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Fatti illeciti e responsabilita’ civile

CAP.1 struttura del fatto illecito


Nozione e funzione
Tra le fonti delle obbligazioni, l'art. 1173 annovera il fatto illecito. Tale prospettiva, tendente a valorizzare
dell'illecito la sua conseguenza, il sorgere dell'obbligazione risarcitoria, emerge già dalla rubrica -
"risarcimento per fatto illecito" - dell'art. 2043, che costituisce una delle norme fondamentali
dell'ordinamento. Il principio enunciato è quello secondo cui "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona
ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno".
La norma dell'art. 2043 concorre, insieme a quella dell'art. 1218, a dar vita al sistema dell'illecito civile,
finalizzato a garantire la tutela degli interessi che l'ordinamento giuridico considera meritevoli di
protezione. Di fronte alla ingiustificata lesione di un simile interesse, l'ordinamento interviene per
assicurare la riparazione delle relative conseguenze e gli artt. 1218 e 2043 delineano i criteri in base ai quali
sorge una responsabilità civile in capo ad un soggetto per la riparazione del danno che altri abbia subito in
conseguenza della lesione del proprio interesse.
L'art. 1218 prende in considerazione la responsabilità che deriva dall'inadempimento dell'obbligazione, dalla
lesione, cioè, dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione cui ha diritto, per non avere il
debitore tenuto il comportamento dovuto (responsabilità contrattuale). L'art. 2043, invece, determina le
conseguenze della lesione di qualsiasi interesse, in quanto ovviamente protetto dall'ordinamento, quando
tra danneggiato e danneggiante non sussista un precedente rapporto obbligatorio.
Si parla di responsabilità extracontrattuale, qui la responsabilità sorge semplicemente in conseguenza
della violazione del generale dovere imposto a tutti i consociati di astenersi dall'arrecare danno agli altri,
ledendone interessi considerati rilevanti dall'ordinamento.
Proprio perché si è chiamati a rispondere per qualunque fatto che abbia arrecato danno ad altri, in
conseguenza della lesione di qualsiasi interesse protetto dall'ordinamento giuridico, l'illecito civile si
atteggia diversamente dall'illecito penale (che l'ordinamento sanziona con una pena, di carattere
patrimoniale o, addirittura, personale, come la reclusione). Mentre, infatti, nel campo dell'illecito penale vale
il principio della tipicità dei fatti costituenti reato, l'illecito civile, in quanto si presenta come contemplato
da una clausola generale, è da considerare atipico.
La differenza si ricollega alla diversità delle finalità essenzialmente perseguite attraverso le valutazioni
che sono alla base dei due tipi di illecito: il ripristino dell'interesse leso, in quanto considerato meritevole di
tutela, nel caso di quello civile; la salvaguardia - attraverso l'irrogazione di una pena rapportata alla
gravità del comportamento tenuto - di un interesse pubblico che si reputi minacciato dal comportamento
del trasgressore, in quello penale.
Uno stesso fatto potrà essere valutato, al medesimo tempo, come illecito sia dal punto di vista civile che
penale, quando la lesione di un interesse protetto dall'ordinamento - e di qui la qualificazione di illiceità civile
della relativa violazione ai fini del risarcimento del danno che ne consegue al titolare - viene considerata
tale, per l'allarme sociale che suscita, da giustificare anche l'irrogazione di una pena. Si tratta del principio
espresso nell'art. 185 c.p., secondo cui "ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono
rispondere per il fatto di lui.
Prospettiva, questa, che finisce sostanzialmente col caratterizzare ora quelle ipotesi in cui il fatto viene
espressamente considerato dal legislatore (solo) quale illecito civile, ma al risarcimento del danno a favore
del titolare dell'interesse leso viene aggiunta l’irrogazione di una sanzione pecuniaria civile.
Il risarcimento del danno si caratterizza, rispetto alla pena, per la sua funzione riparatoria.

L'attenzione dell'ordinamento si è sempre più spostata dall'autore del danno alla vittima, l'idea di
riparazione tendendo a prevalere su quella di responsabilità. La disciplina dettata in materia, più che mirare
a punire un colpevole per la trasgressione di un dovere di comportamento, si sforza di individuare un
soggetto cui far carico della riparazione, sulla base di un giudizio di comparazione e bilanciamento degli
interessi in conflitto.
Centrale è diventato il problema della selezione degli interessi da reputarsi meritevoli di protezione, la cui
ingiustificata lesione, faccia avvertire l'esigenza di addossare ad altri il relativo obbligo risarcitorio. E la
ricerca di tale soggetto può avvenire sulla base dei più diversi criteri di imputazione della responsabilità,
tra i quali anche lo specifico rapporto del soggetto col bene occasione di danno, lo svolgimento di attività
rischiose, la opportunità di far sopportare a chi trae vantaggio economico da una certa attività anche i
relativi oneri, e così via.
In questo processo, un peso determinante ha assunto lo strumento dell'assicurazio-ne (in particolare
l'assicurazione della responsabilità civile, talvolta anche in forma obbligatoria). Essa, infatti, ha consentito
all'ordinamento, attraverso la collettivizzazione economica dei rischi, di realizzare un più avanzato e
tollerabile equilibrio tra l'esigenza di non lasciare senza riparazione le vittime dei c.d. nuovi danni e quella di
non rinunciare allo svolgimento di attività ritenute di essenziale utilità sociale (si pensi alla circolazione
stradale e al trasporto aereo).

E da tenere presente che il codice civile allude, come fonte di responsabilità civile extracontrattuale, ai fatti
illeciti. Osservandosi che una simile responsabilità, nello schema normativo dell'art. 2043, rappresenta la
conseguenza che l'ordinamento addossa ad un soggetto in considerazione del suo comportamento, viene
diffusamente ritenuto preferibile parlare di atti illeciti. Tuttavia, l'impiego del termine fatto, oltre che
richiamare l'espressione impiegata nell'art. 1 c.p., sembra qui giustificato dal collegamento della
responsabilità, oltre che a comportamenti del soggetto, anche a particolari situazioni, nelle quali il
soggetto stesso si viene a trovare rispetto alla verificazione dell'evento produttivo di danno e delle cui
conseguenze è chiamato a rispondere (si pensi alla rovina di un edificio, delle cui conseguenze dannose per
altri risponde il proprietario come tale).

Fatto e nesso di casualita’


L'art. 2043 ricollega il sorgere dell'obbligazione risarcitoria al fatto doloso o colposo che cagioni ad altri
un danno ingiusto. Il profilo oggettivo dell'illecito risulta in tale norma inteso, quale comportamento
produttivo dell'evento dannoso per altri, destinato ad acquistare rilevanza, ai fini del risarcimento, se
qualificabile doloso o colposo. È chiaro come una simile impostazione si presenti ancora legata alla
prospettiva che riconnette la obbligazione risarcitoria a una condotta riprovevole, posta in essere dal
soggetto in violazione di un dovere (di astensione) gravante su di lui; mentre, come dianzi accennato, in
presenza di un danno ingiusto, del risarcimento l'ordinamento vigente non manca di fare spesso carico
anche a prescindere da un comportamento colpevolmente tenuto dal soggetto, in applicazione, cioè, di
criteri di imputazione della responsabilità differenti.
Il comportamento da cui deriva, nello schema dell'art. 2043, l'obbligazione risarcitoria può essere
commissivo od omissivo, a seconda che la lesione dell'interesse altrui consegua a un'attività del soggetto
(investimento di un passante, lancio di un oggetto, incendio provocato dall'accensione di un fuoco), ovvero
dalla sua mancata attivazione in presenza di un obbligo giuridico in tal senso (mancato soccorso di un
ferito).
Il danno, poi, deve essere stato cagionato dal fatto, deve presentarsi, cioè, quale sua conseguenza. Tra il
fatto e il danno deve essere, insomma, riscontrabile un collegamento (il secondo deve risultare effetto
del primo), il c.d. nesso di causalità.
Secondo l'indirizzo più accreditato, in relazione al giudizio circa la ricorrenza del nesso di causalità, sono
da distinguere due momenti: il primo, concernente il nesso che deve sussistere tra comportamento ed
evento dannoso, affinché possa ritenersi esistente una responsabilità risarcitoria (c.d. causalità
materiale); il secondo, relativo al nesso tra evento dannoso e le conseguenze dannose, con la funzione di
delimitare il perimetro dell'accertata responsabilità risarcitoria (c.d. causalità giuridica).
La regola relativa alla causalità del danno è dettata, in materia di responsabilità contrattuale, dall'art.
1223 e richiamata dall'art. 2056 a proposito della responsabilità extracontrattuale.
L'art. 1223 considera danno risarcibile solo quello che risulti conseguenza immediata e diretta del fatto,
ma tale formula tende ad essere interpretata in senso non strettamente letterale.
È, infatti, da ricordare come, in materia di causalità, ci si riferisca, in generale, alla sufficienza del
riscontro di una causalità adeguata, per cui sono da considerare ricollegabili al fatto (solo) quei danni
che rientrino (secondo il criterio della c.d. regolarità causale) nella serie delle conseguenze normali del
fatto, in base ad un giudizio di probabile verificazione, fondato sulla comune esperienza.
Una interruzione del nesso di causalità (e, quindi, la non riferibilità dell'evento dannoso al fatto) si ha
quando intervenga un altro fattore, del tutto distinto e autonomo, di per se stesso idoneo a produrre
l'evento lesivo (così, ad es., chi ha investito un pedone non risponderà per la sua morte, avvenuta in
conseguenza del crollo dell'ala dell'ospedale in cui era stato ricoverato a seguito dell'investimento).
Danno ingiusto
La nozione di danno ingiusto, cui si riferisce l'art. 2043, ha costituito oggetto di un radicale ripensamento negli
anni più vicini. Il danno dunque secondo tale articolo, deve essere ingiusto.
L'antigiuridicità veniva tradizionalmente intesa come violazione di un altrui diritto soggettivo (comportamento
contra ius). Il comportamento doveva essere, inoltre, non iure, tenuto, cioè, in assenza di una causa di
giustificazione giuridicamente rilevante.
L'antigiuridicità era dunque riferita alla condotta dell'agente, il quale avesse ingiustificatamente violato un
diritto soggettivo altrui (diritto relativo nella responsabilità contrattuale, diritto assoluto nella
responsabilità extracontrattuale).
La già accennata evoluzione della responsabilità civile ha portato a concentrare l'attenzione non più sulla
condotta ingiusta (da sanzionare perché posta in essere in violazione di un dovere giuridico), ma sull'interesse
leso che viene considerato meritevole di riparazione, ove la sua lesione sia ingiustificata. L'ingiustizia viene, così,
riferita immediatamente al danno (danno ingiusto): ai fini della riparazione del danno, allora, diventa
determinante stabilire se l'interesse leso sia effettivamente meritevole di tutela e se la relativa lezione risulti
ingiustificata. Solo in tal caso (danno non iure), infatti, della riparazione potrà essere fatto carico ad un altro
soggetto, identificato sulla base di un suo comportamento colpevole o della peculiare situazione in cui si trovi in
relazione all'evento produttivo del danno.
Un simile giudizio, tendente a trasferire il danno dal titolare dell'interesse leso ad un altro soggetto, si ritiene
doversi fondare sulla comparazione degli interessi in conflitto: quello cui si riferisce la lesione e quello
perseguito dal soggetto col suo comportamento (o che la situazione in cui tale soggetto si trova è diretta a
soddisfare).

