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Dispensa Completa - appunti diritto della responsabilità civile

Diritto della Responsabilità Civile (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli)

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DIRITTO DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE

RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE ED EXTRA [27 settembre (1)]

La responsabilità civile nasce e parte dalle istituzioni di diritto privato come conseguenza o della
lesione di diritti, oppure conseguenza di contratti e obbligazioni; per cui distinguiamo in prima
battuta la responsabilità contrattuale dalla responsabilità extra-contrattuale.
La responsabilità contrattuale è la responsabilità che deriva dalla violazione di una pattuizione
contrattuale, quindi è quella responsabilità che consegue l’inadempimento, se il debitore è
inadempiente farà fronte con tutto il suo patrimonio alle conseguenze dell’inadempimento, a meno
che l’inadempimento non sia stato determinato dall’impossibilità sopravvenuta della prestazione, il
riferimento normativo è all’articolo 1218 c.c. “il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato
determinato da impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non
imputabile.”
Quindi se entro il termine di adempimento la parte che era tenuta alla prestazione non adempie
dovrà far fronte alle conseguenze dell’inadempimento a meno che non si sia verificata
un’impossibilità della prestazione. (Per esempio, devo consegnare della merce che viene ben
custodita, per la notte precedente alla scadenza del termine subisco un furto e mi trovo
nell’impossibilità di far fronte alla consegna della merce, è quindi questo un caso di impossibilità
sopravvenuta della prestazione).
Questa è la responsabilità contrattuale, cui consegue l’esposizione del debitore alle conseguenze
dell’inadempimento nel caso in cui non ci sia stata un’impossibilità nell’inadempimento, quindi
succederà che verrà verificata la causa dell’inadempimento e se è imputabile al debitore, e quindi è
stato voluto, allora questa persona dovrà rispondere alle conseguenze;
se non adempie alle conseguenze dell’inadempimento, quindi all’obbligazione cosiddetta
risarcitoria, potrebbe essere attaccato il patrimonio attraverso l’azione esecutiva sui beni del
debitore. Questa azione esecutiva è finalizzata a risarcire il danno che deve comprendere tanto la
perdita subita dal creditore quanto il mancato guadagno (art.1223), ma solo nella misura in cui il
creditore, che è colui che si ritiene danneggiato, riesca a provare che il danno conseguito sia
conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del debitore, per cui incomberà sul creditore
dover dimostrare (quella che si chiama l’onere della prova) che dal danno è derivata una
conseguenza che è in questo caso il mancato guadagno, come conseguenza immediata e diretta.
A seconda del tipo di obbligazione sarà più o meno facile stabilire l’entità del risarcimento del
danno, perché le obbligazioni pecuniarie sono quelle che hanno per oggetto una somma di denaro, è
facile individuare l’entità del danno conseguito.
Per le obbligazioni che non hanno per oggetto una somma di denaro è diverso, cioè le obbligazioni
il cui contenuto deve essere possibile tradurre quella prestazione in una somma di danaro. Quindi
una prestazione di fare, come per esempio la prestazione di un’attività professionale, quel tipo di
prestazione dovrà essere valutabile dal punto di vista patrimoniale, questa valutazione consentirà di
tramutare l’inadempimento in una somma di danaro, per cui il debitore inadempiente sarà tenuto al
risarcimento del danno nel senso della corresponsione di quella somma di danaro.
Tuttavia, il risarcimento del danno può essere un’alternativa scelta dal creditore della prestazione
che potrebbe avere interesse all’esecuzione coattiva della prestazione, ovvero se il creditore decide
di avere assolutamente interesse alla prestazione, anche dopo che si sia verificato l’inadempimento,
e se il debitore non lo vuole fare, il creditore della prestazione si recherà dal giudice e chiederà
coattivamente l’esecuzione della prestazione. Se, invece, il creditore della prestazione decide di non
avere più interesse all’esecuzione coattiva e opta quindi per il risarcimento del danno non potrà poi

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in un secondo momento avere l’esecuzione della prestazione.


Quindi, in prima fase c’è la scelta tra esecuzione coattiva e risarcimento del danno, scelto il
risarcimento del danno viene meno la possibilità di avvalersi dell’esecuzione coattiva della
prestazione.
Detto ciò, nel caso in cui non si tratti di una somma di danaro si provvederà alla liquidazione di
parte del patrimonio del debitore e sulla liquidazione di quel bene si rivarrà il creditore. Vi è tutta
una procedura esecutiva che consente di tramutare il contenuto dell’obbligazione in una somma di
danaro e questa è la responsabilità contrattuale che ha come punto interrogativo esclusivamente la
prova che il danno derivi dal fatto del debitore come conseguenza immediata e diretta.

Molto più complessa è invece la responsabilità extra-contrattuale, che è la responsabilità che


subentra per la violazione di un diritto tutelato erga omnes, cioè verso tutti.
Nella responsabilità extracontrattuale vi è una distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi;
i diritti assoluti sono quelli che si hanno erga omnes.
Esempio: diritti della persona, perché chiunque è tenuto a rispettare la persona in tutte le sue
componenti, quindi non solo nella sua componente fisica ma anche dell’integrità psichica, quindi la
persona deve essere rispettata e come tale rappresenta un diritto assoluto che vale erga omnes,
nessuno può ledere i diritti della persona. Un altro diritto di natura patrimoniale assoluto è il diritto
di proprietà, tutti devono rispettare la proprietà di un altro perché nel caso di proprietà danneggiata
si obbliga il danneggiante al risarcimento del danno, vale per gli immobili ma anche di cose mobili
come un’automobile. Quindi, la responsabilità extracontrattuale ha sicuramente per oggetto i diritti
assoluti, chiamiamoli diritti soggettivi assoluti che sono la proprietà, ma anche i diritti della persona
come i diritti al nome, il diritto decoro, il diritto all’immagine, il diritto alla vita di relazione, il
diritto dell’integrità psicofisica della persona.
In ambito di responsabilità extracontrattuale dobbiamo distinguere il danno patrimoniale dal
danno non patrimoniale, perché il diritto della responsabilità extracontrattuale si erge su due
norme fondamentali che sono l’art. 2043 del c.c. e 2059 del c.c.
L’articolo 2043 è intitolato “al risarcimento per fatto illecito”, delinea la fattispecie di risarcimento
per fatto illecito e prevede “qualunque fatto doloso o colposo che provoca ad altri un danno ingiusto
obbliga colui che l’ha commesso al risarcimento del danno.”
L’articolo 2059 è intitolato “ai danni non patrimoniali” e letteralmente il danno non patrimoniale
deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge, da questa definizione del Codice civile è
scaturita una dissertazione dottrinale giurisprudenziale.
La prima fase di sua emanazione era destinata al risarcimento esclusivamente di una particolare
forma di danno non patrimoniale che era detta danno morale. La differenza tra danno morale e
danno non patrimoniale è che nella prima fase di sua applicazione il danno morale era il danno non
patrimoniale conseguente ad un reato penale, quindi alla violazione di una norma penale.
Tutti i reati potevano avere come conseguenza il danno morale, se questo danno non fosse stato
previsto dalla legge non si avrebbe avuto danno patrimoniale. Ne deriva che rimanevano fuori tutta
una serie interminabile di danni non patrimoniali. [esempio: se in un incidente stradale muore una
persona, la famiglia soffre ed il cosiddetto prezzo del dolore in questa interpretazione rimane
escluso, così come quella sofferenza così forte conseguente a un lutto o ad un episodio drammatico
della vita della persona che può generare in un’altra persona, cioè un vicino del parente, nel figlio,
nei congiunti una sorta di depressione, la cosiddetta lesione dell’integrità fisiopsichica anche
conosciuta dal punto di vista giuridico come danno biologico, cioè il danno biologico da intendersi
come lesione dell’integrità psicofisica rimaneva fuori da questa ripartizione perché il 2043
prevedeva soltanto il risarcimento per i danni patrimoniali, il 2059 dei danni non patrimoniali
derivanti da reato, tutta questa sfera del danno cosiddetto esistenziale è definibile come il danno
arrecato all’esistenza, cioè quel danno che si traduce in un peggioramento della qualità della vita,
pur non essendo inquadrabile nel danno alla salute. Anche il danno sessuale, il danno alla vita di
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relazione, per cui nella giurisprudenza dagli anni 80 in avanti c’è un proliferare di figure di danno
non patrimoniale, allora è vero che la persona deve essere tutela però ci sono anche degli altri
interessi coinvolti nella sfera della responsabilità da atto illecito per esempio l’interesse delle
assicurazioni, allora il diritto altro non è che una composizione di interessi per cui varia in tutte le
epoche storiche in relazione all’interesse che prevale].
Nella responsabilità civile gli interessi in contrapposizione sono l’interesse della persona ad avere
un risarcimento del danno e dall’altra parte ci può essere un’assicurazione che deve pagare e quindi
c’è l’interesse delle assicurazioni, ora la giurisprudenza sulla responsabilità da illecito oscilla in
relazione all’interesse che vuole privilegiare. Fino agli anni 2000 prevaleva l’interesse alla tutela
della persona, successivamente quando la giurisprudenza è intervenuta con delle sentenze, note
come le sentenze di San Martino si è stabilito che qualsiasi tipo di danno non patrimoniale abbia
sofferto la persona avrà una voce di risarcimento, cioè una voce per il danno patrimoniale ed
un’altra per il danno non patrimoniale e, questo danno non patrimoniale si poteva presentare nella
veste di danno morale perché conseguente al reato, danno all’integrità fisica come danno biologico,
danno esistenziale, danno alla vita di relazione, tutti i danni che potevano esserci ma solo in una
voce di risarcimento che rientra in quella categoria di danno non patrimoniale.
Quindi c’è stata una semplificazione di tutte le possibili forme di danno non patrimoniale che
potevano essere fatte e potevano essere ricondotte all’articolo 2059.

Un’altra distinzione importante è quella tra danno evento e danno conseguenza il danno evento è il
danno emergente, l’elemento costitutivo della fattispecie, della responsabilità e dell’illecito civile
che dà vita l’obbligazione risarcitoria. Questo danno evento va distinto dal danno conseguenza, che
invece è un parametro di determinazione del contenuto dell’obbligazione risarcitoria che va a
gravare sul soggetto o sui soggetti ai quali sia imputabile la responsabilità del danno evento; quindi,
nell’inquadrare la fattispecie del risarcimento da illecito ad extracontrattuale dobbiamo sempre
distinguere questi due momenti, il danno evento e il danno conseguenza. Per quanto riguarda il
danno evento (art. 2043 del c.c.) “qualsiasi fatto doloso o colposo che cagiona un danno ingiusto”
quindi il danno evento è il danno ingiusto.
Il danno ingiusto e il danno giusto esempio: se io chiedo la dichiarazione di fallimento di un
imprenditore io gli procuro un danno giusto perché è nelle sue obbligazioni è insolvente (incapacità
di far fronte a irregolarità alle obbligazioni) e questo termina anche la possibilità di far ammettere il
debitore ad una procedura concorsuale, selettiva, successiva però quello è un danno giusto perché è
un rimedio previsto dalla legge. Invece, il danno ingiusto è quel danno che comporta una lesione a
una situazione giuridica protetta, che è provocata dall’agire di un soggetto che è diverso dal titolare
della situazione giuridica oggetto di lesione. Quindi, volendo individuare il danno ingiusto
sicuramente è la lesione del diritto soggettivo, la lesione anche di un interesse legittimo.
L’interesse legittimo trova diritto, trova tutela nella misura in cui è tutelato l’interesse della
pubblica amministrazione. [Esempio: il titolare di un diritto di proprietà su un bene con un
bellissimo panorama e un bel giorno gli alzano davanti un palazzo, questo potrebbe essere un danno
patrimoniale perché viene meno il valore dell’appartamento viene immediatamente abbattuto, il
titolare dell’appartamento può agire per questo danno subito; se l’area in cui l’edificio con visuale
panoramica è un’area edificabile, non avrà modo di veder tutelato il suo interesse, Se invece in
quella zona c’è un obbligo che prevede che non sia possibile costruire edifici oltre una certa altezza
ed è stato violato questo obbligo giuridico, allora anche il titolare dell’appartamento avrà diritto ad
agire per la lesione di un interesse legittimo, quindi danno ingiusto è la lesione di un diritto tutelato
dalla legge].
Per quanto riguarda i danni conseguenza, rientrano in questi i danni di natura non patrimoniale, che
vengono identificati nel danno morale in senso stretto che è quello conseguente al reato, il danno
biologico, e in genere il danno patrimoniale. Questi danni conseguenza di carattere patrimoniale da

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un lato e non patrimoniali dall’altro sono tutti nell’area del danno conseguenza; invece, il danno
evento è il danno ingiusto, ossia la lesione di un bene tutelato dall’ordinamento.

Un grande cambiamento c’è stato nel 2008 con la sentenza della cassazione 26.972, e in particolare
in questa sentenza, nota anche come la prima sentenza di San Martino, si affermava che il danno
non patrimoniale è l’unica categoria di danno risarcibile e viene ricondotto nella sua interezza nella
violazione di diritti di rango costituzionale, significa che il danno non patrimoniale è risarcibile solo
quando venga leso un diritto tutelato dalla costituzione, e sono tanti dato che la Costituzione è
assolutamente incentrata sulla tutela della persona; quindi, se pensiamo all’articolo 2 della
costituzione, o l’articolo 1 che dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, il lavoro è un
diritto di rango costituzionale, che trova anche in articoli successivi la sua tutela come l’art 36 della
costituzione. Quindi, anche l’articolo 2 della costituzione dà vita a dei diritti di rango costituzionale
che possono essere tutelati, così come ci dicono le sentenze gemelle del 2008 perché violazione
dei diritti costituzionali; ed anche il diritto alla salute; il diritto alla libertà personale è inviolabile.
Quindi, abbiamo tutta una serie di norme di rango costituzionale (per esempio la scuola è aperta a
tutti, art. 34 della costituzione, laddove si impedisce a un bambino di andare a scuola è una
violazione di un diritto assoluto della persona) e queste sentenze dicono che per aversi danno morale
deve essere innanzitutto ben identificato il danno ingiusto, che deve essere lesione di un diritto
soggettivo assoluto,
Il danno conseguito non deve essere futile, quindi la futilità del danno esclude il risarcimento;
quindi, vengono tagliati fuori tutta una serie di danni come quelli della sfera estetica, che viene
ritenuto un danno futile e in quanto tale non risarcibile.
Le condizioni che pone la cassazione sono:
- l’interesse leso deve avere rilevanza costituzionale
- la lesione dell’interesse deve essere grave e non di scarsa rilevanza; quindi, deve esserci il
superamento di una soglia minima di tollerabilità
- ed in fine non deve trattarsi di un danno futile, come tutta quella serie di fastidi e di disagi che
comunque non sono commensurabili ai fini ai fini dell’individuazione del diritto alla vita.
Per cui così facendo l’operazione concettuale è quello di ridurre l’area del danno patrimoniale.
Tornando al discorso della tutela degli interessi protetti, a partire del 2008 con le sentenze gemelle
26972 e seguenti, succede che si ha un ridimensionamento del riconoscimento del danno; quindi,
rispetto alla tutela della persona prevale l’interesse delle assicurazioni a non dover sborsare ingenti
capitali per risarcimento di tutta quella proliferazione di danno non patrimoniale che aveva segnato
la giurisprudenza negli anni precedenti.
Per cui le singole voci di danno non patrimoniale vengono tutte quante condensate nell’unica voce
del danno biologico, cioè laddove per la lesione di un interesse di rango costituzionale si verifichi
un danno all’integrità fisiopsichica del soggetto, che deve essere supportato da una perizia di un
medico che accerti lo stato di alterazione dell’integrità fisiopsichica, quindi anche il danno non
patrimoniale, deve essere provato, e cosi viene meno la possibilità di ottenere il risarcimento di un
danno futile.

La responsabilità per danno ingiusto può essere determinata da un fatto di altra persona, cioè da
parte di una persona titolare di una sfera giuridica diversa, quindi affinché sia possibile imputare la
responsabilità, sarà necessario valutare il contegno del soggetto che ha arrecato il danno, quindi in
questo caso sarà necessario valutare la condotta che può essere commissiva o omissiva, cioè la
persona ha condotto il danno ponendo in essere una determinata azione, commettendo una fatto,
oppure un danno derivato dall’omissione di un comportamento, quindi va valutato sia il contegno
soggettivo di chi agisce e provoca il danno, il contegno soggettivo di chi doveva far qualcosa e non
l’ha fatto; e che implica quindi l’individuazione del comportamento doloso o colposo (doloso,
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quando si pone in essere un comportamento con l’intenzionalità di produrre un danno; colposo,


quando per negligenza, imprudenza o imperizia una persona arreca un danno ad un’altra.
Negligenza: è una persona che non sa fare le cose per bene, come le dovrebbe fare, ad esempio un
commercialista negligente è quello che non conosce le regole di redazione del bilancio; quindi, se
sbaglia o provoca un danno a un suo cliente, lo ha fatto per negligenza. Imprudenza: perché ha fatto
una valutazione eccessiva di un bene rispetto a quello che può essere l’evoluzione del suo effettivo
valore, quindi è stato imprudente. Imperizia: è la mancanza di esperienza, per esempio una persona
che non sa manovrare un macchinario in un’azienda e da quella motivazione deriva un danno,
quello può essere un elemento che può far propendere per la colpa e non per il dolo.) Quindi il
contegno soggettivo è chiaramente un elemento che incide nella quantificazione dell’obbligazione
risarcitoria, perché il dolo può avere anche dei risvolti di carattere penale, laddove la colpa invece la
colpa è valutata con minore intensità.

Al di là della valutazione del dolo e della colpa sarà necessario valutare un altro elemento in prima
battuta, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente, di colui che provoca il danno,
perché purtroppo questo elemento previsto all’art. 2046 del c.c. talvolta è un escamotage per non far
fronte alle conseguenze del risarcimento del danno, perché l’art. ci dice che “non risponde delle
conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere nel momento in cui
lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità non derivi da sua colpa”, quindi ad esempio se io
ero ubriaco o drogato e in quella circondato ho perpetrato un fatto illecito non vado incontro
all’esenzione della responsabilità civile perché sono io che mi sono provocato lo stato di capacità di
intendere e di volere, viceversa un soggetto che agisce in una situazione costante di incapacità di
intendere e di volere accertata da un precedente provvedimento che può essere l’interdizione di
un’abilitazione, ma anche non accertato un effettivo problema mentale che può essere un anziano
ecc., allora in quel caso di avrà la non imputabilità, tante volte quando ci sono degli omicidi la causa
verte proprio sulla prova delle saluta mentale della persona perché se si arriva alla conclusione che
la persona è pazza, non risponde delle conseguenze.

1° ottobre (2)

La dialettica della responsabilità extracontrattuale erge su due norme fondamentali che sono dei
pilastri, 2043 danno patrimoniale, 2059 danno non patrimoniale.
L’art. 2043 classificato come danno patrimoniale, dicono gli studiosi che in realtà la sua
interpretazione in tutta la sua portata lascia fuori i danni non patrimoniali, perché il 2043 coprirebbe
solo i danni conseguenti ad una lesione di un bene tutelato dal punto di vista giuridico che però ha i
suoi riflessi esclusivamente sul patrimonio della persona.
L’art. 2059 era riferito solo al danno morale che sarebbe il danno arrecato alla persona in seguito ad
un reato; quindi, un danno morale che era previsto solo nei casi espressamente previsti dalla legge, e
la legge prevedeva il danno morale solo per i danni conseguenti a reato, quindi omicidio,
diffamazione, a mezzo stampa, e quindi rimanevano fuori tutte le forme di danno alla persona che
non fossero conseguenti a reato.
Allora con le prime sentenze di san martino 26792 del 2008 si effettua un’interpretazione
abbastanza ampia dell’articolo 2059, per cui è destinato a poter accogliere nel proprio ambito sia il
danno morale che tutte le altre forme di danno non patrimoniale in un’unica voce.
La giurisprudenza della corte di cassazione pensava di aver dato con le sentenze di San Martino del
2008, un assetto definitivo alla questione ma non fu cosi perché vi furono nuovamente tutta una
serie di sentenze giurisprudenziali che continuavano a voler dare risalto alle singole voci di danno
non patrimoniale, perché vi fu addirittura la redazione di alcune tabelle da parte di uno dei principali
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tribunali d’Italia, quello di Milano, l’osservatorio del tribunale di Milano stilò delle tabelle che
volevano rappresentare una personalizzazione del danno biologico.
Vennero quindi elaborate delle tabelle dall’osservatorio del tribunale di Milano che prevedevano la
personalizzazione del danno biologico, distinguendo il danno lieve, meno lieve, danno grave, per
cui tutto il discorso che aveva fatto la corte di cassazione con le sentenza di san martino del 2008 fu
assolutamente vanificato, perché venivano applicate queste tabelle che tenevano in considerazione
nella liquidazione del danno l’entità della menomazione subita dalla persona, quindi era un modo
per consentire l’ingresso per altra via al cosiddetto danno esistenziale.
Questa constatazione portò 11 anni più tardi, nel 2019, una nuova emanazione di ben 10 sentenze,
sempre dette sentenze di San Martino del 2019.
In queste sentenze del 2019, i principi che erano stati affermati dalla sentenza precedente del 2008,
vengono assolutamente disattesi perché si riconosce rilevanza sia attraverso la legge 124 del 2017,
che aveva incluso nel danno non patrimoniale il cosiddetto danno dinamico relazionale, cioè un
fatto che rileva un danno della condizione psico-visiva, esempio io ho un incidente ma poi i postumi
mi condizionano nelle relazioni con le persone.
Questo danno dinamico relazionale viene tradotto attraverso la legge 124 del 2017, nel codice delle
assicurazioni che va a modificare l’art. 138 in cui non si voleva tener più presente questa
componente del cosiddetto danno esistenziale.
Sulla base della constatazione dell’emanazione di questo provvedimento legislativo, la cassazione
non a sezioni unite (a sezioni unite vuol dire che quando una sentenza viene adottata dalla
cassazione a sezioni unite ha addirittura la forza di una legge, nel senso che i gradi inferiori della
giurisprudenza possono discostarsene ma devono motivare, si dice autorità del precedente, cioè le
sentenze della cassazione a sanzioni unite rappresentano un vincolo per i giudizi su un caso simile
trattato dagli organi giurisdizionali di grado inferiore, quindi corte d’appello e tribunale) ha emanato
un decalogo di sentenze l’11 novembre del 2019, in cui si verifica una nuova inversione di rotta che
porta ad una nuova scissione del danno non patrimoniale in singole voci di danno; quindi,
mentre eravamo andati dalla bipartizione poi si passa ad un’unica voce 2059 danno non
patrimoniale, con le sentenze del decalogo del novembre 2019 succede che nuovamente viene data
rilevanza a tutte le voci di danno, quindi si prende nuovamente atto del fatto che se c’è una tabella
che differenzia il danno lieve, meno lieve e grave e personalizza il risarcimento in relazione alle
circostanze allora non andava bene l’unica voce di danno biologico riconosciuta dalla cassazione a
sezioni unite nel 2008.
Quindi in sintesi ci basta sapere che a partire dal 2019 per effetto del decalogo delle sentenze
di San Martino si fa una marcia indietro rispetto alla situazione del 2008, per cui non si avrà
un’unica voce di risarcimento ma si avranno tante voci di risarcimento quante sono le
componenti lese.

Passiamo adesso ad analizzare i dettagli dell’art. 2043, cioè del danno patrimoniale e cioè le
componenti del danno patrimoniale.
La norma fondamentale del diritto della responsabilità civile è l’art. 2043 del c.c., perché anche
quando parliamo di danno non patrimoniale, quindi del danno all’integrità fisiopsichica, del danno
alla vita di relazione, ecc., bisognerà sempre ravvisare i requisiti richiesti dall’art. 2043, dal danno
patrimoniale, perché il danno patrimoniale è il danno evento e il 2059 è il danno conseguenza.
Il danno conseguenza lo abbiamo solo se abbiamo il danno evento; quindi, è sempre fondamentale
andare a riscontrare quelli che sono i presupposti del danno, cioè quando un fatto doloso o colposo
provoca un danno ingiusto ad una persona.
Esaminiamo l’articolo 2043, che ci dice “qualunque fatto dolo o colposo (dolo c’è quando c’è
l’intenzione di arrecare un danno, la colpa quando invece si provoca il danno per negligenza,
imprudenza e imperizia, se uno non agisce né con dolo né con colpa non c’è danno perché per sua
definizione ‘qualunque fatto doloso colposo...’) che provoca ad altri un danno ingiusto, obbliga
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colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno. Quindi il fatto doloso o colposo deve provocare
un danno ingiusto, perché abbiamo detto che esiste anche il danno giusto che è quello previsto come
rimedio dall’ordinamento giudico però ci dobbiamo chiedere qual è il danno ingiusto, è un danno
che lede un comando giudico, tra queste forme di danno ingiusto abbiamo tutta una serie di
fattispecie che devono essere riscontrate affinché il giudice dica che il danno sia risarcibile con la
presenza dei seguenti presupposti:
-E’ necessaria la sussistenza, come prima cosa, di un fatto materiale che causa la lesione;
-Il secondo elemento è che il fatto debba essere imputabile dal punto di vista soggettivo a titolo di
dolo o di colpa, imputabile significa che la persona deve essere una persona capace di intendere e di
volere. [Esempio: un anziano affetto di disturbi come l’Alzheimer, che ha delle manifestazioni
violente e butta un vaso colpendo una persona, questo soggetto non è imputabile].
Dopodiché si va ad indagare sulla presenza del dolo o della colpa.
-Il terzo elemento è che il fatto imputabile all’operato di una persona debba provocare un danno
ingiusto.
-Altro elemento richiesto è quello del nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno ingiusto. il
nesso di casualità va a determinare l’entità del risarcimento dovuto ma anche l’area del danno
risarcibile perché vi sono varie teorie del nesso di casualità; una è quella delle conseguenze
immediate e dirette, ovvero se io pongo in essere un atto dal quale deriva un danno a una persona,
dovrà risarcire le conseguenze che derivano dal mio gesto; poi abbiamo un’altra teoria che è quella
della causalità adeguata, ovvero non solo le conseguenze immediate e dirette ma tutte quelle
conseguenze che prevedibilmente sono derivate da quel mio gesto; la terza teoria che è attualmente
accettata che è quella che intende gli effetti solamente probabili, cioè io sono tenuta al
risarcimento degli effetti che con grande probabilità derivino da quel determinato mio agire.

Rispetto a questi presupposti abbiamo le cosiddette attenuanti o esimenti, che sono la legittima
difesa, e stato di necessità.
La legittima difesa viene definita dal punto di vista civile, dall’art. 2044 del c.c., in base al quale
“non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri”, in particolare nei
casi in cui agli articoli 52 commi secondo, terzo e quarto, del Codice penale, la responsabilità di chi
ha compiuto il fatto è esclusa. È una norma che interagisce molto con il Codice penale; infatti,
prosegue che nel caso in cui all’articolo 55 secondo comma del Codice penale, al danneggiato è
dovuta un’indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto a tener
conto della gravità delle modalità realizzative del contributo causale della condotta posta in essere
dal danneggiato.
Questa norma 55 del codice penale è stata modificata dalla legge 36 del 2019, che riguarda in
particolare l’intrusione domiciliare, cioè viene introdotto il comma due all’art. 52 del codice penale
che esclude la responsabilità civile di chi compie atti di legittima difesa domiciliare, ovvero se una
persona viene sorpresa nel proprio domicilio che potrebbe fare qualsiasi cosa, e io mi difendo anche
sparando il ladro che è nella mia abitazione, secondo la precedente versione dell’art. 52 del c.p. io
avrei subito un processo per omicidio colposo, tuttavia faccio fronte alle conseguenze della
responsabilità civile a quel gesto perché nella precedente versione della normativa penale, e anche
nella normativa civilistica la difesa deve essere proporzionale all’offesa, ciò significa che se una
persona non mi sta minacciando con la pistola io non lo posso uccidere, in tal caso c’è una
sproporzione tra difesa e offesa, invece con la modifica del comma due del art.52 del c.p. esclusa la
responsabilità civile, nel caso in cui ci sia un intrusione domiciliare viene introdotta la cosiddetta
intrusione domiciliare come attenuante anche alla morte del rapinatore, quindi in sostanza è un atto
di legittima difesa domiciliare. Per cui le conseguenze risarcitorie nel caso in cui ci sia il gesto
colposo, se una persona uccide il ladro piuttosto che metterlo KO, il nuovo comma tre afferma che il
danneggiato che sarebbe il soggetto offeso dall’eccesso colposo della legittima difesa può
conseguire un indennizzo e non un ristoro integrale. Quindi nel caso in cui non c’è un eccesso
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colposo non si ha diritto a nessun risarcimento, se c’è l’eccesso colposo potrà avere un indennizzo e
non un ristoro integrale. Le conseguenze di questa le legge sono, che se io ferisco o uccido il
rapinatore gli dovrà solo un indennizzo e non il ristoro totale.

Lo stato di necessità, art. 2045 c.c., in base al quale “quando chi ha compiuto il fatto dannoso, vi è
stato costretto dalla necessità di salvare se o altri da un danno grave alla persona, che si configuri
come un pericolo attuale, e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato, ne era evitabile, al
danneggiato è dovuta un’indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del magistrato.
(Quando chi ha compiuto il fatto doloso o colposo vi è stato costretto dalla necessità di evitare a sé o
ad altri il pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non è stato volontariamente da
lui causato ne era evitabile, al danneggiato è dovuta un’indennità e quindi non un ristoro integrale,
che viene determinata in base all’equo apprezzano del giudice.)

Chiaramente vi è una differenza tra la legittima difesa e lo stato di necessità, perché nello stato di
necessità il fatto dannoso non discende dall’aggressione del terzo, ma dal fatto obiettivo che è il
pericolo attuale di evitare un danno grave, ciò significa che innanzitutto il pericolo deve essere un
pericolo reale non solo fantasioso, e quindi la necessità di evitare questo danno grave o il pericolo
che questo danno si verifichi, spinge la persona a compiere il fatto illecito.
Quindi sono due fattispecie diverse ma con la stessa conseguenza, cioè quella di un indennizzo
piuttosto che il ristoro integrale. Anche qui ci sono dei requisiti, cioè:
- il comportamento posto in essere dal danneggiante deve essere in sostanza caratterizzato
dall’inevitabilità, ciò significa che il danno può essere provocato tanto da un fatto umano quanto
da un fatto naturale, se invece il pericolo viene cagionato da un terzo sarà il terzo a dover
rispondere dei danni, e non chi concretamente ha commesso l’atto illecito, a dover pagare
un’indennità. Il pericolo attuale deve avere la caratteristica dell’inevitabilità, e deve essere
causato da un fatto che può essere umano o naturale. Nel caso in cui invece il pericolo derivi dal
fatto di una persona volontario, sarà questa dover risarcire integralmente e non chi ha agito per
stato di necessità.
- Altro elemento è l’imputabilità del fatto dannoso, quale tipo di capacità è richiesta per
l’imputazione per la responsabilità? in sostanza viene richiesto che la persona sia dotata della
cosiddetta capacità naturale, (differenza tra la capacità naturale, capacità legale o capacità di
agire. La capacità legale è quella che si acquisisce con il diciottesimo anno di età; la capacità
naturale è la capacità di intendere e di volere che si può avere anche prima).
Quindi ai fini dell’imputabilità conta la capacità naturale non la legale.

Rispetto a questa fattispecie di rettifica, perché al 2043 si riconducono tutte le fattispecie di danni,
VI SONO delle altre forme di responsabilità civile che sono oggettive e sono previste sempre dal
Codice civile.
Queste forme di responsabilità oggettiva sono:
ART. 2047, il danno cagionato dall’incapace, per questo danno risponde il tutore o chi è addetto alla
sorveglianza dell’incapace, perciò in questa ipotesi un’inversione dell’onere della prova.
Ciò significa che normalmente, quando non c’è inversione dell’onere della prova chi è stato
danneggiato deve provare di aver subito un danno, questo è il meccanismo previsto dall’art. 2043
del c.c., invece tutte le ipotesi che andiamo ad esaminare, che sono anche dette DI
RESPONSABILITÀ OGGETTIVA vi è l’inversione dell’onere della prova che consiste nel fatto

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che chi è in concreto il responsabile del danno, dovrà provare di aver fatto il possibile affinché il
danno non si verificasse.
Quindi non è colui che è stato danneggiato a dover provare di aver subito un danno ma chi era
responsabile del fatto illecito altrui deve provare di aver fatto il possibile affinché il danno non si
verificasse.
Quindi nel caso, ad esempio, dell’incapace il tutore dovrà provare di aver fatto tutto quello che era
nella propria competenza per sorvegliare il soggetto in stato di incapacità. (Altrimenti subentra la
culpa al vigilando, cioè se tu avevi quel compito di dover sorvegliare l’incapace se non lo hai fatto
rispondi tu per il fatto dell’incapace).
Si dicono forme di responsabilità oggettiva perché vi è una persona che risponde per il fatto altrui
senza avere né dolo né colpa ma in relazione alla propria funzione rispetto alla situazione da cui si
origina il danno.
Si dice che queste responsabilità sono svincolate dal dolo o dalla colpa della persona che poi sarà
responsabile per il danno; quindi, il dolo e la colpa potevano esserci nell’incapace ma non nella
persona che poi dovrà risarcire il danno. Queste caratteristiche, cioè responsabilità oggettiva e
inversione dell’onere della colpa, valgono per l’articolo 2047 del c.c., per l’incapace e per l’art,
2048 che è uguale ma si riferisce alla responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei
maestri d’arte, che sono sempre liberati dalla loro responsabilità solo nel caso in cui provino di aver
fatto tutto il possibile affinché il danno non si verificasse. (Qui subentra per questi soggetti sia la
culpa in vigilando che la culpa in educando).
ART. 2049 del c.c., riguarda la responsabilità dei padroni e dei committenti che sono responsabili
per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a
cui sono adibiti.
In questo caso l’esistenza di un rapporto di un lavoro subordinato o comunque di un tipo di
subordinazione fa riconoscere al cosiddetto patrono un potere di vigilanza e di direzione che
comporta su di sé l’assunzione del rischio relativamente alla responsabilità delle azioni che questi
soggetti attuano nei confronti dei terzi. Il cosiddetto rischio di impresa: l’imprenditore prende il
profitto e risponde anche dei danni provocati dai suoi addetti, anche qui vi è l’inversione dell’onere
della prova, perché anche in questo caso i patroni e i committenti saranno liberati dalla
responsabilità delle conseguenze dei danni solo nell’ipotesi in cui dimostrino di aver fatto il
possibile per evitare che il danno non si verificasse.
ART.2050 del c.c., riguarda la responsabilità per attività pericolose, è richiamata nelle forme di
responsabilità molto più nuove, come per esempio la tutela dei dati che è un tipo di attività che
viene classificata come attività pericolosa. Per cui in base a questa norma chiunque cagiona danno
ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi
adoperanti, è tenuto al risarcimento se non prova dei aver adottato tutte le misure idonee ad evitare
il danno.

In sostanza ci riferiamo a delle attività che sono intrinsecamente pericolose, cioè di per sé idonee ad
arrecare un danno seppur lecite.
ART. 2051 del c.c., che riguarda il danno cagionato ad una cosa in custodia, in questo caso
chiunque è responsabile delle cose che ha in custodia, in questo caso a meno che non provi che il
danno sia dovuto a caso fortuito, e quindi non ad una propria diligenza.
Può succedere che un bene custodito esploda, e quindi nell’esplodere provoca un danno; quindi, a
questo punto bisognerà analizzare se è intrinseca la natura delle cose, che quell’oggetto potesse
esplodere oppure è stato un fatto eccezionale.
Poi abbiamo il danno cagionato da animali, art. 2052, che dipende dal padrone il quale dovrà
risarcire il danno; infatti, esistono delle assicurazioni per gli animali, se il proprietario di un animale
o chi se ne serve per un tempo limitato è responsabile per i danni cagionati dagli animali, sia se
fosse sotto sua custodia, sia se fosse smarrito o fuggito. Il proprietario, quindi, risponde del danno a
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meno che non vi sia il caso fortuito, e questo cado è identico al 2051.
Poi abbiamo ancora due norme che sono la 2053 del c.c. che riguarda la rovina di edificio, per cui il
proprietario è responsabile dei danni arrecati dalla rovina dell’edificio, salvo che poi questa rovina
non è dovuta a difeso di manutenzione o a vizio di costruzione. Quindi se io sono stato come
proprietario diligente nel mantenere il mio bene e il bene ha comunque arrecato un danno questo
dipenderà dalla mia responsabilità, ma non dipenda dalla mia responsabilità se un edificio crolla per
vizio di costruzione, quindi sarà il costruttore che risponderà del danno, attraverso sempre il
meccanismo del nesso di causalità.
Poi abbiamo la forma per eccellenza della responsabilità civile che è la circolazione stradale, la
circolazione dei veicoli, art. 2054 del c.c., che ci dice che il conducente di un veicolo è obbligato a
risarcire il danno prodotto a persone o cose dalla circolazione del veicolo, se non prova di aver fatto
tutto il possibile per aver evitato che il danno si verificasse.
Quindi qui c’è una presunzione che grava sul conducente e c’è una solidarietà per il proprietario,
anche se il proprietario non è nell’auto. Vi è una responsabilità che prescinde dalla colpa per quanto
riguarda il proprietario, così come l’usufruttuario che è responsabile in solido a meno che il
proprietario non provi che il veicolo è stato sottratto al suo controllo e condotto senza che fosse stata
acquisita la sua volontà.
In questo caso c’è una responsabilità oggettiva, anche perché con la legge che impone quando noi
paghiamo l’assicurazione, c’è l’assicurazione obbligatorio per la responsabilità civile per cui in
automatico il danno si sposta sull’ assicuratore, anche se è stato perpetrato con dolo o colpa.

4 ottobre (3)

Per quanto riguarda i principi europei sulla responsabilità civile, cosiddetti PRINCIPALS
EUROPEAN TORT LAW: questa statuizione di principi nasce dall’esigenza di unificare la
normativa sulla responsabilità civile a livello di unione europea, superando le differenze dei vari
stati membri. per cui l'elaborazione attuata da una coesione di giuristi, di professori che la
commissione sui tort low, ovvero la legge sui danni, ha elaborato questi principi cercando di
sintetizzare le caratteristiche della disciplina sulla responsabilità nei vari Stati membri, e il risultato
è molto soddisfacente perché in realtà si riescono a superare anche delle incertezze della nostra
normativa.
Quando parliamo di incertezze, mi riferisco a tutti quei casi in cui le interpretazioni
giurisprudenziali sono dubbie E sono varie. Per es. Sugli argomenti finora trattati, il nesso di
causalità, oppure anche l'individuazione del bene giuridico leso, che abbiamo dovuto aspettare le
sentenze di san martino sia del 2008 sia del 2019 che hanno cercato di dare dei criteri generalizzi
individuazione del danno ingiusto aldilà delle singole fattispecie che si verificano nella prassi.
Il tentativo dell’elaborazione europea è più efficace di quello che è lo status attuale della
responsabilità civile anche del nostro ordinamento.

Le disposizioni più importanti del Principles European tort Law, Dove è più decisiva la differenza
rispetto alle singole legislazioni degli Stati membri, anche recuperando quelle parti in cui invece è
più efficace la legislazione comunitaria:

- TITOLO 1:101 NORMA FONDAMENTALE: il soggetto a cui il danno subito per effetto di
un’azione altrui e a lui giuridicamente imputabile dal diritto è tenuto al risarcimento del danno.
Oppure il soggetto che viene individuato come soggetto imputabile di un danno perpetrato ad
altri, è tenuto a risarcirlo. Il danno è imputabile in particolare al soggetto la cui condotta colposa
o dolosa ha causato il danno, la cui attività straordinariamente pericolosa ha causato il danno o i

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cui ausiliari hanno causato il danno nell’ambito delle proprie attribuzioni. Questo è l’ART. 1,
101 NORMA FONDAMENTALE DEI PRINCIPI EUROPEI SUI DANNI.
(Vediamo l’efficacia della sintesi di questo articolo che in realtà mette insieme 5 art del Codice
civile, cioè il 2043, il 2059 e poi le responsabilità speciali, quindi sia l’attività del produttore
straordinariamente pericolosa, sia quella degli ausiliari, ma anche quelle che si riferisce al minore o
all’incapace. Quindi vediamo come l’operazione che è stata fatta dalla commissione di diritto
europeo è stata quella di sintetizzare i principi dei vari ordinamenti.
Quindi vediamo al primo punto vediamo il diritto del risarcimento del danno a carico della persona
a cui il danno viene imputato, il danno viene giudicato imputabile se la persona ha agito per dolo o
per colpa, se la persona ha organizzato un’attività particolarmente pericolosa e se gli ausiliari hanno
causato il danno nell’ambito delle proprie attribuzioni. La commissione ha estrapolato tutte quelle
norme di carattere iper soggettivo, che non riguardassero l’impresa perché l’unico europea vuole
realizzare l'integrazione di carattere economico e quindi le norme sui tort law sono dirette a
disciplinare gli aspetti economici, quindi , l’industria quando pone in essere un'attività
particolarmente pericolosa e gli addetti degli ausiliari che nello svolgimento delle proprie azioni
causano un danno, quindi vediamo che a questo punto la differenza con il nostro ordinamento non
ce n'è, c'è solo una maggiore sintesi e il riferimento al dolo e alla colpa che rappresentano i principi
fondamentali dell'imputabilità)
- ART. 2: CONDIZIONI GENERALI DELLA RESPONSABILITÀ 101
DANNO RISARCIBILE: sotto la dizione di danno risarcibile, è riportato questo assunto: il
danno postula una lesione materiale o immateriale ad un interesse giuridicamente protetto.
(vediamo come in questa disposizione ci sono tutte le sentenze della cassazione di San Martino
ma ci sono anche l'articolo 2043 e il 2059 del Codice civile, perché senza troppi preamboli,
senza troppe articolazioni la lesione può essere materiale o immateriale, quindi è materiale
danno patrimoniale, e immateriale danno non patrimoniale, quindi la sintesi è particolarmente
efficace e molto semplificante)
- ART. 2: 102 INTERESSI PROTRETTI: gli interessi giuridicamente protetti primo comma,
l'ambito di tutela di un interesse dipende dalla sua natura, quanto maggiore sia il suo valore, la
precisione della sua definizione e la sua evidenza tanto più ampia e la sua tutela. (questa è
un'affermazione assolutamente mancante nel nostro ordinamento perché si dice quanto più è
definito l’interesse nell'ordinamento giuridico quanto più è il suo valore tanto più è protetto
(ricordiamo la gerarchia delle fonti). Quindi è una definizione totalizzante e anche attualizzante)
perché riesce a adeguarsi ai cambiamenti politico economico sociali dei vari contesti di
intervento.) Secondo comma: la vita, l’integrità psicofisica, la dignità umana e la libertà
ricevono la più ampia tutela. (E su questo siamo assolutamente allineati, quindi la priorità della
vita, l'integrità psicofisica, la libertà nel nostro ordinamento c'è ma non come priorità assoluta
come componente della persona mentre qui c’è una dichiarazione della libertà, e questi valori
ricevano ampia tutela. Al terzo comma vediamo che ampia tutela è garantita ai diritti di
proprietà, compresi i diritti di proprietà sui beni immateriali (qui c'è proprio un passo in avanti
dei principi europei, in avanti rispetto al nostro ordinamento perché nel nostro ordinamento la
proprietà come la vita si trovano sullo stesso livello, perché sono entrambi classificati dal
legislatore italiano come diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale, perché la vita e
l'integrità fisica sono elementi a tutela della persona e la proprietà, articolo 42 della costituzione,
è comunque un diritto assoluto tutelato erga omnes. Invece nei principi di diritto europeo la
proprietà è posposta alla vita, all’integrità fisica, alla dignità e alla libertà. Quindi è già un diritto
che merita tutela è un interesse protetto ma non nella stessa misura dei diritti della persona. Poi
viene in evidenza anche un altro tipo di proprietà che è quello sui beni materiali; quindi, non
solo la proprietà intesa in senso fisico, perché la nostra costituzione fa riferimento alla proprietà
come bene materiale che può essere pubblica o privata invece nei principi europei viene
successivamente la proprietà materiale dei beni immateriali).
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Sotto il diritto di proprietà abbiamo gli altri interessi definiti come interessi puramente
economici o rapporti contrattuali, in particolare dice il comma quattro, la tutela degli interessi
puramente economici o dei rapporti contrattuali può essere limitata in estensione. (ci
soffermiamo a questo primo assunto e vediamo che con tutti gli altri interessi economici e
quindi ci riferiamo anche all'azienda e anche ai contratti e quindi alla responsabilità contrattuale
si trovano in un livello subordinato rispetto alla proprietà e poi vengono elencati in senso
negativo, in quanto interessi che possono ricevere una limitazione in nome di altri beni, perché
se prima vengono la vita, la libertà, la dignità, la proprietà E chiaro che gli altri interessi
economici essendo subordinati devono essere limitati per fare spazio alla tutela degli altri
interessi, perché c'è sempre la contrapposizione tra interessi e quindi necessariamente verranno
nello stesso caso a coesistere più interessi, e nei principi europei si dice apertamente il
legislatore che gli interessi economici e gli interessi contrattuali cedono il passo rispetto ai
precedenti e possono essere anche limitati.). in tali casi specifico rilievo deve essere attribuito
specialmente alla prossimità tra il soggetto agente e quello danneggiato O alla circostanza che
l'autore sia consapevole del fatto che causerà danno e sappia anche che i suoi interessi sono
necessariamente di minor valore rispetto a quelli del danneggiato. (prossimità tra soggetto
agente e quello danneggiato significa che la relazione che c'è tra questi due soggetti sarà da
prendersi in considerazione come anche il fatto che vi è consapevolezza che da una determinata
azione può derivare un danno ad un bene che viene tutelato dalla legge in modo più prioritario,
quindi la consapevolezza del danno E la relazione di prossimità che ci può essere tra il soggetto
agente e il soggetto danneggiato sono degli elementi che rappresentano dei criteri di valutazione
dell'entità del danno. E questa circostanza non è presente nel nostro sistema di responsabilità
civile, cioè né la relazione di prossimità né la considerazione della consapevolezza, di disvalore
che c’è tra una situazione giuridica e l’altra. Queste due variabili vengono prese in
considerazione nel momento in cui bisognerà valutare l’emissione dell’interesse protetto. Il
comma cinque ci dice che l'ambito della tutela, può essere influenzato dalla natura della
responsabilità cosicché un interesse può trovare tutela più ampia contro lesioni dolose rispetto
ad altre ipotesi. (ciò significa che la stessa lesione dolosa può essere valutata diversamente in
relazione al tipo di responsabilità che va ad originarsi, quindi una lesione dolosa che incida su
un interesse posposto rispetto ad un altro dà vita ad un altro tipo di responsabilità, quindi questo
comma instaura una relazione di proporzionalità tra la responsabilità e l'interesse tutelato. Ed
infine comma sei, nel determinare la responsabilità o comunque l'ambito della tutela, devono
essere presi in considerazione gli interessi del soggetto agente, specialmente in ordine alla
libertà di agire e all'esercizio dei propri diritti, così come gli interessi pubblici. (E questa è una
norma molto ampia che consente alle cosiddette esimenti, come a dire la legittima difesa e lo
stato di necessità, di entrare in considerazione anche del sistema della responsabilità civile e di
diritto europeo, perché non viene considerata semplicemente la situazione giuridica lesa, cioè la
lesione dell'interesse protetto, ma anche la sfera giuridica del soggetto agente. Nel momento in
cui si prende in considerazione l'aspetto soggettivo di colui che produce il danno allora si va a
considerare quelle che nel nostro ordinamento sono note come esimenti, cioè se per esempio una
persona a posto in essere un comportamento nell'esercizio delle proprie funzioni, In quel caso
sia un'attenuazione di responsabilità, così come gli stati della legittima difesa E dello stato di
necessità che entrano in considerazione nel momento in cui si parla della norma comma sei
dell'articolo 102 di interessi pubblici, cioè della considerazione degli interessi pubblici. Quindi
se io compio un reato allora questa circostanza è una circostanza che in cui c'è la violazione di
un interesse pubblico che deve essere considerata nell'assetto anche della valutazione
dell'interesse leso.
- ART. 2: 103 DANNO DA ATTIVITÀ O FONTI ILLECITE, i danni connessi ad attività o fonti
che sono considerati illecite non possono essere risarciti. (È una disposizione che non nostro
ordinamento non è assolutamente scontata. Perché ad esempio se uno scippatore nel correre via
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dalla signora derubata, cade e si fa male, in quel caso non c’è il risarcimento del danno perché lo
scippatore stava svolgendo un’attività illecita. Nel nostro ordinamento invece non è così, perché
in sostanza vi è una persona che è caduta e si è ferita e non si guarda che stava perpetrando un
reato. Supponiamo l’ipotesi di un’azienda che produce polveri da sparo o fuochi d’artificio
vietati dall’ordinamento di una legge se si incendia il capannone non è oggetto di risarcimento
del danno nell’ordinamento europeo.)
- ART. 2: 104 SPESE DI SALVATAGGIO: le spese sostenute per prevenire un danno temuto
costituiscono danno risarcibile, nei limiti in cui esse siano ragionevolmente sostenute. (Questa
disposizione è connessa allo stato di necessità perché se per prevenire un danno si sostengono
delle spese, queste spese rappresentano una voce risarcibile)
- ART. 2: 105 PROVA DEL DANNO: il danno deve essere provato secondo il normale standard,
la corte può valutare la misura del danno ove la prova del suo preciso ammontare sia troppo
difficile o troppo costosa. (In realtà questa norma dice ben poco e si riferisce ai criteri standard,
ovvero l’onere della prova a carico dell’autore del danno oppure l’inversione dell’onere della
prova, quindi nel dire la commissione europea secondo gli standard normali significa riferirsi
completamente alla legislazione dei singoli stati membri. La corte può valutare la misura del
danno, può discrezionalmente valutare l’entità del danno laddove la prova del danno sia difficile
o costosa da sostenere, ciò può essere vero nell’anno all’ambiente poiché normalmente è
difficile parametrare a delle variabili concrete il danno ambientale e allora si ricorre ad una
forma che è quella del ripristino dello stato dei luoghi, oppure nel caso in cui il ripristino non sia
possibile il danno sarà determinato dal giudicante)
- ART.3: IL NESSO DI CAUSALITA: qui i principi di diritto europeo (questi principi non sono
stati i traduttori in legge ma rappresentano uno studio di riferimento per il legislatore
comunitario laddove si dovesse elaborare i lavori della commissione). sulla causalità la
commissione di diritto europeo assume come principale teoria del nesso di causalità, nel nesso
di causalità abbiamo parlato di due terrine in particolare, la teoria della casualità adeguata e le
teoria delle conseguenze immediate e dirette vi è un’altra teoria diffusa in giurisprudenza che è
stata ritenuta prevalente dalla commissione europea che è quella della CONDITIO SINE QUA
NON cioè l’agire della persona ha provocato il danno rappresenta la condizione senza della
quale il danno non si sarebbe verificato. (in realtà nei suoi effetti pratici può ritenersi assordita
dal meccanismo della casualità adeguata)

- ART. 3: 101 CONDITIO SINE QUA NON: un’attività o condotta è causa del danno subito dalla
vittima se in assenza di tale attività il danno non si sarebbe realizzato. La conditio sine qua non
allarga l’ambito della responsabilità ben oltre le conseguenze immediate e dirette; quindi, questa
conditio sine qua non è l’unico criterio adottato dalla commissione che allarga l’ambito della
responsabilità civile. Per cui senza quella condotta il danno non si sarebbe proprio verificato.
- ART 3:102 CAUSE CONCORRENTI: in caso di molteplici attività ove ciascuna di esse da sola
avrebbe causato il danno nello stesso tempo, ciascuna attività è considerata causa del danno
subito dalla vittima. Ci sono più attività e ognuna di queste attività causa il danno e di
conseguenza tutti gli artefici sono tenuti al risarcimento e si parla di cause concorrenti. Questa
situazione delle cause concorrenti nei principi viene tenuta dista dalle cause alternative.
- ART 3:103 CAUSE ALTERNATIVE: al comma 1 ci dice che: in caso di molteplici attività ove
ciascuna sarebbe stata sufficiente a causare il danno ma rimane incerto quale di esse in realtà lo
abbia causato, ciascuna attività è considerata causa del danno in proporzione al suo contenuto
probabile al verificarsi del danno subito dalla vittima. Quindi mentre nella prima ipotesi delle
cause concorrenti si sa con certezza che ci sono state più cause e tutte hanno contribuito, qui
l’ipotesi delle cause alternative prevede che ciascuno risponde per ciò che probabilmente ha
perpetrato e quindi ciascuno dovrà contribuire al risarcimento del danno in proporzione al
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probabile contributo al verificarsi del danno. Al Comma 2: in caso di molteplici vittime, se si ha


sicurezza che a una determinata attività non sia legato il danno, allora ci sarà un’esclusione di
responsabilità per cui ciascuno risponderà del danno sofferto da più vittime in proporzione al
suo contributo probabile al verificarsi del danno. (Sintesi: Se un danno causa più vittime
ciascuno sarà responsabile del danno causato a tutte le vittime, se c’è la prova che invece
l’azione inferta da un fattore non abbia determinato danni per una vittima ci sarà l’esclusione di
responsabilità. Ciascuno risponde per il danno alla vittima che probabilmente ha arrecato)
- ART 3:104 CAUSE POTENZIALI: il comma 1 ci dice: se un’attività ha comportato che una
vittima subisca un danno in modo certo e irreversibile una successiva attività che da sola
avrebbe potuto causare il medesimo danno, non dev’essere considerata. (Se una persona per
effetto di un’azione subisce un danno e per effetto di un ulteriore azione subirebbe lo stesso
danno, allora in tal caso non avrà due risarcimenti ma ne avrà uno solo) al Comma 2 continua:
per cui un’attività o azione successiva ed ulteriore sarà presa in considerazione solo se provoca
ulteriori danni o più grandi rispetto alla prima azione. Se invece si verifica che una prima attività
causa un danno continuato e un’attività successiva lo avrebbe causato a partire da un momento
successivo, entrambe rispondono per tutto il periodo continuato e non ciascuno per il proprio
periodo.
- ART 3:105 CAUSALITÀ INCERTA PARZIALE: in caso di molteplici attività in cui viene
causato un danno e non è possibile stabilire in quale misura ognuna delle attività abbia
contribuito al danno, si presume che tutte le attività lo abbiano causato in eguale misura.
- ART 3:106 CAUSE INCERTE NELLA SFERA DI INFLUENZA DEL
DANNEGGIATO: nel caso in cui non sia perfettamente determinabile il danno nella misura
corrispondente all’incidenza di una determinata attività il danno sarà sopportato dalla vittima nei
limiti delle circostanze riferibili alla sfera di influenza di quella determinata attività. Tale
principio pone assoluta incertezza di quello che voleva sembrare il superamento di tutte le
possibili interpretazioni del nesso di causalità perché nel momento in cui la commissione dice
che la CONDITIO SINE QUA NON è la teoria fondamentale attraverso la quale stabilire il
nesso di causalità va bene perché è un principio di riferimento, per se a quel principio della
CONDITIO SINE QUA NON, si accompagna questa statuizione, cioè che la vittima deve
sopportare il danno nella misura corrispondente alla possibile incidenza di un attività evento o
altre circostanze riferite alla proprio sfera di influenza, viene vanificato quindi il principio della
conditio sine qua non ,perché io che avevo causato un danno ad una persona con il motorino con
la conditio sine qua non rispondo della morte ma se invece applico il principio delle cause
incerte nella sfera di influenza del danneggiato vediamo come non rispondo della morte perché
quel incidente occorso successivamente non era nella sfera di influenza del danneggiante e
quindi viene escluso dalla responsabilità, quindi il contemperamento dei due principi in realtà ha
l’effetto di restringere il nesso di causalità con l’interpretazione alle conseguenze immediate
dirette.

