
legislative di carattere generale per motivi di sanità o sicurezza ed espressamente stabilisce che
nessuna restrizione può essere imposta per ragioni politiche.

14. SEGUE: DIVIETO DI FREQUENTARE OSTERIE E PUBBLICI SPACCI DI BEVANDE


ALCOOLICHE
Questa misura si applica:

• ai condannati per la contravvenzione di ubriachezza abituale;

• ai condannati per delitti o contravvenzioni commessi in stato di ubriachezza qualora questa sia
abituale. Nel divieto di frequentazione non è compreso il divieto di recarsi di rado in osterie o
spacci; la norma può considerarsi violata solo dalla tendenza a praticare in modo regolare tali
luoghi. La durata minima della misura è di 1 anno. In caso di trasgressione può essere ordinata la
libertà vigilata o la cauzione di buona condotta.

15. SEGUE: ESPULSIONE OD ALLONTANAMENTO DELLO STRANIERO DALLO STATO


La nuova formulazione dell'art 235 (riformato nel 2008) dispone che il giudice ordina l'espulsione
dello straniero o l'allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente a uno Stato
membro UE, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando lo straniero o il cittadino
appartenente a uno stato membro UE sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai
due anni. Le novità della nuova disciplina riguardano l'applicazione estesa anche ai cittadini
appartenenti a uno Stato UE, e l'abbassamento della soglia minima della pena inflitta per il reato
oggetto di intervenuta condanna (da 10 a 2 anni). In riferimento a quest'ultimo vi sono dubbi di
illegittimità costituzionale (poiché il principio costituzionale di uguaglianza non tollera
discriminazioni tra la posizione del cittadino e dello straniero quando venga riferito al godimento
di diritti inviolabili come la libertà personale) nonché di incompatibilità con i vincoli imposti dal
diritto comunitario.

16. LE MISURE DI SICUREZZA PATRIMONALI: CAUZIONE DI BUONA CONDOTTA


La cauzione di buona condotta, prevista dall'art 237, consiste nel deposito presso la Cassa delle
ammende di una somma di denaro non inferiore a 103 € e non superiore a 2065 € o nella
prestazione di una garanzia mediante ipoteca o fideiussione solidale. Essa in linea teorica
dovrebbe fungere da efficace strumento di prevenzione speciale, dal momento che la prospettiva
di poter perdere la somma di denaro depositata (o dell'esecuzione della garanzia) dovrebbe agire
da controstimolo alla realizzazione di nuovi fatti criminosi; nella pratica tale misura non è riuscita a
esercitare l'attesa efficacia deterrente. Si applica:

• ai liberati dalla casa di lavoro o dalla colonia agricola se il giudice non ordina la libertà vigilata;

• ai trasgressori degli obblighi della libertà vigilata;

• ai trasgressori del divieto di frequentare osterie e spacci di bevande alcooliche. La legge


stabilisce per questa misura anche la durata massima: essa non può essere inferiore ad 1 anno, né
superiore a 5. Se l'obbligo di buona condotta viene adempiuto, la somma è restituita o l'ipoteca è
cancellata e la fideiussione si estingue. Se l'obbligo viene trasgredito la somma è devoluta alla
Cassa delle ammende.

17. SEGUE: CONFISCA


La confisca consiste nell'espropriazione ad opera dello Stato, in caso di condanna, delle cose che
servirono o furono destinate a commettere il reato o ne rappresentarono il prodotto (cosa
materiale che si origina dal reato) o il profitto (guadagno derivante dall'illecito). La sua inclusione
tra le misure di sicurezza non è stata condivisa da parte della dottrina (che ne afferma piuttosto la
natura di pena accessoria), dato che il suo fondamento è la pericolosità della cosa. L'opinione
tradizionalmente prevalente però sottolinea l'identità della funzione svolta dalla confisca rispetto
a quella delle altre misure di sicurezza e il fatto che la pericolosità della cosa non deve essere
intesa come attitudine della stessa a recar danno, ma come possibilità che la cosa, qualora sia
lasciata nella disponibilità del reo, venga a costituire per lui un incentivo per commettere ulteriori
illeciti, una volta che egli sia certo che il prodotto del reato non gli verrà confiscato. Più di recente
è stata introdotta anche la confisca per equivalente o confisca di valore: è cioè prevista, in caso di
impossibilità di agire direttamente sui beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, la possibilità
di confiscare utilità patrimoniali di valore corrispondente di cui il reo abbia la disponibilità. Per
altro verso, a complicare ulteriormente il problema della fisionomia dell'istituto ha contribuito
l'introduzione di una nuova figura di confisca quale misura patrimoniale di prevenzione ante-
delictum. Si deve prendere dunque atto che nella realtà attuale dell'ordinamento la confisca
presenta una fisionomia ibrida e polivalente: essa può fungere a seconda dei casi da misura di
sicurezza, da misura di prevenzione, e sempre più spesso da pena accessoria. Per principio
generale la confisca è facoltativa. Essa può essere applicata solo nel caso di sentenza di condanna,
sul presupposto dell'accertata pericolosità della cosa con riferimento all'uso che il reo può farne
avendone la disponibilità: la pericolosità della cosa richiede l'uso diretto e necessario di essa per
commettere il reato. La confisca è obbligatoria nelle ipotesi di:

• cose che costituiscono il prezzo del reato;

• cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, anche se non è
stata pronunciata condanna. Il legislatore ha più di recente introdotto un meccanismo di confisca
allargata: nei casi di condanna (o pena patteggiata) per reati di associazione di tipo mafioso,
estorsione, usura, ricettazione, riciclaggio, ecc. è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o
delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui risulta essere
titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito o alla
propria attività economica. Questo a prescindere dunque che tali beni siano ricollegabili a uno dei
reati-presupposto.

18. APPLICAZIONE ED ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA


Alcune misure di sicurezza detentive (casa di cura e di custodia, ospedale psichiatrico e
riformatorio giudiziario) possono essere applicate in via provvisoria. Le misure di sicurezza sono in
via definitiva ordinate dal giudice nella stessa sentenza di condanna o di proscioglimento. Esse
vengono eseguite dopo che la pena è stata scontata se sono applicate congiuntamente alla pena
detentiva, mentre dopo che la sentenza è passata in giudicato se sono applicate congiuntamente a
pena non detentiva. In caso di concorso di misure di sicurezza temporanee non detentive con
misure di sicurezza detentive, si esegue per prima la misura di sicurezza detentiva. Se per più fatti
di reato debbano applicarsi ad una persona più misure di sicurezza della stessa specie, si procede
alla loro unificazione. Se invece le misure sono di specie diversa, il giudice valuta
complessivamente il pericolo che deriva dalla persona e applica una o più misure di sicurezza.
L'esecuzione della misura di sicurezza viene sospesa se la persona ad essa sottoposta deve
scontare una pena detentiva, e riprende il suo corso dopo l'esecuzione della pena. Se la persona
sottoposta a misura di sicurezza è colpita da infermità psichica, si procede alla trasformazione
della misura poiché il giudice deve ordinare il ricovero in un ospedale psichiatrico o in una casa di
cura o di custodia. Nel corso dell'esecuzione, il giudice può modificare le modalità di esecuzione
della misura senza mutarne la specie. Se la persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva si
sottrae volontariamente all'esecuzione, il periodo minimo di durata ricomincia a decorrere dal
giorno in cui è nuovamente eseguita. Questa regola non si applica agli internati nell'ospedale
psichiatrico giudiziario o nella casa di cura e di custodia. L'estinzione del reato impedisce
l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione, fatta eccezione per la confisca.
L'estinzione della pena impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza, ad eccezione di quelle
per le quali la legge stabilisce che possono essere ordinate in ogni tempo. Le cause estintive della
pena, tuttavia non impediscono l'esecuzione delle misure di sicurezza già ordinate dal giudice
come misure accessorie di una condanna alla reclusione superiore a 10 anni. In tal caso si
sostituisce alla colonia agricola e alla casa di lavoro la libertà vigilata. Se per effetto di indulto o
grazia non debba essere eseguita, in tutto o in parte, la pena dell'ergastolo, il condannato è
sottoposto a libertà vigilata per almeno 3anni.

CAPITOLO 6: LE SANZIONI CIVILI

1. PREMESSA
Un comportamento umano, oltre che costituire un fatto di reato, può anche realizzare un illecito
civile: tutte le volte che si verifica il fenomeno della doppia valutazione, accanto alla conseguenza
penale saranno dunque applicate le sanzioni civili (es. il cagionare la morte di un uomo da un lato
configura il reato di omicidio, dall'altro costituisce illecito civile e obbliga al risarcimento).

2. LE SINGOLE SANZIONI
• Le restituzioni La restituzione consiste nella reintegrazione dello stato di fatto preesistente alla
commissione del reato. L'art 185 comma 1 stabilisce che ogni reato obbliga alle restituzioni a
norma delle leggi civili. L'obbligo alla restituzione presuppone solo la possibilità, naturalistica o
giuridica, della restitutio in integrum. Può avere a suo oggetto sia cose mobili, sia anche cose
immobili di cui si sia venuti in possesso. L'obbligo alle restituzioni è indivisibile.

