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Il codice Rocco, configurava l’usura come una sopraffazione in danno della vittima, consistente

nell’approfittare del suo stato di bisogno per procurarsi un vantaggio eccedente il valore della
prestazione resa. Con la L. n. 108 del 1996, la struttura dell’illecito muta. Ricalcando il modello
francese, il legislatore, sopprime al comma 1 art. 644 c.p. lo “stato di bisogno” e il relativo
“approfittamento”, scegliendo come epicentri della “meritevolezza di pena”, gli eventi di pericolo
(nello schema della fattispecie, dalla promessa di interessi o vantaggi usurari) o di danno
patrimoniale (effettiva dazione) subiti dall’usurato. L’interesse è considerato “usurario” qualora
superi il c.d. tasso effettivo medio stabilito trimestralmente con decreto del ministro dell’economia,
aumentato nella misura prevista dall’art. 2, co. 4 della L. n. 108/1996. Nel quadro della norma
penale si definiscono, pertanto, un pericolo e un danno “presunti”: la promessa o la dazione di un
tasso superiore al limite legale segnano un pregiudizio patrimoniale, in virtù di un meccanismo
deputato a operare automaticamente. Quindi, nel quadro della norma penale, in virtù di un
meccanismo deputato a operare automaticamente «gli interessi sono sempre usurari», dice il
comma 3 dell’art. 644 c.p.. Solo qualora il tasso convenuto sia inferiore alla misura legale occorre
accertare, perché la fattispecie sia integrata, la sproporzione dello scambio e le condizioni di
difficoltà economica o finanziaria della vittima. La soppressione del requisito tipicizzante la
condotta cosı` come, d’altra parte, la presunzione di offesa patrimoniale, non solo nella specie del
pericolo ma addirittura del danno, rispondono all’esigenza, confermata dalla Corte costituzionale,
di agevolare l’accertamento del reato.
La formula dell’art. 644 c.p. non manca tuttavia di generare incertezze, con riflessi negativi
sull’esercizio delle attività finanziarie. Problemi consistenti sono avvertiti in primo luogo dalle
banche, infatti, la c.d. usura bancaria dovrebbe perfezionarsi per la semplice discrepanza fra tasso
soglia e patto convenuto con l’effetto di criminalizzare il contratto, in sé per sé preso al di fuori di
qualsiasi comportamento induttivo o profittatore del soggetto attivo, espunto dai requisiti del fatto e
a prescindere, per di più da un’offesa patrimoniale realmente accertata, almeno se si ritiene che
essa possa risultare da una presunzione assoluta. Infatti, una volta soppressi o ridotti ad oggetto di
presunzione gli elementi essenziali dell’originaria figura delittuosa, l’usura, almeno nella sua forma
“presunta” appare spogliata dei tratta di disvalore che dovrebbero legittimarne la presenza nella
sfera degli illeciti penali. Unica fonte superstite è il superamento di soglia elevato a fondamento di
una presunzione nella quale dovrebbe risiedere la ragione della pena. È giusto quindi domandarsi
se le esigenze di semplificazione della prova possano spingersi fino ad annullare il nucleo
materiale della figura criminosa.
La domanda chiama in causa profili nevralgici dell’attuale disciplina. L’accertamento giudiziale,
se condotto oltre le barriere della presunzione, potrebbe dimostrare che nessuna prevaricazione,
né altro comportamento artificioso o induttivo abbiano spinto il soggetto passivo a concludere un
certo accordo, ma potrebbe anche emergere che il tasso pattuito sia conveniente per il mutuatario:
e, magari, gli abbia consentito di cogliere opportunità di mercato altrimenti sfuggenti, con ricadute
favorevoli in termini di profitto. In altrettanti casi mancherebbe un danno per la vittima; la quale
potrebbe anzi aver tratto dall’accordo rilevanti vantaggi. Ne´ alcuna coazione – ancor meno una
costrizione – potrebbe dirsi intervenuta. Difetterebbe perciò nel fatto realizzato qualsiasi disvalore,
vuoi “di condotta”, vuoi “di offesa”. Sarebbe nondimeno legittima la pena, che si ritenesse imposta
dalla norma vigente?
La risposta non può non essere negativa. Ad essa si oppone, anzitutto e risolutivamente, un
principio che potrebbe dirsi di “verità”, in forza del quale incombe al legislatore un vincolo di fedeltà
al reale nella selezione dei fatti qualificati come reati. Va quindi escluso che il reato possa essere
concepito dalla legge e/o ascritto sulla base di meri automatismi presuntivi o, peggio, di vere e
proprie fictiones legis, che si affermino contro la realtà o precludendone l’accertamento. A maggior
ragione, deve ancora aggiungersi, i vincoli scaturenti dalla necessaria “verità” dei fenomeni regolati
dal diritto penale intervengono in modo stringente quando, come avviene nell’usura presunta, la
fissazione di una soglia-limite, corrispondente al tasso medio aumentato ai sensi di legge, assorba

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l’intero disvalore della figura criminosa, apparendo ad ogni effetto come il solo dato che dovrebbe
legittimare la pena.
L’appello alla “verità” della norma penale, in rapporto ai fenomeni da essa regolati, può meglio
intendersi nel raffronto con altri, classici princıpi, a partire da quello di “offensività”. La necessità di
espungere dal “rilevante” penalistico fatti concretamente inoffensivi è una concezione coltivata
dalla Corte costituzionale a partire dagli anni ’80, e confermata da una serie di decisioni impegnate
a verificare la legittimità di presunzioni di “pericolo” nelle fattispecie di reato. Appartiene
all’evoluzione dell’indirizzo la precisazione che l’offensività rappresenti «un limite di rango
costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario» in virtù del quale è sempre rimesso al
giudice il compito di adeguare l’offensività “in concreto” al parametro di volta in volta determinato
dal legislatore.
Ora, la coerente applicazione del portato in esame al delitto di usura induce a concludere che la
presunzione di pericolo collegata alla fissazione di un tasso esuberante il limite legale si sottragga
a censure di illegittimità costituzionale, dal punto di vista del principio di “offensivita`”, a una duplice
condizione: che la presunzione si collochi entro i confini della non manifesta irragionevolezza; che
sia fatta salva l’esigenza di verificare nel singolo caso l’effetto di pericolo che la presunzione stia
originariamente ad indicare, spettando comunque al giudice ordinario determinare la sussistenza o
l’insussistenza dell’offesa alla quale la legge penale reagisce.
