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138. Gli elementi della fattispecie ex art. 2047 c.c. – 139. I sorveglianti.

– 140. Gli infermi di mente. – 141. I minori d’età. – 142. La prova


2 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

liberatoria. – 143. La responsabilità sussidiaria dell’incapace. – 143.1.


L’indennità.

138. Gli elementi della fattispecie ex art. 2047 c.c.


Legislazione: cost. 3 – c.c. 1227, 2043, 2046, 2047, 2048.
Bibliografia: Comporti M. 1965 – Scognamiglio R. 1968 – De Cupis A. 1971 –
Cendon P. 1976 – Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998.

Il primo comma dell’art. 2047 c.c. dispone che in caso di


danno cagionato da persona incapace di intendere o di volere, il
risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza
dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il
fatto.
L’accertamento definitivo dello stato di incapacità
sussistente al momento del fatto dannoso comporta, pertanto,
una pronuncia che statuisce l’irresponsabilità civile dell’agente.
Tuttavia, al fine di non lasciare interamente disattese le istanze
risarcitorie della vittima, l’art. 2047, 1° co., c.c. dispone che del
pregiudizio arrecato debba rispondere – a meno che non provi
di non aver potuto impedire l’evento – la persona che era
tenuta alla sorveglianza dell’incapace (Scognamiglio R. 1968,
673).
La disposizione deriva dagli ultimi commi dell’art. 1153 del
codice civile del 1865 (che a sua volta prendeva le mosse
dell’art. 1384 del codice napoleonico), il quale disponeva
l’obbligo per il padre (ed in sua mancanza per la madre), per i
tutori a risarcire i danni cagionati, rispettivamente, dai figli
minori e dai loro amministrati abitanti con essi, salva la
possibilità di provare di non aver potuto impedire il fatto di cui
avrebbero dovuto essere responsabili. La norma del codice
abrogato si è scissa con la configurazione di una presunzione
legale di responsabilità a carico del sorvegliante per i danni
cagionati dall’incapace (art. 2047, 1° co., c.c.) e di una
corresponsabilità solidale a carico dei genitori, del tutore e
dell’affiliante per il fatto illecito dei figli minori, della persona
sottoposta a tutela e dell’affiliato (art. 2048, 1° e 3° co., c.c.).
3 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

Elementi della fattispecie prevista dall’art. 2047, 1° co., c.c.


– configurante come si è detto una presunzione legale di
responsabilità per danni cagionati dall’incapace – sono
l’attribuzione del danno al fatto dell’incapace, la qualificazione
del sorvegliante quale soggetto di cui si presume la
responsabilità e la prova liberatoria di non aver potuto impedire
il fatto.
La fattispecie comprende pertanto due momenti distinti: il
primo, costituito dall’atto lesivo che è stato posto in essere da
un soggetto incapace; il secondo, dal comportamento del
sorvegliante i quale non abbia agito in modo da scongiurare il
verificarsi del danno (Comporti M. 1965, 56; De Cupis A.
1971, 50).
La dottrina in proposito ha osservato che nel fatto
dell’incapace dovranno comunque essere presenti tutte le
componenti di cui all’art. 2043 c.c. e, in particolare, il requisito
della colpevolezza, sia pure astrattamente valutata, poiché la
protezione della vittima non può essere estesa a quegli eventi
che, per essere il risultato di un’azione incolpevole, sarebbero
destinati a rimanere a suo carico, laddove, a cagionarli fosse
stato un individuo pienamente capace (Cendon P. 1976, 356).
« Per la responsabilità del sorvegliante dell’incapace, è necessario
che il fatto di quest’ultimo, escluso l’elemento psicologico,
presenti tutte le caratteristiche di antigiuridicità, di modo che, se
fosse assistito da dolo o colpa, integrerebbe un fatto illecito »
(Cass. 26.6.2001, n. 8740, FI, 2001, I, 3098).

La giurisprudenza si è ormai definitivamente orientata nel


ravvisare, nella previsione dell’art. 2047, 1° co., c.c., una vera e
propria responsabilità diretta.
« La responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza di
una persona incapace, la quale abbia cagionato danni a terzi, deriva
dall’art. 2047 c.c., che dà luogo ad una responsabilità diretta e
propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per
inosservanza dell’obbligo di custodia, ponendo a carico di essi una
presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova
di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio
della sorveglianza impiegata »
4 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

(Cass. 16.6.2005, n. 12965, GCM, 2005, 6; conf. Cass. 1.6.1994, n.


5306, FI, 1995, I, 1285).

La domanda di risarcimento deve dunque essere rivolta


direttamente contro il soggetto preposto alla sorveglianza
dell’incapace, mentre l’autore materiale del danno può essere
chiamato a rispondere solo per l’eventuale corresponsione
dell’equa indennità prevista dall’art. 2047 c.c.
La diversità dei fatti costitutivi posti a base delle due
domande, comporta che la domanda diretta alla liquidazione
dell’indennità prevista dal secondo comma dell’art. 2047 c.c.,
non può ritenersi implicita nella domanda di risarcimento del
danno proposta contro l’incapace ed il soggetto tenuto alla sua
sorveglianza (Trib. Roma 28.5.1987, RGCT, 1988, 635).
Dal principio che l’incapace non è responsabile per i danni
cagionati con il proprio comportamento, deriva
l’inammissibilità di una ripartizione di responsabilità o del
diritto di regresso fra il sorvegliante e l’incapace medesimo.
La presunzione di responsabilità, inoltre è stabilita a favore
di chi ha subito un danno cagionato dall’incapace e non è
quindi applicabile nel caso in cui lo stesso sia vittima del
danno. In particolare, la responsabilità per i danni che alunni e
studenti delle scuole, pubbliche o private, causano a sé stessi,
nel tempo in cui su di loro dovrebbe esercitarsi la vigilanza del
personale addetto alla scuola, non è una responsabilità da fatto
illecito che trovi disciplina negli artt. 2047 e 2048 c.c. Queste
norme, infatti, regolano il caso del danno cagionato a terzi
dall’incapace e dall’allievo ed imputano la responsabilità ai
soggetti preposti a vigilarne la condotta.
Una parte della giurisprudenza si è orientata nel ritenere che
da tali premesse ne segue che, ipotizzando una responsabilità
per fatto illecito delle persone preposte alla vigilanza,
conseguente al danno che l’incapace o l’allievo procura a sé
stesso per non essere stato adeguatamente sorvegliato, ci si
trova in presenza di una responsabilità regolata dalla norma
generale dettata dall’art. 2043 c.c. (Trib. Reggio Calabria
17.5.2005, inedita).
5 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

