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BUONA FEDE INVALIDANTE

In origine il concetto di buona fede non era tenuto in considerazione né in dottrina né


in giurisprudenza in quanto ciò che rilevava essenzialmente nel contratto era la
violazione di un diritto assoluto dell’altra parte che si rifletteva nella responsabilità e
nel risarcimento del danno.
Il Codice del 1865 prevedeva la disciplina della materia della buona fede
congiuntamente a quella dell’integrazione del contratto nell’art. 1124 c.c. Tale norma
è stata poi sdoppiata nell’attuale Codice civile negli artt. 1374-1375 c.c., ricollocando
la disciplina della buona fede e distaccandola da quella dell’integrazione, dando
origine ad un’alternanza di valutazioni circa la sua natura giuridica.
Con il passare del tempo l’elemento della buona fede assunse sempre più importanza
nella valutazione degli interessi intercorrenti nel rapporto contrattuale, e la dottrina
elevò l’importanza del corretto comportamento fra le parti parlando di buona fede
integrativa.
In giurisprudenza cominciò a prendere piede l’idea che la regola della buona fede
servisse per valutare il corretto comportamento della parte nella gestione delle
disposizioni pattizie assumendo rilevanza giuridica tutte le volte che risultava violato
un diritto contenuto in altre norme, così riconoscendo di fatto il principio di buona
fede contrattuale
Nell’ultimo decennio la giurisprudenza ha affermato che il principio di buona fede
rappresenta autonoma fonte di responsabilità.
L’ultima evoluzione della buona fede concerne la sua funzione di regola di validità
dei contratti. Il ruolo della buona fede è essenzialmente teso a valutare se i
comportamenti delle parti siano conformi al contratto o quantomeno al significato
intrinseco della buona fede stessa.
La legge impone al creditore ed al debitore il dovere di comportarsi secondo le regole
della correttezza (art. 1175 c.c.). il principio di buona fede trova importanti
applicazioni in materia contrattuale, per quanto concerne le trattative ( art. 1337 .c.c),
l’interpretazione ( art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.); la buona fede può
considerarsi principio fondamentale dell’ordinamento nella materia dei rapporti
privati ed ha assolto una funzione di sviluppo dell’ordinamento attraverso l’opera dei
giudici.
Sul piano sanzionatorio la violazione del canone di buona fede comporta
essenzialmente due rimedi: il risarcimento del danno cagionato dal comportamento
illecito, in quanto, se si tiene un comportamento contrario a buona fede si ha
violazione di un obbligo sanzionabile sul piano della responsabilità precontrattuale e
contrattuale a seconda che si tratti di condotta che preceda la stipula del contratto o ne
viola le prescrizioni, alla responsabilità si affianca nel secondo caso la risoluzione del
contratto se l’inadempimento è qualificabile come grave ex art. 1455 c.c.; la seconda
sanzione concerne la paralisi, con l’exceptio doli generalis, dell’azione che concreti
l’esercizio di un diritto abusivo a cui non può essere fornita tutela alla luce della
buona fede intesa come limite alle pretese creditorie.
La dottrina più innovativa reputa di elevare la buona fede a strumento di controllo
dell’autonomia negoziale e quindi di sindacato sulla conformità del contratto, in
quanto tale, al precetto della buona fede; essa assurge, dunque, a regola di validità del
contratto la cui violazione comporta la nullità virtuale della stipulazione, ex art. 1418
co.1 c.c. per violazione della norma imperativa che impone condotte corrette in sede
di stipulazione. A sostegno di questa interpretazione evolutiva si segnala la presenza
di alcuni casi codificati nei quali la legge dà rilevanza espressa alla buona fede e alla
giustizia contrattuale ai fini della validità del contratto. Sono ipotesi nelle quali il
contratto è nullo se il suo contenuto è iniquo ed ingiustificatamente squilibrato a
favore di una parte ed in danno di un’altra a causa della violazione di un obbligo di
correttezza; lo evidenzia l’art. 36 del cod. consumo che infatti sanziona con la nullità
di protezione le clausole abusive che innescano un significativo squilibrio a danno di
una parte ed a vantaggio dell’altra.
A fronte di casi specifici come questo nei quali la legge sanziona con la nullità la
violazione della regola della correttezza e di giustizia contrattuale, viene da chiedersi
se queste disposizioni vivano in solitudine o siano espressione di un principio di
portata più generale, con la conseguenza che vanno considerate come nulle anche
quelle clausole o quei contratti che siano palesemente iniqui e fortemente squilibranti.
La buona fede andrebbe vista alla luce di una dimensione oggettiva che tenga conto