Sulla base della nuova lettura dell'art. 2043, è venuto meno l'univoco collegamento tra risarcimento del danno e
violazione di un diritto soggettivo assoluto (diritti reali, diritti della personalità), risultando suscettibili di
reintegrazione anche interessi, considerati meritevoli di tutela, ma non tutelati attraverso il riconoscimento al
titolare di una situazione giuridica soggettiva di tale tipo. Viene, così, esaltato il carattere di atipicità dell'illecito
civile dato che si considera suscettibile di tutela attraverso lo strumento risarcitorio qualsiasi interesse
giuridicamente rilevante per l'ordinamento.
Ampliamento della sfera del danno ingiusto
La sfera del danno ingiusto si presenta, di conseguenza, attualmente ampliata in diverse direzioni.

a) Una prima apertura è avvenuta superando la rigidità della contrapposizione tra diritti assoluti e diritti
relativi.
si è riconosciuto come, se è vero che l'interesse del creditore trova tutela nei confronti del debitore, in
quanto tenuto all'adempimento, sia anche vero che sussiste un interesse del creditore a non vedere
turbata da terzi la possibilità del soddisfacimento della sua pretesa nei confronti del debitore. Ove, quindi, il
terzo renda impossibile l'adempimento, potrà essere chiamato a risponderne in base all'art. 2043 (c.d. tutela
aquiliana del credito).
Per superare le preoccupazioni legate ad una eccessiva dilatazione della sfera dei soggetti tenuti al
risarcimento a tale titolo, si è ristretta l'operatività di una simile ipotesi di risarcibilità al caso in cui il
danno sia irreparabile, come quando ad essere resa impossibile sia una prestazione di fare infungibile (ad
es., uccisione di un abile calciatore per la sua squadra o di un alto esperto dirigente per la sua impresa).
A tale prospettiva risarcitoria è stata condotta anche la risarcibilità del danno per il pregiudizio
patrimoniale conseguente alla uccisione del congiunto, che sia tenuto al mantenimento di familiari
(eventualmente, se separato o divorziato, mediante la corresponsione di un assegno). Estesamente si è
reputato risarcibile, poi, il pregiudizio economico risentito dal datore di lavoro, comunque tenuto (per
legge o contratto) a corrispondere la retribuzione al dipendente impossibilitato a svolgere le proprie
mansioni per le sue menomate condizioni fisiche determinate dal fatto illecito del terzo.
È stato considerato (sempre nell'ottica della tutela aquiliana del credito) obbligato a risarcire il danno
risentito dal creditore pure chi dolosamente induca il debitore a non adempiere. Si parla, al riguardo, di
induzione all'inadempimento (o di complicità in esso), come si è ritenuto accadere nello storno di dipendenti
(sottraendoli intenzionalmente all'altrui impresa per danneggiarla), ovvero nel caso della doppia alienazione
immobiliare (quando il secondo acquirente, consapevole della prima alienazione non ancora trascritta,
trascriva per primo, prevalendo sul primo acquirente ai sensi dell'art. 2644).

b)più di recente si è ritenuta risarcibile anche la lesione di aspettative di carattere patrimoniale in campo
familiare. Pure in assenza di un diritto all'ottenimento di una sovvenzione economica, che si venga a perdere
in conseguenza dell'ilecito altrui, si è ritenuta, così, tutelabile, come legittima aspettativa, quella alla
partecipazione ai risparmi che il congiunto avrebbe prevedibilmente accumulato. Il risarcimento di un danno
patrimoniale è stato, in particolare, riconosciuto anche al convivente more uxorio, benché costui non abbia
un diritto all'assistenza economica da parte del compagno.

c) Sempre in relazione alle situazioni soggettive tutelabili, è stato ritenuto risarcibile il danno derivante
dalla perdita di chance, quale concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato
risultato economicamente vantaggioso. Essa non è considerata mera aspettativa di fatto, ma un'entità
patrimonialmente rilevante di per se stessa, per cui la sua perdita configura un danno concreto e attuale.
Il principio è stato ripetutamente enunciato in tema di risarcimento del danno subito dal lavoratore
dipendente per non essere stato ammesso dal suo datore di lavoro a partecipare ad una procedura
concorsuale (e, più in generale, per essere stati privati della possibilità di partecipare).

d) Con ricorso all'idea di un c.d. diritto all'integrità del patrimonio (e, più specificamente, di un diritto di
determinarsi liberamente nello svolgimento dell'attività negoziale relativa al patrimonio) si è ritenuto un
pittore responsabile del danno subito da uno dei successivi acquirenti di un quadro, per avere egli
autenticato sul retro dello stesso quadro (e successivamente disconosciuto) un suo quadro risultato
falso.

f)Lo sviluppo più significativo della nuova impostazione della problematica del danno ingiusto è forse
rappresentato dall'ammissibilità del risarcimento del danno conseguente alla lesione di interessi legittimi.
Una volta, infatti, inteso anche l'interesse legittimo quale interesse ad un bene della vita, pure ad esso è
stato possibile applicare le ricordate tendenze evolutive della giurisprudenza, ormai orientata nel senso di
ammettere la risarcibilità della lesione di qualsiasi interesse, purché giuridicamente rilevante. Ne è
conseguita l'ammissione della risarcibilità del danno derivante al privato dalla relativa lesione in dipendenza
di un provvedimento illegittimo della Pubblica Amministrazione.
Non è un caso che proprio il compimento di un simile storico passo da parte della giurisprudenza abbia
offerto l'occasione per rielaborare sistematicamente la nozione di danno ingiusto, quale "danno che
l'ordinamento non può tollerare che rimanga a carico della vittima".
Cause di esclusione dell’antigiuridicita’
Il codice civile disciplina, immediatamente dopo la norma fondamentale dell'art. 2043, la legittima difesa e lo
stato di necessità.
Si tratta delle c.d. cause di esclusione dell'antigiuridicità, in quanto, in presenza di esse, viene meno la
possibilità di considerare ingiusto il danno: non viene meno, quindi, fatto carico al soggetto che pure, col
suo comportamento, abbia determinato la lesione dell'altrui interesse.

a) In relazione alla legittima difesa, l'art. 2044 dispone che non è responsabile chi cagioni il danno per
legittima difesa di sé o di altri.
L'offesa deve essere ingiusta; il pericolo al diritto proprio o altrui deve essere attuale; la difesa deve
essere proporzionata all'offesa. Il diritto posto in pericolo dall'altrui ingiustificata aggressione può
essere anche di natura patrimoniale: il giudizio di necessaria proporzionalità della difesa risente del tipo di
interesse minacciato. Ove manchi una simile proporzionalità, vi sarà un eccesso colposo di legittima difesa
(art. 55 c.p.), il quale costituisce illecito e, come tale, obbliga a risarcire l'aggressore per la parte di danno
cagionatogli che si ricollega alla reazione sproporzionata.
La portata della legittima difesa è stata resa più incisiva dalla L. 26.4.2019, n. 36, con l'aggiunta di due commi
all'art. 2044. La responsabilità di chi ha compiuto il fatto è esclusa ove la legittima difesa, con l'impiego di
arma (legittimamente detenuta) o altro mezzo di difesa, venga esercitata, per difendere la propria o altrui
incolumità o i beni propri o altrui, in caso di violazione di domicilio (abitazione o privata dimora),
nell'eventualità, poi, di intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di
coazione fisica lo stato di legittima difesa sussiste sempre (art. 2044). Inoltre, si è previsto che, ove vi sia
stato eccesso colposo di legittima difesa, al danneggiato non è dovuto il risarcimento del danno, ma una
indennità di ammontare rimesso all'equo apprezzamento del giudice.