Attualmente, tuttavia, la tesi prevalente pare essere quella


per cui, qualora l’incapace venga affidato alle cure di un
sorvegliante, fra i due soggetti si instaura un rapporto giuridico
contrattuale per contatto sociale qualificato in forza del quale il
sorvegliante deve rispondere contrattualmente per i danni che
l’incapace cagioni a se stesso per violazione degli obblighi di
protezione insiti nell’obbligazione contrattuale.
« La norma, che pone una presunzione di responsabilità a carico
del sorvegliante per i danni cagionati dal soggetto sottoposto alla
sorveglianza, suscettiva di essere superata soltanto dalla prova “di
non aver potuto impedire il fatto”, non è infatti applicabile nel caso
di danni che l’incapace abbia causato a se stesso, atteso che la detta
presunzione è stabilita nei confronti di coloro che sono tenuti alla
sorveglianza degli incapaci, i quali cagionino danni, e non trova
pertanto applicazione nell’ipotesi inversa di incapaci i quali siano i
soggetti passivi dell’evento di danno (sent. n. 2012-67; principio
ribadito dalle S.U. con la sentenza n. 9346-02 in relazione alla
alternativa analoga previsione dell’art. 2048, comma 2, c.c.,
concernente la responsabilità dei precettori per il danno
autoprocuratosi dall’allievo minore che, come precisato dalla
sentenza n. 2606-97, sia capace di intendere e di volere).
Ma va ancora precisato che, nel caso di danno arrecato
dall’incapace (nella specie una bambina di tre anni) a se stesso, la
responsabilità del sorvegliante e della struttura nella quale
l’incapace è ammesso (nella specie un asilo nido comunale) va
ricondotta non già nell’ambito della responsabilità
extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., bensì nell’ambito
della responsabilità contrattuale, ai sensi dell’art. 1218 c.c. (in tal
senso, con riferimento all’art. 2048, comma 2, v. S.U. n. 9346-02)
»
(Cass. 18.7.2003, n. 11245, NGCC, 2004, I, 491).

Nel giudizio promosso dal danneggiato in veste di


rappresentante legale dell’incapace, l’eventuale partecipazione
colposa del vicario non assume alcuna rilevanza.
« Se il genitore agisce per il risarcimento del danno subito dal
figlio incapace di intendere o volere in rappresentanza di questi e
non in proprio, il responsabile non può eccepirgli il concorso di
colpa per non averlo sorvegliato (art. 2047 c.c.), perché comunque
6 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

il danneggiato ha diritto all’intero risarcimento da ciascuno dei


corresponsabili in solido (art. 2055 c.c.) »
(Cass. 24.5.1997, n. 4633, GCM, 1997, 834).

Soltanto se la condotta dell’incapace di intendere o volere,


stante l’applicabilità anche in tal caso dell’art. 1227, 1° co.,
c.c., ha contribuito a cagionare il danno dal medesimo subito, il
responsabile che deve risarcirlo può eccepire il concorso di
colpa del soggetto obbligato alla sorveglianza di quegli ex art.
2047 c.c..
La prevalente giurisprudenza ha infatti affermato che la
norma di cui all’art. 1227, 1° co., c.c. trova applicazione anche
nel caso in cui il danneggiato sia un soggetto incapace. Invero,
l’art. 2046 c.c. esclude la responsabilità civile del soggetto che
ha contribuito a provocare il fatto dannoso in stato di incapacità
di intendere e di volere, ma non priva di rilevanza giuridica il
contributo causale della condotta di tale soggetto nella
produzione dell’evento. In altri termini, nell’espressione « fatto
colposo » di cui all’art. 1227, 1° co., c.c. deve considerarsi
ricompreso ogni comportamento del danneggiato
obiettivamente imprudente e tale da giustificare l’astratta
attribuzione di un giudizio di colpa, indipendentemente dalla
imputabilità in concreto del danneggiato stesso (Cass.
29.4.1993, n. 5024, GCM, 1993, 781). Siffatto orientamento
trova la giustificazione essenziale nel rilievo e nel fatto
dell’incapace siano presenti tutti gli elementi richiesti dall’art.
2043 c.c. perché possa configurarsi un fatto illecito produttivo
di responsabilità, e quindi anche il requisito della colpevolezza.
Sarebbe infatti aberrante che la tutela del danneggiato venisse,
per effetto dell’art. 2047 c.c., estesa a quegli eventi i quali,
essendo conseguenti a una condotta incolpevole, dovrebbero
restare a suo carico se a cagionarli fosse un soggetto capace di
intendere e di volere. Siffatta interpretazione dell’art. 2047 c.c.
è stata peraltro recepita e ritenuta costituzionalmente legittima,
sotto il profilo dell’art. 3 della Costituzione, dalla sentenza
della Corte Costituzionale n. 14/1985 (Corte cost. ord.
23.1.1985, n. 14, GC, 1985, I, 42).
7 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

Riguardo alle situazioni incerte dal punto di vista


probatorio, la questione principale che si pone è quella di
scegliere tra la soluzione che pone a carico del sorvegliante
l’onere di provare che il fatto dell’incapace non debba ritenersi
causale nella produzione del danno per l’intervento di una
causa estranea all’incapace ed idonea da sola a cagionare il
danno e quella per cui, invece, si debba ritenere che incomba
sul danneggiato l’onere di dimostrare l’ingiustizia del fatto
dell’incapace.
Alla prima soluzione si perviene ove si ritenga che il
legislatore, nel dettare le presunzioni legali di responsabilità
per danni cagionati da fatti naturali (tra i quali secondo la
dottrina dovrebbe essere compreso il fatto dell’incapace), abbia
seguito un criterio uniforme, di modo che, così come per i
danni cagionati dalla circolazione del veicolo si richiede
soltanto che il fatto materiale della circolazione sia stato un
antecedente necessario del danno e non si richiede da parte de
danneggiato la prova delle modalità dell’incidente ma soltanto
la prova dell’urto, anche per i danni cagionati dall’incapace
l’incertezza sulle modalità dell’evento dovrebbe ricadere sul
sorvegliante; pertanto, affinché sorga la presunzione a carico di
questi, sarebbe sufficiente che il fatto dell’incapace rappresenti
un antecedente materiale necessario per le produzione del
danno.
Alla seconda soluzione, invece, si accede dando preminenza
all’argomento letterale della norma per quanto concerne la
prova liberatoria, ammettendo conseguentemente che
l’incertezza posta a carico del soggetto del quale si presume la
responsabilità è la possibilità di impedire il fatto.
D’altra parte, sempre seguendo un’argomentazione letterale,
se viene dato rilievo alla circostanza che il legislatore si
riferisce al mero fatto e non al fatto colposo dell’incapace,
sarebbe a carico del sorvegliante l’onere di dimostrare che il
fatto dell’incapace non è colposo; tuttavia, tale rilievo contrasta
con l’orientamento prevalente secondo cui, come si è visto, il
fatto dell’incapace deve presentare tutte le componenti
dell’illecito aquiliano, ivi compreso il requisito della
8 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

colpevolezza astrattamente valutata, pena il paradosso di


imputare ad un soggetto fatti che, se commessi da un individuo
capace, sarebbero rimasi a carico del danneggiato.
È da rimarcare, infine, come la giurisprudenza abbia
affermato che ai fini della responsabilità di cui all’art. 2047
c.c., per il danneggiato è sufficiente dimostrare che l’incapace
di intendere o volere ha cagionato il fatto dannoso al di fuori
della sfera di sorveglianza del soggetto ad essa obbligato,
mentre incombe su questo dimostrare che tale fatto si sarebbe
comunque verificato anche se la sorveglianza fosse stata
esercitata, e quindi che non vi è nesso di causalità tra
l’omissione di essa e il fatto dannoso (Cass. 19.6.1997, n. 5485,
GCM, 1997, 1014).