Se, per contro, la presunzione dovesse essere concepita e praticata in termini “assoluti”,
precludendo l’accertamento dell’assenza del pericolo, sarebbe punita, attraverso il co. 1 dell’art.
644 c.p., la conclusione del contratto, non perché svantaggioso per una parte che lo subisca, ma
perché contenga una pattuizione – il tasso superiore al limite legale – che ne decreti l’illiceità,
anche se l’assetto negoziale sia equilibrato o addirittura favorevole alla (pretesa) vittima. Evidente
sarebbe dunque il rischio di cadere in una sorta di moralizzazione degli scambi, con un “calmiere”
imposto dalla legge e presidiato da pena, senza tener conto della logica economica sottostante
ciascuna operazione.
In questa cornice deve essere valutata la conformità dell’art. 644 c.p. ai princıpi sistematici di
rilievo costituzionale. Dato conto del generale indirizzo interpretativo seguito dalla Consulta,
occorre tener presente che la lettera del comma terzo dell’art. 644, nel precisare che gli interessi
superiori al tasso prestabilito «sono sempre usurari», sembra voler attribuire alla presunzione
carattere insuperabile, così da precludere l’accertamento giudiziale del difetto di pericolo.
Dal punto di vista dell’evento offensivo, consentire la prova dell’innocuità del fatto apparirebbe
ancor più irrinunciabile quando la presunzione introdotta dalla legge penale, abbia ad oggetto non
solo l’evento di “pericolo”, ma addirittura il “danno”.
Deve rilevarsi, al riguardo, come il problema della presunzione di danno, anche per la sua
minore frequenza, sia rimasto per lo più estraneo allo scrutinio della giurisprudenza costituzionale.
Neppure la dottrina penalistica ha dedicato un generale approfondimento al problema, riservando
ad esso precipua attenzione nell’ambito di trattazioni mirate ai particolari settori della parte
speciale ove la tecnica in esame ha trovato più frequente attuazione. Di certo, quale che debba
essere la delimitazione di una sfera di danno “presunto” o “astratto”, una sua concezione in termini
assoluti, intolleranti la prova contraria, oltre a stridere con le categorie generali, sarebbe in netto
contrasto con l’elaborazione penalistica del principio di offensività, letto in trasparenza, ancora una
volta, con quello che abbiamo segnalato come principio di verità. Proprio la fattispecie dell’usura
ne dà esauriente riprova: sarebbe infatti indispensabile chiedersi se sia accettabile, al lume dei
predetti princıpi, reagire con pene severissime, presumendoli dannosi, a fatti che potrebbero
rivelarsi economicamente neutri o persino vantaggiosi per il soggetto passivo; non trascurando che
un diritto penale votato all’efficienza, allorché intervenga a disciplinare le attività “economiche”,
debba giocoforza tener conto della “sostanza” dei fenomeni regolati, anche per quanto concerne
l’accertamento degli esiti dannosi o favorevoli di ciascuna operazione rischiando altrimenti, di
scadere in evidente e cieco “formalismo”.

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A nessuno dovrebbe sfuggire che se l’offesa al patrimonio, principalmente nella forma del
danno fosse collegata soltanto allo scostamento della prestazione da un parametro legale come
prefigurato nel co. 1 dell’art. 644, potrebbe essere travolto un principio cardinale dell’ordinamento,
quale la liberàa di ciascuno di disporre del proprio patrimonio. Sotto l’egida di un’ipotetica
incriminazione potrebbe ricadere qualsiasi forma di squilibrio contrattuale presunto dalla legge:
conclusione, questa, che non mancherebbe di porsi in evidente contrasto con il sistema, oltre che
con la consolidata interpretazione della Corte costituzionale che là dove venga il gioco il nocciolo
delle libertà fondamentali, giuridicamente tutelate, ha sempre giudicato illegittimo l’utilizzo, nella
fattispecie di reato, di tecniche presuntive, persino se agganciate ad evento di mero pericolo.
L’evolversi della recente legislazione sembra senz’altro accreditare l’esigenza di concreto
accertamento dell’offesa, infatti il d.l. 2.4.2015, n. 28, in attuazione della delega impartita dall’art. 1,
lett. m) della l. 28.4.2014, n. 67, ha strutturato, nell’art. 131-bis c.p., un meccanismo che consente
di rilevare la “esiguità” o “tenuità” del fatto, escludendone la punibilità quando la pena detentiva
comminata non superi nel massimo cinque anni.
In breve: il precludere la prova del concreto difetto di pregiudizio patrimoniale, legittimando la
punizione di fatti inoffensivi sul fondamento di una presunzione irreversibile di pericolo o di danno,
apparirebbe non in sintonia con gli sviluppi legislativi, teorici e pratici dei princıpi di riferimento.
Tanto che una parte della dottrina, cerca di delimitare il perimetro della presunzione, ammettendo
che anche nei fatti ricadenti sotto il primo comma dell’art. 644 c.p. debba essere verificata una
situazione di “inferiorità economica” della vittima, per escludere la punibilità quando il consenso sia
stato prestato dal contraente in assenza di condizionamenti che ne limitino la libertà di scelta.
Sembra però che il correttivo rischi di essere limitato ancor prima della situazione di “inferiorità” del
contraente, comunque la si intenda, conta il pregiudizio derivante dal contenuto del contratto è ad
esso che dovrebbe quindi anzitutto guardarsi. Appare poi chiaro che costituirebbe un’elusione del
problema ripiegare su formule che considerino quale oggetto della tutela penale, mediante la figura
dell’usura presunta, il “corretto” o – con formula più consapevole – “efficiente” funzionamento del
mercato finanziario Simili formule tradiscono con palmare evidenza l’errore insito nell’identificare il
bene tutelato con il rispetto del tasso di legge, ricadendo, nella migliore delle ipotesi, in una
semplice enfatizzazione dei meccanismi che presiedono alla sua fissazione.
Né il problema è superato dall’impostazione che identifica la funzione del decreto ministeriale
nella preventiva composizione degli interessi sottintesi alla domanda e all’offerta remunerata del
credito. A parte ogni dubbio preme rilevare che la preventiva valutazione formalizzata nel decreto
non potrebbe prevalere, per di più sotto la minaccia della sanzione penale, su una difforme
valutazione dei propri interessi economici che le parti, mediante l’accordo, possano aver raggiunto,
a meno di risolversi in mero dirigismo.