delle reali regole di correttezza che si devono seguire nell’ambito della formazione,
conclusione ed esecuzione del contratto.
A livello sistematico l’interferenza delle norme di cui all’art. 1175 c.c., in tema di
obbligazioni e di cui all’art. 1375 c.c., in materia contrattuale, è stata foriera di un
ampio dibattito a livello dottrinale e giurisprudenziale. L’art. 1175 c.c. prevede che le
parti devono comportarsi secondo le regole della correttezza nello svolgimento del
rapporto obbligatorio. La norma rappresenta una clausola aperta e generale; il
principio di correttezza è dotato di autonoma rilevanza e si ritiene violato, con
conseguente responsabilità addebitabile, anche al di là del caso che vi sia un
comportamento scorretto lesivo di posizione soggettiva tutelata da una specifica
norma.
È largamente diffusa l’idea che il criterio della correttezza ex art. 1175 c.c. costituisca
un criterio di disciplina in forza del quale ciascuno dei soggetti del rapporto
obbligatorio può essere tenuto a una condotta non prevista né dalla legge né dal titolo
dell’obbligazione “se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio dell’interesse
proprio”. Da tale assunto deriva che la correttezza sarebbe un vincolo esterno al
rapporto contrattuale consistente in un criterio di integrazione-adattamento del
sistema di regole proprie dell’ordinamento legale; mentre la buona fede si configura
come vincolo interno, essendo un criterio di sviluppo-specificazione della logica
propria del regolamento pattizio, la condotta sleale sarà sanzionata
indipendentemente dal costo che l’osservanza del dovere di buona fede comporti.
Nella prospettiva indicata, il criterio della buona fede si configura come un corollario
del principio pacta sunt servanda ed ha il limitato compito di conferire rilevanza
giuridica a quelle pretese che siano prive di autonomia rispetto all’interesse
disciplinato in contratto e che perciò sarebbe irrazionale affidare sia al criterio
dell’analogia che al criterio dell’autoresponsabilità.
La posizione qui assunta non è in linea con gli orientamenti oggi consolidati; essa
implica un rifiuto dell’unificazione del criterio della buona fede con il criterio della
correttezza, ed un rifiuto dell’unificazione delle norme in cui sia menzionata la buona
fede in senso oggettivo.
La dottrina prevalente ha optato, invece, per la sostanziale identità concettuale della
correttezza con quello della buona fede oggettiva (intesa come dovere di comportarsi
lealmente nella esecuzione del contratto ed in ciò differenziandosi dalla buona fede
soggettiva sussumibile nell’ignoranza di ledere l’altrui diritto). Si afferma che non
sono aprioristicamente individuabili le due ipotesi e le stesse si pongono come fonte
di nuovi oneri e doveri a carico delle parti in un’ottica di arricchimento del rapporto
obbligatorio. Il giudice, in base alle allegazioni ed alle prove dedotte, d’ufficio potrà
valutare la legittimità del comportamento, nonché dichiarare ammissibile
l’esperibilità di una exceptio doli generalis laddove la stessa sia prospettata dalle
parti.
L’orientamento è chiaramente espressione del pensiero secondo cui la solidarietà
sociale di cui all’art. 2 Cost. incardina l’intero campo del diritto privato e dei rapporti
intersoggettivi, non limitandosi alla materia obbligatoria strictu sensu, e nella cui
specificazione fa rientrare i criteri della correttezza e della buona fede.
La giurisprudenza ha inizialmente avuto un atteggiamento di chiusura rispetto
all’applicazione di un criterio quale quello insito nell’art. 1175 c.c., che mal si
coniuga con il rigoroso ossequio del principio della certezza del diritto.
Gli orientamenti più recenti denotano invece ammiccamenti più marcati verso il
pensiero della dottrina prevalente, interpretando la regola della correttezza quale
parametro che consente una valutazione comparativa degli interessi delle parti con gli
adeguati correttivi ad un’applicazione rigorosamente fedele allo strictum ius, sino al
punto da individuare nell’art. 1175 c.c. il fulcro della disciplina delle obbligazioni.
Nel caso ci si trovi nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto,
le parti devo comportarsi secondo correttezza ( buona fede in senso oggettivo del
termine) ex art. 1337c.c. La violazione di questo dovere determina una responsabilità
per i danni che ne derivano all’altra parte, sia nel caso che le trattative si concludano
con la stipulazione del contratto, sia nel caso che vengano interrotte.
Vi sono ipotesi macroscopiche di illecito precontrattuale come l’inganno e la
minaccia; esse producono l’annullabilità del contratto se sono state determinanti del
consenso. Accanto a queste ve ne sono altre derivanti dal comportamento sleale, e si