139. I sorveglianti.
Legislazione: c.c. 1227, 2043, 2046, 2047 – l. 13.5.1978, n. 180, accertamenti e
trattamenti sanitari volontari e obbligatori.
Bibliografia: Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998.

Il soggetto individuato dal primo comma dell’art. 2047 c.c.


come titolare dell’obbligo di sorveglianza è colui il quale sia
stato affidato l’incapace in base alla legge o ad altro titolo.
Il dovere di sorveglianza di un incapace, quale fonte di
responsabilità per il danno cagionato dall’incapace medesimo,
ai sensi della norma in esame, può essere l’effetto non soltanto
di un vincolo giuridico, ma anche di una scelta liberamente
compiuta da un soggetto, il quale, accogliendo l’incapace nella
sua sfera personale e familiare, assuma spontaneamente il
compito di prevenire od impedire che il comportamento di
questo possa arrecare ad altri nocumento.
In accoglimento di tali principi, la giurisprudenza ha
ritenuto, ad esempio, correttamente applicata la citata norma
nei confronti dei genitori di un soggetto maggiorenne
riconosciuto, in sede penale, totalmente incapace di intendere e
di volere (Cass. 1.6.1994, n. 5306, GCM, 1994, 6); oppure, con
riguardo al danno cagionato da un bambino di quattro anni a
carico del marito della madre del minore, il quale, pur non
9 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

avendolo riconosciuto, conviveva con lui e con la moglie,


formando un unico nucleo familiare (Cass. 12.5.1981, n. 3142,
GCM, 1980, 5).
Qualora, poi, l’incapace venga affidato alle cure di un
sorvegliante, fra i due soggetti si instaura un rapporto giuridico
contrattuale per contatto sociale qualificato in forza del quale il
sorvegliante deve rispondere contrattualmente per i danni che
l’incapace cagioni a se stesso per violazione degli obblighi di
protezione insiti nell’obbligazione contrattuale (Cass.
18.7.2003, n. 11245, NGCC, 2004, I, 491).
Sul danneggiato incombe l’onere di provare il presupposto
applicativo della norma in merito all’identificazione della
persona tenuta alla sorveglianza; peraltro, è sufficiente che sia
dimostrato da parte del danneggiato un fatto normalmente
idoneo a produrre l’obbligo di sorveglianza, come ad esempio
la qualità di genitore dell’incapace minore d’età, ribaltandosi
sul sorvegliante la dimostrazione di non aver rivestito tale
qualità al momento del fatto.
L’identificazione del soggetto tenuto all’obbligo di
sorveglianza è invece più complessa nel caso di affidamento
dell’incapace a persone estranee alla famiglia. Deve in ogni
caso premettersi che deve trattarsi di un affidamento di una
persona incapace, poiché altrimenti non può essere invocata la
norma in esame, sebbene la persona affidata non sia ancora del
tutto matura.
« La responsabilità del genitore, per il danno cagionato da fatto
illecito del figlio minore, trova fondamento, a seconda che il
minore sia o meno capace di intendere e volere al momento del
fatto, rispettivamente nell’art. 2048 c.c., in relazione ad una
presunzione iuris tantum di difetto di educazione ovvero nell’art.
2047 c.c., in relazione ad una presunzione iuris tantum di difetto di
sorveglianza e di vigilanza. Le indicate ipotesi di responsabilità
presunta pertanto, sono alternative - e non concorrenti - tra loro, in
dipendenza dell’accertamento, in concreto, dell’esistenza di quella
capacità »
(Cass. 25.3.1997, n. 2606, GCM, 1997, 452).
10 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Nel periodo in cui era ancora in vigore la legge n. 36/1904,


la giurisprudenza aveva ammesso che gli infermieri
dell’ospedale psichiatrico rivestissero la qualità di sorveglianti
nei confronti degli infermi ricoverati (App. Cagliari
24.12.1959, RGI, 1960, 168). Con l’entrata in vigore della l. n.
180/1978, si è affermato che nei confronti di persona ospite di
reparto psichiatrico, non interdetta né sottoposta a trattamento
sanitario obbligatorio ai sensi della predetta legge, la
configurabilità di un dovere di sorveglianza a carico del
personale sanitario addetto al reparto e della conseguente
responsabilità risarcitoria ai sensi dell’art. 2047, 1° co., c.c. per
i danni cagionati dal ricoverato, presuppone la prova concreta
della incapacità di intendere e di volere di questi, costituendo
principio regolatore della materia della responsabilità civile
che, salvi casi eccezionali, si risponda solo per l’omessa
sorveglianza di un soggetto incapace (Cass. 29.3.1997, n. 2483,
GI, 1998, 23).
Quanto agli insegnanti, il dovere di vigilare sul minore
nasce nel momento stesso in cui il bambino viene affidato
all’istituto scolastico (Cass.5.9.1986, n. 5424, NGCC, 1987,
493). Tale compito deve essere assolto non solo nel periodo di
permanenza in aula, ma anche nel corso di una gita scolastica
(App. Bologna 30.10.1983, RGS, 1984, 369), nonché durante il
trasporto a casa, a mezzo di un autobus (Trib. Isernia
22.4.1983, RGS, 1983, 1401).
In altre occasioni può essere ritenuto sufficiente
un’assunzione meramente fattuale della sorveglianza, come nel
caso già visto del marito di una donna già madre di un bambino
di quattro anni (Cass. 12.5.1981, n. 3142, GCM, 1980, 5),
oppure in quello, analizzato da una datata sentenza citata in
numerosi testi di responsabilità civile, in cui un soggetto abbia
accettato l’incarico, sia pure temporaneo e occasionale, di
vigilare l’incapace (App. L’Aquila 10.3.1955, RGUA, 1955,
148).
In ogni caso, deve sempre essere tenuto presente il carattere
eccezionale del dovere di sorveglianza sull’incapace, il quale fa
carico a determinati soggetti soltanto in ragione di particolari
11 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

