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CAPITOLO VII

1. Nozione di antigiuridicità e disciplina comune delle cause di giustificazione

1.1 La nozione di antigiuridicità

Per la sussistenza del reato non basta un fatto tipico occorre la realizzazione concreta del fatto
si ponga in contraddizione con l’intero ordinamento giuridico.
L’antigiuridicità è il concetto con il quale si esprime il rapporto di contraddizione tra il fatto
tipico e l’intero ordinamento giuridico.

1.2 Le cause di giustificazione

Un fatto può essere antigiuridico o lecito:


- è antigiuridico se è in contraddizione con l’intero ordinamento giuridico;
- è lecito se anche una sola norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo impone.
Può accadere che in un qualsiasi luogo dell’ordinamento esista una norma che preveda un
fatto penalmente rilevante come contenuto di un dovere o di una facoltà: una norma che per
salvaguardare un bene che l’ordinamento ritiene preminente, facoltizzi o renda doverosa la
realizzazione del fatto.

Se nel caso concreto sono presenti due norme antinomiche si profila un conflitto di norme, che è
però solo apparente.
L’unità dell’ordinamento giuridico impone di risolvere questo conflitto: è infatti inammissibile che
uno stesso fatto venga considerato sia lecito che illecito.
L’ordinamento italiano risolve il conflitto assegnando la prevalenza alla norma che facoltizza o
impone la realizzazione del fatto: il fatto è dunque lecito, e non punibile, per difetto del secondo
estremo del reato, l’antigiuridicità del fatto.
Il testimone o il giornalista che narra fatti lesivi dell’altrui reputazione non saranno punibili, perché
il fatto di diffamazione da loro commesso sarà lecito, in quanto avranno agito nell’adempimento di
un dovere o nell’esercizio di un diritto. Non sarà punibile neanche il soldato che in guerra abbia
ucciso un nemico, perché il fatto di omicidio da lui commesso sarà lecito in quanto realizzato
nell’adempimento di un dovere.

Con il nome di cause di giustificazione del fatto (o scriminanti, cause di esclusione


dell’antigiuridicità) si designa l’insieme delle facoltà o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni
luogo dell’ordinamento, che autorizzano o impongono la realizzazione di questo o quel fatto
penalmente rilevante.
Se è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico e costituirà reato
(se concorrono anche la colpevolezza e la punibilità).
Se invece è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito, quindi né
punibile né assoggettabile a misure precautelari (art. 385 c.p.p.) o cautelari.
Coerentemente l’art. 530 c.p.p. stabilisce che il giudice deve pronunciare <<sentenza di
assoluzione>> non solo quando <<il fatto non sussiste>>, ma anche quando, pur sussistendo, vi è
<<la prova che è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione>>.

1.3. L’efficacia “universale” delle cause di giustificazione

L’unità dell’ordinamento giuridico comporta non solo che le cause di giustificazione possano
essere previste in qualsiasi luogo dell’ordinamento, ma anche che la loro efficacia sia ‘universale’:
il fatto sarà lecito in ogni settore dell’ordinamento e non sarà soggetto a nessuna sanzione.
Esempio: chi cagiona la morte di un uomo per legittima difesa non potrà essere assoggettato né a pena, né alla
sanzione civilistica del risarcimento dei danni materiali e morali.

1.4. Fonti e applicabilità per analogia delle cause di giustificazione

Le norme che prevedono cause di giustificazione non sono norme penali, non sono quindi soggette
alla riserva di legge (art. 25 co.2 Cost.) e al divieto di analogia (art. 14 delle disposizioni sulla legge
in generale). Non possono essere definite neanche norme eccezionali.

1.5. La disciplina delle cause di giustificazione agli effetti del diritto penale

1.5.1. Le cause di giustificazione sono facoltà o doveri che hanno per oggetto la commissione di un
fatto penalmente rilevante. Si tratta pertanto di un giudizio di liceità oggettivo, nel senso che non
dipende dalle valutazioni, dalle conoscenze o dalle finalità del singolo agente.
La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione trova esplicito e vincolante riconoscimento nel
Codice penale. L’art. 59 co.1 c.p. dispone che <<le circostanze che escludono la pena sono valutate
a favore dell’agente che anche se da lui non conosciute, o per errore ritenute inesistenti>>.

1.5.2. Chi concorre alla realizzazione di un fatto tipico commesso in presenza di una causa di
giustificazione non è punibile. Il partecipe al fatto concorre al salvataggio di un bene più rilevante
(del fatto compiuto), e quindi anche la sua condotta è considerata lecita.
Come conferma di ciò vi è l’art. 119 c.p.
Esempio: Il cittadino che aiuta un agente di polizia giudiziaria ad arrestare una persona colta in flagranza, in un
caso in cui l’arresto è facoltativo: il fatto realizzato dall’agente di polizia integra gli estremi del sequestro di
persona, giustificato come esercizio di una facoltà legittima sia nei confronti dell’agente, sia nei confronti del
cittadino che lo aiuta.
Fanno eccezione a questa regola le cause di giustificazione c.d. personali, cioè quelle che si
riferiscono soltanto a cerchie limitati di soggetti.
Esempio: l’uso legittimo delle armi giustifica il pubblico ufficiale, ma non qualsiasi cittadino che spontaneamente
cooperi con il pubblico ufficiale nell’uso della forza.

1.6. Cause di giustificazione e clausole di “illiceità espressa”

Talvolta singole norme incriminatrici contengono clausole di ‘illiceità espressa’: contengono cioè
termini come ‘ingiusto’, ‘indebitamente’, ‘arbitrariamente’, che non contribuiscono a descrivere il
fatto penalmente rilevante, ma danno espresso rilievo alle cause di giustificazione previste
dall’ordinamento, la cui presenza nel caso concreto rende lecita la commissione del fatto
penalmente rilevante.
Esempio: art. 615 bis c.p. e art. 615 ter c.p.
i termini ‘indebitamente’ e ‘abusivamente’ evocano in modo espresso l’eventualità che un fatto di
interferenze illecite nella vita privata o un fatto di accesso abusivo ad un sistema informatico o
telematico sia posto in essere in esecuzione di un provvedimento legalmente disposto dall’autorità
giudiziaria, sarà giustificato dall’adempimento di un dovere.

1.7. L’erronea supposizione della presenza di cause di giustificazione: rinvio

Se il fatto viene commesso in assenza di una causa di giustificazione è definitivamente


antigiuridico. Tuttavia, l’agente può credere erroneamente di agire in presenza di una situazione di
fatto, che se esistesse nella realtà darebbe vita a una causa di giustificazione riconosciuta
dall’ordinamento.
Questa ipotesi (c.d. causa di giustificazione o scriminante putativa) è disciplinata dall’art. 59 co.4
c.p.
Esempio: Un carabiniere, mentre di notte è alla guida di un'auto in servizio di perlustrazione, scorge dei massi
che occupano la sede stradale e al contempo vede una persona incappucciata che corre verso di lui impugnando
una pistola giocattolo, dalla quale è stato asportato il tappo rosso che era presente sulla canna. Ritenendo per
errore di trovarsi in pericolo di vita, il carabiniere spara e uccide il presunto aggressore, che in realtà si accingeva
a inscenare uno scherzo (una simulazione di rapina) ai danni di un amico che stava per sopraggiungere.
La Corte di Cassazione ha ravvisato in questo caso un’erronea supposizione di legittima difesa, escludendo gli
estremi della colpa.

1.8. L’eccesso nelle cause di giustificazione

1.8.1. Se il fatto è commesso in presenza di una situazione che integra la previsione di una norma
scriminante, ma la condotta dell’agente eccede i limiti segnati da tale norma, si parla di eccesso
nelle cause di giustificazione.
Esempio: Tizio, aggredito per strada da Caio che alza una mano per schiaffeggiarlo, si trova in una situazione di
pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un suo diritto. Tizio non si limita a neutralizzare l’aggressore, ma afferra
un bastone e colpisce Caio al capo, uccidendolo. Il fatto è antigiuridico perché supera i limiti della legittima
difesa.
Quando vi è un eccesso nelle cause di giustificazione manca il requisito della proporzione tra difesa
e offesa. Per poter porre quel fatto a carico dell’agente bisognerà accertare se l’eccesso sia
rimproverabile all’agente per colpa o per dolo; se l’eccesso è incolpevole sarà esclusa qualsiasi
forma di responsabilità penale.

1.8.2. Il Codice penale disciplina espressamente l’eccesso colposo, con l’art. 55 co.1 c.p.
La colpa dell’agente può riguardare un’erronea valutazione della situazione scriminante.
Esempio: Agente crede di vedere nelle mani di un aggressore disarmato un coltello che non c’era; l’agente
incorre quindi in un errore sull’entità dell’aggressione. L’errore ha carattere colposo e l’ordinamento addebita il
fatto all’agente a titolo di omicidio colposo.
La colpa può radicarsi nella fase esecutiva della condotta, in particolare in un cattivo controllo dei
mezzi esecutivi, che comporta un risultato più grave di quello voluto dall’agente.
Esula dalla sfera dell'art. 55 c.p., lasciando sussistere, di regola, la responsabilità per dolo, un
errore che abbia per oggetto non la situazione, ma la norma scriminante .
Esempio: se l'agente cagiona la morte di un tale che lo aggredisce per strada ben rendendosi conto che è in
pericolo soltanto la sua integrità fisica, ma ritenendo per errore che la norma generale sulla legittima difesa non
contempli né il limite della proporzione, né quello della necessità della difesa (un errore inescusabile sulla legge
penale), risponderà non di eccesso colposo in legittima difesa, bensì di omicidio doloso.
Va segnalato che una disciplina speciale per l’eccesso colposo in ipotesi della legittima difesa nel
domicilio è stata introdotta dalla legge 29 aprile 2019, n.36 all’art. 55 co.2 c.p.
Si è così individuata un’ipotesi in cui la responsabilità penale è esclusa per difetto di colpevolezza.
1.8.3. Si tratta di eccesso doloso (non riconducibile all’art. 55) quando l’agente si sia rappresentato
la situazione scriminante, abbia pienamente controllato i mezzi esecutivi e abbia consapevolmente
realizzato un fatto antigiuridico che eccede i limiti della causa di giustificazione.
Esempio: Tizio aggredito da una persona che voglia solo percuoterlo, si rende conto che il pericolo che corre è
solo quello di una percossa o al più di una lesione, impugna un’arma, uccidendo deliberatamente l'aggressore: in
tal caso l'agente risponderà di omicidio doloso consumato.
Sulla differenza tra eccesso doloso e eccesso colposo si è espressa la Corte di Cassazione, con Sez.
III, 27 aprile 2018, n. 30910, L., CED 273731: “In tema di legittima difesa l'eccesso colposo si
verifica quando la giusta proporzione fra offesa e difesa venga meno per colpa, intesa come errore
inescusabile, ovvero per precipitazione, imprudenza o imperizia nel calcolare il pericolo e i mezzi di
salvezza, mentre si fuoriesce da esso tutte le volte in cui i limiti della necessità della difesa vengano
superati in conseguenza di una scelta cosciente e volontaria, così trasformando la reazione in uno
strumento di aggressione.”