• Il risarcimento del danno Consiste nella corresponsione di una somma di denaro equivalente al
pregiudizio arrecato con il reato. Si ricorre a tale sanzione quando la restituzione non è possibile,
oppure non è sufficiente a riparare il danno cagionato. L'art 185 comma 2, stabilisce: ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale, o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il
colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, devono rispondere per il fatto di lui. Il danno
a cui fa riferimento la norma richiamata è un quid differente dall'offesa al bene tutelato necessaria
perchè si configuri il reato. Si tratta del danno patrimoniale risultante dalla lesione degli interessi
civili che fanno sorgere il diritto al risarcimento in sede civile: tale danno consiste nella sottrazione
o nella diminuzione del patrimonio sotto le forme del danno emergente e del mancato guadagno
(c.d. lucro cessante). E si tratta, in secondo luogo, del danno non patrimoniale o morale
consistente nella sofferenza fisica o psichica patita in conseguenza del reato. L'evoluzione
normativa ha spinto a modificare l'interpretazione e a ritenere che il termine reato vada inteso
come fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato.
Il danno risarcibile deve essere conseguenza del reato inteso in questo senso. Il risarcimento del
danno morale avviene mediante la corresponsione di una somma di denaro la cui funzione non è
chiaramente di reintegra del patrimonio, ma di soddisfazione del male sofferto. Il titolare del
diritto al risarcimento del danno si chiama danneggiato dal reato e può essere anche una persona
diversa dal titolare del bene penalmente tutelato (es. nel caso di omicidio). Una forma particolare
del risarcimento del danno non patrimoniale è la pubblicazione della sentenza di condanna (a
spese del colpevole). Si tratta di un istituto diverso dalla pena accessoria della pubblicazione della
sentenza di condanna. L'obbligo della pubblicazione è indivisibile. Obbligati al risarcimento del
danno sono sia l'autore del reato, sia coloro i quali devono rispondere per il fatto di lui.
Controversa è la questione relativa alla natura giuridica di tale risarcimento: da un lato esso
presenta un carattere privato in quanto tende al riequilibrio delle situazioni giuridiche tra i privati,
e dall'altro possiede un indubbio carattere afflittivo, il che lo rende dotato di riflessi pubblicistici.
•Rimborso delle spese per il mantenimento del condannato Il condannato è civilmente obbligato a
rimborsare allo Stato le spese per il mantenimento negli istituti di pena, risponde di tale
obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili.
Questa obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile e non si trasmette agli
eredi. Sono inoltre poste a carico del condannato le spese per il suo mantenimento durante la
custodia cautelare. Tale obbligo costituisce un effetto risarcitorio civile del reato e non una
sanzione accessoria della pena. La nuova legge sull'ordinamento penitenziario prevede la
possibilità di remissione del debito per le spese del procedimento e del mantenimento nei
confronti dei condannati che versino in disagiate condizioni economiche e si siano distinti per
regolare condotta.

• Obbligazione civile per la multa e per l'ammenda Nel nostro ordinamento sono previste alcune
ipotesi di responsabilità civile quale garanzia dell'adempimento delle sanzioni della multa e
dell'ammenda. Si tratta dell'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda, cioè di una forma di
responsabilità civile di carattere sussidiario e che serve a corresponsabilizzare in qualche misura il
datore di lavoro e, in particolare, la persona giuridica specie in un sistema in cui ancora non vige il
principio societas delinquere potest. o L'obbligazione civile per la multa e per l'ammenda inflitta a
persona dipendente è disciplinata dall'art 196, per il quale nei reati commessi da chi è soggetto
all'altrui autorità, direzione o vigilanza, la persona rivestita di tale autorità è obbligata, in caso di
insolvibilità del condannato, al pagamento dell'ammontare della multa o dell'ammenda inflitta al
colpevole, se si tratta di violazioni di disposizioni che essa era tenuta a far osservare e delle quali
non debba rispondere penalmente. Qualora la persona preposta risulti insolvibile, si applicano al
condannato le disposizioni dell'art 136 (conversione della pena). o L'obbligazione civile delle
persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende è prevista nell'art 197, per il
quale gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati Stato, regioni, province e comuni, qualora
sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza o l'amministrazione o
sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi
inerenti alla qualità rivestita dal colpevole o sia commesso nell'interesse della persona giuridica,
sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, dell'ammontare della multa o
dell'ammenda. Se tale obbligazione non può essere adempiuta, si applicano al condannato le
disposizioni dell'art 136.

3. LE GARANZIE PER LE OBBLIGAZIONI CIVILI


Per l'adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, il codice ha previsto una serie di
garanzie.

• Il sequestro conservativo penale di beni mobili o immobili dell'imputato o delle somme o cose a
lui dovute nei limiti in cui la legge ne consente il pignoramento, può essere chiesto dal pubblico
ministero in ogni stato e grado del processo, se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si
disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di
ogni altra somma dovuta all'erario dello Stato. Esso produce l'effetto di rendere privilegiati i crediti
di cui si è appena detto, rispetto ad ogni altro credito non privilegiato di data anteriore e rispetto
ai crediti sorti posteriormente, salvi in ogni caso i privilegi stabiliti a garanzia del pagamento di
tributi.