relazioni personali intrattenute con l’incapace, dell’attività


professionale che essi svolgono o dell’incarico che, nel omento
in cui viene posto in essere la condotta lesiva, stavano
assolvendo.
In merito al contenuto dell’obbligo di vigilanza, la
giurisprudenza ritiene che esso non possa essere
predeterminato in assoluto, ma debba essere valutato
relativamente all’età e al grado di maturità del soggetto affidato
(Cass. 15.12.1980, n. 6503, GCM, 1980, 12). L’ampiezza
dell’obbligo di sorveglianza dei soggetti incapaci di intendere o
volere è da rapportare alle circostanze di tempo, luogo,
ambiente, pericolo, che, considerando altresì la natura e il
grado di incapacità del soggetto sorvegliato, possono
consentire o facilitare il compimento di atti lesivi da parte del
medesimo (Cass. 24.5.1997, n. 4633, GCM, 1997, 834).
Peraltro, l’obbligo di sorveglianza non è escluso e neppure
attenuato dalle abitudini sociali del tempo e del luogo (Cass.
19.6.1997, n. 5485, GCM, 1997, 1014).

140. Gli infermi di mente.


Legislazione: c.c. 1227, 2043, 2046, 2047 – l. 13.5.1978, n. 180, accertamenti e
trattamenti sanitari volontari e obbligatori.
Bibliografia: Cattaneo G. 1958 – Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998 – Cendon P.
2003. – Sella M. 2005

Durante il periodo di vigenza della l. n. 36/1904 – che


assegnava allo psichiatra funzioni di custodia, prima ancora che
di cura, nei confronti dei soggetti ricoverati in manicomio – era
sufficiente dimostrare la mancata od inidonea predisposizione
delle misure di sorveglianza, per affermare in capo al medio
curante od al direttore dell’ospedale, in difetto di prova
liberatoria, una pronuncia di responsabilità ex art. 2047, 1° co.,
c.c.
Con l’entrata in vigore della l. n. 180/1978, si è invece
ripudiata l’ottica dell’ospedalizzazione basata sulla presunzione
di pericolosità sociale del malato di mente ed organizzata
essenzialmente in difesa della società. Il trattamento mentale è
12 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

rimesso alla libera scelta dell’infermo, mentre il trattamento


coattivo in condizioni di degenza ospedaliera – fatte salve le
ipotesi in cui il paziente abbia accettato volontariamente le
limitazioni di libertà che gli vengono proposte, come opportune
ed utili al fine della guarigione – è ammesso soltanto in casi
eccezionali, rappresentati dagli episodi di eccessi o di crisi, ed
in presenza di determinati presupposti.
La nuova legge ha poi abrogato le norme che punivano il
medico per mancata custodia od omessa denuncia
dell’avvenuto ricovero o della dimissione del malato di mente;
eliminando in tal modo i presupposti normativi per il
riconoscimento, a carico del personale medico, di un preciso
obbligo di sorveglianza sugli infermi di mente sottoposti a
terapia.
Non per questo, la legge non consente di ipotizzare doveri di
sorveglianza a carico di coloro i quali stringano rapporti
terapeutici particolarmente qualificati con un infermo di mente.
La giurisprudenza ritiene che nei confronti di persona ospite
di reparto psichiatrico, non interdetta né sottoposta a
trattamento sanitario obbligatorio ai sensi della l. 13 maggio
1978 n. 180, la configurabilità di un dovere di sorveglianza a
carico del personale sanitario addetto al reparto e della
conseguente responsabilità risarcitoria ai sensi dell’art. 2047,
1° co., c.c. per i danni cagionati dal ricoverato presuppone
soltanto la prova concreta della incapacità di intendere e di
volere del medesimo (Cass. 16.6.2005, n. 12965, GCM, 2005,
6).
« L’art. 2047 c.c. non presuppone un controllo assoluto da parte dei
soggetti tenuti alla sorveglianza nei confronti di chi a questa è
soggetto. Tuttavia l’art. 2047 (anche in seguito all’introduzione
della legge n. 180 del 1978, che ha determinato l’abbandono della
concezione “custodialistica” sugli incapaci caratteristica della
legislazione manicomiale) consente di configurare a carico dei
servizi psichiatrici doveri con contenuto di sorveglianza in maniera
da garantire un giusto equilibrio tra la libertà di movimento e di
esplicazione della personalità dei soggetti sottoposti a controllo e la
necessaria tutela dei terzi. Pertanto la Usl che non abbia svolto
alcuna seria e meditata azione preventiva di cura e sorveglianza nei
13 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

confronti di un infermo psichico, adeguata ad evitare il


compimento di un illecito da parte di quest’ultimo, la cui
pericolosità fosse già ampiamente dimostrata, è tenuta al
risarcimento dei danni patrimoniali e morali »
(Trib. Trieste 23.11.1990, NGCC, 1993, I, 986).

I limiti di un orientamento troppo restrittivo, possono


portare tuttavia al rischio di una reviviscenza del «
custodialismo » anteriore alla legge n. 180/1978, con i servizi
psichiatrici indotti a porre in essere restrizioni finalizzate più
alla tutela propria che a quella del paziente, oppure (ed il danno
finale sarebbe parimenti grave) a rifiutare le cure di pazienti
che potrebbero essere considerati « a rischio » (anche in questo
caso più per sé stessi che per il malato psichico).
« Dal rapporto instaurato tra una struttura sanitaria ed un soggetto
legalmente capace, ma di concreta e nota incapacità naturale,
deriva il dovere, a carico della prima, di continua sorveglianza
onde evitare che l’incapace naturale possa arrecare danno a terzi.
Ne consegue che, qualora detto incapace cagioni un danno, la
struttura sanitaria ne dovrà rispondere, salvo che non fornisca la
prova liberatoria posta a suo carico dall’art. 2047 c.c. »
(Trib. Monza 4.7.1996, GC, 1997, I, 541).

Appare dunque più corretto l’indirizzo restrittivo assunto da


alcuna giurisprudenza di merito.
« Qualora un ricoverato in ospedale psichiatrico, non capace di
intendere o di volere, cagioni danno ad altro internato, risponde del
risarcimento di esso il soggetto preposto alla sorveglianza
dell’incapace, in ragione del suo ufficio e a titolo di responsabilità
per fatto altrui, anche instando carenze di natura strumentali,
organizzative, compresa la inadeguatezza numerica del personale
di vigilanza, salvo che provi di non aver potuto impedire l’evento »
(App. Roma 20.10.2003, AC, 2004, 1175).