può trattare di fatti non solo dolosi ma anche colposi, perché la correttezza impone
anche un dovere di riguardo e di diligenza nei confronti della controparte, nelle
ipotesi e nella misura in cui questa faccia affidamento su ciò che ragionevolmente
abbia potuto arguire dal comportamento di colui con il quale è in trattative. Ad
esempio chi abbia deciso di recedere da trattative in corso ha il dovere di avvertire
subito l’altra parte, per evitarle di perdere altra occasioni e di incorrere in ulteriori
spese inutili; la violazione di questo dovere è fonte di responsabilità anche se è
dovuta a semplice negligenza.
Un’ipotesi tipica ed importante di responsabilità precontrattuale deriva dalla
violazione di doveri di informazione. La legge prevede l’ipotesi che una parte,
conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di un causa di invalidità del contratto,
non ne abbia dato notizia all’altra parte; da questo comportamento deriva una
responsabilità per i danni che quest’ultima abbia risentito per aver confidato senza
sua colpa nella validità del contratto (art. 1338c.c.). Il principio è applicabile
analogamente in ogni caso in cui una parte, con dolo o anche solo per negligenza,
omette di segnalare all’altra parte circostanze tali da influire in modo importante
sull’efficacia del contratto o sulla realizzazione dello scopo che quest’ultima si
propone di realizzare. Si pensi all’obbligo del mediatore di comunicare alle parti
informazioni veritiere in ordine a circostanze rilevanti per i contraenti (ved. Cass.
15.03.2006 n.5777 o in tema di locazione Cass. 7.3.2001 n.3341), ovvero all’obbligo
del creditore di comunicare il proprio mutamento di indirizzo al debitore. Tali
obblighi risultano potenziati dal principio comunitario di trasparenza precontrattuale
e contrattuale a tutela del consumatore.
La violazione del dovere di buona fede risulta leso nella fase delle trattative anche
nelle ipotesi di recesso ingiustificato dalle stesse. Il trattamento giuridico di questa
ipotesi richiede il coordinamento di due diversi principi: da un parte il principio per il
quale il vincolo sorge solo con la conclusione del contratto e non prima; dall’altra,
appunto, il principio che impone lealtà nelle trattative e rispetto degli interessi della
controparte. Il recesso è certamente giustificato quando dipenda dal mancato accordo
sulle questioni ancora aperte, o dal comportamento della controparte, la quale ponga
condizioni nuove o più onerose, o dal sopraggiungere di nuove circostanze,
indipendenti dalla parte che recede, tali da modificare il giudizio di convenienza del
contratto. Ciascuna parte può anche riconsiderare gli accordi di massima gia raggiunti
nel corso delle trattative purché di ciò si avverta lealmente la controparte; non è
ammissibile far credere di considerare definitivo l’accordo raggiunto sugli elementi
essenziali, e poi rifiutare la stipulazione del contratto nonostante che sulle questioni
ancora aperte la controparte sia disposta ad accedere a tutte le richieste fattele. Questo
principio sarà applicabile a maggior ragione nell’ipotesi che, raggiunto verbalmente
l’accordo su tutti gli elementi di un contratto, per la validità della quale sia necessaria
la forma scritta, una parte si rifiuti di prestarsi alla redazione della scrittura; qui la
mancanza della forma scritta preclude gli effetti del negozio, ma non impedisce che
operi la responsabilità per il comportamento sleale.
Ugualmente è sleale il comportamento di chi trascini in lungo la trattativa con pretesti
vari, e ciò allo scopo di cercare altre occasioni, al tempo stesso tenendo impegnata la
controparte ignara.
La sentenza spartiacque in Italia è stata quella della Cassazione civile del 20.04.1994
n.3775 (caso Fiuggi) attraverso la quale si è elevato il concetto di buona fede e
correttezza a clausola generale dell’ordinamento.
Fatto. Il Comune affida alla società “Ente Fiuggi” la gestione delle terme e delle
sorgenti. Le parti convengono che il canone di affitto varierà in correlazione alla
variazione dei prezzi di vendita in fabbrica delle bottiglie di acqua minerale
confezionate dalla società; e che la società avrà piena libertà nel determinare il prezzo
di vendita in fabbrica delle bottiglie.
Insorta la controversia tra le parti si accerta che negli ultimi sette anni del rapporto,
caratterizzati da un’elevata inflazione, la soc. Ente Fiuggi ha mantenuto inalterato il
prezzo di vendita delle bottiglie, che le bottiglie sono state vendute a società di
distribuzione appartenenti al medesimo gruppo al quale appartiene la soc. Ente
Fiuggi; e che nell’arco degli ultimi sette anni, le società di distribuzione hanno
raddoppiato il prezzo di rivendita delle bottiglie. La Corte d’appello si era