5 ottobre (4)

I sistemi giuridici si suddividono tra civil law e common law, quello di civil law si costruisce su un
sistema chiuso di norme, cioè è chiuso intorno a un Codice civile a delle disposizioni di una legge
scritta; invece, i sistemi di common law sono caratterizzati da principi, in cui c’è grande
discrezionalità del magistrato nell’applicazione dei principi. Le caratteristiche di tali principi, sono
la sintesi, c’è spesso ripetizione tra i principi e si lascia grande discrezionalità al magistrato per
l’interpretazione perché le cose non sono così definite come vorrebbero far sembrare. Quindi alla
fine se è vero che il nostro sistema è molto particolareggiato sulle fattispecie, lascia comunque
discrezionalità al magistrato e quindi c’è maggiore certezza del diritto.
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- ART 3:201 fa riferimento all’ambito della responsabilità: quando un’attività è causa del danno,
ai sensi della sezione 1, se ed entro i limiti il danno possa essere attribuito a una determinata
persona dipende da alcuni determinati fattori che sono innanzitutto la prevedibilità del danno da
parte di una persona ragionevole al momento dello svolgimento dell’attività tenendo in
considerazione in particolare la congruità (inteso come continuità) del tempo nello spazio e le
sue conseguenze. Si fa riferimento a un principio di ragionevolezza, quindi
se in quel determinato contesto considerate particolari condizioni il danno era prevedibile che si
verificasse, la persona poteva anche evitarlo, questa è la responsabilità che si vuole imputare.
Laddove il danno imputabile si attenua la responsabilità dell’agente. La seconda circostanza
che regola l’entità della responsabilità è la natura e il valore dell’interesse protetto, quindi una
decisione della responsabilità correlata al valore che viene leso. C’è qui una considerazione
dell’interesse leso. La fonte e la responsabilità che fa riferimento: 1) ai limiti dei rischi ordinari,
cioè laddove c’è un’attività intrinsecamente rischiosa è chiaro che attenua la responsabilità del
danno e 2) all’art. 1:101 norma fondamentale, cioè l’attività dolosa o colposa che causa il danno
e 3) allo scopo di protezione della norma violata. Quindi l’ambito di responsabilità viene
valutata attraverso queste componenti, quindi una valutazione delle condizioni specifiche
presenti quando il danno si è verificato, cioè si va a vedere che tipo di valore è stato leso, se era
prevedibile che il danno si verificasse, se era un’attività intrinsecamente rischiosa, quindi tutti
questi elementi concorrono in un certo qual modo a limitare o a gravare la responsabilità, ma è
una statuizione che nel nostro ordinamento non avrebbe esistenza perché è talmente varia e
ampia che si può giustificare solo con un sistema di common law e in sostanza anche una
disposizione che va a motivare la discrezionalità del magistrato, cioè sono tutte vie d’uscita che
possono essere percorso per evitare gli effetti del danno o per evitarli a seconda della decisione
da prendere. Il titolo 3 fa riferimento a fonti della responsabilità, parlando di fonte della
responsabilità si fa riferimento a quello che noi nel civil law chiamiamo l’imputabilità e vale a
dire la responsabilità fondata sulla colpa.

- ART 4:101 afferma: un soggetto che dolosamente o per negligenza viola lo standard di condotta
richiesto, è responsabile per colpa. In tale principio c’è connessione tra dolo e colpa. (Perché
dice che un soggetto che dolosamente, che significa che consapevolmente viola lo standard per
colpa. Se questo standard viene violato volontariamente o per negligenza si ricorre nella colpa e
non nel dolo, anche se si infrange una regola di condotta.)
- l’ART 4:102 dice che lo standard di condotta richiesto è quello di una persona ragionevole
nelle circostanze del caso concreto e dipende in particolare dalla natura e dal valore
dell’interesse protetto (quindi interesse protetto, pericolosità dell’attività, perizia che ci si aspetta
da una persona che la esercita, dalla prevedibilità del danno, dalla prossimità o dall’affidamento
dei soggetti coinvolti, dalla disponibilità e dal costo delle misure di prevenzione o di metodi
alternativi, queste sono tutte le possibili varietà di condotta, cioè come può variare uno standard
di condotta). Il suddetto standard può variare ancora in ragione dell’età, della disabilità fisica o
psichica o in relazione a circostanze straordinarie; inoltre bisogna tener presente se esistono
delle regole che proibiscono o prescrivono determinate condotte. Da tale disposizione ci
rendiamo conto che in realtà anziché semplificare l’individuazione dello standard di condotta, si
complica la situazione, perché nel nostro ordinamento si fa riferimento alla cosiddetta diligenza,
quindi si fa riferimento a degli standard di condotta ragionevoli che le parti possono avere
nell’adempimento di questa particolare azione (diligenza ecc.), invece nei principi invece si
vuole modulare lo standard di condotta richiesto in relazione a tanti fatto e ci è una
contraddizione rispetto allo spirito della normativa perché vuole essere generalizzante e diventa
difficile stabilire uno standard di condotta rispetto a tutte le possibili attività cosicché la
commissione ha deciso di individuare tutte le forme di variabili cheti verificano nelle varie
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fattispecie di responsabilità e le ha introdotte nell’ipotesi dello standard di condotta che può


variare in base all’ età, alla condizione psico- fisica che è abbastanza fuori luogo perché il
minore, il disabile fisiopsichico sono situazioni in cui il danno non è imputabile, quindi non si
va a fare neanche la ricerca dello standard di condotta a meno che non ci sia una situazione non
accerta di disabilita fisica o psichica.

- ART 4:103 DOVERE DI PROTEGGERE ALTRI DA UN DANNO: è un principio generale, di


buona fede, che implica l’aiuto di un terzo in difficoltà, per cui stabilisce che il dovere di agire
positivamente per proteggere altri da un danno può sussistere se previsto dalla legge o se il
soggetto agente crea o controlla una situazione pericolosa o quando tra le parti intercorra una
specifica relazione o quando la serietà della lesione da un lato e la facilità di evitare il danno
dall’altro, implicano un tale dovere, questo altro non è che una traduzione del principio di
solidarietà che implica l’aiuto a chi si trova in una situazione di difficolta che viene per
specificato sia in un rapporto sociale, di amicizia, di fratellanza ecc., sia per la gravità della una
situazione in cui la persona si viene a trovare (noi nel nostro ordinamento ad esempio un reato
che è l’omissione di soccorso, cioè se vedo una persona che ha avuto un incidente per la strada,
in pericolo di salute, se non si interviene si incombe in un reato di omissione di soccorso).
Sezione 2: inversione dell’onere di provare la colpa, vediamo che nei principi di common law
l’inversione dell’onere della prova si ha in tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva che
prescinde dalla colpa del soggetto a cui il danno viene imputato, che poi è obbligato al
risarcimento del danno; quanto più l’attività è pericolosa, tanto più è possibile che si verifichi un
in tutti i casi in cui vi è questa scissione tra persona che provoca il tanno e imputazione della
colpa si ha responsabilità oggettiva e si ha anche l’inversione dell’onere dalla prova, quindi la
responsabilità oggettiva porta sempre con se l’inversione dell’onere della prova. Quindi laddove
l’attività è particolarmente pericolosa chi subisce il danno non deve dimostrare nella ma a chi
vien imputato il danno dovrà dimostrare di aver fatto tutto il possibile affinché il fanno non si
verificasse.

- ART 4:102 riguarda la RESPONSABILITA’ D’IMPRESA: una persona che esercita in modo
durevole l’impresa per scopo di lucro o professionali avvalendosi di ausiliari o di
apparecchiature tecniche è responsabile per ogni danno causato da un difetto di tale impresa o
della sua produzione salvo che provi di aver adottato lo standard di condotta richiesto. (Quindi il
proprietario dei mezzi di produzione che esercita un’attività pericolosa è responsabile di tutto
ciò che accade nello svolgimento di tale attività a meno che non provi di aver adottato lo
standard di condotta richiesto). In più rispetto al nostro ordinamento c’è il concetto dello
standard di condotta, che noi non abbiamo, cioè non è stabilita quale sia la condotta del
proprietario dell’impresa dei fuochi d’artificio; invece, a livello europeo sono stabiliti degli
standard di condotta per cui è più facile ricondurre l’attività pericolosa a quella dello standard di
condotto e di verificare, ed è più facile dare la prova. Una volta che vi è l’inversione dell’onere
della prova attraverso lo standard di condotta è più facile liberarsi da questo onere.

- ART 5 RESPONSABILITÀ OGGETTIVA ATTIVITÀ STRAORDINARIAMENTE


PERICOLOSE: chiunque eserciti un’attività straordinariamente pericolosa è oggettivamente
responsabile per il danno caratteristico del rischio presentato dall’attività e risultante dal
medesimo. Questa è una disposizione abbastanza indefinita perché dire chiunque eserciti
un’attività straordinariamente pericolosa è oggettivamente responsabile del danno caratteristico
del rischio in realtà si riferisce all’imprenditore, però anche l’operaio esercita l’attività
pericolosa, quindi, è una norma imprecisa. Un’attività è straordinariamente pericolosa in questi
casi: se crea un rischio particolarmente significativo e prevedibile di danno anche quando sono
esercitate tutte le attenzioni del suo esercizio (quindi è un attività intrinsecamente pericolosa pur
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usando molta attenzione); quando l’attività non risponde a pratiche di uso comune; un rischio di
danno può essere significativo con riferimento alla serietà o alla probabilità che lo stesso si
verifichi (laddove è molto probabile che si verifichi un danno grave, allora il rischio è
significativo). Al comma 4 dice che questo articolo non si applica ad un’attività se essa è
specificamente sottoposta a responsabilità oggettiva o dai principi, o da una legge nazionale, o
da una convenzione internazionale. Quindi nei principi vi è una differenza tra attività pericolosa
e attività straordinariamente pericolosa. L’attività straordinariamente pericolosa è eccezionale,
quella pericolosa ha un margine di pericolo per rientra in una probabilità media che si verifichi
un determinato danno. Invece l’attività straordinariamente pericolosa deve rispondere
esclusivamente a queste caratteristiche, cioè rischio significa che è prevedibile che il danno si
verifichi, nel caso in cui non sono adottate tutte le prescrizioni previste, non risponde ad una
pratica di uso comune, è un rischio di danno significativo in riferimento anche alla probabilità
che questo danno si verifichi e sono delle attività eccezionali.

- ART 5:102 ALTRE FATTISPECIE DI RESPONSABILITÀ


OGGETTIVA: il diritto nazionale può prevedere altre ipotesi di responsabilità oggettiva per
attività pericolose anche se l’attività non è straordinariamente pericolosa ed anche se la legge
non prevede espressamente ulteriori ipotesi di responsabilità oggettiva, possono essere
individuate altre ipotesi di attività pericolosa in analogia con altre forme di danno che sono
qualificate come attività pericolosa. Questa norma è di apertura ad altri tipi di danno, nel senso
che anche se un’attività non è qualificata come pericolosa per effetto di una legge nazione o
perché l’attività viene considerata pericolosa può essere considerata un’analogia con attività che
invece è apertamente ritenuta come pericolosa, ciò per dire che non sono a numero chiuso le
attività pericolose ma ce ne possono essere tante quante la prassi può far verificare.
Con questi principi fin ora esaminati, ci si sarebbe potuto aspettare che fossero superati tutti i
singoli casi di responsabilità oggettiva e questo perché componenti della commissione europea
sono italiani e hanno portato nei principi di common law quella che è la legislazione italiana.

- ART. 6: 101 RESPONSABILITÀ PER I MINORI che vengono equiparati agli incapaci psichici:
quindi nel nostro codice c’è la responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri
d’arte; invece nei principi europei abbiamo la responsabilità dei minori e per gli incapaci
psichici e viene così formulata: chiunque sia tenuto alla sorveglianza di un minore o di un
soggetto affetto da disabilità psichica è responsabile per il danno causato da questi salvo che non
provi di aver osservato lo standard di condotta richiesto nella sorveglianza. Quindi la differenza
è sempre la riconduzione allo standard di condotta quindi l’espressione indefinita del nostro
ordinamento, a meno che non provi di aver fatto tutto il passibile affinché il danno non si
verificasse, nel principio europeo viene ricondotto allo standard di condotta. Infatti, anche il
nostro ordinamento interno man mano sta stilando degli standard di condotta per le varie attività
in modo che sia oggettivamente determinabile questa responsabilità del sorvegliante.

- ART 6:102 RESPONSABILITA’ PER IL FATTO DEGLI AUSILIARI:


Chiunque è responsabile per il danno causato dai propri ausiliari che agiscono nelle proprie
funzioni in violazione dello standard di condotta richiesto. Un collaboratore autonomo non
viene mai considerato ausiliare perché gli ausiliari sono sempre legati da un rapporto di lavoro
strutturato, ma il collaboratore autonomo non è mai considerato ausiliare ai fini della
responsabilità per il fatto degli ausiliari. (Stesso meccanismo in riferimento allo standard di
condotta)

- Titolo IV cause di esclusione o limitazione della responsabilità, capo settimo cause generali: il
primo articolo è
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- ART 7:101 CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE: la responsabilità può essere esclusa se è nei limiti
in cui il soggetto abbia agito legittimamente in questi casi: in difesa dei propri interessi protetti
contro un’aggressione ingiustificata e questo è il caso della legittima difesa; in stato di necessità
perché l’intervento delle autorità non poteva essere ottenuto in tempo e quindi è ricorso
all’autotutela (cosa che non è prevista nel nostro ordinamento); con il consenso del danneggiato
o nel caso in cui quest’ultimo abbia assunto il rischio di essere danneggiato o in virtù di un
provvedimento legittimo come nel caso di un’autorizzazione; in casi straordinari la
responsabilità può essere anche soltanto ridotta. E questi sono i casi di giustificazione, sono le
ESIMENTI del diritto europeo.

- ART 7:102 CAUSE DI ESONERO DELLA RESPONSABILITA’


OGGETTIVA che può essere esclusa se la lesione è stata causata da una irresistibile e
imprevedibile causa di forza maggiore o dalla condotta di un terzo, in questo caso, cioè se vi è
l’influenza di un terzo vige in un principio di solidarietà tra il danneggiante e il terzo. Vi sono
poi una serie di meccanismi che vogliono temperare il diritto della responsabilità: il concorso di
condotta o attività del danneggiato che può portare, laddove la condotta è stata in qualche modo
con causa del verificarsi del danno, si ha attenuazione della responsabilità del soggetto agente.
Così come se vi sia stato la morte di una persona, o il ferimento ecc. si tiene sempre in
considerazione quale sia stata la condotta nella persona che ha subito il danno, ovvero la persona
che è morta o che è stata danneggiata. Questa considerazione della condotta o dell’attività del
danneggiato, nella nostra normativa è assolutamente assente.

- TITOLO V prevede la PLURARITA’ DI DANNEGGIANTI in cui vi è una responsabilità


solidale e parziaria con riferimento ai rapporti tra il danneggiato e una pluralità di danneggianti e
tale principio è un po’ di ragionevolezza, cioè se la responsabilità dice l’art.9:101 vedi sotto.

- ART 9:101 regola la RESPONSABILITA’ SOLIDALE E PARZIARIA nei rapporti tra il


danneggiato e una pluralità di danneggianti che dice che quando il danno sofferto dalla vittima è
stato imputabile a due o più soggetti la responsabilità è solidale tra i soggetti che hanno causato
il danno e questa imputabilità a qui o più soggetti viene ravvisata: quando un soggetto partecipa
consapevolmente, o istiga o incoraggia l’illecito che poi altri pone in essere nel momento in cui
provoca un danno, Le ipotesi sono molte ma sostanzialmente ogni volta che c’è un concorso di
colpa o tra danneggianti o tra danneggianti e danneggiato è sempre previsto il principio della
responsabilità solidare (e quindi o il comportamento o l’attività indipendenti di un soggetto causi
un danno alla vittima e il medesimo danno è imputabile anche ad un altro, un soggetto è
responsabile dal danno causato da un ausiliare nelle circostanze in cui anche l’ausiliare è
responsabile per cui volendo sintetizzare possiamo dire che ogni qual volta vi è una
corresponsabilità tra danneggianti oppure tra danneggiante e danneggiato vi è sempre il
principio della solidarietà) che ha l’effetto di limitare il risarcimento del danno. LA
CARATTERISTICA DELLA SOLIDARIETÀ, innanzitutto La solidarietà può essere sia attiva
che passiva, attiva quando abbiamo più creditori che sono legati da solidarietà, (cioè la
comunicazione nasce come solidale, per esempio in una relazione tra coniugi il regime di
comunione legale dei beni sono sempre solidali se viceversa i coniugi aprano per il principio di
separazione dei beni le obbligazioni sono parziali non c’è più vincolo della solidarietà) e
l’adempimento della prestazione fatto al co-creditore solidale libera il debitore anche per quanto
riguarda la sfera giuridica degli altri creditori salvo il regresso che gli altri creditori vanteranno
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(diritto di regresso) nei confronti di chi ha ricevuto l’adempimento. Viceversa, La passiva indica
che l’adempimento della prestazione fatta nelle mani del creditore laddove la prestazione sia
solidale, libera tutti i condebitori solidali con il diritto di regresso del debitore pro quota nei
confronti degli altri condebitori solidali. Aldilà del funzionamento dell’obbligazione solidale
vige un principio: si estendono ai condebitori solidali gli effetti vantaggiosi e non quelli
pregiudizievoli e ciò significa che l’adempimento fatto da un condebitore solidale libera tutti dal
punto di vista del creditore; invece, la messa in mora fatta dal creditore ad uno dei condebitori
non si estende agli altri. Questi principi vengono esattamente trasfusi nell’ambito delle
responsabilità del danno, vale il diritto di regresso, vale il principio degli atti pregiudizievoli e di
quelli svantaggiosi.

I rimedi della responsabilità civile sono diversi: abbiamo vari tipi di risarcimento, il risarcimento
per equivalente monetario e in forma specifica. Per equivalente monetario significa che il danno
viene tradotto in somma di danaro, in forma specifica invece prevede il ripristino della situazione
precedentemente al verificarsi del danno. E Anche in questa statuizione di principi abbiamo questa
differenza, poi vi è l’affermazione di un principio che è assente nel nostro ordinamento: ovvero la
valenza deterrente del risarcimento, significa che il risarcimento che ha lo scopo di riparare il danno
e di prevenirlo. Talvolta può essere anche una sanzione ad un danno che non si è ancora verificato
ma che si potrebbe verificare, quindi ha una funzione anche preventiva.

- Infatti, l’ART 10:101 afferma che il risarcimento consiste nel pagamento di una somma di
danaro per rimettere il danneggiato, nei limiti in cui il denaro possa, nella posizione che avrebbe
occupato se l’illecito non fosse stato commesso per precisa l’articolo 10:101 il risarcimento ha
per scopo anche la prevenzione del danno (il principio preventivo, evitare che si verifichi). I
danni sono liquidati in somma capitale o con pagamenti periodici e ciò dipenderà dalle
possibilità che ha il danneggiante di risarcire ma anche dalla volontà del danneggiato. Nel
determinare l’ammontare dei danni, i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell’evento
dannoso devono essere presi in considerazione, salvo che ciò non sia conciliabile con lo scopo
dei vantaggi. I vantaggi ottenuti dal danneggiato (come, ad esempio, il soggetto non è andato a
lavorare ed ha avuto la retribuzione, questo è un elemento che deve essere considerato.
Viceversa, se si tratta di un professionista che non è andato a lavorare e avrà preso dei redditi),
salvo che ciò non sia inconciliabile con lo scopo. Abbiamo anche il risarcimento in forma
specifica, infatti ai sensi dell’art 10:104 la riparazione in forma specifica, può essere richiesta
dal danneggiato, al posto dell’equivalente monetario.

- ART 10:101 NATURA E QUANTIFICAZIONE DEL DANNO


PATRIMONIALE, il danno patrimoniale dev’essere determinato con elementi concreti, cioè
deve essere sempre preso come riferimento un valore di mercato.
- ART 10:102 DANNO ALLA PERSONA, dice che il danno patrimoniale comprende
esclusivamente le voci di lucro cessante, che è il guadagno non conseguito per effetto del danno;
il deterioramento della capacità di guadagno, se per esempio è stato ferito ad un braccio un
artigiano questa persona potrebbe non poter più svolgere il suo lavoro quindi non solo c’è il
lucro cessante ma c’è anche il deterioramento della sua capacita di crearsi reddito in futuro; e
ancora le spese mediche, cioè i costi di eventuali interventi. Quindi il danno alla persona ha una
componente patrimoniale che è rappresentato da queste voci, e poi il caso di morte che riguardi
persone che col proprio reddito mantengono gli altri familiari, essi sono destinatari del
risarcimento nei limiti della perdita del sostegno economico che avrebbero avuto dalla persona
morta. Per la perdita e la distruzione di cose il risarcimento è uguale al valore delle cose.
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- ART 10:103 il danno non patrimoniale, che può essere un danno alla persona, una lesione della
dignità umana, della libertà, dei diritti della personalità ecc. e questo è risarcibile non solo in
capo alla persona che ha subito il danno ma anche alle persone che hanno relazioni di vita con il
danneggiato e in questo caso nella liquidazione dei danni si tengono presenti i principi della
lesione dell’integrità psicofisica, cosi come vengono risarciti nei singoli ordinamenti quel tipo di
lesioni.

CONTATTO SOCIALE [8 ottobre (5)]

Abbiamo già accennato alle differenze tra le due forme di responsabilità contrattuale e
extracontrattuale, con riferimento alle conseguenze: di quella contrattuale, innanzitutto l’azione per
far valere questa forma di responsabilità si prescrive in 10 anni, quella extracontrattuale in 5 anni e
poi abbiamo una differenza relativamente all’onere della prova, vale a dire che il semplice fatto di
aver posto in essere un’attività diligente o di aver compiuto quello che era nelle obbligazioni
contrattuali, libera la parte dalla responsabilità, a differenza invece per la extracontrattuale in cui ci
sarà l’onere della prova, vale. A dire che il danneggiato dovrà provare di aver subito un danno,
dovrà provare tutta una serie di componenti che ha visto cioè il nesso di causalità, l’imputabilità e la
lesione del bene, e l’antigiuridicità di questo danno conseguito. Pe cui Ne discende che è molto più
semplice la prova di una responsabilità contrattuale, piuttosto che extra contrattuale. Proprio per
questa ragione la giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato la RESPONSABILITA’ DA
CONTATTO
SOCIALE, come particolare tipo di responsabilità contrattuale che però nasce non da un contratto
ma da un contatto sociale, quindi un rapporto che si viene ad istaurare tra due soggetti non in virtù
di un accordo preventivo tra le parti ma di un obbligo legale tra le parti o di una conseguenza di
altro rapporto contrattuale istauratosi tra soggetti diversi rispetto a quelli del contatto sociale. In
realtà si tratta di un rapporto contrattuale di fatto senza che vi sia l’incontro dei consensi e in tal
senso si possono citare ad esempio tutti i contratti di massa che si concludono mediante gli
apparecchi a gettoni o a monete (macchinetta per pagare il parcheggio, distributori di bibite, di
sigarette, service di benzina) ecc. in questo caso, quindi, non c’è stata una contrattualizzazione
preventiva ma abbiamo l’utilizzazione del servizio che fa presupporre il consenso in un ipotetico
contratto che in realtà non è mai stato stipulato, (questa è una fattispecie: tutti i rapporti di massa).
Vi sono altre tipologie di ipotesi che derivano dal contatto sociale senza che sia stato stipulato un
vero e proprio contratto, come i rapporti precontrattuali e di cortesia come il rapporto tra il medico
dipendente dall’ospedale e il paziente oppure il rapporto che si viene a istaurare tra il cittadino che
ha bisogno di un certificato e si reca presso la pubblica amministrazione e appunto l’impiegato di
quella pubblica amministrazione e in questa categoria rientrano anche l’istituto della mediazione,
cioè il mediatore o della gestione di affari.

Varie sono le teorie che sono state elaborate per dare un inquadramento a queste figure Tuttavia, il
punto particolare rappresenta proprio il momento in cui vi è l’incontro dei consensi: per cui secondo
una parte della dottrina ci troviamo davanti ad un vero e proprio contratto che si perfeziona con il
comportamento concludente (anche quando studiavamo il diritto privato, ricordiamo che tra le varie
forme in conclusione del contratti ci è il comportamento concludente), ma in realtà tale
comportamento concludente è caratterizzato dal fatto che il contratto c’è ma direttamente col
soggetto con cui la parte ha il rapporto diretto (pensiamo ad esempio l’acquisto di un giornale da un
giornalaio qui il contratto per comportamento concludente è quello orale che intercorre tra il
venditore del giornale e colui che vuole comperare questo giornale si crea quindi una rapporto
diretto e si dice per comportamento concludente, per cui il consenso dell’accettante, in questo caso
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del compratore, sarebbe implicito nel suo comportamento; diverso invece è il rapporto che si
instaura tra un paziente che si reca in ospedale e chi viene curato da un determinato medico della
struttura, in questo caso il paziente che si reca in ospedale per essere curato nella struttura fa un
contratto con la struttura ma non con quel determinato medico per cui il rapporto con la struttura è
un rapporto sorretto da un contratto mentre il rapporto con il medico è un rapporto che viene e
basarsi sul contatto sociale, vale a dire un contatto che non viene esplicitato nel contratto); di
conseguenza, laddove quindi il soggetto manifesti esplicitamente la volontà di non voler accettare il
regolamento contrattuale, il contratto non sarà concluso e ci sarà una protestatio contra factum,
mancata accettazione di uno stato di fatto.

Per quanto riguarda gli altri aspetti della fattispecie, cioè quella in cui il contratto si conclude,
sicuramente nei limiti di compatibilità delle fattispecie il regolamento del rapporto avverrà secondo
le caratteristiche di quello specifico contratto. La dottrina in ottica contrattuale ha sostenuto che in
realtà ci sarebbe in questi casi un contratto senza consenso; significa che normalmente il contratto si
forma con l’accordo ai sensi dell’articolo 1321 c.c., invece in questo caso, abbiamo una fattispecie
che si può configurare come contratto con obbligazioni a carico del solo proponente (art. 1333c.c.
che ci dice che la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino obbligazioni per il solo
proponete è irrevocabile non appena giunge a conoscenza della parte alla quale è destinata, il
destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o degli usi, in
mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso.); abbiamo poi contratti che si concludono mediante
moduli o formulari e anche qui la semplice accettazione mediante l’apposizione della firma
rappresenta la conclusione del contratto. Tutti i casi in cui c’è contatto sociale, in realtà c’è anche un
contratto di fatto che nasce al di fuori dell’accordo delle parti e si basa esclusivamente sul
comportamento tipico che viene valutato come accettazione, che poi la volontà della persona che
accetta questo contratto sia in realtà diversa e non sia assorbita dall’accettazione contrattuale non
verrà questo dissenso esteriormente manifestato all’esterno e ci si baserà su quel comportamento.
Questa prospettiva viene anche a modificare quello che è il concetto di contratto che si basa
sull’incontro tra proposta e accettazione: perché è come se la persona si trovasse davanti a un fatto
compiuto e deve solo accettare quella situazione che le si è presentata.

Da questo punto di vista nascono determinati dubbi. Questa teoria della ricostruzione e del contatto
sociale come un contratto che viene concluso in una modalità desueta non è stata univocamente
accettata dalla dottrina; infatti, questo contratto di fatto che sarebbe il contatto sociale esula
dall’ambito contrattuale per rientrare nell’ambito dell’art. 1173 c.c. (questa è la seconda teoria), che
fa riferimento alle fonti dell’obbligazione e ci dice che le obbligazioni hanno la propria fonte nel
contratto, nel fatto illecito, dalla legge o ogni altro o fatto idoneo a produrlo in conformità
all’ordinamento giuridico, per cui questa modalità di nascita di un’obbligazione e di
un’obbligazione risarcitoria, diventerebbe fonte dell’obbligazione in quanto rapporto contrattuale di
fatto che qualche autore chiama quasi contratto. Con questo articolo, viene posta un’apertura, quindi
ogni atto/fatto che secondo i principi dell’ordinamento giuridico faccia nascere un’obbligazione è
ritenuta fonte dell’obbligazione e quindi il rapporto contrattuale di fatto che si viene ad instaurare
diventa obbligazione (immaginiamo il rapporto tra il paziente e il medico che è un rapporto di quasi
contratto o rapporto contrattuale di fatto perché in realtà il rapporto contrattuale di diritto è stato
costruito per la struttura che può essere una clinica, un ospedale, ma non con quello specifico
medico, quindi il rapporto con la struttura è un rapporto di contratto il rapporto con il medico può
essere ricostruito come rapporto contrattuale di fatto o quasi contratto che secondo l’art. 1173 è
idoneo ad essere considerato fonte di obbligazione, quindi questo rapporto a differenza di quello che
lega il paziente alla struttura ospedaliera che è un atto volontario perché nel momento in cui mi
vado a ricoverare decido di instaurare un rapporto contrattuale con una determinata struttura, invece
nel momento in cui ho il rapporto con il medico io non ho un rapporto contrattuale indiretto con il
medico ma un rapporto contrattuale di fatto) . Questo rapporto, quindi, non nasce dalla volontà dei
contraenti, ma da un fatto giuridico socialmente tipizzato e manca un elemento fondamentale per la
nascita di un contratto che è appunto il consenso, ai sensi dell’art. 1325 c.c. Affinché questi tipi di
rapporti si possano instaurare, non occorreranno i requisiti di capacità legale richiesti per stipulare

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un contratto e quindi non vale neanche la protestatio (cioè l’opposizione di un soggetto per evitare
le conseguenze giuridiche che possono nascere da queste fattispecie). Dovrebbe essere almeno in
ogni caso garantita la capacità di riconoscere che la propria condotta è socialmente tipica rispetto a
quel rapporto di fatto che si è andato ad istaurare.

La fattispecie da cui nasce la responsabilità da contatto sociale è il contatto sociale tra medico e
paziente. A partire dalla fine del 1999, la giurisprudenza ha accolto la teoria dei rapporti contrattuali
di fatto nel nostro ordinamento e ha stabilito che le regole della responsabilità contrattuale, si
applicano anche ai rapporti che nascono dal contatto sociale. In tal senso Vi è sentenza emessa dalla
cassazione nel 1999 la numero 589, peer cui questa nozione viene applicata al rapporto tra il
medico del pronto soccorso che è dipendente di un ente ospedaliero e il paziente: quindi in sostanza
tra il medico e il paziente ancorché non sia stato stipulato alcun contratto, ricorre un rapporto
giuridico che deve essere ricondotto all’art 2043, che disciplina i casi in cui il soggetto danneggiato
e danneggiante non sono legati da un vincolo contrattuale, se on da un generico dovere neminem
laedere, quindi in realtà il medico e il paziente altro non sarebbero che due sconosciuti, per cui il
medico deve rispettare l’integrità fisica del paziente. Secondo l’interpretazione della giurisprudenza
della cassazione, sebbene il medico sia un dipendente ospedaliero tuttavia non può essere tratto
come uno sconosciuto nei rapporti con il paziente, nel senso che il medico è comunque tenuto
all’obbligo di non danneggiare l’altro specie quando è un paziente e quindi il rapporto tra i due
poteva essere ricondotto alla lesione ex art 2043 quindi responsabilità extracontrattuale e
conseguenze relative, ossia termine di prescrizione 5 anni e anche onere della prova a carico del
danneggiato. Ma in realtà questa strada non è stata preferita perché in realtà le obbligazioni del
medico consistenti nel neminem laedere, possono derivare anche da un altro tipo di fonte che è
l’obbligo generale di correttezza; quindi, è un fatto idoneo per l’ordinamento a costituire fonte di
un’obbligazione aldilà del rapporto contrattuale esistente con la struttura ospedaliera. Quindi in
realtà la strada per poter agilmente trasferire il piano della responsabilità da un piano
extracontrattuale a un piano contrattuale, era quello di una responsabilità contrattuale indiretta, ciò
significa che è comunque responsabile la struttura ospedaliera, essendo il medico un’emanazione
della struttura ospedaliera, indirettamente e contrattualmente è responsabile come se fosse la
struttura ospedaliera (con cui è stato fatto il contratto). Gli ostacoli a questa ricostruzione: in realtà
viene riconosciuta un certo margine di discrezionalità e autodeterminazione nella figura personale
del medico rispetto alla struttura ospedaliera: ciò significa che nell’esercizio della professione
medica ci sono delle scelte che prescindono dalla struttura e sono soltanto attribuibili direttamente
alla competenza del medico, e questo è uno degli ostacoli a questa forma di responsabilità indiretta
del medico invece della struttura ospedaliera. Per cui la strada più semplice è quella della
costruzione della responsabilità per contatto sociale, per cui le due persone, medico e paziente,
vengono a contatto e si genera la responsabilità.

La sentenza 589 del 1999 fa recepire la tesi di uno studioso di diritto privato Gazzoni, che introduce
delle innovazioni molto radicali nella teoria generale delle obbligazioni, per come si era delineata a
partire dal 1942, quindi il Gazzoni introduce nel nostro ordinamento la figura fra rapporto
contrattuale di fatto che fino al 1999 era sconosciuto alla giurisprudenza e ignorata dalla dottrina
maggioritaria, ed inoltre Gazzoni rompe il confine tra la responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale, facendo rientrare nell’area contrattuale figure che rientravano nella responsabilità
extracontrattuale ex articolo 2043. Questi principi esposti in relazione alla sentenza 589 del 1999
sono estensibili anche ad altre tipologie di rapporto, ad esempio il rapporto tra il figlio diventato
maggiorenne e nato malformato a causa di un errore del ginecologo, ed il medico stesso. Quindi
abbiamo l’ipotesi trattata dalla giurisprudenza nel 2015 della sentenza che è relativa invece al
rapporto tra la madre e il medico ginecologo che a causa di un suo errore abbia fatto nascere il figlio
con delle malformazione; oppure il padre che vanti delle pretese verso il ginecologo che ha
commesso errori di diagnosi, in una sentenza del 2006; ed infine la responsabilità della banca per il
pagamento di un assegno circolare a soggetto non legittimato, cioè il soggetto aveva presentato i
documenti ma questi documenti successivamente si rilevavano falsi e quindi nasce una
responsabilità della banca perché il suo funzionario aveva pagato questo assegno circolare a persona

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non legittimata (sentenza 14712/2007); ancora poi il rapporto tra l’insegnante e alunno di una scuola
pubblica che si sia provocato una lesione; la responsabilità della PA per inesatte informazioni fornite
al cittadino. Questi casi, sono tutti casi in cui la responsabilità contrattuale va ad invadere un’area
che prima era extracontrattuale, e l’elenco sei casi deve considerarsi un elenco aperto perché si
potranno sempre verificare dei rapporti in cui il danno viene perpetrato da un soggetto che era
obbligato in virtù di una disposizione di legge a proteggere e tutelare i terzi, quindi amministratori
pubblici, organi di polizia giudiziaria nei confronti dei cittadini.

Volendo approfondire questi casi, andiamo a considerare quello della banca per il pagamento di un
assegno circolare a un soggetto non legittimato, in particolare la sentenza della cassazione a sezioni
unite 14712/2007: colui che paga malamente l’assegno non trasferibile se ne assume la
responsabilità, la responsabilità del banchiere dipende dalla violazione di norme specifiche poste a
tutela del consumatore, con la conseguenza che la responsabilità che ne deriva è di tipo contrattuale,
questa responsabilità in questione deriva dalla violazione di un obbligo di protezione che opera nei
confronti di tutti i soggetti interessati alla regolare circolazione del titolo e al buon fine della
sottostante operazione, obbligo preesistente specifico e volontariamente assunto.

Questa sentenza che è stata affrontata, riguarda i rapporti tra il cliente e la banca ( vedi file ), in
realtà il caso riguarda un promotore finanziario che si era appropriato di assegni bancari non
trasferibili derivanti da investimenti dei clienti o che gli erano stati consegnati dai clienti stessi per
fare degli investimenti presso la banca; il promotore finanziario aveva fatto negoziare questi
assegni violando l’art. 43 della legge sui titoli bancari, presso un’altra banca da due agenti di
cambio con l’apposizione da parte degli agenti della clausola PER CONOSCENZA E GARANZIA.
Il promotore finanziario si era anche appropriato, dopo poco tempo del ricavato delle operazioni in
borsa che erano state effettuate da questi agenti di cambio a nome dei vari clienti che erano ignari di
quello che il loro promotore finanziario stava facendo e il ricavato che era stato consegnato al
promotore da questi ultimi nella consapevolezza che questi proventi fossero diretti ai clienti.

I clienti all’oscuro di tutto avevano chiesto il rimborso alla banca che aveva tratto gli assegni e che
era incorporante della società proponente del promotore; in realtà la banca si era fatta cedere per
surrogazione i propri diritti e aveva agito contro la banca negoziatrice iniziale che non aveva pagato
andando incontro alla violazione dell’art.43 della legge sugli assegni in base alla quale la
responsabilità di chi paga un assegno non trasferibile ad un terzo diverso dal beneficiario ricade
sulla banca. Per alcuni di questi assegni erano trascorsi più di 5 anni, ma meno di 10, e quindi si
poneva il problema della prescrizione dell’azione per far valere la relativa responsabilità della banca
negoziatrice perché se la fattispecie fosse stata inquadrata come responsabilità extracontrattuale non
poteva proporsi nessuna azione, invece se la responsabilità della banca fosse stata inquadrata come
responsabilità contrattuale allora il termine di prescrizione decennale consentiva l’esercizio
dell’azione. Nel primo grado di giudizio la domanda della banca attrice era stata respinta e quindi
non era stata considerata supportabile dal punto di vista giuridico, nel secondo grado viene sostituito
l’avvocato e la banca attrice cambia la linea difensiva appunto optando per questo tipo di
responsabilità da contatto sociale. Per cui la responsabilità della banca mal pagante era stata risolta
sulla base dell’esistenza di una responsabilità contrattuale e non extracontrattuale. Perché se fosse
stata fatta valere la responsabilità contrattuale sostenuta in primo grado per anni, allora la banca
attrice non avrebbe avuto ragione. Invece sulla base della responsabilità extracontrattuale è stato
possibile procedere a riconoscere la responsabilità della banca per cui aveva agito il promotore
finanziario. La suprema corte con la sentenza 19512 del 2005 afferma : “ solo l’azienda girataria per
l’incasso ha la possibilità di un diligente vaglio sulla persona del presentatore ivi comprese le sue
qualità e sulla natura del documento esibito, elementi questi che concorrono ad integrare un
pagamento diligente e liberatorio” in diversi termine invece l’art 43 della legge sull’assegno per
agevolare l’incasso dell’assegno che era intrasferibile ne aveva ammesso la girata per l’incasso
esclusivamente ad un bancario sul cui vaglio fa affidamento. Non aveva quindi approfondito
l’identità della persona che aveva presentato l’assegno per l’incasso. Per cui viene riconosciuta la
responsabilità della banca girataria per l’incasso che non si viene a configurare come obbligazione

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derivante da reato, ma come OBBLIGAZIONE EX LEGE E NON ex delicto riconducibile all’art


1173 vale a dire “ad ogni altro fatto o atto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità
dell’ordinamento giuridico. Attraverso questa fattispecie tipica di obbligazione che pur non avendo
natura contrattuale non viene ricondotta all’art 2043 ma alla responsabilità contrattuale. Il banchiere
giratario per l’incasso che paga un assegno non trasferibile a persona diversa dal beneficiario
indicato dal titolo incorre in una responsabilità nei confronti del beneficiario che non ha natura
contrattuale ( non essendovi un rapporto negoziale di sorta tra banca e beneficiario ) , né
extracontrattuale che riguarda il comportamento illecito per violazione dell’obbligo generico del
nemine laedere ( che è quello che fa capo alla responsabilità contrattuale ex art 2043), bensì si tratta
di una responsabilità che vien definita dalla cassazione ‘quasi contrattuale’ ai sensi dell’ultima parte
dell’art 1173 del c. c. ossia un obbligazione che deriva dalle legge, e questa legge è rappresentata
dall’articolo 43 Legge sull’assegno che prevede l’obbligo a carico del banchiere giratario per
l’incasso di pagare solo al soggetto ordinatario ed il correlativo diritto a favore di un soggetto di
chiedere il risarcimento del pregiudizio patrimoniale patito. Per cui ne consegue che il termine di
prescrizione della responsabilità è quello ordinario decennale, non quinquennale come indicato
nell’art 2947 comma 1 (per la domanda risarcitoria da fatto illecito). Questa obbligazione ex lege,
cioè per violazione dell’ art 43 della legge sull’assegno era stata ritenuta esistente anche dalla
sentenza successiva della cassazione ( numero 18543 del 2006) che di nuovo ribadì il principio : “
nell’ ipotesi di pagamento di assegno bancario non trasferibile la banca che abbia effettuato il
pagamento in favore di chi non era legittimato non è libera dall’originaria obbligazione finché non
paghi al prenditore esattamente individuato, ossia al banchiere giratario per l’incasso e ci a
prescindere dall’esistenza della colpa nell’errore sull’identificazione dello stesso prenditore, quindi
derivando la responsabilità della banca dalla violazione ex lege sempre dell’art 43 comma 2 ossia
l’obbligo della banca di pagare l’assegno esclusivamente all’intestatario titolare del diritto per il
risarcimento del danno eventualmente subito”.

Queste sentenze riescono ad incanalare la responsabilità su chi ha violato un obbligo di condotta;


tuttavia, lasciano perplessi alla nascita di questo terzo genere di responsabilità ossia la responsabilità
da quasi contratto che viene identificata con contatto sociale.

Tuttavia, Rispetto a questo impianto che nasce per vari tipi di responsabilità come quella medica,
nel tempo vi sono stati dei temperamenti, cioè degli aggiustamenti con degli interventi legislativi
che precludevano la strada della responsabilità del contatto sociale. Ciò è vero soprattutto in ambito
medico perché stava nascendo una tendenza che prende il nome di medicina difensiva, per cui il
medico ogni volta che doveva prendere una decisione importante per il paziente optava sempre per
la linea più prudente che lo esponeva a minori rischi personali di responsabilità a scapito di
soluzioni che potevano essere sicuramente più efficaci per il paziente. E quindi nel momento in cui
attraverso la responsabilità da contatto sociale si introduce un canale di scorrimento molto veloce
per addossare la responsabilità ora al medico, ora al funzionario di banca, ora al soggetto preposto,
questi fanno in modo da evitare qualsiasi responsabilità, trincerandosi dietro delle scelte prudenti
che nel caso del medico poteva determinare non la miglior scelta per paziente, E così nasce proprio
per evitare il continuo ricorso al contatto sociale in ambito medico pur in assenza di uno specifico
contratto tra le parti, viene innovata la situazione con l’emanazione di una legge Gelli Bianco in
base alla quale non può più la giurisprudenza applicare questa fattispecie della responsabilità da
contatto sociale. La legge Gelli Banco che è sulla responsabilità medica prevede delle disposizioni
in materia di sicurezza delle cure della persona assistita nonché in materia di responsabilità
professionale degli esercenti le professioni sanitarie. La legge viene emanata nel 2017, e ridefinisce
la materia creando una disparità di trattamento tra i fatti antecedenti al 2017 (in particolare al 1°
aprile 2017 data di entrata in vigore della legge Gelli bianco) e i fatti successivi alla stessa non
essendo la legge Gelli bianco retroattiva. Questa legge stabilisce che il personale sanitario risponde
del proprio operato su base extracontrattuale salvo che abbia agito nell’adempimento
dell’obbligazione contrattuale assunta con il paziente ossia a seguito di esplicito accordo. Significa
che se il medico agisce nell’ambito di una struttura sanitaria e compie un errore risponderà a titolo
di responsabilità extracontrattuale in base a questa legge. Se invece agisce in una clinica privata ed

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abbia avuto uno specifico mandato per operare il paziente dal paziente e quindi intercorra tra
paziente e il medico un rapporto contrattuale allora risponderà per responsabilità contrattuale. In
sostanza questa legge pone un esplicito divario tra il periodo precedente e quello successivo. Le
conseguenze sono che il medico (l’esercente della professione sanitaria che opera presso una
struttura sanitaria) risponderà ex art 2043 quindi ogni qualvolta per aver commesso qualsiasi fatto
doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto con il periodo di prescrizione di 5 anni e
l’obbligo del paziente o dei parenti del paziente di rispondere o provare la responsabilità denunciata
del medico, ossia il nesso di causalità tra operato del medico e il danno denunciato. Questo per
evitare la cosiddetta la medicina difensiva, cioè questo atteggiamento controproducente per i
pazienti. Gli avvenimenti risalenti prima della legge Gelli bianco resta valida (quindi prima del 1°
aprile 2017) ed applicabile l’ipotesi del contatto sociale per cui al paziente toccherà dimostrare
soltanto di aver subito un danno mentre il personale sanitario chiamato in causa dovrà provare che il
suo comportamento non abbia procurato danni al paziente. Le direzioni sanitarie delle strutture da
parte loro in base alla Legge Gelli Bianco hanno l’obbligo di fornire entro 7 giorni la
documentazione sanitaria dei pazienti che ne fanno richiesta, quindi vediamo come In realtà la legge
Gelli Bianco vada a costituite un argine rispetto alle tantissime cause che si presentavano in materia
medica e che in realtà portavano a delle condanne ai medici che in realtà potevano non avere una
responsabilità per il fatto che la struttura sanitaria richiedeva un attenzione particolare al punto tale
da dover trascurare i pazienti, nel senso che è difficile configurare la responsabilità contrattuale in
capo ad un medico di una struttura sanitaria proprio perché questa responsabilità deve essere tarata
anche relativamente alla struttura sanitaria nella quale viene espletata la prestazione. Se un solo
medico è responsabile di un intero reparto dove ci sono tanti pazienti non può il medico essere
responsabile per un’inefficienza della struttura. Per cui alla fine da un lato si verificava un
cuscinetto di responsabilità che ricadeva sul medico piuttosto che sulla struttura per carenze
strutturali e sanitarie e dall’altra si verificava il fenomeno della medicina difensiva.
Per evitare ciò è stata quindi emanata la legge Gelli Bianco che sostituiva la precedente Balduzzi
sulla responsabilità medica che esclude dal 1° aprile 2017 la responsabilità per contatto sociale.

11 ottobre (6)

LA TUTELA DEI DANNI PERSONALI

Il problema per il professionista è quello di capire come deve agire per non incorrere nella
responsabilità; quindi, bisogna conoscere la struttura della fattispecie per conoscere la sanzione che
è la responsabilità.

L’argomento della tutela della privacy assume dei confini sempre più ampi perché il dato personale
è un’identità immateriale ma di carattere globale perché una volta immesso nel sistema si diffonde
in tutto il mondo, quindi ha una portata incontrollabile. Altrettanto è facile comprendere come possa
mutare nel passare degli anni il concetto di dato personale e di relativa tutela, se pensiamo a 50 anni
fa alla tutela del dato personale, alla fine il dato personale era il nome, il cognome e c’era la
distinzione tra dati sensibili e dati non sensibili dove i dati sensibili erano quei dati ai quali era
possibile desumere dei connotati relativamente alla personalità e quindi quei dati sensibili dovevano
essere trattati con maggior tutela, OGGI il problema si è assolutamente diversificato è diventato
globale e viene affrontato a livello globale, nel senso che ci sono una pluralità di ordinamenti che si
interessano della tutela dei dati e della tutela della privacy correlativamente. In particolare, il
termine privacy nasce negli stati uniti, dove non si intendeva il diritto alla protezione dei dati
personali ma si intendeva il diritto a stare solo. In sostanza in questi termini veniva attribuito
all’individuo il diritto a stare solo, il diritto a non essere disturbato, inteso come possibilità di
turbare la sfera personale. Rispetto a questa posizione c’è stata un’evoluzione che ci ha portato ad
intendere la privacy in modo completamente diverso come tutela del dato personale.