b) Si ha stato di necessità quando il fatto dannoso è stato compiuto (non per reagire all'altrui aggressione,
come nella legittima difesa, ma) perché costretti dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di
un danno grave alla persona e il pericolo non risulti causato volontariamente, né altrimenti evitabile. Ove
ricorrano simili condizioni, al danneggiato è dovuta una indennità, la cui misura è rimessa all'equo
apprezzamento del giudice (art. 2045).
Le condizioni per potere invocare lo stato di necessità sono rigorose. Il pericolo deve essere: attuale;
involontario; inevitabile.
Il danno dal quale ci si cerca di sottrarre deve presentarsi come grave e concernere esclusivamente la
persona dell'agente o quella di altri. Si potrà invocare lo stato di necessità per salvaguardare solo interessi
personali, diversi dall'incolumità fisica.
L'art. 2045 prevede la corresponsione al danneggiato di una indennità da parte di chi abbia agito in stato di
necessità. Ove si consideri esclusa, in tal caso, l’antigiuridicità del fatto (e, quindi, l'ingiustizia del danno), è da
ritenere che qui l'ordinamento ricolleghi il sorgere di un'obbligazione indennitaria ad un fatto dannoso lecito
(c.d. responsabilità da atto lecito).

c) Quanto alle cause di giustificazione previste solo dal codice penale, l'art. 50 c.p., relativo al consenso
dell'avente diritto, dispone la non punibilità di chi abbia leso o posto in pericolo un diritto col consenso della
persona che ne è titolare, purché si tratti di un diritto disponibile. Si ricordi, al riguardo, come l'art. 5 vieti gli
atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica (o
siano altrimenti contrari all'ordine pubblico o al buon costume): quindi, mentre la causa di giustificazione
opererà senz'altro per i diritti di natura patrimoniale, è da ritenere che essa trovi drastici limiti quando la
lesione concerna, appunto, l'integrità fisica.
Ciò anche in relazione alle attività sportive, in cui talvolta essa viene coinvolta: tali attività possono essere
ritenute consentite solo ove le relative regole non comportino l'eventualità di lesioni permanenti, le quali
non sembrano poter mai risultare giustificate dal consenso espresso dal partecipante.

d) Non è prevista dal codice civile neppure la causa di giustificazione di cui all'art. 51 c.p., per cui la punibilità è
esclusa ove si sia agito nell'esercizio di un diritto o nell'adempimento di un dovere (imposto da una norma o
da un ordine legittimo della pubblica autorità). L'esercizio del (proprio) diritto acquista sicuramente rilievo
anche ai fini dell'esclusione del sorgere dell'obbligazione risarcitoria, ove pure ciò comporti ad altri un danno
apprezzabile. Si pensi, ad es., all'edificazione di una costruzione che, pur avvenendo del tutto legittimamente,
indubbiamente è atta a causare un pregiudizio ai proprietari di altri immobili (per la perdita di luminosità,
ariosità, panoramicità): tale pregiudizio non può, però, essere considerato danno ingiusto. Ovviamente, non
trova tutela l'abuso nell'esercizio del proprio diritto, che rende illecito il relativo comportamento, come
attesta anche il divieto degli atti emulativi.
Imputabilita’ e colpevolezza
Nella ricostruzione della fattispecie dell'illecito emergente dall'art. 2043, per il sorgere della responsabilità a
carico di un soggetto con l'obbligo di risarcire il danno, occorre che alla configurabilità oggettiva dell'illecito -
come fatto produttivo di un danno ingiusto - si accompagni la ricorrenza del relativo profilo soggettivo.
Occorre, cioè, che il fatto sia doloso o colposo (e il giudizio di colpevolezza presuppone la imputabilità del fatto
dannoso).
Si è avvertito, come tale impostazione corrisponda a quella concezione più tradizionale dell'illecito, tendente a
porre in primo piano la sua funzione sanzionatoria, che si presenta largamente superata già nella sistematica
della materia.

a) Per l'art. 2046, non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di
volere al momento in cui lo ha commesso, salvo che lo stato di incapacità derivi da sua colpa.
Ai fini della imputabilità dell'illecito occorre, quindi, in chi tiene il comportamento che cagiona il danno, la c.d.
capacità naturale (o di fatto). Si prescinde, cioè, dalla capacità legale di agire, adottando un criterio
sufficientemente elastico, tale da valorizzare le circostanze concrete del comportamento.
Così, potranno essere considerati responsabili il minore e lo stesso interdetto giudiziale, pur legalmente
incapaci, ove ritenuti in grado di comprendere, nel caso speci-fico, la portata dannosa del proprio
comportamento e di autodeterminarsi di conseguenza; ovvero non responsabili soggetti maggiorenni, pur
legalmente capaci, ma, al momento del fatto, in condizioni tali da non essere in grado di prendere decisioni
consapevoli in ordine al proprio comportamento.
L'accertamento della incapacità di intendere o di volere dovrà essere operato, quindi, in concreto dal giudice, il
quale si avvarrà di criteri di giudizio tratti dalla comune esperienza o dalla scienza. Rilevanti potranno risultare,
allora, in particolare, presunzioni relative all'età del minore e al tipo di studi seguiti (e, più in generale, di
formazione avuta).
Lo stato di incapacità del soggetto non determina la colpa. Chi si pone alla guida di un'automobile in stato di
ubriachezza e cagioni un incidente è considerato comunque imputabile.
Nel caso che il danno sia stato cagionato da chi sia incapace di intendere o di volere, l'art. 2047 addossa l'obbligo
del risarcimento al soggetto tenuto alla sorveglianza dell'incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire
il fatto.
La giurisprudenza tende a ritenere quella in questione una responsabilità diretta, in quanto fondata sulla
violazione del (proprio) dovere di sorveglianza (c.d. culpa in vigilando), cui il soggetto sia tenuto sulla base di un
obbligo legale (come i genitori o il tutore), di un obbligo assunto contrattualmente (come il personale
dell'ospedale psichiatrico o quello dell'istituto scolastico), ovvero per mera cortesia (come il convivente
rispetto al figlio del partner).
La responsabilità, comunque, si presenta come basata su una presunzione di difetto di sorveglianza.
Presunzione superabile solo attraverso la dimostrazione di non avere potuto impedire il fatto.
È una prova non facile, dato che si reputa correntemente necessario dimostrare di avere adeguato la
sorveglianza alle concrete condizioni personali dell'incapace.
Anche se il danno risulta cagionato da un incapace, l'art. 2047 dispone che, ove il danneggiato non abbia potuto
ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza (perché insolvente o perché sia riuscito a fornire la
prova liberatoria), il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l'autore
del danno ad una equa indennità. E facile accorgersi come qui, l'ordinamento si ispiri alla esigenza di assicurare
comunque la riparazione della lesione arrecata all'interesse altrui. Pure nella ipotesi in esame, il legislatore, come
piena reintegrazione dell’interesse leso, ricorre al concetto di indennità.
E da tenere presente come, ove il minore - e la stessa regola si applica anche all'interdetto in un momento di
lucido intervallo - sia capace di intendere e di volere, l'art. 2048 preveda una responsabilità dei genitori o del
tutore (nonché degli insegnanti per il tempo in cui svolgono tale funzione) concorrente con quella di chi abbia
cagionato il danno. Qui la responsabilità è indubbiamente ancor più difficilmente riconducibile ad un
comportamento colpevole del soggetto su cui viene fatta gravare.