1.8.4. Nessuna responsabilità penale sorgerà nel caso di eccesso incolpevole, cioè quando l’errore
compiuto dall’agente non sia dovuto a colpa, perché non sarebbe stato evitato da parte di un
uomo ragionevole che si fosse ritrovato ad agire nelle stesse circostanze di tempo e di luogo.
Esempio: Andrà esente da responsabilità penale chi, aggredito da un energumeno disarmato, che gli torce un
braccio a rischio di spezzarlo, afferra una pistola e mira alle gambe dell’aggressore, ma questi si abbassa, viene
colpito all’addome e muore.

1.8.5. Il fatto commesso da chi ecceda colposamente o dolosamente i limiti di una causa di
giustificazione è un fatto illecito, che dunque obbliga a un risarcimento del danno patrimoniale e
non patrimoniale. La misura di risarcimento terrà però conto della particolare situazione in cui si è
trovato l’autore dell’eccesso. La giurisprudenza prevalente applica per analogia l’art. 1227 co.1 c.c.
prevedendo in caso di eccesso colposo nelle cause di giustificazione la condanna al risarcimento
del danno in misura diminuita in ragione del concorso del fatto del danneggiato.
In relazione ai profili risarcitori dell’eccesso colposo di difesa nel domicilio in situazioni di minorata
difesa o grave turbamento psichico, è stata introdotta una disciplina ad hoc all’art. 2044 co.3 c.c.:
“Si prevede che l’autore dell’eccesso debba corrispondere al giudice, tenuto altresì conto della
gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posata in essere del
danneggiato”.

1.9. Il sacrificio di un bene, incarnato dalla commissione di un fatto, può essere giustificato solo
dalla presenza degli estremi oggettivi di una causa di giustificazione, che sono talora imperniati su
un giudizio ex ante.
Il prototipo è l’estremo del pericolo nella legittima difesa: esprimendo la prognosi di un
accadimento (l’offesa) che è nel futuro, il pericolo comporta strutturalmente un giudizio ex ante.
Anche il dovere o la facoltà di arresto e il fermo di indiziato di delitto poggiano su requisiti che
impongono decisioni che vanno prese tempestivamente, in base a un giudizio ex ante.
Pur non intaccando la liceità del fatto giustificato ex ante, l’ordinamento apporta un correttivo ex
post: l’arrestato o il fermato andranno posti immediatamente in libertà se risulta evidente che
l’arresto o il fermo è stato eseguito con errore o fuori dai casi previsti dalla legge.

3. Fondamento dell’avente diritto

3.1. Fondamento della causa di giustificazione


L’art. 50 c.p. stabilisce che: “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso
della persona che può validamente disporne”.
Si tratta di una causa di giustificazione a portata limitata: possono essere giustificati solo i fatti
penalmente rilevanti che ledono o pongono in pericolo diritti individuali che le norme penali
proteggono nell’esclusivo interesse del titolare. I diritti individuali tutelati nell’esclusivo interesse
del titolare rappresentano il campo di applicazione della scriminante del consenso dell’avente
diritto e si caratterizzano perciò come ‘disponibili’ da parte del titolare, nel senso che il titolare
può disporne secondo la sua volontà conferendo a terzi la facoltà legittima di lederli o porli in
pericolo. Il fatto penalmente rilevante che lede o pone in pericolo un diritto disponibile con il
consenso del titolare sarà dunque lecito.

3.2. I diritti disponibili

Tra i diritti individuali il Codice penale del 1930 considerava integralmente indisponibile il diritto
alla vita: emblematica in questo senso la norma che configura come reato l’omicidio del
consenziente.
Il diritto alla vita è sì riconducibile al novero dei diritti inviolabili della persona ex art. 2 Cost., ma
non può essere trasformato in un dovere, a salvaguardia degli interessi che trascendono il singolo.
In definitiva, ciascun uomo ha un ‘diritto a non curarsi’ e a ‘lasciarsi morire’, alla sola condizione
che il rifiuto delle cure non esponga a pericolo la salute o la vita di altri.
i principi affermati dalla giurisprudenza in materia di rifiuto di trattamenti sanitari sono ora
ampiamente recepiti nella l. n. 219/2017, in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento (DAT o testamento biologico).
Rimane fermo che, anche in caso di rifiuto del consenso al trattamento sanitario, il medico deve
adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente attraverso un’appropriata terapia del dolore.
L’art. 1 co.6 219/2017 dispone che: “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal
paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è
esente da responsabilità civile o penale”.
Il legislatore ha quindi apposto significativi limiti al carattere indisponibile del bene della vita.
La Corte d’Assise di Milano ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione
che punisce l’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.)
Il procedimento penale nel cui ambito è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale
vedeva imputato un esponente del Partito radicale, Marco Cappato, per avere
agevolato il suicidio di Fabiano Antoniani (Dj Fabo), cieco e tetraplegico a seguito di un
incidente stradale, trasportandolo in auto presso una struttura svizzera nella quale si è compiuto.
Il suicidio, nel rispetto della normativa di quel Paese, ad opera dello stesso Antoniani con l'ausilio
di personale della struttura.
La Corte costituzionale, con l'ordinanza 16 novembre 2018, n. 207, ha dato al quesito della Corte
d'Assise di Milano una risposta solo interlocutoria. Ad avviso del giudice delle leggi l’incriminazione
dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione, poiché lo scopo
della norma incriminatrice è quello di proteggere il soggetto da decisioni in suo danno.
È anche vero però che in situazioni come quelle di DJ Fabo l’assistenza di terzi nel porre fine alla
vita si presenti al malato come unica via di uscita per sottrarsi a un mantenimento artificiale in vita
non più voluto.
Una volta riscontrata la violazione dei principi costituzionali la Corte non ha ritenuto di procedere
con una dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., bensì ha optato per
un rinvio a giudizio a data fissa (24 settembre 2019), per permettere al parlamento di dettare una
nuova disciplina e con relativa sospensione del processo penale per Marco Cappato.
Il monito della Corte è rimasto però inascoltato, con la conseguenza che la Corte costituzionale
(sent. 22 novembre 2019, n. 242) ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma
incriminatrice dell'aiuto al suicidio, limitatamente all'ipotesi in cui venga agevolata « l'esecuzione
del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita
da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche
o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e
consapevoli ». A fronte dell'inerzia del legislatore, la Corte si è fatta carico di rinvenire nel sistema
una disciplina dell'aiuto al suicidio con efficacia scriminante: ha esteso all'aiuto al suicidio la
disciplina dettata dalla l. n. 219/2017, che contempla l'intervento di una struttura pubblica del
servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente, così da
assicurare, tra l'altro, l'accesso a cure palliative. In ultima analisi, la Corte costituzionale, con una
sentenza che valorizza la dignità e la libertà di autodeterminazione del malato, ha confermato il
carattere non più integralmente indisponibile del diritto alla vita, dando rilievo al consenso
dell'individuo nell'ambito di una procedura volta a scongiurare il pericolo di abusi e a tutelare
persone particolarmente vulnerabili.

Sono disponibili in via di principio i diritti patrimoniali, a meno che l’integrità del bene che forma
oggetto del diritto patrimoniale soddisfi anche un interesse pubblico.
Disponibili sono inoltre i vari diritti personalissimi: diritto all’onore, alla libertà morale e personale,
alla libertà sessuale, alla libertà di domicilio, alla riservatezza e alla segretezza di fatti o dati relativi
alla persona.
L’integrità fisica è illimitatamente disponibile quando l’atto di disposizione del corpo sia funzionale
alla salvaguardia della salute, come nel caso di consenso all’asportazione di un organo malato.
L’integrità fisica è invece disponibile entro i limiti fissati dall’art. 5 c.c. se l’atto di disposizione va a
svantaggio della salute del disponente, come nel caso del consenso prestato al prelievo di parti del
corpo per il trapianto da vivo a vivo. Si tratta di un duplice ordine di limiti: quantitativi e qualitativi.

Quanto al limite della diminuzione permanente dell’integrità fisica ex art. 5 c.c. non sarà superato
quando il consenso riguardi l’asportazione di parti del corpo autoriproducibili; sarà invece
superato quando riguardi l’asportazione di un organo non autoriproducibile, anche se si tratta di
un organo doppio (es. cornee).
Al divieto degli atti di disposizione del corpo che comportino una diminuzione permanente
dell’integrità fisica ha derogato espressamente la l. 26 giugno 1947 n.458, che, in presenza di una
serie di condizioni, finalizzate a garantire la spontaneità e la non venalità del consenso, ha reso
lecita la donazione di un rene, parti di fegato, di polmone, di pancreas e di intestino.
Quanto al consenso ad interventi di sterilizzazione l’abrogazione dell’art. 552 c.p. (che puniva la
procurata impotenza alla procreazione), ha reso penalmente irrilevanti gli interventi di
sterilizzazione.
Quanto ai limiti qualitativi è, ad esempio, irrilevante il consenso al prelievo di sangue in cambio di
denaro, perché contrario ad una specifica disposizione di legge.
Ancora, è irrilevante il consenso prestato dalla vittima alle lesioni che le siano state inferte al fine
di commettere frode assicurativa.

3.3. I requisiti del consenso

Legittimato a prestare consenso è il titolare del diritto, ovvero il suo rappresentante legale o
volontario. Quanto alla capacità di consentire, decisiva è la capacità naturale di chi presta il
consenso.
Il consenso:
- può essere manifestato in qualsiasi forma, espressa o tacita;
- può essere sottoposto a condizioni o a termini o a limitazioni;
- deve essere immune da vizi;
- deve sussistere al momento del fatto;
- deve permanere per tutto il tempo in cui eventualmente si protragga la realizzazione del
fatto;
- è sempre revocabile.
Discussa è la rilevanza del c.d. consenso presunto, che si ha quando non sia stato prestato alcun
consenso, ma l'agente operi nell'interesse del titolare del diritto. Si pensi al caso di chi commetta
un fatto di violazione di domicilio (art. 614 c.p.) entrando nell'abitazione di un vicino assente da
casa, forzando la porta chiusa a chiave, per bloccare la fuoruscita dell'acqua da un rubinetto
Mentre la giurisprudenza tende a considerare irrilevante il consenso presunto, la dottrina
prevalente adotta la soluzione opposta, sia pure con motivazioni diverse: la più plausibile è quella
che fa leva sull'applicazione analogica della normativa civilistica sulla negotiorum gestio (artt. 2028
ss. c.c.)
Secondo questa impostazione, nel caso in esame sarebbe integrato un fatto di violazione di
domicilio, ma quel fatto sarebbe giustificato dall'esercizio della facoltà di gestire utilmente gli
interessi del terzo, titolare del domicilio. In ultima analisi la causa di giustificazione che qui
opererebbe è quella dell'esercizio di un diritto e non quella del consenso dell'avente diritto, nella
particolarissima forma del consenso presunto.

3.4. Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento (DAT) in ambito sanitario

La l. n. 219/2017 ha dettato una disciplina organica del consenso al trattamento sanitario, ispirata
al principio secondo cui “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del
consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti
dalla legge” (Esempio: TSO).
La stessa legge ha poi previsto la possibilità di manifestare anticipatamente la propria volontà in
materia di trattamenti sanitari attraverso il c.d. testamento biologico (DAT).
In presenza di DAT, il medico è tenuto al loro rispetto, con conseguente esclusione di ogni
responsabilità civile e penale. La legge individua alcune ipotesi in cui il medico, d’accordo con il
fiduciario, può disattendere le DAT, e cioè quando sussistano terapie non prevedibili all’atto della
sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del
paziente.
Quanto alla forma delle DAT, è prevista la redazione per atto pubblico, per scrittura privata
autenticata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune
di residenza o presso una struttura sanitaria.
In caso di disabilità è prevista la possibilità di fare ricorso a videoregistrazione o ad altre idonee
forme di comunicazione.