« Sussiste responsabilità della U.s.l., ai sensi dell’art. 2047 c.c., per


i danni cagionati a terzi da un infermo di mente, seguito dai servizi
psichiatrici con formula di trattamento volontario ai sensi dell’art.
34 legge n. 833/1978, solo nell’ipotesi in cui siano provate
specifiche carenze di ordine assistenziale »
(App. Trieste 22.9.2001, SI, 2002, 1018).
14 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Responsabilità ex art. 2047 c.c. sì, dunque, ma circoscritta


entro gli ambiti degli obblighi di sorveglianza imposti dalle
leggi vigenti e dei conseguenti poteri attribuiti ai sanitari. La
responsabilità di questi, peraltro, si accompagna a quella
vicaria dei sevizi psichiatrici, tenuti al risarcimento sia in virtù
del loro inadempimento per fatto degli ausiliari (art. 1228 c.c.)
sia quale committente del medico (art. 2049 c.c.) sia, nel caso
di ente pubblico, sulla base del rapporto organico (art. 28
Cost.).
In dottrina ci si è posti altresì il problema della
responsabilità della Pubblica Amministrazione per omissioni
riguardanti doveri specifici suoi propri. Da un lato, infatti, lo
Stato non può farsi carico di ogni situazione di rischio
esistente, mentre dall’altro, esistono a carico dello stesso
obblighi «minimali» che, ove violati, non possono non
comportare profili di responsabilità.
« Il punto di equilibrio andrà cercato in un assetto corrispondente
ad un modulo minimale di Servizi: comprendente, cioè, quelle
situazioni di bisogno assistenziale/terapeutico in cui
considerevolmente alto si presenti il pericolo di danni ad opera
dell’utente (…).
Proprio con riguardo all’ipotesi qui considerata (lesione arrecata a
terzi da un malato di mente), la prospettiva di una soluzione non
sbilanciata sull’uno o sull’altro dei due versanti è stata affermata,
in maniera esplicita, dalla nostra giurisprudenza. E ci si vuol
riferire al caso in cui la Cassazione ha ritenuto responsabile
l’Amministrazione provinciale la quale, nell’organizzare i sevizi di
una casa di cura, figurava aver predisposto per l’assistenza dei
malati stessi un numero di infermieri di gran lunga inferiore a
quello necessario – col risultato che non era riuscito, poi, a
difendersi dall’assalto inopinato di uno degli infermi qualcuno che,
in presenza di un organico più consistente di personale, non
avrebbe invece corso alcun rischio »
(Cendon P. 2003, V, 5084).

La medesima dottrina ha sollevato il problema


dell’imputabilità in capo alla Pubblica Amministrazione di
quelle condotte poste in essere dal sanitario che non possano
essere ritenute connotate da colpa, come ad esempio la scelta
15 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

consapevole e ponderata di attuare un trattamento di tipo


liberatorio ritenuto maggiormente idoneo rispetto a quello
farmacologico e costrittorio che condurrebbe ad un
aggravamento delle condizioni del paziente, ma che hanno
causato danni a terzi.
La scelta in senso affermativo (criticata da Cattaneo G.
1958, 233), porterebbe indiscutibili vantaggi in ambito
terapeutico ma trova molto probabilmente un limite
invalicabile nei principi contenuti nell’ordinamento vigente in
tema di responsabilità della Pubblica Amministrazione; il ché
non esclude, peraltro, l’adozione di soluzioni legislative
analoghe ad altre già assunte in altre materie.

141. I minori di età.


Legislazione: c.c. 1227, 2043, 2046, 2048.
Bibliografia: Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998.

La responsabilità per i danni cagionati da un minore, trova


fondamento giuridico a seconda che il medesimo al momento
del fatto fosse o meno incapace di intendere o di volere,
rispettivamente, nel disposto dell’art. 2047 c.c. ovvero in
quello dell’art. 2048 c.c. (Cass. 25.3.1997, n. 2606, GCM,
1997, 452).
Non mancano in giurisprudenza pronunce in cui l’art. 2048
c.c. è stato applicato nei confronti del maestro, per i danni
cagionati da un bambino la cui età molto giovane avrebbe
dovuto indurre a ritenere che lo stesso fosse incapace (Cass.
20.9.1979, n. 4835, GCM, 1979, 9). Peraltro, si è già visto
parlando dell’imputabilità, che ai fini della responsabilità civile
ex art. 2047 c.c. per danni cagionati da persone incapaci di
intendere e volere, il giudice non può limitarsi a tenere presente
l’età dell’autore del fatto, ancorché si tratti di minore degli anni
quattordici.
« In tema di imputabilità del fatto dannoso (artt. 2046 e 2047 c.c.)
opera un sistema autonomo rispetto a quello previsto dal legislatore
in tema di imputabilità del reato.
16 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

In campo penale è infatti la legge stessa che fissa le cause che


escludono l’imputabilità, mentre nel campo civile compete al
giudice accertare se, in base al vizio di mente, all’età immatura o
ad altra causa, esuli in concreto la capacità di in tendere e volere.
Quindi la sola circostanza che l’autore del fatto illecito abbia meno
di quattordici anni, non comporta che detto soggetto sia un
incapace di intendere e volere.
In particolare, ai fini della responsabilità civile per danni cagionati
da persona incapace di intendere e di volere (art. 2047 c.c.), al fine
di accertare se un minore sia incapace di intendere e volere, il
giudice non può limitarsi a tener presente l’età dello stesso e le
modalità del fatto, ma deve anche considerare lo sviluppo
intellettivo del soggetto, quello fisico, l’assenza (eventuale) di
malattie ritardanti, la forza del carattere, la capacità del minore di
rendersi conto dell’illiceità della sua azione, la capacità del volere
con riferimento all’attitudine ad autodeterminarsi. L’art. 2047 c.c.,
sulla responsabilità per danni cagionati da persona incapace, nel
riferirsi alla capacità di intendere e di volere, non enuncia i criteri
in base ai quali il relativo accertamento deve essere compiuto, ma
affida al giudice di compiere il relativo accertamento alla stregua
dei criteri tratti dalla comune esperienza e dalle nozioni della
scienza.
Nella fattispecie la sentenza impugnata non ha mai ritenuto che il
ragazzo antagonista della ricorrente fosse un incapace di intendere
e di volere, per cui fosse applicabile necessariamente la disciplina
di cui all’art. 2047 c.c., ma ha sempre qualificato lo stesso solo
come minore.
Né, come si è detto, la sola età di dodicenne ne faceva
pacificamente un incapace.
Anzi deve rilevarsi come nella giurisprudenza di legittimità si è
ritenuto che la responsabilità degli insegnanti della scuola
elementare per atti illeciti compiuti dagli allievi, rientrasse
nell’ambito della disciplina prevista dall’art. 2048 c.c..
Ne consegue, anzitutto, che la ricorrente, per potere invocare la
violazione dell’art. 2047 c.c., avrebbe dovuto assumere che il
giudice di merito aveva accertato (ovvero che erroneamente non
aveva accertato) che il ragazzo antagonista era un incapace di
intendere e volere, nei termini sopra detti.
Se il minore predetto era, invece, capace di intendere e volere la
fattispecie non rientrava nell’ambito dell’art. 2047 c.c., bensì in
quello di cui all’art. 2048 c.c. »
(Cass. 26.6.2001, n. 8740, GC, 2002, I, 710).
17 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