• L'azione revocatoria: sono soggetti ad azione revocatoria gli atti fraudolenti compiuti
anteriormente o posteriormente al reato, sia a titolo gratuito sia a titolo oneroso. Il codice
stabilisce infatti l'inefficacia rispetto ai crediti di cui si è detto: o degli atti a titolo gratuito compiuti
dal colpevole dopo il reato (presunzione iuris et de iure di frode); o degli atti a titolo oneroso
compiuti dopo il reato, che eccedono la semplice amministrazione o la gestione dell'ordinario
commercio, presunti relativamente in frode, purchè sia fornita la prova della malafede dell'altro
contraente; o degli atti a titolo gratuito compiuti nell'anno anteriore al reato, qualora si provi la
frode da parte del colpevole; o degli atti a titolo oneroso compiuti nell'anno anteriore al reato, che
eccedono la semplice amministrazione o la gestione dell'ordinario commercio, presunti
relativamente in frode, purchè sia fornita la prova della malafede dell'altro contraente. I diritti dei
terzi, quando la revocatoria ha luogo in sede penale, sono regolati dalle leggi civili.

• Il prelievo sulla remunerazione corrisposta per il lavoro prestato dai condannati viene effettuato
in 2/5 della medesima e salvo che l'adempimento delle obbligazioni civili sia altrimenti eseguito.

PARTE OTTAVA : GLI STRUMENTI AMMINISTRATIVI DI CONTROLLO


SOCIALE
CAPITOLO 1: IL DIRITTO PENALE AMMINISTRATIVO

1. PREMESSA
Si è già accennato come sia andato emergendo, negli ultimi tempi, un orientamento di politica
criminale incline a trasformare le ipotesi meno gravi di reato contravvenzionale in corrispondenti
illeciti amministrativi, sanzionati con una pena pecuniaria (c.d. Depenalizzazione). Questo per
tentare di far fronte agli inconvenienti di un'eccessiva proliferazione di reati, e in primo luogo per
ridurre il numero di procedimenti davanti al giudice penale favorendo così il buon funzionamento
della macchina giudiziaria (che può concentrarsi sulla repressione dei delitti più gravi). Lo sviluppo
della società industriale ha infatti portato ad un fenomeno di ipertrofia del diritto penale e alla
necessità di tutelare un numero crescente di interessi collettivi: ma più frequentemente si ricorre
alla pena, tanto meno questa riesce ad esercitare un'efficacia realmente dissuasiva nei confronti
dei consociati. Si è tentato dunque di delimitare l'area della rilevanza penale entro lo spazio
segnato dall'esigenza da un lato di prevenire e reprimere le macro lesioni dei beni essenziali alla
collettività; dall'altro lato, di estromettere dal sistema penale dei reati contravvenzionali incentrati
su microlesioni che non sembrano più giustificare il ricorso alla pena. C'è da dire che fino alla
seconda metà del 18° secolo vi era l'opposta tendenza a trasferire nel campo penale molti degli
illeciti aventi natura di contravvenzioni amministrative durante l'ancien regime: questo passaggio
era sollecitato dall'esigenza di apprestare una più efficace garanzia dei diritti dei cittadini nei
confronti degli eventuali abusi della pubblica amministrazione. Bisogna dunque evitare che
l'attuale fenomeno della depenalizzazione, laddove non fosse accompagnato da opportune
garanzie, potrebbe rappresentare una sorta di ritorno a tecniche ormai superate del passato,
inaccettabili proprio perchè non sufficientemente rispettose dei fondamentali diritti del singolo. La
legge 689 del 1981 contenente "Modifiche al sistema penale", oltre a depenalizzare quasi tutti i
reati (delitti e contravvenzioni) puniti con la pena pecuniaria della multa o dell'ammenda (esclusi
però i reati previsti dal codice penale e da alcune leggi speciali finalizzati alla tutela di beni di
particolare rilievo sociale) ha introdotto anche una serie di principi destinati a regolare la materia
dell'illecito depenalizzato. Ne è derivata la nascita di un nuovo sistema di illecito, che alcuni
collocano in posizione intermedia tra sistema penale e sistema degli illeciti amministrativi
(seppure in stretto collegamento col primo), e che altri non esitano a definire come sottosistema
penale. La prima posizione sembra più corretta. Nel 1999 sono stati poi depenalizzati con decreto
legislativo una serie di reati del codice penale (tra cui l'ubriachezza) e di reati previsti in leggi
speciali (nel settore della circolazione stradale, della navigazione, degli alimenti, degli assegni).