pronunciata negativamente sul sesto motivo di impugnazione del Comune, che
motiva la propria decisione non riconoscendo alcun diritto in capo al Comune a che
l’Ente Fiuggi aumentasse il prezzo di vendita in fabbrica delle bottiglie per adeguarlo
alla svalutazione della moneta, non è lecito argomentare su pretesi comportamenti
attuati in spregio delle regole della correttezza e buona fede in quanto priva di
fondamento. La Cassazione è di contrario avviso e motiva la propria decisione
affermando che ammesso che la legge pattizia attribuisse davvero all’Ente Fiuggi
“piena libertà” nel determinare il prezzo delle bottiglie in fabbrica, essa non potrebbe
comunque ritenersi svincolata dall’osservanza del dovere di correttezza ( art. 1175
c.c.), che si porge nel sistema come limite interno di ogni situazione giuridica
soggettiva, concorrendo alla relativa conformazione in senso ampliativi o restrittivo,
per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della
giustizia sostanziale e non risulti disatteso da quel dovere di solidarietà, che applicato
ai contratti ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (art. 1374 c.c.) e
deve orientare l‘interpretazione ( art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel
rispetto del noto principio secondo cui ciascuno dei contraenti è tenuto a
salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio
dell’interesse proprio (a tale orientamento si replica che il limite riguarda l’art. 1175
c.c. ma non l’art. 1375 c.c., infatti se una condotta si configura come sleale rispetto
alle regole che le parti si sono date, tale condotta merita di essere sanzionata
indipendentemente dal costo che la condotta leale comporti). La sentenza continua
affermando che il blocco del prezzo, si legge nella impugnata sentenza, sarebbe stato
suggerito da una strategia di più ampia penetrazione nel mercato e di più vasta
diffusione del prodotto; tale proposizione non è sufficiente, dal momento che un
effettivo incremento delle vendite è impensabile senza un concomitante contenimento
del prezzo nella successiva fase di commercializzazione del prodotto. Di questa
circostanza la sentenza impugnata non si è fatta carico, ancorché il Comune avesse
dedotto che l’Ente Fiuggi, mediante la traslazione dell’aumento del prezzo nella fase
di distribuzione della merce attraverso società appartenenti allo stesso gruppo di cui
faceva parte, aveva conseguito il doppio vantaggio di impedire scorrettamente
l’adeguamento del canone dovuto al Comune e di lucrare ugualmente sulle vendite
(orientamento contrario ritiene che nel caso di specie in realtà lucrano le società
distributrici e vergognosamente lucra non l’Ente Fiuggi, ma la società che controlla
sia l’ente Fiuggi che le società distributrici).
Ultima categoria di comportamenti secondo buona fede è poi rappresentata dal
corretto esercizio di poteri discrezionali. Anche in tal caso, è stato osservato, la parte
è tenuta secondo buona fede ad esercitare i suoi poteri in modo da salvaguardare
l’utilità della controparte compatibilmente con il proprio interesse o con l’interesse
per il quale il potere è stato conferito.
Tale tematica finisce inevitabilmente col collegarsi a quella dell’abuso del diritto,
figura non disciplinata dal nostro ordinamento, ma di mera creazione dottrinale,
considerato come esercizio del diritto con modalità o finalità estranee a quelle per cui
il diritto medesimo è stato riconosciuto.
Alla luce della funzione di valutazione si è sviluppato il dibattito attorno alla nozione
di abuso del diritto nella misura in cui, relativamente alla posizione del creditore, è
possibile in base alla correttezza perimetrare i limiti entro cui lo stesso può pretendere
oppure rifiutare l’adempimento.
Nella nozione di abuso del diritto convivono sia l’idea del comportamento
contrastante con gli scopi propri di ogni istituto giuridico, sia l’idea del
comportamento mosso da motivi abbietti o comunque non meritevoli di tutela,
dunque da sanzionare. In dottrina c’è chi ritiene che dalla formula dell’abuso del
diritto non è individuabile l’enunciazione di una specifica posizione giuridica
rimediale, in quanto l’abuso del diritto in materia contrattuale si rileva privo di utilità
rispetto alla risoluzione di conflitti di interesse. Nella maggior parte dei casi il
riferimento alla formula dell’abuso del diritto è usato allo scopo di classificare in una
categoria unitaria criteri e decisioni di sindacato, alla stregua della buona fede, di
condotte che il titolare di un diritto assume essere conformi al contenuto del
medesimo, non rilevando, nel campo dell’esecuzione del contratto e dell’attuazione
del rapporto obbligatorio, alcuna potenzialità che non appartenga già alla clausola di
buona fede e correttezza.