Se, da un lato, appare indispensabile consentire che sia accertata nel processo, in ogni ipotesi
rilevante, l’assenza di danno o di pericolo patrimoniale derivante dal contratto del quale si assuma
la natura usuraria, occorre d’altra parte essere consapevoli che quest’ultimo, se pure ammesso,
potrebbe incontrare notevoli difficoltà pratiche, dovute alla scarsa determinatezza dei parametri
deputati a definire il contenuto dell’offesa.
Si deve premettere che la presunzione sottostante alla cosiddetta usura “legale” assume ad
oggetto, propriamente, la “sproporzione” tra le prestazioni contrattuali. Chiarificatore, in tal senso, è
il co. 3 dell’art. 644 c.p., che, nel concepire la fattispecie dell’usura “in concreto”, guarda alla
“sproporzione” tra ciò che la vittima, in condizioni di difficoltà economica o finanziaria, dà o
promette e il corrispettivo acquisito, esplicitando, così, l’oggetto della presunzione introdotta nel
primo comma, e precisando che il pregiudizio prodotto dall’usura non consiste, per il legislatore,
nel semplice decremento patrimoniale derivante dalla promessa o dalla dazione, né si riduce alla
conclusione del contratto, in sé e per sé presa ma nello squilibrio tra le prestazioni: accertato dal
giudice nella cosiddetta usura “in concreto”; presunto dalla legge nelle ipotesi previste dal primo
comma dell’art. 644 c.p..

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Il raccordo, tra usura “presunta” e usura “in concreto” si desume per altro verso dall’art. 3 della l.
n. 108/1996, che, nell’indicare la fattispecie applicabile nel periodo tra l’abrogazione dell’originario
art. 644 c.p. e la prima rilevazione dei tassi medi, costruisce una lex intermedia fondata proprio
sulla “sproporzione”, da valutare in base alle modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni
similari dal sistema bancario e finanziario.
E ` quindi nel corpo dell’usura “concreta” che si rinvengono i tratti essenziali dell’illecito e, ad un
tempo, le ragioni della reazione penale, espresse dalla “sproporzione” che, nel comma 1, è oggetto
di presunzione. Ciò significa che, là dove si ammettesse che la presunzione legale di offesa possa
essere vinta nel processo, per salvaguardare la legittimità costituzionale dell’art. 644 c.p., la prova
dovrebbe ricadere sul difetto di “sproporzione” nello scambio. Come si determina quindi la
“sproporzione”? quali criteri presiedano al suo accertamento? L’art. 644 c.p. isola due parametri: il
tasso mediamente praticato per operazioni similari e le concrete modalità del fatto.
Ora, il primo parametro implica un giudizio economico: presuppone che l’operazione da valutare
sia riconducibile a un “tipo” conosciuto. La proposta, per quanto evidente ne sia l’ispirazione, non
appare facilmente conciliabile con i limiti cui soggiace l’interpretazione della norma penale; specie
in un impianto, come quello degli art. 644 e 644-ter, oltre che della l. n. 108/1996 nel suo insieme,
che orbita attorno all’identificazione del tasso di interesse, tecnicamente inteso, come elemento
rivelatore dell’usura.
Una griglia ideale di “tipologie” negoziali utili al raffronto fra tasso “concreto” e tasso “medio”
può essere rappresentata, dalla classificazione adottata nel provvedimento ministeriale di
rilevazione del tasso effettivo globale medio, che, a norma dell’art. 2, co. 2 l. n. 108/1996, tiene
conto di criteri quali la natura, l’oggetto, l’importo, la durata, i rischi e le garanzie dell’operazione
medesima.
Ma, la legge non chiarisce il rapporto intercorrente tra il tasso convenuto nel singolo caso e
quello di operazioni simili; ne´ precisa l’entità dello scostamento. Una basilare razionalità
suggerirebbe che quando il tasso sub iudice corrisponda a quello medio o se ne discosti in misura
contenuta l’usura debba essere esclusa, senza procedere all’esame di altre “modalità concrete”
del fatto. Coerentemente, le concrete modalità del fatto verrebbero in gioco al solo scopo di
confermare la sproporzione, purché già “indiziata” dalla comprovata, rilevante divaricazione del
tasso dai parametri medi. La legge, però non è chiara e alimenta ragioni di insicurezza.
Né fuga i dubbi il distinto parametro consistente, nelle «concrete modalità del fatto». Infatti il
predetto parametro è stato accusato di insufficiente determinatezza; Anche prima della riforma del
1996, del resto, si era dubitato della determinatezza dell’espressione «interessi o vantaggi
usurari», tacciata d’essere una “tautologia”; ma il dubbio fu rigettato dalla Cassazione, che ritenne
la formula sufficientemente specifica, perché collegata alla comune nozione che considera usurari
gli interessi «sproporzionati alla prestazione.
Oggi il quadro si è modificato. Gli interessi, pur dovendo essere sproporzionati, devono restare
al di sotto della soglia “legale” dell’usura, integrandosi altrimenti la fattispecie del primo comma
dell’art. 644 c.p., con conseguente paralisi della figura del terzo comma. Né la norma autorizza una
restrizione interpretativa che introduca un requisito di “notevole” o “rilevante” sproporzione, del tipo
ipotizzato dalla giurisprudenza nel vigore della precedente disposizione; disperdendosi perciò
anche il disvalore riconoscibile all’evento del pregiudizio patrimoniale.
Si tratta di lacune che possono seriamente impacciare la dinamica dei rapporti di finanziamento.
Ed invero, pur se rimanga al di sotto del limite oltre il quale gli interessi sono considerati “usurari”, il
tasso potrebbe essere giudicato illecito. Non è quindi arbitrario pensare che nel dubbio il
finanziatore debba astenersi dal concedere il fido. Dal punto di vista della tecnica utilizzata dalla
fattispecie, preme sottolineare l’assenza di criteri che consentano di dare contenuti al requisito
della “sproporzione”: carenza che si riflette negativamente sulla possibilità, di concedere spazio,
nella formazione della prova, alla verifica del concreto equilibrio dello scambio, in funzione di limite
negativo dell’offesa patrimoniale punibile.