2. I PRINCIPI GENERALI DELL’ILLECITO DEPENALIZZATO


La nuova disciplina sostanziale dell'illecito depenalizzato si ispira in buona parte a principi e criteri
di imputazione tipici del diritto penale. Quanto al piano processuale, è sufficiente qui accennare
che il procedimento per l'applicazione della sanzione amministrativa del pagamento di una somma
di denaro (non convertibile, in caso di insolvenza del condannato, né in libertà controllata né in
lavoro sostitutivo), è di competenza dell'autorità amministrativa; mentre in caso di opposizione
interviene il giudice di pace o, rispetto a determinate materie, il tribunale. Va precisato
innanzitutto che l'ambito di applicazione della nuova normativa è circoscritto alle violazioni punite
con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro, sia che si tratti di
violazioni in origine amministrative, sia che si tratti di violazioni depenalizzate; ne esulano invece
gli illeciti puniti con sanzioni non pecuniarie e gli illeciti disciplinari.

Come già detto, la maggior parte dei principi della nuova disciplina è di ispirazione penalistica:

• il principio di legalità: "nessuno può essere punito con sanzione amministrativa se non in forza di
una legge entrata in vigore prima della violazione" (si tratta dell'esplicito riconoscimento del
duplice principio della riserva di legge e dell'irretroattività); qui il termine legge va interpretato
come comprensivo anche della legge regionale, a differenza di quanto avviene in campo
strettamente penalistico;

• i criteri di imputabilità (capacità di intendere e di volere e limite d'età fissato a 18 anni): "non
può essere assoggettato a sanzioni amministrative chi, al momento in cui ha commesso il fatto,
non aveva compiuto 18 anni e non aveva la capacità di intendere e di volere, salvo che tale stato di
incapacità non derivi da sua colpa o sia stato da lui preordinato"; la menzione della sola mancanza
della capacità di intendere e di volere impedisce che la semimputabilità abbia la stessa rilevanza
che ha in diritto penale; il secondo comma introduce un'ipotesi di colpa in vigilando: eccettuati i
casi in cui lo stato di incapacità derivi da colpa del trasgressore, della violazione risponde chi era
tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto;

• il principio di colpevolezza: per la punibilità si richiedono dolo e colpa;

• i criteri che stanno alla base della disciplina del concorso di persone ("ciascuno soggiace alla
sanzione disposta per la violazione") e del concorso formale di violazioni (vale la disciplina del
cumulo giuridico: "il soggetto soggiace alla sanzione più grave aumentata fino al triplo");

• il principio della intrasmissibilità agli eredi dell'obbligazione a pagare la somma dovuta per la
violazione, che caratterizza in senso personalistico la sanzione in esame;

• gli indici di commisurazione della sanzione, che fanno riferimento sia alla gravità della violazione
che alla personalità dell'agente, che alle sue condizioni economiche, e richiamano pertanto quelli
previsti per i reati all'articolo 133 c.p.;

• la disciplina del concorso apparente di norme, per cui la legge 689/1981 fissa il principio di
specialità (si tratta di una norma discussa dal momento che comporta il rischio di svuotamento
delle norme penali più generali: la norma infatti dispone che, in caso di convergenza su di un
medesimo fatto di una norma penale e di una norma amministrativa, o di più norme
amministrative, si applichi la norma speciale, salvo il caso si tratti di norma amministrativa di fonte
regionale, nel qual caso prevarrebbe la norma penale).

Di ispirazione civilistica è invece la disposizione che introduce una triplice ipotesi di responsabilità
solidale, rispettivamente a carico: o del proprietario o usufruttuario o titolare di diritto personale
di godimento sulla cosa che servì a commettere la violazione, sempre che non provi che essa fu
utilizzata contro la sua volontà; o del titolare di un potere di autorità, vigilanza o direzione sul
soggetto autore, salvo che non provi di non aver potuto impedire il fatto; o della persona giuridica,
ente o imprenditore di cui l'autore della violazione sia rappresentante o dipendente, se la
violazione è commessa nell'esercizio delle funzioni di quest'ultimo soggetto. In tutte le tre ipotesi,
a chi ha pagato viene concesso tuttavia il diritto di ottenere il regresso per l'intera somma
dall'autore della violazione. Proprio perchè consente col diritto di regresso il recupero della
somma versata, l'utilizzo di tale modello attenua sensibilmente l'efficacia dissuasiva della minaccia
della sanzione amministrativa. Inoltre alla societas viene attribuita una mera obbligazione solidale,
peraltro con diritto di regresso, perdendo così l'occasione per superare il dogma societas
delinquere non potest, in vista della configurazione di una forma di responsabilità diretta della
persona giuridica.