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Dal punto di vista normativo, vediamo quali sono le fonti a cui fare riferimento per la tutela dei dati
personali; come prima ipotesi all’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
(CEDU), questo articolo è intitolato al diritto “al rispetto della vita privata e familiare” ciò significa
che il primo comma ci dice che: “ogni persona ha il diritto al rispetto della sua vita privata
personale e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”, questo principio ci riporta al
codice civile sulla tutela della persona e sui diritti della persona; al secondo comma analogamente
alla costituzione italiana ci dice: “Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una
misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati,
alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Quindi, limitazioni alla vita privata sono possibili solo in ipotesi tassativamente previste dalla legge
e motivate dall’interesse pubblico, queste ipotesi che consentono un’ingerenza dell’autorità
pubblica sono la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza (che sono due cose diverse perché la
sicurezza nazionale riguarda i rapporti tra le nazioni e gli altri stati mentre la pubblica sicurezza
riguarda l’ordine interno di uno stato), il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la
prevenzione dei reati, la protezione della salute e della morale, o la protezione dei diritti delle libertà
altrui).
[Questa dizione del secondo comma dell’articolo 8 pone una statuizione positiva di possibilità che i
controlli possano essere svolti solo se motivati da una ragione pubblica, e questa norma è stata
richiamata quando si è parlato delle mutazioni post libertà personali per il covid, quando si sono
private le persone della liberà personale di circolare, o di svolgere tutte le manifestazioni della
propria personalità come unirsi, come fare sport, come godere del diritto allo studio il nome di un
superiore interesse nazionale che era la SALUTE. Quindi sono state legittimate tutte le forme di
limitazione della circolazione e hanno riguardato anche i dati sensibili, come il tracciamento della
popolazione in determinati Stati, tutto ciò per assicurare la tutela della salute. Infatti, quando è
venuta meno l'emergenza sono venute meno anche queste forme di repressione dell'attività delle
persone.]

Ancora nell'ambito del consiglio d'Europa la convenzione di Strasburgo contiene un'articolata


statuizione di principi che vogliono rappresentare dei principi fondamentali in cui singoli Stati
membri devono conformarsi per assicurare il rispetto del diritto alla privacy degli individui nei
confronti di ogni elaborazione di dati concernenti soggetti identificati o identificabili. (Ad esempio,
il dato che una persona sia vaccinata o non sia vaccinata è un dato rilevante per la pubblica
sicurezza e quindi e quindi può essere gestito in relazione a queste norme che rispondono un
superiore interesse pubblico che è quello della salute). Quindi l'articolo otto della convenzione
conferisce a dei giudici di Strasburgo che sono posti a salvaguardia dei principi posti dalla CEDU
proprio a garanzia del documento dei diritti fondamentali della collettività.

Altra norma di riferimento è la Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, sono tutte
delle fonti diverse nel senso che la CEDU è la convenzione dei diritti fondamentali dell’uomo,
mentre la carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea è un'altra fonte di diritto europeo anche
noto come carta di Nizza, che aspira ad essere la costituzione europea.

In questa carta agli articoli 7 e 8 si parla del diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare
e poi viene anche detto che ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare,
del proprio domicilio e delle sue comunicazioni.
In sostanza possiamo dire che le due fonti hanno un principio che è assolutamente sovrapponibile,
cioè sia la CEDU che la carta di Nizza affermano la stessa cosa, In particolare, però possiamo dire
che il termine comunicazioni viene sostituito con corrispondenza; quindi, mentre nella CEDU si
parla di corrispondenza, nella carta di Nizza si parla di comunicazioni che è più ampia come
espressione perché le comunicazioni riguardano qualsiasi dato immesso nell’etere, la
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corrispondenza implica che ci sia un mittente e una persona che riceve.


Nei tre commi dell'articolo 8 dal titolo protezione dei dati di carattere personale viene
espressamente stabilito che: "ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale
che lo riguardano", secondo comma "Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà
per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento
legittimo previsto dalla legge”. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo
riguardano e della rettifica. Il terzo comma afferma che "Il rispetto di tali regole è soggetto al
controllo di un'autorità indipendente”. Questa norma eleva notevolmente il diritto alla tutela dei dati
personali, lo eleva a diritto fondamentale della persona nell'Unione Europea, al punto tale che vi
deve essere addirittura un'autorità indipendente oltre che giurisdizionale diversa dall'autorità
giudiziale ordinaria che deve valutare se si sta violando la lesione della privacy.

Le istituzioni dell'UE e gli Stati membri devono rispettare e garantire tale diritto, che deve avere
un’attuazione in tutti gli Stati dell'Unione Europea come è garantito dall'articolo 51 della carta di
Nizza.
Vediamo che con la carta di Nizza si compie una svolta nella tutela del dato personale, perché non
solo viene affermato il diritto del singolo alla protezione dei dati ma il principio fondamentale è che
tutti gli Stati debbano dare un’uniforme attuazione alla tutela dei dati personali e che ancora di
più deve essere seguita da un’autorità indipendente che giudichi sulle violazioni relative ai dati
personali e nei controlli l'attuazione della normativa.

Altro riferimento di fondamentale importanza è la dichiarazione universale dei diritti umani articolo
12 in base al quale: "Nessun individuo potrà essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella
sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa corrispondenza nella lesione del suo onore
della sua reputazione, ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali
interferenze e limiti." e in questa disposizione si è realizzato il passaggio da un diritto alla privacy
come diritto a restare solo ad un'altra forma di diritto alla privacy come diritto al controllo di tutte le
informazioni che riguardano la persona, ma anche ad altre forme che sono il diritto all'oblio, che
significa il diritto ad essere dimenticato nel momento in cui un qualcosa che riguarda la propria
persona è stata pubblicata come notizia di cronaca e risponde ad un fatto vecchio che risulta
superato dal tempo, e qui c'è il diritto della persona che quel fatto non venga ricordato. La norma fa
riferimento a dei luoghi in cui deve essere tutelata la privacy famiglia, casa e la corrispondenza e la
stessa casa intesa in senso lato deve intendersi come il luogo in cui la persona risiede o svolge anche
l'abituale occupazione, e quindi, questi termini di famiglia e casa vengono utilizzati nella
dichiarazione universale dei diritti dell'uomo come contesto abituale in cui la persona svolge le
proprie forme di vita che siano essi familiari, lavorative o di svago.

Ancora ulteriore fonte di diritto sia convenzione universale che la convenzione internazionale dei
diritti civili e politici, all’art. 17 reca un’altra norma importante per la svolta evolutiva della tutela:
"nessuno può essere sottoposto alle interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata,
nella sua famiglia, Nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a illegittime offese, al suo
onore e alla sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato da tali interferenze
o offese.” Questa norma amplia i confini della tutela del diritto alla privacy.

Tornando in Europa la direttiva 95/46 è uno dei riferimenti cardine della tutela della privacy, ed è
ritenuta la vera e propria madre in materia di protezione dei dati, questa direttiva è stata emanata nel
95 con riguardo sia al trattamento dei dati personali e sia alla circolazione di tali dati. Per le
disposizioni molto generalizzanti è stato il primo passo da parte dei singoli Stati dell'Unione
Europea a adottare delle normative simili in ogni Stato.
Quindi è stata importante PER L'INTEGRAZIONE EUROPEA E
L'ADOZIONE DELLA MEDESIMA LEGISLAZIONE IN TUTTI GLI

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STATI MEMBRI, questa direttiva ha comportato uno sviluppo salvaguardando i diritti fondamentali
della persona, più specificamente muovendo la direttiva dalla constatazione dei differenti livelli di
tutela nei vari Stati membri ha cercato di indicare quali sono gli obiettivi principali che le
legislazioni che i singoli Stati membri devono adottare per garantire un'uniformità nella tutela dei
dati personali, quindi innanzitutto disciplinare il trattamento dei dati personali allo scopo di
garantire la tutela della persona e non introdurre restrizioni alla libertà di circolazione dei dati
personali.
Garantisce una competenza specifica al legislatore nazionale sull'emanazione dei dati, nel senso
dato le indicazioni che si rivelano troppo generiche, ed in particolare l'articolo 3 della direttiva non
chiarisce se questa si applichi tutti i trattamenti dei dati personali o soltanto a quei trattamenti che
presentino una connessione con la circolazione dei dati, quindi con la libertà di circolazione di dati.
Quindi questa direttiva strutturata in quattro articoli è stata ritenuta molto generica, perché noi
sappiamo che le direttive danno soltanto delle indicazioni generiche quelli che sono più dettagliati
sono i regolamenti; infatti, in base alla direttiva gli Stati membri si impegnano a garantire la tutela
dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone fisiche ed in particolare alla vita privata per
quanto riguarda il trattamento dei dati personali.

Questa insufficienza reclamata dai primi commentatori delle due indicazioni fondamentali date dalla
direttiva è stata colmata dal regolamento dell'Unione Europea 2016/679 che abroga
definitivamente la direttiva e compie un passaggio importante, cioè il dato non deve essere tutelato
in sé per sé, a fine a sé stesso, ma la sua tutela deve essere considerata in relazione alla funzione
sociale che svolge, e va contemperata con altri diritti fondamentali in assetto al principio di
proporzionalità. Questo regolamento che vuole portare ad un piano astratto, ad un piano più
pragmatico la tutela dei dati personali e viene data ai legislatori degli Stati membri due anni di
tempo per intervenire nella legislazione interna; quindi, vediamo che il legislatore nazionale aveva
statuito indipendentemente da tutte queste fonti di diritto europeo e ai regolamenti europei.

La prima legge presente nell'ordinamento giuridico italiano del 31 dicembre 1996 numero 675, (non
si tratta di una legge attuativa delle direttive del regolamento) è uno dei primi interventi italiani
sulla protezione dei dati personali e che è ricollegabile alla direttiva che è stata emanata nel 95 ed è
entrata in vigore nel 1997, quindi è attuativa della direttiva che a sua volta è attuativa agli accordi di
Schengen che vogliono stabilire un patto tra tutte le popolazioni dell'Unione Europea.
L’ART. 1 della legge ci dice che il trattamento dei dati personali si deve svolgere nel rispetto dei
diritti e delle libertà fondamentali nonché della dignità delle persone fisiche con particolare
riferimento alla riservatezza e all'identità personale, e garantisce altresì i diritti delle persone
giuridiche degli altri enti o associazioni.
E vediamo come in realtà la traslazione dal piano europeo da una direttiva alla legge viene recepita
dal legislatore italiano con una formula molto più ampia rispetto a quella che rappresenta la
direttiva, perché include la riservatezza, l'identità personale e le libertà fondamentali. Quindi, con
questa disciplina il legislatore italiano ha voluto colmare determinati dualismi e contrasti che vi
erano in materia di privacy.
Quindi, vengono regolamentati due diritti opponenti della privacy che sono: il diritto alla
riservatezza e l'identità personale.

Si passa da un piano di affermazioni di principi alla creazione del diritto alla riservatezza e del
diritto all'identità personale come dei valori concreti dell’ordinamento. E questo è un ossequio a
tutta un'azione che ha fatto la giurisprudenza e la dottrina proprio per garantire l'attuazione dei
principi fondamentali sanciti a livello europeo.

A questa normativa, che ha rilevanza di aver positivizzato la riservatezza e i diritti dell'identità


personale, serve il codice in materia di dati personali del decreto legislativo numero 196 del 2003.
La portata di questa normativa è quella di aver costruito il testo unico, cioè raccoglie tutte le norme
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in materia di privacy. Naturalmente il decreto legislativo 196 del 2003 abroga la legge precedente
numero 675 del 96. Il codice è entrato in vigore il 1 gennaio del 2004 e conclude il processo di
recepimento della direttiva 95/46 completando quel processo di razionalizzazione che è stato
iniziato dalla legge 675 del 96 e cerca di conferire ai dati personali un aspetto ordinato, facendo i
conti con l'avvento delle nuove tecnologie e dei nuovi sistemi di raccolta dati e, quindi, in
riferimento alle banche dati, ed è la prima fonte legislativa ed è l'emanazione di quella che noi
chiamiamo la società dell’informazione.
Le parti fondamentali del codice del 2003: la prima parte sancisce delle regole generali comuni a
qualsiasi trattamento dei dati, nella seconda parte vi sono norme dedicate a settori particolari che
sono: la pubblica amministrazione, il settore giudiziario e il settore sanitario;

nella terza parte, invece, sono riunite delle norme che attengono alla tutela riconosciuta ai
soggetti che si intendono lesi dalla violazione delle norme disposte dal medesimo decreto
legislativo e, quindi, le misure poste contro coloro che utilizzano i dati impropriamente, per cui si
verifica tutta la riunione di tutte le norme sui dati in questa fondamentale legge 196 del 2003.
Quindi anche le leggi precedenti la 675 del 96 e la 676 del 96 vengono in parte abrogate e in
parte assorbite dal decreto legislativo 196 del 2003.

Quindi vediamo come oggi si possa parlare, per effetto di questa grande importanza dei dati, della
cosiddetta sovranità digitale, come modo della necessaria tutela statuale sia in ambito nazionale
che in ambito internazionale. La consapevolezza di certi passaggi aiuta a controllarne anche la
disponibilità del dato; quindi, vediamo come dalla normativa sui diritti alla protezione dei dati
personali si può analizzare lo sviluppo esattamente in correlazione con lo sviluppo delle tecnologie
informatiche e telematiche e soprattutto il ruolo dell'informazione assunto nel nostro sistema. Per
cui possiamo dire che chi conosce tutti questi meccanismi ha un bel potere, si parla addirittura di
totalitarismo digitale (Come per esempio Facebook WhatsApp e tutti i social con i quali si sono
costruiti a livello mondiale delle banche dati sui gusti e sulle abitudini delle persone, ma in realtà
siamo stati tutti oggetto di schedatura quindi questi grandi ideatori di questi social si sono
impossessati dei nostri dati prima ancora che ci fosse tutto questa rilevanza data al processo
cognitivo), cioè chi è titolare di una banca dati e titolare di un potere molto forte nei confronti delle
persone.

Bisogna essere assolutamente consapevoli di alcune regole fondamentali come la necessità di far
circolare dei dati con la consapevolezza dei dati che circolano, quindi sul controllo dei propri dati e,
questo deve essere un elemento fondamentale, bisogna essere consapevoli della circolazione dei dati
perché più che la disponibilità dei dati che deve essere conferita, bisogna avere il controllo del dato
e la detenzione di queste informazioni rappresenta un valore giuridico assoluto per le persone che
divengono depositarie, e in questa prospettiva viaggia il codice della privacy, cioè il codice della
privacy non vuole evitare la circolazione delle informazioni, perché le informazioni devono
circolare e ampliare la conoscenza, ma vuole far sì che il titolare del dato abbia il controllo
attraverso la conoscenza dei meccanismi, ed ecco che nel codice del decreto legislativo 196 del
2003 si stabilisce che il dato è un diritto di rango primario e viene condotto ai limiti della
personalità, perché la ratio comune è quella che il dato sia finalizzato alla valorizzazione della
dignità e della personalità individuale, delle scelte, dell'autodeterminazione della persona umana.
Cioè noi esprimiamo la nostra personalità attraverso le scelte che facciamo, e quindi anche le scelte
commerciali, se noi acquistiamo questo o quel bene, se noi nel tempo libero facciamo questa o
quella attività attraverso il computer noi diamo delle indicazioni non sulla persona ma sulla
personalità, quindi questa consapevolezza è assunta sulla base del codice della privacy che più che
intervenire sulla tutela, sulla violazione dei diritti della persona, interviene sulla violazione dei
diritti della personalità.

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La svolta che si è verificata con la digitalizzazione dell'economia è stata quella di far sì che dei dati
immateriali, che per loro tradizione sono indisponibili, intrasmissibili, non possono essere oggetto
di rapporti economici e vediamo come questa statuizione valida per la persona fisica sarà
contraddetta da tutta l'evoluzione dei dati che riguardano la nostra personalità, per cui oggi
dobbiamo pensare alla patrimonializzazione del dato e alla caratteristica di disponibilità e
trasmissibilità del dato come componente della persona in quanto afferenti alla personalità.
Proprio a conferma di questa consapevolezza il legislatore all’articolo 2 comma 1 pone la tutela del
dato personale come diritto della persona, diritto fondamentale dell'individuo tale che ogni sua
limitazione debba rispettare i canoni della ragionevolezza e della proporzionalità e non potrà mai
spingersi al punto di rinnegare l'essenza stessa del diritto. (questa possibilità di limitare la libera
circolazione dei dati, ed esprimere la propria personalità non può essere limitata se non con criteri di
ragionevolezza, nel senso che vi deve essere una ragione superiore che può portare alla limitazione,
cioè per motivi che riguardano la sicurezza dello Stato eccetera ci può essere una limitazione ma
deve essere giustificata)

Molte sono le norme di riferimento nel codice della privacy che riguarda questo aspetto, come
l'articolo 26, l'articolo 60, all'articolo 71 che fanno riferimento al ricorso ai criteri della
limitazione previo riferimento alla ragionevolezza e alla proporzionalità.

12 ottobre (7)

Stavamo esaminando il regolamento europeo relativamente all’attuazione sulla privacy.


Abbiamo visto che due sono i presupposti sui quali si basa questa normativa:

 il processo di globalizzazione che ormai interessa l’intera collettività mondiale e, quindi, è


un dato assoluto;
 la diffusione capillare della connessione internet che andrà sempre più ad aumentare tutte
le spinte alla digitalizzazione che sono presenti anche nel nostro sistema.
Uno dei nostri pilastri del PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza) è proprio la
digitalizzazione, quindi, una spinta ancora più forte del sistema sull’utilizzo dei dati. Questo
naturalmente non fa altro che contribuire all’ulteriore rilevanza che i dati sono destinati ad avere
nel nostro sistema.

Il decreto legislativo 196/2003 introduce il codice dei dati personali.


Il codice è strutturato in varie parti:
-La prima parte è quella relativa a norme di carattere generale sul trattamento dei dati;
-La seconda parte è destinata a particolari settori come la pubblica amministrazione e altri
settori, come il settore giudiziario;
-La terza parte in cui sono contenute le norme dirette a soggetti che si ritengono lesi dalle
violazioni che riguardano la privacy.
In questa strutturazione la parte più rilevante per la tutela che a noi interessa è proprio la terza,
cioè quella in cui sono predisposte le tutele di chi utilizza impropriamente i dati personali.
Sostanzialmente in questo codice si realizza l’accorpamento di tutte le norme che abbiamo citato
in precedenza prevedendo o l’abrogazione, cioè eliminazione delle norme dal sistema, oppure
l’integrazione di norme che sono state parzialmente modificate, però tutte quante vengono
raccolte nel codice della privacy e le due spinte fondamentali del sistema sono nel conferire
delle tutele nel caso in cui, in effetti, non si voglia impedire che i propri dati circolino, quindi
alla base del sistema vi è la volontarietà della circolazione dei dati, nel senso che i nostri dati
circolano se noi vogliamo e non circolano se noi non esprimiamo un consenso.
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Il problema alla base è quello della consapevolezza di ciò che facciamo, cioè se talvolta certe
scelte sono inconsapevoli e, quindi, i dati circolano ma noi non ci siamo soffermati
effettivamente sul fatto che cliccando quel link abbiamo dato il consenso alla circolazione,
quando in realtà se ci pensassimo bene potremmo non volerlo dare.
Quindi il primo appello è alla consapevolezza.

La strutturazione del codice è proprio impiantata sulla volontarietà della circolazione, quindi,
ci sono i meccanismi per far sì che i propri dati non circolino e il codice evidenzia quali sono le
conseguenze della circolazione del dato, quindi, evidenzia la compromissione di diritti e libertà
individuali che possono derivare dalla circolazione del dato e l’obiettivo è quello di conferire
alla persona un potere di controllo sui propri dati, perché nel momento in cui il dato viene
conferito esce dal controllo della persona, per avere un valore giuridico assoluto nella sfera
giuridica del terzo che è il destinatario del dato. Quindi, ogni volta che si dà un consenso al
trattamento, il dato esce dal nostro controllo ed entra nel controllo di chi ci chiede
l’autorizzazione al trattamento.
La protezione dei dati personali sul controllo di questi dati viene a basarsi su degli standard che
vengono definiti dalla legge.
L’espressione utilizzata dal codice della privacy è tale che il dato viene considerato un
elemento prioritario, il controllo viene considerato un diritto di rango prioritario che viene
ricondotto alla tutela dei diritti della personalità che va ben oltre la tutela della persona e in
quanto tale così viene costruito questo autonomo diritto della personalità legato ad un dato
personale.
Vediamo quali sono le situazioni giuridiche soggettive che il diritto condivide alla protezione dei
dati personali.
Innanzitutto la valorizzazione della dignità e della capacità di autodeterminazione della persona
e, quindi, partendo da questo presupposto, vengono valorizzati tutti quegli insiemi di facoltà e
poteri che conferiscono un controllo alla persona sulle qualità corporee ed immateriali che
vanno a costituire l’individualità della persona, componente della personalità.
Altri caratteri distintivi propri sono rappresentati dalla extra patrimonialità: non ha un
contenuto patrimoniale il dato dal quale si evince la personalità, che è indisponibile (non può
formare oggetto di diritti a favore di terzi), intrasmissibile, imprescrittibile; questi sono i
caratteri propri di tutte le componenti della personalità e questi vengono salvaguardati nel codice
della privacy anche contro le tendenze fondamentali che sono quelle che arrivano ad uno
svilimento di questi valori che sono la extra patrimonialità, l’intrasmissibilità,
imprescrittibilità, insurrogabilità ed indisponibilità.
Es: Volendo tradurre queste componenti in un’espressione efficace: “il dato è il mio e me lo
custodisco io”.
Vediamo però quando questo non avviene: pensiamo a tutte quelle figure per es. il personal
shopper, che è una persona che cerca di dare una personalità attraverso i vestiti, in questo caso
queste sono delle componenti che si immettono in un sistema e che poi vengono approvate per
fini di mercato.

Tutta questa demarcazione relativa ai dati personali, alla fine è volta a connotare l’identità della
persona e la salvaguardia di tutta una serie di situazioni giuridiche soggettive che appartengono
alla persona ma sono in continua evoluzione.
Il codice della privacy all’art.2 comma 1 va a far riferimento alla dignità umana;
E ancora, per esempio, si parla di diritto alla protezione dei dati personali nell’art.26 comma 4, e
possiamo sintetizzare il tutto dicendo che la tutela del dato personale deve ricevere una tutela
secondo dei criteri di ragionevolezza e secondo una dinamica che non può superare certi limiti.
Quale tipo di tutela viene apprestata verso situazioni che possano in qualche modo minare
il dato personale? Ci sono tutta una serie di documenti di carattere amministrativo, civilistico e
anche penale che non sono tanto volti a tutelare la persona in sé e per sé, ma vogliono tutelare

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l’interesse generale della collettività alla tutela di un valore fondamentale che è quello del
rispetto della persona; queste tutele non vanno ad intervenire sulla singola sfera giuridica del
soggetto ma sono delle tutele che possiamo definire di livello più alto, cioè intervengono
laddove viene leso un bene giuridico che è la tutela in sé e per sé di un bene superiore che viene
messo a rischio, vale a dire la tutela del dato personale.
Tra queste tutele troviamo innanzitutto il ricorso al garante, a tutela della privacy; è stato
istituito il garante per la protezione dei dati personali.
Il ricorso al garante è una forma di tutela alternativa rispetto alla tutela giurisdizionale civile e
significa che la tutela civilistica non si può accompagnare con un parallelo binario, ossia tutela
dinanzi al garante, ma vi è sempre alternativa alla tutela giurisdizionale ordinaria.

Quindi abbiamo ricorso al garante, tutela civile, illecito amministrativo e illecito penale.
In realtà, si può aggiungere anche il ricorso al difensore civico o alla commissione per l’accesso
ai documenti amministrativi verso i provvedimenti che autorizzano questa violazione, questo ai
sensi della legge 241/1990.
Questa tutela deve però porre delle precisazioni alla coppia base: innanzitutto se una persona
non si sente in qualche modo sorvegliata o minacciata è inutile che vada ad intraprendere queste
forme di tutela ed è sempre necessario valutare le conseguenze sostanziali della violazione della
privacy, cioè se è possibile dimostrare una prova è bene inventare una strategia difensiva, ma se
in realtà non c’è una pressione psicologica o un danno materiale, allora se la violazione del dato
non abbia in realtà sortito alcun effetto è inutile intraprendere questi mezzi di tutela.
Questo è un appello alla gravità della situazione violata.
In questo contesto possiamo dire che è bene fare un’esplicita considerazione personale circa la
situazione verso la quale si deve intervenire.

Al di là di questo tipo di tutela della privacy, possiamo sicuramente andare ad approfondire in


realtà quelle che sono le note di più specifica evidenza che vengono salvaguardate dall’apparato
legislativo.
In tutto il movimento e nell’elaborazione del codice della privacy come anche il regolamento
europeo, l’elemento perno della regolamentazione è la fiducia del consumatore o della persona
nel momento in cui si affaccia sul mercato unico e alla fine il bene leso, che può essere oggetto
di tutela, è proprio la violazione dell’elemento della fiducia, cioè quando un interlocutore abbia
abusato della disponibilità facendo un uso distorto dei dati personali, per esempio, ciò avviene
quando si ricevono tutte quelle telefonate aggressive che vogliono proporci un’offerta
commerciale oppure passare da un gestore telefonico ad un altro oppure il trading online, cioè
quelle telefonate di offerte commerciali di qualsiasi tipo che non sono desiderate dalla persona;
per evitare questo il codice della privacy, in attuazione del regolamento comunitario, ha
predisposto il cosiddetto registro delle opposizioni;

Con la distribuzione di questo registro vengono predisposti la possibilità di escludere il proprio


numero telefonico da un elenco telefonico sul quale si vengono a basare le proposte
commerciali, e molti sono i casi di violazioni di questo genere; cioè, spesso viene consultato il
garante della privacy perché si verificano delle violazioni di carattere commerciale. (es. io non
ho mai dato il mio numero di cellulare ma il mio numero si trova nelle mani di commercianti
che continuano a telefonare violando la mia privacy e un mio dato personale che è il mio
numero di cellulare) e appunto per questo c’è il registro delle opposizioni.
In realtà è stato anche contestata questa predisposizione del registro perché si tratta di far
presente una volontà contraria; invece, sarebbe più efficace la predisposizione del registro delle
adesioni, e cioè laddove io sia favorevole al ricevere delle offerte commerciali mi iscrivo in
questo registro per poter ricevere queste adesioni.
Noi inconsapevolmente abbiamo dato i nostri dati come anche il nostro numero di cellulare, per
cui ci troviamo a doverci difendere dalle conseguenze di questo gesto attraverso il registro delle

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opposizioni; tuttavia, si potrebbe capire che nel momento in cui io acconsento ad una
determinata politica di acquisizione dei dati, dando questo consenso, è come se io mi iscrivessi
nel registro delle adesioni, per cui l’argomentazione è abbastanza circolare cioè nel senso che il
registro delle opposizioni nasce proprio perché il registro delle adesioni è implicito.

Lo stesso discorso può essere fatto per le cosiddette vendite porta a porta, è possibile sottrarsi
alla vendita porta a porta evitando di essere disturbati. Tutte queste questioni vengono trattate e
affrontate, tuttavia non si considera che esista una vera e propria professionalità in tal senso che
è quella rappresentata dalle società di marketing; queste cercano di raccogliere più dati
possibili dalle scelte dei consumatori, quindi è proprio in quel contesto che bisogna agire
attraverso la mancata prestazione del consenso nelle forme genericamente indicate nella
modulistica che si va a sottoscrivere, quindi possiamo fare sicuramente un atto di coscienza e
renderci conto che in realtà il consumatore perde il controllo, cioè il consumatore non riesce a
controllare, così ansioso e bramoso di acquisire un bene, i propri consensi, cioè quelli che
vengono dati.
Allora l’unico modo per tutelarsi è ottenere una richiesta di cancellazione dei dati che molto
spesso rimane ignorata, cioè non viene presa in considerazione.
Questo avviene a tutti i livelli, spesso per esempio per attingere a del materiale anche di materia
culturale, è necessario dare una propria mail, perché così si riceve la newsletter; quindi, noi pur
di leggere un determinato articolo inseriamo la nostra mail e ci immettiamo in dei circuiti
involontariamente, però l’atto è volontario perché l’abbiamo scritta noi. In realtà questo è un
problema di consapevolezza personale verso il quale non c’è una soluzione normativa, ma c’è
solo il dover fare attenzione a tutte le cosiddette forme di coinvolgimento su internet attraverso
il computer. Bisogna dire che al di là del problema della perdita del controllo dei propri dati, la
tutela della privacy pone anche altri problemi che sono quello di chiarire e rafforzare i diritti
delle persone fisiche:
-Il diritto ad informare ed essere informato;
-Il diritto di accesso a delle informazioni;
-Il diritto all’oblio, che è un’altra forma di tutela della privacy che ha una dimensione a sé
stante completamente diversa da quella del controllo dei dati: diritto di essere dimenticati
rispetto ad una notizia che non si vuole più ricordare e come si riesce ad uscire da queste
situazioni è ancora molto difficile, cioè la strada per la tutela di questi aspetti non è stata ancora
segnata e la via più esplicita è quella del ricorso al garante, cioè solamente attraverso il ricorso al
garante si riesce ad ottenere una tutela anche sotto altri aspetti come, ad esempio, il diritto
all’oblio.

Proprio per far fronte a queste problematiche sono state create delle commissioni:
-Il comitato europeo per la protezione dei dati che ha proprio l’obiettivo di elaborare dei
principi, delle norme fondamentali che possano essere applicati in tutti gli stati membri, in modo
tale da garantire il rispetto di queste sfaccettature della privacy che non sono ancora avanzate.
Proprio in questi anni si sta cercando di incrementare la disciplina, soprattutto introducendo
delle norme a livello europeo, perché a livello del singolo stato non abbiamo ancora una
ricezione di queste norme ed in particolare, a livello europeo c’è tutto il regolamento generale
sulla protezione dei dati dal 2018, che prende il nome di GENERAL DATA PROTECTION
REGULATION che è diretto a tutte le imprese e organizzazioni che operano nell’unione
europea e vuole garantire la protezione dei dati personali nel mondo digitale.
In questo regolamento generale si cerca di capire quali sono i diritti dell’interessato e questa
materia si va sviluppando per comparti:
si parla di dati che riguardano la sanità, dati che riguardano le imprese ed il mercato, quindi uno
sviluppo settoriale delle varie forme di raccolta dati.
In particolare a livello generale di regolamento per i diritti relativamente ai dati personali, sono
stati individuati alcuni diritti fondamentali:

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-Il primo è il diritto alla trasparenza, nel senso che il titolare del trattamento deve utilizzare un
linguaggio chiaro e informare l’interessato circa la modalità del trattamento dei dati personali;
significa che le informazioni e anche la modalità della raccolta del consenso non deve essere
così automatica ma ci deve essere una trasparenza a tal punto da rendere consapevole la persona
anche sulle conseguenze di quel determinato atto.
-Il diritto di accesso, ogni interessato ha diritto di ricevere informazioni dall’istituzione europea
sull’eventuale trattamento in corso dei suoi dati personali e anche sulle finalità del trattamento,
quindi quando viene chiesto un consenso, l’interessato deve sapere come viene utilizzato quel
determinato dato.
-Il diritto all’oblio, il diritto ad essere cancellato e ad essere dimenticato che consiste nel fatto
che se i dati personali dell’interessato non sono più necessari all’istituzione comunitaria e
l’interessato revoca il consenso o se il trattamento del dato è illecito, l’interessato ha diritto ad
ottenere la cancellazione del dato.
-Il diritto all’informazione dell’interessato che consiste nel diritto della persona a sapere
perché il proprio dato viene trattato, per quale fine.
-Il diritto di rettifica, se i dati personali sono inesatti o incompleti, l’interessato ha il diritto di
rettificarli.
-Il diritto a limitare il trattamento, se una persona ha dei dubbi sul trattamento può chiedere
che questo trattamento sia limitato.
-Il diritto alla portabilità dei dati personali, l’interessato può ottenere i dati in possesso del
titolare e trasferirli ad un altro titolare.
-Il diritto alla profilazione dei dati, cioè essere sottoposto ad un processo decisionale
automatizzato che inserisce i propri dati in un target piuttosto che in un altro; es: in base a questi
dati io ti cucio addosso questo profilo.
Questo è un diritto sul quale l’interessato può sicuramente prevenire rispetto al titolare del dato.
A questa profilazione posso discenderne delle conseguenze di carattere giuridico.
-Il diritto di opposizione, cioè l’interessato può opporsi per motivi legittimi al trattamento dei
dati che lo riguardano.

La politica dei cookie.


Abbiamo visto spesso che quando ci mettiamo su un sito di e-commerce e mettiamo dei prodotti
nel carrello succede che, anche se noi interrompiamo la sessione senza acquistare quel prodotto,
quel prodotto ci viene continuamente proposto e questo avviene proprio perché entrano in
campo i cookie.
I cookie possono produrre danno? Possono avere delle conseguenze giuridiche nella sfera del
consumatore?
In realtà i cookie sono dei frammenti di dati che vengono memorizzati sul computer e utilizzati
per migliorare la navigazione.
Questi vengono creati dal server ed inviati sul computer.
In base allo scambio di informazione che avviene tramite i server tipo Google, Firefox, quindi
motori di ricerca, noi formiamo delle informazioni.
Questi piccoli frammenti di dati vogliono aiutarci per migliorare la navigazione.
Abbiamo i cookie di prima parte e i cookie di terze parti.
I cookie di prima parte vengono direttamente salvati sul sito visitato.
Es: io visito un sito di un’agenzia di viaggio, viene salvata sul sito la mia scelta personale.
I cookie di terze parti vengono trasmessi ad un sito diverso da quello visitato.
Quindi il sito di prima parte è un cookie che io volontariamente ho azionato (es. accetti i cookie?
Si) e non è lesivo nella privacy.
Quello che, invece, può essere lesivo per la privacy è quello delle terze parti ossia che dal sito
che io ho consultato viene trasmessa la mia scelta ad altri siti che io non ho proprio consultato;
questo cookie di terza parte può provocare dei problemi perché in base all’accettazione del
cookie si dà un’autorizzazione a trovare l’identità della persona.

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Abbiamo poi i cookie persistenti che sono continuamente presenti nella navigazione e
memorizzano tutte le preferenze degli utenti, un cookie che ci segue in tutto quello che facciamo
nella navigazione, in particolare grazie a questi cookie vengono memorizzati gli articoli che
consultiamo nell’e-commerce e ce li ripropongono anche se non li acquistiamo.
Esempio: se selezioniamo un viaggio che poi non compriamo, ci vengono proposti gli stessi
viaggi a prezzi più vantaggiosi.
Noi potremmo farci furbi e andare su internet, pensare di acquistare e vedere che ci arrivano una
serie di offerte più vantaggiose per farcele acquistare.
Poi abbiamo i cookie zombie, che in realtà sono dei cookie che diventano routinari, memorizzati
nel computer e continuamente riproposti.
I cookie persistenti sono quelli che danneggiano la sfera della persona perché la persona non li
ha acconsentiti e vengono continuamente riproposti.
Cosa succede se non si accettano i cookie? Si è sottoposti ad un obbligo molto vessatorio che
consiste nel riscrivere ogni volta tutte le proprie generalità; quindi, l’accettazione del cookie è
pure una violenza perché o si accetta oppure si viene costretti a registrarsi e scrivere ogni volta
di nuovo i propri dati.
Allora la cosa che ci si chiede è se sia possibile bloccare i cookie per eliminare la raccolta di dati
non autorizzata, questa cosa si dovrebbe fare periodicamente cioè in sostanza rimuovere i cookie
dai motori di ricerca. (es. si va in Google Chrome e si cancellano tutte le pagine consultate,
quindi eliminare la cronologia).
Tuttavia, fino a che punto questo può rappresentare la violazione della privacy? Secondo la
cassazione affinché una persona voglia ottenere il risarcimento del danno per le violazioni
relative alla privacy, sarà necessario che il danno sia rilevante, quindi non qualsiasi danno.

Troviamo un’ordinanza emessa nel 2020, la 17.383, in cui la cassazione afferma che in tema di
trattamento di dati personali, il danno non patrimoniale può dar luogo al diritto al risarcimento
solamente quando vengono accertate la gravità della lesione e la rilevanza del danno, quindi,
possiamo dire che anche nella tutela della privacy ritorniamo nel danno patrimoniale e nelle
sentenze di San Martino, cioè che il danno deve essere rilevante e la lesione deve essere grave e
seria, in particolare questa ordinanza riguardava il caso di una raccomandata che conteneva le
informazioni bancarie di una persona; questa raccomandata era stata inviata senza busta e
ripiegata su sé stessa (questa è una tecnica degli avvocati o commercialisti e quando inviano un
foglio o devono inviare dei documenti dai quali si può desumere la data certa di questi
documenti, non utilizzano la busta ma prendono un foglio lo ripiegano lo spillano e in modo tale
che il timbro della posta venga posto non sulla busta ma direttamente sul documento). I legali
avevano preso questo foglio informativo con dati bancari e avevano fatto una raccomandata in
questo modo, cosicché chiunque avrebbe potuto leggere queste informazioni bancarie solamente
sollevando la cartolina perché era una raccomandata con avviso di ricevimento.
E, quindi, secondo questa persona la violazione della propria privacy era stata molto grave; la
cassazione ha rigettato il ricorso della persona che si lamentava per la violazione dei propri dati
e ha affermato che non è esatto che gli articoli 11 e 15 del decreto legislativo 196/2003
riconoscano il risarcimento in resa del danno per il solo fatto del trattamento dei dati personali.
Il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 15 del decreto 196/2003 cosiddetto codice
della privacy, pur determinato dalla lesione di un diritto fondamentale cioè la protezione dei dati
personali, come dagli art. 2 e 21 della costituzione, 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica
della gravità della lesione e della serietà del danno in quanto trova un bilanciamento con il
principio di solidarietà ex art. 2 della costituzione, di cui il principio di tolleranza della lesione
minima intrinseco sicché quando la lesione è ingiustificabile la mera violazione di prescrizione
posta dall’art. 11 del codice della privacy non è sufficiente ad essere un’offesa in modo sensibile
della propria persona.
In particolare che cosa osserva la cassazione: il danno da violazione della normativa in materia
di protezione dei dati personali non è inclusa, quindi, non è che perché venga violata la

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riservatezza relativamente ad un dato personale si ha violazione della privacy ma quest’ultima


assume un contenuto alla luce di una serie di circostanze, quindi il danno deve verificarsi
concretamente, la semplice violazione delle regole in materia di privacy non comporta
automaticamente il sorgere di un diritto in capo all’interessato, cioè se pure dovesse essere
violata la privacy il diritto al risarcimento nasce solo se c’è un danno, se non c’è un danno non
c’è diritto al risarcimento.
Prendendo in considerazione l’esempio di prima della raccomandata, il danno si sarebbe dovuto
se tramite quei danni sarebbe stato possibile accedere al conto corrente della persona, prelevare
delle cifre e, quindi, in concreto la persona avrebbe avuto un danno, ma finché io conosco qual è
il conto bancario di una persona non deriva il danno.
Quindi la cassazione dice che la violazione della privacy deve essere verificata.
Non tutti i danni derivanti da violazione della privacy sono risarcibili, il diritto al risarcimento
sorge quando a seguito di una completa valutazione del giudice, il danno venga reputato serio e
rilevante.
Nella sua valutazione il giudice è chiamato a tener conto del principio di tolleranza, in base al
quale il danno non patrimoniale è risarcibile quando supera una certa soglia di tolleranza, in
sostanza non deve trattarsi di un mero disagio o fastidio bensì di una lesione seria all’interessato.
Es. se io ricevo continuamente delle proposte commerciali via telefono pur non avendo dato il
mio cellulare questo di per sé non è una violazione della privacy perché rientra nella
tollerabilità.
Diventa violazione quando io per esempio per evitare di ricevere chiamate di notte, ho ricevuto
una telefonata dalla quale ne è derivato un danno, lì se io riesco a dimostrare che ho ricevuto un
danno c’è una lesione rilevante.
Questa sentenza c’è stata in un periodo antecedente all’entrata in vigore e l’applicazione del
regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, il cosiddetto GVDR e di conseguenza
oggi gli articoli 11 e 15 non sono più presenti nel codice della privacy perché sono stati abrogati;

tuttavia poco importa questo perché in realtà la corte di cassazione al di là del richiamo agli
art.11 e 15 fa un diretto richiamo all’art. 2050 del codice civile e fa riferimento ad un
accostamento per cui il trattamento dei dati è considerata attività pericolosa.
Quindi, il trattamento di dati, al di là delle previsioni della legge 196/2003 che è stata abrogata
dal GVDR, viene sanzionato nel momento in cui viene inquadrato ai sensi dell’art. 2050 come
attività pericolosa.
Tuttavia, con l’entrata in vigore del regolamento europeo sulla privacy la disposizione che tratta
il risarcimento del danno nel regolamento europeo è l’art.82 e, in effetti, anche in questo articolo
si ha un accostamento all’attività pericolosa, quindi, il danno viene ricondotto all’esercizio di
attività pericolosa che è sottoposta all’onere della prova, cioè la persona titolare del dato,
l’interessato, deve provare di aver subito un danno; viceversa, colui che ha inferto il danno con
la violazione della privacy dovrà provare di aver adottato tutte le cautele affinché quel danno
non si verificasse, per cui pur avendo inferto il danno e il titolare del trattamento prova di aver
adottato tutte le cautele è liberato da responsabilità.

15 ottobre (8)

Troviamo una sentenza che risale al 2021, sempre in tema dei trattamenti dei dati personali
come violazione del diritto alla riservatezza, in particolare l’art.11 è violato del codice della
privacy.
In questo caso trattato il comportamento di un creditore che nell’ambito dell’attività di recupero
del credito, svolta direttamente oppure tramite incaricati, comunichi a terzi come familiari,
coabitanti, colleghi di lavoro, vicini di casa piuttosto che al debitore ossia al diretto interessato le

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informazioni, i dati, le notizie relative all’inadempimento del quale questo versi, oppure
utilizzano modalità che sono tali che osservatori esterni possano in qualche modo sentire oppure
acquisire il contenuto della comunicazione senza rispettare il dovere di circoscrivere questa
attività recuperatoria esclusivamente al debitore, è sicuramente passibile di violazione del diritto
alla riservatezza e dell’art.11 del codice della privacy.
Quest’ordinanza risale al 2 luglio 2021, n° 18.783 della prima sezione della corte di cassazione
che si inserisce in una serie di decisioni che riguardo la giurisprudenza di legittimità e ravvisano
delle violazioni in materia di protezione di dati personali meritevoli di risarcimento del danno,
sia patrimoniale che non patrimoniale.
In questo caso specifico il ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale viene
ritenuto responsabile dell’invio di due comunicazioni via pec dirette agli uffici di un istituto
scolastico; queste comunicazioni avevano proprio la finalità di recuperare un credito nei
confronti di un dipendente dello stesso istituto e venivano ricevuto dalla segreteria dell’istituto;
in queste comunicazioni veniva rivelata la persona nonché il fatto che quella persona dipendente
dell’istituto era risultata soccombente in una causa che aveva per oggetto il recupero di un
credito ed era tenuto anche al pagamento delle spese tenute, pertanto il ministero aveva
utilizzato un canale di comunicazione istituzionale e non un canale di comunicazione personale
con il dipendente, in tal modo questo comportamento si era sostanziato secondo la
giurisprudenza della cassazione in una violazione degli obblighi di rispetto della riservatezza che
gravano anche sull’amministrazione perché il dirigente scolastico ed il personale di segreteria
addetto alla ricezione della corrispondenza avevano avuto accesso a delicati fatti personali della
dipendente.
In effetti la suprema corte fa riferimento ad una violazione ossia art.11 del codice della privacy
che in sostanza si può ritenere perché è del 2021 che era vigente all’epoca dei fatti; tuttavia,
risulta abrogata nel momento in cui viene emanata la sentenza e infatti nella sentenza di sostiene
la violazione dell’art 15 del decreto legislativo 196/2013, oltre che la responsabilità aquiliana ai
sensi degli art. 2043 (danno patrimoniale), 2050(derivante da esercizi di attività pericolosa) e
2059(danno non patrimoniale).
La suprema corte richiama l’intervento dell’autorità della protezione dei dati personali, che
aveva emesso un provvedimento generale nel 2005 proprio ai sensi del decreto legislativo
196/2003, l’art.151 comma 1 lettera C, in cui vengono prescritte le misure necessarie perché
l’attività di recupero crediti sia che venga realizzata direttamente dal creditore, sia che venga
attuata nel suo interesse da terzi si deve sempre svolgere nel rispetto dei principi di liceità,
correttezza e pertinenza fissati dall’art 11 comma 1, evitando quei comportamenti che possano
ledere la riservatezza del debitore in merito alle sue vicende personali.
Questo provvedimento è stato un simbolo proprio per contrastare l’esistenza del recupero
crediti, alcune prassi finalizzate al recupero stragiudiziale dei crediti che sono caratterizzati da
delle modalità da prese di contatto invasive e sicuramente lesive della riservatezza e della
dignità personale, e questo è il motivo per cui talvolta quando si ricevono delle telefonate, questi
istituti di recupero crediti utilizzano delle modalità assolutamente “stalkerizzanti” perché
chiamano a tutte le ore proprio per indurre all’adempimento; queste prassi sono sanzionate dalla
corte di cassazione per cui se si verifica una lesione sia con riferimento ai contenuti che vengono
rilevati all’altra persona ma anche con riferimento alle modalità utilizzate per avere il contatto,
che se sono lesive della riservatezza e della dignità comportano l’obbligo del risarcimento del
danno sia per il creditore se le fa in prima persona, sia per la società di recupero crediti.
Tra l’altro l’autorità per la tutela dei dati personali ha avuto l’occasione più volte di
puntualizzare che nell’ambito dell’attività di recupero crediti devono essere rispettati
innanzitutto il principio di liceità del trattamento che può ritenersi violato dal comportamento
consistente nel comunicare ingiustificatamente a soggetti terzi rispetto al debitore (familiari,
coabitanti ecc.) informazioni relative alla condizione di inadempimento.
Quindi il trattamento è illecito se non viene indirizzato al debitore senza che altri ne abbiano
conoscenza.

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Il principio di correttezza del trattamento, in ragione del quale devono ritenersi preclusi sia
nella fasi delle informazioni sul debitore, sia nel tentativo di prendere contatto con il medesimo
anche attraverso dei terzi, comportamenti che possano in qualche modo ledere la dignità del
debitore guardata sul piano della disciplina della protezione dei dati personali, quindi questo
principio si può ritenere violato quando le sollecitazioni di pagamento siano portate a
conoscenza di persone diverse dal debitore e ciò accade quando vengono utilizzate delle
cartoline postali oppure tramite l’invio di plichi recanti all’esterno “recupero crediti” o
espressioni dalle quali si possa desumere l’inadempimento del destinatario.

Il principio di pertinenza e finalità, che viene desunto dall’art.11 del decreto legislativo
196/2003 secondo il quale possono formare oggetto di trattamento solo dati necessari
all’esecuzione dell’incarico, con particolare riferimento ai dati anagrafici riferiti al debitore,
codice fiscale o partita IVA, ammontare del credito, condizione di pagamento e recapiti
telefonici; questi dati sono forniti dall’interessato in seguito alla conclusione del contratto o
comunque desumibili da elenchi pubblici.
In sostanza questi tre principi sono stati stigmatizzati dall’autorità per la tutela dei dati personali
e riguardano espressamente le attività di recupero credito.
Questi principi, che risalivano nell’art. 196/2003 art. 11, sono tutti riassorbiti nel regolamento
europeo sulla protezione dei dati personali, il regolamento n° 679/2016, anche noto GDPR
(GENERAL DATA PROTECTION REGOLAMENT) che sancisce il principio della liceità,
equità e trasparenza e significa che i dati devono essere trattati in modo lecito, equo e
trasparente nei confronti dell’interessato, ulteriore prescrizione prevista dall’art. 5 del
regolamento europeo sulla protezione dei dati personali è quello che i dati devono essere raccolti
per finalità determinate, esplicite e legittime e successivamente trattati in modo non
incompatibile con tali finalità, quindi questo principio riassume il principio di pertinenza e
finalità che abbiamo sancito con riferimento all’art.11 del decreto legislativo 196/2003 ed
ancora, i dati devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle
finalità per le quali sono trattati.

Le altre prescrizioni richiamate dall’art. 5 sono la minimizzazione dei dati e l’esattezza dei
dati, cioè i dati devono essere esatti e se è necessario aggiornati, devono essere prese tutte le
misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità
per le quali sono trattati ed ancora conservati in una forma che consenta l’identificazione degli
interessati per un arco di tempo non superiore al conseguimento per le finalità per le quali sono
trattati ed esprime una limitazione della conservazione.
Ancora, i dati devono essere trattati in modo da garantire un’adeguata sicurezza compresa la
protezione mediante misure tecniche organizzative adeguate e deve essere in sostanza garantita
la sicurezza dei dati evitando trattamenti illeciti oppure la perdita, la distruzione ed il danno
accidentale; quest’ultimo principio viene sintetizzato nell’integrità e riservatezza.
Quindi i tre principi vengono recuperati ed ulteriormente dettagliati nel regolamento sulla
protezione dei dati personali e vengono ad essere sintetizzati in liceità, equità e trasparenza,
limitazione della finalità, minimizzazione dei dati, esattezza e limitazione della conservazione,
integrità e riservatezza.
L’art. 15 del codice in materia della protezione dei dati personali affrontava il tema della
responsabilità civile per i danni procurati dal trattamento dei dati personali, questo articolo altro
non è che l’attuazione dell’art. 23 della direttiva 95/1946 secondo la quale gli stati membri
dispongono che chiunque subisca un danno cagionato da un trattamento illecito o da qualsiasi
altro atto incompatibile con le disposizioni nazionali di attuazione della direttiva, ha il diritto di
ottenere il risarcimento del pregiudizio subito dal responsabile del trattamento.
Inoltre, specifica il comma 2 che il responsabile del trattamento può essere esonerato in tutto o
in parte da tale responsabilità se prova che l’evento dannoso non gli sia imputabile, quindi in
base alle prescrizioni dell’art. 15, chi riteneva di essere stato leso a seguito dell’attività di

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trattamento dei dati personali poteva ottenere il risarcimento del danno senza provare la colpa
del titolare che aveva trattato i suoi dati, quindi doveva semplicemente addurre il danno, restava
a carico dell’interessato l’onere di provare eventuali danni derivanti dal trattamento dei dati,
chiaramente la colpa consiste nella prova della negligenza del titolare, ma la prova
dell’imputabilità non doveva essere data, doveva essere data esclusivamente la prova del danno
derivante dal trattamento dei dati.
La dottrina dominante ritiene che l’art.15 possa essere applicabile anche ai danni conseguenti al
trattamento dei dati a livello manuale e significa che tanto in sede nazionale che in sede
comunitaria si ritiene che i rischi maggiori verso i quali si vuole intervenire con la tutela dei dati
personali non sia il trattamento manuale dei dati bensì l’uso tecnologico dei dati.
Possiamo sicuramente affermare che non è rilevante la modalità del trattamento dei dati ma è un
problema di violazione della riservatezza e dei diritti della personalità, quindi l’interpretazione
prevalsa in dottrina è quella che la tutela della privacy debba estendersi a tutte le specie di dati
personali anche se l’art.15 era stato configurato col trattamento automatizzato dei dati.