b) La valutazione concernente l'imputabilità costituisce il presupposto per il giudizio circa la colpevolezza del
comportamento produttivo di danno. L'art. 2043 richiede che tale comportamento sia qualificabile come doloso
o colposo.
Il codice civile non fornisce la nozione del dolo e della colpa, dovendosi ricorrere alle indicazioni del codice penale.
-Il dolo si identifica con l'intenzionalità del comportamento: l'evento dannoso è "preveduto e voluto come
conseguenza della propria azione od omissione" (art. 43 c.p.). L'agente, insomma, si determina a tenere un certo
comportamento pur essendo consapevole delle conseguenze dannose che esso risulta atto a produrre''.
-La colpa, che è presa in considerazione in alternativa al dolo ai fini della ricorrenza della fattispecie dell'illecito,
sussiste quando l’evento dannoso non è voluto e si verifica “a causa di negligenza o imprudenza o imperizia,
ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline “.
Ciascuno, nei propri comportamenti, è tenuto a prestare un'attenzione e uno sforzo sempre adeguato alla
salvaguardia degli interessi altrui. Ove non lo faccia, l'ordinamento lo considera responsabile del danno
prodotto.
Nella responsabilità extracontrattuale, proprio perché manca una precedente relazione giuridicamente
rilevante tra i soggetti, si ritiene che la diligenza si debba adeguare alle circostanze concrete in cui il soggetto
si trovi ad operare, con la conseguenza che egli potrebbe essere chiamato a rispondere del danno
indipendentemente dalla ricorrenza delle condizioni previste per la sussistenza della responsabilità
(contrattuale) del debitore.
La valutazione della gravità della colpa, che in linea di principio non influisce sull’entità del risarcimento, viene in
considerazione, però, ai fini della determinazione della misura in cui il risarcimento si deve ripartire in caso di
responsabilità solidale.
La colpevolezza, la cui ricorrenza deve essere provata da chi pretenda di affermare l'altrui responsabilità ai
sensi dell'art. 2043, è sicuramente esclusa quando si presenti l'ipotesi del caso fortuito o della forza maggiore.
Con essi ci si riferisce all'incidenza di fattori che sfuggono alla possibilità di previsione e di controllo del
soggetto.
Superamento del criterio della colpa: responsabilita’ aggravata
e responsabilita’ oggettiva
Già nel sistema complessivo del codice civile ci si allontana da un rigoroso collegamento - secondo la
prospettiva emergente dalla clausola generale dell'art. 2043 - tra il sorgere di una responsabilità per il
risarcimento del danno da altri patito e la valutazione del comportamento del soggetto in termini di
colpevolezza.
Particolarmente avvertita è stata la necessità di assicurare al danneggiato una tutela di fronte allo
straordinario moltiplicarsi delle occasioni di danno nella società moderna. Ma, al contempo, inevitabile è stata la
constatazione che la necessità di una puntuale dimostrazione della colpevolezza del soggetto avrebbe potuto
finire spesso col compromettere la possibilità di riconoscere una riparazione al danneggiato, anche se
titolare di un interesse ingiustificatamente leso.
Nei vari casi il legislatore è intervenuto con tecniche diverse, ma sempre comportanti una deviazione dalla
fattispecie dell'art. 2043 dal punto di vista della rilevanza del profilo soggettivo dell'illecito. La frequenza di tali
ipotesi spinge ad interrogarsi, allora, se si possa ancora coerentemente parlare, in proposito, di deviazioni
dalla regola, ovvero non sia, piuttosto, da prendere ormai atto della esistenza di una pluralità di criteri di
imputazione della responsabilità civile.
Non si può fare a meno di sottolineare come la resistenza ad abbandonare il tradizionale e consolidato
riferimento alla colpevolezza del soggetto quale unica possibile fonte di responsabilità induca talora gli
interpreti a forzare la realtà normativa, spingendoli a invocare pretesi doveri di comportamento e a
giustificare, di conseguenza, le varie ipotesi previste dal legislatore nell'ottica di una reazione alla relativa
violazione.
Questo anche perché il superamento del giudizio di responsabilità in termini di colpevolezza viene delineato dal
legislatore in modo tutt'altro che omogeneo.
Mentre in talune ipotesi, infatti, palese è l'estraneità di qualsiasi rilevanza della colpa alla imputazione della
responsabilità, in altre emerge la possibilità, per il soggetto, di evitare di vedersi addossato il risarcimento del
danno, offrendo una prova liberatoria, a sua volta variamente articolata dal legislatore. Se nelle ipotesi del
primo tipo è sicuro il riferimento ad una responsabilità oggettiva, risulta indubitabile che nelle altre finisce col
persistere, ai fini della imputazione della responsabilità, una rilevanza del profilo soggettivo: simili fattispecie si
prestano, in effetti, ad essere ricostruite in termini di presunzioni di responsabilità, a seguito della previsione
di una inversione dell'onere della prova in ordine alla imputabilità del fatto al soggetto. Con riguardo a tali
ipotesi si esita, allora, pure da parte della giurisprudenza, a parlare di responsabilità oggettiva, preferendosi
alludere ad esse, piuttosto, in termini di responsabilità aggravata.
Nel quadro delle fattispecie di responsabilità tipizzate dal legislatore secondo schemi diversi da quello dell'art.
2043, in una peculiare prospettiva si collocano le ipotesi in cui un soggetto è chiamato a rispondere per i danni
provocati dal comportamento di altri, la cui responsabilità risulta comunque da valutare secondo i normali
criteri (soggettivi o oggettivi) di imputazione. Per identificare tale situazione, si parla della previsione di criteri
di propagazione della responsabilità.
Tutte le altre ipotesi, variamente disciplinate dal legislatore nell'ottica di un aggravamento della responsabilità,
sono accomunate da una potenziale dannosità delle cose o attività prese in considerazione per addossare la
relativa responsabilità a chi si trovi con esse in una relazione tale da far ritenere come socialmente
giustificato l'addossamento stesso.
Criteri di propagazione della responsabilita’
All'idea di responsabilità indiretta non si è mancato di ricondurre pure l'ipotesi della responsabilità per il
danno cagionato dall'incapace (art. 2047):

a) La prima ipotesi è quella in cui a cagionare il danno sia stato il fatto illecito - di cui, quindi, devono
ricorrere tutti i requisiti, pure soggettivi - di un minore non emancipato (art. 2048).
In tal caso risponderanno anche i genitori o il tutore. Gli insegnanti rispondono, poi, del danno cagionato dal
fatto illecito dei loro allievi nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza (art. 2048).
È da precisare che, ai fini del sorgere della responsabilità, occorre che sussista il requisito della convivenza
coi genitori (o col tutore). Tale requisito sembra, per quanto riguarda i genitori, riferirsi più all'esercizio
della responsabilità genitoriale.
La giurisprudenza, invero, tende ad aderire ad una ricostruzione della fattispecie in termini di responsabilità
diretta (o per fatto proprio) dei genitori, fondata su un difetto di vigilanza e educazione (culpa in vigilando
e in educando).
Ai genitori (e al tutore), però, è addossata una responsabilità (quindi indiretta) sulla base di un rischio da
considerare tipicamente connesso, sul piano sociale, alla loro posizione.
Forse meno azzardato e astratto è fondare sul difetto di vigilanza, la responsabilità dell'insegnante.
Per quanto concerne gli insegnanti di scuole statali, "l'amministrazione si surroga al personale medesimo
nelle responsabilità civili derivanti da azioni giudiziarie promosse da terzi" (art. 613 L. 11.7.1980, n. 312),
risultando, in pratica, la responsabilità addossata all'amministrazione scolastica, quale rischio inerente alla
sua organizzazione.
È consentito di liberarsi della propria responsabilità esclusivamente provando di non aver potuto impedire il
fatto (art. 2048).
Non solo si richiede di avere preventivamente adottato le misure idonee ad evitare il fatto, ma la
responsabilità si ritiene poter essere affermata sulla base del mero difetto di educazione, dovendo, a tal
fine, i genitori positivamente dimostrare di avere impartito al minore una educazione atta ad impostare
una corretta vita di relazione, correggendo i difetti che il minore via via riveli. Per evitare, poi, la
responsabilità per fatto degli allievi, occorre non solo che si tratti di evento imprevedibile, ma che sia
dimostrata l'assenza di carenze organizzative.
La responsabilità dei genitori concorre con quella del figlio responsabile, secondo la regola della
responsabilità solidale prevista dall'art. 2055. Essa è ritenuta poter concorrere anche con la responsabilità
dell'insegnante, dato che, pure in caso di giustificato affidamento del minore all'insegnante, resta comunque
sussistente il relativo fondamento (che la giurisprudenza ravvisa nell'eventuale difetto di educazione, le
cose non cambiando ove si consideri qui rilevante il rischio socialmente connesso alla posizione di genitore).

b) Carattere oggettivo ha la responsabilità che l'art. 2049 pone a carico dei padroni e committenti, per i
danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi, nell'esercizio delle incombenze a cui sono
adibiti. Si ritiene, al riguardo, ormai del tutto insostenibile il collegamento di una simile responsabilità ad una
pretesa colpa nella scelta del dipendente (culpa in eligendo). Ove si tenga presente che l'area coperta dalla
fattispecie in questione coincide con quella del lavoro subordinato, pare indubitabile come, in tale norma, non
si possa che vedere manifestata la rilevanza del rischio imprenditoriale gravante sul datore di lavoro
(imprenditore) in quanto tale. Il carattere rigorosamente oggettivo della responsabilità, per il datore di
lavoro, discende dalla mancanza di qualsiasi possibilità di sottrarsi ad essa, non essendo prevista alcuna
prova liberatoria.
Perché si abbia la responsabilità del preponente per il danno cagionato dai suoi preposti occorre,
innanzitutto, che vi sia stato un fatto illecito del preposto, la cui ricorrenza deve essere verificata sulla
base dei normali criteri di imputazione della responsabilità (siano, cioè, quelli ricavabili dall'art. 2043, ovvero
da altre disposizioni).
È necessario, poi, che vi sia un vincolo di subordinazione. Tale requisito potrà trattarsi di un vincolo anche
solo temporaneo, rilevando pure la semplice situazione di fatto, per cui una parte svolga un'attività per
conto dell'altra sotto la sua direzione (rileva, insomma, l'inserimento del soggetto nella organizzazione
altrui, a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto).
Il rapporto di preposizione potrà ritenersi sussistente anche nel caso di incarico per l'esecuzione di un
determinato lavoro (pure ove si tratti di lavoratore normalmente alle dipendenze altrui, ma, al momento,
sotto la direzione del soggetto per conto del quale opera).
Occorre, infine, che sussista una connessione tra le incombenze e il danno.
Occorre un collegamento funzionale tra lo svolgimento dell'incarico e l'evento lesivo. (operando, quindi, oltre i
limiti delle sue incombenze e anche trasgredendo gli ordini ricevuti).
Il preponente risponderà del danno se l'esercizio delle incombenze espone il terzo all'ingerenza dannosa del
preposto. Così accade, ad es., nel caso in cui l'impiegato della banca si appropri delle somme versate dal
cliente per una sua operazione.
Pure qui, la responsabilità del preponente e del preposto sono concorrenti, secondo la regola della
responsabilità solidale, prevista dall'art. 2055.
Regimi peculiari di responsabilita’
In relazione alle diverse ipotesi tipizzate dal legislatore secondo schemi diversi da quello dell'art. 2043, è da
sottolineare come non sempre chiaro si presenti il confine tra mero aggravamento e vera e propria
oggettivazione della responsabilità, così da renderne impossibile qualsiasi tentativo di categorizzazione in tal
senso.
Il codice civile, oltre a recepire tre ipotesi di risalente tradizione (responsabilità per danno cagionato da
cosa in custodia, per danno cagionato da animali e per rovina di edificio), ne introduce due miranti ad
adeguare il sistema della responsabilità civile a nuove esigenze di tutela più strettamente legate alla più
recente evoluzione dei rapporti economico-sociali (responsabilità per l'esercizio di attività pericolose e per la
circolazione di veicoli).