3.5. Il trattamento medico-chirurgico in assenza di un valido consenso

Caso: intervento chirurgico praticato in assenza di un valido consenso del paziente, e quest’ultimo
muore.
In tal caso la Corte di Cassazione ha configurato il fatto come omicidio preterintenzionale ex art.
584 c.p., ritenendo che la morte sia conseguenza di una lesione personale dolosa.
Per il caso invece in cui il paziente non muoia a causa dell’intervento, e le sue condizioni di salute
successivamente migliorino, la Corte di cassazione a Sezioni Unite ha parlato di esito fausto,
lasciando spazio per una responsabilità a titolo di lesioni colpose.
Se l’intervento chirurgico è stato posto in essere nella piena coscienza dell’esplicito dissenso del
paziente o peggio, carpendone il consenso in relazione ad una modalità esecutiva dell’intervento a
priori oggettivamente non attuabile, deve ravvisarsi non solo la imprescindibile volontà di incidere
sulla incolumità individuale, ma anche quella peculiare di procurare l’evento dannoso finale.
Questo va dunque imputato a titolo di dolo, non di colpa.

4. L’esercizio di un diritto

4.1. Fondamento della causa di giustificazione

Accanto alle facoltà legittime espressamente contemplate dal Codice penale (consenso dell’avente
diritto e legittima difesa), l’ordinamento giuridico prevede nei suoi più diversi settori altre norme
attributive della facoltà legittima di commettere fatti penalmente rilevanti, rendendone così lecita
la realizzazione. La punibilità è esclusa in quanto l’esigenza di coerenza e unità dell’ordinamento
impone di considerare lecito un comportamento che, pur essendo riconducibile al ‘tipo’ di un
reato, è espressamente facoltizzato da una diversa norma dell’ordinamento.

4.2. Il concetto di ‘diritto’ ex art. 51 c.p.

L’espressione “diritto” nell’art. 51 c.p. viene intesa come comprensiva non solo dei diritti soggettivi
in senso stretto, ma anche di qualunque facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento:
libertà costituzionali, diritti potestativi riconosciuti dal diritto civile, poteri da organi pubblici, mere
facoltà concesse al privato.

4.3. Le fonti del diritto scriminante

Facoltà di agire rilevanti all’ex art. 51 c.p. possono scaturire da norme costituzionali, da norme di
legge ordinaria, da norme del diritto dell’Unione Europea, da leggi regionali, da norme
consuetudinarie. (non può essere fonte di un diritto scriminante il provvedimento amministrativo).

4.4. I limiti del diritto scriminante

Per stabilire se un fatto penalmente rilevante è lecito perché commesso nell’esercizio di un diritto,
è necessario accertare previamente il contenuto della norma attributiva del diritto: in particolare si
tratta di accertare se tra le facoltà costitutive di tale diritto rientri proprio la specifica azione od
omissione realizzata dall’agente.
La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione stabilita dall’art. 59 co. 1 c.p. comporta che il
fatto resta lecito, in quanto realizzato nell’esercizio di un diritto, qualunque sia il fine (anche se
eticamente riprovevole) che ha in concreto animato il soggetto nell’esercizio del suo diritto.
Esempio: Giornalista che riferisce fedelmente circostanze lesive dell’altrui reputazione contenute
nell’esposizione orale di un perito realizza un fatto lecito di diffamazione.

4.5. Due ipotesi di diritti scriminanti: (a) la libertà di manifestazione del pensiero

Questo diritto di libertà abbraccia sia la manifestazione di opinioni e convincimenti, sia


l’esposizione di vicende e fatti.
Quanto alla prima sfera, riteniamo che il diritto derivante dall’art.21 Cost. copra anche
manifestazioni di opinioni non argomentate né motivate, e magari formalmente scorrette: la
libertà di manifestazione del pensiero non è infatti un privilegio riservato agli uomini di cultura o
alle persone di buone maniere, bensì un diritto attribuito a tutti.
Quanto alla narrazione di fatti, la giurisprudenza, soprattutto con riferimento alla cronaca
giornalistica, sottolinea che gli eventuali contenuti offensivi della reputazione sono giustificati solo
in quanto rispondono a verità, da intendersi come verità oggettiva.
La verità va accertata al momento della diffusione della notizia, attraverso un controllo sulle fonti
di informazione. Essa consiste nella corrispondenza tra accaduto e narrato in relazione agli
elementi essenziali del fatto ed è compatibile con modeste e marginali inesattezze relative alle
modalità della sua realizzazione; in tema di cronaca giudiziaria, quando la notizia è attinta da un
provvedimento giudiziario, è necessario che la narrazione sia fedele al contenuto del
provvedimento e che sia riferita agli sviluppi dell’indagine quali risultano al momento in cui si
scrive.
Un secondo limite al diritto di cronaca è rappresentato dall’esistenza di un interesse pubblico alla
conoscenza dei fatti riferiti dal giornalista, deve cioè trattarsi di fatti la cui conoscenza possa
orientare le scelte dei lettori nel campo della politica, della scienza, della cultura ecc.
Un terzo limite è la correttezza del linguaggio usato (c.d. continenza) intesa come forma espositiva
corretta della critica, e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non
trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione.

4.6. Il diritto di sciopero

Il riconoscimento nella Costituzione del diritto di sciopero ha comportato la progressiva


eliminazione delle molte norme penali previste nel codice Rocco che configuravano quel diritto
come delitto. Conservano rilevanza penale soltanto lo sciopero per fini non contrattuali e la
coazione alla pubblica autorità mediante sciopero, limitatamente alle ipotesi in cui siano diretti a
impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità
popolare.
Il legislatore nel 1990 ha depenalizzato le norme che punivano lo sciopero nei servizi pubblici
essenziali, sostituendo alle sanzioni penali un articolato sistema di sanzioni amministrative. Resta
tuttora in vigore l’art. 340 c.p. che reprime l’interruzione di un servizio di pubblica necessità: ed è
in relazione a questa norma che può oggi profilarsi l’ipotesi di una rilevanza l’astensione collettiva
dalle prestazioni professionali da parte degli avvocati.
La Corte Costituzionale ha riconosciuto la liceità di tale forma di protesta collettiva, dichiarando
nel contempo l’illegittimità di alcune disposizioni della l. 146/1990.
L’esigenza di fissare tali limiti e condizioni è correlata alla salvaguardia di preminenti interessi
individuali o collettivi, come l’interesse a essere giudicati senza ritardo da parte degli imputati
sottoposti a misure cautelari in carcere.
Va infine sottolineato che il diritto di sciopero consiste nel diritto di astenersi collettivamente dal
lavoro, esercitando eventualmente un’azione persuasiva diretta ad ottenere adesioni anche da
parte di altri lavoratori. Non rientrano invece nel diritto allo sciopero, e integrano invece il delitto
di violenza privata, le azioni di picchettaggio violento, cioè l’uso della violenza o minaccia per
costringere i lavoratori ad aderire allo sciopero
Cass. Sez. V, 16 ottobre 2015 n.7084, P. CED 266063, sottolinea che l’esercizio dei diritti
fondamentali quali quello di sciopero, riunione e manifestazione del pensiero cessa di essere
legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente garantiti.
5. L’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica

5.1. Fondamento della causa di giustificazione e individuazione del dovere scriminante

L’art. 51 co.1 stabilisce che l’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica esclude
la punibilità.
Uno stesso ordinamento non può vietare sotto minaccia di pena la realizzazione di un fatto, e al
tempo stesso, imporne la realizzazione.
In una situazione di questo tipo si profila un conflitto di doveri.
Tale conflitto va risolto individuando quale sia il dovere prevalente e l’adempimento di tale dovere
renderà lecita la violazione del dovere soccombente.
La scriminante dell’adempimento di un dovere viene in considerazione anche a proposito del
rifiuto di trattamenti terapeutici.
Esempio: nel caso Welby (precedente alla legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento) il Tribunale di Roma
aveva ritenuto giustificato un fatto di omicidio del consenziente commesso a seguito di un esplicito rifiuto di
cure da parte del paziente: il medico aveva infatti disconnesso il respiratore che teneva in vita Piergiorgio Welby,
con una condotta che il tribunale ha inquadrato nell’adempimento di un dovere discendente dall’art. 32 co. 2
Cost.
Altre volte il dovere prevalente verrà individuato dall’interprete attraverso il criterio della
specialità, ricomprendendo tutti gli elementi costitutivi del sequestro di persona e in più gli
elementi specializzanti della qualità del soggetto attivo e della situazione di flagranza o quasi -
flagranza nel reato. Quando non sussista un rapporto di specialità tra le norme in conflitto, la
prevalenza spetterà al dovere il cui adempimento soddisfa un interesse di rango superiore.
Esempio: Tra il divieto penalmente rilevante di diffamazione (art. 595 c.p.) e l’obbligo del testimone di riferire i
fatti di cui è a conoscenza (art. 372 c.p.) anche se lesivi dell’altrui reputazione, prevale il secondo dovere perché
l’interesse pubblico alla corretta formazione delle decisioni giudiziali prevale sul diritto individuale all’onore.

5.2. Fonti del dovere scriminante

Le norme giuridiche che impongono un dovere scriminante possono promanare anche da fatti sub
legislative, come ad esempio un regolamento, o da norme di diritto internazionale.
Quanto alle norme di ordinamenti stranieri, che impongano il dovere di commettere fatti
penalmente rilevanti in base alla legge italiana, sono irrilevanti se si tratta di reati commessi nel
territorio italiano; ove si tratti invece di fatti commessi all’estero, il principio di doppia
incriminazione comporta l’efficacia scriminante dell’adempimento del dovere imposto dalla norma
del Paese straniero: a meno che non si tratti di uno dei delitti previsti dall’art. 7 c.p. o di un delitto
politico ai sensi dell’art. 8 c.p. nei qual caso l’applicabilità della legge penale italiana non è
subordinata al principio della doppia incriminazione.

6. L’adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità

6.1. Il dovere scriminante imposto da un ordine legittimo

Secondo l’art. 51 c.p. un dovere il cui adempimento rende lecita la realizzazione di fatti
penalmente rilevanti può derivare (oltre che dalla norma giuridica) da un ordine legittimo della
pubblica autorità.
L’emanazione dell’ordine ha reso concreta la volontà di una norma giuridica; l’esecuzione
dell’ordine legittimo non è dunque che l’esecuzione, sia pure mediata o indiretta, di quella norma.
L’ordine (promanante da una pubblica autorità, non da privati) deve essere legittimo sia
formalmente che sostanzialmente.
È formalmente legittimo quando concorrono tre requisiti:
a) la competenza dell’organo che lo ha emanato;
b) la competenza del destinatario ad eseguire l’ordine;
c) il rispetto delle forme eventualmente prescritte per la validità dell’ordine.
Esempio: Un ordine di custodia cautelare in carcere è formalmente legittimo quando è emanato dal giudice per
le indagini preliminari, è rivolto ad un ufficiale o agente di polizia ed è adottato nelle forme dell’ordinanza.
L’ordine è sostanzialmente legittimo quando esistono i presupposti fissati dall’ordinamento per la
sua emanazione.
Esempio: L’ordine di custodia cautelare in carcere è sostanzialmente legittimo alle seguenti condizioni:
a) si procede per un delitto per il quale la legge prevede la reclusione non inferiore nel massimo a cinque
anni;
b) sussistono gravi indizi di colpevolezza;
c) vi è pericolo di inquinamento delle prove, fuga, commissione di taluni gravi delitti o di delitti della stessa
specie;
d) ogni misura cautelare diversa dalla custodia in carcere risulta inadeguata.