Il regolamento comunitario, GDPR, non fa altro che ribadire i principi della direttiva 95/46 della
comunità europea cercando di dettagliarlo in relazione al risarcimento del danno in favore
dell’interessato.
In particolare, l’art.82 prevede che chiunque subisca un danno materiale o immateriale cagionato
da una violazione del regolamento ha il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal titolare
del trattamento o dal responsabile del trattamento. Quindi un titolare del trattamento coinvolto
nel trattamento risponde per il danno cagionato dal suo trattamento non conforme al
regolamento; in particolare, si fa riferimento alla modalità attraverso la quale si è verificato il
danno quindi il responsabile del trattamento risponde per il danno cagionato dal trattamento solo
se non ha adempiuto gli obblighi del regolamento che sono specificamente diretti ai responsabili
del trattamento o abbia agito in modo contrario alle legittime istruzioni che sono riservate al
titolare del trattamento.
Entrambi i soggetti, o il titolare o il responsabile, sono esonerati dalla responsabilità se
dimostrano che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile ed è chiaro che questa
prova può essere anche definita come probatio diabolica perché non è facile dimostrare che
l’evento dannoso non è imputabile e quindi nel caso in cui ci siano più titolari o responsabili del
trattamento, entrambi saranno responsabili del danno cagionato e c’è una sorta di principio di
solidarietà per l’intero ammontare del danno affinché sia garantito il risarcimento effettivo
dell’interessato.
Altra disposizione è quella che riguarda la parcellizzazione del danno, vale a dire laddove un
titolare del trattamento o un responsabile del trattamento abbia pagato il risarcimento del danno,
costui potrà reclamare ai singoli soggetti ugualmente responsabili e legati da un vincolo di
responsabilità la propria quota. (principio di solidarietà dell’obbligazione)
Un’altra sentenza che fa riferimento ad un’altra ipotesi vale a dire mette in evidenza la
successione delle norme nel tempo, in particolare si fa riferimento ad una previsione che era
presente nell’art.17 della direttiva 95/46 ed era stata recepita anche nella nostra legge 675 del
1996, in questa normativa, che poi è stata modificata dal GDPR, vi è un’introduzione della
distinzione tra misure tecniche ed organizzative idonee che devono assicurare la protezione dei
dati personali dai rischi di distruzione accidentale, illecita perdita accidentale, alterazione,
diffusione o accesso non autorizzato da qualsiasi altra forma illecita di trattamento.
In sostanza vi era una distinzione tra misure minime e misure idonee di sicurezza, con una
differente conseguenza in ordine alla loro violazione perché l’omissione delle misure minime
veniva sanzionato come reato penale e invece l’omissione di misure idonee veniva sanzionata in
modo meno grave con il risarcimento del danno.
La direttiva 95/46 si riferiva esclusivamente ad un’unica categoria misura di sicurezza vale a
dire le misure appropriate.

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Invece, il nostro legislatore nel recepire la direttiva ha introdotto questa distinzione tra misure
minime e misure idonee di sicurezza e l’ha riproposta nel decreto legislativo n°196/2003; il
legislatore aveva adottato il parametro comunitario dei costi di applicazione e in base a questi
costi minimi da sostenere per poter assicurare un adeguato livello di sicurezza delle misure
protettive, comportavano una certa sicurezza.
Questo parametro, quello delle misure di sicurezza previste dal legislatore in base al decreto
legislativo 196/2003, sono stati applicati ai fornitori di comunicazione elettronica accessibile al
pubblico e ai fornitori della rete pubblica di comunicazione, si fa riferimento agli art. 31 e 36 del
codice della privacy e nel periodo antecedente all’emanazione del decreto legislativo 196/2003
vi era quest’esplicito riferimento alla distinzione tra misure minime e misure idonee, viceversa
nella successiva modifica viene meno questa distinzione tra misure minime e misure idonee e,
quindi, viene meno l'obbligo del rispetto delle misure minime che aveva una conseguenza di
carattere penale e viene instaurato l'obbligo commisurato alla maggior sicurezza offerta
esclusivamente dalle misure idonee, quindi, nel codice della privacy si era optato per una
semplificazione della situazione con riferimento alla sicurezza nella politica dei dati.
A livello dottrinario c'è stato un grande approfondimento sulla classificazione, che era stata
propria del legislatore italiano, e che oggi è assolutamente superata nel regolamento, perché è
stata abolita questa differenza tra misure di sicurezza minime ed idonee.
Tuttavia, bisogna dire che questa distinzione si poneva solamente sul piano giuridico non
interessando, invece, tutto l'aspetto tecnico-informatico per il quale era indifferente il fatto che si
parlasse di misura di sicurezza idonea o minima rilevando che si parlava in quel contesto, dal
punto di vista tecnico informatico, semplicemente di misura di sicurezza;
invece, in ambito giuridico cambiava molto se la misura di sicurezza venisse classificata come
idonea o minima proprio perché in relazione alla classificazione c'era un diverso regime di
responsabilità.
Quindi, da una parte l'art.169 comma 1 del codice della privacy, che oggi è stato abrogato dal
decreto legislativo n° 101/2018, stabiliva che in caso di mancata adozione delle misure minime,
di cui all'art. 33, il responsabile o l'incaricato del trattamento andasse incontro a una
responsabilità di tipo penale; invece, in caso di mancata adozione delle misure idonee si
applicava l'articolo 15 comma 1, che oggi è stato abrogato dal decreto legislativo 101/2018, e
faceva sorgere un obbligo risarcitorio ex articolo 2050, quindi come attività pericolosa, l’attività
di manipolazione dei dati con la conseguenza che l'unico modo di evitare il risarcimento per il
responsabile del trattamento era quello di aver provato di avere adottato tutte le misure idonee
ad impedire il verificarsi del danno.
C'è da chiedersi come e da che cosa era giustificata la presenza di un regime differenziato di
responsabilità.
In realtà si basava sulla maggiore esposizione al rischio causata dalla mancata applicazione delle
misure minime rispetto invece alla mancata adozione delle misure idonee e, quindi, proprio per
tracciare questa linea di demarcazione si può dire che le misure minime e le misure idonee
cambiavano in relazione al progresso tecnico, quindi, col tempo viene meno questa differenza
dal punto di vista tecnico cioè il progresso tecnico fa sì che anche le misure idonee siano
sufficienti ad assicurare un certo livello di sicurezza senza dover ricorrere ad una
differenziazione del regime di responsabilità.
Le misure idonee che sono attualmente vigenti in base all'ultimo decreto legislativo che è il
101/2018 che è quello attualmente vigente, sono quelle misure che si adeguano ai principi
informatici che sono posti alla base della cosiddetta cybersecurity, vale a dire riservatezza,
autenticazione, integrità, non ripudio, controllo dell'accesso e disponibilità.
Questi principi trovano piena attuazione nell'art. 31, laddove si disponeva che dovessero essere
ridotti al minimo i rischi di distruzione o perdita dei dati anche in via accidentale, i rischi di
accesso non autorizzato di trattamento non consentito o non conforme alla finalità della raccolta.
Invece, gli articoli dal 33 al 36 ricavano la disciplina delle misure minime di sicurezza, per la cui
individuazione bisognava far riferimento all' allegato B del codice della privacy, quindi, i titolari

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dei trattamenti, salvo ulteriori obblighi, dovevano rispettare in via preventiva degli standard
minimi di sicurezza, al di sotto dei quali non poteva ritenersi sussistente un adeguato livello di
protezione sui dati personali trattati.
La responsabilità penale connessa alle misure minime era sancita dal previgente, che poi è stato
abolito, articolo 169 comma 1, che era una fattispecie omissiva propria con la conseguenza che
semplicemente l'omissione di queste misure comportava l'illecito, quindi, comportava la
constatazione del reato.
Invece, il comma 2 del medesimo articolo prevedeva che, una volta sancito come reato ,viene
messa in evidenza la natura contravvenzionale del reato e significa che veniva sanzionato come
reato ma era possibile pagare una somma di denaro per estinguere il reato, quindi, un reato
contravvenzionale e l'autorità garante per la protezione dei dati personali aveva il potere di
impartire delle prescrizioni finalizzate alla messa in sicurezza del sistema e stabilire il
pagamento in misura ridotta di una somma pari a un quarto del massimo dell'ammenda stabilita;
significa che l’autorità garante per la protezione dei dati doveva intervenire sul sistema nel quale
si era verificata violazione delle misure minime di sicurezza imponendo l'installazione di un
sistema sicuro che, quindi, fosse rispettoso delle misure violate e imponendo al trasgressore il
pagamento di una somma che veniva ridotta ad un quarto del massimo dell'ammenda stabilita
come contravvenzione primaria. Quindi, una volta che venivano soddisfatte queste condizioni
cioè il pagamento dell'ammenda e la sistemazione delle misure di sicurezza queste due
condizioni venivano comunicate dal garante alla Procura della Repubblica competente che
prevedeva in caso di esito positivo del procedimento, l'estinzione del reato. Il decreto legislativo
101/2018 ha abrogato anche l'allegato B del codice della privacy e in questo allegato era
contenuto il disciplinare tecnico in materia di misure minime di sicurezza, vale a dire quali erano
questi contenuti che in concreto dovevano essere rispettati.
A partire dal 25 maggio del 2018 il regolamento 2016/679 cosiddetto General Data Protection
Resolution costituisce la nuova fonte primaria di regolamentazione della disciplina dei dati
personali anche nel nostro paese, e al fine di adeguare la nostra normativa, il legislatore venne
chiamato ad espungere dall'ordinamento il decreto legislativo 196/2003 per cui il nuovo
regolamento, essendo sufficientemente preciso e dettagliato, stabilisce un quadro di regole più
precise rispetto alla precedente direttiva 95/46 e questo al fine di favorire l'armonizzazione delle
legislazioni nazionali a livello comunitario.
Fra le novità maggiormente significative in tema di sicurezza una particolare menzione merita il
cosiddetto “Data Protection Impact Assessment” anche siglato DPIA, articolo 35, che consente
di effettuare delle precise valutazioni preliminari circa i rischi che sono sottesi alle varie attività
sui dati prima del loro trattamento;
queste analisi possono riguardare tanto il singolo trattamento quanto più trattamenti insieme che
devono presentare degli aspetti tra loro comuni.
In particolare, il Data Protection Impact Assessment, che altro non è che l'impatto della
protezione dei dati, costituisce sul piano concreto un'attuazione del principio di accountability e
significa che, in base a questo principio, sarà più facile dimostrare la conformità tra il sistema di
tenuta dei dati e le norme del GDPR; quindi, questa DPIA si rende necessaria ogni qual volta dal
trattamento possa derivare un rischio molto elevato per i diritti e le libertà delle persone
interessate, anche laddove il trattamento sia già in corso di esecuzione e si cerca di individuare
quale sia la percentuale di rischio.
Oggetto della valutazione sono: l'origine, la natura, la particolarità e la gravità del rischio per la
protezione dei dati.
In particolare questa analisi retta dal principio di accountability viene svolta in due fasi:
-una prima fase interna e il titolare esegue una valutazione interna;
-una seconda fase che è solo eventuale ed esterna; nella quale dopo avere identificato un rischio
che potenzialmente elevato, il titolare si deve consultare con l'autorità di controllo che sarebbe il
garante della privacy e inoltre, nel caso in cui venga designato il Titolare del trattamento deve
anche consultarsi con il responsabile della protezione dei dati. L'osservanza degli obblighi

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stabiliti per assicurare una sicurezza all'interno di questo sistema è presidiata da un imponente
sistema sanzionatorio che, in caso di inadempimento, porta a combinare delle sanzioni
pecuniarie che possono estendersi fino a 10 milioni di euro o nel caso di imprese fino ad una
percentuale del fatturato mondiale totale annuo risalente all'anno precedente, questa percentuale
in genere si aggira intorno al 2%.
Inoltre, gli articoli 37 e 39 del GDPR introducono anche un'altra figura, che è strettamente
connessa alla DPIA, che è la figura del DPO,
ossia Data Protection officier, cioè il responsabile della protezione dei dati cioè un soggetto che
viene espressamente incaricato di assicurare la gestione corretta dei dati personali nelle imprese
e negli enti.
Prima nel regolamento nella maggior parte degli Stati europei non era prevista questa figura del
responsabile dei dati fatta eccezione per la Germania, in cui la figura viene introdotta oltre 30
anni fa.
Questa figura del DPO è destinata a svolgere un ruolo importante per garantire la conformità nei
vari Stati membri del regolamento; in particolare bisogna dire che la nomina del DPO è
obbligatoria in tutte le pubbliche amministrazioni ed enti pubblici, fatta eccezione per l'autorità
giudiziaria e per l'autorità giudiziaria, nonché per tutti quei soggetti privati che trattano dati
sensibili su larga scala e che effettuano dei trattamenti che richiedono un controllo regolare e
sistematico da parte degli interessati.
E’ chiaro che dal fatto che venga reso obbligatorio questo trattamento per le pubbliche
amministrazione e per gli enti pubblici, l'obbligo di nominare un DPO non è tanto connesso alle
caratteristiche quantitative, come per esempio il numero dei dipendente, ma al contrario dipende
proprio dalla qualità, cioè dalla intrinseca attività svolta e dal rischio potenziale per i dati
oggetto del trattamento.
Il DPO, cioè il responsabile, deve possedere determinati requisiti di professionalità, un'adeguata
conoscenza della normativa, delle prassi di gestione dei dati personali e deve essere in grado di
adempiere pienamente le proprie funzioni in piena indipendenza e senza conflitti di interesse.
Inoltre, bisogna dire che l'indipendenza del responsabile è garantita anche dalla previsione
dell'articolo 38.3, in base alla quale quest'ultimo non può essere rimosso o penalizzato dal
titolare o dal responsabile del trattamento per l'adempimento dei propri compiti; inoltre, sempre
a garanzia dell'indipendenza e dell'autonomia dell'operato del DPO, il titolare o il responsabile
del trattamento hanno l'obbligo di consentirgli l'efficace espletamento dei propri compiti
fornendogli adeguate risorse umane, materiali ed economiche, in modo che non ci sia uno stato
di dipendenza di nessun genere.
Il responsabile può operare o come un dipendente oppure sulla base di un contratto di servizi e
la persona giuridica che si avvale del DPO deve comunicarlo, deve darne pubblicità, in modo
che si sappia che vi è un responsabile.
Questa figura si può dire non è ancora ben inquadrata, cioè non si pone come un dipendente
della struttura, è un soggetto fondamentalmente contrattualizzato e fra i compiti più significativi
svolti da questa figura ci sono attività di consulenza al titolare responsabile, ai suoi dipendenti in
merito alla normativa, agli obblighi, alle responsabilità, vi è anche un compito relativo alla
sorveglianza nello svolgimento e deve anche cooperare con il garante della privacy per il
controllo, fungendo da punto di riferimento sia per il garante della privacy che per le entità che
se ne servono.
Le maggiori novità relative alla cybersecurity nel regolamento europeo si trovano nella sezione
2 che è intitolata proprio alla sicurezza dei dati personali, e a riguardo bisogna evidenziare come
questa attuazione regolamento si sia svolta, mentre nella prima fase normativa c'è stata una
tendenza del legislatore di carattere definitorio, quindi, a inquadrare le fattispecie, a inquadrare i
soggetti, invece adesso in una fase matura in cui versa la sistemazione della questione della
tutela dei dati, l'aspetto principale curato dal regolamento è stato proprio quello di badare alla
responsabilità.
Sicuramente il fatto di eliminare la distinzione tra misure idonee e misure minime ha risposto ad

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un intento semplificatore dell'intera normativa proprio perché si introduceva un elemento di


discontinuità tra la tutela penalistica e la tutela civilistica. Quest’eliminazione ha comportato
un’unitarietà del sistema.
Un'altra fattispecie che viene introdotta dal regolamento GPDR agli articoli 33 e 34 è quella del
cosiddetto Data Prince o doppio flusso comunicativo. È un flusso verso il garante della privacy e
nelle situazioni più gravi verso l'interessato.
Nello specifico l'articolo 33 introduce l'obbligo per il titolare del trattamento di notificare al
garante della privacy, in qualità di autorità di controllo, ogni violazione dei dati personali che
possa rappresentare dei rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche entro un termine di 72
ore dalla conoscenza. Questa notifica può essere fatta anche successivamente a tale termine ma
in questo caso dovrà essere svelata la ragione del ritardo; invece, non vi è obbligo di informare
se non vi è il ritardo. Questi obblighi rappresentano una novità per il nostro ordinamento che in
precedenza prevedeva delle differenziazioni temporali di 24 ore per i titolari nel settore delle
telecomunicazioni e 48 ore per gli operatori dell'ambito nel sanitario.
L'articolo 34 disciplina un ulteriore obbligo posto in capo al Titolare del trattamento di
comunicare la violazione agli interessati nelle situazioni più gravi in cui ci possa essere un
rischio per i diritti e la libertà della persona fisica. In particolare, si prevede che per le
comunicazioni deve essere utilizzato un linguaggio chiaro e comprensibile per l’interessato che
non lo esponga a rischi nei confronti dei terzi.
Un’altra particolare annotazione ci perviene dal settore della moda in cui sono in corso di
sperimentazione delle nuove soluzioni tecnologiche per la protezione dei dati e si parla di
fashion e privacy. Si fa riferimento al trattamento dei dati personali nel mondo della moda,
tenendo presente del processo di digitalizzazione che è in corso nel settore della moda per cui in
questo settore c'è stato un notevole potenziamento dell’e-commerce, dei canali di
comunicazione online e organizzazione eventi interamente digitali come per esempio la digital
fashion week e in questo contesto c’è stato un problema di privacy molto spiccato, per cui si è
ritenuto fondamentale che nel mondo fashion vi sia consapevolezza di obblighi e limiti correlate
al trattamento dei dati personali. Proprio per questo sono state emanate delle linee guida e delle
raccomandazioni che sono dirette espressamente al mondo della moda dall’European data
Protection board e dalla Corte di giustizia europea. Queste precauzioni sono state oggetto di una
specifica attività da parte del garante che ha voluto intervenire su questo comparto delicato, per
cui possiamo dire che sono state stabilite delle linee guida da seguire nel mondo della moda che
pare sia il settore più esposto a rischio di violazione della privacy sia relativamente alla moda
intesa in senso del settore abbigliamento ma anche con riferimento al settore non so cosmetico
od altro.

19 ottobre (9)

Class action. (Caso della VW che vendeva delle automobili diesel che erano parametrate a dei
valori di inquinamento molto più bassi rispetto al reale, quindi è stata fatta un’azione dei
consumatori perché la VW ingannava non solo gli acquirenti delle auto ma anche il mercato
conoscendo l’ambiente, quindi questa è stata una class action fatta anche in
Italia molto clamorosa)
La class action deve avere una struttura, un utilizzo e dei limiti della sua praticabilità. È prevista al
codice del consumo all’art. 140 bis, proprio perché si pone come uno strumento a tutela del
consumatore.
Il consumatore è chi si muove nel mercato senza la qualifica di imprenditore o professionista;
quindi, il consumatore è colui che utilizza i beni della vita quotidiana.
L’ART. 5 bis del codice del consumo viene introdotto dal decreto legislativo 206 del 6 settembre
2005, che disciplina l’azione di classe, questa norma per la prima volta vien introdotta nel nostro
ordinamento dall’art. 49 della legge del 23 luglio 2009 n 99 ed entra in vigore nel nostro
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ordinamento il 1 gennaio del 2010, la Versione originaria del art. 140 bis introdotto dalla legge
finanziaria del 2008 delinea l’azione collettiva risarcitoria e non l’azione di classe, quindi sono
due cose diverse. L’azione collettiva risarcitoria era attivabile esclusivamente ad iniziativa delle
associazioni dei consumatori oppure dei comitati di cittadini appositamente costituiti, anche questa è
la ragione per cui le associazioni dei consumatori e tanti italiani hanno molto danneggiato in Italia
l’introduzione dell’azione collettiva risarcitoria, la domanda che ci
possiamo porre è SE QUESTA AZIONE SIA UN NUOVO STRUMENTO PER LA TUTELA DEI
CONSUMATORI, rispetto agli strumenti già presenti nel nostro ordinamento.
Lo scopo per cui nasce l’azione collettiva risarcitoria è quella di tutelare i consumatori, il fine è un
fine di carattere economico processuale, il legislatore emana l’azione collettiva risarcitoria per
decongestionare il carico dei tribunali e di conseguenza la spesa pubblica per tanti processi; tuttavia,
bisogna ammettere a più di 10 anni dall’ inaugurazione di questa azione che è scarso l’utilizzo e
l’applicazione che se ne ha nel nostro ordinamento, o meglio nel nostro paese si parla di azione
collettiva risarcitoria invece nel mondo si parla di class action, che troviamo nell’ordinamento
statunitense che nel 1938 introdusse the Rule 23. Class Actions | Federal Rules of Civil Procedure,
legge 23 della legge federale di procedura civile nell’ordinamento statunitense e si tratta di un’
azione legale condotta da uno o più soggetti per la soluzione di una questione che li accomuna,
questi soggetti proprio per il fatto di condividere la medesima problematica di fatto o di diritto, sono
individuati e qualificati come appartenenti ad una classe; nel proporre l’azione il proponente o i
proponenti chiedono che gli effetti della stessa si producano non solamente nei confronti di loro
attori (coloro che promuovono l’azione) ma anche nei confronti di tutti gli appartenenti presenti e
futuri della loro classe, quindi non solo a chi concretamente va in giudizio ma anche a chi fa parte
della loro classe attualmente e in futuro. Questi ultimi, cioè quelli che non aderiscono all’azione
possono decidere se rimanere inerti avvantaggiandosi dei benefici che eventualmente sono prodotti
dall’attività processuale intrapresa dai loro compagni di classe oppure dissociarsi dall’azione
esercitando il cosiddetto OPT OUT RIGHT, dissociazione dall’azione di classe e potendo
esercitare contemporaneamente un’azione individuale.
(In America l’azione di classe estende i propri effetti a tutti coloro che appartengono a quella
categoria sia che partecipino attivamente sia che restino inerti, a meno che non si dissociano
esercitando l’opt out right.) I requisiti essenziali previsti dall’azione classe americana sono:
- Numero rilevante di persone potenzialmente interessate
- Comunanza delle situazioni giuridiche di fatto o di diritto da tutelare
- Tipicità della medesima situazione giuridica, ovvero il fatto che la situazione giuridica è
considerata elemento qualificante della classe.
- Adeguatezza della rappresentazione, ovvero la garanzia che chi rappresenterà la classe ne
proteggerà in modo adeguato gli interessi.
- Economicità rispetto all’azione individuale o ad altri rimedi possibili

Una volta che sussistono tutti i requisiti essenziali altro step è rappresentato dalla pubblicità, tutti
gli appartenenti presenti e futuri della classe devono essere messi in condizioni di conoscere che
esiste la class action onde potervi aderire. Tutti gli appartenenti presenti e futuri della classe devono
essere informati anche della possibilità di non aderire alla class action in ogni ordine e stadio del
procedimento fino alla sentenza, affinché laddove il risarcimento ottenuto dovesse risultare
penalizzante per chi ha aderito all’azione di classe, sia possibile per il singolo appartenente alla
classe dissociarsi, cioè rifiutarlo e intraprendere una propria azione individuale.
In sostanza la pubblicità deve sussistere sia nel senso positivo ma deve sussistere fino all’ultimo
anche in senso negativo. (cioè che si può verificare quando per esempio il risarcimento che viene
stabilito sia in qualche modo penalizzante o non commisurato alle aspettative; quindi, a quel punto i
singoli aderenti possono dissociarsi e intraprendere nuove azioni, anche individuali, per ottenere un
risarcimento congruo).
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Sempre l’ambito della pubblicità abbiamo i cosiddetti danni primitivi, che sono quei danni che
vengono riconosciuti in caso di responsabilità extracontrattuale, laddove al danneggiato viene
riconosciuto un risarcimento ulteriore rispetto a quello strettamente necessario per riparare il danno
subito, laddove vi sia prova che il danneggiante ha agito con dolo o colpa grave. Quindi i danni
primitivi sono quei danni che consistono in un aggravamento della misura del risarcimento in caso
di danno extrapatrimoniale, nel caso in cui si accerti che il danneggiante ha agito con dolo o colpa
grave. E questi danni sono contemplati nell’azione di classe, cioè negli USA.
Vediamo che anche negli ordinamenti giuridici dei paesi dell’Unione europea gradualmente si va
affermando l’introduzione di norme per molti versi assimilabili alle class action americane, in
particolare tra i paesi che per primi hanno recepito l’ordinamento statunitense troviamo la Francia
nel 1992, l’Olanda nel 1994, il Portogallo nel 1995, la Spagna nel 2001, la Svezia nel 2002, la
Germania nel 2005, in Inghilterra che non fa parte dell’unione europea a livello economico dopo
l’esperienza dei cosiddetti legal aid negli anni 80 e 90, nel 2000 è stato introdotto il cosiddetto
ordine di un gruppo per una controversia giuridica (group litigation order).
Quindi in Europa dagli anni 90 in avanti c’è stato una progressiva generalizzazione nell’utilizzo
dell’azione di classe.
IN ITALIA l’art. 140 bis del codice del consumo introduce l’azione di classe o azione collettiva
risarcitoria, da non confondersi con la class action pubblica, di cui al decreto legislativo 198 del 20
dicembre 2009 anche essa entrata in vigore dal 1° gennaio del 2010.
La differenza con la class action pubblica.
La class action pubblica non riguarda le controversie tra consumatori e professionisti ma riguarda le
controversie tra cittadini e pubbliche amministrazioni o concessionari di servizi pubblici (come
l’agenzia delle entrate per esempio), la class action pubblica non è azione collettiva risarcitoria ma
azione collettiva ripristinatoria perché finalizzata esclusivamente ad ottenere soltanto il ripristino
del corretto svolgimento di una funzione pubblica o la corretta invocazione di un servizio pubblico.
Sono quindi due rimedi completamente diversi, quando si parla di class action e di azione collettiva
risarcitoria perché l’azione collettiva risarcitoria fa riferimento alle diatribe tra consumatori e
professionisti o consumatori e imprese ed ha una portata risarcitoria; mentre la class action pubblica
è un’azione fatta nei confronti della pubblica amministrazione o dei concessionari di pubblici servizi
e non ha un obiettivo risarcitorio ma ripristinatorio di un servizio pubblico o di una procedura che
deve essere svolta in un certo modo e invece viene svolta diversamente, quindi ripristinare un ordine
e non risarcire.

Nell’azione di classe si parla di diritti individuali omogenei, l’azione è finalizzata a tutelare i


cosiddetti diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti; quindi, in questo caso stiamo
parlando dell’azione collettiva risarcitoria.
Il primo presupposto per poter esercitare l’azione collettiva risarcitoria è che si tratti di diritti
individuali omogenei di consumatori e utenti. L’omogeneità deve consistere in diritti contrattuali di
una pluralità di consumatori e utenti che nell’ambito di una stessa impresa versino in situazione
identica, inclusi in questa omogeneità anche l’utilizzo di modelli contrattuali stipulati mediante
condizioni generali o mediante moduli o formulari ART. 1341 e 1342 del c.c.
Quindi i diritti individuali omogenei possono essere di tre tipi:
1. innanzitutto, i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori, comprese le ipotesi di
contratti che fanno riferimento a condizioni generali o conclusi mediante i moduli o formulari
di cui all’art. 1341 e 1342.
2. Poi abbiamo i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei
confronti del relativo produttore, anche a prescindere dall’esistenza di un rapporto contrattuale.
3. Terza ipotesi è il diritto al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori ed utenti da
pratiche scorrette o comportamenti anticoncorrenziali.

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Questa elencazione che è contenuta nel comma 2 dell’art, 140 bis è da considerarsi tassativa, cioè
sono solo queste tre ipotesi che vengono considerate diritti individuali omogenei che posso essere
oggetto di azione di classe o azione collettiva risarcitoria, cioè tra consumatori e imprese e non tra
utenti e pubblica amministrazione.
Tutti i consumatori e gli utenti sono identificati con la parola di titolari, cioè nel senso di titolari di
un diritto secondo l’art. 3 del codice del consumo sono titoli di una determinata situazione di fatto,
sono titolari di diritti individuali omogenei e sono da considerarsi membri di una classe e in quanto
tale legittimati a proporre l’azione ex art. 140 bis del codice del consumo.
La legittimazione attiva. Chi sono i soggetti legittimati?
I soggetti legittimati sono i consumatori e gli utenti membri della classe.
Questa azione non può essere solo proposta da tutti i membri della classe, ma può essere proposta
anche personalmente da un singolo appartenente alla classe oppure può succedere che il singolo
componente della classe, che non intende proporre personalmente l’azione collettiva né esercitare il
proprio diritto di agire con la solita azione individuale (quindi davanti ai tribunali), può conferire
mandato ad una delle associazioni dei consumatori legalmente riconosciuta in modo tale che sia
l’associazione a portare avanti l’azione ferma restando la possibilità per le associazioni di agire ai
sensi degli articoli 139 e 140 del codice del consumo, oppure partecipare ad una dei comitati
costituiti per quel determinato scopo. Questa è un’importante innovazione, cioè il fatto che il
singolo possa agire sia personalmente che tramite le associazioni, perché nella prima fase di vita
dell’azione era possibile solo agire tramite le associazioni e non singolarmente, poi visto
l’insuccesso dell’azione di classe è stato introdotto questo correttivo per cui il singolo può agire o
singolarmente o tramite le azioni delle associazioni di categoria.
La finalità dell’azione di classe è quella di ottenere un accertamento giudiziale della responsabilità
dell’impresa e ottenere la condanna della controparte a risarcimento del danno e alle eventuali
restituzioni.

LA COMPETENZA relativamente all’azione, cioè dove va istaurata questa azione.


La competenza è attribuita al tribunale in composizione collegiale del luogo in cui ha sede
l’impresa convenuta (che viene coinvolta nell’azione di classe). (Se l’azione è diretta nei confronti
di un’impresa, l’azione sarà instaurata nel foro dove risiede questa impresa).
Dal punto di vista della procedura da seguire per l'azione di classe si fa riferimento ad una domanda
giudiziale che viene proposta nella forma dell'atto di citazione che viene notificato nelle forme e nei
termini ordinari previsti dal codice perito, oltre che l'impresa convenuta al pubblico ministero che è
legittimato ad intervenire nel processo anche se limitatamente alla successiva delicatissima fase
relativa al giudizio di ammissibilità dell’azione.
Il pubblico ministero, nell'ambito degli organi giurisdizionali (il tribunale, La corte d'appello, la
cassazione),
I giudici relativi sono i giudicanti e abbiamo quindi i giudici di primo grado di secondo grado e di
cassazione.
Nei processi abbiamo il cosiddetto pubblico ministero, è quell’organo della magistratura, che
rappresenta l'accusa; cioè, mentre il giudice istruisce una causa, il pubblico ministero rappresenta
l'accusa, cioè quella parte che sostiene le ragioni dello Stato.
Il pubblico ministero è quell'organo dello Stato che nell'ambito di un processo è come se facesse il
difensore dei principi violati in quel caso concreto, per cui anche nell'azione di classe è stata
introdotta la figura del pubblico ministero, ciò significa che, quando per esempio un fatto che può
essere un danno ambientale o un danno alla salute, arriva alla magistratura, la cosiddetta notizia di
reato, cioè arriva una denuncia in base alla quale il pubblico ministero svolge tutte le indagini per
costruire il processo, quando il pubblico ministero ha raccolto tutti gli elementi sufficienti per
rinviare a giudizio un imputato allora comincia concretamente il processo.
Nell'azione di classe è stato ravvisato un interesse pubblico da tutelare, quindi il pubblico ministero
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(non stiamo parlando di reati penali perché il pubblico ministero ha una funzione nei giudizi penali
di solito, non nei giudizi civili o amministrativi) ha il compito di pronunciarsi limitatamente alla
fase relativa all'ammissibilità dell'azione, cioè se è il caso di intraprendere quell’azione di classe
perché c'è un danno al mercato o un danno alla sede pubblica allora il pubblico ministero deve
semplicemente dire se l'azione è ammissibile oppure non è ammissibile.

Per quanto riguarda la fase procedurale, gli effetti sulla prescrizione di cui agli articoli 2943 e 2945
del Codice civile, si producono dalla notificazione della domanda e per coloro che aderiscono
successivamente all'azione dal momento del deposito dell'atto di adesione. A quale prescrizione ci
riferiamo? (il decorso del tempo comporta l'impossibilità di esercitare un’azione, per esempio, per il
risarcimento del danno, quindi se si tratta di un danno contrattuale, da responsabilità contrattuale È
di 10 anni, mentre da responsabilità extracontrattuale o come in questo caso che può essere la classe
action che può essere utilizzata da entrambe le responsabilità si parla di 5 anni per
l’extracontrattuale)
L'interruzione della prescrizione si verifica nel momento in cui l'azione di classe è notificata
all'impresa oppure nel momento dell'adesione dei singoli partecipanti.

Il giudizio di ammissibilità.
Il tribunale una volta che le parti si sono costituite deve preliminarmente decidere con apposita
ordinanza circa l'ammissibilità dell’azione, in particolare è questo il momento più importante
dell'azione di classe, ovvero quello in cui si valuta le possibilità di successo dell'intera procedura e
questo giudizio di ammissibilità può sfociare in una dichiarazione di inammissibilità ai sensi del
comma 6 dell'articolo 140 bis, Ciò che avviene:
- quando la domanda è infondata,
- quando possa sussistere un conflitto di interessi,
- quando non sia ravvisabile l'identità dei diritti individuali tutelabili con l'azione di classe e
quando il proponente non appare in grado di tutelare adeguatamente gli interessi della classe.

In tali casi, quando si giunge ad un giudizio di inammissibilità ai sensi dell'articolo 140 bis comma
6, il tribunale con un’ordinanza regola le spese e dispone che la parte soccombente, cioè quella che
ha promosso il giudizio che è sfociato nell’inammissibilità, dia opportuna pubblicità circa il rigetto
della domanda.
Se, viceversa, l'azione è giudicata ammissibile, il tribunale con un’ordinanza indica i criteri di
individuazione dei soggetti da considerarsi appartenenti alla classe, aprendo quindi la successiva
fase che è quella dell'adesione da parte dei consumatori e utenti.
Viene fissato il termine entro cui devono essere depositati gli atti di adesione che non può essere
superiore a 120 giorni, vengono stabilite le modalità di esecuzione della pubblicità che rappresenta
una condizione di procedibilità, ciò significa che se non viene fissata la forma della pubblicità il
giudizio non si può proseguire.
La pubblicità viene effettuata a cura del soggetto che ha proposto l'azione e a cura del ministero
dello sviluppo economico a cui viene trasmessa una copia dell’ordinanza.
Viene determinato in modo particolareggiato tutto il corso della procedura che è volta ad assicurare
l’equa, efficace e sollecita gestione del processo, regolando l'intera istruzione probatoria e
disciplinando ogni altra questione procedurale. L'ordinanza di ammissibilità è reclamabile, ciò
significa che è possibile proporre reclamo entro 30 giorni dinanzi alla Corte di appello ed è sempre
revocabile o modificabile. Le conseguenze dell'adesione per gli appartenenti alla classe:
- La rinuncia ad ogni azione individuale, che va proposta entro un termine non superiore a 120
giorni dall'emanazione dell'ordinanza di ammissione. L'ordinanza di ammissione comporta che
quando un singolo viene a conoscenza del fatto che la questione sia stata ritenuta ammissibile
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deve ritirare qualsiasi istanza individuale sia stata fatta per produrre un'azione individuale e
questo ritiro che deve essere completo, cioè con tutti i documenti probatori relativi deve
avvenire entro 120 giorni dall'emanazione dell'ordinanza di ammissione.
- L'adesione alla classe del singolo può avvenire senza un difensore, perché giace il difensore di
classe, ed entro il medesimo termine i consumatori e gli utenti possono presentare un’ulteriore e
distinta azione di classe riguardo ai medesimi fatti nei confronti della medesima impresa. Se
l'azione, come è necessario, viene proposta dinanzi al medesimo tribunale viene riunita a quella
già pendente, mentre se proposta dinanzi ad un tribunale diverso, quello adito successivamente
dovrà disporre la cancellazione della causa dal ruolo, assegnando al proponente un termine non
superiore ai 60 giorni per la riassunzione davanti al primo giudice. (in concreto può capitare:
supponiamo una multinazionale che abbia varie sedi della propria impresa, allora può succedere
che un gruppo di consumatori produca un'azione di classe davanti ad un tribunale in cui vi è una
sede, l'azione viene ritenuta ammissibile quindi di conseguenza i consumatori che hanno avuto
rapporti con la stessa impresa per si trovano vicino ad altre sedi, cominciano un'altra azione,
allora entro 60 giorni ce l'obbligo di riassumere per chi ha presentato successivamente la causa
davanti al foro dove state instaurata la prima questione. Cioè prima questione a Milano seconda
questione a Napoli, il patrocinante di Napoli devi iscrivere la causa entro 60 giorni a Milano.)
- La sentenza che può accogliere il giudice è la sentenza di accoglimento della domanda di un
tribunale che pronuncia la sentenza di condanna con la quale liquidare in via equitativa le
somme dovute agli aderenti all'azione, oppure laddove vi sia una differenziazione delle
situazioni dei singoli, per cui non è possibile stabilire un unico risarcimento per tutti, viene
stabilito un criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. Invece, la sentenza
di condanna impugnabile nelle forme e nei termini ordinari dinanzi alla competenza della corte
d'appello diviene esecutiva trascorsi 180 giorni dal deposito e dalla pubblicazione senza che
possa essere dichiarata provvisoriamente esecutiva; provvisoriamente esecutiva significa che
quando viene proposto l'appello, se la sentenza viene dichiarata provvisoriamente esecutiva si
esegue, invece in questo caso se viene proposta a appello bisogna aspettare l'esito dell’appello e
senza che l'eventuale passaggio del giudicato ne determini l’esecutività. Invece la Corte di
appello può disporre la sospensione dell'esecutività della sentenza impugnata, tenendo conto
l'entità delle somme da pagare. La sentenza finisce in giudizio tra tutti coloro che hanno aderito
all'azione di classe, non nei confronti di coloro che si sono ritirati, E che non vi abbiano
espressamente consentito.

È molto recente l'introduzione dell'articolo 140 bis che in sostanza ha l'effetto di introdurre l'azione
di classe con il Codice di procedura civile e non come procedura a sé stante com'era nella prima
azione che non aveva avuto alcun successo; quindi, si è pensato che con questo correttivo l'azione
destinata ad avere una maggiore adozione, cosa che non è ancora intellegibile perché risale al 2020
l'inserimento dell'articolo 140 bis.

20 ottobre (10)
La nuova legge, che ha l'effetto di portare la disciplina dell'azione collettiva dal codice del consumo
al codice di procedura civile, è entrata in vigore il 18 maggio 2020 dopo vari rinvii.
Prima si diceva che sarebbe entrata in vigore dopo 19 mesi, poi si è arrivati a 25 mesi e questi rinvii
sono sintomatici del fatto che anche il legislatore non era proprio sicuro dell'aumento delle
possibilità applicative e, quindi, del superamento di quelli che erano stati i limiti della precedente
normativa che ha avuto scarsa applicazione, per cui questi continui rinvii in realtà sono stati
determinati dall'intento del legislatore di consentire una piena funzionalità del sistema telematico
dedicato appositamente all’azione di classe all'interno del portale dei servizi telematici del Ministero
della Giustizia.

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Troviamo una differenza tra l'azione collettiva risarcitoria e l'azione di classe in relazione alle
questioni trattate; in particolare, l'azione di classe vuole proprio intervenire su dei problemi che si
instaurano con gli enti pubblici e la pubblica amministrazione ed è per questo che è stato istituito,
con la legge del 19 Aprile 2019 n°31, un portale dei servizi telematici presso il Ministero della
Giustizia.
L'azione collettiva risarcitoria, come previsto dall'articolo 140-bis del codice del consumo, si
pone come rimedio alternativo solamente nei rapporti tra impresa e consumatori; invece, l’azione di
classe vale per le condotte illecite poste in essere a partire dal 19 maggio 2021, quindi una
recentissima introduzione.
In effetti, la nuova disciplina amplia l'ambito di applicazione dal punto di vista oggettivo, in quanto
viene superato il limite che vi era nella precedente azione collettiva risarcitoria relativo ai rapporti
di consumo, alla responsabilità del produttore e alla responsabilità per pratiche commerciali
scorrette e per pratiche anticoncorrenziali.
Dal punto di vista soggettivo non solamente i consumatori ma qualunque soggetto giuridico incluse
le imprese, inclusi tutti coloro che sono portatori di diritti individuali omogenei, per cui il rimedio
nel suo complesso viene collocato nel codice di procedura civile.
Questo ampliamento dell'ambito di applicazione soggettivo che troviamo nei rapporti di consumo,
nella responsabilità del produttore, nelle pratiche commerciali scorrette e nelle pratiche
anticoncorrenziali dà nuovi spazi anche alle azioni antitrust, visto che i soggetti più delle volte
danneggiati da condotte anticoncorrenziali sono il più delle volte le imprese.

Ulteriore differenza rispetto alla precedente disciplina che fissava il termine per l'adesione con il
deposito dell'ordinanza con la quale veniva giudicata l’ammissibilità dell'azione di classe, il che
significa che nel momento in cui l'azione veniva dichiarata ammissibile non era più possibile
produrre nuove istanze di adesione né abbandonare istanze precedenti, o aderire e riunire alle
istanze dell'azione dichiarata ammissibile.
L’esercizio dell’opzione per l’adesione all’azione dichiarata ammissibile può essere presentata,
dopo la riforma, anche dopo il deposito della sentenza che accerta la responsabilità del convenuto,
quindi si amplia il numero dei soggetti potenzialmente legittimati ad avvalersi dell’azione di classe.
L’accertamento del diritto individuale al risarcimento e la quantificazione delle somme da liquidare
sono attività rimesse ad una fase successiva; quindi, nella prima fase vuole semplicemente
dichiarare che c'è una responsabilità e che è possibile esperire l'azione di classe; in un secondo
momento si passerà all'individuazione della quantificazione delle somme da liquidare che sono
rimesse completamente ad un procedimento apposito che è molto simile all'accertamento dello Stato
passivo.
In sostanza, il giudice che procede dovrà valutare la quantità di domande presentate e, quindi,
correlare l'entità del risarcimento alla numerosità della classe; abbiamo poi la terza fase, che è
posteriore rispetto sia alla fase prima del giudizio di ammissibilità sia alla fase seconda che è quella
che accerta la responsabilità; la fase terza è quella dell'individuazione della misura del risarcimento,
e non si capisce ancora se l'aggiunta di questa fascia possa rendere particolarmente lunga e difficile
la soddisfazione delle pretese risarcitorie che se poi sono numerose diventano di scarsa entità.
Proprio in concomitanza con l'entrata in vigore della legge, il ministero della giustizia, proprio per
dare attuazione alla novella, ha attivato la piattaforma telematica prevista dall'articolo 840 ter
comma 2 del codice di procedura civile; con questa piattaforma telematica del ministero è possibile,
tramite lo spid, fare l’adesione un'azione di classe, è possibile vedere anche quali sono tutte le
azioni di classe che vengono promosse. Questa piattaforma è il fulcro del funzionamento del nuovo
strumento processuale in quanto deve garantire l’agevole reperibilità delle informazioni contenute
nell'area pubblica del portale, vengono anche istituiti dei registri giudiziari civili nei quali vengono
iscritti i procedimenti collettivi ex articolo 840 bis c.p.c. e seguenti introdotti dalla nuova normativa.
Sul portale dei servizi telematici del ministero della giustizia nella specifica sezione class action, è
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possibile consultare tutte le azioni collettive iscritte nei registri e depositare le domande di adesione.

Il ministero inoltre ha anche stilato un utile vademecum che è contenuto proprio sul sito del
ministero della giustizia che illustra le modalità di accesso al portale, con lo spid, e anche le
modalità di adesione all'azione di classe e anche le modalità di consultazione del fascicolo;
possiamo sicuramente dire che questa nuova normativa rappresenta un mini modello di quella che
potrebbe essere la riforma dell’intera giustizia proprio perché l’obiettivo del legislatore è proprio
quello dello snellimento delle procedure, della digitalizzazione e della massima trasparenza.
I punti principali della nuova disciplina che si applicherà a tutte le condotte illecite commesse a
partire dal 29 maggio 2021, invece le condotte illecite precedenti vedono l'applicazione della
normativa precedente quindi c'è una cesoia temporale tra le nuove controversie e le vecchie
controversie. Contestualmente all’entrata in vigore della nuova legge sono abrogate le
corrispondenti disposizioni sull’azione di classe che vengono individuate negli articoli 139/140/141
del decreto legislativo 229/2003.

L'azione di classe viene inserito nel codice di procedura civile alla fine del libro quarto, dopo il
titolo otto che è quello dedicato alla disciplina dell'arbitrato, e viene inserito un nuovo titolo l’8-bis
che è intitolato proprio dei procedimenti collettivi e introduce dall'articolo 840-bis all’art. 840-
secsies decies, sarebbe sedicesimo, nel quale è disciplinata l'azione di classe.
Sono inserite ulteriori norme di dettaglio all'interno delle norme di attuazione del codice di
procedura civile(che noi non conosciamo perché non abbiamo studiato nella procedura civile e
questo può essere un gap nella conoscenza di tutti meccanismi di un processo).
Sia quelle del titolo ottavo-bis e sia altre disposizioni di dettaglio che vengono inserite tra le norme
di attuazione del codice di procedura civile, vogliono disciplinare le comunicazioni a cura della
cancelleria e gli avvisi in materia di azione di classe nonché l'elenco delle organizzazioni e delle
associazioni legittimate all'azione di classe.
Con l'azione di classe un'organizzazione o un'associazione senza scopo di lucro o anche ciascun
componente della classe o l'elenco delle organizzazioni o le associazioni legittimate o il singolo o
un'organizzazione senza scopo di lucro, i cui obiettivi statutari comprendono la tutela dei brevetti
diritti, possono agire nei confronti dell'autore della condotta lesiva per l'accertamento della
responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alla restituzione eventuale che sia stabilita
dal giudice.
Le organizzazioni e le associazioni che possono aderire sono quelle scritte in un elenco pubblico
istituito presso il ministero della giustizia, pur restando ferma la legittimazione di ciascun
componente della classe.
L'azione chiaramente può essere esperita nei confronti di imprese, di enti gestori di pubblici servizi
o di pubblica utilità relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle
loro rispettive attività; restano comunque ferme tutte le norme vigenti in tema di ricorso per
l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, e cioè non viene meno tutta
la disciplina amministrativo di tutela contro l'inefficienza, la violazione della trasparenza da parte
della pubblica amministrazione.
Vediamo qual è il procedimento dell'azione di classe: sul piano processuale la domanda per l'azione
di classe è proposta con ricorso esclusivamente davanti alla sezione specializzata in materia di
impresa competente per il luogo ove ha sede la parte resistente, quindi il criterio del foro è quello
del luogo nel quale ha sede l'impresa.
Il ricorso insieme al decreto di fissazione dell'udienza è pubblicato, a cura della cancelleria, entro 10
giorni dal deposito del decreto nell'area pubblica del portale dei servizi telematici gestito dal
ministero della giustizia, in modo tale che chiunque sia interessato all'azione di classe possa
agevolmente reperire tutte le informazioni relative a quell’azione di classe.
Decorsi 60 giorni dalla pubblicazione del ricorso nell'area pubblica del portale non possono essere
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proposte ulteriori azioni di classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti del medesimo
resistente e quelle proposte sono cancellate dal ruolo, quindi, nel caso in cui dopo la pubblicazione
del ricorso nell’area pubblica vengano proposte ulteriori azioni che si basano sui medesimi fatti e
nei confronti del medesimo resistente ci sarà la cancellazione dal ruolo delle stanze e le azioni di
classe proposte tra la data di deposito del ricorso e il termine su indicato sono tutte quante riunite
all'azione principale quindi come per l'azione collettiva risarcitoria, secondo il principio di
economia delle procedure.
Il tribunale decide con ordinanza sull'ammissibilità dell'azione di classe e l'ordinanza di
ammissione viene pubblicata sul portale dei servizi telematici in cui è anche fissato un termine che
va dai 60 ai 180 giorni entro il quale i soggetti portatori di diritti individuali omogenei potranno
aderire all’azione.
Il procedimento è regolato dal cosiddetto rito sommario di cognizione, articolo 702 bis e seguenti
del codice di procedura civile, ossia il tribunale omessa ogni formalità che non sia funzionale al
contraddittorio procede come ritiene opportuno ad istruire tutta la documentazione che ritiene
rilevante in relazione all'oggetto del giudizio.
Inoltre, il giudice giudicante può anche disporre una CTU (consulenza tecnica di ufficio) con
l'obbligo di anticipare le spese e l'acconto sul compenso al CTU e questo obbligo è posto a carico
della parte resistente, salvo che sussistano specifici motivi; ai fini dell’accertamento della
responsabilità del resistente, dove il resistente è colui che viene chiamato in giudizio, il tribunale
potrà avvalersi di dati statistici e presunzioni semplici quindi non solo la CTU ma anche statistiche e
presunzioni, laddove le presunzioni semplici sono quelle presunzioni che ammettono prova
contraria.
La sentenza che accoglie l'azione di classe avrà un contenuto piuttosto articolato. I punti principali
sono che:
-provvede sulle domande risarcitorie o restitutorie proposte dal ricorrente e con riferimento al caso
in cui l'azione è stata proposta da un soggetto diverso, ossia da un'organizzazione o da
un'associazione inserita nell'elenco ministeriale, si verifica una riunione di tutte le domande e viene
accettata la condotta che viene addebitata al ricorrente, vale a dire se la condotta addebitata
ricorrente, che può essere un concessionario di pubblici servizi, per esempio l'agenzia delle entrate,
oppure il ministero della salute oppure la pubblica amministrazione, se la condotta di quel
particolare soggetto possa in qualche modo aver leso la classe dei soggetti portatori di diritti
individuali omogenei.
In questa prima fase il giudicante stabilisce se la documentazione è sufficiente oppure è necessario
produrre ulteriore documentazione per fornire la prova della titolarità dei diritti individuali
omogenei, quindi, dichiara aperta una procedura di adesione e fissa un termine che può variare dai
60 ai 150 giorni per l'adesione all'azione di classe da parte dei soggetti portatori di diritti individuali
omogenei.
Viene nominato il giudice delegato per la procedura di adesione e viene nominato il rappresentante
comune degli aderenti e questa figura deve essere un soggetto che deve possedere i requisiti per la
nomina di curatore della crisi d'impresa, questo soggetto è qualificato come pubblico ufficiale e
significa che i suoi atti fanno fede come strumenti di prova nell'ambito della controversia fino a
prova contraria.
La domanda di adesione viene presentata esclusivamente tramite la piattaforma che si trova sul
sito ministeriale, viene presentata attraverso la compilazione di un modello approvato con decreto
ministeriale e viene inserita in un fascicolo, che è detto fascicolo informatico, avvalendosi di
un'area del portale dei servizi telematici; la domanda, a pena di ammissibilità, deve contenere una
serie di indicazioni e produce gli effetti della domanda giudiziale e può essere presentata anche
senza un difensore, quindi anche senza avvocato direttamente dal portatore dell’interesse.
I documenti probatori sono prodotti mediante l'inserimento nel fascicolo informatico e al resistente
è consentito di depositare una memoria che contiene le sue difese, nella quale prenderà posizione
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sui fatti posti e citati dagli aderenti a fondamento della domanda.


Il rappresentante comune degli aderenti predispone e comunica agli aderenti e al resistente il
progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti, quindi, riunisce tutte le istanze nella
composizione di un progetto dei diritti individuali omogenei; il resistente e gli aderenti possono
depositare delle osservazioni scritte e dei documenti integrativi nella procedura di adesione, non
sono ammessi mezzi di prova diversi dalla prova documentale e il rappresentante comune apporterà
eventuali variazioni, sulla base delle osservazioni, al progetto dei diritti individuali omogeni e
deposita il tutto nel fascicolo informatico.
Quando accoglie in tutto o in parte la domanda di adesione che è stata istruita dal rappresentante
comune, il giudice delegato condannerà o potrà condannare il resistente a pagare le somme o la
restituzione di quanto dovuto a ciascun aderente a titolo di risarcimento di danno o a titolo di
restituzione; con il decreto del giudice delegato la condanna del resistente a corrispondere
direttamente al rappresentante comune degli aderenti sarà completa ed includerà anche il compenso
che spetta al rappresentante comune degli aderenti e questo compenso consiste in un importo
variabile in misura progressiva e in relazione al numero dei componenti della classe; a favore del
difensore, di cui l’aderente si sia avvalso, è stabilito un compenso che viene determinato dal
ministero della giustizia con un apposito decreto, questo decreto rappresenta titolo esecutivo e
significa che è come se fosse un decreto ingiuntivo sulla base del quale è possibile iniziare l'azione
esecutiva sui beni dei responsabili.
Contro il decreto può essere proposta opposizione nel caso in cui la misura del compenso possa
sembrare eccessiva, può essere proposta opposizione con ricorso depositato presso la cancelleria del
tribunale entro 30 giorni; sul ricorso decide il tribunale, in composizione collegiale e del collegio
non può far parte chiaramente il giudice delegato all'azione di classe.
Una disciplina dettagliata può essere prevista nel caso in cui vi sia un adempimento spontaneo
quindi non sia necessaria un’azione.
Inoltre, un ulteriore rimedio è quello che prende il nome di azione inibitoria collettiva, quindi a
fianco all’azione di classe, che è volta al risarcimento del danno o alla restituzione di un qualcosa
che spetta al contribuente o al soggetto portatore dell'interesse, vi è l'azione inibitoria collettiva, e
cioè come dice il termine è proprio quell'azione che vuole inibire, cioè far in modo che non si
verifichino dei comportamenti o degli atti che sono posti in essere dalla pubblica amministrazione o
da concessionario di pubblico servizio oppure addirittura da un'impresa, cioè per esempio l'impresa
inquinante può subire un'azione inibitoria collettiva piuttosto che un'azione collettiva risarcitoria;
questi atti o comportamenti sono posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o di enti
e consiste nel chiedere l'ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o
commissiva.
Le organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro, i cui obiettivi statutari comprendono la
tutela degli interessi pregiudicati dall’omissione dalla commissione di comportamenti scorretti sono
legittimati a proporre l'azione solamente se sono iscritte nell'elenco istituito presso il ministero della
giustizia.
L’azione può essere esperita nei confronti di imprese, per esempio per l'inquinamento, o nei
confronti di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità relativamente ad atti e
comportamenti posti in essere nello svolgimento delle rispettive utilità.
Bisogna dire che queste due azioni così configurate vengono a sostituire e la cosiddetta legge
Brunetta, nel decreto legislativo 198/2009, che prevedeva un ricorso per l'efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici.