a) L'art. 2051 stabilisce che ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che
non provi il caso fortuito. Nella portata della disposizione rientra qualsiasi cosa, mobile o immobile,
indipendentemente dalla sua intrinseca pericolosità. Il danno deve derivare dalla cosa: se essa costituisce
strumento di un'attività pericolosa, il principio operante è quello dell'art. 2050. La casistica è sconfinata. Si
pensi alla caduta di rami oppure un incendio sviluppatosi su un terreno ma che produca danni ai fondi vicini ecc.
Condizione del sorgere della responsabilità è che il soggetto ne abbia la custodia.
Questa viene intesa come effettivo potere materiale sulla cosa. Potrà trattarsi, quindi, non solo del
proprietario, ma anche del possessore o detentore, pure nel caso di potere di fatto esercitato
abusivamente.
La prova liberatoria consiste nella dimostrazione del solo caso fortuito, che viene inteso in senso ampio, ma
estremamente rigoroso.

b) Affine è la responsabilità, che grava sul proprietario di un animale o su chi se ne serve per il tempo in cui lo
ha in uso, per i danni cagionati dall'animale, anche se smarrito o sfuggito, salvo che venga provato il caso
fortuito (art. 2052). Pure in questa fattispecie è irrilevante il carattere di specifica pericolosità dell'animale.
Del tutto simile a quanto richiesto nell'ipotesi precedente è l'atteggiarsi del caso fortuito come prova
liberatoria: deve trattarsi di un fattore esterno, che presenti rigorosi caratteri di imprevedibilità,
inevitabilità e assoluta eccezionalità.

c) L'art. 2053 disciplina la responsabilità per rovina di edificio o di altra costruzione, addossandola al
proprietario, salvo che costui provi che la rovina stessa non è dovuta a difetto di manutenzione o a vizio di
costruzione (di cui egli, dunque, risponde in quanto tale).
La norma si ritiene applicabile (cumulando addirittura la relativa responsabilità con quella del proprietario)
anche a chi sia titolare di un diritto reale di godimento, che comporti (come l'usufrutto) l'obbligo di
manutenzione. Il proprietario resta, invece, esclusivo responsabile nel caso che l'immobile sia locato. Per
rovina si intende anche la disgregazione di piccole parti dell'edificio, come sostegni per vasi da fiori, tegole,
cornicioni, ecc.
La responsabilità tende ad essere considerata oggettiva, anche se taluni distinguono quella per i danni
derivanti da difetto di manutenzione, che sarebbe ricollegabile ad un comportamento pur sempre colposo, da
quella per i danni derivanti da vizio di costruzione, che avrebbe, per il proprietario, carattere sicuramente
oggettivo.

d) Significativa novità introdotta dal codice civile è quella per cui grava su chi svolge attività pericolose, per
loro natura o per la natura dei mezzi adoperati, l'obbligo di risarcire i danni derivanti dal relativo esercizio, se
non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (art. 2050). Il legislatore ha qui dato vita
ad una sorta di vera e propria clausola generale, affidandone la concretizzazione al giudice, cui compete,
allora, il compito di individuare le singole ipotesi di attività pericolosa.
Gli esempi sono innumerevoli: caccia, organizzazione di gare motociclistiche su circuito aperto al pubblico,
attività edilizia, esercizio di attrazioni pericolose nei parchi di divertimenti, ecc.
La giursprudenza, anche in questo caso, richiede, per la esclusione della responsabilità, una prova
particolarmente rigorosa, consistente nella esclusione del nesso di causalità tra attività pericolosa ed
evento dannoso.
e) Una disciplina complessa è stata introdotta dal codice civile per regolare la responsabilità relativamente ad
un fenomeno che ha assunto rilevanza economico-sociale via via crescente.
In ordine alla circolazione dei veicoli, il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il
danno prodotto a persone o a cose dalla relativa circolazione, se non provi di avere fatto tutto il possibile per
evitare il danno (art. 2054). Nel caso di scontro tra veicoli, si presume, fino a prova contraria, che ciascuno dei
conducenti abbia concorso ugualmente a produrre il danno subito dai singoli veicoli (art. 2054). È responsabile in
solido col conducente, se non prova che la circolazione del veicolo sia avvenuta contro la sua volontà, il
proprietario del veicolo o, in sua vece, l'usufruttuario o l'acquirente con patto di riservato dominio.
Le persone in precedenza indicate sono considerate in ogni caso responsabili dei danni derivanti da vizi di
costruzione o da difetto di manutenzione (art. 2054).
La nozione di veicolo si estende a qualsiasi mezzo circolante, a trazione meccanica o animale o determinata
all'azione diretta dell'uomo, purché senza guida di rotaie. La circolazione cui si riferisce la norma è quella in
qualsiasi spazio aperto al transito pubblico.
Quanto ai soggetti danneggiati, ad esito di una lunga discussione sul punto, si è convenuto da parte della
giurisprudenza che il particolare regime di responsabilità previsto dall'art. 2054 operi anche nei confronti delle
persone - a qualunque titolo (pure, quindi, di mera cortesia) - trasportate nel veicolo.
Il principio della uguale responsabilità dei conducenti in caso di scontro di veicoli ha carattere solo sussidiario,
in quanto è destinato ad operare esclusivamente ove non sia possibile accertare in concreto in quale misura
ciascun conducente abbia concorso a cagionare l'evento. La presunzione prevista per il caso di scontro opera
anche nel caso che uno solo dei veicoli abbia riportato danni.
Articolato è il regime di responsabilità che emerge dalla norma in esame.
Carattere senz'altro oggettivo si ritiene avere la responsabilità per vizi di costruzione o per difetto di
manutenzione. Nel primo caso, con la responsabilità del conducente e del proprietario ex art. 2054, concorre la
responsabilità del costruttore. L'unica prova per esentarsi da responsabilità può essere quella tendente a
negare la sussistenza del nesso di causalità tra vizi di costruzione o difetto di manutenzione e danno.
Circa la responsabilità del conducente, si tratterebbe di una responsabilità pur sempre fondata sulla colpa
(presunta), anche se lievissima. Quanto alla responsabilità del proprietario in solido con il conducente, diffusa è
l'idea che si tratti di una responsabilità oggettiva.
La prova liberatoria è fondata sulla opposizione alla circolazione (art. 2054) e, quindi, sull'adozione di mezzi idonei
a impedire l'entrata in circolazione del veicolo. Il proprietario viene, così, considerato responsabile ove affidi le
chiavi ad un parcheggiatore e, addirittura, in caso di furto, se non siano state prese idonee misure di
prevenzione (come la chiusura a chiave e l'applicazione di congegni antifurto).
La gravità dei pericoli che la diffusione della circolazione stradale comporta ha indotto il legislatore, per
garantire un sicuro e pronto ristoro del danneggiato, ad introdurre un regime di assicurazione obbligatoria
della responsabilità civile automobilistica, con l'istituzione anche di un "Fondo di garanzia per le vittime della
strada.

f) In attuazione della disciplina comunitaria (direttiva 85/374/CEE), il legislatore ha regolamentato la


responsabilità per danno da prodotti difettosi. La materia è ora disciplinata nel contesto del D.Lgs. 6.9.2005, n.
206 (codice del consumo). Il principio di fondo è quello secondo cui il produttore è responsabile del danno
cagionato da difetti del suo prodotto (art. 114). Ove il produttore non sia individuato, è assoggettato alla
stessa responsabilità il fornitore (art. 116). Il prodotto è considerato difettoso quando non offre la
sicurezza che ci si può legittimamente attendere, tenuto conto di tutte le circostanze.
Il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno (art. 120), mentre il
produttore può escludere la propria responsabilità nei casi indicati tassativamente (art. 118): se egli non ha
messo in circolazione il prodotto o se il difetto non esisteva nel momento in cui è stato messo in circolazione;
se egli non ha fabbricato il prodotto per la vendita o per altra forma di distribuzione a titolo oneroso, né lo ha
fabbricato o distribuito nell'esercizio della sua attività professionale.
Il danno risarcibile è quello cagionato dalla morte, da lesioni personali, nonché (entro un limite prestabilito)
quello relativo alla distruzione o al deterioramento di cose diverse dal prodotto difettoso, normalmente
destinate all'uso o consumo privato e così principalmente utilizzate (art. 123). Il diritto al risarcimento del
danno si prescrive in tre anni dalla conoscenza del danno, del difetto e dell'identità del responsabile o da quando
ciò sarebbe stato possibile. Esso si estingue alla scadenza di dieci anni dalla messa in circolazione del prodotto
nella Comunità europea.
Vi è responsabilità in solido in caso di pluralità di responsabili (art. 121). Il risarcimento del danno è soggetto
alla disciplina del concorso del fatto colposo del danneggiato e non è dovuto in caso di consapevole esposizione
ai rischi derivanti dal difetto del prodotto (art. 122).