6.2. La responsabilità di chi emana e di chi esegue un ordine illegittimo

L’art. 51 co.2 e 3 c.p. stabilisce che “se un fatto costituente reato è commesso per ordine
dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del
reato altresì chi ha eseguito l’ordine”.
Quanto alla responsabilità di chi ha emanato l’ordine illegittimo per il fatto commesso
dall’esecutore dell’ordine, l’art. 51 co.2 c.p. dà esplicito rilievo ad una normale ipotesi di concorso
di persone nel reato: la responsabilità del superiore discende dal suo ruolo di istigatore.
Quanto invece alla responsabilità di chi ha eseguito l’ordine illegittimo, è senz’altro configurabile
nei confronti di coloro che, come pubblici impiegati, non sono vincolati all’obbedienza degli ordini
dei superiori: hanno anzi il preciso dovere di astenersi dall’eseguire l’ordine del superiore quando
l’atto sia vietato dalla legge penale.
Il pubblico impiegato ha infatti il potere-dovere di controllare la legittimità sia formale sia
sostanziale dell’ordine, con la conseguenza che ove vi sia esecuzione all’ordine di commettere un
reato, non potrà invocare la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere.
Hanno il dovere di astenersi dall’eseguire un ordine la cui esecuzione integra un reato i privati che
ricevano un ordine illegittimo di polizia.
Esempio: nel caso in cui una pubblica autorità emanasse un provvedimento nel quale si ingiunga ai titolari degli
enti privati che gestiscono autoambulanze di non prestare soccorso ai feriti extracomunitari privi di permesso di
soggiorno, l'esecuzione dell'ordine integrerebbe il delitto di omissione di soccorso (art. 593 c.p.) e ne
risponderebbero come concorrenti sia chi ha emanato l'ordine ai sensi dell'art. 51 co. 2 c.p., sia il titolare
dell'ente che abbia imposto ai suoi dipendenti di non prestare l'assistenza necessaria.

6.3. Gli ordini illegittimi insindacabili

L’art. 51 co. 4 c.p. stabilisce che non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non
gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine.
Esistono nel nostro ordinamento ordini illegittimi vincolanti, ma non si tratta mai di un vincolo
assoluto. In particolare, i militari e gli appartenenti alla polizia di Stato hanno il dovere di eseguire
gli ordini dei superiori, ma tale dovere incontra un triplice limite:
a) l’ordine non deve essere formalmente illegittimo;
b) anche se formalmente legittimo, l’ordine non deve essere manifestatamente criminoso
(ordine apertamente rivolto contro le istituzioni dello Stato);
c) il subordinato non deve comunque essere personalmente a conoscenza del carattere
criminoso dell’ordine.
Se compiuta entro i limiti sopra indicati, l’esecuzione degli ordini da parte del militare o
dell’appartenente alla polizia di Stato non potrà ritenersi antigiuridica, costituendo l’oggetto di
uno specifico dovere dell’agente: e tale dovere opererà come causa di giustificazione, fondata
sulla prevalenza dell’interesse ad un pronto adempimento degli ordini dei superiori rispetto
agli interessi tutelati dalle norme incriminatrici di volta in volta violate.
Si tratta di una causa di giustificazione personale, nel senso che la liceità riguarda la condotta
del solo subordinato, non si estende al terzo che di sua iniziativa cooperi al fatto.
Se invece l’esecuzione dell’ordine è compiuta violando i limiti sopra indicati, vengono meno la
presunzione di legittimità e chi esegue l’ordine risponde del reato commesso.

6.4. L’errore di fatto sulla legittimità dell’ordine

Non risponde a titolo di dolo subordinato che dia esecuzione ad un ordine illegittimo, qualora
egli ritenga per un errore di fatto di eseguire un ordine legittimo.
Esempio: un agente di polizia giudiziaria il quale riceva ed esegua un provvedimento di custodia cautelare
materialmente falsificato in tutti i suoi elementi costitutivi, il fatto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) non
è giustificato, trattandosi di un ordine illegittimo, ma il reato di sequestro di persona non è integrato perché
l'errore dell'agente che riteneva di dare esecuzione ad un ordine formalmente e sostanzialmente legittimo
esclude il dolo. Qualora l’errore in cui è caduto l’agente sia inescusabile perché dovuto a colpa, non si
configurerà nei suoi confronti alcuna responsabilità penale perché la legge non prevede un’ipotesi colposa di
sequestro di persona.

7. La legittima difesa

7.1. Fondamento della causa di giustificazione

L’art. 52 co. 1 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto
dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa
ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
L’ordinamento attribuisce al cittadino la facoltà legittima di autotutelare i propri diritti quando
corrano il pericolo di essere ingiustamente offesi da terzi e lo Stato non sia in grado di assicurare
una tempestiva ed efficace tutela attraverso i suoi organi, sempreché la difesa sia necessaria e
proporzionata.

7.2. I presupposti della legittima difesa: la nozione di pericolo

La legittima difesa esige come presupposto che un diritto proprio o altrui corra il pericolo attuale di
essere ingiustamente offeso.
Quanto alla nozione di pericolo, il giudice deve compiere una prognosi postuma in concreto: deve
cioè accertare se al momento del fatto, tenendo conto di tutte le circostanze esistenti in quel
momento, vi era la possibilità del verificarsi di un’offesa ad un diritto dell’agente o di un terzo,
probabilità che andrà accertata utilizzando tutte le leggi scientifiche o le massime di esperienza
disponibili al momento del giudizio.

7.3. La fonte del pericolo


Il pericolo deve scaturire da una condotta umana. Il più delle volte si tratterà di un’azione, ma può
essere anche un’omissione.
Sotto questo secondo profilo rileverà l’omesso impedimento di un evento lesivo: il mancato
attivarsi, ad esempio, di chi aveva l’obbligo giuridico di controllare una fonte di pericolo per
impedire il prodursi di eventi lesivi.
In secondo luogo, rileveranno le omissioni costitutive di reati omissivi propri, come l’omissione di
soccorso, quando si violi il dovere giuridico di rimuovere un pericolo incombente su un diritto
individuale.
È controverso se la legittima difesa possa invocarsi quando il pericolo di un’offesa ingiusta sia stato
volontariamente cagionato dall’agente.

7.4. L’attualità del pericolo

Facendo riferimento ad un pericolo attuale, l’art. 52 co.1 c.p. esclude senz’altro che la legittima
difesa possa sussistere quando il pericolo è ormai passato, o perché si è tradotto in danno, o
perché il pericolo è stato definitamente neutralizzato o si è altrimenti dissolto.
Del pari, la causa di giustificazione non sussiste quando si tratti di un pericolo futuro: non è quindi
consentita la difesa preventiva.
La formula pericolo attuale abbraccia invece sicuramente due classi di ipotesi.
In primo luogo, quelle in cui la verificazione dell’offesa sia temporalmente imminente.
In secondo luogo, è attuale il pericolo perdurante, ciò che si verifica quando l’offesa è già in atto,
ma ancora non si è esaurita.

7.5. L’offesa ingiusta a un diritto proprio o altrui

Oggetto del pericolo rilevante ex art. 52 co. 1 c.p. deve essere un’offesa ingiusta ad un diritto
dell’agente o di un terzo.
L’espressione diritto abbraccia qualsiasi interesse individuale espressamente tutelato
dall’ordinamento. Titolare del diritto patrimoniale, a tutela del quale si può agire in legittima
difesa, può essere non solo una persona fisica, ma anche una persona giuridica, privata o pubblica.
Tra i diritti individuali della personalità ai fini dell’art. 52 c.p. va ricompresa anche l’incolumità
pubblica, espressione sintetica che designa la vita e l’integrità fisica di un’indeterminata pluralità di
persone.
Esigendo che il diritto corra il pericolo di un’offesa ingiusta, l’ordinamento subordina la sussistenza
di una situazione di legittima difesa al requisito dell’antigiuridicità dell’offesa: non ci si potrà
pertanto difendere di fronte a pericoli creati nell’esercizio di una facoltà legittima o
nell’adempimento di un dovere giuridico.

7.6. i requisiti della difesa: la necessità

La condotta difensiva, per essere legittima, deve essere innanzitutto necessaria. Ciò significa che il
pericolo non poteva essere neutralizzato:
a) né da una condotta alternativa lecita;
b) né da una condotta meno lesiva di quella tenuta in concreto.
Bisogna dunque che l’agente non avesse altra via per sventrare il pericolo e in particolare non
avesse la possibilità di difendere il bene senza commettere un fatto penalmente rilevante.
La difesa non è altresì necessaria quando sia possibile un commodus discessus, cioè la persona
minacciata nei propri diritti possa sottrarsi al pericolo senza esporre a rischio la sua integrità fisica.
Quando non vi sia la possibilità di neutralizzare il pericolo attraverso una condotta alternativa
lecita, può accadere che il pericolo possa essere sventato attraverso una serie di fatti penalmente
rilevanti tutti egualmente efficaci. Il requisito della necessità comporta che la condotta difensiva
adottata in concreto debba essere la meno lesiva tra quelle praticabili.
Esempio: Tizio sta per colpire Caio con un bastone; Caio, che è di corporatura molto più possente, ha due
possibilità per neutralizzare quel pericolo: può bloccare e torcere il braccio dell'aggressore, fino a procurargli una
lesione, oppure può estrarre una pistola che porta con sé e sparare contro Tizio, procurandogli una lesione di
maggiore gravità. Legittima sarà soltanto la prima reazione difensiva, essendo egualmente efficace e meno
lesiva. Se Caio sparasse contro Tizio, si tratterebbe di una reazione non necessaria.

7.7. La proporzione

La difesa deve essere proporzionata all’offesa. L’art. 52 co.1 c.p. impone una valutazione
comparativa tra il bene dell’aggredito esposto a pericolo e il bene dell’aggressore sacrificato
dall’azione difensiva. L’aggredito può ledere un bene anche di rango superiore, sempreché il
divario di valore tra i due beni non sia eccessivo.
Esempio: la donna che sta per subire uno stupro può difendere la propria libertà sessuale anche a costo di
uccidere il suo aggressore. Chi per strada subisce un borseggio non può uccidere il ladro.
Per la valutazione comparativa dei beni, si farà riferimento alle valutazioni etico-sociali dei beni in
conflitto, eventualmente rispecchiate dalla Costituzione.

7.8. La legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali

7.8.1. La legittima difesa nel domicilio ha trovato nel nostro ordinamento una specifica disciplina
che attribuisce limiti più ampi alla causa di giustificazione.
Il legislatore italiano non ha riferito ai soli casi in cui il fatto venga posto nell’abitazione o in altri
luoghi di privata dimora, ma ha esteso anche ai casi in cui il fatto sia commesso in luoghi in cui
venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
Circa i luoghi in cui è lecito difendersi vengono espressamente richiamati nell’art. 52 c.p.:
abitazione, altri luoghi di privata dimora e ogni luogo in cui venga esercitata un’attività
commerciale, professionale o imprenditoriale.
Attualmente la disciplina della legittima difesa domiciliare risulta articolata in due ipotesi,
configurate rispettivamente nell’art. 52 co. 2 c.p. e nell’art. 52 co. 4 c.p. Entrambe le disposizioni
presuppongono che vi sia stata una violazione di domicilio; la seconda disposizione dà rilievo al
carattere violento dell’intrusione.