La class action pubblica non si può intraprendere nei confronti delle autorità amministrative
dipendenti, quindi il garante della privacy delle telecomunicazioni, della concorrenza del mercato e
tutti gli altri garanti, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, nei confronti degli
organi giurisdizionali delle assemblee legislative e degli altri organi costituzionali. L'obiettivo della
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class action è quella di ripristinare il corretto svolgimento della funzione pubblica a cui è preposta la
pubblica amministrazione oppure l'esatta erogazione del servizio. Attraverso la class action non è
possibile avanzare delle richieste risarcitorie nei confronti della pubblica amministrazione vera e
propria, come enti pubblici; viceversa è valida nei confronti dei concessionari di pubblico servizio e
chi vuole agire nei confronti della pubblica amministrazione dovrà seguire i rimedi ordinari dettati
dal codice amministrativo, dal diritto amministrativo. I titolari di interessi giuridicamente rilevanti
ed omogenei per una pluralità di utenti e di consumatori sono i soggetti attivi e questi soggetti
subiscono una lesione diretta concreta ed attuale di interessi rilevanti e omogenei, proprio a causa di
questa condotta attiva od omissiva posta in essere dal concessionario pubblico. Ai sensi del comma
4 dell'articolo 1, ricorrendo nei presupposti il ricorso può essere proposto anche da associazioni o
comitati a tutela degli interessi proprio degli associati.
Vediamo quali sono le violazioni poste in essere verso le quali si può utilizzare la class action
pubblica: innanzitutto il mancato rispetto di termini, mancata emanazione di atti obbligatori non
normativi che devono essere emanati entro un termine prestabilito da una legge o da un
regolamento, violazioni previste dalle carte dei servizi e inosservanza degli standard qualitativi ed
economici stabiliti dalle autorità di settore.
Alla fase del contenzioso vero e proprio precede una fase che è detta pre-contenziosa cioè prima di
proporre il ricorso in sede giudiziaria, il ricorrente è tenuto a notificare una diffida alla pubblica
amministrazione o al concessionario con cui si concedono 90 giorni di tempo per soddisfare le
richieste dei soggetti interessati; questa diffida è notificata all'organo di vertice, il quale assume le
misure opportune, individua il settore che si è reso protagonista della violazione dell'omissione o del
mancato adempimento e lo invita ad eliminarne le cause.
Le misure intraprese vengono comunicate a chi ha presentato la diffida però, se il concessionario
ritiene che vi siano altri soggetti coinvolti in questa violazione il privato deve diffidare anche questi
altri soggetti; in alternativa, l’interessato potrà ricorrere alle procedure conciliative previste dalla
carta dei servizi ai sensi dell'articolo 30 della legge 69/2009 e in caso di esito negativo proporre
ricorso entro un anno.
Per quanto riguarda il ricorso si può proporre entro un anno dal decorso dei 90 giorni dalla diffida,
se il concessionario non ha provveduto o ha provveduto parzialmente ad eliminare la situazione
denunciata; di questo ricorso viene data notizia sul sito dell'amministrazione o del concessionario
intimati e, inoltre, deve esserci comunicazione al ministero affinché vengano posti in essere gli
opportuni correttivi.
I soggetti che si trovano nella stessa situazione giuridica del ricorrente possono intervenire nel
giudizio nel termine di 20 giorni prima dell'udienza fissata per il ricorso, fissazione che avviene
d'ufficio in una data compresa tra il novantesimo giorno ed il 120 esimo giorno dal deposito del
ricorso.
Durante il giudizio, nel caso vi siano delle ragioni tali che bisogna far valere, si potranno presentare
degli argomenti in contraddittorio e questi argomenti con adeguata prova e documentazioni
dovranno essere presentati in modo tale che sia possibile avvalersene nel giudizio.
Bisogna dire che vi sono delle disposizioni che possiamo considerare di raccordo tra la class action
pubblica ed i rimedi disciplinati dal codice del consumo con particolare riferimento agli articoli 139,
140 e 140 bis e con i procedimenti instaurati da organismi con funzione di regolazione e controllo;
queste disposizioni di raccordo riguardano i casi in cui questi giudizi siano stati instaurati in un
primo tempo nella forma di classe action pubblica e successivamente vi sia una sospensione
necessaria perché vi sono delle altre questioni che sono pregiudiziali rispetto alla decisione finale.
Vediamo poi la situazione che si configura nei confronti degli obblighi contenuti nelle carte dei
servizi e negli standard qualitativi ed economici che sono previsti per valutare l'azione di
determinati organismi, in particolare l'impatto finanziario e amministrativo nei rispettivi settori e in
questo caso questi sono elementi, laddove vi sono delle linee di azione e dei parametri qualitativi,
allora l'azione della pubblica amministrazione o del concessionario del pubblico servizio è
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monitorata e quindi può rappresentare dei dati di supporto alla prova dell’omissione o della
commissione.
Vediamo esempio di azione di risarcimento che è quella presentata da codacons per i vaccini, cioè
questa azione è stata avviata per conto di un 46 enne che è stato ricoverato per gravi danni fisici, in
particolare è stata svolta una perizia medica che accerterebbe un nesso tra la vaccinazione e l’ictus;
la storia inizia il 6 agosto quando il soggetto si sottopone alla somministrazione del vaccino Johnson
e Johnson, presso una farmacia della capitale. A poche ore dalla vaccinazione e l'uomo accusava i
primi malori, tra cui dolori al braccio e si manifestava una paresi sul lato sinistro del viso in
prossimità della bocca che gli impediva di parlare correttamente; alla fine perdeva i sensi. All'arrivo
dei soccorsi, immediatamente contattata dai familiari, il braccio in tutta la parte sinistra del corpo
era completamente paralizzata e priva di sensibilità.
Una volta giunti al pronto soccorso gli veniva diagnosticato un ictus cerebrale ischemico a carico
dell'emisfero destro e veniva immediatamente approntata una trombolisi per via endovenosa.
L’uomo è ricoverato in clinica attualmente e si è sottoposto a riabilitazione neuromotoria
presentando delle difficoltà, delle conseguenze rispetto a questo ictus quindi una difficoltà
deambulatoria con difficoltà motorie e sensitive a carico della parte sinistra, il linguaggio è
parzialmente disamico e presenta una deviazione verso destra della rima buccale e lamenta un
profondo stato astenico; queste sono le risultanze della perizia.
Questi sono i fatti secondo il Codacons e la famiglia del 46 enne dopo il grave episodio decide di
rivolgersi all'associazione dei consumatori per ottenere assistenza legale e chiaramente il Codacons
con la perizia medica del professor Carlo Rumi evidenzia che è evidente come la circostanza della
procedura vaccinale possa avere rappresentato il primo movens cioè vale a dire il fattore principale
di un episodio tromboembolico, come già è stato evidenziato in una parte della letteratura
scientifica, e in un soggetto sano di 46 anni privo di importanti e evidenti fattori di rischio, soggetto
non fumatore, non bevitore, non abituato all'uso di sostanze stupefacenti non diabetico, non
iperteso, non in eccedenza ponderale, peso 70 kg, altezza centimetri 1.74, senza predisposizione
genetiche né familiarità per malattie tromboemboliche o per alterazioni del sistema emo-
coagulativo.
Secondo il Codacons, dopo l'esame della documentazione medica, la diagnosi ha confermato
l'ipotesi secondo cui la procedura vaccinale che ha preceduto l'episodio tromboembolico è stata in
grado di determinare e produrre anche in termini di concausa, l'evento avverso come già si legge
nella in gran parte della letteratura scientifica, nonché come si evince dal parere tecnico del medico
incaricato che viene quindi ad esprimerlo in perizia e che chiede una valutazione. Quindi viene
esperita dal Codacons l'azione risarcitoria presentando una formale richiesta di indennizzo ai sensi
della legge 210/92 che riconosce un risarcimento ai cittadini danneggiati dai danni di vaccinazioni.
Il legittimato passivo è la Asl di Roma 2 e il ministero della salute e viene allegata tutta la
documentazione medica.
Secondo Codacons in caso di rifiuto a riconoscere l’indennizzo previsto dalla normativa scatterà
una formale causa in tribunale contro il ministero della salute per far ottenere al cittadino
danneggiato dal vaccino il risarcimento cui ha diritto. Questa è un'azione promossa da una persona
nei confronti del ministero della salute, l'azione deve ancora avere una sentenza visto che è stata
presentata da poco.
Poi possiamo fare riferimento a un'altra class action relativa a pratiche commerciali scorrette in
particolare per la Cassazione una consumatrice è idonea a tutelare gli interessi di una classe di
potenziali acquirenti contro pratiche commerciali scorrette, il riferimento normativo è all'articolo
140 comma due lettera c del codice del consumo, che prevede che l'azione di classe tutela anche i
diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche
commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Vi è anche a supporto una recente
sentenza della Cassazione del 2018, la 2320 che conferma quanto statuito dall’ordinanza di
ammissibilità di cui l'articolo 140-bis, del codice del consumo, riconosce l'idoneità di una sola
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consumatrice a tutelare gli interessi della classe di consumatori, potenziali acquirenti e vittime di
pratiche commerciali scorrette.
La questione era molto residuale con riferimento al valore patrimoniale, infatti imparziale
accoglimento della domanda risarcitoria avanzata da questa consumatrice rappresentata dal
Codacons nei confronti della “VODEN MEDICAL INSTRUMENTS SPA” la Corte di appello di
Milano riconosce la restituzione e 14,50 € pari al prezzo del prodotto acquistato.
Secondo la consumatrice, la VODEN MEDICAL INSTRUMENTS SPA ha commercializzato
ricorrendo a pratiche commerciali scorrette e ingannevoli, quindi fa riferimento all'articolo 140-bis
comma due lettera B e C del decreto legislativo 206/2005; quindi, attraverso queste pratiche
commerciali scorrette ingannevoli il kit Ego Test Flu avrebbe la capacità di diagnosticare con
margine di errore minimo l’influenza suina, il kit però contrariamente alle affermazioni della casa
produttrice non si rivela idoneo a questa diagnosi e, quindi, incapace di soddisfare la necessità
dell'acquirente. La Voden Medical verso la sentenza della Corte carta di Milano ricorre in
Cassazione e la Cassazione con ordinanza 2320/2018 dichiara inammissibile il ricorso della società
farmaceutica ritenendo generica a podistica e incomprensibile la questione sull'idoneità della
consumatrice a tutelare gli interessi omogenei della classe dei potenziali acquirenti, in quanto
l'ordinanza di ammissibilità prevista dall'articolo
140-bis del codice del consumo rappresenta una valutazione preliminare della controversia al fine di
escludere tutte quelle azioni che siano manifestamente infondate o in conflitto di interessi o che
difettino dei presupposti minimi per proseguire il giudizio con la cura di interessi di una classe
nonché l’omogeneità degli interessi tutelabili e, in particolare, non si può in alcun modo secondo la
Cassazione dare efficacia di giudicato nell'ambito dello stesso giudizio, in quanto vi è un regime
ordinario da seguire per cui la signora potrà tutelare gli interessi della classe di consumatori
potenziali acquirenti del prodotto distribuito da voden semplicemente azionando l'azione di classe in
cui bisognerà dimostrare il diritto omogeneo che viene fatto valere in giudizio, proprio perché
questa è la finalità dello strumento processuale dell'azione di classe che viene introdotta dal
legislatore del 2009 di fronte a condotte illegittime che esplicano i propri effetti su una pluralità di
individui.
Nel caso di specie il messaggio reclamizzato sulla confezione del prodotto unito alle spiegazioni
fornite con il foglietto illustrativo sicuramente era idoneo a generare nel consumatore medio la
convinzione di acquistare un prodotto sicuro e capace di diagnosticare la presenza dell’influenza
suina con una probabilità di successo prossima al 100%; quindi, quando si parla di azione di classe
si pensa sempre che tutto finisca in tribunale, in una lotta continua tra atti giudiziari eccetera; in
realtà, il codice del consumo prevede la possibilità di dirimere la controversia ricorrendo a degli
strumenti stragiudiziali, quindi evitando il tribunale ma facendo riferimento agli strumenti di
alternativa disputa resolution, e intrattenute presso la Camera di Commercio oppure addirittura la
mediazione obbligatoria oppure la mediazione facoltativa e, quindi, possiamo sicuramente dire che
è possibile una composizione stragiudiziale della class action laddove sia necessario definire delle
questioni che riguardano la tutela dei diritti individuali omogenei e gli interessi collettivi dei
consumatori e degli utenti e in particolare i comma 2,3 e 4 dell'articolo 140 del codice del consumo
dispone proprio che le associazioni nonché i soggetti di cui all'articolo 139 comma 2 possano
attivare, prima del ricorso a giudice, la procedura di conciliazione dinanzi alla Camera di
Commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio ai sensi dell'articolo 2
comma 4 e lettera a della legge 580/1993 nonché agli altri organismi di composizione extra
giudiziale per la composizione delle controversie in materia di consumo a norma dell'articolo 141;
in ogni caso la procedura deve essere definita nel termine di 60 giorni.
Questo processo verbale di conciliazione che viene ottenuto avendo le camere di commercio, viene
sottoscritto dalle parti e dal rappresentante dell'organismo di composizione extragiudiziale ed è
depositato per l’omologazione nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale si è svolto il
procedimento di conciliazione. Il tribunale in composizione monocratica, accertata la regolarità
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formale del processo verbale, dichiara esecutivo il decreto e questo decreto rappresenta un titolo
esecutivo così come il verbale di conciliazione omologato.
Si può dire che con riferimento all’istituto della mediazione nell’ambito della class action,
all'articolo 141 del codice del consumo si dice che sono fatte salve le disposizioni che prevedono
l'obbligatorietà delle procedure di risoluzione extragiudiziale delle controversie, come condizione di
procedibilità con riferimento alla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e
commerciali.
Possiamo dire che il ricorso alla mediazione obbligatoria per la class action è esclusa, nel senso che
non rappresenta condizione di procedibilità della domanda giudiziale per l'azione di classe cioè è
possibile presentare una domanda di conciliazione attraverso la mediazione obbligatoria, ma senza
che questo comporti che non sia esperibile l'azione di classe.

22 ottobre (11)

RESPONSABILITA’ IMPLICITE anche nel ruolo degli intermediari finanziari, che sono
operatori che collegano dei soggetti che hanno un eccesso di risorse finanziarie (un surplus
finanziario), che può essere anche identificato come risparmio ed altri soggetti che invece sono
quelli che richiedono le risorse finanziarie in quanto versanti in situazioni di deficit finanziario,
proprio al fine di realizzare investimenti.
In base a questa definizione di intermediario finanziario come operatore che collegano i soggetti che
hanno un eccesso di risorse finanziarie e quelli che richiedono risorse finanziarie, si sviluppa tutta
un’attività che è quella della attività bancaria di concessione del credito a imprese e famiglie, per cui
possiamo dire che questa è la principale funzione svolta dagli intermediari finanziari che forniscono
tutta una serie di attività legate agli investimenti finanziari.
Il ruolo esercitato da questi soggetti è un ruolo molto delicato specie con riferimento agli interessi
da tutelare, vari sono i valori coinvolti in questa situazione: in primis la fiducia dei risparmiatori
nei confronti dei mercati, elemento che incide nel senso di portare coloro che sono detentori di
risorse finanziarie alla scelta di immettere queste risorse sul mercato.
In particolare, il legislatore sia nazionale che internazionale europeo ha sottoposto questa materia a
tutta una serie di regole molto stringenti come anche sistemi di vigilanza, per individuare con legge i
diversi operatori che possono andare a svolgere determinate funzioni, questo determina proprio la
pluralità di attori presenti nel sistema finanziario.
Il testo normativo di riferimento è il decreto legislativo 58 del 1998 che è il testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria a cui si aggiungono i regolamenti attuativi del
suddetto decreto che sono stati emanati dalla Consob e dalla banca d’Italia, a questo si aggiunga
anche il decreto legislativo 385 del 1993 (entrambi hanno ricevuto delle parziali modifiche) che è il
testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia; in base a queste due principali fonti
normative possiamo individuare i seguenti attori del mondo finanziario: innanzitutto le banche che
in aggiunta alle tradizionali attività bancarie se autorizzate possono svolgere anche servizi e attività
di investimento, poi abbiamo le cosiddette SIM (società di intermediazione mobiliare) che sono le
società tipicamente costituite per la prestazione dei servizi e delle attività di investimento e la loro
attività viene a configurarsi principalmente come distribuzione di strumenti finanziari, poi abbiamo
le società di gestione del risparmio che sono quelle società che si occupano di prestare il servizio
di gestione collettiva del risparmio, cioè non investono a nome di singoli ma gestiscono ingenti
portafogli come i fondi comuni di investimento secondo proprie politiche di asset management, e
poi abbiamo le società di investimento a capitale variabile e le società di investimento a capitale
fisso mobiliare ossia la SICAV e SICAF, anche esse sono società che possono prestare il servizio di
gestione collettiva del risparmio ma a differenza delle società di gestione del risparmio il patrimonio
è raccolto mediante l’offerta di proprie azione, ed infine vi sono gli intermediari iscritti nell’albo

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previsto dall’art. 106 TUB (testo unico bancario), e questi sono intermediari autorizzati all’esercizio
nei confronti del pubblico dell’attività di concessione dei finanziamenti sotto qualsiasi forma.
Accanto a essi vi sono i cosiddetti intermediari di diritto estero, cioè dell’unione europea o extra
unione europea che svolgono attività simili ma che non possono assumere la medesima
denominazione, ad esempio le SIM o le SGR che sono società di diritto italiano con sede legale e
direzione in Italia; invece, le società estere assimilabili sono le imprese di investimento dell’unione
europea o le società di gestione dell’unione europea.
A parte tutti queste particolari conformazioni di soggetti giuridici abbiamo poi da considerare tra gli
intermediari finanziari: i consulenti finanziari autonomi, le società cioè quelli che agiscono in
nome proprio e per proprio conto, le società di consulenza finanziaria e anche i consulenti
finanziari abilitati all’offerta fuorisede che comunque sebbene la normativa li definisca agenti
collegati a soggetti abilitati come dipendenti, agenti o mandatari, poi abbiamo le poste italiane
SPA, divisioni servizi di bancoposta che ormai sono paragonabili ad una banca, gli istituti di moneta
elettronica IMEL , gli istituti di pagamento e gli agenti di cambio ai sensi del art. 201 per truffe,
poi abbiamo le imprese di assicurazioni e gli intermediari assicurativi che operano nei vari rami
di assicurazione compreso il rampo MITA e che hanno anche dei pacchetti finanziari che spuntano
la logica della raccolta di risorse finanziarie e messa a disposizione per investimenti finanziari da
parte di soggetti che abbiano idee ma che non abbiano finanziamenti.
A nessuno sfugge che il mercato finanziario è caratterizzato da radicali mutamenti evolutivi che si
caratterizzano sempre di più, come ultima la crisi pandemica che ha cambiato completamente il
mercato finanziario immettendo tantissime risorse da parte dell’UE, quindi questo ci serve a capire
come le variabili che possano incidere sull’andamento dei mercati finanziari possano essere
endogene si pensi ai casi CRAC della PARMALAT, della Cirio, il default argentino ecc. o esogene
come gli effetti di una grande pandemia.
Nell’ambito dell’intermediazione finanziaria un ruolo di fondamentale importanza è svolto
dall’intermediario, il quale nel rapporto diretto con il cliente è tenuto a particolari doveri informativi
e comportamentali che costituiscono un sistema atto e idoneo a conferire all’attività di
intermediazione finanziaria la natura e la consistenza di un rapporto particolarmente complesso.

Parte della dottrina si è pronunciata sull’inquadramento del rapporto di intermediazione finanziaria,


in particolare una parte della dottrina ha pensato di inquadrare questo rapporto come contratto
normativo, che è quel contratto che stabilisce le regole per futuri contratti che saranno conclusi,
quindi è una sorta di contratto quadro che va a disciplinare anche futuri rapporti e in sostanza il
fulcro genetico di futuri contratti di investimento; pertanto, non vi è dubbio secondo questa parte
della dottrina che abbia una natura contrattuale il cui inadempimento venga sanzionato dalle regole
ex articolo 1218 del c.c. che riguarda l’adempimento delle obbligazione oltre che poi il riferimento
che fa la dottrina al comportamento che è necessario tenere nell’adempimento di questo tipo di
obbligazioni, vale a dire il riferimento agli art. 1337 e 1338 del c.c. in particolare il 1218 fa
riferimento, parlando dell’adempimento delle obbligazioni , alla norma cardine della responsabilità
del debitore, in particolare il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al
risarcimento del danno se non trova, finché l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da
impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, quindi la responsabilità del
debitore nell’inadempimento dell’obbligazioni.
Invece il 1337 e 1338 del c.c. fanno riferimento a le trattative e alla responsabilità precontrattuale in
particolare l’art.1337 dice che “le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del
contratto devono comportarsi secondo buona fede”, accade di frequente che la stipulazione di un
contratto sia preceduta (o seguita) da una lunga fase di negoziazione tra le parti relativamente al
contenuto del futuro contratto.
Durante queste trattative, secondo l’art. 1337, incombe sulle parti un comportamento secondo buona
fede che consiste:
- nel non intraprendere trattative con spirito poco serio,

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- oppure recedere ingiustificatamente dalle trattative è anche un trattamento contrario alla buona
fede,
- O tacere delle informazioni rilevanti sul contratto che si va a concludere
- O ancora ritardare senza giustificato motivo la conclusione del contratto
Qualora una delle parti venga meno al dovere di buona fede, l’altra avrà diritto al risarcimento dei
danni che andranno a coprire tanto l’interesse negativo, cioè l’interesse a non intraprendere delle
trattative inutili e questo interesse negativo a sua volta trova un limite nel cosi detto interesse
positivo, ossia il risarcimento spettante nel caso in cui la parte riesca a provare che a causa della
trattativa intrapresa ha dovuto rinunciare a delle altre trattative che gli avrebbero portato un sicuro
guadagno. Quindi in tal caso si parla di risarcimento del danno che deve ricompensare quello che
non è derivato dalla conclusione dell’accordo.
Per la giurisprudenza maggioritaria questa responsabilità precontrattuale prevista dall’articolo
1337 del c.c. avrebbe la natura di responsabilità extracontrattuale, invece secondo altra parte della
dottrina avrebbe natura di responsabilità contrattuale, quindi con delle conseguenze (che sono ad
esempio l’onere della prova, si dive dimostrare in base al soggetto che è stato accusato; i termini di
prescrizione dell’azione sono doversi, che nella contrattuale sono 10 e nell’extra contrattuale 5) .
(La prof ci vede più una responsabilità extracontrattuale perché vede una lesione di un principio
generale e non di un obbligo, perché in realtà l’obbligo nasce da contratto, nella fase precontrattuale
vi è un dovere generale che consiste nella buona fede e nel neminem leadere per cui si tratta della
lesione di un principio generale dell’ordinamento e quindi ci vedrebbe la responsabilità
extracontrattuale più la contrattuale, però sono delle tesi perché la stessa dottrina è divisa sul punto).
Bisogna dire però che il contratto è ben inquadrato come contratto normativo, infatti altra parte della
dottrina qualifica il contratto normativo che alla base del operazione negoziale è come tale, però ne
individua con certezza la natura contrattuale con la conseguenza che l’inadempimento è stazionato
con le regole xe art. 1218, vale a dire l’obbligo del debitore di risarcire il danno se non priva che
l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione , applicando
quindi le regole della responsabilità contrattuale, cioè la responsabilità per inadempimento in base
alla violazione di obblighi connessi alla stipula del contratto.
La giurisprudenza in seguito a tutti i crack che si sono avuti dagli anni 90 ha discusso sulla natura
degli obblighi a carico degli intermediari finanziari e di conseguenza su tutti i rimedi che è possibile
applicare in caso di violazione di questi obblighi da parte degli intermediari.

Innanzitutto, questi obblighi sono:


Gli obblighi informativi, che sono i principali obblighi che la normativa comunitaria pone a carico
dell’intermediario finanziario e della banca, cioè la materia dei servizi di investimento come
disciplinato dal decreto legislativo n.58 del 98 cosi come il regolamento di attuazione delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria o del testo unico di finanze, il regolamento
relativo emanato dalla CONSOB contengono tutte le regole tecniche dell’attività degli intermediari
finanziari ed in particolare l’art. 21 del testo unico finanza pone i principi basilari a cui deve essere
informato il rapporto dell’intermediario e l’investitore.

Gli obblighi di comportamento definiti tendono ad informare l’attività di prestazione dei servizi a
finalità di efficienza, trasparenza e tutela del risparmiatore congiuntamente a finalità di stabilità ,
competitività e buon funzionamento del mercato finanziario.
La stabilità del mercato finanziario e il buon funzionamento sono sicuramente degli obblighi primari
che anche la CONSOB E la banca d’Italia tengono in grandissima considerazione.
I servizi finanziari possono essere svolti per conto dei clienti dopo che sia stato stipulato un
contratto che abbia ad oggetto i servizi medesimi, è proprio questo il cosiddetto CONTRATTO
QUADRO, o contratto normativo dal punto di vista della sua qualificazione giuridica per il quale
l’art. 23 del TUF richiede la forma scritta ad substantiam, per cui se questo contratto quadro non ha
la forma scritta non è valido, per cui la sua assenza determina la nullità del contratto quadro dalla
quale discende la nullità di tutti i contratti che andranno ad essere stipulati sulla base del fulcro per

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rappresentarlo dal contratto quadro, tuttavia per espressa disposizione del art. 23 terzo comma del
decreto legislativo n. 58 del 98 questa nullità può essere fatta valere solamente dal cliente e NON
anche dall’intermediario finanziario in deroga alla regola generale dell’articolo 1421 del c.c.
secondo il quale questa patologia negoziale può essere fatta valere da qualsiasi soggetto interessato.
Per tanto cadranno con la nullità del contratto quadro anche le singole operazioni di investimento
che presentano, con il contratto quadro, una relazione che viene definita di collegamento necessario,
in quanto previsto dalla legge, nel senso che un contratto non può esistere senza l’altro.
Quindi il rapporto che collega il contratto normativo o contatto quadro con i singoli contratti è
caratterizzato da un collegamento necessario (sinallagma necessario) che è sia genetico che
funzionale, me nella parte funzionale è unilaterale, cioè genetico nel senso che senza il contratto
quadro non possono esistere i singoli contratti e si dice genetico in quanto viene instaurato nella fase
costitutiva del rapporto relativo alle singole prestazioni di investimento e accessorie, ed è anche un
sinallagma funzionale unilaterale in quanto il rapporto di dipendenza che nasce dalla stipula di un
valido accordo genetico non è reciproco ma sono nulle le operazioni utilizzate dalla banca per conto
del cliente, quindi unilaterale nel senso che solamente la parte (il cliente) potrà eccepire questa
nullità. Quindi, in assenza del contratto quadro e della nullità dello stesso saranno nulle tutte le
operazioni di investimento realizzate dalla banca per conto del cliente con conseguente obbligo del
risarcimento del danno.
Sulla stessa linea si svolge anche il regolamento della CONSOB, 11522 del 98 che all’art. 30 invece
disciplina separatamente il contratto quadro e le operazioni di esecuzione, ciò significa che il
dovere di informare l’investitore viene considerato di pari passo rispetto al dovere di informarsi
dall’investitore, determinato un insieme di obblighi informativi di contenuto ampio ed articolato.
Quindi, questo flusso di informazioni, che nello stesso tempo è un diritto e un obbligo, cioè c’è
l’obbligo del consulente di informare ma c’è anche l’obbligo del cliente di informarsi.
Il flusso di informazione che deve accompagnare il momento, in cui viene ad istaurarsi il rapporto
tra l’intermediario e l’investitore in maniera che il successivo svolgimento delle operazioni in titolo
avvenga nella piena consapevolezza e coscienza di tutti gli elementi necessari.
All’art. 28 del regolamento CONSOB si prevede che gli intermediari finanziari prima dell’inizio
delle prestazioni debbano chiedere all’investitore notizia circa il suo livello di conoscenza dei
sistemi finanziari, circa la sua esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziario,
informazioni circa la sua situazione finanziari, i suoi obbiettivi di investimento, nonché la sua
propensione al rischio.
Si aggiunge quindi che l’eventuale rifiutò di fornire notizie relativamente a questi elementi deve
risultare da contratto o da apposita dichiarazione sottoscritta dall’investitore, perché non sono
puramente degli argomenti discorsivi trattati per farsi un’idea ma assumono nel regolamento
CONSOB la portata di obblighi di natura contrattuale con i quali si obbligano gli stessi intermediari
a porli in essere in quanto assoluta parte del contratto quadro stipulato con il cliente, quindi proprio
l’adempimento di questi obblighi fa parte già dell’esecuzione del contratto, e la loro violazione può
essere imputata alla banca proprio all’atto della prestazione dei servizi di investimento esponendo la
banca alle conseguenze della responsabilità contrattuale. Questa è la prima fonte di responsabilità
che è quella relativa agli obblighi informativi dell’intermediario finanziario e della banca che sono
obblighi di contenuto ampio e complesso.

La seconda tipologia di obbligo è quella che prende il nome di false informazioni e responsabilità
da prospetto, che significa che la libertà a contrarre viene lesa sia nel caso in cui l’informazione sia
totalmente omessa o risulti omessa o incompleta, ma anche quando l’informazione risulti falsa o
inesatta. E sulla base di un informazione falsa o inesatta in sostanza il contraente viene indotto alla
conclusione del contratto che altrimenti non avrebbe proprio concluso oppure viceversa abbia
dissuaso dal concludere un contratto che altrimenti stava per concludere, quindi in questo contesto
viene a configurarsi quella che prende il nome di responsabilità da prospetto informativo , cioè
quella responsabilità a carico di banche o di altri intermediari finanziari che inducono il pubblico dei

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risparmiatori ad investire in determinati titoli mediante l’esibizione o la divulgazioni di prospetti


non veritieri.

La dottrina ha fatto una distinzione a seconda che gli intermediari fossero gli autori del materiale
informativo, oppure viceversa lasserà messo semplicemente in circolazione, oppure nel caso in cui
si tratti invece di risparmiatori che abbiano stipulato un negozio di sottoscrizione di titoli che si
siano fidati del prospetto della società emittente o addirittura di altri soggetti terzi che sono
danneggiati altrimenti da un prospetto non veritiero.
Questa responsabilità da prospetto parimenti viene a inquadrarsi come una forma di responsabilità
della banca.
Nel contenzioso sottoposto ai giudici di merito si sono avute delle soluzioni non omogenee che
oscillavano dalla dichiarazione (declaratoria) di nullità del contratto di acquisto del bons con
conseguente obbligo di restituzione delle somme investite dal cliente alla responsabilità della banca
per inadempimento che tal volta pro portare alla risoluzione di un contratto di acquisto pronunciata
sensi dell’articolo 1453, altre volte si è parlato di condanna della banca al risarcimento del danno
cagionato al cliente secondo la regola generale dell’art.1218 del c.c. cioè per la responsabilità
contrattuale, e in particolare vi è una sentenza della cassazione n.19024 del 2005 che è stata ripresa
successivamente che pero rappresenta un punto fermo nella corrente giurisprudenziale e si è fatto
chiarezza sulle regole da applicare, Illustra e prospetta varie ipotesi:
La prima è quella della nullità cioè la cassazione riunisce tutte le varie posizioni che vi sono state
sulla validità dei contratti di acquisto dei prodotti finanziari e la giurisprudenza prevalente propende
per la nullità dei contratti di acquisto dei prodotti finanziari quando l’intermediario abbia violato gli
obblighi che la normativa di settore gli impone nello svolgimento dei servizi di investimento e
nell’adempimento di tutti gli obblighi accessori all’oggetto principale che è quello dei servizi di
investimento.
Alle banche convenute nelle varie cause sollevate viene imputata la violazione degli obblighi
formativi in sensi bidirezionale previsti dagli articoli 21 e 23 del TUF del decreto legislativo 58 del
98 e l’art. 30 del regolamento CONSOB n 11522 del 98, in sostanza prima del compimento
dell’operazione di compravendita dei titoli le banche non avrebbero raggiunto un adeguato livello di
conoscenza dei prodotti finanziari da proporre ne avrebbero informato il cliente sui rischi connessi
all’operazione omettendo inoltre di comunicare l’inadeguatezza dell’investimento ridettò al profilo
di rischio del cliente, rappresentato dalla propensione al rischio e le informazioni circa la possibile
riduzione del valore dei titoli acquistati. I giudici di primo grado che hanno aderito a questa
interpretazione hanno sostenuto che le norme citate vale a dire gli art. 21 e 23 del TUF e 26 e 30 del
regolamento CONSOB, hanno un carattere imperativo in quanto rivolti alla tutela di interessi di
natura pubblicistica cosicché si legge nella sentenza che la loro violazione determina la nullità del
contratto di acquisto dei titoli ai senti dell’art. 1418 primo comma, che fa riferimento alla nullità del
contratto e afferma che “ il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la
legge disponga diversamente” , (nullità per violazione di norme imperative il che ci ricondurrebbe
alla responsabilità extracontrattuale come fattispecie critica, ma poi vediamo quali sono le
conclusioni della giurisprudenza ); la tesi seconda è quella dell’inadempimento, risoluzione e
annullabilità, vale a dire che secondo quest’altra corrente i giudici di primo grado dovranno
verificare le regole, considerando valido il contratto di spostano questi giudici sul piano del
funzionamento dello stesso e quindi valutano l’applicabilità delle regole relative alla risoluzione del
contratto per inadempimento o ancora la possibilità invece di rilevare i vizi del consenso o l’errore
rilevante.
Queste sono tre ipotesi completamente diverse, per cui la banca violando gli obblighi informativi
che derivano dalla violazione del contratto normativo incorre nella responsabilità contrattuale ex art.
1218 del codice civile e quindi verso questa violazione ben si giustifica l’azione d’inadempimento
esercitata dal risparmiatore anziché viceversa la violazione delle norme imperative che era stata
invece sostenuta dall’orientamento precedente, per cui il giudice nel valutare la fattispecie dovrà
valutare l’illegittimità del comportamento tenuto dall’intermediario e la sua efficienza causale

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rispetto al danno allegato dall’attore , quindi dovrò accertarsi in giudizio che ove la banca avesse
prontamente ed adeguatamente informato il cliente circa la natura dell’investimento, questi non
avrebbe compiuto l’operazione o l’avrebbe realizzata con modalità diverse evitando il pregiudizio
sofferto.
Il risparmiatore da parte sua potrà in alternativa all’azione risarcitoria potrà esercitare l’azione di
risoluzione ai sensi dell’art. 1453 del c.c. ove ritenga che l’inadempimento della banca sia tale da
pregiudicare del tutto l’equilibrio del rapporto contrattuale impedendone assolutamente la
prosecuzione, quindi i giudici di questo orientamento che aderiscono a tale soluzione non accolgono
la teoria del vizio genetico relativo alla fase della conclusione del contratto ma parlano di un vizio
funzionale, che si verifica nel funzionamento del rapporto che inerisce ad un contratto perfetto ,che
si è ormai perfezionato , quindi il difetto riguarda le prestazioni e non l’essenzialità del negozio
concluso che sarebbe contrario alla norme imperative secondo la ricostruzione giurisprudenziale
precedente, e dal collegamento funzionale e necessario esistente tra il contratto quadro ed i
successivi contratti di investimento, consegue che le vicende del contratto quadro di ripercuotono
anche sui contratti successivi in applicazione del principio noto alla giurisprudenza SIMUL
STABUNT SIMUL CADENT, cosi come sta in piedi l’originario contratto cosi stanno in piedi i
contratti successivi, come cade il contratto chi cadono pure i contratti collegati (insieme staranno
oppure insieme cadranno), per cui una volta ottenuta la risoluzione del contratto quadro e del
contratto di investimento, il risparmiatore avrà diritto alla restituzione dell’intero capitale investito
stante appunti la regola della retroattività del rimedio delle risoluzione disposta ai sensi dell’art.
1458 del c.c. primo comma.
Il diritto alla restituzione del capitale, in particolare precisano le sentenze, segue le regole proprie
della ripetizione dell’indebito; quindi, spetta al risparmiatore anche la prova dell’eventuale danno da
svalutazione sofferto che non è compensata dalla semplice attribuzione degli interessi.
A queste due interpretazioni, nell’ambito si quest’ultimo orientamento che propende per un
inadempimento contrattuale e conseguente risoluzione oltre che risarcimento del danno se ne
aggiunge un’altra che riguarda l’inosservanza degli obblighi di condotta di cui all’art. 21 comma 1
del TUF vale a dire la sanzione del risarcimento del danno che è conseguente all’inadempimento
contrattuale piuttosto che all’invalidità negoziale.

La terza teoria è quella della responsabilità precontrattuale, su questo tema è sempre intervenuta
la corte di cassazione la quale ha stabilito che l’inosservanza dei vincoli di forma e dei doveri
informativi prescritti per le dichiarazioni relative alle operazioni compiute dall’intermediario
finanziario è fonte non di nullità o per violazione delle norme imperative o di risoluzione per
inadempimento, ma di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 relativa alla conclusione di un
contratto valido ed efficace ma sconveniente. La conclusione raggiunta dalle varie corti di merito,
che sarebbero le corti di primo e di secondo grado non convincono la cassazione con particolare
riferimento alla nullità, che poi verrebbe a qualificarsi nelle forma di nullità virtuale, in realtà il
fondamento giuridico di questa decisione è rappresentato proprio dalla nullità virtuale, significa
che la nullità virtuale è proprio la sanzione che l’ordinamento da ad una fattispecie contrattuale per
violazione delle norme imperative, quindi è una sorta di norma di chiusura che ha un carattere
residuale e che può essere applicato solamente quando la legge per quella tipologia di contratto non
preveda una sanzione espressa per il negozio che fa da contro i principi della legge.
Quindi la legge stabilisce che la contrarietà a norme imperative considerata dall’articolo 1418 primo
comma, quale causa di nullità del contratto postula che questa nullità sia relativa agli elementi
intrinsechi della fattispecie negoziale, elementi che riguardino la struttura o il contenuto del
contratto, cioè vale a dire la mancanza di un elemento essenziale, la mancanza della forma ad sub
stantiam, mancanza dell’oggetto ecc. ma non si può riferire invece alla violazione di norme
imperative postulata in questa fattispecie, cioè i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle
trattava o durante l’esecuzione del contratto secondo questa sentenza della corte di cassazione
rimangono estranei alla fattispecie negoziale e si intende che la loro illegittimità indipendentemente
dalla natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto a meno che tale

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incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore, ed ecco il motivo per cui si parla di nullità
virtuale, (una nullità legata alla violazione delle norme imperative non ai vizi previsti dall’art, 1418
che comportano la nullità del contratto).

Quindi in sintesi la nullità virtuale è quella nullità di violazione delle norme impartire invece la
nullità ex art. 1418 è una nullità che si riferisce proprio alla fattispecie contrattuale specifica, per
mancanza di elementi essenziali, per illiceità della causa dell’oggetto o del motivo comune a
entrambe le parti, per cui in sostanza la cassazione afferma che non si tratta di una vera nullità ma si
tratta di una nullità virtuale, e per individuare questa nullità virtuale sarà necessario verificare gli
obblighi di comportamento prescritti in capo agli intermediari finanziari ai sensi degli articoli 1337
e 1338, ossia il comportarsi secondo buona fede nelle trattative, in sostanza questo richiamo in
chiave sistematica induce ad un collegamento con norme analoghe come l’art.1175 del c.c. e 1375
che fanno riferimento agli obblighi di correttezza che devono esistere nella fase delle trattative e
devono coesistere con gli obblighi di protezione nell’esecuzione del rapporto contrattuale, per cui
viene parificato il trattamento sanzionatorio in caso di inadempimento di questi obblighi stessi.
Altri autori sottolineando invece come il riferimento agli articoli 1337 e 1338 faccia nascere un
cosiddetto obbligo di protezione puro, ossia obbligo di protezione della controparte negoziale che
prescinde da una prestazione specifica ma va ad occupare una dimensione superiore, e la violazione
di questo obbligo incide del cosiddetto contatto sociale qualificato che si è istaurato tra le parti,
quindi con questa ultima teoria viene recuperata anche la teoria del contatto sociale qualificato, che
ricondurrebbe la responsabilità nei meandri della responsabilità contrattuale, la tesi secondo cui la
stipula del contratto rappresenti un momento ulteriore rispetto agli obblighi comportamentali pre-
negoziali è da ritenersi una teoria superata, la tutela del contraente quindi viene riportata soprattutto
in termini di invalidità e di inefficacia del contratto.
La teoria più accreditata è quella della responsabilità precontrattuale che si estende solo ai casi di
trattative che non hanno portato alla conclusione di un contratto oppure trattative che abbiano
portato alla stipula di contratti invalidi, ma anche questa teoria della responsabilità precontrattuale si
estende anche al caso di una comportamento che ha portato alla conclusione di un contratto valido
ed efficace ma pregiudizievole per la vittima del comportamento scorretto, come nell’ipotesi in cui
siano propagandati dei titoli che vadano molto bene in questo momento storico e poi si verifica un
crac, come è stato per i casi della Parmalat o della Cirio.
Parte della dottrina riprendendo la tripartizione che c’è tra norme relative alla validità dell’atto e
enorme relative al comportamento ritiene che in realtà esclusivamente le norme sul comportamento
possano dar vita al risarcimento del danno, quindi il contratto risulta pregiudizievole per la parte che
abbia subito dei comportamenti scorretti, e in questa ipotesi risulta difficile riconoscere alla vittima
solo il risarcimento del danno nella misura dell’interesse negativo ma è stato rivisitato il calcolo
dell’interesse negativo non escludendo la possibilità che il soggetto leso possa provare di aver
subito anche danni ulteriori, per cui dall’interesse negativo ci si può estendere anche al cosiddetto
interesse positivo, che sono quel lucro che la parte avrebbe potuto avere se non si fosse intrattenuto
in delle trattative falsate da un comportamento scorretto dell’intermediario finanziario.
In sostanza nell’interesse negativo abbiamo l’inutile conclusione del contratto, e invece
nell’interesse positivo vi è la perdita di chance.
Parte della dottrina ha ben interpretato, invece, un orientamento della cassazione che, in tema di
valutazione del danno della responsabilità precontrattuale, ha intravisto la fattispecie come
riconducibile all'ipotesi di dolo incidente, vale a dire un dolo che obbliga al risarcimento del danno
solamente per la parte che ha comportato una maggiore onerosità dell'investimento, quindi la ratio
sarebbe quella di discernere il maggior agrario economico che è stato determinato dal contegno
sleale di una delle parti, a seconda della circostanza. In tal modo si giunge alla determinazione del
quantum da risarcire.
Per concludere questo aspetto nell'ambito del diritto comparato si parla di responsabilità del
procuratore che viene ricostruito come una sorta di sollecito proprio perché ha spinto ad un
determinato investimento facendo perno sulla propensione del contraente ad investire,

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quest'orientamento è abbastanza lontano dalla nostra prospettiva in particolare si parla di contratti


con obblighi di protezione per terzi, nel senso che il beneficiario deve comunque tenere in
considerazione quelli che possono essere delle conseguenze negative e quindi è possibile in qualche
modo collegare al contratto di investimento delle polizze, c'è una certa distanza tra gli orientamenti
di civil Law e gli orientamenti di Common law , Tuttavia sembra acquisita la consapevolezza che
sarà necessario andare ad approfondire i comportamenti soggettivi delle parti perché solo con
un'analisi del contegno soggettivo si può giungere ad individuare il tipo di responsabilità.

25 ottobre (12) AGENZIE DI RATING


Il punto fondamentale dell’argomento riguarda l'andamento dei mercati finanziari internazionali.
Si sono verificate nel tempo delle esperienze di grandi crisi finanziaria, come ad esempio la crisi
dei subprime del 2008 in cui le banche avevano concesso mutui senza prendere garanzie e questo
aveva determinato un crack mondiale nel 2008, per cui questo problema finanziario evidenziò
l’esigenza di dare una regolamentazione nel mercato finanziario per la concessione dei prestiti e
delle condizioni per gli investimenti, perché c’è una stretta correlazione tra raccolta del risparmio e
investimenti finanziari, cioè la sinergia di questi provoca l’incontro tra domanda e offerta di
strumenti finanziari per gli investimenti e, quindi, a tal fine è importante l’azione di soggetti che
istituzionalmente danno delle informazioni agli investitori.
Tuttavia queste informazioni devono essere affidabili, devono essere coerenti con l’effettivo
andamento del mercato, perché laddove non ci sia una stretta coerenza tra le informazioni diffuse
nei mercati finanziari e gli investimenti conseguenti, si verificano dei fenomeni che traggono la loro
causa dalle cosiddette asimmetrie informative, cioè l’informazione sbagliata, inesatta o falsa
determina una distorsione dell’andamento dei mercato finanziari e, quindi, nasce il problema delle
agenzie di rating; il ruolo centrale viene svolto dal broker informativo.
Il rating rappresenta quell’elemento informativo in grado di influenzare in modo decisivo il
processo decisionale riguardo alle opportunità d’investimento.
Tuttavia il rating possiede, rispetto ad altri strumenti informativi che consentono di indirizzare le
scelte d’investimento, la peculiarità di consentire una valutazione consapevole da parte
dell’investitore senza dover ricorrere ad un eccesso di informazioni che confonde l’investitore,
perché, in effetti, la capacità di diagnosi non sempre è uguale, non sempre è adeguata.
Il rating evita al risparmiatore di andarsi a cercare informazioni sugli investimenti, perché
andandole a cercare ci sarebbe un eccesso di informazioni, per cui ha la capacità di filtrare le
informazioni cui si ha accesso; invece, se si fa riferimento ad un giudizio secco dell’agenzia di
rating bisogna dare un’affidabilità assoluta a questo giudizio perché altrimenti, se non è
scientificamente affidabile, è controproducente e nasce il problema. (es. quando noi cerchiamo
documenti per tesi e troviamo informazioni che ci confondono e che non sempre provengono da
fonti attendibili).
Bisogna però vedere come nasce il giudizio di rating e come le agenzie arrivano a questo giudizio
perché vi sono state delle fasi in cui l’agenzia esprimeva il rating su commissione delle società che
volevano attrarre degli investimenti finanziari e questo può significare che si tratti di un dato
inquinato, una parzialità di giudizio; altre volte il rating è stato commissionato dagli investitori e
allora lì ci sono maggiori garanzie, in particolare quando si parla di issuer pays, che è proprio la
metodologia nell’approvazione del rating che viene variato da un meccanismo in cui si vuole fare
leva sulla fiducia dei risparmiatori e, in questo caso, si introducono da parte del legislatore dei
meccanismi per assicurarsi l’imparzialità nel giudizio di rating.
Il legislatore naturalmente ha posto la propria attenzione proprio sulla tutela dell’investitore per
evitare dei danni che possano arrivare all’investitore da informazioni scorrette, false o incomplete.
Le agenzie nella loro prima fase di attività dicono di esprimere solo dei giudizi e delle opinioni sulla
portata dell’investimento e che i loro giudizi non sono vincolanti e, in tal modo, si esimano da
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qualsiasi tipo di responsabilità perché si tratta di giudizi personali e gli investitori devono
considerarli come opinioni.
Questo problema della responsabilità civile nelle agenzie di rating viene affrontato in primis negli
Stati Uniti e poi anche a livello europeo c’è l’emanazione del regolamento 1060/2009 in cui,
considerando il n°69, nel testo afferma che “fatta salva l’applicazione del diritto comunitario,
eventuali richieste di risarcimento nei confronti di agenzie di rating per violazione delle
disposizioni del regolamento dovrebbero essere proposte a norma della legislazione vigente in
materia di responsabilità civile a livello del singolo ordinamento nazionale”,
non vi è, quindi, una specifica disposizione nel regolamento comunitario per le agenzie di rating ma
un semplice rinvio alla regolamentazione degli stati membri.

Possiamo sicuramente affermare che a livello europeo il problema della responsabilità di rating non
si è posto nella sua portata e, quindi, è stata composta una modifica del regolamento 1060/2009,
laddove questa modifica prende atto che i rating delle materie relative al credito, anche se non
emessi a fini regolamentari, hanno un effetto significativo sulle decisioni d’investimento degli
investitori; questo giustifica la responsabilità sulle agenzie di rating quando il mancato rispetto delle
disposizioni regolamentari abbia dato origini a rating che non siano indipendenti, oggettivi e di
qualità adeguata.
La proposta di modifica riguarda il mancato rispetto della disciplina regolamentare che dia origine a
rating non indipendenti, non oggettivi e di scarsa qualità; per cui, laddove il rapporto tra le agenzie
e gli investitori non sia contrattualmente definito, è opportuno prevedere, a vantaggio degli
investitori, un adeguato diritto di ricorso, cioè un mezzo di tutela.
Questo quando gli investitori hanno fatto riferimento a dei rating ai fini delle loro scelte
d’investimento, in modo tale da consentire che sia risarcito ogni danno subito e ciò per il mezzo di
azioni di responsabilità civile, cioè laddove non ci sia un rapporto contrattuale tra investitore e
agenzia e ci sia la prova che l’investimento sia avvenuto sulla base di un rating rivelato inaffidabile,
allora sarà sempre necessario prevedere un diritto dell’investitore a fare ricorso per la
responsabilità civile per l’agenzia di rating, e significa che in questo caso questa è una disposizione
che dà adito ad una responsabilità extracontrattuale, perché il principio leso sarebbe quello della
fede pubblica; laddove, invece, ci sia un rapporto contrattuale non è necessario prevedere il rito di
ricorso perché c’è la responsabilità contrattuale. Quindi se c’è un contratto, la violazione si
risolve con la responsabilità contrattuale; se non c’è, ci si può avvalere del diritto di ricorso.
Questa situazione portava a considerare con particolare attenzione le azioni omesse dalle agenzie di
rating, la responsabilità dell’agenzia può essere fatta valere solamente di fronte a delle violazioni
commesse intenzionalmente o per negligenza grave, mentre per fornire agli investitori il diritto di
ricorso effettivo deve essere previsto l’intenzione dell’onere della prova, cioè una responsabilità
oggettiva delle agenzia di rating è l’onere della prova e cioè far si che si dimostri che le agenzie di
rating abbiano agito con trasparenza e in buona fede.
Con riferimento ai casi di responsabilità civile per attività che non rientrano nell’ambito del
regolamento 1060/2009 queste attività andranno regolate tramite il diritto nazionale applicabile.
Questa proposta di modifica ha portato alle nazioni un nuovo regolamento 462/2013 che ha
emendato, che ha modificato il regolamento 1060/2009 introducendo il nuovo titolo 3-bis, ossia
responsabilità civile delle agenzie di rating del credito che è interamente dedicato alla responsabilità
civile delle agenzie di rating, a differenza di quello 1060/2009 che faceva solo un rinvio alla
legislazione dei singoli paesi membri.
All’interno di questo nuovo corpo normativo, l’articolo 35-bis fa riferimento alle disposizioni
vincolanti in merito alla responsabilità civile.
La regolamentazione comunitaria rappresenta un ottimo punto di riferimento anche per gli stati
membri, tra cui l’Italia; infatti anche in Italia non vi è una specifica normativa che disciplini
l’attività delle agenzie di rating, sono presenti solamente degli interventi sporadici e frammentari e,
quindi, è necessario valutare se le esposizioni presenti nell’ordinamento italiano, a cui l’investitore

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potrà appellarsi, riconducano a quanto previsto dall’art.35-bis introdotto dal regolamento europeo
n°462/2013.