CAPITOLO 2: LE MISURE DI PREVENZIONE

1. PREMESSA
Si tratta di misure special preventive, tradizionalmente considerate di natura formalmente
amministrativa, volte ad evitare la commissione di reati da parte di determinate categorie di
soggetti considerati socialmente pericolosi. Sono anche definite misure ante delictum dal
momento che vengono applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato.
In questo si differenziano rispetto alle misure di sicurezza. Tali misure sono state a più riprese
tacciate di incostituzionalità dal momento che incidono sulla libertà personale prescindendo
dall'oggettiva commissione di un reato, fondandosi su di un semplice sospetto o indizio di
pericolosità (tanto che spesso sono state considerate una sorta di surrogato rispetto a una
repressione penale inattivabile per mancanza dei normali riscontri probatori). E' pressochè
unanime in dottrina l'opinione che, nonostante la loro denominazione formale di misure di
prevenzione, le tradizionali misure personali non siano mai riuscite a sortire un effetto
autenticamente preventivo/rieducativo; anzi, di fatto esse sono state non di rado utilizzate come
strumento di controllo sociale di tipo sostanzialmente repressivo. Inoltre il legislatore ha finito col
contemplare tipologie soggettive, come nel caso degli "oziosi e vagabondi", di dubbia consistenza
criminologica e dai contorni incerti, per cui la qualifica di pericolosità ha finito con l'essere
fittiziamente e ideologicamente sovrapposta a soggetti emarginati censurabili solo in base ad un
opinabile giudizio di demerito sociale. Il testo principale in materia di misure di prevenzione è
quello della legge 1423 del 1956, così come modificato ed integrato dagli interventi legislativi
succedutisi fino ai nostri giorni (vedi in particolare legge Rognoni-La Torre e legge Reale).

2. LE SINGOLE MISURE DI PREVENZIONI <<PERSONALI>>


La legge del '56 originariamente contemplava cinque categorie di destinatari, tra cui "oziosi e
vagabondi" e "soggetti abitualmente dediti allo svolgimento di attività contrarie alla morale
pubblica o al buon costume". Il legislatore del 1988 ha tentato di svecchiare la disciplina, abolendo
tali categorie: il concetto di moralità pubblica o buon costume, oltre a riflettere un bene giuridico
indeterminato e di difficile afferrabilità, copre aree interferenti con l'esercizio delle libertà
fondamentali dei cittadini; e in un ordinamento laico e pluralistico come il nostro, un
comportamento semplicemente immorale ma non criminoso, non può mai giustificare una
restrizione delle predette libertà costituzionalmente garantite. L'articolo 1 della legge 1423 del
1956 (come modificato nel 1988) si limita oggi a prevedere le seguenti tre tipologie soggettive:

• coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano dediti abitualmente a traffici
delittuosi;
• coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che
vivano abitualmente (anche in parte) con i proventi di attività delittuose;

• coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che siano
dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei
minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.

Questa nuova disciplina risulta caratterizzata da due aspetti. In primo luogo va segnalata
l'aggiunta degli "elementi di fatto" quale base dell'accertamento richiesto ai fini dell'applicazione
delle misure preventive, per cui almeno in linea teorica non dovrebbero mai ritenersi sufficienti
meri sospetti o labili indizi di pericolosità; di fatto è tuttavia possibile che la prassi continui a
orientarsi in senso meno garantistico, dato che se il giudice della prevenzione esigesse indizi
eccessivamente corposi, vi sarebbero tutti i presupposti per promuovere un normale processo
penale. In secondo luogo, tutte le categorie di destinatari sono individuate in base al riferimento
ad attività potenzialmente costituenti illecito penale: il legislatore dell'88 invece di riformulare le
fattispecie di pericolosità in base alle più moderne conoscenze criminologiche, ha così finito col
ridurre il ruolo della prevenzione personale alla sola funzione di surrogato della normale
repressione penale.

Le singole misure di prevenzione personali sono:

• avviso orale: l'applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è consentita dopo
che il questore, nella cui provincia la persona dimora, ha provveduto ad avvisare oralmente la
stessa che esistono sospetti a suo carico, indicando i motivi che li giustificano; il questore invita la
persona a tenere una condotta conforme alla legge e redige il processo verbale dell'avviso (al solo
fine di dare allo stesso data certa). Costituisce dunque presupposto per la richiesta di applicazione
della sorveglianza speciale nei confronti degli avvisati che non abbiano recepito l'ingiunzione a
mutare vita. Questa misura è stata introdotta nel 1988 in sostituzione della vecchia e discreditata
diffida, inefficace ed inutilmente vessatoria, di cui riprende i caratteri basilari, emendati dai
principali inconvenienti. A differenza della diffida ha efficacia temporanea (limitata a 3 anni).

In qualsiasi momento l'interessato potrà richiederne al questore la revoca.