7.8.2. quanto alla prima ipotesi di legittima difesa domiciliare, è disciplinata dall’art. 52 co. 2 c.p.
La legittima difesa domiciliare nell’ipotesi in esame può essere invocata solo da colui che sia
legittimamente presente, nel luogo in cui si compie il fatto.
Secondariamente, il mezzo utilizzato nella condotta difensiva deve consistere in un’arma
legittimamente detenuta.
L’aspetto più rilevante della disciplina contenuta nell’art. 52 co.2 c.p. riguarda l’elemento della
proporzione. La legge stabilisce infatti una presunzione assoluta di proporzione (cioè una
presunzione che non ammette prova contraria) tra il bene messo in pericolo e il bene leso della
reazione difensiva. Questa presunzione assoluta di proporzione opera anche quando chi si difende
usa un’arma. Ne segue che il fatto posto in essere nel domicilio in difesa della propria o altrui
incolumità è giustificato, qualunque sia l’entità del pericolo per l’incolumità, anche se chi si
difende con un’arma o altro mezzo provoca la morte dell’aggressore.

7.8.3 Permane in primo luogo il requisito del pericolo attuale di un’offesa ingiusta alla persona o al
patrimonio creato dall’autore della violazione di domicilio: non potrà invocare la legittima difesa
un inquilino che prenda a pugni il padrone di casa, entrato senza il suo consenso
nell’appartamento per chiedere il pagamento del canone di locazione.
Permane il limite della necessità della difesa: cioè che la persona non possa difendere il bene
minacciato attraverso un comportamento penalmente irrilevante, ma egualmente efficace per la
difesa; se non esiste un’alternativa lecita, bisogna che la difesa venga realizzata nella forma meno
lesiva per l’aggressore.
Un ulteriore limite che si ha quando si tratti di pericolo per i beni patrimoniali, è rappresentato dal
venir meno del pericolo inizialmente creato: bisogna che il potenziale ladro non abbia desistito
dall’esecuzione del reato, ad esempio abbandonando la refurtiva. Dicendo che la difesa è
legittima, quando non vi è desistenza, la legge a ben vedere, esplicita il requisito generale
dell’attualità del pericolo: il pericolo non è attuale quando chi abbia iniziato l’esecuzione di un
furto, ad esempio rovistando in un cassetto, si dia alla fuga senza portare con sé alcun oggetto
altrui.

7.8.4. Un punto cruciale della disciplina dell’art. 52 co. 2 c.p. è quello relativo all’ipotesi in cui il
soggetto agisca per difendere i beni propri o altrui. Questa formula potrebbe far pensare che l’uso
delle armi o di altri mezzi idonei sia oggi legittimo anche quando il pericolo riguardi soltanto beni
patrimoniali. Non si può uccidere per difendere qualsivoglia bene patrimoniale. Né la Costituzione
tollera che si ferisca per difendere il patrimonio: il bene “salute” ai sensi dell’art. 32 Cost. è infatti
un fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.
Questa conclusione è ulteriormente rafforzata dall’interpretazione conforme alla CEDU, che
impone una lettura restrittiva della legittima difesa: tutelando il diritto alla vita, l’art. 2 CEDU
consente infatti l’uccisione dell’aggressore soltanto quando si tratti di garantire la difesa della
persona contro una violenza illegale, evocando così necessariamente un attacco che non riguardi il
mero patrimonio.
La giurisprudenza ha in qualche modo ricomposto il contrasto tra la disciplina in esame e i principi
costituzionali, valorizzando il complessivo dettato della legge, che parla sia di difesa dei beni, sia di
pericolo di aggressione: in quest’ultimo requisito la Corte di cassazione ha individuato la necessità
che venga messa in pericolo anche l’incolumità fisica della persona. In particolare la Corte ha
affermato che la difesa con armi dei beni è legittima solo se vi è anche un rischio concreto di un
pregiudizio attuale per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri.

7.8.5. La seconda ipotesi di legittima difesa nel domicilio è caratterizzata dalle modalità violente
dell’intrusione. La relativa disciplina è contenuta nell’art. 52 co. 4 c.p.
Si riferisce situazioni precedentemente riconducibili all'art. 52.co. 2 e co. 3 c.p.: a casi cioè in cui
l'aggressore ha violato il domicilio e l'aggredito, ivi legittimamente presente, ha difeso con
un'arma legittimamente detenuta o con un altro mezzo idoneo la propria o altrui incolumità.
L'elemento di specialità presente nell'art. 52 co. 4 c.p. è rappresentato dal carattere violento della
violazione di domicilio, riconducibile all'ipotesi aggravata di cui all'art. 614 co. 4 c.p.: è un'ipotesi
non espressamente richiamata dall'art. 52 co. 2 c.p., che, nel riferirsi alla violazione di domicilio,
menziona la sola ipotesi semplice di cui all'art. 614 co. 1 e co. 2 c.p. La presunzione di proporzione
introdotta con la vecchia" legittima difesa domiciliare riguarda ora ipotesi di violazione di domicilio
non aggravata, mentre l'art. 52 co. 4 c.p., che prevede una presunzione di legittima difesa
interessa i casi di violazione di domicilio aggravata, verosimilmente i più frequenti allorché si
verifichi un furto o una rapina nel 'domicilio’.
Il problema centrale proposto dall’art. 52 co. 4 c.p. riguarda la presunzione assoluta che coinvolge
tutti i requisiti ordinari della legittima difesa. Quanto alla proporzione, un’interpretazione
conforme alla Costituzione impone di escludere la legittima difesa quando nell’azione difensiva
all’interno del domicilio venga sacrificato un bene di rango nettamente superiore a quello che ha
corso pericolo. Quanto alla necessità della difesa, va poi sottolineato come si tratti di un requisito
fondante della legittima difesa, che si può ragionevolmente ammettere quando l’autodifesa è
necessaria, non essendo possibili difendersi con un comportamento penalmente irrilevante o in
modo meno lesivo.

7.8.6. Quanto alla prassi, i procedimenti penali nei quali viene in rilievo la legittima difesa
domiciliare hanno una dimensione inversamente proporzionale all’enfatizzazione politica e al
clamore mediatico che ha accompagnato l’approvazione della riforma del 2019.

7.8.7. Il legislatore del 2019 modificando la disciplina dell’art. 55 c.p. in materia di eccesso colposo
nelle cause di giustificazione. Tale disciplina ricalca in parte quella dell’eccesso di legittima difesa
da tempo presente nel codice penale tedesco, riferita peraltro a tutte le ipotesi di legittima difesa
e non solo a quella domiciliare.
Il primo comma dell'art. 55 richiama l'art. 52 c.p. per configurare l'ipotesi dell'eccesso colposo di
difesa, prevedendo la responsabilità dell'agente. Il secondo comma, aggiunto ora dal legislatore,
mira a escludere quella responsabilità in ipotesi di eccesso di difesa all'interno del domicilio: si
tratterà dunque di eccesso colposo di legittima difesa, ferma restando la responsabilità dell'agente
in caso di eccesso doloso nella difesa domiciliare.
Per espressa indicazione normativa, la previsione dell'art. 55 co. 2 c.p. riguarda ipotesi in cui il
fatto sia stato commesso « per la salvaguardia della propria o altrui incolumità»: a fronte, quindi,
di un pericolo per beni personali.
Chi ecceda i limiti della legittima difesa domiciliare per la salvaguardia di soli beni patrimoniali non
potrà invece invocare l'art. 55 co. 2 c. p.
L'esenzione da responsabilità penale ex art. 55 co. 2 c.p. è legata a due diverse situazioni, tra loro
alternative: una situazione di minorata difesa in cui si sia trovato l'aggredito ovvero un grave
turbamento psichico dell'agente, derivante dalla situazione di pericolo in atto.
Un'interpretazione restrittiva porta ad escludere che una situazione di minorata difesa sia
presente in ogni caso di aggressione nel domicilio. Il giudice dovrà valutare, caso per caso, se ci sia
stato un approfittamento di condizioni, oggettive o soggettive, che hanno effettivamente
ostacolato l'azione difensiva.
Per ragioni analoghe si impone un’interpretazione restrittiva del concetto di grave turbamento
psichico, che ne escluda il carattere presunto e verifichi altresì un duplice rapporto causale: il
turbamento deve essere effetto derivante dalla situazione di pericolo in atto e deve essere altresì
causa rispetto all’eccesso di difesa, valutato come incolpevole da parte del legislatore.
La disciplina dell’art. 55 co. 2 c.p. opera non sul piano dell’antigiuridicità, bensì sul piano della
colpevolezza. La nuova disposizione configura infatti una scusante, riferibile a reati colposi, cioè
una circostanza anormale che influisce in modo irresistibile sulla volontà o sulle capacità
psicofisiche dell’agente, rendendo inesigibile un comportamento diverso. In altri termini, le due
situazioni di vulnerabilità in cui può trovarsi chi subisce un’aggressione nel domicilio assumono
rilievo per la pressione che esercitano sull’agente, impedendogli di tenere una condotta rispettosa
di regole cautelari la cui osservanza avrebbe impedito l’evento.
8. L’uso legittimo delle armi

I presupposti e i limiti dell'uso legittimo dei mezzi di coercizione fisica trovano nell'art. 53 c.p. una
disciplina che si articola in tre ipotesi:
a) quella in cui l'uso dei mezzi di coercizione sia necessario per respingere una violenza o vincere
una resistenza all'autorità;
b) quella in cui la coercizione fisica sia necessaria per impedire la consumazione di una serie di
gravissimi delitti;
c) le ulteriori ipotesi, previste da altre norme legislative.

8.1. L’uso delle armi per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità: autonomia
e fondamento della causa di giustificazione

L’art. 53 c.p. evidenzia che questa causa di giustificazione occupa uno spazio autonomo rispetto sia
alla legittima difesa, sia all’adempimento di un dovere.
Si tratterà di legittima difesa se l’agente della forza pubblica faccia sì uso delle armi o di altro
mezzo di coazione fisica, ma lo faccia per difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale
di un’offesa ingiusta e la difesa sia necessaria e proporzionata.
Si tratterà invece di adempimento di un dovere quando l’uso delle armi rappresenti una modalità
dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo di una
pubblica autorità.
Lo spazio autonomo dell’uso legittimo delle armi è dunque quello in cui la forza pubblica fa uso
delle armi o di altri mezzi di coazione fisica essendovi costretta dalla necessità di respingere una
violenza o di vincere una resistenza all’autorità.
Quanto al fondamento di questa causa di giustificazione, si tratta di una manifestazione radicale
della visione dei rapporti individuo-autorità che è propria di uno Stato autoritario, come quello
italiano degli anni trenta: il potere di coercizione dello Stato può esercitarsi anche attraverso l’uso
delle armi o di altri mezzi di coazione fisica quando sia necessario rimuovere ostacoli che, in forma
di violenza o resistenza, vengano frapposti alla pubblica autorità.
Legittimati a fare uso delle armi sono non tutti i pubblici ufficiali, ma soltanto quelli tra i cui doveri
istituzionali rientra l'uso della coercizione fisica diretta con armi o con altri mezzi: nel linguaggio
del nostro ordinamento, per designare questa categoria di pubblici ufficiali si parla di forza
pubblica.
La categoria comprende, fra l'altro, gli ufficiali e gli agenti della Polizia di Stato, dell'Arma dei
Carabinieri, della Guardia di Finanza. Non rientrano invece nella forza pubblica né gli agenti della
polizia municipale, né le guardie giurate in servizio di vigilanza e di investigazione privata.
Possono beneficiare della causa di giustificazione in quanto prestino assistenza alla forza pubblica
non di loro iniziativa, ma sulla base di una legale richiesta.
Tra le ipotesi in cui il cittadino viene legalmente richiesto dal pubblico ufficiale di prestargli aiuto
spiccano quelle previste dall’art. 652 c.p. (tumulto, comune pericolo e flagranza di reato).
La legge richiede che il pubblico ufficiale agisca al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio.