Questo articolo 35-bis è costruito in modo dettagliato e crea un giudizio e un regime di


responsabilità fondato non sulla verità o falsità del rating pregiudizievole ad un investitore o ad un
emittente ma sulla validità o invalidità e, pertanto, con riferimento ai processi con cui il rating è
stato elaborato dall’agenzia, cioè l’art.35-bis, inquadra meglio la portata del giudizio di rating, non
basandosi esclusivamente sul fatto che da quel giudizio sia derivato un danno o che il giudizio era
attendibile o prevedibile, ma l’art. 35-bis, basa il giudizio di responsabilità dando giudizio sul modo
in cui si è formato il rating.
Quindi, le agenzie nell’elaborare il rating hanno seguito una procedura. Se questa procedura è stata
seguita ed è la procedura canonica per l’elaborazione del rating, l’agenzia è esente da
responsabilità; se, invece, non ha seguito la procedura indipendentemente dal giudizio sfociato, è
diverso. Non ha importanza nell’art.35-bis il dato fuorviante del giudizio, cioè come l’ha percepito
l’investitore, ma diviene rilevante la procedura seguita dall’agenzia di rating per giungere
all’elaborazione del rating e in tal modo si verifica un’oggettivizzazione del giudizio di rating (cioè
l’agenzia ha seguito la procedura giusta per giungere all’elaborazione del rating, poi che quel
giudizio abbia determinato delle congetture nell’investitore è un problema ingestibile, non è un
problema che rientra in un ambito di responsabilità che può andare a ricadere nell’agenzia di rating,
perché c’è sempre la posizione dell’agenzia di rating che si giustifica con il concetto che quello che
fa nel lavoro è una libera manifestazione di pensiero e non una cosa da seguire obbligatoriamente).
Contro questa massima posizione di libertà espressa dalle agenzie c’è questo tentativo (nel
regolamento europeo art. 35 bis con la modifica) di arginare questa manifestazione del pensiero
relegandola in un ambito procedurale; cioè l’agenzia di rating quanta procedura ha seguito per
elaborare il giudizio di rating ed in questo caso l’investitore o l’emittente pregiudicato da un rating,
dovranno dimostrare che l’agenzia di rating non ha seguito quella procedura prevista dal
regolamento e che in particolare si trova nell’allegato III del regolamento; l’allegato individua
diverse tipologie di condotta che può avere l’agenzia. Queste consistono in sostanza in violazioni
di disposizioni in materia di prevenzione, di conflitti d’interesse (tra agenzia e società emittente
titoli), di adeguatezza dei requisiti organizzativi e operativi, di cooperazione con l’attività di
vigilanza e di informativa al pubblico.
Quindi questa è la prima prova che dovrà dare l’investitore “tradito”, cioè che l’agenzia di rating
nell’elaborazione del giudizio ha avuto un elemento di debolezza rappresentato dalla presenza
dell’elemento di una delle circostanze previste dall’allegato III.
Un altro elemento che dovrà provare l’investitore sarà quello che la violazione da parte dell’agenzia
sia stata commessa intenzionalmente o con colpa grave.
Il n°33 del 462/2013 spiega chiaramente la ratio seguita dal legislatore, dicendo che tale criterio di
colpevolezza è appropriato in quanto l’attività di emissione del rating di credito comporta una
valutazione di fattori economici complessi e l’applicazione di diverse metodologie può tradursi in
differenti risultati di rating senza che nessuno di essi possa considerarsi errato, inoltre l’art. 33 del
regolamento dice che le agenzie di rating di credito siano esposte ad una responsabilità
potenzialmente illimitata unicamente in caso di violazione intenzionale o per colpa grave del
regolamento 1060/2009.
In tal senso troviamo un parallelismo tra la responsabilità delle agenzie di rating e quella del
professionista ex art. 2236 c.c.
Ossia se la prestazione del professionista implica la soluzione di problemi tecnici di speciale
difficoltà, il professionista non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave. Questo è un
discorso che vale anche per le agenzie di rating, nel momento in cui emettono il credito, devono
fare una valutazione molto complessa che può coinvolgere degli elementi assolutamente non
oggettivamente predeterminabili e quindi la responsabilità illimitata, come per il professionista,
può essere stabilita solo per i casi di violazione intenzionale e colpa grave.

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Esempio: Nel giudizio di Standard & Poor’s che aveva per oggetto il crac della Parmalat si faceva
riferimento al latte delle mucche e cioè che per un certo periodo non è stato così come ci si
aspettava e, quindi, anche una considerazione che l’investitore non può mai considerare come la
bontà della materia prima, emergeva nel giudizio a danno delle agenzie di rating perché il rating
dava alla Parmalat all’epoca del crac, quindi tutti questi elementi facevano propendere il legislatore
proprio per una valutazione assolutamente insindacabile delle agenzie a meno che le agenzie non
ricorressero in un dolo intenzionale che veniva identificato con tutte le ipotesi previste dall’allegato
III (es. conflitto d’interesse; l’agenzia dava quelle valutazioni perché aveva interesse affinché
venissero acquistate quelle azioni in quel determinato gruppo e non perché magari l’andamento in
borsa di un determinato titolo fosse stato deviato da una circostanza oggettiva imprevedibile, come
il fatto che le mucche quell’anno non fecero una produzione sufficiente per cui si sono verificati dei
problemi di produttività e qualitativi del prodotto Parmalat); e allora col regolamento si cerca di
depurare il giudizio sull’agenzia di rating sulla responsabilità da qualsiasi circostanza imprevedibile
per ricondurre la responsabilità semplicemente all’ipotesi del dolo intenzionato o della colpa grave
e cioè con gli elementi che si trovano nell’allegato III.
Questa è un importante criterio che viene introdotto grazie all’art. 35-bis.

Chiaramente l’investitore per ottenere il risarcimento dovrà dar prova di aver risposto ragionevole
affidamento del rating relativo all’oggetto dell’investimento e, allora, bisogna andare ad indagare su
che cosa significa affidamento ragionevole che è previsto nell’art 5-bis del regolamento 1060/2009
che precisa quello che è il significato di affidamento ragionevole.
Per affidamento ragionevole si intende che l’istituzione finanziaria dovrà dar prova di aver
effettuato una propria valutazione del rischio di credito relativa all’oggetto del proprio investimento
o disinvestimento e di non essersi affidata esclusivamente o meccanicamente al rating relativo allo
stesso.
In ogni caso dovrà dimostrare di aver agito con la dovuta diligenza ossia secondo i comuni standard
operativi e professionali alla stessa riferibili.
Questo nel caso in cui l’investitore sia un’istituzione finanziaria
Invece, nel caso in cui l’investitore non sia un’istituzione finanziaria, lo stesso non deve provare di
aver effettuato un’autonoma valutazione del rischio di credito dell’oggetto del proprio investimento
o disinvestimento perché chiaramente si presume che un comune investitore non abbia la possibilità
in termini di conoscenze e risorse finanziarie per svolgere un’autonoma valutazione del rischio
d’investimento, per cui al semplice investitore che non sia un’istituzione finanziaria sarà richiesto
semplicemente di provare di aver agito con la dovuta diligenza.

Tuttavia, bisogna dire che il modello non è ancora completo, sicuramente si è andati ben oltre ed è
stata arginata quella libertà di espressione di pensiero dietro la quale si volevano lasciare le agenzie
di rating e si riesce ad individuare un criterio tecnico ed anche ad individuare quali devono essere le
prove che devono essere date per stringere tecnicamente la responsabilità delle agenzie di rating.
Quindi, viene assolutamente eliminata l’ipotesi di affiancare completamente le agenzie di rating
dalle conseguenze del giudizio tecnico che non sia valido. Sicuramente l’art. 35-bis ha costruito
un’importante impalcatura da questo punto di vista perché sia con l’allegato III sia con la
distinzione dal soggetto danneggiato si contribuisce a far ordine nella materia.
Vediamo invece la posizione dell’emittente di titoli, cioè dell’emittente che potrà dirsi danneggiato
da un giudizio di rating non adeguato.
L’emittente potrà chiedere il risarcimento qualora provi che esso stesso o gli strumenti finanziari
che sono stati oggetto di rating e le fattispecie previste dall’allegato III siano state violate, per cui il
giudizio dell’agenzia non è stato causato da informazioni inesatte o fuorvianti fornite dalla stessa
emittente, direttamente vedrà delle informazioni pubblicamente accessibili; cioè l’emittente potrà
chiedere il risarcimento del danno all’agenzia di rating quando riesca a dimostrare che il rating non
è dipeso dalla mediazione delle informazioni che la stessa emittente ha dato bensì da altre cause che

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non rientrano nel controllo dell’emittente.


L’onere della prova è ulteriormente aggravato perché secondo l’art 35-bis spetta all’ investitore o
all’ emittente fornire elementi precisi e dettagliati che indicano che l’agenzia di rating ha violato il
presente regolamento e che la violazione ha avuto un impatto sul rating emesso.
Ciò posto l’investitore e l’emittente dovranno anche provare il nesso di causalità esistente tra la
violazione da parte dell’agenzia di rating e il rating che è stato emesso dall’agenzia.
(Ricapitolando: la società emittente o l’investitore dovranno provare che l’agenzia ha commesso
una violazione dell’ allegato III del regolamento 1060/2009; dovranno provare che la violazione sia
avvenuta per dolo o colpa grave e che questa violazione abbia avuto un’incidenza sul rating emesso
e tutto ciò dovrà essere provato facendo riferimento ad elementi informativi precisi e dettagliati).
Così facendo il legislatore ha voluto contrastare un fenomeno che è stato definito “over reliance”
che significa “sopra affidamento” del giudizio di rating prodotti dalle agenzie.
Tuttavia, la situazione diventa complessa per l’investitore o l’emittente che deve dare l’onere della
prova e di questo si è reso conto il legislatore che ha prodotto un’ulteriore modifica; cioè al secondo
comma dell’art 35-bis, l’organo giurisdizionale nazionale competente stabilisce cosa debba
intendersi per elementi formativi precisi e dettagliati tenendo in considerazione che l’investitore o
l’emittente potrebbe non aver accesso a informazioni che rientrano puramente nella sfera
dell’agenzia di rating e questa previsione consente al giudicante un elemento di grande
discrezionalità perché non c’è più un’oggettività nell’individuazione degli elementi dettagliati ma
vengono rimessi alla valutazione del giudice.

26 ottobre (13)

Grazie al riferimento del regime di responsabilità abbiamo poi inquadrato il problema relativo alla
responsabilità civile delle agenzie di rating, E abbiamo visto come in realtà la situazione nei paesi
europei sia molto più avanzata rispetto ad altri Stati, come per esempio gli Stati Uniti in particolare
abbiamo esaminato come l'emanazione nel nuovo regolamento comunitario che è intervenuto ad
integrare il regolamento 1060 del 2009 con il regolamento 462/2013 con l’emanazione dell’articolo
35 bis ja arginato notevolmente le fattispecie che possono determinare senza discrezionalità un
danno risarcibile.
Tuttavia, si parla sempre di fattispecie di risarcimento del danno che si originano nell’ambito del
rapporto tra emittenti e investitori, quindi siamo nell’ambito pubblicistico perché stiamo parlando di
un mercato fatto da grandi investitori istituzionali e banche emittenti.
In questo caso con l’art. 35 bis abbiamo visto l’ipotesi in cui ci sia dolo o colpa grave e che
ricorrano con tutte le fattispecie di cui al regolamento allora in quel caso si ha senza dubbio la
responsabilità dell’agenzia di rating che è riconducibile ad una fattispecie di tipo extracontrattuale,
quindi ad una responsabilità extracontrattuale, sia perché non vi è un contratto tra le parti sia perché
in sostanza si tratta di una fattispecie rientrante nella colpa grave e nel conflitto di interessi, e quindi
in una situazione che rappresenta una relazione di regole generali di ordine pubblico, quindi siamo
nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.
Tuttavia, bisogna dire che si tratta di un’azione di responsabilità europea, perché siamo nell’ambito
di un regolamento europeo e che non esclude ai sensi de 5 comma dell’art. 35 bis che ulteriori
azioni risarcitorie vengano proposte in conformità dell’ordinamento nazionale, per cui la questione
del danno nelle agenzie di rating rimane ancora aperta perché vediamo che questo regolamento
europeo che è sicuramente applicabile, nell’ipotesi in cui si versi in contesti di carattere europeo.
La situazione è più complessa se si considera che il problema della portata del rating non è un
problema arginabile ad un mercato limitato che può essere solo quello italiano, quello inglese,
quello francese ecc. ma si tratta di mercati globali quindi l’influenza delle agenzie di rating che sono
poche e ben conosciute (es: Standard & Poor’s, Moody’s Investor Service e Fitch Ratings).
Il problema è un problema che non si può fermare ad un ambito esclusivamente europeo e per di più
limitarsi esclusivamente alle fattispecie ex articolo 35 bis del regolamento 462/2013, perché ci sono
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tutte le ipotesi di danno che non dipendono dalle fattispecie previste nell'allegato, allora bisogna
andare a vedere anche in quelle ipotesi quale sia il problema per l'investitore danneggiante.
L'investitore per avere un risarcimento dovrà dare la prova che l'agenzia ha propagandato delle
informazioni scorrette e che quindi non abbia rispettato i criteri necessari ed esigibili affinché si
potesse verificare l'affidabilità in concreto dei titoli che sono stati oggetto dell’investimento.
Quindi è necessario andare a fondo non solo alle agenzie di rating, alla loro attività che è un'attività
esercitabile liberamente che in realtà non sussiste una normativa che sia nazionale o comunitaria che
imponga alle agenzie di rating una determinata veste giuridica, quindi non ci sono dei requisiti
normativi precisi, quindi nel definire le società la normativa italiana fa riferimento sempre ad una
persona giuridica quindi possiamo sicuramente dire che l'agenzia di rating deve rivestire la forma di
una persona giuridica in quanto deve avere un carattere transnazionale, proprio perché i principali
operatori che si sono posti sul mercato avevano sempre la veste di persona giuridica, Del resto
anche la Banca d'Italia nel momento in cui si trova di fronte a dover attribuire alle agenzie la
cosiddetta qualifica di agenzie esterne di valutazione per merito di credito, cosiddette ECAI.
Questa attribuzione avviene soltanto nei confronti delle società di rating da persone giuridiche,
quindi la qualifica di persona giuridica ECAI È ammessa per utilizzare il giudizio emesso dalle
agenzie per l'utilizzo da parte delle banche, e le banche determinano i coefficienti di ponderazione
volti al calcolo del requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito, da questo punto di vista il
riferimento è dato dalla circolare della Banca d'Italia numero 263 del dicembre del 2006, che
recepisce le due direttive comunitarie del 2006 la numero 48 e 49 che prevedono per le banche la
possibilità di determinare i coefficienti di ponderazione per il calcolo del requisito patrimoniale, E
ciò avviene proprio sulla base di giudizi espressi dalle ECAI che sono appunto queste agenzie
esterne di valutazione del merito creditizio riconosciute dalla Banca d’Italia.
Il regolamento della Consob prevede che gli operatori che si interessano della valutazione del
rischio di credito debbano essere costituiti non solo nella forma della persona giuridica ma anche
come soggetto societario, quindi in forma societaria per cui il regolamento 1060 del 2009 qualifica
l'agenzia di rating in termini di persona giuridica la cui attività include l'emissione di rating del
credito a livello professionale, e aldilà del semplice requisito di persona giuridica nell'allegato 1 del
regolamento vi sono i requisiti richiesti per le agenzie di rating che sono: persona giuridica, forma
societaria, ma anche che abbia un consiglio di amministrazione e di sorveglianza che almeno un
terzo E non meno di due dei membri del consiglio di amministrazione siano membri indipendenti
ossia che non partecipino all'attività di rating, che la persona giuridica adotti dei meccanismi per
identificare, eliminare o gestire e rendere pubblici I conflitti di interesse, e che la persona giuridica
nel proprio ambito istituisca degli organismi che siano finalizzati a svolgere la funzione di controllo
della conformità, la cosiddetta compliance function, cioè all'interno della persona giuridica vi siano
degli organismi che svolgano una funzione di controllo della conformità delle operazioni poste in
essere nella moderazione del merito creditizio E che quest'organo operi permanentemente in modo
efficace e indipendente.
Al fine di poter esercitare le loro attività le agenzie di rating devono essere registrate dall’ESMA,
che è il cosiddetto european securities and markets authority, ossia l'autorità europea dei mercati e
degli strumenti finanziari, e che quindi rientri nell'elenco ufficiale delle ECAI che sarebbero le
External Credit Assessment Institution, questa autorizzazione viene concessa verificando tutti i
requisiti previsti dal regolamento 1060 del 2009.
Informazioni specifiche e quindi vengono chieste ed acquisite in modo tale che vi sia garanzia circa
l'indipendenza e l'assenza di conflitti di interesse nell'ambito delle agenzie di rating.

I tipi di giudizi che mette l'agenzia di rating.


Questa valutazione viene data sulla base di valori alfanumerici e di tipo quantitativo e qualitativo, in
particolare abbiamo il cosiddetto giudizio di rating, che significa valutare e giudicare e il rait è un
tasso, È un giudizio che tiene in considerazione sia variabili che possono essere computate negli
aspetti quantitativi E sia variabili che possono essere computate negli aspetti qualitativi, come per
esempio il management, il settore di appartenenza della società, i rapporti con i competitors, E

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questa valutazione avviene non singolarmente rispetto ad un determinato soggetto da valutare ma


avviene in modo coordinato, quindi effettuando una comparazione per cui nel momento in cui si dà
una valutazione questa è sempre comparativa rispetto ad altri, e non è assoluta.
Accanto al concetto di rating c'è il concetto di Scoring, lo Score è un punteggio che viene dato
attraverso dei metodi e dei modelli matematico statistici che invece tengono in considerazione
aspetti esclusivamente quantitativi, al termine di tutte le analisi quantitative e qualitative le agenzie
di rating giungeranno ad un giudizio sintetico che deve essere assolutamente comprensibile a tutti
gli investitori infatti, le più note agenzie di rating che sono Standard & Poor’s, e Fitch Ratings
emettono la propria valutazione attraverso una scala di valori che vanno dalla scala più sicura, che
sono le tre A maiuscole (AAA), che consistono in un basso rischio di credito, fino almeno affidabile
chi è la D, che sono i titoli spazzatura ovvero ad alto rischio di fallimento. Una volta definita questa
scala di valori è possibile sapere quale titolo sia più sicuro degli altri.
Le ultime frontiere degli investimenti azionari tengono presente anche le politiche ambientali portati
avanti dalle società emittenti, e quindi anche alla luce di questo valore viene emesso il rating;
quindi, i giudizi espressi dalle agenzie sono sintetizzati in due macro-classi che sono:
Gli investment grade, cioè titoli di qualità superiore alla soglia DDD e Baa3, (DDD le adotta
Standard & Poor’s, e Fitch Ratings e Baa3 le adotta Moody’s Investor Service) quindi le 3 A
maiuscole (AAA), una maiuscola e due minuscole (Aaa) indicano gli investimenti migliori ,
cosiddetti eccellenti, l’emittente presenta una buona qualità in liquidità dell’attivo, un’ampia
diversificazione, una dimensione consolidata , il posizionamento di mercato è eccellente, e ha un
elevata capacità di copertura del debito quindi pagamento di capitale e di interessi. Poi abbiamo la
doppia a (Aa) che indicano sempre investimenti di qualità molto alta, poi abbiamo la sola a (a,a,a)
che indica un’obbligazione di qualità alta, quindi una soddisfacente qualità e liquidità dell’attivo, e
poi abbiamo la tripla B (BBB) che indica una buona qualità e le qualità e liquidità sono accettabili,
non sono senza rischio ma implicano un considerevole gradi di rischio, e una capacità di copertura
del debito bassa, poi sono definite speculative grade , o GIANC (?) I titoli che si vanno a
collocare al di sotto della soglia BBB, oppure le BBB per Standard & Poor’s, e Fitch Ratings e Baa3
per Moody’s Investor Service che vengono considerati di qualità inferiore e assolutamente rischiosi,
dal punto di vista del merito creditizio e sono investimenti speculativi, cioè che magari si è a
conoscenza di qualche particolare sconosciuto al mercato e quindi si vanno a fare delle speculazioni
che possono comportare dei margini di guadagno notevoli di istituti di partenza (?) E così anche
BBBA e BB indicano le obbligazioni speculative quindi elevato margine di rischio e limitata
capacità di copertura del debito, poi abbiamo quella a una B che sono altamente speculative, e il
credito è in osservazione, poi abbiamo CCC come anche CCCA ecc. che sonore obbligazioni ad
elevato rischio default, cioè un attivo accettabile ma contemporanee difficoltà di liquidità,
significative difficoltà nella gestione del debito, e incertezza circa la possibilità di copertura, quindi
c’è un’elevata possibilità di default.
Quindi possiamo dire che queste valutazioni, le 3 A sono degli investimenti che non danno
apparentemente rischi, mentre le altre sono rischiose.
Le agenzie hanno piena libertà nell’attribuzione sia nella definizione delle proprie metodologie di
Rating sia nell’attribuzione del Rating, tuttavia come dice il regolamento 1060 del 2009 in
particolare l’art. 8 prevede che debbano essere note le metodologie attraverso le quali le agenzie
hanno determinato il Rating. In particolare, due sono le tipologie prevalenti di Rating, i cosiddetti
short term rating e long term rating, cioè a breve termine e lungo termine, in realtà l’uso di queste
scale di Rating è strettamente connessa al rischio associato all’investimento; infatti, è chiaro che gli
investimenti a lungo termine hanno dei rischi maggiori, a differenza degli investimenti a breve
termine che invece hanno un periodo di rischio più limitato.
Le agenzie di Rating effettueranno un monitoraggio continuo del titolo, per cui può accadere che in
sostanza che i Rating ammessi invengano revisionati dalle agenzie che quindi possono pubblicare
delle indicazioni in aumento in diminuzione relativamente ad un determinato tritolò, per esempio si
parla di upgrading o downgrading a seconda se il Rating sia in salita o in diminuzione, invece ci si
riferisce al cosiddetto credit Watch quando nel termine breve che non può superare i 90 giorni

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l’agenzia mette il Rating sotto osservazione, in tal caso il giudizio di Rating dell’agenzia non viene
considerato definitivo ma può portare ad una variazione, in relazione alle condizioni dell’emittente
oppure per il settore di appartenenza, oppure per particolari circostanze che si verificano nel
mercato che sono imprevedibili, per esempio il cosiddetto scandalo finanziario, che è un elemento
che incide in maniera assolutamente determinate nel senso del declassamento del titolo che può
addirittura giungere fino alla dichiarazione di fallimento delle agenzie emittenti interessate.
In tutto questo contesto il fattore fondamentale è il bene informazione, quindi tutte le informazioni
che vengono scambiate sul mercato, possiamo dire sicuramente che il Rating aiuta gli investitori a
monitorare il valore del proprio investimento nel tempo perché effettua una considerazione
comparativa di mercato anche in riferimento ad altri Rating, è possibile ancora con il Rating
risolvere dei problemi tradizionali che si hanno con le agenzie, gli investitori possono per esempio
fissare un tetto minimo o massimo di rischio individuando un Rating al di là del quale non vogliono
andare. Ci sono poi delle particolari agenzie di credito le CRA che hanno il compito di ridurre le
asimmetrie informative che possono esistere tra imprese alla ricerca di finanziamenti e investitori in
particolare queste agenzie forniscono informazioni che consentono anche a piccoli investitori di
entrare nel mercato, in modo da fornire delle sostanze. Quindi vediamo come in realtà questi Rating
non siano semplicemente dei giudizi ma sono proprio degli eletti che vanno a costituire, a
conformare il mercato; quindi, è facile sono delle libere espressioni di opinioni ma non è
assolutamente cosi perché c’è tutta una strutturazione che in realtà va a conformare il mercato in un
certo modo.

Adesso evidenziamo come i problemi si verifichino a livello dei mercati finanziari per la differenza
della regolamentazione, perché abbiamo il mercato statunitense poco regolamentato e il mercato
europeo che invece che diviene sempre più stringente nella regolamentazione e questo non è il
fattore di omogeneità dei mercarti e può determinare sicuramente delle discrasie, specie con
rifermentò al Problema dei conflitto di interessi, cioè il problema più grosso delle agenzie di Rating
è proprio rappresentato dalla circonda che sono le stesse agenzie emittenti che si forniscono il
Rating e questo è vero soprattutto nel mercato degli stati uniti, laddove invece nel mercato europeo
si sta cercando di arginare questo fenomeno.
Nel mercato statunitense invece questo movimento legislativo che in qualche modo va ad arginare il
problema del conflitto di interessi non è ancora affiorato a livello di legislazione, tant’è che è
assolutamente costante questa situazione.
Alla regolamentazione degli stati uniti corrisponde una regolamentazione sempre più stringente
dell’Europa ma anche dell’Italia.
Proprio in corrispondenza della crisi mondiale del 2008 si aveva l’emanazione del regolamento
1060 del 2009 e pochi anni prima si parlava dell’accordo BASILEA, che voleva arginare gli abusi
di mercato e le direttive di esecuzioni, possiamo dire che nella comunicazione del 2006 si afferma
un divieto assoluto di diffusione di informazioni false e forvianti come frutto di manipolazioni di
mercato, e questo divieto viene applicato alle agenzie di Rating.
La direttiva del 2009, 1060 pone importanti divieti contenutistici dell’attività, il divieto, ad ogni
persona che disponga di informazioni privilegiate, di utilizzare tali informazioni al fine di acquisire
o cedere gli strumenti finanziari ai quali queste informazioni si riferiscono e in particolare ci
riferiamo alla direttiva 2003/6 che fa riferimento a un informazione precisa che non sia stata resa
pubblica con mezzi ordinari ma che sia in possesso di persone che vogliono alterare le informazioni
da diffondere sul mercato. In questa prospettiva l’articolo 6 del paragrafo 3 terzo comma della
direttiva 2003/6 prevede che gli emittenti o le persone ad essi collegati da un Rapporto di mandato,
istituiscano un registro delle persone che, in virtù di un contratto di lavoro o altro, hanno accesso a
informazioni privilegiate.
Ed ancora un altro degli atti normativi influenti sulla regolamentazione del mercato è la direttiva
2004/39 del 21 aprile 2004 che prevede che vi siano dei requisiti patrimoniali precisi, ed introduce
la vigilanza bancaria su questi requisiti patrimoniali; quindi, la Banca d’Italia dovrà vigilare
sull’adeguatezza patrimoniale degli enti creditizi e delle imprese.

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In fine la direttiva MiFID interviene proprio dopo lo scoppio di grande crisi finanziaria mondiale e
intende tutelare gli interessi dei destinatari dei servizi di investimento cercando di imporre un grado
di separazione assoluto tra i servizi di investimento e i processi di Rating.
Per quanto riguarda il CODICE DI CONDOTTA IOSCO (International Organization of Securities
Commissions) che viene modificato nel 2008e raccoglie una serie di descrizioni che le agenzie di
Rating devono incorporare per migliorare la protezione degli investitori e l’efficienza dei mercati.
Il primo intervento serio sulle agenzie di Rating è quello del 2009 con il regolamento 1060,
modificato dal regolamento 513 del 2011 e 462 del 2013, in cui il legislatore europeo articola 41
disposizioni proprio per disciplinare la vigilanza sulle agenzie di Rating del credito attribuendo ad
un organo IL Committee of European Securities Regulators cosiddetto CESR, il compito di vigilare
sulla cooperazione tra singoli Stati e disposizioni finalizzate all’unificazione dei mercati europei.
Quindi il primo passo di cui si vuole dotare l’Europa è proprio quello di una disciplina uniforme per
la regolamentazione delle agenzie di Rating.
Il regolamento del parlamento europeo n 513 del 2011 vuole superare tutti i problemi posti dalla
regolamentazione precedente introducendo questo sistema di vigilanza basata su attrita competenti;
quindi, dei singoli stati membri devono essere delle autorità competenti a vigilare sul mercato e
sulle agenzie di Rating, in particolare il problema che si pone è quello della correttezza dei giudizi.
Volendo risalire al problema della responsabilità di queste agenzie, posta questa regolamentazione,
vediamo come può essere considerata superata la linea che deresponsabilizzava completamente le
agenzie di Rating perché in ogni caso , sia a livello italiano che a livello europeo , può dirsi superata
la fase in cui l’operato delle agenzie di Rating veniva salvaguardato facendo ricorso all’art. 21 della
costituzione, ossia ‘tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto o ogni altro messo di diffusione e la stampa non può essere soggetta ad autorizzazione o
censure’ in applicazione di questo principio è stato risolto uno dei primi problemi che si pose a
livello giurisprudenziale prima negli stati uniti e poi nel nostro paese, il tribunale di Roma con
sentenza del 2012 n 835 ha esteso anche al nostro ordinamento il principio suddetto, cioè della
libera manifestazione del pensiero, poiché i Rating sono mere opinioni aventi ad oggetto
accadimenti futuri non verificabili.
Escludendo quindi, il tribunale di Roma, ogni forma di risarcimento e ristoro del danno subito
dall’investitore che confidando della serietà del giudizio di Rating poi rivelatosi errato abbia
compiuto o omesso di effettuare delle scelte di investimento o di disinvestimento. Il caso esaminato
dal tribunale di Roma riguardava un investitore italiano, i titoli della banca d’affari statunitense
Lehman Brothers, e le obbligazioni relative erano state inserite in un guida pratica predisposta e
pubblicata da una serie di banche, riunite in consorzio, alle quali aderiva anche la banca che aveva
promesso l’investimento. In effetti la banca aveva collocato i titoli dell’investitore nell’elenco delle
obbligazioni a basso rischi e quindi anche a basso rendimento.
Il motivo per cui queste obbligazioni avevano ricevuto questa valutazione era rappresentato dal fatto
che le principali agenzie avevano assegnato dei Rating molto alti, superiori alla soglia del cosiddetto
investment grade.
Solo un giorno prima del 15 settembre 2008, data in cui fu annunciato l’avvio della procedura di
fallimento di Lehman Brothers, il giudizio di Rating precedentemente assegnato venne bruscamente
revisionato dalle agenzie e portato a CCC, giudizio che significava proprio il fallimento della banca.
Cosi l’investitore ritenendo che appunto l’errato giudizio di rating avesse indotto in errore i
risparmiatori , aveva citato in giudizio l’agenzia, e in quella occasione, per la prima volta, il
tribunale di Roma (17 gennaio 2012 con la sentenza n 835) stabilì che le agenzie di rating non
formulano raccomandazioni ad acquistare, detenere o vendere determinati titoli ma emettono
semplici pareri sulla capacità di credito di un particolare emittente o di un particolare strumento
finanzio ad una certa data.
Per tanto qualsiasi valutazione dell’agenzia di rating, sebbene sbagliata, come nella fattispecie in cui
il titolo il giorno prima del fallimento era stato classificato come sicuro , non può dare adito al
risarcimento in quanto mera OPINIONE, come tale non passibile di essere classificata errata sulla
base di dati oggettivi.

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Questa sentenza veniva a collocarsi immediatamente dopo la proposta di un regolato europeo che
contemplava una specifica azione di responsabilità per danno per le agenzie di rating.
Interviene rispetto a questa posizione del tribunale di Roma il parlamento europeo che chiarisce che
l’operato delle agenzie di rating non può essere assolutamente paragonato ad una attività
giornalistica, in quanto i Rating diventano parte di regolamentazione dei mercati finanziari anche
contro l’opinione delle agenzie di stampa.
La libertà di stampa quindi implica il diritto da parte del pubblico di ignorare i pareri espressi nella
stampa senza subire delle conseguenze legali, e questo non è il caso analizzato dal tribunale di
Roma proprio perché dai pareri delle agenzie di rating e dalle informazioni privilegiate che sono
state apprese dalle agenzie si genera un danno che non può passere inosservato, secondo appunto il
parlamento europeo, e questo è il motivo per cui viene introdotto l’articolo 35 BIS nel
regolamento del 2013 che introduce questa fattispecie stringente di responsabilità delle agenzie di
rating, in particolare nel nostro ordinamento viene richiamata addirittura la responsabilità
contrattuale delle agenzie di rating ai sensi dell’art. 1453 del c.c. che dice “nei contratti con
prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può
chiedere l’adempimento e la risoluzione del contratto e anche il risarcimento del danno” quindi si
giunge sino ad ipotizzare un risarcimento del danno contrattuale.
Il Rating porta, in sostanza, a configurare il cosiddetto danno da informazione economica inesatta,
questo illecito che va sempre più strutturandosi è articolato a sua volta in tre fattispecie: la
diffusione o la rivelazione di notizie riservate, l’omissione di informazioni doverose, e le
comunicazioni di informazioni inesatte.
Queste fattispecie rappresentano il cosiddetto ILLECITO DA INFORMAZIONI INESATTE.
I presupposti di questo illecito sono:
- le informazioni inesatte di natura economica
- Il rapporto tra il danneggiato e l’informatore che non trova la propria base inuma contratto tra
questi due soggetti
- Un danno qualificato come meramente patrimoniale, non incidente cioè su un bene
giuridicamente tutelato, quale potrebbe essere un oggetto di proprietà o di auto diritto.
In presenza di questi tre elementi si possono configurare due schemi generali di responsabilità:
Il primo riconducibile e tutti i casi in cui l’attore lamenta di aver subito un danno per effetti di atti
economici pregiudizievoli che ha compiuto facendo affidamento sull’informazione inesatta del
terzo.
Il secondo schema generale è quello nei casi in cui l’attore diffonda notizie sul suo conto e quindi ne
consegue un danno.
Nella prima categoria rientreranno tutti i casi in cui l’investitore subisce un danno per aver compiuto
delle scelte di investimento facendo leva su informazioni errate, diffuse dall’agenzia di rating.
Invece nel secondo schema generale rientrano i casi in cui l’emittente subisce un danno per effetto
del rating negativo erroneamente attribuitogli dall’agenzia di Rating, e quindi in tal caso
sull’agenzia graverà l’onere di dar prova di aver correttamente svolto la propria attività, e questa
attività non sia stata svolta al meglio per cause nono imputabile all’agenzia.
Questa è l’unica possibilità di evitare i rischi di risarcimento del danno.

2 novembre (14)
Vediamo gli aspetti giurisprudenziali e dottrinali nel nostro ordinamento e nell’ordinamento
statunitense.
Negli Stati Uniti è stato molto difficile rompere il fronte che voleva deresponsabilizzare le agenzie
di rating, in particolare il riferimento era sempre quello del diritto all’informazione e della libera
espressione di giudizio giornalistico, per cui si cercava di trincerare queste agenzie che erano
assolutamente tutelate dietro questa disposizione costituzionale, il cosiddetto primo emendamento
e solamente più recentemente la giurisprudenza statunitense ha voluto rimeditare l’orientamento

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tradizionale manifestando assoluto scetticismo nei confronti dell’immunità che veniva riconosciuta
alle agenzia di rating ogni qualvolta queste si trovavano sottoposte ad un giudizio, non solo, le
agenzie venivano sempre esentate da ogni responsabilità ma addirittura c’era una spinta del
legislatore statunitense a stabilire queste esenzione di responsabilità; solamente col il “DODD
FRANK ACT” del 2010 c’è stata l’eliminazione dell’esenzione originariamente prevista per le
agenzie di rating del Credit rating agency (CRA), che, in effetti, la fattispecie che veniva indicata
come fonte di responsabilità era una fattispecie di responsabilità da false informazioni contenute nei
documenti di registrazione con riferimento alle operazioni di sollecitazione al pubblico risparmio
sul mercato primario, quindi siamo con il DODD FRANK ACT nel 2010, però il precedente atto
che negli stati uniti legittimava quest’esenzione era il “security act” nel 1933 che faceva
riferimento a queste operazioni di sollecitazione ad un pubblico risparmio, in questo modo venne
eliminata questa visione di esenzione e in particolare venne riconosciuto il ruolo fondamentale delle
CRA in quanto attori fondamentali del mercato che determinano i cosiddetti analisti della sicurezza
dei mercati, valutano la qualità del mercato azionario, quindi, viene individuato intorno alle agenzie
un ruolo fondamentale nel mercato del debito, proprio come i cosiddetti analisti della sicurezza
contabile che valutano la qualità dei titoli nel mercato azionario e nei soli tre punti che rivedono il
bilancio delle imprese, quindi professionalmente vengono assimilati a questi soggetti e non a dei
giornalisti come era fatto nell’epoca successiva al 1933 e precedente al 2010 con il DODD FRANK
ACT che, quindi, elimina l’esenzione e introduce la responsabilità da false informazioni contenuti
nella registrazione di operazione che raccolgono il pubblico risparmio sul mercato primario.
Da quel momento la giurisprudenza statunitense si arricchisce di tutta una serie di azioni volte
proprio a condannare le agenzie di rating non solo con riferimento alla promozione delle azioni da
parte della società valutata, ma anche da parte della società emittente i cui titoli fossero state oggetto
di valutazione da parte delle agenzie di rating, laddove questo rating veniva sollecitato attraverso il
conferimento di un incarico a questi soggetti particolari, per cui viene introdotta anche la
distinzione se l’azione della responsabilità viene promossa dal singolo investitore per un contratto
concluso con l’agenzia di rating oppure da un gruppo di investitori che sono un gruppo limitato di
soggetti oppure da un pubblico degli investitori che vengono a conoscenza di un giudizio di rating
tramite strumento di informazione.
Rispetto alle ipotesi di rating che falsa l’andamento dei mercati rispetto a questa fattispecie di
responsabilità generale, nella valutazione della responsabilità assume carattere trasversale
l’elemento soggettivo che accompagna la condotta delle agenzie di rating e significa che l’elemento
soggettivo è la rilevanza del dolo o della colpa delle agenzie che erano elementi traversali cioè
presenti in tutte le fattispecie e non elemento determinante com’è avvenuto in Europa. Non si parla
di scelta della fattispecie della responsabilità ma si individua il dolo e la colpa, invece negli USA si
fa un percorso opposto, vi possono essere diverse forme di responsabilità e traversale è sempre la
valutazione del convegno soggettivo che deve essere un convegno colposo o negligente che vuole
stigmatizzare un comportamento fraudolento messo in atto dalla società emittente i titoli, rispetto
alla molteplicità di sentenze che furono emanate negli Stati Uniti; è possibile raggruppare queste
decisioni, il primo gruppo di decisioni che attiene ad un al danno da voto di rating che sia stato
comunicato al singolo investitore in esecuzione di un contratto di fornitura di servizi che viene
stipulato ad hoc dall’agenzia, quindi in queste fattispecie abbiamo il rapporto solamente tra il
singolo contratto di fornitura del servizio che viene stipulato dall’agenzia, poi c’è il secondo
gruppo di decisioni che riguarda il voto di rating diffuso al pubblico in cui sarà possibile elencare
una serie di decisioni che si contraddistinguono per la responsabilità colposa delle agenzie e poi
abbiamo altre decisioni che sono caratterizzate dalla consapevole diffusioni di luoghi false e altre
che sono contraddistinte dall’intento fraudolento delle agenzie, finalizzato ad ottenere un
determinato effetto la diffusione di notizie false può essere determinato dal voler quotare una
società che vuole ottenere un mutuo quindi non si ripercuote sul mercato questo rating espresso; pur
essendo molto varie le decisioni statunitense, il minimo comun denominatore era rappresentato dal
fatto che veniva negato dalle corti statunitensi il diritto dal risarcimento del danno all’investitore in
quanto l’investitore non era stato sufficientemente diligente nell’informarsi autonomamente e,

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quindi, le agenzie di rating continuavano ad operare senza particolari freni.


Ci fu un caso nel 1921 in cui per la prima volta veniva invocato, a tutela della diffusione sul
mercato dell’informazione di natura economica, il ticket service, ossia un servizio diverso ma
simile a quello fornito dalle agenzie consistenti nella diffusioni di informazioni in tempo reale,
quindi era un altro servizio simile a quello delle agenzie di rating che fu sottoposto all’analisi delle
corti statunitensi, quindi non si riusciva ancora nella giurisprudenza statunitense ad andare al di là
della libertà di espressione quindi pur volendo sanzionare le agenzie non vi era una condanna, se
non altro queste affermazioni delle agenzie sconfinassero nel reato di diffamazione, cioè nella
misura in cui esprimevano dei giudizi di rating talmente vasti che diventata diffamante per una
società emittente ottenere questo tipo di giudizio quindi solamente condanna nell’ipotesi di
affermazione di agenzia che fossero di per sé diffamanti, questa situazione riguardò le principali
agenzie di rating che tutt’oggi operano vale a dire standard tours e non c’è una posizione diversa da
queste, cioè solamente la diffamazione, la cattiveria veniva sanzionata.
Nel 2006 si incominciavano a fare delle ipotesi normative per cercare, a livello europeo, perché in
America continua ad esserci una situazione labile relativamente all’offensiva delle agenzie di rating,
e si cerca di disciplinare il fenomeno attraverso l’imposizione di regole di trasparenza che
consentano di valorizzare il capitale relazionale delle CRA, la fissazione di specifiche regole di
responsabilità civile, l’introduzione del controllo pubblicistico come l’autorità europea degli
strumenti finanziari e dei mercati (AESFEM) che viene istituita col regolamento europeo n°
513/2011 che modifica il 1060/2009, il merito di stringere un po’ l’ampio raggio d’azione delle
agenzie di rating è proprio dell’UE con l’ordinamento 513/2011 che introducono delle norme
particolarmente stringenti, in particolare l’introduzione di una certificazione delle agenzie di rating
che viene auspicata a livello europeo come deterrenti rispetto ad una regolamentazione
pubblicistica, in Europa si preferisce dare delle certificazioni attraverso il regolamento 513/2011
all’agenzia di rating piuttosto che centralizzare il controllo in un autority, questo regolamento
introduce questi oneri di certificazione.
Volendo individuare i presupposti giuridici che consentono di ritenere responsabili i cosiddetti
rating dannosi.
L’atteggiamento che accompagnò l’introduzione del primo regolamento 1060/2009 fu
accompagnato da molte critiche da parte della dottrina in quanto il legislatore europeo doveva
arginare le agenzie di rating e fissare una responsabilità civile a proprio carico, in senso contrario
veniva evidenziato come le agenzie di rating non potessero avere gli strumenti per prevedere le crisi
di mercato.
Possiamo dire quindi che veniva richiamata la responsabilità degli investitori che dovevano essere
più cauti nelle proprie scelte di investimento senza farsi influenzare dai rating. La giurisprudenza
recentemente ha affrontato il problema perché non sono tantissime le sentenze del periodo
precedente agli anni 2000 nella giurisprudenza italiana: i giudizi di rating sono considerati come
dati di fatto e non degli elementi giuridici. Viene distinta l’informazione attiva, quella che gli
intermediari devono fornire ai propri clienti, dall’informazione passiva che i medesimi soggetti
devono assumere dagli investitori nel senso di avere consapevolezza delle conoscenze
dell’investitore, anche la valutazione che un rating può avere in un soggetto che non sia un soggetto
colto, istruito, l’informazione passiva deve incidere particolarmente.
Una delle prime sentenze proposte fu quella del tribunale di Firenze del 2007 che dice che il rating
costituisce un’informazione, se non determinante, quantomeno indicativa del tipo di investimento
che si è in procinto di effettuare e la sua mancata indicazione rappresenta una violazione dei più
elementari obblighi informativi; l’intermediario ha l’obbligo di segnalare al risparmiatore in modo
non generico ed approssimativo, la natura dell’investimento alla stregua della valutazione operata
dalle maggiori agenzie di rating trattandosi di dato che costituisce un fatto idoneo ad influenzare il
processo decisionale dell’investitore, in questa sentenza si vede come si faccia riferimento del
produttore finanziario di informare adeguatamente l’investitore.
Altre sentenze del 2006,2005 propongono una visione del rating come elemento che influenza una
decisione degli investitori e per questa ragione può determinare una strumentalizzazione sia da parte

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della società emittente che dell’intermediario.


Altra sentenza del 2010 del tribunale di Torino dice che può ritenersi sufficiente all’assorbimento
dei doveri informativi gravanti sull’intermediario, la comunicazione del rating relativa allo
strumento finanziario oggetto di negoziazione qualora l’investitore sia in grado di conoscere
l’oggetto di rating e comprenderne il significato delle sigle attribuite da società; se l’investitore è in
grado di capire il rating è informato e quindi è una circostanza attenuante della responsabilità
dell’agenzia, è un orientamento giurisprudenziale che fa leva sull’informazione attiva.
Un’altra sentenza del 2009, invece esclude che gli operatori del mercato possano percepire il rischio
connesso ad uno strumento finanziario con rating favorevole; si tratta di un caso in cui qualche
attrice aveva chiesto la restituzione o il risarcimento del danno subito per aver acquistato
obbligazioni a seguito del default, nel passaggio della comunicazione si legge che non può
rimproverare alla banca di non aver previsto il default se neppure le agenzie di rating l’hanno
previsto.
La sentenza 2535/2016 della cassazione ha affermato che la banca intermediaria ha l’obbligo di
fornire all’investitore un’informazione in concreto sulla natura e caratteristiche del titolo, queste
informazioni sono necessarie laddove il crollo delle obbligazioni è imminente al momento in cui
l’ordine d’acquisto è emesso dai clienti; in queste omissioni giurisprudenziali ci si trova nell’ambito
dell’abusiva concessione di credito che veniva concesso a società ampiamente in crisi e quindi la
corte di Milano ha ritenuto la condotta dell’agenzia di rating negligente riguardo alle regole
metodologiche elaborate e utilizzate dalla stessa società di rating. (Questa sentenza è una sentenza
importante)
Le principali disquisizioni hanno avuto per oggetto: chi sono i soggetti danneggiati dal giudizio
delle agenzie di rating perché nelle varie sentenze sono stati distinti due categorie di soggetti cioè i
terzi prossimi come banche, investitori istituzionali e persone fisiche con grandi disponibilità
finanziarie che curano i propri investimenti quindi tutti i soggetti dotati di professionalità che
l’analista sa che opera in simbiosi con l’agenzia di rating, invece i terzi remoti sono il resto del
pubblico indistinto, utilizzatori del giudizio finanziario. Una volta identificati i soggetti danneggiati,
ulteriore disquisizione è il tipo di responsabilità di cui si vuole investire le agenzie di rating. Prevale
la tesi della responsabilità extra contrattuale perché il bene leso è l’affidamento. Si verificherebbe
una lesione dell’affidamento che fa sorgere una responsabilità in capo alla CRA per rating inesatti o
mancato aggiornamento di rating esistenti. Viene anche precisato che pur condividendo l’esistenza
di un affidamento tutelabile, viene esclusa la possibilità di percorrere la via della resp. Per contatto
sociale perché mancherebbe lo status di protezione in relazione all’attività di emissione di rating che
impedisce di estendere la responsabilità per le obbligazioni senza prestazione che sono una
ricostruzione delle c.d. forme di responsabilità di contatto sociale che fanno rientrare la
responsabilità contrattuale. In sostanza ciò che viene imputato è la valutazione del merito di credito
inesatta che porta alla responsabilità delle società di rating. Questa sentenza che prende in
considerazione la resp. Extracontrattuale delle società di rating trae la propria ratio dalla
responsabilità del revisore contabile con la sentenza 10403 della cassazione, in cui viene posta a
carico dell’agenzia di rating la responsabilità del neminem ledere e quindi il ricorso alla resp.
Aquiliana.
Altra questione è quello che viene individuato nell’attività tipica delle agenzie di rating quindi la
diffusione di info inesatte. Una delle argomentazioni principali proposte dalle agenzie di rating a
propria difesa è: per accedere ai siti delle agenzie di rating, è necessario registrarsi e ciò significa
che l’utente accetta di registrarsi e quindi egli dev’essere consapevole, che accetta anche gli accordi
d’uso che vengono espressi sui siti delle agenzie di rating. In tal caso, ci si trova di fronte a dei
contratti conclusi con obbligazioni a carico di una sola parte. Cioè l’art 20 dell’accordo di utilizzo
di RUBIS sottopone ad esempio all’accettazione di tutti gli interessati, alla consultazione di rating
di sua produzione, pur non prevedendo un corrispettivo, prevede un’accettazione nell’utilizzo del
sito, e viene pattuito che si accettino i materiali previsti dall’agenzie. Tale accordo viene accettato
da tutti coloro che apprendono i rating; quindi, non è possibile in un secondo momento rivendicare
l’uso del rating perché non vi è alcun vincolo da parte dell’agenzia di rating.

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Ulteriore ricostruzione da parte del tribunale di Milano è quella di responsabilità che siano abbonati
o registrati perché costoro pagano un prezzo; quindi il tribunale di Milano ha definito il rating come
l’opinione espressa da un’organizzazione dipendente sulla capacità di un’emittente di far fronte ai
propri impegni finanziari che sono pagamento di interessi e rimborso di capitale. Secondo
CONSOB il rating è valutazione di idoneità da parte dell’emittente sia sul rimborso di capitale sia al
pagamento degli interessi relativi ad una o più emissione di titoli di debito. In base ad una
definizione portata dalla stessa agenzia, il rating è un’opinione sulla capacità di un soggetto di
pagare alla scadenza il debito contratto. Per cui da questa definizione si ricava che l’agenzia di
rating effettua una valutazione indipendente esprimendo una valutazione sintetica sull’affidabilità
creditizia di breve periodo o lungo periodo (meno o più di un anno). Le imprese faranno sempre in
modo di avere notizie sul mercato e non sarà possibile imputare alle agenzie il rischio di mercato
che deriva dai rating. Sentenza del tribunale deriva il giudizio per cui il contratto di rating viene
portato all’interno dell’opera professionale, in quanto si fonda sulla sussistenza di un rapporto di
carattere fiduciario tra committente e agenzia incaricata tenuta all’esercizio di questa
professionalità, secondo le regole di settore e regole deontologiche.
COMPORTAMENTO DELL’ADVISOR -> la condotta dell’agenzia va considerata anche in
relazione ai divieti dell’Advisor. Le prestazioni oggetto del contratto con committente sono
rappresentate da una serie di attività connesse a doveri di comportamento. L’Advisor è colui che
propone un investimento e ha una rilevanza in termini di responsabilità perché è un operatore
professionale qualificato che sa esercitare potere di controllo anche sull’esattezza delle info. Gli
advisor, quindi, hanno rilevanza contrattuale perché l’investitore si affida agli stessi. Centrale è il
dovere di info che incombe su tutti gli operatori economici. Chiaramente non si può far ricadere
sugli operatori di mercato i rischi connessi all’andamento finanziario di mercato perché se c’è un
beneficio da determinate operazioni finanziarie, esso reputato dalle agenzie e dagli advisor e quindi
se c’è un benefico c’è un rischio e quel beneficio è tenuto a fronte del rischio, ma il rischio è incerto
e quindi può risolversi in una perdita e quindi non è neanche onesto far ricadere le perdite sulle
agenzie di rating e advisor e gli utili solo sugli investitori. Probabilmente in questo discorso
andrebbe data maggiore rilevanza aldilà al potere di informarsi, ma all’elemento del rischio della
transazione. Possiamo quindi essere d’accordo con l’art 35BIS del regolamento comunitario
509/2013 in base a cui si dice che solo nelle ipotesi di dolo o negligenza grave ci dev’essere una
responsabilità dell’autorità indipendente che deve vigilare sul mercato.
Altro problema, viene sollevato dall’autorità che deve vigilare sul mercato. La natura del controllo
esercitato istituzionalmente è da analizzare. (RESPONSABILITA’ DELL’AUTORITA’
INDIPENDENTE).
Questo controllo vorrebbe essere esteso alla veridicità dei dati contenuti nel prospetto informativo.
La CONSOB non è tenuta a garantire l’esattezza delle info rese, non può disinteressarsi se queste
info sono inesatte. La CONSOB, quindi, cerca di tutelare gli investitori, in particolare l’affidamento
che fanno i soggetti economici nei loro investimenti. Sicuramente è difficile accostare la
responsabilità dell’autorità indipendenti con quella della PA, perché in quest’ultima non c’è rischio
di mercato perché vengono segnati tutti i percorsi da seguire per quel risultato. Si può dire che
l’autorità di vigilanza possono essere chiamate a rispondere di omissione di controllo solo
nell’ipotesi palesemente falsa e non è possibile, ad esempio, di fronte ad un bilancio
normativamente corretto. Un’altra ipotesi di responsabilità è possibile individuarla verso
l’investitore finale. Le condizioni d’uso, essendo possibile accedere ad internet, riescono a
diminuire la responsabilità dell’agenzia. Coloro che sono quindi soggetti sono coloro che non si
iscrivono, terzi che non hanno la conoscenza a cui poi non sarà possibile imputare la responsabilità.
Sempre nelle condizioni d’uso vi sono clausole limitative della responsabilità, come art 1341/1342
che rispondono ad esigenze di protezione che non esonera comunque la parte stessa sulla diligenza
del contratto (riconducendo il contratto a contratto per adesione).