h) Rigorosamente oggettiva è stata disciplinata la responsabilità gravante sugli esercenti di impianti nucleari.
Il legislatore ha seguito la via della c.d. canalizzazione della responsabilità verso il soggetto che eserciti
l'attività pericolosa. L'art. 15 L. 31.12.1962, n. 1860, prevede che l'esercente di un impianto nucleare risponda di ogni
danno causato da un incidente avvenuto nell'impianto o ad esso connesso (compreso il danno collegato a rifiuti
radioattivi), con la sola eccezione dei danni derivanti da conflitti armati legati ad eventi bellici e insurrezionali o
derivanti da cataclismi naturali di carattere eccezionale. La responsabilità, così rigorosamente addossata
all'esercente, trova, però, una limitazione nel suo importo massimo, essendo previsto, poi, in considerazione
dell'eventuale carattere catastrofale dei danni verificatisi, l'intervento dello Stato e di un fondo internazionale
a ciò destinato.
CAP.2 risarcimento del danno
Illecito, risarcimento del danno e tecniche di tutela degli
interessi lesi
L'ingiusta lesione dell'altrui interesse determina, ai sensi dell'art. 2043, il sorgere dell'obbligazione di risarcire i
danni che ne siano derivati. Si è visto come l'intero sistema della responsabilità civile sia finalizzato alla
riparazione delle conseguenze che l'illecito abbia prodotto nella sfera giuridica del soggetto.
Il conseguimento del risultato di una simile riparazione rappresenta l'obiettivo perseguito dall'ordinamento
attraverso la disciplina del risarcimento del danno.
Si è avuto modo di avvertire come l'ordinamento batta con crescente insistenza pure vie diverse per
assicurare una efficiente tutela degli interessi ritenuti meritevoli di protezione. Non è difficile accorgersi
come il limite intrinseco del risarcimento del danno, quale strumento di tutela di interessi lesi, sia sicuramente
rappresentato dal suo carattere di rimedio successivo alla relativa lesione.
Una funzione preventiva la svolge lo stesso risarcimento del danno, in quanto esso opera indubbiamente anche
nel senso di dissuadere i soggetti dal tenere comportamenti atti a ledere gli altrui interessi. Una simile
funzione preventivo-dissuasiva del risarcimento del danno fa evidentemente leva sul calcolo economico che è
alla base dei comportamenti, scoraggiando quelli potenzialmente dannosi quando il relativo vantaggio risulti
superato dallo svantaggio rappresentato dai costi del conseguente risarcimento del danno.
Se da una parte si tende ad accrescere la misura del risarcimento, in modo da renderlo effettivamente
rispondente alla gravità della lesione, dall’altra si va oltre questa sua funzione riparatoria.
Si prospetta di addossare, cioè, al responsabile la corresponsione di somme di danaro di ammontare
proporzionato alla gravità del fatto lesivo ed alla colpa di chi lo abbia commesso.
Il risarcimento del danno finisce con l'assumere i connotati di una pena per il responsabile e la finalità
dissuasiva (e sanzionatoria) della relativa obbligazione viene espressa con la terminologia di danni esemplari o
punitivi.