CASISTICA RECENTE (dai miei appunti)

Cass. S.U. 15.11.2007 n.23726: si è affermato, contrariamente all’allora costante


indirizzo, che non è possibile frazionare il credito in considerazione dell’evoluzione
avvenuta in tema di buona fede. Occorre rifarsi all’art. 111 e 2 Cost. perché non è
possibile usare il giusto processo quale mezzo sleale per agire contro il dovere di
buona fede, procedendo a proporre decreti ingiuntivi parcellizzati.

Cass. 18.09.2009 (caso Renault): la Renault decide di recedere con modalità brusche
da numerosi contratti con i concessionari. Il Tribunale di Roma sostiene il diritto
della stessa alla rescissione ad nutum del contratto, anche se è pur vero che il mercato
delle auto è soggetto a trasformazioni continue tali da creare scompensi, non
dipendenti, però, dalla parte. La Corte di Appello conferma la sentenza seguendo un
percorso argomentativo diverso, consistente nella circostanza che l’assetto degli
interessi delineato dalle parti era chiaro, dunque non era possibile entrare nel merito
della disposizione pattizia. La Cassazione afferma che l’obbligo di buona fede
oggettiva è autonoma fonte dell’assetto contrattuale consistente nel dovere generale
di preservare i diritti dell’altra parte. Il giudice può usare questo strumento per
integrare e riequilibrare l’assetto degli interessi nel rapporto contrattuale.

Probabilmente occorrerà ragionare sul fatto che buona fede e abuso del diritto sono
due concetti differenti, dove l’ultimo rileva quando si usa il diritto per uno scopo
diverso; ciò rileva solo in merito a circostanze soggettive e non oggettive. Dunque
l’abuso del diritto attiene ad un uso scorretto delle modalità di esercizio un diritto in
violazione di un generale dovere di buona fede.
Gli artt 2 e 111 Cost. appaiono talmente importanti da stravolgere il rapporto
contrattuale.

Bacissimi……
IL BOSS…hahaahaahhaah

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