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3 novembre (15) RESPONSABILITA’ DEL DOTTORE COMMERCIALISTA

Come tutte le professioni liberali quella del dottore commercialista è una professione che implica
l’iscrizione ad un albo professionale, anche questa questione può dar luogo a delle controversie
perché talvolta ci sono elementi di abusivismo che comporta delle responsabilità e delle
implicazioni di validità della prestazione posta in essere e a livello della corresponsione del
compenso.
Le attività svolte dai dottori commercialisti e dagli esperti contabili, che incarnano la figura dei
vecchi ragionieri, sono disciplinate dal decreto legislativo numero 139 del 2005, che ha previsto
l’istituzione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
Dalla data del 1° gennaio del 2008, gli ordini dei dottori commercialisti ed i collegi dei ragionieri e
periti commerciali, istituiti nel circondario di un tribunale, sono stati soppressi in questo stesso
circondario di tribunale(ambiti territoriali).
Tuttavia ha lasciato inalterati i requisiti d’accesso alle due categorie di professionisti tanto che la
Suprema Corte ha deciso che l’istituzione del nuovo ordine territoriale dei dottori commercialisti e
degli esperti contabili (sulla base degli articoli 58 e 61 del decreto legislativo 139 del 2005), non
hanno eliminato le differenze dei requisiti di accesso all’una e all’altra categoria con la conseguenza
che colui che alla data del 31 dicembre 2007 risulti iscritto nel soppresso albo dei ragionieri e dei
periti commerciali, pur venendo collocato nella sezione A commercialisti del nuovo albo unico, non
può semplicemente per questo fatto avvalersi del titolo di dottore commercialista, sebbene in
possesso di una laurea specialistica che potrebbe essere astrattamente idonea, ma deve aver superato
il relativo esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione.
Ancora una volta possiamo dire che il legislatore ha realizzato un’entità ibrida, in cui pur essendo
unificati i due soggetti hanno dei requisiti professionali diversi ed entrambi devono superare
l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione.
A queste due figure, ossia esperto contabile e dottore commercialista, si affianca la figura del
revisore contabile che non è più un profilo professionale del commercialista come avveniva nel
vigore del precedente albo, ma, in seguito al decreto legislativo numero 39 del 2010, costituisce una
figura autonoma con un albo autonomo nonché tirocinio e accesso separati perché anche per essere
revisore contabile bisogna superare un’apposita sessione dell’esame di Stato che è dedicata proprio
ai revisori contabili ed è un titolo di secondo livello rispetto ai dottori commercialisti ed esperti
contabili. Notevoli sono stati le questioni relativi a questi sbocchi professionali.
L’oggetto della professione di dottore commercialista è fissato dal decreto legislativo n°139 del
2005 che all’articolo uno richiama diverse tipologie di attività fra le quali l’amministrazione, la
custodia, la valutazione di imprese, le revisioni contabili, la tenuta della contabilità, le perizie, i
pareri, la formazione del bilancio, operazioni societarie, consulenza contrattuale ed economico
finanziaria, assistenza nelle procedure concorsuali, assistenza, rappresentanza, consulenza tributaria
e anche attività di sindaco di società.
Nell’ipotesi di esercizio abusivo della professione di dott. Commercialista si pongono delle
questioni complesse relativamente alla validità della prestazione attuata, alle disposizioni
civilistiche previste dal c.c. e anche al diritto al pagamento del compenso.
In particolare, la prima norma che possiamo prendere in considerazione è l’articolo 2231 il Codice
civile fa riferimento proprio alla mancata iscrizione all’albo e dice il primo comma che “quando
l’esercizio di un’attività professionale è condizionato dall’iscrizione in albo o elenco, la prestazione
eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione”. Il secondo
comma risolve il contratto in corso salvo il diritto del prestatore d’opera al rimborso delle spese
sostenute e a un compenso adeguato all’utilità del lavoro compiuto.
Questa norma combina una mancanza di tutela processuale che sul piano civilistico ripercuote la
fattispecie del reato di esercizio abusivo della professione così come stabilito dall’articolo 348 del
codice penale, cioè l’articolo 2231 negando un’azione per la riscossione del compenso rappresenta
il riflesso civilistico del reato previsto dall’articolo 348 per l’esercizio abusivo della professione; ne
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consegue che la prestazione professionale eseguita da un soggetto non iscritto all’albo sarebbe
soggetta, sia alla sanzione penale di cui all’articolo 348 del codice penale, sia alla sanzione civile
sancita dall’articolo 2231 comma uno del codice civile, perché nel comma 1 c’è sancito
l’impossibilità di agire per il pagamento della retribuzione nel caso in cui sia esercitata un’attività
professionale senza l’iscrizione all’albo; nel comma 2, invece, nel caso in cui il professionista si
cancelli dall’albo viene risolto, in quel caso avrà diritto alle spese sostenute per lo svolgimento
dell’incarico ed anche ad un compenso adeguato all’utilità che ha avuto per il cliente il lavoro
svolto. Dalla norma civilistica 2231, si evince un dovere negativo di non esercitare abusivamente la
professione e a questo dovere negativo vi è anche il divieto che incombe su tutti coloro che si sono
avvalsi dell’altrui opera di rispondere il pattuito compenso, quindi, da un lato si nega l’azione per il
pagamento del compenso al professionista abusivo e dall’altra si qualifica l’obbligo del cliente
quale dovere morale e sociale che giustificherebbe il divieto di ripetizione ai sensi dell’articolo 2034
del codice civile.
Vi è una differenza tra il primo comma e il secondo comma dell’articolo 2231 perché la norma pone
l’accento proprio su un contrasto tra l’apprezzamento negativo che l’ordinamento dà
all’antigiuridicità dell’opera del professionista non iscritto e nello stesso tempo la contraddizione
relativamente a un dovere etico che imporrebbe una retribuzione dell’opera stessa (quindi è come se
nascesse con una natura ibrida la prestazione del professionista non iscritto all’albo).
La soluzione trovata a livello teorico per questa fattispecie è stata ricostruita dalla dottrina in termini
di illiceità della prestazione professionale, in quanto, non conforme alla legge istitutiva della
professione, che comporta anche la nullità del contratto per illiceità dell’oggetto e comunque anche
illiceità della causa; per cui da queste illiceità ovvero della prestazione d’opera, illiceità
dell’oggetto, illiceità della causa, è assolutamente evidente la tesi della nullità del contratto stipulato
tra il professionista abusivo ed il cliente; oltre questa tesi della illiceità, che porta alla nullità e
quindi ne consegue che nessun obbligo può nascere da un contratto nullo ivi compreso quello del
diritto alla retribuzione, vi è un altro discorso che è relativo, cioè un’altra interpretazione , un’altra
teoria che quella che invece parla di un difetto di capacità giuridica del professionista cioè la
prestazione in sé sarebbe lecita ma il professionista non ha tutte le caratteristiche richieste per
svolgere quella professione e quindi ne risulta coinvolto anche il rapporto contrattuale che si viene
ad instaurare con il cliente;
questo problema viene posto dalla stessa relazione al c.c. che correla due disposizione, la prima è
l’art. 2231, altra disposizione è il 2126 cc, è intitolato “la prestazione di fatto con violazione di
legge” e si riferisce proprio alla fattispecie dell’esercizio abusivo della professione e in base
all’articolo 2126 “la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il
periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione salvo che la nullità derivi dall’ illiceità dell’oggetto o
della causa, se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di
lavoro questo ha in ogni caso diritto alla retribuzione”.
Questo problema viene sollevato proprio nella relazione al codice civile che ritiene applicabile al
lavoratore che svolge la propria attività senza iscrizione all’albo, secondo la relazione al codice
civile risulta applicabile il 2126 in quanto esercizio di lavoro autonomo e in concreto la questione
sarebbe risolta negativamente quindi nel senso di negare il compenso se la prestazione del
professionista abusivo comporti la nullità del relativo contratto per illiceità dell’oggetto o della
causa, per cui in questi termini, il difetto di capacità giuridica insito nella persona si presterebbe a
giustificare una soluzione che va a colpire il singolo atto esecutivo del rapporto. Questa è una via
che vuole dare una tutela al lavoro e, invece, la disposizione dell’articolo 2231, non sembra secondo
quanto espresso nella relazione al Codice civile poter trovare applicazione anche a tutte quelle
attività o atti che non presuppongono l’iscrizione all’albo da parte del professionista. È diversa
l’ipotesi del secondo comma dell’articolo 2231, ossia l’ipotesi di un contratto concluso da un
professionista che nel corso del rapporto subisce la cancellazione della sua iscrizione all’albo e
questo determina la risoluzione del contratto; tuttavia, è saldo il diritto al rimborso delle spese
sostenute al compenso proporzionato all’utilità del lavoro compiuto verso il cliente. Per quanto
concerne invece il rapporto professionale tra commercialista o esperto contabile e cliente: questo è

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sottoposto alla disciplina del contratto d’opera intellettuale regolamentato dall’articolo 2229 del
Codice civile in base al quale la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle
quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi e l’accertamento dei requisiti per l’iscrizione
negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati
alle associazioni professionali sotto la vigilanza dello Stato salvo che la legge disponga
diversamente.
Contro il rifiuto dell’iscrizione o la cancellazione dagli altri provvedimenti disciplinari che
importano la perdita o la sospensione del diritto all’esercizio della professione è ammesso ricorso
giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali.
Oggetto del contratto professionale può riguardare anche prestazioni tecniche che possono essere,
per esempio, per azioni di calcolo (non devono mai precludere una discrezionalità nell’esercizio
dell’attività proprio perché questo è quello che connota il contratto d’opera intellettuale cioè ci deve
essere un apporto personale dell’opera del professionista), applicazioni di regole, da obbligazioni
accessorie che possono rientrare e accompagnarsi e non escludersi il c.d. contratto di mandato che
si possono porre come obbligazioni accessorie sia in quanto compatibili e caratteristiche di tale tipo
contrattuale per cui entrambi i contratti, di mandato e opera professionale, hanno ad oggetto una
prestazione di fare; tuttavia il contratto di mandato si caratterizza per un’attività diretta al
compimento di atti giuridici per conto e nell’interesse del mandante: una parte detta mandante,
conferisce l’incarico ad un’altra parte detta mandatario, di compiere uno o più atti giuridici per
conto e nell’interesse proprio, a meno che non ci sia la spendita del nome che avviene con un
separato atto giuridico.
Con la procura si attribuisce un potere di spendita del nome e che è lì nasce la differenza tra
rappresentanza diretta e indiretta laddove la rappresentanza e diretta quando c’è la spendita del
nome, indiretta quando non c’è la spendita del nome e quindi il mandatario dovrà trasferire gli
effetti giuridici della sua azione con un atto separato).
Il contratto d’opera professionale è un’attività di cooperazione diretta al compimento di un’opera
a favore del committente attraverso la quale trova espressione una competenza specifica.
Quindi la particolarità di questa distinzione è l’inquadramento rapporto tra cliente e professionista
che può quindi trovare inquadramento sia come contratto d’opera intellettuale o come contratto di
mandato dove nel mandato ci sono singoli atti giuridici e invece nel contratto d’opera intellettuale
rileva soprattutto la cooperazione per la realizzazione di un’opera. Ora andiamo a vedere nel
particolare la prestazione professionale del commercialista, che proprio come le prestazioni d’opera
intellettuale, in genere richiamo un’altra distinzione civilistica quella tra obbligazione di risultato e
obbligazioni di mezzi. Questa distinzione è che con le obbligazioni di risultato il debitore della
prestazione deve garantire un risultato oggettivamente determinato; con altre obbligazioni invece di
mezzi il professionista è tenuto esclusivamente a attuare un’attività diligente indipendentemente
dalla circostanza che l’attività posta in essere realizzi il risultato perseguito dal creditore cliente.
Ebbene anche in dottrina è stato affrontato l’inquadramento della prestazione del professionista tra
le obbligazioni di mezzo le obbligazioni di risultato. A priori si dire che si tratta fondamentalmente
di un’obbligazione di mezzi in cui i mezzi utilizzati sono rappresentati dalla diligenza cioè il
professionista compiere con diligenza determinate attività che poi si realizzi o meno il risultato
questo non rientra nella in un giudizio circa il diritto al compenso proprio perché essendo
un’obbligazione di mezzi anche se il risultato non viene realizzato (esempio il commercialista non
vince il riposo avanti alla commissione tributaria questo non esclude che il commercialista abbia
diritto al compenso) e quindi affinché l’ obbligazione di mezzi posta ritenersi adempiuta è
necessario che il professionista abbia posto in essere un comportamento idoneo a dare inizio ad un
processo di cambiamento di conservazione, di evoluzione di una situazione giuridica il cui esito
viene a dipendere anche da condizioni esterne ulteriori estranee alla sfera del vincolo contrattuale;
per cui secondo la dottrina dominante più la manca (cioè l’obbligazione di mezzi) può essere in
qualche modo compromessa da una imperizia nello svolgimento dell’attività che va ad incarnarsi
nel concetto di colpa e quindi per ogni tipo di incarico c’è una misura che implica un dovere
concreto di prestazione effettuandolo con la diligenza che può anche portare al professionista a

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decidere di rinviare l’adempimento dell’obbligo azione in un momento migliore in modo da


azzerare una componente (del caso delle condizioni esterne, incontrollabili che potrebbe agire
negativamente in un determinato contesto e in tal senso si parla ancora di diligenza propria ovvero
come cura, sollecitudine e attenzione nella realizzazione dello scopo ed è proprio per questo la
diligenza propria rappresenta un presupposto dell’adempimento e non l’oggetto di un’obbligazione
di comportamento). Invece, con la diligenza impropria si parla con riferimento al disposto
dell’articolo 1176 secondo comma che “nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve utilizzare la
diligenza del buon padre di famiglia nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di
un’attività professionale”. La diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata
e quindi in realtà si fa riferimento a quelle obbligazioni che hanno per oggetto un’attività tecnica ed
assume un significato diverso in quanto indica proprio l’esecuzione esperta della prestazione quindi
una prestazione eseguita secondo le regole d’arte conosciute dal professionista e per cui, in questo
caso, di far riferimento in sostanza un criterio generale di imputabilità, dell’impossibilità della
prestazione perché viene proprio a coincidere con l’adempimento. Nel primo caso, il verificarsi del
caso fortuito dell’impossibilità sopravvenuta può essere evitato dal professionista rinviando la
prestazione a un momento migliore invece nella seconda ipotesi non vi è in sostanza essendo
richiesta una diligenza in senso tecnico non è ammessa l’imperizia e quindi il non aver svolto
diligentemente un compito coincide. Vi sono lui disposizioni che vengono in considerazione nel
momento in cui si valuta il comportamento del professionista relativamente alla diligenza richiesta
perché abbiamo detto che la prestazione del dottore commercialista è un’obbligazione di mezzi e
non di risultato e nell’obbligazione di mezzi il professionista è obbligato alla diligenza e la diligenza
può essere di due tipi dirigenza propria o diligenza improprio laddove la diligenza propria consiste
anche nel posticipare l’adempimento di un’obbligazione laddove si vede che non ci sono tutte le
condizioni richieste, invece, la diligenza in senso improprio ha particolare esperienza e quindi
implica di per sé l’adempimento della prestazione e può dar luogo ad una parente antinomia tra
l’articolo 1176 che intitolato alla diligenza nell’adempimento e l’articolo 1218 del codice civile in
cui è scritto relativamente all’ inadempimento delle obbligazioni e alla responsabilità del debitore in
questo caso “ il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento
del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile” quindi ci potrebbe esserci un antinomia tra
queste due disposizioni che può essere risolta in un certo modo cioè nel senso che più la previsione
dell’articolo 1176 stabilisce la liberazione del debitore dal vincolo obbligatorio quando la diligenza
del buon padre di famiglia non è stata sufficiente a bloccare la causa dell’impossibilità della
prestazione ed invece secondo l’interpretazione che vede l’esistenza di due forme di diligenza (cioè
quella proprio quella impropria) non vi sarebbe contrapposizione perché l’articolo 1176 ci colloca
esclusivamente nell’area dell’adempimento e non lascia spazio all’ inadempimento e in particolare
(appunto il l’articolo 1218) sarà invece riferibile alle obbligazioni di risultato ed esclusivamente alle
obbligazioni di risultato mentre l’articolo 1176 sarà da riferire esclusivamente alle obbligazioni di
mezzo. L’orientamento prevalente dottrinario segue invece una concezione unitaria di diligenza per
cui sebbene anche conformemente alle previsioni dell’articolo 43 del Codice penale, la dirigenza
ricomprende aspetti che riguardano l’attenzione volta al soddisfacimento dell’interesse creditorio
quindi l’osservanza e l’adozione di misure di cautela idonee ad evitare che sia impedito il
soddisfacimento dell’interesse. Anche la giurisprudenza accetta questo concetto pieno di diligenza
in cui deve ritenersi compresa la perizia e conoscenza delle regole di attuazione tecniche proprie di
una determinata arte o professione quindi il professionista è tenuto appunto ad agire legittimamente
diligentemente e quindi la dirigenza richiesta non è solo quella del buon padre di famiglia, ai sensi
del primo comma dell’articolo 1176, ma è quella del debitore qualificato come viene descritta dal
secondo comma dell’articolo 1176 che comporta il rispetto di tutte le prescrizioni e quegli
accorgimenti che insieme costituiscono. In sostanza la diligenza esperta coincidere con la
conoscenza dei cosiddetti segreti del mestiere che attengono alla persona che è esperta nello
svolgimento di questo di questa professione per cui in sostanza vi è l’identificazione della diligenza
richiesta nella adempimento dell’obbligazione di mezzi (al professionista ai sensi del secondo

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comma dell’articolo 1176) e quindi si differenzia dalla diligenza richiesta al debitore


nell’esecuzione della prestazione che è quella del primo comma dell’articolo 1176 e non quella del
secondo comma. Il professionista ha uno standard assolutamente più elevato di diligenza e che
viene anche affidato alla proprio alla attività discrezionale del professionista e per cui in questo
contesto vengono a collocarsi la colpa in termini di imperizia che viene riconosciuta nel
professionista che volontariamente si è dedicato ad un’attività per la quale non aveva in nessun
modo le doti necessarie. L’imperizia viene a configurare una mancanza di diligenza che può essere
valutata nel momento precedenti cioè ex ante rispetto all’assunzione dell’obbligazione proprio come
appunto l’ignoranza che sottolinea il dovere del professionista di non cimentarsi in imprese più
grandi di lui e a questo va a dare una rilevanza forte al concetto di impossibilità originaria
soggettiva di adempimento della prestazione cioè che già dall’inizio dal sorgere del l’obbligazione
era chiaro che non vi erano i presupposti per poter adempiere quella determinata prestazione. Alla
cosiddetta colpa in contraendo e la responsabilità per l’inadempimento può addirittura essere
spostata su un piano diverso ai sensi degli articoli 1337 e 1338 cioè è in sostanza sostituirebbe la
responsabilità per l’inadempimento ad una da una responsabilità precontrattuale che si identifica in
una colpa in cui laddove il professionista già sapeva e quindi era in malafede nel momento in cui ha
accettato di compiere quella determinata prestazione. Nel momento in cui ci si trova di fronte a una
responsabilità contrattuale professionista per inadempimento sarà necessario verificare le modalità
di questo inadempimento perché laddove il professionista abbia assunto un incarico già conoscendo
la propria incapacità per mezzi tecnici o patrimoniali a poter portare avanti più l’adempimento
dell’applicazione allora si sommeranno le due forme di responsabilità contrattuale ma anche extra
contrattuale come precontrattuale perché c’era questo vulnus originario e infatti queste ipotesi sono
state molto approfondite appunto dalla giurisprudenza che ha dato le fattispecie di originaria
mancanza di perizia di originaria perché secondo alcuni giudici l’originaria mancanza di perizia
potrebbe costituire addirittura una causa di invalidità del contratto invece l’opinione dominante e
che l’originaria mancanza di perizia rappresenta una responsabilità nell’adempimento dell’incarico
professionale che sia assunto con coscienza e volontà sia che invece vi sia stata imprudenza o
negligenza per l’assunzione del lavoro o per cui li perizia consisterebbe proprio in
quell’atteggiamento psichico volitivo del singolo che ha portato il professionista ad accettare la
prestazione quando invece l’avrebbe dovuta rifiutare. Per cui il professionista diligente, nel
momento in cui si trovi di fronte ad una prestazione di cui nasce subito la consapevolezza della
propria insufficiente preparazione tecnica è il caso che il professionista non accetti questo incarico e
nel caso in cui vi sia questa insufficiente preparazione tecnico patrimoniale il professionista
potrebbe addirittura dichiarare al cliente la necessità vista la propria insufficiente preparazione
tecnica di essere affiancato ad altro professionista più esperto tuttavia una volta assunto l’incarico
singolarmente risponderà della negligenza dell’ imperizia quali rischi legati al proprio status proprio
come prezzo della propria autonomia professionale quindi in particolare questa fattispecie è stato
oggetto di una sentenza punto della Cassazione nel negli anni 70 in cui appunto l’imperizia è stata
definita proprio come sintesi della colpa professionale e che cui quindi il professionista deve
assolutamente rispondere. Questo aspetto è stato evidenziato proprio dalla Suprema Corte di
Cassazione che effettivamente dice che non può essere una diligenza media ma deve essere una
diligenza parametrata alla natura dell’attività esercitata ed ecco che appunto i parametri previsti
dall’articolo 1176 secondo comma e 2236 del codice civile dettano la regola secondo la quale, per
esempio, il professionista si deve considerare responsabile nei confronti del cliente per il caso di
incuria o ignoranza di disposizioni di legge e in genere in tutti i casi in cui per negligenza o in
polizia comprometta il buon esito del giudizio mentre appunto nelle ipotesi in cui è chiamato
interpetrare leggi o questioni opinabili li deve ritenersi esclusa la responsabilità del professionista a
meno che non vi sia l’ipotesi del dolo che significa che laddove ci sia l’ignoranza di all’ omissione
l’omessa considerazione di una legge allora lì c’è assolutamente l’imputabilità della responsabilità
al professionista. In particolare, il commercialista l’obbligo di verificare la correttezza delle
informazioni comunicate dal cliente nonché di escludere i costi sui quali non esiste sufficiente
documentazione quindi possiamo dire che in questo consiste la diligenza del professionista cioè il

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mio come professionista sono tenuto anche a verificare la veridicità dei documenti ricevuti dal
cliente. Tuttavia questo è richiesto dall’ obbligazione di mezzi invece un’obbligazione di risultato
implica che si vada al di là del semplice documenti secondo la normativa vigente ma il
professionista è chiamato anche a verificare che non vi sia dolo o colpa grave nel cliente perché
altrimenti questo dolo e questa colpa grave si ripercuoteranno sul professionista questo perché
Spesso oggetto della prestazione professionale è un’attività che va oltre la semplice redazione della
dichiarazione del bilancio. Si tratta di un’attività di consulenza fiscale per cui il commercialista
deve a un obbligo di informare correttamente il cliente rendendolo edotto su una determinata
situazione su tutti gli aspetti favorevoli e non favorevoli al fine anche di agevolarlo nella scelta delle
strategie da seguire per la propria impresa o per la propria attività quindi scopo della consulenza
fiscale al di là della redazione di un semplice documento che la dichiarazione dei redditi o il
bilancio è quello di rendere chiaro al committente quale sia la situazione tributaria più favorevole
per i suoi interessi e quindi in presenza di problemi tecnici complessi il professionista potrà giovarsi
del cosiddetto trattamento più favorevole previsto dall’articolo 2236 altro caso e quello in cui invece
il professionista è chiamato alla valutazione di patrimoni alla valutazione appunto di ingenti
patrimoni alla determinazione del valore di aziende. La peculiarità di queste fattispecie sussiste nel
fatto che appunto molti sono gli interessi coinvolti in questa in questo tipo di prestazione d’opera
professionale; si pensi ad una sovrastima di un bene acquistato da terzi che poi concedono
un’ipoteca per un valore nettamente inferiore.

5 novembre (16)

Non è possibile generalizzare perché bisogna sempre andare ad indagare le singole fattispecie, in
particolare abbiamo iniziato a parlare delle ipotesi in cui oggetto della prestazione professionale sia
un’attività di consulenza fiscale nel cui ambito il commercialista deve individuare quali scelte
professionali ritiene più adeguate a consentire lo svolgimento delle attività da parte di un
imprenditore o di un cliente privato; quindi, lo scopo fondamentale della consulenza è quello di
individuare quale sia la sistemazione di interessi del cliente, sia esso un’impresa o una società o un
privato, dal punto di vista della situazione tributaria oppure quale sia un trattamento più favorevole
in presenza di determinati problemi tecnici.
Sovviene su questo punto l’art. 2236 c.c. che fa riferimento all’ipotesi in cui si verifichino delle
particolari circostanze e c’è un’attenuazione di responsabilità; infatti, quest’articolo, relativamente
sempre al contratto d’opera intellettuale, dice che “se la prestazione implica la soluzione di
problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di
dolo o colpa grave”.
Questa norma rappresenta una deroga al criterio generale previsto per l’adempimento delle
obbligazioni, in particolare l’art 1176 comma 2, in base al quale il professionista deve eseguire la
prestazione usando la diligenza richiesta dalla natura dell’attività esercitata e risponde pertanto delle
conseguenze nocive del suo operato anche per la colpa lieve.
Quindi rispetto a quanto statuisce l’art. 1176 regola generale comma 2, cioè inclusione della colpa
lieve, l’art 2236 pone un’attenuazione di responsabilità limitandola esclusivamente al dolo o alla
colpa grave nell’ipotesi in cui si verifichino situazioni di speciale difficoltà, ossia quei problemi in
cui è richiesta una preparazione professionale superiore alla media.
Altra soluzione a questo problema per il professionista è quella del recesso previsto dall’art. 2237,
ossia il cliente può esercitare diritto di recesso dal contratto rimborsando al prestatore d’opera le
spese sostenute e pagando il compenso per l’opera svolta. Invece, il prestatore d’opera può recedere
per giusta causa e in tal caso avrà diritto al rimborso delle spese fatte anche avuto riguardo al
risultato utile per il cliente.
In ogni caso il recesso del prestatore d’opera non deve mai arrecare danno al cliente.
Vediamo che sussiste in capo al cliente un diritto di recesso ad nutum: laddove ci siano discordanze
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con il professionista circa la modalità di attuazione dell’oggetto della prestazione d’opera, fermo
restando il diritto al rimborso delle spese sostenute e l’obbligo del pagamento e del compenso per
l’opera eseguita. Naturalmente questa facoltà di recesso ad nutum non è fonte di responsabilità per il
cliente laddove sia chiaro che il rapporto tra il cliente e il professionista sia stato caratterizzato da
una scelta del professionista proprio in relazione alle sue caratteristiche professionali. Questa norma
non è una norma imperativa cioè non sempre è ammesso il recesso ad nutum, per esempio può
essere escluso fino al termine del rapporto laddove ci siano delle speciali esigenze delle parti che
siano state chiarite all’inizio del rapporto. Nessuna indennità è prevista al favore del professionista,
a differenza dei contratti d’opera non professionali, nel caso in cui ci sia un mancato guadagno da
un carico per cui possiamo notare che nella sistemazione legislativa c’è una sperequazione tra le
conseguenze del recesso per il cliente rispetto a quelle per il professionista; mentre il cliente può
recedere ad nutum, il professionista può recedere dal contratto solamente in presenza di una giusta
causa riservandosi il diritto al rimborso alle spese al compenso per l’attività svolta, in ogni caso il
recesso del professionista non deve portare pregiudizio al cliente.
Ulteriormente complicata è la situazione che si può prospettare al commercialista nell’ipotesi in cui
venga incaricato per la stima di aziende, patrimoni e la responsabilità del professionista è ancora
più forte nell’ipotesi in cui vi siano dei terzi che subiscano il pregiudizio per effetto della
prestazione non conforme resa dal professionista.
E’ complicata perché in queste valutazioni non c’è esclusivamente un rapporto tra il professionista e
il cliente che ha dato l’incarico ma c’è anche il coinvolgimento dei terzi, basti pensare alle ipotesi in
cui un bene venga acquistato da terzi e venga sovrastimato, quindi venga pagato più del suo
effettivo valore di mercato e questi terzi concedano sul bene un’ipoteca che non è conforme al
valore acquistato ma è un valore inferiore, in questo caso l’acquirente consegue un danno dalla
sovrastima del bene. Viene spesso richiamato il problema della libertà contrattuale in cui ci può
essere un’interferenza del terzo nell’attività negoziale tra le parti, in tal caso questo terzo se non è
riuscito ad entrare nel rapporto tra cliente e professionista avrà il rimedio extracontrattuale
attraverso l’apposizione di una clausola, come la clausola di giustizia del danno in quanto i terzi non
sono parte del rapporto tra professionista e cliente nella valutazione d’azienda. Questa fattispecie,
cioè l’interferenza del terzo, è stata affrontata dalla giurisprudenza proprio come fattispecie di
violazione della libertà contrattuale, la giurisprudenza ha condannato la società di revisione nei
confronti di terzi estranei al rapporto negoziale di revisione che però sono stati pregiudicati dalla
prestazione della società di revisione, quindi si trattava di terzi che avevano acquistato delle quote
societarie e in realtà questi terzi non avrebbero concluso il contratto definitivo ma esercitato il
diritto di recesso nella conclusione del contratto preliminare se avessero conosciuto il reale valore
della società e non fossero stati fuorviati dall’erronea valutazione che ne ha dato la società di
revisione.
Una parte della dottrina fa ricorso ad una responsabilità extracontrattuale o ad una intromissione
nella libertà contrattuale delle parti e altra parte della dottrina fa riferimento ad una norma che
richiama gli obblighi di protezione che sono presenti a protezione della sede pubblica, quindi gli
obblighi di protezione consentono autonomamente di far riferimento in quest’ipotesi a una “culpa in
contraendo” e grazie a questa si riuscirebbe a giungere ad una sanzione di nullità del contratto che
avrebbe degli effetti protettivi nei confronti dei terzi, si tratta di un caso complesso che si è
verificato nella giurisprudenza tedesca, si parla di responsabilità di affidamento quale parte della
responsabilità professionale.
Il rapporto tra cliente e professionista può riguardare esclusivamente le parti contrattuali; tuttavia,
laddove si verifichi che il terzo susciti un affidamento particolarmente significativo allora può
essere richiamata la responsabilità professionale da false informazioni. Questa responsabilità può
essere richiamata per tutelare i terzi ed è un rimedio contrattuale che consente il risarcimento del
danno meramente patrimoniale.
Ulteriore responsabilità professionale è richiamabile per i ricorsi tributari, in particolare per la
fattispecie in cui il cliente si trovi di fronte ad accertamenti fiscali dell’amministrazione pubblica e
di fronte a questi accertamenti, ad esempio la mancata presentazione di un ricorso, può pregiudicare

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gli interessi del cliente e quindi talvolta è stata richiamata in causa la responsabilità del
commercialista per mancata presentazione del ricorso avverso l’accertamento subito dal cliente, in
particolare in questi casi la suprema corte ha riconosciuto la responsabilità professionale del
commercialista il quale, a seguito di un esame superficiale degli atti che gli sono stati rimessi dal
cliente, aveva fatto decorrere i termini per proporre l’opposizione davanti al giudice tributario. La
sussistenza della responsabilità del professionista e quella del commercialista fa presupporre
l’esistenza di un espresso mandato del cliente ad eseguire quella prestazione. In tal senso il semplice
fatto che il cliente abbia la domiciliazione della propria contabilità presso lo studio del
commercialista non fa presupporre l’esistenza di un contratto di opera intellettuale. Significa che
laddove un commercialista abbia solamente l’incarico di tenuta di contabilità e questo sia un singolo
incarico, quindi contratto di mandato, non implica che, se dalla tenuta di contabilità da parte del
professionista derivi un vizio che porti successivamente l’amministrazione tributaria a sollevare un
atto di accertamento, il commercialista in questione sia tenuto alla presentazione di un ricorso.
Diverso è il caso in cui il rapporto tra il commercialista e il cliente sia strutturato nella forma di
contratto di opera intellettuale, in tal caso la prestazione richiesta al commercialista è di alto
profilo. In questo caso sarà necessario mostrare le particolari conformazioni del rapporto dal punto
di vista contrattuale tra cliente e professionista perché la semplice domiciliazione ai fini della
contabilità non è sufficiente per far presupporre che il commercialista e il cliente siano legati da un
contratto d’opera intellettuale ma il presupposto della responsabilità professionale del
commercialista per mancata impugnazione dell’accertamento fiscale, sia che il cliente provi che
accanto ai vizi dell’accertamento fiscale vi sia anche la negligenza del professionista che abbia
impedito la realizzazione del risultato perseguito, per cui il cliente ha l’onere di dimostrare non solo
il danno ma anche il nesso causale che corre tra l’inadeguata attività del professionista e il
pregiudizio subito. La mancata presentazione del ricorso fiscale quale attività del commercialista
determina la sua responsabilità secondo le regole della responsabilità per condotta omissiva (non ha
presentato un atto, ossia il ricorso) oppure a seguito di una valutazione prognostica di carattere
affermativa in ordine, al sicuro e chiaro fondamento del ricorso e quindi probabile esito favorevole
dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente eseguita. Non basta che
un ricorso doveva essere presentato ma non lo è stato, ma il cliente dovrebbe avere la certezza del
carattere positivo dell’esito del ricorso e cioè che il ricorso avrebbe avuto un esito favorevole una
volta che il ricorso fosse stato proposto e diligentemente realizzato; di questo è difficile ottenere la
prova, ecco il motivo per cui può essere chiesta la responsabilità del commercialista solo per aver
omesso la presentazione del ricorso e non anche per aver determinato l’obbligo di pagamento in
seguito ad avviso di accertamento, né il commercialista può esimersi da responsabilità con la
semplice considerazione che periodicamente il legislatore concede delle sanatorie in favore del
superamento di casi di evasioni fiscali. L’atteggiamento o l’orientamento della suprema corte nel
caso di inesatto adempimento di un contratto di domiciliazione da parte di un dottore
commercialista con la conseguente impossibilità di proporre impugnativa degli avvisi di
accertamento per tardiva comunicazione degli avvisi fiscali, ha portato alla configurazione di una
distinzione relativamente alle fattispecie di danno configurabili, infatti la suprema corte ha distinto
il danno da mancata impugnazione dal danno da perdita della possibilità di impugnazione perché
l’errata domiciliazione portava la perdita della possibilità di impugnare e quindi questa fattispecie
va tenuta distinta dal danno da mancata impugnazione. Da questo punto di vista una sezione della
suprema corte, nell’ambito delle professioni legali (avvocato, dott. Comm), ha riconosciuto la
risarcibilità del danno da perdita di chance, che viene a configurarsi come un’entità patrimoniale a
sé stante giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione rispetto al
risultato finale. Alla risarcibilità di un danno per la perdita della possibilità di conseguire un risultato
utile ed economicamente vantaggioso va distinta la possibilità del danno di aver concretamente
conseguito quel risultato. Questa distinzione viene fatta dalla suprema corte nel momento in cui si
parla di responsabilità contrattuale del professionista.
Di fronte ad una palese ipotesi di inadempimento contrattuale e possibilità di conseguire un risultato
utile si va a configurare la questione del se era possibile o meno presentare un determinato ricorso.

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Altro discorso è quello del quantum del risarcimento, che va commisurato alle concrete e
ragionevoli possibilità di conseguire dei risultati utili. Da questo punto di vista si è portato avanti
per tanti anni da parte della giurisprudenza questa distinzione.
Più tardi, qualche anno dopo, la medesima sezione della cassazione ha riconosciuto questo danno da
perdita di chance del professionista legale facendo riferimento ad un comportamento negligente del
dottore commercialista che è incaricato di proporre l’impugnativa degli avvisi di accertamento
fiscale che vengono ritenuti dal cliente infondati ed illegittimi. Pur risultando o comunque
configurando la responsabilità professionale del commercialista per negligente svolgimento
dell’incarico, sia dal punto di vista dei motivi che possono essere forniti per i ricorsi relativi alla
commissione tributaria oppure per la tardiva proposizione dei ricorsi oppure laddove il
commercialista ritenga di non proporre il ricorso perché non ci sono sufficienti elementi che
possano far pensare ad un successo, in quel caso sarà fondamentale nella causa per la responsabilità
professionale provare il nesso causale tra l’inadempimento ed il danno e sarà molto difficile provare
la sussistenza stessa del danno e provare la sua riferibilità al commercialista o professionista quindi
alla fine l’omessa presentazione di un ricorso si può risolvere in una responsabilità per perdita di
chance in quanto non è certo che il ricorso avrebbe portato ad una vittoria processuale oppure ad
un’attenuazione degli effetti dell’atto di accertamento. La cassazione è assolutamente d’accordo nel
far rientrare questa forma di inadempimento del professionista nell’ambito della perdita di chance e
quindi andrà liquidato con un criterio prognostico che verrà a basarsi sulle ragionevoli possibilità di
conseguire dei risultati utili dall’azione processuale svolta dal professionista assumendo come
parametro di valutazione anche il vantaggio che complessivamente era realizzabile dal danneggiato,
vantaggio che nella giurisprudenza viene corretto dal coefficiente di riduzione proporzionato al
grado di possibilità di conseguirlo e che nel suo complesso è difficile configurare. Il più delle volte
il giudice ricorre ad un criterio equitativo previsto dall’art 1226, in base a questo criterio è rimessa
alla valutazione del magistrato, “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è
liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.
Sulla base di questo orientamento giurisprudenziale potrebbe essere superata la questione
dell’accertamento da parte del giudice del danno da perdita del processo di tutte quelle fattispecie in
cui è difficile provare il nesso causale tra l’inadempimento professionale ed il danno.
La dottrina non ha perso l’occasione per sottolineare i vantaggi della teoria della responsabilità da
perdita di chance, secondo questa teoria la distinzione tra il danno consistente nella perdita del
processo ed il danno che ha ad oggetto la perdita delle chance di vincere in giudizio, rende inutile e
gravosa per il professionista l’adozione di un criterio probabilistico che è analogo a quello
sperimentato dalla giurisprudenza nell’ambito della responsabilità medica. Laddove non è certo
l’esito dell’operazione si postula una percentuale che è quella del 30% laddove diventa
particolarmente complesso trovare ed accertare il nesso di causalità tra la condotta colposa e la
perdita della posta finale ossia della soccombenza in giudizio. Allorché questa causalità incerta vi
sia, è il caso di stabilire una proporzionalità tra il danno del professionista negligente e l’attivismo
del suo cliente che viene percentualizzato così come nella responsabilità medica.
Il problema dell’assicurazione del commercialista.
Il commercialista può ricorrere a delle polizze assicurative per limitare le frange di rischio insite
nell’esercizio della libera professione.
Il codice deontologico della professione di dottore commercialista approvato nel 2008, stabilisce
che il professionista deve porsi in condizione di poter risarcire eventuali danni causati nell’esercizio
della professione anche mediante adeguata copertura assicurativa (art.14 codice di deontologia
professionale approvato nel 2008 dal consiglio nazionale dei dottori commercialisti e dei
professionisti contabili).

Il danno causato dal dottore commercialista e dal professionista, può essere attenuata dall'obbligo
assicurativo che oggi è esteso per legge in seguito al DPR numero 137 del 2012 che dà attuazione
alla legge 148 del 2011 e in particolare la violazione della norma sulla copertura assicurativa del
professionista, quindi rappresenta un illecito disciplinare. Bisogna vedere questa copertura

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assicurativa, cosa può comprendere, perché può comprendere anche l'attività di custodia di
documenti e valori del cliente che il professionista, al momento dell’assunzione dell'incarico può
ricevere in consegna, per cui, nel caso in cui ci sia questa attività di custodia di documenti e valori, è
onere del professionista rendere nota al cliente gli estremi della polizza professionale massimale e
ogni variazione successiva proprio perché questo è un obbligo deontologico.
L'assicurazione professionale può coprire anche attività che non siano tipiche del commercialista, a
meno che non vi siano delle clausole particolari e, in particolare, la Suprema Corte di Cassazione si
è pronunciata con riferimento ad un consulente del lavoro, le cui competenze talvolta si
sovrappongono e si accompagnano a quelle del commercialista. In particolare, il caso era quello di
un contratto di locazione che a dire della parte non veniva ricompreso nella copertura assicurativa.
La Cassazione decise che la predisposizione di un contratto di locazione, pur non essendo vietata in
linea di principio al consulente del lavoro in quanto si tratta di attività per la quale non è prevista
alcuna riserva a favore di specifiche categorie professionali, non rientra nelle attività tipiche previste
per il consulente del lavoro, come si vede dalla legge n°12/1979. Art. 2, a norma della quale il
consulente del lavoro svolge per conto del datore di lavoro tutti gli adempimenti previsti da norme
vigenti per l'amministrazione del personale dipendente, nonché ogni altra funzione a ciò affine,
pertanto la Cassazione non riconosceva il diritto al risarcimento del danno per l’attività di
predisposizione del contratto di locazione, proprio che non rientrava nella sua competenza, per cui
anche relativamente a questo aspetto, sarà necessario verificare quali possono essere i sinistri
professionali che rientrano nella polizza assicurativa.
Si è discusso, per altro, se la polizza di responsabilità civile professionale stipulata da un
commercialista o da un avvocato possa comprendere i rischi derivanti dallo svolgimento dell'attività
di curatore fallimentare.
La Corte di Cassazione ha avuto modo di esprimersi e ha affermato che qualora un commercialista
stipuli una polizza per la copertura dei rischi derivanti dalla propria attività professionale, rientra
nella garanzia anche il rischio inerente lo svolgimento dell'attività di curatore fallimentare visto che
nel momento in cui veniva stipulata la polizza, l'attività di curatore fallimentare rientrava tra le
attività ricomprese e riservate al commercialista per legge, a meno che nella polizza dette attività
fossero espressamente escluse. Andando a vedere questa sentenza del 2005 della Cassazione, la n°
15.030, qualora il curatore fallimentare commercialista sia responsabile ai sensi del combinato
disposto degli articoli 38, comma uno, legge Fallimentare e articolo 2043 del codice civile, ossia del
risarcimento di un danno ingiusto cagionato nell'espletamento della sua attività di ausiliare di
giustizia, l'assicuratore della responsabilità civile per la sua attività professionale deve tenerlo
indenne, salvo che il rischio sia espressamente escluso dal contratto, considerato che l'attività di
curatore fallimentare rientra tra le possibili attività professionali specificamente previste per i
commercialisti dalla legge e in quanto il professionista intellettuale non esaurisce la sua attività
nell'ambito delle disposizioni codicistiche che vengono dalla Cassazione indicati negli articoli 2227,
2230, ossia relative al contratto di prestazione d'opera intellettuale ma continua a restare un
professionista, anche quando, nell'ambito di tale attività, espleta un incarico giudiziario, che sia
quindi curatore fallimentare, notaio delegato allo scioglimento delle divisioni, consulente tecnico
d'ufficio, in relazione al quale svolge le funzioni di pubblico ufficiale, ossia di pubblici poteri.
Questo orientamento ha trovato conferma successivamente, in quanto l'attività di curatore
fallimentare è esercitata, di regola, dai professionisti contabili. Chiaramente questa linea della
giurisprudenza è assolutamente da condividere in quanto l'oggetto del contratto assicurativo, quindi
l'estensione del rischio garantito, non può che coincidere con tutte le attività consentite al
commercialista, a meno che l'assicurazione non abbia espressamente provveduto ad escludere quella
determinata attività da cui è derivato un danno ai creditori, alla procedura fallimentare o a terzi.
Il contratto di assicurazione per la responsabilità civile del commercialista può contenere delle
clausole, dette claims made, in base a queste clausole, l'assicuratore può coprire delle condotte del
professionista concluse prima della conclusione del contratto di prestazione d'opera, ma la cui
domanda di risarcimento del danno sia proposta in periodo successivo alla conclusione del contratto
e quindi in questo caso il problema è che il contratto è stato concluso relativamente ad un

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determinato periodo e il danno si è verificato successivamente. La Suprema Corte si è pronunciata,


nel senso che l'estensione della copertura della responsabilità dell'assicurato scaturente da fatti
commessi prima della stipula del contratto, secondo la Corte di Cassazione e, quindi, secondo
questa clausola claims made, non fa venire meno il rischio e con esso la validità del contratto se al
momento della stipula si ignorava l'esistenza di questi fatti, potendosi in caso contrario opporre la
responsabilità per dichiarazioni inesatte o reticenti. Quindi diciamo che questa è una clausola
abbastanza dubbia nella sua interpretazione, perché in realtà è necessario verificare determinate
presupposti ossia se il contraente ossia il commercialista, nel momento in cui andava a concludere il
contratto, sapendo che arriva posto in essere degli atti dai quali sarebbero potuti derivare dei danni,
ha posto in essere delle dichiarazioni inesatte e reticenti, perché in tal caso il contratto potrebbe
essere appunto annullato in quanto il contraente era in mala fede nel momento in cui ha concluso
questo contratto, ben sapendo che aveva posto in essere delle fattispecie da cui sarebbe potuto
derivare un danno. Possiamo sicuramente dire che non è assolutamente priva di dubbi l'ipotesi in cui
le fattispecie dalle quali si sia originato il danno, nel caso in cui siano precedenti, non è detto che
rimangano escluse dalla copertura contrattuale. Sicuramente sono escluse se c'è dolo da parte del
professionista, ossia se il professionista sapeva di aver in qualche modo concluso dolosamente un
contratto di assicurazione, sapendo che si poteva verificare un danno; laddove invece non vi è un
dolo, non vi è assoluta inerenza tra il danno che si è verificato, il contratto di assicurazione concluso
successivamente, allora sarà possibile accertare la copertura assicurativa. Tuttavia, bisogna dire
anche che è un punto molto delicato questo della conclusione di un contratto di assicurazione a
copertura del rischio professionale, proprio perché le compagnie di assicurazioni innanzitutto sono
molto attente nell'individuazione dell'oggetto del contratto, escludendo quelle attività del
commercialista che sono più rischiose. Seconda ipotesi, la commisurazione del premio da pagare
rispetto al rischio corso dall'assicurazione ed ancora, altro elemento è quello della pattuizione, che è
una clausola vessatoria assolutamente ricorrente in tutti i contratti di assicurazione, ossia il diritto di
recesso dell'assicurazione nel momento in cui viene notificato un danno da parte dell'assicurato,
anche per responsabilità professionale, perché talvolta da un singolo danno di un professionista ne
derivano a cascata altri, per cui l'assicurazione recede immediatamente dal contratto per evitare che
vi sia un aggravamento del rischio. Citiamo questa sentenza della Cassazione del 2011, in base alla
quale nei contratti di assicurazione contro i danni che prevedano la determinazione del premio in
base ad elementi variabili. cosiddetta assicurazione con la clausola di regolazione del premio,
l'obbligo dell’assicurato di comunicare periodicamente all'assicuratore gli elementi variabili
costituisce oggetto di un'obbligazione civile diversa da quelle indicate nell'articolo 1901 il cui
inadempimento non comporta l'automatica sospensione della garanzia, ma può giustificare un tale
effetto, così come la risoluzione del contratto solo in base ai principi generali in tema di importanza
dell'inadempimento e di buona fede nell'esecuzione del contratto; quindi aggravamento del premio,
risoluzione del contratto, recesso dal contratto sono tutti rimedi che l'assicurazione, la compagnia di
assicurazione, si riserva per evitare di andare incontro ad un eccessivo aggravamento del rischio. In
altra sentenza, invece, la Cassazione, in assenza di esclusioni, le parti era stata offerta dalla
compagnia di assicurazione una copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile
professionale e anche questa volta si trattava di un avvocato, l'avvocato invocava la garanzia per
l'attività svolta quale curatore fallimentare.
Ora la Cassazione, come nelle ipotesi notevoli e numerose in cui è intervenuta per i rischi derivanti
da attività di curatore svolto da dottore commercialista, ha riconosciuto che il rischio assicurato
deve espressamente comprendere anche l'attività di curatore, in quanto questa viene svolta in via del
tutto normale dagli avvocati e che pertanto, come tale, costituisce attività professionale
dell'avvocato.
Sicuramente una fattispecie che è molto ricorrente, parlando di responsabilità del dottore
commercialista, è quella della reticenza o mancata conoscenza di determinati particolari. La
reticenza nell'ambito della responsabilità del dottore commercialista incide in duplice senso, perché
si può avere reticenza da parte del cliente che omette di portare a conoscenza del commercialista
determinati particolari della propria attività che sono determinanti ai fini dello svolgimento della

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professione di dottore commercialista, Quindi la reticenza da parte del cliente chiaramente rende
l'attività del dottore commercialista assolutamente più complessa e reticenza che incide nel vaglio
della veridicità dei documenti trattati, quindi, il commercialista deve assumersi completamente in
toto la responsabilità degli atti che va a porre in essere, e significa che questa responsabilità non può
essere assunta ogni qualvolta il commercialista non voglia assumersi la responsabilità della
veridicità della documentazione portata dal cliente, quindi o ricorre ad una clausola di esonero di
responsabilità relativamente alla veridicità dei dati proposti, oppure le sue competenze saranno tali
che potrà, attraverso un'analisi di coerenza di tutte le scritture contabili e di tutta la documentazione
a propria disposizione, fare gli opportuni riscontri che lo mettono al riparo, al sicuro da ogni forma
di reticenza o di omissione da parte del cliente e, per altro verso il commercialista può essere
imputato di dolo o reticenza nel momento in cui va a concludere un'assicurazione laddove vi è il
pericolo che gli venga sollevata un'azione di responsabilità proprio perché il mezzo attraverso il
quale si fa valere la responsabilità professionale del commercialista è proprio l'azione di
responsabilità, questa azione di responsabilità può essere iniziata dal medesimo tribunale nel
momento in cui il commercialista è adibito all'esercizio di funzioni di pubblico ufficiale, ossia
laddove vi siano delle gravi omissioni e venga meno il rapporto di fiducia tra il Tribunale che ha
dato l'incarico ed il professionista, allora lì può essere intrapresa un'azione di responsabilità nei
confronti del professionista e questo può avvenire quando il professionista si sia reso manchevole
nella proposizione di ricorsi tempestivamente, oppure nella intraprendere delle azioni come per
esempio le azioni revocatorie, oppure nell’omissione di determinati accertamenti che devono
necessariamente essere fatti, come per esempio la presenza di garanzie nel momento in cui il
commercialista, per esempio, nell'ambito del fallimento svolge una serie di attività preparatorie
notevoli quanto a complessità, che possono consistere nell'analisi dei titoli di garanzia che assistono
i singoli crediti che partecipano al concorso dei creditori e l'errata valutazione comporta sicuramente
delle responsabilità per cui si può avere un'azione di responsabilità nei confronti del curatore
fallimentare che sia un dottore commercialista o che sia un avvocato.
Altra responsabilità può nascere, per esempio, dalla conclusione di un contratto che possa in realtà
portare ad un vantaggio per la curatela ma a un danno per i creditori come può essere per esempio la
conclusione di un contratto di locazione su immobile, che sia casa del fallito e che comporti un
ritardo nell'espletamento nella conclusione della procedura concorsuale oppure nella mancata
intrapresa di un'azione revocatoria o altro.
Quindi molte sono le fattispecie che rientrano nella responsabilità professionale, altra forma di
responsabilità che incombe sul commercialista è quella ex art. 1228 del Codice civile; infatti, il
commercialista laddove si avvalga di terzi nell'esercizio delle proprie delle proprie funzioni
risponderà anche dei fatti dolosi o colposi che riguardano questi terzi. Si tratta evidentemente di un
richiamo all'articolo 1228 che prevede la responsabilità per il fatto degli ausiliari, si tratta di una
forma di responsabilità oggettiva del professionista che esula da una colpa di inadempimento, in
quanto, in effetti il commercialista risponde per culpa in eligendo e colpa in vigilando relativamente
all' operato dei suoi ausiliari. Naturalmente viene applicato anche in questo caso l'articolo 1229 che
prevede le clausole di esonero da responsabilità che, secondo l'articolo 1229 sono nulle. Infatti,
secondo il 1229 è nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente, la responsabilità del
debitore per dolo o colpa grave; è nulla, altresì, qualsiasi patto preventivo di esonero o limitazione
di responsabilità per i casi in cui il debitore o i suoi ausiliari abbiano posto in essere violazioni che
riguardano l'ordine pubblico; quindi, queste sono tutte le norme richiamabili per la responsabilità
del professionista.