Un carattere più palesemente e immediatamente preventivo assumono altre forme di intervento a tutela degli
interessi considerati meritevoli di particolare protezione da parte dell'ordinamento. Si allude alla previsione di
strumenti atti a impedire, appunto prevenendolo, il compimento del fatto dannoso, ovvero, ove già
intervenuto, almeno a impedirne il perdurare, limitandone le conseguenze per i soggetti sui cui interessi esso
incide.
Si tratta del modello di tutela che si attua attraverso le azioni inibitorie, la cui portata è stata via via estesa
dal legislatore, in considerazione della natura degli interessi posti in pericolo (o lesi).
Ma è soprattutto al conferimento di un sempre maggiore rilievo ad interessi di natura non patrimoniale che è
legata la diffusione dell'azione inibitoria.
Si tratta di interessi in relazione ai quali il carattere successivo del risarcimento del danno ne rende comunque
limitata la portata garantistica. Di gran lunga prevalente, di fronte all'aggressione agli interessi personali, è
l'esigenza, ove non si riesca ad evitarla prevenendola, almeno di limitarne le conseguenze, interrompendo il
comportamento lesivo. Già nel codice civile, così, l'adozione di provvedimenti a ciò finalizzati è stata prevista a
tutela del diritto al nome (art. 7) e del diritto all'immagine (art. 10), dandosi vita ad un indirizzo che ha visto
proprio nell'esperimento dell'azione inibitoria lo strumento elettivo col quale assicurare la tutela dei diritti
della personalità.
Lo strumento dell'azione inibitoria ha finito per assumere una portata generale a tutela di tutti i diritti della
personalità, dei quali si sia inteso via via garantire la tutela (salute, riservatezza, identità personale, ecc.). E,
non diversamente, i vantaggi del ricorso all'azione inibitoria sono stati avvertiti in ordine alla tutela degli
interessi collettivi e diffusi.
A difesa degli interessi dei consumatori, più di recente, l'art. 37 D.Lgs. 206/2005 ha previsto il possibile esercizio di
un'azione inibitoria, finalizzata a precludere l'uso di condizioni abusive nei contratti conclusi tra consumatori e
professionisti.
Importante risulta sottolineare come lo strumento dell'azione inibitoria, essendo finalizzato esclusivamente
alla prevenzione del comportamento lesivo in quanto tale o alla sua cessazione, sia destinato a concorrere con
il risarcimento del danno, ove la lesione dell'interesse abbia concretamente determinato conseguenze
pregiudizievoli per il relativo titolare.
Modalita’ del risarcimento del danno e valutazione del danno
Il risarcimento del danno è lo strumento attraverso cui si realizza la funzione riparatoria del sistema della
responsabilità civile.
È chiaro, però, che una simile funzione - tendente a porre il soggetto, attraverso una riparazione integrale
del danno, nelle stesse condizioni in cui si sarebbe trovato ove non si fosse verificata la lesione (restitutio in
integrum) - può essere svolta in modo realmente adeguato dal risarcimento del danno solo in relazione alle
conseguenze di carattere economico della lesione, cioè al danno patrimoniale.
In relazione al danno non patrimoniale, al risarcimento non può essere riconosciuta la stessa funzione
ripristinatoria, data la impossibilità di ricostruire la situazione precedente alla lesione.
Ecco perché si tende a parlare, al riguardo, di una funzione essenzialmente satisfattoria del risarcimento
del danno non patrimoniale: quasi che si intenda con ciò procurare al titolare dell'interesse (personale) leso
un surrogato (economico) delle conseguenze (non economiche) determinate dal fatto dannoso.
La disciplina dettata dal codice civile in ordine alle modalità del risarcimento ed alla valutazione del danno,
concerne, in realtà, esclusivamente il danno patrimoniale. Al di fuori del campo patrimoniale, il risarcimento
(del danno non patrimoniale), mancando valori economici cui il suo ammontare possa essere rapportato, è
suscettibile di essere governato solo da criteri di carattere equitativo, inevitabilmente largamente affidati
alla discrezionalità del giudice.
La reintegrazione del patrimonio del soggetto leso può avvenire attraverso il risarcimento per equivalente
o il risarcimento in forma specifica.
solo la seconda forma di risarcimento vale a realizzare l'effettivo ripristino della situazione alterata
dall'evento dannoso. La prima forma di risarcimento, infatti, si limita, attraverso l'attribuzione di una
somma di danaro ragguagliata per valore al pregiudizio, a porre solo da un punto di vista economico il
patrimonio del soggetto nelle condizioni in cui esso si sarebbe trovato in assenza dell'illecito altrui.
Secondo la nostra tradizione, è proprio il risarcimento per equivalente a costituire la modalità corrente di
riparazione del danno. Ciò presuppone una valutazione, attraverso i criteri a tal fine stabiliti, del danno, onde
potere determinare la somma di danaro ritenuta tale da compensare il danneggiato per le utilità perdute in
conseguenza dell'evento dannoso.
È anche da tenere presente come il risarcimento del danno abbia come esclusivo punto di riferimento l'entità
del pregiudizio subito dal soggetto leso in conseguenza dell'illecito.
L'art. 2056 rinvia, ai fini del risarcimento dovuto al danneggiato, ai fondamentali criteri di valutazione
stabiliti per il danno derivante dall'inadempimento dell'obbligazione (in materia, cioè, di responsabilità
contrattuale).
Dall'art. 2056 è richiamato, innanzitutto, l'art. 1223, il quale costituisce il criterio fondamentale per la
determinazione del danno risarcibile, prevedendo che il risarcimento deve comprendere tanto la perdita
subita (danno emergente), quanto il mancato guadagno (lucro cessante), a condizione che siano
conseguenza immediata e diretta del fatto cui il danno si ricollega (nesso di causalità). È richiamata anche la
regola per cui, ove il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice
con valutazione equitativa (art. 1226). Vengono richiamati, infine, i principi attraverso i quali è riconosciuta
rilevanza, nella determinazione del danno risarcibile, anche alla valutazione del comportamento del
danneggiato, sia diminuendo il relativo ammontare in funzione della gravità della colpa di quest'ultimo, ove
abbia concorso a cagionarlo (art. 1227), sia considerando non dovuto il risarcimento dei danni che lo stesso
avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (art. 1227).
In relazione all'illecito extracontrattuale sono sempre considerati risarcibili tanto i danni prevedibili,
quanto quelli imprevedibili, ritenendosi evidentemente prevalente sull'esigenza di accordare peso all'intensità
della colpevolezza quella di assicurare comunque l'integrale risarcimento del danno (a prescindere, quindi,
dalla sua prevedibilità o meno al momento del fatto).
Una regola che riguarda specificamente il danno alla persona è quella dell'art. 2057.
Quando il danno alla persona ha carattere permanente, la relativa liquidazione può essere fatta dal giudice
sotto forma di rendita vitalizia. La finalità di una simile forma di risarcimento è soprattutto quella di
assicurare al danneggiato un flusso costante di risorse, tale da evitare i rischi derivanti dall'investimento
della somma ottenuta quale risarcimento dal danneggiato sotto forma di capitale. Questa peculiare
modalità di risarcimento ha incontrato da noi scarso seguito, preferendosi ottenere una somma capitale
di cui disporre nella maniera che si ritenga più opportuna.
L'art. 2058 contempla, quale possibile modalità di risarcimento, il risarcimento in forma specifica. In
proposito, è da sottolineare come si tenda ad ammettere trattarsi di modalità risarcitoria di carattere
generale (e, quindi, applicabile pure in materia di responsabilità contrattuale).
Si prevede, al riguardo, che il danneggiato possa chiedere la reintegrazione in forma specifica.
Ove, però, il giudice reputi la reintegrazione in forma specifica eccessivamente onerosa per il debitore, egli
può disporre, nonostante la richiesta del danneggiato, che il risarcimento avvenga per equivalente (art.
2058).
Nel concetto di risarcimento in forma specifica rientra, innanzitutto, la condanna dell'autore dell'illecito
a ripristinare la situazione che sarebbe esistita in assenza dell'evento dannoso. Ad es.: l'investitore è
condannato a provvedere alla riparazione dell'automobile danneggiata.
All'idea di risarcimento in forma specifica si ricollega anche la condanna ad una somma di danaro, la cui
quantificazione avvenga in base al costo del ripristino della situazione alterata in conseguenza
dell'illecito. Nel caso precedentemente fatto del danno ad un'autovettura, la condanna potrà avere ad
oggetto, così, la somma necessaria per la riparazione, invece che la differenza di valore tra il bene
integro ed il bene danneggiato.
La regola per cui il risarcimento in forma specifica non può essere riconosciuto ove sia eccessivamente
oneroso per il debitore, dovrebbe evitare che il risarcimento del danno possa risolversi in un
ingiustificato arricchimento per il danneggiato.
Sempre all'idea di una reintegrazione in forma specifica sono ritenuti riconducibili anche gli strumenti
attraverso cui l'ordinamento tende a rimuovere le conseguenze dannose dell'illecito per il suo titolare. In
tale prospettiva sono da guardare, in particolare, la pubblicazione della sentenza che accerta la lesione e
la rettifica della notizia lesiva.
È da tenere presente, infine, che l'obbligazione risarcitoria, in quanto finalizzata a reintegrare il
patrimonio del danneggiato del valore perduto in conseguenza dell'illecito, costituisce un debito di valore.
Solo la liquidazione (sia consensuale, per accordo cioè delle parti, sia giudiziale, in caso di disaccordo) la
trasforma in un debito di valuta.
Responsabilita’ contrattuale e extracontrattuale
Si è avuto modo ripetutamente di richiamare l'attenzione sulla distinzione della responsabilità contrattuale
dalla responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), evidenziando come essa dipenda dalla esistenza o meno
di un precedente rapporto (obbligatorio) tra le parti, di cui l’illecito costituisca violazione (essendo la prima,
cioè, conseguente all’inadempimento di una obbligazione, la seconda, invece, alla ingiustificata lesione di un
interesse riconosciuto dall'ordinamento come meritevole di protezione nei confronti della generalità dei
consociati, tenuti al relativo rispetto).
Già si è ricordato come i criteri del relativo risarcimento si presentino in larga misura omogenei, una
differenza di rilievo ricollegandosi, peraltro, al mancato richiamo, da parte dell'art. 2056, del criterio di
graduazione della responsabilità contrattuale fondato sulla prevedibilità del danno (art. 1225). Così, mentre
in conseguenza dell'inadempimento il debitore risponderà dei danni imprevedibili al momento in cui è sorta
l'obbligazione solo ove si sia comportato dolosamente, nel caso di responsabilità extracontrattuale il
danneggiante dovrà sempre risarcire tutti i danni, tanto prevedibili, quanto imprevedibili.
Diverso è il termine di prescrizione, in quanto, in materia di responsabilità contrattuale, il termine è quello
ordinario di dieci anni (art. 2946), salvo i termini più brevi espressamente stabiliti per i diritti derivanti da
taluni contratti.
In materia, invece, di responsabilità extracontrattuale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive in
cinque anni (art. 2947) e, nel caso di danno prodotto dalla circolazione di veicoli di ogni specie, in due anni (art.
2947). Se, poi, il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga,
questa si applica pure all'azione risarcitoria (art. 2947).
Differente è anche la distribuzione dell'onere probatorio. Nel caso dell'illecito contrattuale, il creditore
insoddisfatto deve dimostrare - limitandosi alla mera allegazione dell'inadempimento della controparte - la
sussistenza del credito vantato (attraverso la prova della sua fonte), la relativa scadenza ed il danno
lamentato. E il debitore che, per evitare di essere considerato responsabile, dovrà fornire la prova di avere
adempiuto, ovvero di non avere potuto adempiere per causa a lui non imputabile (art. 1218).
Per ottenere il risarcimento del danno in materia di illecito extracontrattuale, invece, il danneggiato dovrà
provare, alla luce dell'art. 2043, la sussistenza della situazione giuridica, il fatto dannoso e la colpevolezza (cioè
il dolo o la colpa) del danneggiante. Proprio in considerazione di tale diverso atteggiarsi dell'onere
probatorio, si afferma correntemente che, in caso di inadempimento (e, quindi, ai fini dell'affermazione della
responsabilità contrattuale, a differenza che di quella extracontrattuale), esiste una inversione dell'onere
della prova, ossia una presunzione di responsabilità a carico del debitore.
Ovviamente, una simile distinzione è destinata a perdere di rilevanza nelle ipotesi in cui l'affermazione della
responsabilità extracontrattuale concerne quelle fattispecie, in relazione alle quali - una volta dimostrato
da parte del danneggiato il fatto dannoso ed il danno — o non è consentita al danneggiante alcuna prova
liberatoria o è fatto gravare su di lui l'onere di fornire una simile prova.
È proprio in considerazione della sempre più frequente ricorrenza di simili ipotesi che viene diffusamente
evidenziata una tendenza dell'ordinamento addirittura al superamento della distinzione tra responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale (un esempio significativo, al riguardo, è considerato quello della
responsabilità per danno da prodotti difettosi).
Decisamente a favore del danneggiato gioca la regola per cui, nel nostro ordinamento, è da considerare
ammesso il concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in conseguenza del medesimo
fatto. Si è ritenuto, cioè, che il medesimo fatto possa essere valutato, allo stesso tempo, in considerazione
della natura degli interessi lesi, come inadempimento di una obbligazione e come illecito extracontrattuale.
Così, ad es., nel caso di lesione personale subita da chi venga trasportato in un taxi, il danneggiato potrà
agire nei confronti del conducente sia invocando una responsabilità contrattuale per violazione degli obblighi
nascenti dal contratto di trasporto (art. 1681), sia invocando una responsabilità extracontrattuale per
essere stato leso un suo interesse (diritto all'integrità fisica), il cui rispetto è imposto alla generalità dei
consociati (trattandosi di responsabilità connessa alla circolazione di veicoli, art. 2054).
Egli si potrà avvalere del regime di responsabilità che ritenga, in concreto, più favorevole.
Danno non patrimoniale e danno alla persona
Nel sistema del codice civile, un ruolo decisamente marginale risultava quello del danno non patrimoniale. L'art.
2059, infatti, prevede che "il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla
legge”.
La concezione accolta era estremamente restrittiva, in quanto finiva volutamente col ricollegare la
risarcibilità del danno non patrimoniale, inteso come danno morale, alla sola ipotesi del risarcimento del
danno conseguente a reato, ai sensi dell'art. 185 c.p. (secondo cui, appunto, "ogni reato, che abbia cagionato
un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle
leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui). La risarcibilità del danno non patrimoniale era vista, quindi, in
funzione essenzialmente punitiva.
In tale quadro, si era accreditata l'interpretazione secondo cui il danno alla persona potesse acquistare
rilevanza, ai fini risarcitori, solo nel caso in cui esso si fosse tradotto in danno patrimoniale (ritenendosi che
la patrimonialità del danno, sotto il profilo risarcitorio, sia da ricollegare non tanto alla natura
- patrimoniale o personale - dell'interesse leso dall'altrui illecito, quanto alle relative conseguenze).
Non c'è da meravigliarsi, allora, che la crescente attenzione alla persona umana e alle sue esigenze di sviluppo,
abbia reso sempre più centrale il tema del danno alla persona, di fronte all'insoddisfazione per una simile
ricostruzione della problematica. Questa, infatti, finiva col privare, in sostanza, di ogni ristoro, anche per
lesioni gravi dell'integrità fisica, chi fosse (a causa dell'età o per altri motivi) privo di reddito (suscitando
gravi perplessità anche sotto il profilo della disuguaglianza di trattamento riservata per lesioni identiche ai
diversi soggetti, a seconda del loro reddito).
In un primo tempo, così, si è registrato il tentativo, da parte della giurisprudenza, di ampliare la sfera del
danno patrimoniale. Un passo era stato già compiuto ritenendo rilevante la capacità lavorativa generica del
soggetto (come tale svincolata dall'attività lavorativa svolta in concreto).
Una decisiva svolta in materia è stata impressa dalla Corte costituzionale, la quale, sulla scia di una sempre
più nutrita giurisprudenza, ha ritenuto autonomamente risarcibile il danno biologico, limitando
espressamente la portata dell'art. 2059 al solo danno morale soggettivo. Il danno biologico, viene
considerato, quale danno-evento sempre risarcibile in caso di lesione della integrità fisica (o, più
esattamente, psico-fisica, ben potendo il danno psichico dar luogo ad una vera e propria patologia), in
quanto connesso alla lesione di per se stessa (e proprio come tale da assumere, quindi, come danno
risarcibile). Il relativo risarcimento è stato ritenuto, peraltro, non escludere la risarcibilità (eventuale),
quali danni-conseguenze, del danno patrimoniale e del danno morale soggettivo (in presenza delle rigorose
condizioni, di cui all'art. 2059).
Il dibattito, successivamente, si è incentrato, da una parte, sulla precisazione della natura giuridica del
danno biologico (se, cioè, patrimoniale o non patrimoniale o, addirittura, vero e proprio tertium genus);
dall'altra, più concretamente, sulla sua liquidazione. Anche sulla base del suggerimento della stessa Corte
costituzionale hanno trovato larga applicazione tabelle elaborate da vari tribunali aventi come base di
calcolo il valore del punto di invalidità (a sua volta calcolato sulla media dei precedenti giudiziali), corretto
percentualmente in funzione di diversi fattori (quali, in primo luogo, l'età del leso e l'entità della lesione) e
moltiplicato per il grado di invalidità concretamente accertato.
È stata, così, prospettata una definizione del danno biologico (art. 5 L. 5.3.2001, n. 57, in conformità all'art. 13
D.Lgs. 23.2.2000, n. 38, in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali),
successivamente sostanzialmente ripresa dal D.Lgs. 7.9.2005, n. 209 ("codice delle assicurazioni private"). Nel
nuovo contesto normativo la definizione riguarda tanto le "lesioni di non lieve entità" (art. 138), quanto
"lesioni di lieve entità" (art. 139), sempre, comunque, nel contesto dell'assicurazione obbligatoria per i veicoli a
motore e i natanti.
Il danno biologico viene definito quale "lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della
persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica una incidenza negativa sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali
ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito" (art. 138, lett. a, e art. 1397, anche quali ora risultanti ai
sensi dell'art. 1 e 1 D.Lgs. 4.8.2017, n. 124).
Nell'introdotta disciplina, il meccanismo di valutazione del danno biologico risulta fondato sulla
predeterminazione del valore economico (crescente in misura più che proporzionale rispetto all'aumento
della percentuale di invalidità e decrescente in funzione dell'età del danneggiato) di ciascun punto di invalidità.
Negli anni più vicini si è assistito anche alla tendenza del legislatore a estendere espressamente la risarcibilità
del danno non patrimoniale (incrementando, così, i "casi determinati dalla legge", cui si riferisce l'art. 2059).
La giurisprudenza, a sua volta, sollecitata dalla dottrina, ha cercato di estendere la tutela risarcitoria a
ulteriori (rispetto all'integrità psicofisica) profili legati allo sviluppo della persona umana. Ciò muovendo
dall'impostazione della ricordata decisione della Corte costituzionale (con cui è stata definitivamente
sancita la risarcibilità del danno biologico) e sulla base, quindi, di un diretto riferimento all'art. 2043,
coordinato con la disciplina costituzionale della tutela degli interessi inerenti alla persona. Si è parlato, in
proposito, di danno esistenziale, risarcibile (nonostante i limiti posti dall'art. 2059) quando il fatto abbia
determinato ripercussioni negative nella sfera, appunto, esistenziale della persona, con conseguente
ostacolo alle possibilità di realizzazione personale (al di fuori del campo patrimoniale) e peggioramento delle
condizioni di vita.
A prescindere da numerosi interventi giurisprudenziali collegati all'affermata risarcibilità del danno
biologico, una nuova svolta si è avuta, successivamente, in dipendenza di un intervento della Cassazione e
della Corte costituzionale, con cui, in sostanza, è stata ricondotta nell'alveo dell'art. 2059 - e, quindi, nella
sua sede naturale del danno non patrimoniale - l'intera problematica del danno alla persona.
La Cassazione ha ritenuto possibile concludere che, in caso di ingiusta lesione di un interesse inerente alla
persona, dal quale conseguano pregiudizi non suscettibili di valutazione economica, una lettura dell'art.
2059 costituzionalmente orientata imponga di considerare inoperante il limite in esso previsto, se la
lesione abbia riguardato valori della persona che risultino costituzionalmente garantiti.
Ove, cioè, sia stato leso un interesse protetto di rilievo costituzionale (non avente natura economica e le
conseguenze della cui lesione siano estranee alla sfera di operatività dell'art. 2043, limitata ai danni
patrimoniali) è, allora, all'art. 2059 che ci si deve riferire per il relativo risarcimento.
Un danno del genere può essere riconosciuto (appunto quale danno per lesione di interessi
costituzionalmente protetti), nel quadro della comune riferibilità al danno non patrimoniale, unitamente al
danno morale soggettivo e al danno biologico in senso stretto (se sia riscontrabile una lesione
all'integrità psicofisica).