8.1.2. I presupposti dell’uso delle armi: necessità, proporzione, violenza o resistenza all’autorità

In primo luogo, il pubblico ufficiale deve essere costretto dalla necessità di far uso delle armi.
Ciò comporta che:
a) l’uso delle armi non è consentito quando il pubblico ufficiale può respingere la violenza o
vincere la resistenza all’autorità con mezzi diversi dall’uso di qualsivoglia mezzo si coazione
fisica intavolando un colloquio con chi oppone violenza o resistenza per persuaderlo a
desistere;
b) tra i diversi mezzi di coazione, tutti egualmente efficaci, l’agente deve scegliere il meno
lesivo.
In secondo luogo, per essere legittimo il ricorso a un dato mezzo di coazione fisica deve essere
Proporzionato, nel senso che si tratta di stabilire caso per caso se l'interesse pubblico che la
coazione amministrativa mira ad affermare sia prevalente rispetto all'interesse individuale
sacrificato. Il limite della proporzione è imposto dall'interpretazione della norma in conformità
alla Costituzione: in particolare, il principio di imparzialità, al quale la pubblica amministrazione
deve ispirare la sua attività ai sensi dell'art. 97 Cost., impone alla pubblica amministrazione, e
quindi anche agli agenti della forza pubblica, di tener conto di tutti gli interessi in gioco. D'altra
parte, il carattere di diritti fondamentali che la Costituzione riconosce alla vita e all'integrità
fisica pone questi diritti in una posizione tendenzialmente preminente rispetto alla gran parte
degli interessi perseguiti dall’attività amministrativa.
Per contro, vi sarà proporzione se la forza pubblica si limiti a usare lacrimogeni, attentando in
misura molto lieve alla salute degli occupanti dell’edificio.
Va aggiunto che il requisito della proporzione nell’uso delle armi da parte della forza pubblica è
richiesto anche dall’interpretazione dell’art. 53 conforme alla CEDU: richiede agli Stati membri
della Convenzione di assicurare un’efficace tutela penale del diritto alla vita anche contro le
aggressioni della forza pubblica che non siano assolutamente necessarie per tutelare la vita
degli agenti o di terzi.
In terzo luogo, deve essere in atto una violenza o una resistenza nei confronti dell’Autorità.
L’ipotesi della violenza ricorre quando taluno, per impedire o ostacolare dell’autorità pubblica,
faccia uso di qualsiasi forma di energia fisica, ad esempio un lancio di pietre o bottiglie
incendiarie che cada sulle persone, ledendone l’integrità o la salute, ovvero sulle cose,
distruggendole o rendendole in tutto o in parte inservibili.
Di resistenza può invece parlarsi in relazione alle sole ipotesi di resistenza c.d. attiva.
Esempio: nel caso in cui un gruppo di dimostranti marci compatto per superare uno sbarramento di polizia
posto a protezione di un edificio dove si sta svolgendo una riunione di rappresentanti di vari Stati: per
vincere un simile comportamento potrà essere legittimo l'uso da parte della polizia di idranti o di sfollagente
nei confronti dei dimostranti.
Si parla di resistenza anche passiva, nell’ordinamento penitenziario quando si autorizza il
personale di custodia a fare uso della forza fisica, ad esempio nei confronti dei detenuti che
non ottemperino all’ordine di rientrare nelle celle.

8.2 L’uso delle armi per impedire la consumazione di gravissimi delitti

L'art. 53 co. 1 pt. Il c.p, nella versione introdotta dall'art. 14 della c.d. legge Reale (1. 22 maggio
1975, n. 152), prevede la non punibilità dell'agente della forza pubblica che faccia uso o ordini
di far uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica quando vi sia costretto dalla necessità « di
impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio,
disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona ».
Si tratta di un'ipotesi in cui l'uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica è del tutto
svincolato dal presupposto originario di questa causa di giustificazione, cioè dall'esigenza di
respingere una violenza o vincere una resistenza all'Autorità.
Questa figura di uso legittimo delle armi sottostà ad un triplice limite.
In primo luogo, l’uso delle armi deve essere necessario: tra i mezzi di coazione l’agente deve
scegliere il meno lesivo.
In secondo luogo, la coazione fisica deve essere proporzionata, nel senso che la sua legittimità
è subordinata al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco: su un piatto della bilancia deve
essere posto il bene messo in pericolo da chi sta tentando di realizzare uno dei delitti
contemplati dalla norma, mentre sull’altro piatto vanno collocati i beni della vita dei singoli o
della molteplicità di persone ‘innocenti’ che possono essere lesi dall’uso delle armi.
In terzo luogo, un ulteriore limite a questa ipotesi di uso legittimo della coazione fisica si ricava
in via interpretativa dalla formula “impedire la consumazione” dei delitti di strage etc.

8.3. Le ipotesi di uso legittimo delle armi previste da leggi speciali

Più ampie ipotesi di uso legittimo delle armi o di altri mezzi di coazione fisica sono previste da
alcune leggi speciali, alle quali fa rinvio ultimo comma dell’art 53 c.p.
In primo luogo, si tratta delle ipotesi contemplate dalla l.4 marzo 1958, n. 100 in materia di
repressione del contrabbando. Tra l'altro, i militari, gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria
addetti alla repressione del contrabbando nelle zone di frontiera possono fare uso delle armi
quando il contrabbandiere sia palesemente armato, ovvero il contrabbando sia compiuto di
notte, o i contrabbandieri agiscano in un gruppo di almeno tre persone. L'uso delle armi è
altresì consentito quando il contrabbandiere si dia alla fuga, a meno che non abbandoni il
carico. La legge autorizza inoltre gli stessi soggetti a fare uso delle armi contro gli autoveicoli: si
tratta dell'autorizzazione di un’attività pericolosa per la vita dei conducenti o di terzi, che
invece non è consentita nelle ipotesi disciplinate in via generale dall'art. 53 c.p.
Ulteriori ipotesi speciali di uso legittimo delle armi attengono alla vigilanza interna e esterna
degli istituti penitenziari e ai passaggi abusivi di frontiera.
Nel complesso, va sottolineato che su tutte queste disposizioni gravano seri dubbi di
illegittimità costituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 co. 1 Cost.
Si tratta inoltre di norme a favore che la Corte costituzionale potrebbe dichiarare
costituzionalmente illegittime perché sottraggono le cennate ipotesi alla disciplina generale
dell’uso legittimo delle armi in contrasto con l’art. 2 CEDU.

9. Lo stato di necessità

9.1. Causa di giustificazione o scusante?

Si discute se lo stato di necessità vada inquadrato tra le cause di giustificazione ovvero tra le
scusanti, cioè se si tratti di una facoltà legittima il cui esercizio rende lecita la commissione di
un fatto penalmente rilevante, ovvero di un’ipotesi in cui l’ordinamento ritiene che non si
possa muovere un rimprovero a chi ha commesso un fatto antigiuridico, avendo agito sotto la
pressione psicologica di una circostanza che rendeva inesigibile l’astensione da quel fatto.

9.2. I presupposti dell’azione di salvataggio ex art. 54 co. 1 e 2 c.p.: il pericolo attuale e non
volontariamente causato

La fonte del pericolo può risiedere sia in un accadimento naturale, sia in un comportamento
dell’uomo.
Quanto all’attualità del pericolo, vale quanto si è osservato a proposito di tale requisito nella
legittima difesa: il pericolo è dunque attuale sia quando il verificarsi del danno è imminente, sia
quando il danno è già in atto, ma ancora non è esaurito (c.d. pericolo perdurante).
La legge pone un ulteriore limite al pericolo rilevante ai fini dello stato di necessità, esigendo
che il pericolo non sia stato volontariamente causato.
La lettera dell’art. 54 co. 1 c.p. non autorizza a escludere dall’ambito dell’esimente i casi in cui
il pericolo sia stato creato colposamente: per definizione, la colpa si caratterizza per
l’involontarietà dell’evento e dunque l’ipotesi della causazione colposa dell’evento giace al di
fuori di tutti i possibili significati letterali dell’espressione “pericolo volontariamente causato”.

9.3. Il danno grave alla persona

L’oggetto del pericolo deve essere un danno grave alla persona dell’agente o di un terzo. Il
bene minacciato può consistere nella vita, nell’integrità fisica o in altri beni di natura
personalissima, come la libertà personale e la libertà sessuale. Può altresì consistere in uno di
quei beni collettivi che rappresentano la sintesi di beni di singole persone: incolumità pubblica
e salute pubblica.
Sono esclusi non solo i beni individuali che non hanno carattere personalissimo, come i beni
patrimoniali, ma anche i beni istituzionali.
Di recente, la Corte di Cassazione ha riconosciuto in via di principio l’esistenza di un diritto
all’abitazione, salvo sottolineare che l’operatività dello stato di necessità presuppone la
puntuale e rigorosa dimostrazione della necessità della condotta e dell’inevitabilità del
pericolo.
La Corte ha inoltre precisato che lo stato di necessità può essere invocato solo per fronteggiare
un pericolo attuale e transitorio e non per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine
di risolvere, in via definitiva, la propria esigenza abitativa.
Quanto alla gravità del danno alla persona, tale requisito va accertato in relazione sia al rango
del bene esposto a pericolo, sia in relazione all’intensità della lesione incombente.
Non potrà parlarsi di pericolo di un danno grave alla persona in relazione ad un malessere di
breve durata, intenso ma rapidamente superabile, come quello derivante dall’astinenza da
sostanze stupefacenti: non agisce dunque in stato di necessità chi cede eroina a un
tossicodipendente in preda a una crisi acuta di astinenza.

9.4. I requisiti dell’azione di salvataggio: necessità dell’azione e inevitabilità del pericolo

Ai fini dello stato di necessità, in primo luogo la legge richiede che la commissione del fatto
penalmente rilevante sia necessaria per fronteggiare il pericolo di un danno grave alla persona:
l’assenza di alternative lecite o meno lesive egualmente efficaci per neutralizzare il pericolo.
In secondo luogo, l’esimente dello stato di necessità richiede che il pericolo non sia altrimenti
evitabile.
Il pericolo deve dunque essere evitabile solo attraverso una condotta penalmente rilevante.
Volendo fare un paragone con la legittima difesa, in essa l’azione difensiva dell’aggredito è
lecita quando non sia possibile un commodus discessus, cioè l’allontanarsi o il fuggire
dall’aggredito comporti rischi per l’integrità fisica; nello stato di necessità l’esistenza di
alternative anche rischiose per il soggetto agente esclude l’operatività dell’esimente.