La diversità del fondamento normativo incide anche sul


contenuto della prova liberatoria, aldilà dell’identità della
formula utilizzata dal legislatore. In base all’art. 2047 c.c.,
infatti, i sorveglianti non sono tenuti a risarcire il anno arrecato
dall’incapace, ove dimostrino di non aver materialmente potuto
impedire l’evento; in base all’art. 2048 c.c., invece, non è
sufficiente, per andare esenti da responsabilità, che i genitori od
ili tutore provino di aver svolto una diligenze vigilanza, ma
devono altresì dimostrare di aver impartito al minore
un’educazione che appaia idonea a prevenire la condotta lesiva
di quest’ultimo (Cass. 11.4.1986, n. 2549, GCM, 1986, 4).

142. La prova liberatoria.


Legislazione: c.c. 2043, 2046, 2047.
Bibliografia: Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998.

La legge concede espressamente al sorvegliante la prova


liberatoria di non aver potuto impedire il fatto.
« La responsabilità civile del soggetto tenuto alla sorveglianza di
una persona incapace, la quale abbia cagionato danni a terzi, deriva
dall’art. 2047 c.c., che dà luogo ad una responsabilità diretta e
propria di coloro che sono tenuti alla sorveglianza, per
inosservanza dell’obbligo di custodia, ponendo a carico di essi una
presunzione di responsabilità, che può essere vinta solo dalla prova
di non aver potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio
della sorveglianza impiegata »
(Cass. 16.6.2005, n. 12965, GCM, 2005, 6).

La prova liberatoria ha per contenuto l’assenza di colpa


nella sorveglianza materiale; il sorvegliante, presunto in colpa
per la produzione del danno, deve provare che lo stesso non è
attribuibile al fatto della omessa o incompleta sorveglianza.
Detta prova è particolarmente rigorosa, dovendo egli provare di
non aver potuto impedire il fatto e quindi dimostrare un fatto
impeditivo assoluto (Cass. 20.1.2005, n. 1148, GCM, 2005, 1).
In altre parole, occorre che il sorvegliante provi di non aver
creato o lasciato permanere – tenuto conto della natura e del
18 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

grado di incapacità del soggetto vigilato, nonché di tutto il


contorno esteriore – situazioni di pericolo tali da permettere o
da agevolare il compimento degli atti lesivi.
« L’accertamento in sede penale della mancanza di prova della
colpa dei soggetti tenuti alla sorveglianza dell’incapace non
comporta il superamento della presunzione di colpa su di essi
gravante ai sensi dell’art. 2047 c.c., né costituisce prova del caso
fortuito »
(Cass. 12.12.2003, n. 19060, GCM, 2003, 12).

È opportuno sottolineare, peraltro, come il dovere di


vigilanza deve essere contemperato dall’esigenza di non
privare i bambini di quel minimo di libertà necessario allo
stesso sviluppo fisico e psichico. La prova liberatoria può
quindi considerarsi raggiunta quando si sia adempiuto al
dovere di una normale vigilanza.
In altre parole, i danni cagionati dai bambini nella necessaria
libertà che si deve loro lasciare non possono addebitarsi a colpa
nella sorveglianza.
« Ai fini della prova liberatoria per il comportamento illecito tenuto
dal minore, i genitori devono dimostrare di avergli impartito una
educazione conforme alle sue condizioni familiari e sociali ed una
vigilanza adeguata all’età, al carattere, ai costumi ed alla maturità
del figlio. Pertanto il tema probatorio che verta su circostanze
generiche ed indonee ad integrare la prova liberatoria alla luce
della evidente carenza del minore, resa palese dalle stesse modalità
del fatto, dei fondamentali principi in punto di rispetto dell’altrui
incolumità, non esclude la loro responsabilità. (Nel caso di specie
un ragazzo che si era intriso accidentalmente gli abiti di benzina
rimaneva ustionato al volto per una scintilla sprigionata da un
accendino acceso imprudentemente da un minore in sua
compagnia) »
(Cass. 10.7.1998, n. 6741, RCP, 1999, 107).

Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che le abitudini «


sociali » del tempo o del luogo - nella specie lasciar giocare
minori incapaci di intendere o volere senza sorveglianza
continua - non costituiscono circostanze idonee né ad escludere
19 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

né ad attenuare il relativo obbligo, ai fini e per gli effetti di cui


all’art. 2047 c.c. (Cass. 19.6.1997, n. 5485, GCM, 1997, 1014).
Qualora invece si tratti di soggetti affetti da incapacità tale
da consigliarne un costante ed ininterrotto controllo, quali ad
esempio soggetti maggiorenni il cui stato di incapacità totale di
intendere e di volere sia stata clinicamente accertata, il soggetto
tenuto alla sorveglianza vedrà ridursi notevolmente i margini di
possibilità di fornire la prova liberatoria.
« Il ritrovamento di un residuato bellico, usato come giocattolo da
ragazzi incapaci, non costituisce fatto eccezionale e imprevedibile
tale da escludere la responsabilità dei genitori addetti alla
sorveglianza ai sensi dell’art. 2047 c.c. dovendo la sorveglianza
dell’incapace essere costante ed ininterrotta e non saltuaria e a
distanza »
(Cass. 12.12.2003, n. 19060, GI, 2004, 2310).

Le ragioni di lavoro o di legittima assenza non costituiscono


motivo di esclusione della responsabilità se non sotto l’aspetto
della carenza del presupposto dell’obbligo di sorveglianza; se
non si è provveduto ad affidare ad altri la sorveglianza
dell’incapace, l’obbligo permane in capo al sorvegliante
principale e la sua lontananza dal luogo del fatto non
costituisce legittimo impedimento. La prova di aver provveduto
a che altri rimanesse a sorvegliare l’incapace incombe a colui
che normalmente ne è il sorvegliante.
Non rientrano dunque in ipotesi di legittimo impedimento
quelle in cui l’insegnante abbia abbandonato l’aula senza
provvedere ad un’adeguata sostituzione per la vigilanza degli
alunni: costui sarà responsabile dei danni realizzati dalla
scolaresca nel periodo di assenza. Neppure andrà esente da
responsabilità colui che affidi un minore colto da malore ad un
altro soggetto minorenne non essendo riuscito a reperire una
persona adulta o affidabile (App. 14.11.1998, TR, 1988, II,
411).
Deve però essere precisato che la responsabilità va esclusa
nei casi in cui il sorvegliante si sia allontanato per adempiere
ad un diverso dovere.
20 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

« Non può essere ritenuto responsabile del danno subito da un


allievo l’insegnante assentatosi per adempiere ad un altro suo
dovere. Le attività parascolastiche di assistenza, in mancanza di
specifiche norme regolatrici e di assunzione diretta della loro
gestione da parte di altri enti, ove si svolgano nell’ambito dei locali
di una scuola statale rientrano nella competenza organizzativa della
direzione dell’istituto stesso con assunzione della correlativa
responsabilità per eventi dannosi derivanti agli allievi da deficienze
organizzative »
(Cass. 20.9.1979, n. 4835, RCP, 1980, 534).