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Certamente, la casistica non ha mancato di offrire esempi nei quali un avveduto utilizzo dei
criteri in gioco ha orientato ad escludere la sproporzione tra dare e avere, avuto riguardo alle
prestazioni concordate e ai rischi assunti dalle parti. Ma qualsiasi diagnosi, più o meno sapiente,
della proporzione nello scambio contrattuale non rimuove, per se´ sola, le riserve sulla fattura della
legge: l’indeterminatezza dei criteri lascia aperto il varco all’oggettiva sottrazione di giusti spazi di
tutela, ora per la vittima, ora per l’imputato, esponendo qualsiasi decisione a critiche alimentate da
fattori pregiuridici, in quanto tali non verificabili né falsificabili.
Abbiamo detto che la condotta di usura si riduce, oggi, al «farsi dare» o al «farsi promettere» un
vantaggio usurario. La vigente disposizione non dice, che l’usura sussista quando gli interessi o
vantaggi usurari siano stati dati o promessi “a causa” di difficoltà economiche o finanziarie. Sotto
questo profilo anche il co.3 dell’art. 644 c.p. rivela una logica che può ricondursi, in senso ampio, a
una “presunzione”: non in senso tecnico, come modalità di definizione di un elemento di fattispecie
o della relativa prova, ma perché il legislatore, nel momento in cui ha concepito l’incriminazione,
sembra essere stato guidato dall’ipotesi che se taluno non si fosse trovato in condizioni di squilibrio
economico o finanziario non avrebbe stipulato un certo accordo.
Tanto nell’usura “legale” come in quella “concreta” lo specifico “disvalore di condotta” è dunque
fortemente ridotto rispetto al passato generando problemi di raccordo con il titolo dei delitti contro il
patrimonio che rimane ancorato alla necessità di comportamenti muniti di forte e specifica
“riprovevolezza”. Di regola, la legge richiede infatti che la condotta si qualifichi come «violenza»,
«minaccia», «induzione in errore» o «abuso» in danno della vittima: solo nel danneggiamento
astraendo da una condotta connotata da proprio disvalore, la cui assenza è tuttavia bilanciata dalla
previsione di una pena decisamente meno severa. Per di più il danneggiamento, presuppone pur
sempre il dissenso del soggetto passivo. Per contro, l’art. 644 c.p. concentra il giudizio di
“meritevolezza di pena” nell’effetto di pericolo o di danno patrimoniale con l’ulteriore peculiarità che
non rilevi, il consenso espresso dal soggetto passivo, neppure se autentico e non viziato da
inganno, violenza o minaccia, né da pressioni che limitino la libertà di scelta del contraente, sotto il
profilo dello stato di bisogno o dell’incapacità di compiere valutazioni negoziali integre. Si tratta di
scelte che rischiano di urtare con il principio di proporzione, cui la legge ordinaria deve informarsi.
Dal punto di vista strettamente interpretativo, ferme restando le lacune interpretative, ci si deve
semmai domandare se, per recuperare sintonia con il principio di proporzione, le espressioni
utilizzate nel descrivere la condotta usuraria – «farsi» dare o promettere – non possano essere
valorizzate per ricavarne l’esigenza di un “abuso” in danno dell’usurato, potenziando, così, il
disvalore che dovrebbe connotare il fatto punibile.
In questa prospettiva, l’analisi letterale offre spazi: a rigore, non viene punito il solo fatto di
«ricevere» gli interessi o «accettarne la promessa». Occorre invece «farsi» dare o promettere un
vantaggio usurario, quindi, “ricevere” non è sufficiente, dovendo emergere che taluno si attivi per
“ottenere”, cioè “faccia qualcosa” per ricevere.
L’enunciato legislativo dischiude dunque la via ad acquisizioni di notevole significato pratico, nel
senso che per «farsi dare» o «promettere» il reo debba vincere una resistenza del soggetto
passivo o, quanto meno, debba “persuaderlo”. Sarebbe indispensabile – in altre parole – un
comportamento munito di efficacia “induttiva”: tanto che, alcune sentenze, pronunciandosi sul
primo comma dell’art. 644 c.p., parlano tutt’ora esplicitamente di “induzione” del soggetto passivo.
D’altronde, l’evoluzione complessiva del “sistema” penale e delle sue articolazioni non è
d’ostacolo all’interpretazione prospettata, visto che nel settore recentemente riformato (con l. n.
190/2012) dei delitti contro la pubblica amministrazione distingue le condotte consistenti nella
«costrizione» (art. 317 c.p.), nell’ «induzione» a dare o promettere (319 quater c.p.), nel
«sollecitare» una promessa o una dazione (art. 322 c.p.) e, come detto, nel semplice ricevere
un’utilità o la sua promessa (art. 318 e 319 c.p.).
Secondo il postulato della coerenza del legislatore (penale) nell’uso del linguaggio, il «farsi
dare» o «promettere» implicherebbero, perciò, che l’usura non si perfezioni per il solo fatto che il

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soggetto attivo si limiti a “ricevere” una prestazione, dovendo piuttosto indurla mediante una
pressione a ciò indirizzata.
In conclusione: un recupero per via interpretativa dei disvalori materiali che debbono presiedere
alla definizione del delitto di usura, raccordandola alla rigorosa pena comminata dalla legge,
condurrebbe a ritenere che non rilevi la semplice ricezione dell’interesse o del vantaggio; né,
conseguentemente, l’esercizio di azioni giudiziarie a ciò rivolte. L’attivazione dell’azione giudiziaria
costituirebbe il ricorso a un mezzo di tutela predisposto dall’ordinamento; il quale cadrebbe in
contraddizione se qualificasse, poi, il propiziare quel mezzo di tutela come un’azione illecita o
addirittura criminosa.
Il quadro delle difficoltà derivanti dall’attuale concezione del delitto di usura non si esaurisce,
nella lacunosa identificazione degli elementi fondamentali della figura: problemi rilevanti toccano,
da un lato, il rapporto tra legge penale e decretazione ministeriale; dall’altro l’individuazione delle
componenti del tasso usurario.
Sotto il primo profilo è sufficiente ricordare, che il rinvio al decreto amministrativo per la
periodica rilevazione dei tassi soglia non possieda, carattere esclusivamente tecnico: una
valutazione discrezionale, incompatibile con il perimetro che la riserva di legge prevista dall’art. 25
Cost. consente alla normazione secondaria, sarebbe esercitata già nell’individuazione delle
«categorie di operazioni in cui il credito è compreso» (art. 2, comma 4, della l. n. 108/1996).
Dal punto di vista dell’interesse soglia, è stata censurata la mancata selezione, da parte della
legge, delle componenti del calcolo. Il problema, nell’esercizio dell’attività bancaria, ha avuto ed ha
tutt’ora ad oggetto gli interessi moratori: possono o addirittura devono essere presi in
considerazione e, se sì, secondo quale metodo? La legge lascia il problema nelle mani
dell’interprete.