9.5. La proporzione tra fatto e pericolo


L’art. 54 co. 1 c.p. esige che il fatto penalmente rilevante sia proporzionato al pericolo sventato
con la commissione del fatto.
La legge impone una valutazione comparativa tra il bene personale esposto a pericolo e il bene
dell’innocente sacrificato dall’azione di salvataggio. Ciò che si richiede non è necessariamente
la prevalenza del bene salvato rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni. Si
può sacrificare un bene anche di rango superiore rispetto al bene in pericolo che viene salvato,
sempreché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo.
Esempio: Un minatore era rimasto prigioniero per alcuni giorni in condizioni che gli avrebbero
consentito di rimanere in vita per altri giorni, in una galleria separata dall’esterno da un sottile strato di
detriti. Per riacquistare al più presto la libertà aveva a disposizione soltanto dell'esplosivo. Si ritenne che
avesse agito entro i limiti della proporzione in quanto, tre giorni dopo il crollo in miniera, il minatore aveva
fatto brillare l'esplosivo e si era aperto un varco verso l'esterno, cagionando la morte di una persona che si
trovava all'esterno, accidentalmente coinvolta nell'esplosione.

9.6. La costrizione

Perché possa parlarsi di «stato di necessità» il soggetto deve essere costretto dalla necessità di
commettere il fatto penalmente rilevante.
Il significato da attribuirsi alla formula «costrizione» ha un peso decisivo ai fini del problema: se
cioè lo stato di necessità vada annoverato tra le cause di giustificazione o tra le scusanti.
Vi sono due possibili letture: una prima secondo la quale la costrizione starebbe a denotare
soltanto l'oggettiva impossibilità di salvare il bene in pericolo senza sacrificare il bene di un
terzo innocente; una seconda lettura che identifica la costrizione con l'esclusione o quanto
meno con una restrizione della libertà di agire, ciò che presuppone la consapevolezza del
pericolo e un effettivo turbamento psicologico in chi commette il fatto.
La prima lettura porterebbe ad inquadrare lo stato di necessità tra le cause di giustificazione; la
seconda lettura, invece, suggerisce di inquadrare lo stato di necessità tra le scusanti.
A sostegno della seconda lettura parlano diversi argomenti.
In primo luogo, i casi tradizionalmente e universalmente ricondotti sotto lo stato di necessità
sono tutti caratterizzati da un’effettiva pressione psicologica provocata dalla natura o
dall’uomo, che addirittura chiama in causa l’istinto di conservazione.
In secondo luogo, solo attraverso una lettura del requisito della costrizione che dia risalto al
turbamento motivazionale dell’agente si evita di ricondurre allo stato di necessità una serie di
casi che nessuno considererebbe immeritevoli di pena.
Un terzo argomento può ricavarsi dal tenore dell’art. 54 co. 3 c.p.: è pacifico che l’ipotesi dello
stato di necessità determinato dall’altrui minaccia integra una scusante. La vittima della
minaccia si trova in effetti di fronte ad un’alternativa, che necessariamente limita la sua libertà
di scelta; la norma citata stabilisce che del fatto commesso dalla persona minacciata risponde
chi l’ha costretta a commetterlo.
Si aggiunga che, secondo l’inequivoco tenore letterale dell’art. 54, la natura dello stato di
necessità determinato dall’altrui minaccia è la stessa dell’ipotesi generale di stato di necessità
disciplinata al primo comma: cambia soltanto la fonte del pericolo.
In tutti i casi si tratta dunque di una scusante, e quindi il giudice dovrà sempre accertare che
l’autore del fatto abbia subito un effettivo turbamento motivazionale.

9.7. Il particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo

La legge esclude che possa essere applicato lo stato di necessità a chi ha un particolare dovere
giuridico di esporsi al pericolo (es. vigili del fuoco).
L’ordinamento può scusare il comune cittadino, ma non chi, avendo ricevuto un
addestramento e magari dispone di equipaggiamento, è particolarmente attrezzato per
affrontare quel pericolo: a condizione che si tratti proprio del tipo di pericolo che l’agente ha il
dovere giuridico di affrontare e all’ulteriore condizione che l’agente si trovi ad affrontare un
mero pericolo e non la prospettiva di morte certa.

LA RESPONSABILITÀ DA REATO DEGLI ENTI

1. La ratio della responsabilità

La persona fisica, non la persona giuridica, può commettere reati: societas delinquere non potest.
È un’idea che la dottrina penalistica contemporanea dell’Europa continentale ha spesso
presentato come ovvia e immutabile.
Oggi anche i paesi europei continentali prevedono la diretta responsabilità delle imprese: perlopiù
responsabilità penale, autonoma rispetto a quella delle pressioni fisiche che agiscano per
l'impresa.
in primo luogo, sempre più pressante è la necessità politica di fronteggiare la criminalità delle
imprese: le forme di attività imprenditoriali generano patologie anche su scala internazionale,
come i sottostanti rapporti economici, esponendo al pericolo o ledendo bene individuali, collettivi,
istituzionali, spesso con vittimizzazione di massa. La risposta a quelle patologie è avvenuta su scala
internazionale, europea e mondiale: un’eterogenea serie di normative ha impegnato gli Stati
membri dell'ONU o dell'Unione europea ad introdurre nei loro ordinamenti la responsabilità
diretta delle persone giuridiche, autonoma nei criteri fondanti e solo eventualmente cumulabile
con quella delle persone fisiche.
Sono uniformi i criteri che quasi dappertutto fondano l'autonoma responsabilità da reato delle
imprese: tali criteri sono la c.d. colpa d'organizzazione, o una politica criminale di impresa.

2. I reati ascrivibili all’ente

Nel nostro ordinamento la responsabilità da reato delle persone giuridiche è stata introdotta dal
d.gs. 8 giugno 2001 n. 231, attuativo della legge delega 29 settembre 2000 n. 300, Che ratificava e
dava esecuzione a una serie di convenzioni europee, in particolare in materia di corruzione.
Questa forma di responsabilità riguarda attualmente una serie eterogenea di delitti:
- Delitti contro la pubblica amministrazione, quali corruzione, concussione e indebita
percezione di erogazioni pubbliche;
- truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico per il conseguimento di erogazioni
pubbliche;
- ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita;
- reati societari e abusi di mercato;
- Reati tributari;
- Omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme
sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro;
- reati ambientali;
- Contraffazione di marchi o brevetti e delitti in materia di diritto d'autore;
- Frode in commercio e altri delitti contro l'industria e il commercio;
- Reati informatici;
- Falsità in monete;
- Associazione per delinquere, associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di
stupefacenti e alcuni gravi delitti, anche a carattere transazionale, che si ambientano nella
criminalità organizzata;
- Sequestro di persona a scopo di estorsione;
- Delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione;
- Prostituzione minorile, pornografia minorile, schiavitù, caporalato e occupazione di
lavoratori stranieri irregolari.
A norma dell'art. 26 d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità dell'ente sorge anche se il reato ha la
forma del tentativo. In tal caso le sanzioni pecuniarie e interdittive sono ridotte da 1/3 alla metà.
Inoltre, si applica la responsabilità dell'ente, una particolare causa sopravvenuta di non punibilità:
<<L’ente non risponde quando volontariamente impedisce il compimento dell'azione o la
realizzazione dell'evento.>>
Il recesso attivo comporta dunque la non punibilità dell'ente, anziché la mera riduzione di pena
prevista dal codice penale all'art. 56 co. 4 c.p.

3. La natura della responsabilità dell’ente

3.1. La responsabilità dell'ente è penale, amministrativa o incarna un terzo modello di


responsabilità?

3.2. L’inquadramento come responsabilità penale, si lascerebbe preferire secondo una parte
della dottrina, per un triplice ordine di ragioni:
a) le garanzie di diritto sostanziale fornite all'ente sono quelle proprie del diritto penale:
Legalità e irretroattività della disciplina sfavorevole e retroattività della disciplina favorevole;
b) La responsabilità dell'ente si attiene al modello della responsabilità per fatto proprio
colpevole, enunciato all'art. 27 co.1 Cost. per la responsabilità penale, sia pure attraverso una
forma di colpevolezza che sconta la peculiarità di un soggetto operante come ‘organizzazione’;
c) competente a giudicare della responsabilità dell'ente, assicurandogli le stesse garanzie
difensive previste per la persona fisica, è lo stesso giudice penale che giudica della sussistenza
del reato.
Si può però obiettare che:
a) Legalità e retroattività della disciplina sfavorevole sono principi che già regolano gli illeciti
amministrativi delle persone fisiche;
b) La colpevolezza è già richiesta per la responsabilità amministrativa delle persone fisiche;
c) Il giudice penale è già competente a conoscere del reato e dell'illecito amministrativo della
persona fisica, quando fra i due illeciti vi sia connessione obiettiva.

3.3. Contro la tesi della responsabilità penale dell'ente parla peraltro la disposizione dell'art.6
co.1 d.lgs. n. 231/2001, che accolla all'ente l'onere della prova (l'ente non risponde se prova) di
avere adottato efficaci modelli di organizzazione e di gestione, e di aver affidato a un
organismo dell'ente dotato di poteri autonomi il compito di un'efficiente vigilanza sul
funzionamento dei modelli di organizzazione. se davvero la responsabilità dell'ente avesse
natura penale, tale disposizione sarebbe costituzionalmente illegittima per contrasto con la
presunzione di non colpevolezza.
L'inversione dell'onere della prova a carico dell'ente non trova nessun ostacolo di principio,
tantomeno di rango costituzionale, nell'inquadramento della responsabilità come
responsabilità amministrativa: la scelta del legislatore di denominarla “responsabilità
amministrativa” sembra pertanto in armonia con il decreto.

3.4. Parla infine nel senso della responsabilità amministrativa dell'ente il nome delle sanzioni
comminate dalla legge. Nessuna delle sanzioni applicabili all'ente è designata dalla legge con il
nome di una pena principale, anzi, le sanzioni sono espressamente designate come sanzioni
amministrative.

3.5. In giurisprudenza sembra prevalere un orientamento secondo il quale la responsabilità da


reato dell'ente non avrebbe natura né penale, né amministrativa. Si tratterebbe di un tertium
genus nascente dall'ibridazione della responsabilità amministrativa, con principi e concetti
propri della sfera penale.
La giurisprudenza esclude, tra l'altro, l'applicabilità all'ente della causa di non punibilità della
particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.

4. La cerchia degli enti responsabili del reato

4.1. La disciplina dettata dal d.lgs. n. 231/2001 delimita la cerchia degli enti ai quali può essere
attribuita la responsabilità amministrativa da reato: gli enti forniti di personalità giuridica, Le
società e le associazioni, anche prive di personalità giuridica. Sono invece esclusi lo Stato, gli
enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli enti che svolgono funzioni di
rilievo costituzionale.

4.2. La Corte di Cassazione ha affermato l'applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 alle società con
partecipazione pubblica, mista o totale, qualora esercitino attività economica. Secondo la
Corte, “anche l'ente pubblico economico cui è affidata la gestione del servizio di smaltimento
rifiuti è soggetto alle norme sulla responsabilità amministrativa degli enti. La natura
pubblicistica di un ente è condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'esonero dalla
disciplina in questione; deve necessariamente essere presente anche la condizione
dell'assenza di svolgimento di attività economica da parte dell'ente medesimo.