Neppure può essere considerato responsabile il sorvegliante


che sia allontanato qualora l’azione dannosa dell’incapace sia
così improvvisa e subitanea da non poter essere evitata neppure
in presenza del soggetto affidatario.

143. La responsabilità sussidiaria dell’incapace.


Legislazione: c.c. 1227, 2043, 2045, 2046, 2047.
Bibliografia: Comporti M. 1965 – Trimarchi P. 1970 – Salvi C. 1998 – Visintini G.
1998 – Cendon P. 2003.

Il secondo comma dell’art. 2047 c.c. prevede la possibilità


per il giudice, nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto
ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, di
condannare l’autore del danno ad un’equa indennità, in
considerazione delle condizioni economiche delle parti.
La condanna dell’incapace ha dunque natura sussidiaria, nel
senso che la vittima può richiedere la corresponsione
dell’indennità solo nel caso in cui sia già stata infruttuosamente
esperita l’azione contro la persona tenuta alla sorveglianza,
come nel caso in cui il sorvegliante sia insolvibile oppure sia
riuscito a fornire la prova liberatoria.
« L’azione di cui all’art. 2047, comma 2, c.c., non può essere
proposta in difetto del previo esperimento dell’azione regolata dal
2047, comma 1, c.c., potendo il giudice prendere in considerazione
la domanda volta ad ottenere la condanna dell’autore del danno,
riconosciuto incapace, ad una equa indennità, solo se sia rimasta
senza esito la domanda volta ad ottenere il risarcimento diretta nei
confronti di chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace »
21 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

(Trib. Orvieto 22.2.2001, RGU, 2001, 38).

Più discussa invece l’applicabilità dell’art. 2047, 2° co., c.c.


nel caso i cui manchi del tutto un obbligato in via principale.
La giurisprudenza è sostanzialmente in senso favorevole (Cass.
12.11.1979, n. 5851, FI, 1979, II, 602; Trib. Reggio Emila
18.11.1989, NGCC, 1990, I, 549; Trib. Brindisi 5.10.1989, FI,
1990, II, 273; contra Trib. Perugia 30.10.1995, RGU, 1996,
89).
L’autonomia dei requisiti della colpa e dell’imputabilità
induce a ritenere non corretta la tesi secondo la quale la
responsabilità dell’incapace ex art. 2047, 2° co., c.c.
configurerebbe un’ipotesi eccezionale di responsabilità
oggettiva (Comporti M. 1965, 237; Trimarchi P. 1970, 110),
ispirata a favore della vittima del danno, pur con la
precisazione circa la necessità che nel fatto dell’incapace siano
presenti tutte le componenti esteriori di cui all’art. 2043 c.c. La
dottrina ha chiarito, infatti, che le deroghe al regime ordinario
non risiedono nella natura oggettiva di tale responsabilità – la
quale presuppone la valutazione del comportamento in termini
di colpevolezza – ma consistono, in primo luogo, nel suo
carattere sussidiario (in quanto la responsabilità dell’incapace è
subordinata alla circostanza che il danneggiato non abbia
potuto ottenere il risarcimento dal sorvegliante) e, in secondo
luogo, nell’esigenza di una valutazione ulteriore del giudice,
attinente alle condizioni economiche delle parti (Salvi C. 1998,
157).
La giurisprudenza, inoltre, ha affermato che la domanda
diretta alla liquidazione dell’indennità prevista dall’art. 2047
c.c., a differenza di quella riguardante l’indennità di cui all’art.
2045 c.c., non può ritenersi implicita nella domanda di
risarcimento del danno proposta contro il soggetto tenuto alla
sua sorveglianza, stante la diversità dei fatti costitutivi posti a
base delle due domande (Trib. Roma 28.5.1987, RGCT, 1988,
635).
La casistica giurisprudenziale mostra peraltro come il
ricorso alla disposizione contenuta nel secondo comma dell’art.
22 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

2047 c.c. è stato indubbiamente ridotto sino ad oggi. Le


ragione possono essere molteplici: l’onere di dover agire in via
principale contro il sorvegliante (con il rischio di sobbarcasi le
spese di un primo giudizio che poi non dia l’esito sperato, vuoi
perché il vicario fornisce la prova liberatoria, vuoi perché
risulta insolvibile ecc…), una sorta di tendenziale favore dei
giudici nei confronti di soggetti incapaci, le condizioni
economiche tutt’altro che floride in cui versano solitamente
soggetti infermi di mente e così via.
In dottrina si è da alcuno auspicata l’introduzione di
un’assicurazione obbligatoria (o di una sorta di fondo nazionale
di garanzia sulla falsariga di quelli già esistenti) a carico del
malato che sia oggetto di qualche forma di protezione e, in
generale, per i soggetti affetti da disturbi psichici, anche se non
protetti (il riferimento dal fondo di garanzia viene fatto in
particolare riferimento a queste ultime ipotesi) (Cendon P.
2003, 5084).
Altra dottrina, tuttavia, si è posta in proposito interrogativi
legati da un lato alla scarsa casistica di tale tipologia di
incidenti (tale da giustificare l’obbligatorietà di una copertura
assicurativa a carico del sorvegliante) e dall’altro sull’adozione
delle tecniche assicurative appropriate e sui relativi costi
(Visintini G. 1998, 602).

143.1. L’indennità.
Legislazione: c.c. 1227, 2043, 2046, 2047.
Bibliografia: Cannizzaro A. 1990 – Salvi C. 1998 – Visintini G. 1998.