La Cassazione, in sede civile, recependo un obiter dictum della sentenza n. 29/2002 della
Consulta, ha segnalato come l’interesse di mora possa assumere carattere usurario, se
esuberante il limite della “proporzione”: l’art. 1, co. 1 del d.l. n. 394/2000, convertito con l. 24 del
2001 ne legittimerebbe la conclusione. La giurisprudenza di merito si è più volte pronunciata in
senso contrario, tesi, questa, per il vero patrocinata con convinzione dal movimento
associazionista contro l’usura, ma in qualche occasione giudicata addirittura temeraria. E, in effetti,
le sentenze iscrivibili nell’orientamento negativo hanno a più riprese rimarcato come l’interesse di
mora sia meramente “eventuale”, divenendo, per di più, in caso di risoluzione del contratto,
sostitutivo del tasso convenzionale, almeno in rapporto al residuo capitale da restituire.
In generale, contro la qualifica usuraria del tasso di mora è stata addotta una serie di argomenti,
che hanno ricevuto un avallo stabile negli indirizzi dell’Arbitro Bancario Finanziario. Si è richiamata
la circostanza che la direttiva europea 2008/48/CE estrometta dal computo del tasso annuo
effettivo globale (t.a.e.g.), nei contratti di credito al consumo, le «penali che il consumatore sia
tenuto a pagare per la mancata esecuzione di uno qualsiasi degli obblighi stabiliti nel contratto di
credito» (art. 19, comma. 2); in ciò seguita, con identica ispirazione, dalla proposta di direttiva sui
contratti di credito relativi a immobili residenziali (COM 2011 142). Nei “Chiarimenti in materia di
applicazione della legge antiusura”, emessi dalla Banca d’Italia il 3.7.2013, pur premettendo che gli
interessi di mora siano soggetti alla legge antiusura medesima, è stato d’altronde paventato
l’effetto negativo che per i fruitori del credito discenderebbe dalla valutazione degli interessi
moratori nel calcolo del tasso effettivo globale medio, per l’impennata che esso subirebbe, con
innalzamento della soglia di usura.
Di certo, l’omessa considerazione degli interessi di mora nelle istruzioni impartite dalla Banca
d’Italia e nei decreti ministeriali di rilevazione del tasso effettivo globale medio sembrano impedire
il raffronto tra le componenti del calcolo del tasso legale e quelle applicate nel singolo caso: in
definitiva ostacolando l’operare del meccanismo presuntivo che è alla base dell’art. 644, co. 1 c.p.
Nella prospettiva penalistica, la possibilità di includere gli interessi moratori nel tasso usurario
deve essere vagliata tenendo conto dei limiti della fattispecie. Il co. 1, art. 644, nel riferirsi agli
interessi o vantaggi usurari, li circoscrive a quelli promessi o dati «in corrispettivo di una

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prestazione di denaro o di altra utilità». Il co. 3 ritiene illeciti gli interessi «sproporzionati rispetto
alla prestazione di denaro o di altra utilità»; mentre il comma successivo precisa che debba tenersi
conto, nel determinare il tasso di usura, delle commissioni, spese e «remunerazioni a qualsiasi
titolo».
Si stagliano, dunque, i limiti di fattispecie: il delitto di usura è centrato sul difetto di
«corrispettività»; mentre la funzione degli interessi moratori, assimilabile a quella della clausola
penale, è – sul punto sembra esservi accordo fra i civilisti – la liquidazione anticipata della somma
dovuta all’altro contraente a titolo di risarcimento per il ritardato o mancato adempimento
dell’obbligazione pecuniaria. Quindi, non si tratterebbe di prestazione corrispettiva, bensì
risarcitoria).
Delineata la cornice giuridica del problema, non è insignificante che la giurisprudenza penale,
pronunciandosi sul carattere usurario della clausola penale, abbia sottolineato che il collegamento
«che il legislatore, ex art. 644 c.c. pone tra le prestazioni, rispettivamente dovute dall’accipiens e
dal solvens, con l’uso del termine “corrispettivo”, rende evidente come il “pagamento” (usurario)
debba trovare causa e relazione diretta con quanto dato dal soggetto attivo. Ne deriva, in via
generale, che la “clausola penale” per la sua funzione (desumibile dal dettato degli artt. 1382 –
1386 c.c.) ex se, non può essere considerata come parte di quel “corrispettivo” che, previsto
dall’art. 644 c.p., può assumere carattere di illiceità, poiché sul piano giuridico l’obbligazione
nascente dalla clausola penale si pone come effetto derivante da un inadempimento».
La regola, puntualizza ancora la sentenza, non si estende al caso in cui la “clausola penale”
dissimuli il pagamento di un corrispettivo (usurario), attraverso un “simulato” e “preordinato”
inadempimento; restando fermo che l’interesse usurario deve costituire «componente (illegittima)
di un “corrispettivo” direttamente connesso alle reciproche obbligazioni principali, derivanti dal
contratto».
D’altro canto non può sfuggire che l’indicazione, proveniente dall’art. 1, co. 1, del d.l. n.
394/2000, sulla natura potenzialmente usuraria degli interessi convenuti «a qualsiasi titolo», sia
certo interpretabile nel senso che si sia voluto dar rilievo, ad ogni potenziale fonte dell’obbligazione
pecuniaria assunta dal soggetto passivo; non dimenticando che l’art. 2-bis della legge 28 gennaio
2009, n. 2, nel chiarire la rilevanza, agli effetti del tasso effettivo globale medio, degli interessi,
commissioni e provvigioni ha confermato la funzione di «remunerazione » e quindi la corrispettività
che deve contrassegnare le somme dovute dal soggetto passivo, perché l’usura possa realizzarsi.
Per ciò che concerne il meccanismo di fissazione del tasso usurario, al quale l’art. 644 c.p.
rinvia, sono sorte difficoltà ascrivibili, da un lato alla fluttuazione del tasso nel tempo; dall’altro ad
avvertite carenze di determinatezza nell’identificare le componenti del calcolo.
Partiamo dal primo problema: il momento nel quale deve determinarsi se il tasso abbia
carattere usurario è quello della pattuizione, della successiva dazione o di entrambi?
L’interrogativo, sollevato sin dalle prime fasi di applicazione della l. n. 108/1996, ha dato luogo a
soluzioni divergenti.