• rimpatrio con foglio di via obbligatorio: qualora le persone indicate nell'art.1 siano pericolose per
la sicurezza pubblica e si trovino fuori dai luoghi di residenza, il questore può rimandarvele con
provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza
preventiva autorizzazione o comunque per un periodo di massimo 3 anni, nel Comune dal quale
sono allontanate. Questa misura è fortemente sospettata di illegittimità costituzionale per la
violazione di diverse garanzie, da quella del contraddittorio, e quindi della difesa, a quella della
libertà di circolazione.

• sorveglianza speciale della pubblica sicurezza: si applica ai soggetti indicati nell'art.1 che
nonostante l'avviso orale (primo presupposto) non abbiano cambiato condotta (secondo
presupposto), quando siano pericolosi per la sicurezza pubblica (terzo presupposto). La misura
consiste sostanzialmente in una sanzione per l'inottemperanza all'obbligo di condotta. Può essere
applicata solo in seguito ad un procedimento giurisdizionale (il questore presenta richiesta presso
il Tribunale, trascorsi almeno 60 giorni e non più di 3 anni dall'avviso orale; il Tribunale provvede in
camera di consiglio con decreto motivato, con l'intervento del pm e dell'interessato; il Tribunale
stesso ha il potere di compiere gli accertamenti necessari per verificare se il soggetto ha cambiato
vita e se è pericoloso). Alla sorveglianza si accompagna una serie di prescrizioni (es. vivere
onestamente, rispettare le leggi, non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all'autorità
locale di pubblica sicurezza, rispettare alcuni orari, non accompagnarsi a determinati soggetti, non
detenere armi). La durata non può essere inferiore ad 1 anno né superiore a 5. La sorveglianza
speciale può comportare anche l'obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora
abituale, o il divieto di soggiorno in uno o più comuni, o in una o più province, diversi da quelli di
residenza o di dimora abituale. La violazione delle prescrizioni di sorveglianza speciale e
dell'obbligo di soggiorno costituisce reato.

3. LA PREVENZIONE ANTIMAFIA
Ai fini della prevenzione antimafia l'applicabilità della misura della sorveglianza speciale (nonché
dell'obbligo o del divieto di soggiorno) è stata estesa anche agli indiziati di appartenere a
associazioni mafiose (1965). In riferimento a questi casi la misura ha subito degli adattamenti: non
sarà necessario il precedente avviso orale del questore. Sempre al fine di potenziare la
prevenzione antimafia sono inoltre state introdotte nel 1982, con la legge Rognoni-La Torre, nuove
misure preventive di natura patrimoniale, una tipologia ritenuta la più idonea a combattere le
organizzazioni mafiose. Da un lato, l'esperienza giudiziaria ha infatti contribuito a dimostrare che il
vero tallone d'Achille della mafia è rappresentato dalle tracce documentali lasciate dalla grande
circolazione di denaro connessa allo svolgimento delle attività criminose. Dall'altro, poichè le
organizzazioni di stampo mafioso hanno come principale obiettivo l'accumulazione di ingenti
capitali, è ragionevole presumere che la maggior efficacia preventiva sia potenzialmente esercitata
da misure rivolte a impedire od ostacolare l'acquisizione di ricchezza. Le nuove misure sono il
sequestro e la confisca dei patrimoni di sospetta provenienza illecita. Esse sono applicabili
indipendentemente dalle misure personali (principio di reciproca autonomia), indipendentemente
dalla pericolosità sociale del soggetto al momento della richiesta (ciò a causa della pericolosità
intrinseca dei patrimoni riconducibili ai contesti associativi criminali), e possono essere disposte
anche nel caso di morte del soggetto proposto per la loro applicazione (nel caso la morte
sopraggiunga nel corso del procedimento esso prosegue nei confronti degli eredi o degli aventi
causa).

• Sequestro: consiste in una misura provvisoria di tipo cautelare disposta dal Tribunale, anche
d'ufficio, che si applica sui beni di soggetti nei confronti dei quali è stato iniziato un procedimento
e che, sulla base di sufficienti indizi (es. valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o
all'attività economica svolta), si ha motivo di ritenere siano frutto di attività illecite o ne
costituiscano il reimpiego.
• Confisca: si tratta di un provvedimento di natura ablativa, che comporta la devoluzione dei beni
sequestrati, di cui non sia stata dimostrata la legittima provenienza. Una critica può essere mossa
al sistema Rognoni-La Torre. Dal momento che i presupposti dell'applicazione del procedimento di
prevenzione per l'indiziato di mafia sono gli stessi del processo penale, si rischia una
sovrapposizione di procedimenti. La fattispecie penale e quella di prevenzione sono infatti
differenziabili solo alla stregua del diverso livello di prova raggiungibile circa l'appartenenza dei
singoli associati all'associazione: più precisamente, mentre al processo penale finisce col
corrispondere l'area probatoria avente come estremi l'indizio suscettivo di approfondimento e la
prova vera e propria, il processo di prevenzione dovrebbe invece ricomprendere l'area che va dal
sospetto oggettivamente suffragato all'indizio confinante con quello sufficiente ad attivare la
normale repressione penale. Ma nella prassi è difficile tracciare demarcazioni nette, di qui la
problematicità della situazione: è dunque necessario un migliore coordinamento.