La Corte costituzionale ha avallato la ricostruzione della Cassazione, in quanto tendente a ricondurre,


nell'ambito della previsione dell'art. 2059 - e, quindi, nel contesto di un sistema bipolare del danno
patrimoniale e di quello non patrimoniale (governato, invece, dall'art. 2043) - il risarcimento di ogni danno
non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: il danno morale soggettivo
(turbamento dello stato d'animo della vittima); il danno biologico in senso stretto (lesione dell'interesse
all'integrità fisica); il danno derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla
persona. In relazione a quest'ultimo profilo, si è sottolineato trattarsi, in sostanza, di quel danno
talvolta definito esistenziale (che, quindi, risulterebbe ormai assorbito nella nuova sistematica del danno
alla persona fondata sull'art. 2059).
In un delicato rapporto con le categorie di danno alla persona così enucleate, la giurisprudenza,
comunque, non ha mancato di continuare a riferirsi all'idea di danno esistenziale.
Un atteso intervento delle sezioni unite ha inteso, pur confermando, in linea di principio, la ricostruzione
del sistema del danno non patrimoniale operata dalle sentenze del 2003, "completarla" proprio con
riguardo al riconoscimento o meno dell'autonomia del danno esistenziale.
Ribadito, in particolare, il carattere della "bipolarità prevista tra danno patrimoniale (art. 2043) e danno
non patrimoniale (art. 2059)", a fronte della atipicità del primo, viene sottolineata, innanzitutto, la tipicità
di quest'ultimo
Decisa - e qui sembra da ravvisare una presa di distanze dalla giurisprudenza del 2003 - è la negazione che il
danno non patrimoniale, in quanto categoria generale, sia suscettibile di suddistinzioni in
sottocategorie. In particolare, si nega che possa farsi riferimento "ad una generica sottocategoria
denominata 'danno esistenziale", dato che il pregiudizio di tipo esistenziale risulta risarcibile, ma "solo
entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno".
Il forte richiamo al carattere unitario del danno non patrimoniale si presenta funzionale ad evidenziare
che, se è vero che il risarcimento del danno alla persona deve ristorare integralmente il pregiudizio, esso
non deve andare, però, oltre.
E tale pericolo viene considerato di possibile ricorrenza nella congiunta attribuzione del risarcimento del
biologico e del danno morale.
Quanto ai mezzi di prova, per i pregiudizi non patrimoniali diversi dal danno biologico, sempre comunque
necessariamente oggetto di prova (in quanto risarcibili nella prospettiva di danni-conseguenza), viene
indicato il possibile ampio ricorso alla "prova testimoniale, documentale e presuntiva.
Si tenga, infine, presente come la risarcibilità del danno non patrimoniale venga ampiamente ammessa
anche a favore agli enti.

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