Un orientamento giurisprudenziale ispirato a maggior rigore, reputava che rilevassero entrambi i
momenti, quello dell’accordo contrattuale e quello della successiva dazione premessa, questa, che
conduceva a considerare usurarie anche prestazioni esecutive di un patto originariamente lecito
quando in seguito il tasso fosse divenuto non consentito, per essere diminuito il “tetto” massimo.
La dazione avrebbe comunque integrato la condotta del “farsi dare”, isolata dall’art. 644 c.p.. Altro
indirizzo giungeva a conclusioni opposte, valorizzando la connessione, ricavabile dalla legge, fra la
“promessa” e la “dazione”. Ed al riguardo, senza negare l’autonomia delle condotte e degli eventi
da esse derivanti deve porsi in luce come il «farsi dare» possieda un significato illecito solo se
causato da un patto già in origine “usurario”, restando altrimenti irrilevante. A sostegno dell’assunto
non può non richiamarsi, l’esigenza di raccordare la regolazione civilistica e quella penalistica
dell’identica materia sottolineando come già la l. n. 108/1996, dopo aver riformulato, nell’art. 1, la
fattispecie di usura, abbia poi nell’art. 4 comminato la sanzione civilistica della nullità di interessi
che L’indicazione, proprio perché contenuta nel medesimo corpo normativo, segnala lo spirito del

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sistema nell’adottare una disciplina coerente dell’usura, sia in chiave penalistica che civilistica
risultino usurari «al momento della pattuizione».
In ogni caso, è risaputo che il d.l. n. 394 del 29.12.2000, convertito con l. 28.2.2001, n. 24,
abbia dettato una disposizione ad hoc, attribuendole esplicitamente il valore dell’interpretazione
autentica. L’art. 1, co. 1 del decreto 394/2000 ha invero precisato che ai fini dell’applicazione sia
dell’art. 644 c.p. come dell’art. 1815 c.c «si intendono usurari gli interessi che superano il limite
stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque
titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento». Nella specifica ipotesi, l’art. 1,
comma 1, del d.l. n. 394/2000 chiarisce che non si debba tener conto del «momento del
pagamento» degli interessi; concentrando l’attenzione sull’epoca dell’accordo (nella terminologia
penalistica, del «farsi promettere»). La disposizione è stata comunque generalmente intesa nel
senso di regolare anche l’ipotesi opposta, ossia quella della cosiddetta usura “sopravvenuta”.
Questa interpretazione fa sı` che agli effetti della legge penale nel tempo, pur restando invariata
la norma posta dall’art. 644 c.p., le fluttuazioni del tasso effettivo globale medio, risultante dalle
rilevazioni trimestrali a cura del ministero dell’economia, operino in modo assimilabile alle leggi
“temporanee.
I quesiti concernenti la disciplina della legge penale nel tempo, in rapporto all’usura, toccano
profili ulteriori.
E `sorto l’interrogativo se la modifica dell’art. 2, co. 4 della l. n.108/1996, introdotta dall’art. 8,
co. 5, lett. d) del d.l. 13.5.2011, n. 70, convertito con l. 12.7.2011, n. 106, potesse operare per i fatti
realizzati in precedenza. L’art. 2, comma 4, inizialmente identificava il tetto massimo degli interessi
nel tasso effettivo globale medio, aumentato della metà; nella formulazione attuale prevede invece
che il limite oltre il quale gli interessi debbano considerarsi usurari «è stabilito nel tasso medio
risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del co. 1 relativamente
alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato di un quarto, cui si aggiunge un
margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può
essere superiore a otto punti percentuali». Quindi, nel capo l’applicazione del nuovo tasso sia più
favorevole perché esclude la natura usuraria della pattuizione intervenuta precedentemente
derivante dall’applicazione del tasso precedente, può operare l’art. 2, co. 2, c.p., con l’effetto di
escludere l’illiceità penale dell’accordo in precedenza intervenuto?
La giurisprudenza si è espressa in senso negativo. In un’importante decisione dopo aver
premesso che una «modifica in via generale della fattispecie incriminatrice» possa dipendere
anche dalla variazione delle norme extrapenali che la integrano, e dopo aver ricordato l’assenza di
un orientamento uniforme in seno alla Cassazione, ha concluso che l’art. 2, comma 4 della l. n.
108/1996 non integri il precetto penale posto dall’art. 644 c.p.. Nella motivazione ha aggiunto come
la modifica intervenuta non tocchi né il disvalore sociale, né l’illiceità oggettiva della condotta
realizzata nel vigore della precedente normativa, incidendo esclusivamente sui presupposti per
l’applicazione della norma penale. La sentenza ricorda che il fenomeno dell’abrogazione non
cancella la norma preesistente, ma ne circoscrive l’applicazione ai soli fatti avvenuti nel periodo in
cui essa era in vigore il che, nell’assenza di un’apposita disciplina transitoria, non potrebbe non
valere per la modifica dell’art. 2 della legge n. 108/1996.
Ora, che al d.l. n. 70 del 2011 fossero sottintese valutazioni economiche non è lecito dubitare.
La semplice lettura del disegno per la sua conversione in legge, presentato alla Camera il 13
maggio 2011 (C. 4357), segnala che a muoverlo è stata la volontà di «restituire margini di azione
alle banche e agli altri intermediari finanziari». Almeno sotto questo profilo è innegabile che il
decreto persegua obiettivi economici, ampliando la libertà di azione concessa agli operatori del
credito. L’ampliamento, tuttavia, non può non significare una modifica del precetto imposto
attraverso la determinazione del tasso usurario. A mutare, infatti, è la valutazione legislativa di quel
che potremmo definire il rischio contrattuale permesso.
Se tale interpretazione fosse esatta se, nell’ottica particolare del diritto penale, la diversa
indicazione di comportamento, scaturente dalla modifica del precetto, debba o meno valere anche

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per il passato. Ponendosi in questa prospettiva, non sarebbe allora dirimente interrogarsi sulla
portata della abrogazione, perché la disciplina dell’art. 2 c.p. si occupa del diverso fenomeno
consistente nell’applicazione della più favorevole disciplina sopravvenuta anche a fatti pregressi, ai
sensi del comma 2.