4. LA LEGGE 22 MAGGIO 1975, N.152(C.D. LEGGE REALE)


Un'ulteriore estensione dell'ambito di applicabilità delle misure di prevenzione è stata realizzata
nel 1975 con la legge Reale. Questa volta l'estensione ha preso di mira i soggetti politicamente
pericolosi, tra cui in particolare soggetti che compiano atti preparatori diretti alla ricostituzione del
partito fascista, o a sovvertire l'ordinamento dello Stato. L'aspetto più innovativo della legge Reale
è che la misura di prevenzione viene ricollegata non più a condotte presuntive e a modi di essere
del soggetto, bensì alla sussistenza effettiva di "atti preparatori diretti a"; sembrerebbe ovvio
sostenere che deve trattarsi di un'attività che si manifesti all'esterno e che non sia ancora giunta
all'inizio della fase esecutiva (interpretazione in senso oggettivo). Senonché in questo modo si
configura il rischio di sovrapposizione tra la fattispecie preventiva e alcune tipologie di delitto di
attentato. Per evitare tale inconveniente si dovrebbe interpretare la formula normativa in senso
soggettivo, come espressione cioè dello scopo perseguito dall'agente: ma così si finisce per dare
rilevanza ad un mero sospetto. Tuttavia anche se interpretati in senso soggettivo, gli atti
preparatori finiscono per coincidere con le fattispecie di diversi reati che puniscono
autonomamente il compimento di atti preparatori di altri delitti. In questi casi è pacifico che il
concorso tra la fattispecie preventiva e quella repressiva si risolverà con la prevalenza di
quest'ultima. Nel 1989 è stata introdotta una nuova misura: la cosiddetta Daspo, cioè il divieto di
accedere nei luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive a carico di coloro che siano stati
coinvolti in episodi di violenza negli stadi o vi si rechino portando armi improprie. La misura è stata
estesa nel 1993 anche ad una serie di altri casi, in conseguenza del dilagare dell'allarme sociale
rispetto al fenomeno degli hooligans. Successivamente, sull'onda dell'allarme sociale generato
dall'incremento del fenomeno dell'immigrazione clandestina da paesi extracomunitari, si è
nuovamente fatto ricorso alla misura dell'espulsione per gli stranieri che si trovino in una delle
ipotesi previste dalla legge 327/1988 che disciplina l'applicazione delle misure preventive di tipo
personale.
5. INSUFFICIENZE E PROFILI DI INCOSITUZIONALITA’ DEL VIGENTE SISTEMA
PREVENTIVO
Da un punto di vista pratico le misure preventive si sono rilevate un boomerang: hanno nei fatti
paradossalmente contribuito ad aumentare i fenomeni criminosi anziché disincentivarli. In
particolare la sottoposizione a soggiorno obbligatorio di indiziati mafiosi ha portato alla diffusione
anche fuori dalla Sicilia del fenomeno in questione. Le critiche si sono dunque appuntate
soprattutto sulle misure di tipo personale, mentre quelle più recenti di natura patrimoniale sono
guardate con sostanziale favore poiché incidono su un bene assistito da minori garanzie rispetto al
bene fondamentale della libertà personale, e si prospettano più idonee a combattere la mafia. Le
tradizionali misure di prevenzione di carattere personale sembrano inoltre entrare in conflitto con
alcuni principi fondamentali previsti nella Costituzione:

• il principio della personalità della responsabilità penale, in quanto sorge il rischio di una
strumentalizzazione del soggetto per scopi di difesa sociale;

• il principio di presunzione di non colpevolezza, posto che si tratta di fattispecie strutturate sul
sospetto o sull'indizio;

• il principio di risocializzazione, che non può dirsi osservato da una disciplina che affida la fase
dell'esecuzione delle misure all'autorità di polizia, senza la contemporanea previsione di strumenti
di ausilio diretti a integrare il soggetto socialmente pericoloso nella comunità sociale. Non si deve
in ogni caso, nonostante i dubbi di incostituzionalità e gli inconvenienti pratici, ritenere che la
logica della prevenzione sia estranea allo stato sociale di diritto: anzi la stessa Costituzione
all'articolo 3 II comma stabilisce come sia compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto la libertà dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica
economica e sociale dello Stato stesso. In tale contesto la prevenzione non è più solo un'attività
intesa a impedire la commissione di reati in maniera diretta, ma impegno solidaristico e reale volto
ad assicurare lo sviluppo della persona e a prevenire in via indiretta il reato, attraverso la
rimozione delle sue cause di natura sociale, ambientale e soggettiva.

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