4.3. Rispondono a norma del d.lgs. n. 231/2001 anche gli enti stranieri, nel cui vantaggio o
interesse sia stato commesso un reato sul territorio del nostro Stato, da parte di soggetti
apicali o da parte di soggetti sottoposti all'altrui direzione o vigilanza.

4.4. La Corte di Cassazione ha stabilito che la società capogruppo possa essere chiamata a
rispondere per un reato commesso nell'ambito dell'attività di un'altra società del gruppo,
allorché alla commissione di quel reato abbia concorso una persona fisica che agisca per conto
dell’holding, perseguendo anche l'interesse di quest'ultima.

4.5. Come ultimo quesito vi è quello riguardante le imprese individuali. La prevalente


giurisprudenza della Corte di Cassazione risponde in senso negativo, in quanto l’art.1 d.lgs. n.
231/2001 fa riferimento soltanto a enti, società o associazioni.
In un'isolata pronuncia, la Corte, invocando la lacuna repressiva aperta dall’inapplicabilità del
d.lgs. n. 231/2001 all’impresa individuale, ha invece affermato che una lettura
costituzionalmente orientata impone inclusione delle imprese individuali tra i soggetti ai quali
è applicabile, la disciplina della responsabilità da reato degli enti.

5. I criteri di attribuzione della responsabilità da reato all’ente

5.1. È necessario che il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente da soggetti
in posizione apicale o da soggetti sottoposti alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali.
Sono in posizione apicale le persone con funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione
dell'ente o di una sua unità organizzativa con autonomia finanziaria e funzionale, nonché le
persone che esercitano la gestione o il controllo dell'ente.
È esclusa la responsabilità dell'ente quando il soggetto abbia agito nell'interesse esclusivo proprio
o di terzi.
L’interesse dell’ente e quello della persona fisica possono concorrere tra loro: secondo la Corte di
Cassazione, è anzi sufficiente un marginale interesse della società alla condotta illecita realizzata
dall'imputato, come l'interesse ad evitare sanzioni.
Come ha sottolineato la Corte di Cassazione, l'interesse e il vantaggio dell'ente sono concetti
distinti e rilevano in via alternativa: l'interesse va apprezzato ex ante, e cioè al momento della
commissione del fatto, secondo un metro prevalentemente soggettivo; il vantaggio va invece
valutato ex post, secondo un metro oggettivo, alla luce degli effetti concretamente prodotti da
reato.
Problemi particolari si pongono circa i criteri di attribuzione della responsabilità all'ente quando si
tratti di reati colposi di evento (es. omicidio colposo). In proposito, la giurisprudenza sottolinea
come il vantaggio dell'ente possa risiedere nella condotta che viola regole cautelari: solo la
violazione delle regole cautelari può essere commessa nell'interesse o a vantaggio dell'ente;
L'evento lesivo in sé considerato è controproducente per l'ente.
Va accertato in concreto se il soggetto abbia agito per conto dell'ente attraverso sistematiche
violazioni di norme cautelari, con conseguente abbattimento dei costi inerenti all'attuazione di
misure antinfortunistiche o massimizzazione della produzione.

5.2. Il secondo criterio è la rimproverabilità all'ente di una colpa di organizzazione, cioè la mancata
adozione o l’inefficace attuazione di un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire
reati della specie di quello verificatosi o il mancato affidamento del compito di vigilare sul
funzionamento e sull’osservanza dei modelli a un organismo autonomo dell'ente.
Secondo la Corte di Cassazione il d.lgs. n. 231/2001 rispetta il principio di colpevolezza: non
delinea infatti un'ipotesi di responsabilità oggettiva, prevedendo, al contrario, la necessità che
sussista la c.d. colpa di organizzazione dell'ente, non avere cioè predisposto un insieme di
accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
L'adozione di modelli di organizzazione non è di per sé obbligatoria, ma può escludere la
responsabilità dell'ente qualora venga commesso un reato nel suo interesse o vantaggio.
Come mostra la disciplina e la prassi statunitense (che sta all'origine della disciplina e della prassi
italiana) i modelli sono strutturati in modo unitario, avendo la funzione di individuare le aree di
rischio della commissione di reati all'interno del singolo ente e di vigilare sul rispetto degli
standard di comportamento da osservare e delle procedure da seguire da parte di chiunque, in
posizione apicale o subordinata.
6. Problemi probatori
La disciplina italiana opera una distinzione tra i reati commessi dai soggetti in posizione apicale e
reati commessi da soggetti sottoposti all'altrui direzione. Nel primo caso l'onere di provare
l'assenza di una colpa d'organizzazione grava sull'ente; nel dubbio all'ente andranno inflitte le
sanzioni previste dalla legge.
Il dubbio non nuoce all'ente, quando si tratti di reati commessi da soggetti sottoposti all'altro
direzione o vigilanza. In tal caso la legge non opera nessuna inversione dell'onere della prova.

7. Il dolo dell’ente: la politica di impresa finalizzata alla commissione del reato

La colpa d'organizzazione è il criterio minimale sul quale si fonda la responsabilità da reato


dell'ente, nel senso che basta la colpa.
È possibile che il reato sia l'espressione di una politica di impresa finalizzata alla commissione del
reato: in tal caso, la responsabilità troverà il proprio fondamento in una sorta di dolo dell'ente.
È la stessa legge a prevedere espressamente questa forma di responsabilità per i casi in cui l'ente o
una sua unità organizzativa vengono stabilmente utilizzati allo scopo unico o prevalente di
consentire o agevolare la commissione del reato. La legge prevede:
- Delitti di criminalità organizzata;
- Reati ambientali (attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti e Inquinamento doloso
provocato da una nave);
- Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico.
In tutte queste ipotesi la sanzione comminata è la dissoluzione dell'ente nella forma della
interdizione definitiva dall'esercizio dell'attività.
Tuttavia ogni altro reato può essere l'espressione di una politica dell'impresa finalizzata alla sua
commissione e in tale eventualità l'ente sarà del pari sanzionato con l'interdizione definitiva
dall'esercizio dell'attività.

8. L’autonomia della responsabilità dell’ente

Il d.lgs. n. 231/2001 sancisce l’autonomia della responsabilità dell'ente rispetto alla responsabilità
dell'autore: il cumulo delle due responsabilità è solo eventuale.
La più importante ragione dell'autonoma responsabilità dell'ente risiede nella complessità dei
processi produttivi e gestionali che, coinvolgendo una pluralità di persone, molto spesso
impediscono di identificare il singolo autore o gli autori del fatto di reato; a ciò si aggiunga il
fenomeno patologico della irresponsabilità individuale organizzata.
In quanto l'autonoma responsabilità dell'ente è responsabilità da reato, va accertata la sussistenza
di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi del reato che gli viene ascritto, per colpa d’organizzazione
o per una politica criminale di impresa.
Quanto alla sussistenza del dolo, si tratta di autentico dolo, che va provato quando non è
identificato l'autore del reato, con l'ausilio di tutti i criteri indiziari normalmente utilizzati per
accertare il dolo (es. il riciclaggio per via telematica di denaro sporco da parte di funzionari bancari
non identificati).
Per quanto riguarda l'accertamento della responsabilità dell'autore del reato presupposto, la Corte
di Cassazione ha precisato che per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il
definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un
mero. accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi della
responsabilità dell'ente.
Un diverso profilo della problematica dei rapporti tra responsabilità della persona fisica e
responsabilità dell'ente riguarda la possibile violazione del principio ne bis in idem.

9. Le sanzioni

Le sanzioni comminate nei confronti dell'ente sono:


- La sanzione pecuniaria commisurata secondo lo schema delle quote, il cui numero viene
determinato dal giudice in base alla gravità del fatto, al grado della responsabilità dell'ente
e all'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto o per prevenirne la
reiterazione e il cui importo dipende dalle condizioni economiche patrimoniali dell'ente;
- Le sanzioni interdittive temporanee (Interdizione dall'esercizio dell'attività) di durata
normalmente compresa fra tre mesi e due anni, la cui scelta da parte del giudice va
operata sulla base degli stessi criteri che regolano la determinazione del numero delle
quote delle pene pecuniarie, purché ricorra una delle seguenti condizioni: reiterazione
degli illeciti o profitto di rilevante entità tratto dall'ente, se il reato è stato commesso da
soggetti apicali o da soggetti sottoposti all'altro direzione, quando la commissione del reato
è stata determinata, agevolata da gravi carenze organizzative;
- Le sanzioni interdittive definitive, applicabile quando l'ente che ha tratto un profitto di
rilevante entità è stato già condannato almeno tre volte, negli ultimi 7 anni, all'interdizione
temporanea, o quando l'ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo
scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati ascrivibili
all'ente. Questa comprende il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione o il
divieto di pubblicizzare i beni e i servizi quando l'ente è già stato condannato alla stessa
sanzione almeno tre volte negli ultimi 7 anni;
- La confisca del prezzo o del profitto del reato, che è sempre disposta con la sentenza di
condanna, salvi i diritti del terzi in buona fede: quando non è possibile aggredire il profitto
e il prezzo la confisca avrà come oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore
equivalente al prezzo o al profitto del reato;
- La pubblicazione della sentenza di condanna: Il giudice può disporla quando nei confronti
dell'ente viene applicata una sanzione interdittiva.
A proposito delle sanzioni interdittive, la Corte di Cassazione ha chiarito che si tratta di sanzioni
principali, con la conseguenza che in caso di patteggiamento, le sanzioni interdittive devono essere
oggetto di un espresso accordo tra le parti in ordine al tipo ed alla durata.

10. La prescrizione dell’illecito dell’ente

La disciplina della prescrizione dell'illecito dell'ente è modellata sulla falsariga di quella prevista
per gli illeciti civili: cinque anni dalla consumazione del reato e inizio di un nuovo periodo di
prescrizione dopo ogni atto interruttivo.
L'estinzione fisiologica (e non fraudolenta) dell'ente determina l'estinzione degli illeciti, ricorrendo
un caso assimilabile alla morte del reo prima della condanna.

11. Sulla costituzione di parte civile nei confronti dell’ente


Si è posto il problema se il danneggiato da reato possa costituirsi parte civile nel procedimento
contro l'ente chiamato a rispondere a norma del d.lgs. n. 231/2001.
Prevale in giurisprudenza e in dottrina un orientamento negativo per molteplici ragioni: da un lato,
l'autonomo illecito di cui l'ente deve rispondere, non è produttivo di danni diversi e ulteriori
rispetto a quelli che derivano dal reato presupposto, per i quali l'ente potrebbe essere chiamato a
rispondere come responsabile civile; d'altro lato, la disciplina del codice di procedura penale sulla
costituzione di parte civile non è applicabile neppure in via analogica, in quanto la mancata
disciplina dell'istituto nell’ambito del d.lgs. n. 231/2001 non costituisce una lacuna, bensì una
consapevole scelta del legislatore.
La mancata previsione della possibilità della costituzione di parte civile nel procedimento contro
l'ente è stata ritenuta compatibile con il diritto dell'Unione europea, in particolare con le
disposizioni del diritto dell'Unione europea relative alla tutela della vittima del reato.
Va peraltro segnalato che l'ente potrà essere citato come responsabile civile nel processo penale
contro la persona fisica chiamata rispondere del reato presupposto.

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