Il problema risiederebbe, allora, nel chiarire se un limite preclusivo all’operare della più benigna
norma sopravvenuta possa venire dalla circostanza che essa si ricavi non dalla testuale
disposizione dell’art. 644 c.p., in se´ immutata, ma da altra e autonoma disposizione, ossia quella
dettata nell’art. 2, comma 4 della l. n. 108/1996. Quesito che parte della giurisprudenza ha
affrontato distinguendo tra norme extrapenali “integratrici” e “non integratrici” di quella penale.
Un contributo alla soluzione del quesito si rinviene nella sentenza delle sezioni unite della
Cassazione sulla configurabilità del reato previsto dall’art. 14, comma 5-bis del d.lgs. n. 286 del
1998 a carico di cittadini rumeni dopo l’ingresso della Romania nell’UE. Ad avviso della decisione
sarebbero munite di effetti retroattivi le sole leggi extrapenali integratrici della «fattispecie penale»,
per tali dovendo intendersi quelle che rechino una definizione legale, «se la disposizione
extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama».
Ora, non sembra escluso che il test di sostituibilità sperimentato dalla Cassazione nella
sentenza ora ricordata possa portare, se applicato alla modifica dell’art. 2, co. 4 della l. n.
108/1996, nel suo rapporto con l’art. 644, comma 1 e 3, primo periodo c.p., a riconoscerle la
qualità di norma integratrice e, pertanto, efficacia retroattiva. Ne´ sembra di dover escludere che la
modifica possa annoverarsi, per il suo valore generale, fra quelle naturalmente sorrette da
un’efficacia retroattiva.
Altro profilo problematico, agli effetti della disciplina della legge penale nel tempo, si lega alla
commissione di massimo scoperto. Per l’intelligenza della questione è utile ricordare quanto
disposto dall’art. 2-bis della l. 28.1.2009, n. 2, Ora: la circolare della Banca d’Italia del 30 settembre
1996, aggiornata nel dicembre 2002, in vigore fino al secondo trimestre del 2009, recante le
istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio, precisava, che la commissione di
massimo scoperto non entrasse nel calcolo del tasso effettivo globale. Di conseguenza, i decreti
ministeriali emanati per la rilevazione del tasso effettivo globale medio non calcolavano, prima
dell’introduzione dell’art. 2-bis della l. 28 gennaio 2009, n. 2 e dell’approvazione delle istruzioni
aggiornate, emanate dalla Banca d’Italia nell’agosto 2000, la commissione di massimo scoperto,
anche se nella pratica processuale è stato sollevato il dubbio sulla possibilità di considerare usurari
gli interessi comprensivi della clausola di massimo scoperto, anche se fissati prima che il nuovo
metodi di rilevazione del tasso globale fosse predisposto. Molti, tra giudici di merito, si sono
espressi negativamente, osservando che quella dettata dall’art. 2-bis della l.28 gennaio 2009, n. 2
non può essere ridotta a mera norma interpretativa.
Una diversa ricostruzione è stata prospettata in una sentenza della Cassazione, la quale, pur
condividendo l’idea che l’art. 644 c.p. enunci una norma penale in bianco, ha evidenziato che la
norma particolare, includendo nel calcolo del tasso di usura le «remunerazioni» a qualsiasi titolo,
intenderebbe valorizzare tutti gli oneri sopportati dal contraente, compresa la commissione di
massimo scoperto. Le istruzioni impartite dalla Banca d’Italia vigenti fino al 2009, fondate su
un’interpretazione ritenuta dalla Cassazione non corretta dell’art. 644 c.p., non avrebbero efficacia
vincolante per gli istituti bancari.
All’esito della rassegna dei principali nodi applicativi, tuttora vivi nel tessuto della
giurisprudenza, si può ora abbozzare una sintesi conclusiva, partendo dall’assunto che i problemi
teorici e pratici collegati al delitto di usura tocchino, anzitutto, la struttura della fattispecie.
Occorre ribadire che la scelta di impoverire l’illecito riducendolo alla pattuizione di un tasso
esuberante la soglia normativa appare discutibile non solo in base a criteri di valore, per sé
opinabili, ma dal punto di vista tecnico, perché mette in crisi il vincolo tra norma e realtà regolata.
La presunzione che conduce a ritenere il tasso, così calcolato, sempre meritevole di pena preclude
infatti ogni verifica dei disvalori che lo schema legale del reato è chiamato a selezionare. La pena
diviene perciò applicabile persino a fatti non lesivi. Né le carenze, imputabili alla mancata

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previsione di un evento offensivo, sono bilanciate dalla previsione di particolari disvalori di condotta
o di elemento psicologico.
Nel corso del lavoro abbiamo indicato gli spazi ragionevolmente offerti a un recupero, per via di
interpretazione, di un più equilibrato rapporto tra fatto, responsabilità e prova. Nella prospettiva di
un quadro di riforma, sembra adesso di dover rimarcare quanto segue.
A) Il primo, imprescindibile intervento correttivo si lega alla necessità di introdurre nella fattispecie
penale di usura un elemento che denoti espressamente l’effetto patito dalla vittima di un
“abuso” compiuto da chi lucri interessi o altri vantaggi usurari.
B) Posti nel giusto risalto gli elementi costitutivi del reato, a partire dall’evento e dalla condotta
usuraria, che devono perciò essere compiutamente accertati nel processo, l’eventuale
conservazione di un parametro normativo che determini un tasso legale non può svolgere la
funzione di indice (tanto meno assoluto) di illiceità. Semmai se ne potrebbe invertire il ruolo nel
senso che l’accertamento inteso a verificare se un accordo sia stato condizionato dall’abuso di
uno stato di difficoltà, bisogno o inferiorità del contraente-vittima intervenga solo al superamento
di un tasso medio, corrispondente ad operazioni di uno stesso tipo. sarebbe poi rimessa al
legislatore la scelta di prevedere le soglie di “tolleranza” che segnino un’area ulteriore nella
quale il superamento del tasso, per essere contenuto entro un certo limite, non debba attivare la
riposta penale, essendo sufficiente quella extrapenale.
C) Quale che sia la soluzione preferibile, recidere il nesso automatico tra il superamento di un
tasso legale e l’integrazione del delitto di usura non significa rifiutare in toto un meccanismo che
punti a prevenire oscillazioni interpretative e ad offrire certezza mediante precise indicazioni di
legge. Proprio l’aspirazione a sottrarre il tasso usurario a una determinazione giudiziale
postuma resta alla base dell’appello affinché il precetto legale sia compiutamente formulato
anche sotto il profilo della natura “usuraria” della prestazione.