L’equo indennizzo previsto dall’art. 2047 c.c., pur potendo


in astratto corrispondere all’integrale ristoro del danno inferto,
dipende, sia nell’an, sia nel quantum, da una valutazione
comparativa delle condizioni economiche delle parti, tale
previsione essendo non già correlata ad un atteggiamento
colposo dell’autore del danno, ma dettata dall’ordinamento al
fine di soddisfare l’esigenza di riparazione della persona
danneggiata, in base a principi di solidarietà sociale che
coinvolgono lo stesso soggetto leso, sul quale il danno finisce
23 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

sovente per gravare, almeno in parte; tale indennità, pertanto,


può subire decurtazioni rispetto all’entità del risarcimento
integrale del danno, secondo equi temperamenti dettati dalle
condizioni economiche del soggetto su cui esso dovrebbe
gravare, fino a doversi considerare del tutto non dovuto
quando, dalla valutazione comparativa richiesta dalla norma,
emerga una manifesta sperequazione fra la posizione
economica del danneggiato, per avventura florida, e quella
deteriore del danneggiante.
In proposito, peraltro, risultano ad oggi solamente due
sentenze edite.
La prima, alquanto risalente, ha riconosciuto a carico di un
soggetto incapace per infermità mentale, in mancanza del
sorvegliante, un indennità di un milione di vecchie lire per
danni conseguenti ad un omicidio. Il criterio di determinazione
è stato correlato in questo caso alla condizione economica del
danneggiante, un guardiano della tenuta di cui l’ucciso era il
fattore di campagna, ma è stato escluso il risarcimento del
danno morale (App. Napoli 5.5.1967, ARC, 1968, 178).
Nella seconda, più recente, viene considerato il problema
dei criteri di determinazione dell’indennità in un caso di un
minore che aveva provocato la perdita di un occhio ad un
compagno di giochi con una cerbottana.
« Le statuizioni afferenti al merito della controversia che il collegio
è chiamato ad adottare attengono alla determinazione dell’equa
indennità che l’art. 2047 cpv., c.c. facultizza il giudice a porre a
carico dell’incapace ed a favore del danneggiato, ove costui, per
qualsiasi ragione, non abbia potuto ottenere il risarcimento da parte
di chi era tenuto alla sorveglianza dell’autore del fatto e di cui nella
specie la richiamata sentenza non definitiva ha riconosciuto
esistere i presupposti.
Trattasi, come traspare dalla stessa locuzione usata dal legislatore,
di mero indennizzo, che, pur potendo in astratto corrispondere
anche all’integrale ristoro, dipende sia nel quantum che nell’an da
una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle
parti, tale previsione essendo non già correlata ad un atteggiamento
colposo dell’autore del danno – non giuridicamente apprezzabile in
difetto dell’imputabilità a mente dell’art. 2046 c.c. – ma dettata
dall’ordinamento al fine di soddisfare l’esigenza di riparazione
24 LA RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO
NEI NUOVI ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

della persona danneggiata, in base a principi di solidarietà sociale


che coinvolgono lo stesso soggetto leso, sul quale, in presenza di
determinate condizioni, il danno medesimo finisce assai sovente
per gravare almeno in parte. In particolare l’indennità di cui si
discute appare tale da subire decurtazioni, rispetto all’entità del
risarcimento integrale del danno, secondo equi contemperamenti
dettati dalle condizioni economiche del soggetto cui essa dovrebbe
far carico, fino a doversi considerare del tutto non dovuta quando,
dalla valutazione comparativa richiesta dalla norma, emerga una
manifesta sperequazione fra la posizione economica del
danneggiato, per avventura florida, e quella deteriore del
danneggiante.
Circa l’an le pure scarne acquisizioni processuali consentono
tuttavia di escludere recisamente il forte divario di condizioni
economiche in senso favorevole al danneggiato, cui si è fatto cenno
nel prefigurare la situazione che legittimerebbe il diniego del
giudice circa la corresponsione dell’indennizzo.
È infatti univocamente emerso che, mentre nel nucleo familiare dei
convenuti, pur comprensivo di sette persone, almeno tre di esse
sono in attualità di guadagno ivi compreso lo stesso autore del
danno (e non sembra illogico ipotizzare che almeno uno dei suoi
due nonni conviventi sia titolare di pensione), nella famiglia del R.,
marito, moglie e due figli minori (dei quali il danneggiato è il più
grande), è solo il primo a lavorare quale stampista metalmeccanico
alle dipendenze di una fonderia senza che siano stati provati o si
rendano comunque ragionevolmente presumibili altri redditi.
Deve poi porsi in giusto rilievo la circostanza secondo cui il
danneggiante sia divenuto nell’attualità maggiorenne e pienamente
capace, al punto da aver trovato senza difficoltà occupazione
presso la stessa ditta ove è occupato il padre.
Ciò consente di ritenere O.M. certamente in grado di sostenere
oneri economici, i quanto fruitore di un personale reddito e ad un
tempo vivente in una famiglia provvista di altri introiti,
verosimilmente sufficienti a soddisfare le ordinarie esigenze
quotidiane dei suoi comportamenti e perciò non soggettivamente
gravato da spese immediate di conduzione familiare.
In ordine al quantum, rilevata l’esiguità di precedenti
giurisprudenziali sull’argomento, è convinzione del collegio che a
determinazione dell’equa indennità di cui trattasi non possa
comunque prescindere dalla ricostruzione delle concrete
componenti de danno risarcibile che essa tende a riparare, salva
restando la possibilità di moderarne l’ammontare in base ai cennati
criteri.
25 IL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE

Facendo ora governo del criterio comparativo delle condizioni


economiche (già in parte descritte) del leso e del danneggiante,
viventi entrambi nell’ambiente delle rispettive famiglie originarie,
ritiene il collegio che la funzione di solidarietà sociale fra i soggetti
coinvolti dall’incidente, che l’indennità di cui si parla tende a
soddisfare, imponga la ripartizione dell’onere conseguente al
danno derivatone in relazione alle situazioni economiche in esame.
Pertanto il sensibile depauperamento subito dal danneggiato appare
più agevolmente ammortizzabile da parte dell’autore del danno
rispetto a chi lo ha sofferto, talché il primo, per le sue risorse
economiche apprezzabilmente migliori rispetto all’altro, sembra
certamente in grado di sostenersi due terzi, nella ripartizione che di
un simile onere deve farsi fra lui ed il soggetto offeso »
(Trib. Macerata 20.5.1986, FI, 1986, I, 2594).

La dottrina ha sottolineato che, proprio in considerazione


del ruolo deciso che svolge il criterio incentrato sull’esame
delle rispettive condizioni economiche delle parti, la possibilità
di un’azione di rivalsa dell’assicuratore, per i danni liquidati a
terzi in caso di un incidente stradale provocato da un incapace
alla guida del veicolo – astrattamente ipotizzabile nei confronti
dell’incapace eventualmente tenuto all’equa indennità – è da
escludersi nella pratica, in quanto molto difficilmente la
comparazioni delle condizioni economiche dell’incapace,
rispetto a quelle indubbiamente più ingenti della compagnia
assicuratrice, convincerebbero li giudice a liquidare qualsiasi
somma in favore del secondo (Cannizzaro A. 1990, 355).

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