D) Una coerente, piena attenzione alla “gradualità” delle sanzioni impone il raccordo tra strategie di
tutela penale, civile e amministrativa. La pena non va necessariamente associata
all’applicazione di strumenti di riequilibrio negoziale, come la nullità della clausola che preveda
un tasso superiore al limite legale, attualmente comminata dall’art. 1815 c.c.. Senza sacrificio di
prospettive rimediali legittimamente praticate nell’ambito del diritto civile, la pena dovrebbe
intervenire solo a patto di riconoscere nella concreta vicenda giudicata i tratti di disvalore che,
per la chiara rispondenza a un “tipo”, riflettano puntualmente un ingiusto approfittamento in
danno del soggetto passivo.
E) Quanto al rapporto tra illecito penale e amministrativo, con riferimento all’usura ci si può
chiedere se il superamento di un tasso di interesse prefissato per legge, in se´ e per se´ preso,
pur senza legittimare una reazione penale possa nondimeno fondare una sanzione
amministrativa.
Intervenendo nella controversa materia della confisca non preceduta da formale condanna, la
Corte costituzionale nella sentenza 49/205 ha ribadito la piena discrezionalità del legislatore nel
determinare i presupposti della sanziona amministrativa. Le conclusioni sul punto sono senza
dubbio ampie e sottolineano l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale, collegata
al più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per
perseguire l’effettività dell’impostazione di obbligo o di doveri. La Corte, inoltre segnala la
necessità di preservare l’alternativa penale/amministrativa quale strumento di politica criminale,
volto da un lato al contenimento dell’ipertrofia del diritto penale e dall’altro a consentire la
semplificazione dei procedimenti sanzionatori. Non è tuttavia senza significato che, guardando
al rapporto sostanziale tra i due tipi di illecito, la sentenza n. 49 del 2015 li riconduca entrambi a
una funzione di «tutela dei beni giuridici», retta da esigenze di rilievo costituzionale e governata
dal principio di extrema ratio.
La conclusione della Corte sembra naturalmente indirizzata a quelle tipologie di illecito ove la
reazione dell’ordinamento, pur senza esprimersi con la pena formalmente detta, persegua
finalità tipiche del giure penale, in sintonia, al riguardo, con i ben noti insegnamenti della Corte

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EDU, che non a caso la Consulta espressamente richiama. Per tali illeciti – osserva la Consulta
– non possono non valere le garanzie previste dall’art. 6 della CEDU.
Senonché, oltre il nocciolo delle garanzie consacrate dall’art. 6 CEDU si apre il problema della
struttura dell’illecito amministrativo: se, in altri termini, esso debba ripetere, in tutto o in parte
essenziale, le caratteristiche di quello penale. Sviluppando il discorso sul terreno dell’usura è
perciò immediatamente chiamata in causa la legittimità di una tecnica presuntiva, nell’ottica di
uno specifico quesito: incompatibile con la fattispecie penale, potrebbe simile tecnica essere
conservata nella definizione di un illecito amministrativo?
In questa sede, quel che soprattutto va messo in evidenza è il rapporto tra sanzione
amministrativa e “offesa”. Almeno nel caso dell’illecito amministrativo “depenalizzato”, la
letteratura specialistica ha da tempo posto al centro della propria ricostruzione il nesso con una
originaria tipologia penalistica della quale, per filiazione, la figura sanzionata in via
amministrativa conserverebbe i tratti, anche in rapporto alla necessaria portata offensiva del
fatto, almeno nei termini usualmente accettati per lo schema contravvenzionale.
Di certo, al di là dell’originaria natura penale stricto sensu dell’illecito, la finalità “punitiva”
sottintesa alla sanzione amministrativa chiama in causa una ragione di protezione che non può
non rinvenirsi nella difesa di un interesse esterno, pre-dato alla norma, munito di sufficiente
rilievo ed è su questo piano che, a nostro avviso, va collocato il richiamo della Corte
costituzionale a una funzione di tutela comune all’illecito amministrativo e penale, secondo un
criterio di gradualità che assegna a quest’ultimo il rango di una ultima ratio.
Occorre dunque domandarsi se ed in qual misura l’impiego di presunzioni possa trovare luogo
nella definizione del fatto tipico, punito in via amministrativa. Nel quadro della struttura
sostanziale dell’illecito le premesse svolte inducono una tendenziale riserva negativa verso
l’impiego di presunzioni in tutta l’area del diritto punitivo, anche di marca amministrativa: il che,
dal punto di vista della conformazione dell’usura, comporta contrarietà alla conservazione di
una fattispecie “puramente matematica”, collegata all’esubero da un tasso prefissato, anche al
di fuori del campo strettamente penale.
Va semmai precisato che una misura di flessibilità può venire dalla disciplina processuale di
riferimento. Escluso che l’illecito amministrativo, benché collegato a sanzioni punitive, possa
essere ascritto solo all’esito di un giudizio penale, sembra fisiologico che il relativo
accertamento sia condotto secondo le regole della sedes processuale, che potrebbe consentire
il ricorso a criteri presuntivi.
F) Lo schema di una fattispecie di usura in qualche modo orientata a esigenze di semplificazione
della prova incontra possibilità nuove di allocazione in un sistema aperto alla pena privata. Nel
solco della delega affidata al governo dalla l. n. 67 del 2014, tesa a edificare un modello
generale per tale tipologia di pene, il d.lgs. n. 7 del 2016 ha collegato all’esercizio dell’azione
risarcitoria la possibilità di irrogare una sanzione pecuniaria da devolvere alla cassa delle
ammende.
Per la massima chiarezza: non si tratta – né si vuole qui suggerire – di depenalizzare l’usura.
Può invece trattarsi di differenziare fattispecie e tecniche di intervento secondo le peculiarità dei
diversi rami dell’ordinamento, attrezzandoli a una reazione punitiva contenuta nel limite della
proporzione e rispondente a un principio di giusta gradualità.
E’ evidentemente, riservato a valutazioni di politica penale stabilire se possa o addirittura debba
conservarsi un illecito collegato al mero superamento di soglie numeriche prestabilite: esso,
potrebbe semmai operare nell’ambito del diritto amministrativo o civile, sempre che sia serbata
la concreta possibilità di dimostrare l’innocuità patrimoniale della pattuizione che si pretenda
usuraria, risiedendo pur sempre in un’offesa non fittizia il fondamento di qualsiasi tecnica
punitiva, anche di matrice extrapenale.

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