8 novembre (17)

L’ambiente in termini generali e la responsabilità per danno ambientale.

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Il 30 e il 31 ottobre, abbiamo visto per la prima volta, attraverso due riunioni mondiali, il primo è il
G20 che si è tenuto a Roma e si è giunti a determinati risultati, e poi c’è stato COP26 a Glasgow che
ha avuto ulteriori conseguenze.
La tolleranza del G20 che si è svolta a Roma, l’unico risultato importante è che al G20 abbiano
partecipato gli stati uniti, che si erano sempre rifiutati, in tutte le occasioni che vi erano state di
incontri, di sedersi al tavolo delle nazioni per parlare di ambiente.
La scelta del presidente Trump, che comunque era una scelta che veniva dal passato, poiché anche i
capi di stato precedenti come Obama avevano sempre rifiutato qualsiasi accordo sul clima, perché
nel gioco mondiale delle potenze qualsiasi limitazione allo sviluppo industriale veniva visto come
una limitazione al proprio potere mondiale, e quindi si riaiutavano di partecipare a trattative che
avessero per oggetto la salvaguardia ambientale.
In realtà gli stati uniti sulla loro pelle hanno dovuto convincersi della necessità di partecipare alle
trattava mondiali sul clima, sia per la crisi indotta dal covid19, che anche in America ha fatto tante
vittime, ma anche per i fenomeni come uragani e di agenti atmosferici incontrollati, altro non sono
che affetto del clima.
Nel 1992 ci fu il più grande meeting mondiale sull’ambiente, in cui per la prima volta si posero
degli obbiettivi per il ventunesimo secolo, mentre oggi si parla degli obbiettivi del 2050, e all’epoca
le grande questioni mondiali si trattava solo la deforestazione, il clima e la fame nel mondo, queste
si sono rivelate cruciali ancora oggi, perché il clima con l’assottigliarsi della barriera di ozono che
consente ai raggi violetti di penetrare sul pianeta e di introdurre tutta una serie di modificazioni, era
manovrabile da quel punto di vista, e date le circostanze cui si poneva il problema determinati stati,
come oggi ancora la Cina, la Russia e gli stati uniti, si rifiutavano di pattuire qualsiasi cosa
sull’ambiente.
La questione ambientale, quindi, è stata evidenziata per molti anni, ma non ha mai trovato, sino alla
crisi del covid19, una giusta considerazione.
Lo sviluppo sostenibile è un punto d’arrivo, di un grande processo che all’inizio parlava di
sostenibilità semplicemente facendo riferimento alle varie componenti dell’ambiente.
Innanzitutto, non si aveva idea di cosa fosse l’ambiente, l’ambiente come bene unitario è una
concezioni di arrivo e non un punto di partenza perché si parte con una concezione di ambiente che
cerva di mettere insieme le varie componenti che sono:
• l’ecologia da intendersi come le singole componenti dell’ambiente vale a dire acqua, aria, suolo,
che sono le comprendi naturali.
• Ambiente come paesaggio, quindi il paesaggio è da intendersi come ambiti territoriali pregiati
da tutelate, perché il paesaggio non è qualsiasi elemento del mondo, ma è un contesto dotato di
un valore estetico culturale e in quanto tale ritiene una tutela.
• La terza è urbanistica territorio, cioè ambiente inteso come l’assetto della pianificazione
territoriale che deve essere organizzato, salvaguardato, stabilito da tutto un sistema di
pianificazione che non può essere lasciato al caso.
Quindi da questa concezione ideata, elaborata da Massimo Severo Giannini che è uno dei primi
studiosi della ambiente si passo ad altre concezioni che articolavano queste competiti, pero è ancora
assente la concezione di ambiente come tutt’uno.
In particolare, varie concezioni si sono succedute fino ad arrivare all’inclusione, non solo di queste
componenti naturali ma in particolare della presenza dell’uomo nell’ambiente.
È vero ambiente è fata di paesaggi, di territori, di elementi naturali ma nell’ambiente c’è anche
l’uomo e in quanto tale va salvaguardato.
Ulteriore step è stato quello dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente, e qui nasce il problema dello
sviluppo sostenibile che non si pone allo stesso modo in tutti i paesi del mondo, perché non tutti
hanno lo stesso punto di partenza, ci sono dei paesi che sono più industrializzati, dei paesi che sono
meno industrializzati, e dei paesi che non hanno nemmeno conosciuto lo sviluppo ma sono ricchi di
risorse naturali. Il contrasto in materia di ambiente si pone proprio tra paesi ricchi e paesi poveri e
poi il terzo genere sono i paesi dell’est, che sono particolari, perché i paesi ricchi sono i paesi a
capitalismo avanzato che sono identificati prevalentemente con l’occidente, con l’Europa, gli stati

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uniti, tutti i paesi industrializzati in cui si insegue sempre lo sviluppo tecnologico all’ennesi potenza,
e non si è mai posto fino all’epoca che stiamo vivendo un problema di tutela delle risorse naturali,
ma l’obiettivo era sempre lo sviluppo all’ennesima potenza.
A questi paesi ricchi di tecnologie e poveri di risorse naturali si appongono i paesi del sud del
mondo come l’africa, l’amazzonia, il Brasile, l’America Latina, tutti stati che sono stati colonizzati
e sono stati sottoposti a sfruttamenti delle loro risorse naturali.
Quindi il contrasto in materia ambientale è proprio tra paesi del sud del mondo e paesi del nord del
mondo, e questo contratto consiste che da un lato i paesi del nord del mondo parlano di sviluppo
sostenibile, all’inizio si parlava di sostenibilità ambientale, come sogli massima di sviluppo
sostenibile salvaguardando le possibilità di vita future delle attuali e delle future generazioni,
viceversa i paesi del sud del mondo non parlano in questi termini di sviluppo sostenibile perché
reclamano innanzitutto allo sfruttamento delle proprie risorse naturali e un diritto al proprio
sviluppo, quindi mentre i paesi ricchi hanno sfruttato al massimo le risorse dei territori colonizzati
adesso i paesi del sud del mondo si rendono conto di essere stati sfruttati al massimo , e di essere
rimasti in uno stato di arretratezza culturale e tecnologica e rivendicano un diritto allo sviluppo.
Tant’è che in questi paesi afflitti dal covid non c’è stata la stessa reazione a livello sanitario e a
livello di intervento per bloccare la pandemia.
A questi due gruppi di stati, quelli del sud e quelli del nord del mondo, aggiungiamo una terza
categoria che è quella dei paesi dell’est, ovvero Ungheria, Romania, Bulgaria, che hanno comprato
le tecnologie obsolete dei paesi del nord del mondo creando un’industria inquinante; quindi, è come
si strigassero trenta anni indietro rispetto a noi.
Quindi questo mondo ha tre velocità che oggi è riunito per cercare una soluzione non solo per la
salvaguardia delle risorse ai fini di garantire vita alla generazioni future, ma proprio alla vita delle
generazioni attuali che sono in pericolo, e questa è una svolta che non ci si aspettava perché la c’è
teoria sostenuta da illustrissimi scienziati Montagnier , Montessori, e che il covid sia stato operato in
laboratorio, che sia tutta una forzatura che la Cina ha provocato questa pandemia per ragioni di
mercato e che è tutto artificiale.
Se stiamo ad analizzare tutte le scelte politiche europee, considerando che l’Europa da sola è
responsabile del 10% delle emissioni mondiali quindi da sola può fare poco, è necessario un
concerto mondiale.
Le posizioni e le scelte europeistiche non ci fanno assolutamente pensare che si sia dato credito a
questa teoria del virus creato in laboratorio, perché se noi andiamo a vedere il piano azionario
cosiddetto BMR, e che si articola du dei lastri fondamentali che sono la digitalizzazione, la sfida
della transizione ecologica, la salute.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è il piano che l’Italia ha dovuto elaborare per
avvalersi di un pacchetto di 750 milioni di euro da immettere nell’economia per poter riprendersi
dalla crisi provocata dal covid.
L’Europa ha detto all’Italia e ad altri paesi membri, che avranno i fondi che rosso risorse di 191,5
miliardi di euro; tuttavia, fu necessario portare avanti un piano che soddisfi determinati obiettivi che
sono:
• la digitalizzazione, che va insieme all’innovazione
• La transizione ecologica
• E l’infusione sociale
Questi sono gli obbiettivi condivisi a livello europeo, e vediamo l’articolazione delle varie missioni,
in particolare sono 6 che sono state individuate dal piano e sono
• articolazioni della digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura.
• La seconda rivoluzione verde, e transizione ecologica
• La terza, infrastrutture per una mobilita sostenibile
• Il quarto è istruzione e ricerca
Questi pilastri sono aiutati che vengono dati all’Italia dall’Europa, perché ha capito che senza
l’Italia non va da nessuna parte, perché l’Italia ha i migliori cervelli, le migliori tecnologie, la

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migliore posizione geografica, il mediterraneo, e senza queste componenti l’Europa non va da


nessuna parte.
Quindi una volta che l’Europa si è resa conto delle cruciali della presenza dell’Italia in Europa, ha
dato fiducia all’Italia attraverso il PNRR.
• il quinto e ultimo pilastro è quello della salute
Però questi soldi non sono stati dati a pioggia come è stato fatto in passato ma sono stati dati per
attuale un mondo che sia dal punto di vista ambientale informato a una transizione ecologica che
deve consentire di porre fine ad un processo che sembra irreversibile di danneggiamento di quella
che è una componente fondamentale la biodiversità.
La BIODIVERSITA’ è proprio la salvaguardia del genoma (la componente genetica) di tutte le
fattispecie animali e vegetali esistenti, se l’inquinamento altera queste componenti le conseguenze le
vediamo in termini di virus, in termini di malattie.
(Allora la scelta dell’Europa, non è stata quella di dare credito al virus creato dal laboratorio ma
l’Europa ha fatto proprio uno studio dell’ONU e di organizzazione mondiale della sanità, secondo
cui il problema del covid19 altro non è che il frutto dell’inquinamento che è il frutto di
un’alterazione di una componente fondamentale che il nostro legislatore aveva già messo a fuoco).

Noi abbiamo sempre avuto problemi di influenza, il covid lo abbiamo già avuto in passato ma non
lo sapevamo, oggi si chiama covid 19 ma ce ne sono stati altri in passato, ma non si è sviluppato a
livello di pandemia, questo è diventato a livello di pandemia secondo uno studio dell’organizzazione
mondiale della sanità perché si è verificato un cambiamento della biodiversità tale che si è verificato
il cosiddetto salto di specie, cioè determinate malattie che prima erano legate a determinate specie
animale come i pipistrelli, hanno fatto un salto di specie e sono passati nel cosiddetto spillover, e
sono passati all’uomo, questo passaggio non si era verificato a livello pandemico, si era verificato
per esempio nel 1918 ci fu la spagnola, ci fu una coincidenza con l’esercito perché la spagnola
venne denunciata in Spagna ma nasce in Cina anche essa per un esperimento militare che si stava
svolgendo nel periodo in chi c’era anche la guerra mondiale e per cui ci fu il propagarsi di questa
influenza in tutto il mondo e passarono ben tre anni prima che la spagnola esaurisse i suoi effetti, si
chiamo spagnola perché la Spagna mise a fuoco questa influenza, perché gli stati coinvolti nel
primo conflitto mondiale non lo denunciavano perché volevano che non si sapesse ma in realtà
tantissimi militari morivano per questa influenza.

Detto ciò l’Europa dall’Italia vuole un’Europa resiliente, un Europa che effettui un cambio di
tecnologie industriali, perché questi soldi non sono dati perché le fabbriche sono state chiuse e
quindi devono avere soldi, o agli imprenditori che non hanno potuto lavorare in periodo di covid,
ma questi investimenti vengono dati perché si deve cambiare il sistema di produzione dell’Europa,
si deve passare da un sistema basato sul carbone e sui combustibili fossili, ad un sistema che sfrutta
energie alternative che sono quelle che vengono dalla luce del sole, dall’eolico, dall’acqua ma anche
la tecnologia basata sul rifiuto, cioè l’obbiettivo della transizione ecologica è un rifiuto zero, cioè
dalla produzione industriale non devono residuare prodotti nocivi per l’ambiente, cioè non devono
residuare materie nocive per l’ambiente, per cui il processo di cambiamento non è quello di
investire soldi per produrre reddito ma è quello di convertire tutto l’impianto industriale dell’Italia,
per fare un impianto industriale nuovo bastato su tecnologie pulite a rifiuti zero. Questa è la svolta
che ci viene chiesta dall’Europa e di cui noi dobbiamo essere consapevoli, cioè il rifiuto deve
sparire non ci devono essere più rifiuti.
Questo progresso e questa tappa prende il nome di BLUE ECONOMY, (nel PNRR si parla di
GREEN ECONOMY), in realtà gli studiosi di questa materia sono andati oltre al Green economy,
cioè la Green economy è ancora quella che vuole far vivere l’ambiente, invece la blue economy è
quel tipo di economia che vuole concludere l’economia circolare, significa che non ci devono essere
rifiuti, cioè anche il rifiuto deve rientrare nel ciclo produttivo ed essere trasformato in un prodotto
che non danneggia l’ambiente. Questa è l’economia circolare e questa è la svolta che si vuole
imprimere e questa è la sfida a cui siamo chiamati in materia Green.

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Questa svolta comporta dei cambiamenti grossissimi a livello di tutte le altre missione che abbiamo
visto per la sfida, ad esempio, della digitalizzazione non è una sia isolata ma è connessa alla volontà
di limitare l’inquinamento perché se si digitalizza, se si producono dei nuovi sistemi di lavoro, per
esempio lo smart working , o comunque limitare la circolazione delle persone, delle cose e delle
merci , migliorare i traffici come vediamo nel piano nazionale di impresa e resilienza, tutte queste
missioni del piano sono tra loro collegate e sono finalizzate alla transizione ecologica. Noi abbiamo
un sistema, di comunicazioni che è assolutamente fallimentare, per cui portare marci da un posto
all’altro bisogna fare un tragitto che è altamente inquinante; quindi, anche queste infrastrutture per
una mobilità sostenibile è un fattore che va a ripercuotersi sull’ambiente.
Quindi è tutto subordinato alla transizione ecologica, cioè alla svolta Green del nostro paese, che
non sarà semplice, ma ci vengono dati i mezzi.

Alla luce di tutto ciò, siamo passati dalla concezione dell’ambiente che doveva fare ricorso ai
concetti di paesaggio, territorio e ecologia, al PNRR con le scelte di transizione ecologica che
parlano di sviluppo sostenibile in termini estremi, perché se andiamo avanti di questo passo,
l’estinzione è vicina.
Per questo motivo per la prima volta il presidente americano si è seduto al tavolo dei negoziati G20.
In particolare, il G20 è stato visto come un successo anche dal nostro presidente del consiglio ma
semplicemente perché si sono seduti per la prima volta tutti i paesi, e si sono impegnati a contenere
il riscaldamento climatico entro gli 1,5 gradi senza porsi una data, con impegno a lungo termine che
dovrebbe essere il 2050.
Stop ai combustibili fossili, questo è l’altro accordo. Sul carbone i finanziamenti pubblici
internazionali non saranno più stanziati e si cercherà una nuova capacità di generazione elettrica
entro l’anno, questo è l’altro impegno preso. Cioè stop a tutti finanziamenti per i combustibili fossili
e per la corruzione dell’energia elettrica da combustibili fossili.

La sfida sui combustibili fossili è fondamentale perché non possiamo più operare (?) le risorse della
terra. Nello stesso tempo però l’auto elettrica non è competitiva per questo l’Europa si è mossa,
perché ha capito che avrebbe perso la sfida con la Cina e il Giappone sulla produzione delle auto
elettriche, se non avesse immesso capitali sufficienti per favorire gli studi sulla mobilità sostenibile,
perché in realtà oggi un’auto elettrica fa 50 km di più non ne fa per questo siamo arretrati. Laddove
invece la tecnologia cinese e giapponese è molto più avanti.
Tutta l’operazione ecobonus, come l’azione di efficientamento energetico dell’ecobonus non è
un’agevolazione ma è una necessità che deriva dal fatto che bisogna evitare la dispersione di valore,
e bisogno favorire l’apposizione delle economie elettriche in tutte le case, pero il sistema non
funziona perché non si riesce ad andare avanti nel fare tutte queste attività che vengono richiese con
urgenza , per cui il meccanismo va perfezionato, c’è obsolescenza di strutture, di amministrazione
che impedisce al momento che tutto questo decolli, allora sarà necessario che vi sia un impegno in
questi settori.
Quindi è necessario l’auto impegno per eliminazione dei finanziamenti per i carboni fossi, e
l’impegno sulla fine delle emissioni a metà del secolo, per il 2050 dovremmo viaggiare ad
emissioni zero .
Ancora tra le iniziative vi è l’urgenza di combattere il degrado del suolo cioè, il secondo problema
che è stato individuato nel 1998 al primo meet mondiale sull’ambiente che si tenne nel giugno 1998
a rio de Janeiro è la deforestazione , anche questo è stato un moto centrale, indicato come variabile
strategica fondamentale infatti l’urgenza di combattere il degrado del suolo e creare nuove vasche di
assorbimento del carbonio, l’obbiettivo è quello di piantare collettivamente mille miliardi di alberi
concentrandosi sugli ecosistemi più degradati del pianeta.
Questo si legge sulla dichiarazione finale del vertice di Roma del G20, e questo è un obbiettivo
fondamentale perché questa esigenza nasce perché già nel 1998 era stato evidenziato un Problema
della deforestazione perché quello che veniva definito il più grande gommone del mondo Assia la
foresta amazzonica stava morendo sin dal 1998, sia per lo sfruttamento degli alberi che venivano

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tagliati e destinati alle industrie dei paesi occidentali, ma anche perché il clima, le variazioni
climatiche determinate dal buco dell’ozono e quindi dalla penetrazione dei raggi ultravioletti e
anche dal clima , il pianeta si surriscalda si sciolgono i ghiacciai e i fiumi dell’amazzonia che
avevano il loro scorrimento normale salgono di livello e ammazzano gli alberi, quindi gli alberi in
amazzonia sono tutti spenti e bianchi perché sono sommersi dall’acqua provocata dalle piogge
tropicali che sono sempre più violente.
Per concludere, il secondo meeting che si è tenuto a Glasgow il 5 novembre 2021 il cosiddetto
Youth for Climate, che è un’esperienza straordinaria che ha coinvolto tanti giovani, ecco perché
l’immagine di Greta è forte e rappresenta le possibilità di vita future. C’erano circa 400 giovani
delegati e sono nate molte proposte urgenti per combattere la crisi climatica, in realtà è stata creata
una piattaforma permanete dedicata proprio ai giovani e che è stata inaugurata dal nostro ministrato
della transizione ecologica, CIGOLANI, a Glasgow proprio alla fine della giornata dedicata ai
giovani.
Questo grande movimento di giovani che è nato, è improntato proprio sulla condivisione di progetti
e sviluppo di azioni concrete, nuove iniziative per connettere tra loro i giovani e creare nuovi
modelli di business sostenibili imprenditoriali, nuovi posti di lavoro per migliorare le sinergie
esistenti.
Anche se il risultato è stato un po’ deludente di questi due meeting mondiali. Di positivo c’è stata la
partecipazione degli stati uniti ma non quella della Cina e della Russia che non hanno partecipato,
secondo aspetto positivo è la partecipazione e la sensibilizzazione dei giovani.

9 novembre (18)
Parliamo dello sviluppo sostenibile, come nel tempo si viene a sviluppare e come si verifica il
passaggio da una concezione tradizionale di una sostenibilità ambientale ad una concezione di
nuova sostenibilità, che oggi chiamiamo transizione ecologica, che parte dal presupposto che
non ci sia un sistema di tutela dell’ambiente come dovrebbe esserci.
Il nostro discorso dà la necessità di valorizzare la biodiversità e cercare quelle che possono
essere le tecniche legislative per far sì che determinate aree del nostro paese siano sottoposte ad
un rigido controllo relativamente alla biodiversità; il problema è quello di individuare delle
forme di zonizzazione, cioè la ripartizione del territorio in zone in cui l’obiettivo prioritario deve
essere quello di ripristinare gli habitat che sono stati violati, laddove habitat è quello umano, il
contesto ambientale in cui l’uomo riceve la migliore sinergia con la natura e con gli altri
elementi viventi; ma anche l’habitat animale e vegetale che può contribuire al benessere
collettivo, un equilibrio di biodiversità; tuttavia, la nuova legislazione in materia di ambiente
attraverso la promozione di un principio di zonizzazione deve pervenire ad un risultato che non
sia un ingessamento del territorio in un vincolo così come lo conoscevamo in passato, la
cosiddetta legislazione *decodistica*.
Il sistema di tutela era rappresentato dalla posizione dei vincoli; abbiamo il vincolo per bellezza
paesaggistica, il vincolo per bellezza storico-artistica archeologica ecc.
La logica del vincolo non è una logica attuale ma è necessario introdurre un principio di
zonizzazione che possiamo definire dinamico, tale da esplicare degli effetti in entrambi i sensi,
nel senso che la presenza in una determinata zona di specie animali e vegetali che tra di loro
coesistono e vengono tutelate, deve essere di per sé un elemento attrattivo di risorse. In questo
modo si riesce a coniugare tutela e sviluppo attraverso delle forme di zonizzazione dinamica, di
tutela dinamica e sostenibile che vuole valorizzare sia il livello paesaggistico sia le
caratteristiche dei luoghi che possono essere relative a tradizioni e a condizioni tipiche di
determinati luoghi e che non precluda delle forme di sviluppo economico, anche di mercato,
senza che ciò comporti un’alterazione dell’ambiente.
L’originario rapporto in cui per la prima volta si parlò di sviluppo sostenibile, il c.d. rapporto
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broutland del 1987, è una pietra miliare dello sviluppo sostenibile, in cui per la prima volta si
sostenne la necessità di individuare quella soglia di sviluppo che sia sostenibile e non
pregiudichi le possibilità di vita per le generazioni future. Quell’approccio del rapporto
broutland vedeva una tutela passiva della natura e dei beni e precludeva l’accesso dell’uomo a
degli ambiti territoriali e ambientali che dovevano essere preservati e tutelati e in cui la presenza
dell’uomo doveva essere assolutamente inibita.
Quest’ottica è la stessa della legge istitutiva sull’ambiente italiana, la logica che è alla base della
prima legge sull’ambiente 349/1986 che introduce il ministero dell’ambiente, la tutela
ambientale ma soprattutto la prima azione di danno ambientale con l’art. 18, in cui l’ambiente
era subordinato al fatto che quel contesto territoriale o ambientale fosse già sottoposto ad una
disciplina di tutela (es. se io abbatto un albero qui fuori non danneggio un ambiente; se invece
abbatto un albero in un ambito in cui c’è l’istituzione della riserva naturale ho perpetrato un
danno all’ambiente).
Questa concezione che vuole immobilizzare la natura per la sua tutela può dirsi superato (ce l’ha
dimostrato anche la pandemia), perché il problema è assicurare un livello di tutela ambientale
tale che non venga compromesso l’ecosistema nel suo complesso. Vediamo che la zonizzazione
dinamica del contesto in cui si vive che comporta al tempo stesso delle forme di tutela ma anche
di sviluppo è l’unico approccio possibile che nasce dalla consapevolezza di dover realizzare una
sostenibilità sistemica, globale in cui i temi ambientali ed ecologici travalichino i confini
territoriali per arrivare all’economia e all’impresa. Ed ecco che così viene a configurarsi oggi il
concetto di sostenibilità di impresa che è sintesi di tutte le azioni poste nell’ambito delle
attività urbane che devono essere informate ad un senso di responsabilità che possiamo anche
etichettare come responsabilità sociale nell’impresa, questo è il punto in cui si vuole realizzare
una sostenibilità ambientale che coinvolga anche l’impresa. Questo concetto è stato messo a
fuoco proprio grazie alla pandemia da covid-19 che ha consentito di sviluppare concetti nuovi
che non venivano presi in considerazioni, invece oggi le categorie più potenti si muovono in
quel senso, nel senso di dotarsi di strumenti di misurazioni delle performance in termini di
responsabilità sociale, cioè i costi che un’impresa ha nella società che non sono solo costi di
materie prime ma costi di benessere delle persone coinvolte in un’attività produttiva; in questo
contesto vengono messi in evidenza dei principi costituzionali ai quali possiamo fare riferimento
anche per la tutela dell’ambiente.
Art. 32 della Costituzione che pone la salute come bene primario, prima e oltre il profitto;
quindi, la criticità della situazione attuale potrà essere cambiata solamente con un massiccio
intervento finanziario sull’apparato produttivo del paese che ponga la salute dell’uomo al centro
del sistema produttivo.
Questi fondi ingenti che saranno stanziati dovranno servire a creare degli ambienti di lavoro di
vita sani per rispetto dell’art. 32; nello stesso tempo possiamo richiamare l’art. 118 comma 4
della Costituzione per riferirci al principio di sussidiarietà verticale tra pubblici doveri e
orizzontale tra pubblico e privato, in modo da azionare delle leve che possano portare il concetto
della funzione sociale che nasce con la proprietà (art.42), ed è il caso di estendere la funzione
sociale della proprietà anche agli ambienti di lavoro, perché è importante fare in modo che ci sia
un’attuazione del principio di sussidiarietà quindi una collaborazione sia tra il singolo privato e
il pubblico e sia tra i vari poteri nell’ambito del singolo Stato; quindi, l’arrivo di ingenti fondi da
parte della comunità europea altro non è che attuazione del principio di sussidiarietà verticale
per cui dall’UE questi fondi sono arrivati in Italia, per questo principio ma anche per solidarietà
perché c’è stata l’esigenza di rigenerare la nostra economia.
In questo senso le imprese che si trovano ad operare nel mercato devono allargare le proprie
prospettive per estendere al centro dell’attività non solo il profitto ma anche il rispetto per i
dipendenti di un’azienda, per i consumatori del mercato, per l’ambiente ecc.; tutto questo altro
non fa che generare un approccio nuovo alla sostenibilità d’impresa e alla responsabilità sociale.
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In linea con questo nuovo statuto dell’impresa c’è la figura dell’imprenditore che non può
rimanere estranea al discorso di cui stiamo parlando, abbiamo visto questi valori come, per
esempio, l’interesse ambientale che deve assolutamente contaminare l’art. 2082 (definizione di
imprenditore); così come dobbiamo fare riferimento alla penetrazione della sostenibilità
ambientale nei rapporti patrimoniali e nell’ecosostenibilità.
Quindi, creazione di nohow improntati al rispetto della natura e dell’ambiente e creazione di
condizioni lavorative nei luoghi di lavoro che siano a condizione di sicurezza, cioè noi
dobbiamo abituarci a vivere in condizioni di sicurezza e non dobbiamo pensare che siano misure
emergenziali perché se queste diventano delle regole (es. Smart working, distanziamento tra i
lavoratori, circolazione d’aria) si eviteranno dei lockdown, per cui questo sistema fondato sulla
responsabilità sociale può essere l’unico che ci evita il ricorso al lockdown generalizzato e fa in
modo che queste misure che nascono come straordinarie e diventano ordinarie vanno ad evitare
il buio assoluto. Questo nuovo approccio non è contrario alla Costituzione. Durante il lockdown
si parlava di deriva autoritaria, di violazione delle libertà fondamentali, come la libertà di
circolazione, come il diritto di difesa, erano sospese tutte le cause civili e penali, c’erano tutta
una serie di art. 41-42, la tutela della salute, dell’iniziativa economica e si parlava di violazione
dei principi costituzionali; la Costituzione è fatta di ponderazione di valori cioè ci sono dei
valori che devono o possono prevalere rispetto ad altri; il divieto di circolazione o divieto di
assembramento era contrario all’art. 2 della Costituzione che prevede la libertà di associarsi, ma
se questa compressione è determinata da cause maggiori che sono la sicurezza nazionale, la
salute e la sicurezza della popolazione, non si può parlare di compressione delle libertà ma si
parla di priorità di un valore rispetto ad un altro; così come il “contact tracing” cioè il
tracciamento della popolazione non è una misura autoritaria di remissione della libertà
individuale ma è un’espressione di ponderazione di valori che tra la libertà di circolazione e di
associarsi fa prevalere la salute e la sicurezza nazionale. Tutte queste voci e affermazioni di
principi in realtà hanno ceduto il passo a quello che è un principio che non è assolutamente
definito nella Costituzione che è l’ambiente che non ha una definizione precisa nella
Costituzione, ma è “confuso”, si parla espressamente di ambiente nell’art. 117 comma 1 lettera s
della Cost. perché la tutela dell’ambiente dell’ecosistema e dei beni culturali viene assegnato
alla competenza esclusiva dello Stato e quindi si nomina ambiente, solo in questo contesto viene
nominato l’ambiente. Questa costruzione è per certi versi poco chiara relativamente al rispetto
che bisogna avere dell’ambiente e per cui tutta una serie di prerogative che sembravano
compromesse, in termini costituzionali gli art. 13-16-17-18-24-33-34 della Cost. così siccome la
leale collaborazione tra Stati e regioni (es. contrasti nel periodo del lockdown relativamente alle
disposizioni), tutto ciò rientra nel principio della leale collaborazione tra Stato e regione che
deve portarti ad un equo contemperamento delle varie libertà personali.
Gli stessi poteri del Presidente del Consiglio sono stati considerati illegittimi perché non si
poteva precludere libertà fondamentali con i DPCM; in sintesi per evitare che vi siano in futuro
equivoci bisognerà giungere ad un ripristino dei cicli di biodiversità naturali che potranno essere
realizzati attraverso degli interventi ambientali che possono essere così articolati: innanzitutto
sviluppare e rafforzare il contributo che le c.d. riserve di biosfera possono conferire
all’ambiente. (In realtà delle riserve di biosfera i nostri governanti ancora non ne sanno niente
ma sono arrivati a dire che bisogna piantare tantissimi alberi).
Le riserve di biosfera sono degli ambiti ambientali tutelati perché in questo ambito ci sono delle
specie vegetali e animali particolarmente rare che indicano una tutela di quegli ambiti ma non
perché queste specie sono in via di estinzione ma perché se queste specie si estinguono si altera
il meccanismo della biodiversità; quindi, anche il legislatore è consapevole della rilevanza della
biodiversità, tant’è che il codice dell’ambiente, il decreto legislativo 152/2006, si basa sulla
tutela della biodiversità. Le riserve di biosfera sono fondamentali per il mantenimento della
biodiversità; quindi, la prima azione fondamentale è lo sviluppo del contributo che le riserve di
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biosfera sono in grado di conferire all’ambiente attraverso accordi nazionali, internazionali che
promuovano la conservazione dello sviluppo sostenibile attraverso la stipula di convenzioni,
prima fra tutti la convenzione sulla diversità biologica, gli accordi sui cambiamenti climatici, le
desertificazioni e le foreste.
Secondo punto: ampliamento dell’ambito destinabile allo sviluppo della biosfera, destinando
delle regioni delle vaste aree (per esempio: zona da Capua a Castel Volturno zone abbandonate
che potrebbero essere destinate a riserve di biosfera).
Terzo punto: valorizzazione della ricerca scientifica del monitoraggio dell’ambiente e delle
tecniche che sono funzionali ad estendere lo sviluppo sostenibile innanzitutto nella tutela delle
componenti naturali elementari che sono il suolo, l’aria e l’acqua. Questi obiettivi possono
provare adeguata realizzazione attraverso la determinazione di standard di qualità ambientali per
le singole componenti naturali, quindi fissare dei limiti al di là del quale non si deve andare per
l’aria, per l’acqua e per il suolo; poi il ricorso massiccio alle procedure di via e vas, la procedura
di via è la valutazione di impatto ambientale per singole opere (per esempio: se devo
realizzare un ospedale la valutazione dell’impatto ambientale deve studiare quale impatto ha
sull’ambiente la realizzazione dell’ospedale o di un cementificio ecc.); poi c’è la vas
(valutazione ambientale strategica) che è applicata a progetti e a pianificazioni che tiene in
considerazione come le variabili possano avere degli effetti sull’ambiente (es: se faccio un
piano industriale o un piano per il turismo per una regione dovrò sottoporlo alla vas). Solo
partendo da questi presupposti si verificherà la transizione ecologica del nostro sistema, il codice
dell’ambiente ossia il decreto 152/2006 pone tutte queste previsioni all’attenzione di tutti;
tuttavia, le sue esposizioni sono rimaste inattuate e comunque non sono riuscite a terminare i
nodi fondamentali del nostro sistema ambientale.
Il problema è che è necessario stabilire dei target che devono essere rispettati, per il rispetto ci
vuole il controllo. A livello comunitario avvicinandoci alla tematica della responsabilità del
danno ambientale sono stati emanati due principi:
- principio di precauzione: prevenzione alla fonte del danno, cercare che il danno si verifichi.
- principio del “chi inquina paga”: individuare colui che ha inquinato e sottoporlo ad una
sanzione, dove la sanzione non deve essere monetaria ma una sanzione di ripristino in forma
specifica.
Esistono vari tipi di risarcimento, monetario e in forma specifica. In materia di ambiente
nessun valore può avere risarcimento equivalente monetario, l’unico valore importante è il
risarcimento in forma specifica e proprio nel rispetto di queste priorità sarà compito delle
pubbliche amministrazioni adottare una logica di recupero dei rifiuti mediante riciclo, rimpiego,
riutilizzo e ogni altra azione tesa ad ottenere materie prime o secondarie nonché l’adozione di
tecnologie che consentano l’uso dei rifiuti come fonti di energia. Questa è l’essenza della
transizione ecologica; questo, però, ci viene dal Decreto legislativo n° 59 del 2005 e altri
decreti di recepimento della direttiva 96/61 in materia di previsione e riduzione integrate
dell’inquinamento.
Il principio della gestione integrata dei rifiuti è proprio il nocciolo di tutta questa vicenda ed è
fondamentale l’economia circolare ossia un’economia basata sul recupero di uso e riciclo, che è
diverso da ciò che facciamo oggi perché noi oggi facciamo la raccolta differenziata che ci separa
dalle varie componenti che dovrebbero essere destinate al riciclo, però c’è sempre un rifiuto;
un’altra svolta interessante è quello che riguarda i materiali di produzione, cioè sono sempre più
pressanti i divieti che ci vengono dalla comunità europea nell’utilizzare materie prime naturali
che devono essere sostituite da materie prime create in laboratorio con procedimenti
ingegneristici il cui risultato è una materia molto simile alla materia prima naturale ma che non
prevede lo sfruttamento della materia naturale, ci riferiamo alla pelle, le borse di pelle non
esisteranno più perché c’è una direttiva europea che prevede che la pelle animale sia vietata e
già le principali multinazionali lussuose (es. Borse Louis Vuitton) non esisterà più la vera pelle
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perché sarà sostituita da una pelle ecologica che consentirà di risparmiare le risorse naturali e
questo rientra nell’attuazione delle direttive europee.
Per quanto riguarda le sanzioni, noi abbiamo semplicemente a livello civile l’azione di danno
ambientale, tuttavia l’azione di danno ambientale è assolutamente insufficiente ed inadeguata
per tutelare l’ambiente, molto più si è fatto a livello del diritto penale con gli articoli 727 bis e
733 bis che riguarda la tutela penalistica dell’ambiente attraverso il cosiddetto “getto pericoloso
di cose” e finisce col prevedere il reato di inquinamento ambientale, introdotto sin dal 2001 con
l’articolo 25 undecies del d.lgs. 231; nello specifico, commette questo reato chiunque
abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile delle
acque, dell’aria o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo, di un ecosistema,
della biodiversità, della flora e della fauna. È un reato molto efficace dal punto di vista della sua
capacità di avversare l’inquinamento.
Il reato prevede un aggravante per la persona fisica nel caso in cui l’inquinamento si ha in
un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico,
architettonico o archeologico, il danno a specie animali e vegetali protette.
Sono previste espressamente applicazioni di sentenze interdittive dell’esercizio di azienda
dall’art. 9 d.lgs. 231 del 2001 per un periodo tale che sia possibile richiedere di ottenere
un’autorizzazione di carattere generale; queste sanzioni potrebbero essere particolarmente
efficaci nella tutela dell’ambiente. Possiamo anche citare l’applicazione della disciplina
interdittiva nell’ipotesi di stabilimenti che riguardano l’allegato 4 della parte V del d.lgs. 156 del
2006 che in realtà riguardano determinati tipi di produzioni che devono essere sottoposte a delle
particolari restrizioni.
Ulteriori questioni sono la realizzazione degli obiettivi che derivano dal protocollo di Kyoto
che fu il primo protocollo che pose dei limiti alle emissioni in attuazione della direttiva 2001/77
attuata in Italia col d.lgs. 387 del 2003, questa direttiva riguarda gli impianti industriali,
l’obbligo di recupero dei vapori e le prescrizioni relative alla produzione di autoveicoli, che non
devono superare determinati limiti delle emissioni, andando incontro in tal caso alle sanzioni
penali richiamate dall’art. 279 del d.lgs. 152 del 2006 vale a dire il codice dell’ambiente.
Le sanzioni vanno dalla diffida all’assegnazione di un termine entro il quale bisogna eliminare le
irregolarità; oppure diffida e sospensione dell’attività per un periodo di tempo determinato ove
si manifestano delle situazioni di pericolo per la salute e per l’ambiente in genere.

Bonifica e ripristino ambientale.


Questi interventi di bonifica trovano una propria regolamentazione nei piani di bonifica emanati
dalla regione. Al verificarsi di un evento potenzialmente idoneo è necessario che il responsabile
del sito entro 24h adotti le misure necessarie per evitare che il superamento delle soglie
dell’inquinamento possa compromettere l’ambiente; questi obblighi impongono sulla pubblica
amministrazione che le regioni hanno il compito di stilare l’elenco dei siti da bonificare. Si
aggiunge a questa disposizione che è prevista dall’art. 242, la carta delle bonifiche sostenibili
che è un’indicazione di principio sulla bonifica e il 18 giugno 2020 i principali soggetti
istituzionali hanno sottoscritto questa carta proprio per dar vita ad azioni dirette alla
salvaguardia ambientale ed è stato stilato un documento strategico che anche in considerazione
delle implicazioni della pandemia da covid 19, si totalizzano i principi di sostenibilità
ambientale, economica, temporale, sanitaria ed etica a cui devono essere ispirati gli interventi
delle bonifiche dei siti potenzialmente contaminabili e contaminati.
Gli obiettivi da realizzare nella carta delle bonifiche sono previsti per il 2030, dovranno messi in
sicurezza tutti i siti in pericolo e dovranno essere bonificati.
Le linee di azioni sono la semplificazione amministrativa al fine di ridurre i tempi degli
interventi e di elevare gli standard di qualità per gli ambiti interessati agli interventi di bonifica,
favorire la formazione delle tematiche ambientali al fine di consentire la crescita della
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specializzazione di specialisti, migliorare il livello informativo dei giovani e favorire la


centralità delle missioni ambientali con valenza strategica prioritaria nella ricostruzione
economica e di mercato.
Priorità da seguire: investire nella conservazione del rimanente capitale naturale, suoni e acqua
di falda; riconoscere l’importanza dei servizi ecosistemici, favorire la crescita del capitale
naturale riducendo il degrado, promuovere e migliorare l’efficienza dell’azione di bonifica in
termini economici, temporali e sanitari.

12 novembre (19)
SEMPRE DANNO AMBIENTALE.
Si parla da tanti anni di danno ambientale sebbene solo oggi si vada alla ricerca di modi
stringenti per ottenere una forma di risarcimento.
Ora possiamo dire che già dagli anni 80 sulla base delle semplici due fondamentali norme della
Costituzione, l'articolo 9 e l’articolo 32, ci si è orientati per la configurazione di ambiente come
bene giuridico unitario e questo è stato un risultato abbastanza complesso, anche se forse stiamo
assistendo ad una sorta di retromarcia, perché si è partiti con una concezione di ambiente come
ecologia, cioè come somma dei vari elementi naturali e poi da questo concetto di ambiente come
ecologia man mano ci si è spostati da livello teorico di inquadramento sistematico ad una
concezione di ambiente più complessa che considerasse il contesto naturale come ambito
unitario all'interno del quale troviamo anche l'uomo e quindi si è passati al concetto di sviluppo
sostenibile.
Per quanto riguarda la normativa sul danno ambientale, questo percorso che va dalle singole
componenti al generale che è rappresentato dal bene ambiente unitario, anche come legittimato
dalla costituzione negli articoli 9 e 32, fa un piccolo passo indietro col codice dell'ambiente
perché il codice dell'ambiente si riferisce alle singole componenti naturali nelle sue interazioni,
cioè alla biodiversità.
Abbiamo detto che con l'introduzione dell'articolo 18 della legge 349 del 1986 che è stato
abrogato dall'articolo 318 del testo unico però sebbene sia stato abrogato vi è una
contestualizzazione temporale del danno e significa che fino all'entrata in vigore del codice
dell'ambiente, le fattispecie di danno che risalgono al periodo precedente non sono
regolamentate e disciplinate dal codice dell'ambiente, ma sono regolamentate ai sensi
dell'articolo 18 della legge 349 del 1986;
per cui è assolutamente attuale trattare l'articolo 18 della legge 349 dell'86 che prevede
l'istituzione del ministero dell'ambiente e delle norme in tema di danno ambientale;
con questo articolo 18 viene definito il danno ambientale senza che vi sia una preliminare
definizione di ambiente.
Chiaramente l'articolo 18 si sofferma soprattutto su profili risarcitori a fronte di compromissioni
ambientali.
Per quanto riguarda la definizione dell'ambiente più che altro ci si riferisce alla nota sentenza del
1987 la numero 641 con la quale la Corte costituzionale viene chiamata a decidere sulla
legittimità dell'articolo 18 della legge 349 del 1986 ed in questa sentenza la Corte costituzionale
afferma che l'ambiente costituisce un bene immateriale unitario anche se ha varie componenti,
ciascuna delle quali può anche costituire isolatamente e separatamente oggetto di cura e tutela,
ma tutte nell'insieme riconducibili ad unità.
Possiamo pertanto dire che da questa definizione dell'ambiente, nata a livello giurisprudenziale
da alta giurisprudenza della Corte costituzionale, per la prima volta viene individuato l'ambiente
come bene giuridico unitario e però nell'ambiente, sebbene costituisca un bene immateriale
unitario, vengono riconosciute nell'ambito di questa unitarietà le singole componenti che
contribuiscono alla sua conformazione; inoltre il fatto che l'ambiente si venga a collocare come
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un bene fruibile in varie forme, non fa venir meno di questa sostanziale unitarietà. Si può
sicuramente affermare, come ha fatto la Corte costituzionale, che l'ambiente rappresenta un
valore primario e assoluto protetto da norme di rango costituzionale, (che sono l'articolo 9 e
l'articolo 32 della Costituzione) ancora prima che venisse delineato il contesto previsto
dall'articolo 18 della legge 349 dell'86, che pur non definendo l'ambiente definisce il danno
ambientale.
Anche la riforma della carta costituzionale che è intervenuta con la legge costituzionale
numero 3 del 2001 ha introdotto per la prima volta la parola ambiente nella costituzione non
per definirlo ma per assegnarne la competenza in termini legislativi, cioè la legge 3 del 2001
finalmente attua la suddivisione delle competenze tra stato e regioni e, quindi, individua le
competenze esclusive dello Stato e le competenze concorrenti in cui lo stato concorre con le
Regioni, e l'ambiente è una materia che viene assegnata alla competenza dello Stato e invece la
valorizzazione viene assegnata alle regioni.
Passiamo all'articolo 18 della legge 349 del 1986 in base al quale “qualunque fatto doloso o
colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che
comprometta l'ambiente arrecando danno, alterandolo, deteriorando o distruggendolo in
tutto o in parte obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”; quindi
vediamo che questa è la definizione di danno ambientale configurata dall'articolo 18 della legge
349 dell’86 in cui il legislatore effettua un'operazione di trasposizione dell'articolo 2043, ossia
della norma cardine della responsabilità da illecito extracontrattuale che viene trasposta ed
applicata al danno; quindi, il danno all'ambiente è una fattispecie che vuole riunire le
conseguenze negative perpetrate nell'ambiente o nei confronti di una risorsa che viene una
considerata unitaria, vale a dire flora, fauna, aria, acqua o suolo, oppure integrata; la definizione
è abbastanza onnicomprensiva e non esclude un approccio integrato che è stato prevalente nel
codice dell'ambiente;
in termini giuridici quindi il danno ambientale fa riferimento a comportamenti umani o indotti
da pratiche antropiche che implicano delle responsabilità civili e, di conseguenza, obbligano al
risarcimento e con il termine alterazione il legislatore ha inteso ogni modificazione che viene
apportata alla risorsa rispetto al suo precedentemente stato e indipendentemente dalla
circostanza che questa modificazione sia reversibile o irreversibile in termini di ripristino dello
Stato dei luoghi; per deterioramento invece si fa riferimento alle varie forme di peggioramento
che di tipo qualitativo o quantitativo che il bene ambientale può subire;
la distruzione riguarda l'atto che porta al venir meno di un bene o di una risorsa nella sua
totalità o parzialmente; il bene viene danneggiato e questo è il danno ambientale e non può
essere talvolta quantificabile a causa delle varie origini di questo danno, questo implica delle
difficoltà di valutazione del danno stesso.
Ora c'è da porre l'attenzione in questa disciplina sul passaggio successivo “a qualunque fatto
doloso o colposo”. C’è da tenere in considerazione un’ulteriore dizione e cioè che “in violazione
di disposizione di legge o di provvedimenti adottati in base alla legge”, in questo caso si fa
riferimento, con questa dizione, all'esistenza di una normativa di tutela del bene cosicché il
danneggiamento viene ad incarnare la violazione di una legge o di provvedimenti adottati in
base alla legge.
Quindi è danno all'ambiente qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizione di
legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente.
L'articolo 18 non dice che “qualunque fatto doloso o colposo che comprometta l'ambiente”,
perché in tal caso non ci sarebbe differenza con la successiva definizione di danno ambientale
proposta dal codice dell'ambiente, ma la locuzione che poi è stata eliminata dal codice
dell'ambiente è questa: “in violazione di disposizione di legge o provvedimenti adottati in base a
legge che comprometta l'ambiente”; quindi, non è qualsiasi atto che comprometta l'ambiente
danno ambientale ma solamente qualsiasi atto doloso colposo che violi la legge o una
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disposizione di legge che comprometta l'ambiente; quindi, è necessario che il bene ambientale
sul quale vada ad essere esercitata l'azione dell'uomo sia tutelato da un precedente
provvedimento di legge o provvedimento adottato in base a legge, ossia una normativa di tutela.
Esempio: legge istitutiva delle aree naturali protette che sottopone a una speciale normativa di
tutela tutto un ambito territoriale, per cui se io vado ad abbattere un albero in un'area naturale
protetta questa fattispecie è danno ambientale perché altera la biodiversità e perché c'è la legge
istitutiva delle aree protette che tutela quell'ambito territoriale; se io invece abbatto un albero
che è lungo la strada che collega Capua a san Tammaro io non commetto danno ambientale.
Questa particolare definizione di danno ambientale non viene riproposta in questi termini nel
codice dell'ambiente e quindi la responsabilità civile nei confronti del danno ambientale è stata
introdotta a livello nazionale anche in ossequio a dei principi comunitari vigenti anche prima
dell'entrata in vigore del codice dell'ambiente, ossia “chi inquina paga” che è il principio
fondamentale in materia ambientale, che ha proprio come scopo quello di prevenire il danno
ambientale rendendo più responsabili coloro che pongono in essere degli atti o delle pratiche
dalle quali risulti un danno o possa verificarsi che si produca un danno. La proposizione
dell'azione di danno ambientale avverrà attraverso la proposizione d’istanza del giudice
ordinario nell'ambito di un procedimento penale o civile; affinché un danno sia risarcibile
verifichiamo quali sono i presupposti:
-Il danno sia causato da un fatto doloso o colposo, commissivo o omissivo;
-Compiuto in violazione di una disposizione di legge o di provvedimenti adottati in base a legge;
-Che siano identificati gli autori del fatto dannoso;
-Che il danno non sia determinato in termini di alterazione, modificazione, deterioramento o
distruzione totale o parziale di una risorsa ambientale;
-Che venga dimostrato il rapporto causale tra fatto doloso e danno ambientale.
Quindi, vediamo come ci sia una riproposizione della struttura dell'articolo 2043.
Ai sensi dell'articolo 18, 3° comma della legge 349 dell'86, lo stato o l'ente territoriale
competente richiede al giudice un'azione di risarcimento verso lo stato, quindi vediamo una
strana conformazione dell'articolo 18 della legge 349 dell'86, cioè lo stato deve agire per
ottenere il risarcimento del danno e il destinatario del risarcimento del danno è lo stato.
Tuttavia, prendiamo in considerazione l'articolo 18, 6° comma che recita che “il giudice ove
non sia possibile una quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via
equitativa, tenendo conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il
ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento
lesivo di beni ambientali”.
Lo stesso articolo ai sensi del comma 8 dice che “il giudice nella sentenza di condanna
dispone, ove possibile, il ripristino dello Stato dei luoghi a spese del responsabile” , quindi,
ci dobbiamo ricollegare, per quanto riguarda il risarcimento, all'articolo 2058 del codice civile in
base al quale sono previste due forme di risarcimento ossia: il danneggiato può richiedere il
risarcimento come reintegrazione in forma specifica; qualora sia in tutto o in parte possibile, il
giudice può imporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se questa reintegrazione
in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore. Quindi, in via prioritaria
troviamo il risarcimento in forma specifica; invece, laddove sia eccessivamente oneroso il
risarcimento per equivalente.
Però è da precisare che il risarcimento per equivalente è possibile solamente nelle ipotesi in cui
non sia possibile ripristinare l'ambiente, nel senso di ripristinare il cosiddetto status quo ante,
ossia la situazione precedente alle al momento in cui si verificasse un evento che determina
l'alterazione ambientale, e non ci sono dei criteri in base ai quali determinare il risarcimento per
equivalente, quindi questo risarcimento per equivalente è rimesso assolutamente alla
discrezionalità del giudice, esso può essere determinato facendo ricorso all'articolo 2056, ossia
facendo riferimento alle categorie del danno emergente e del lucro cessante, che comunque si
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devono trovare in un rapporto di causalità con il fatto che ha determinato il danno ambientale. Il
ripristino dei luoghi è il primo oggetto dell'ordinanza del giudice ma questo ripristino è
strettamente connesso alla possibilità oggettiva e concreta di portare l'ambiente nello stesso stato
in cui si trovava precedentemente all'evento dannoso. Invece, attraverso la valutazione
equitativa cioè per equivalente patrimoniale, il giudice dovrà considerare i criteri espressamente
indicati dalla normativa, ossia la gravità della colpa del responsabile e il costo necessario per il
ripristino e anche il profitto conseguito dal trasgressore. Quindi, in realtà, questa valutazione per
equivalente ci fa immediatamente pensare ad una sanzione della responsabilità per danno
all'ambiente, cioè il legislatore sostituisce il pregiudizio patrimoniale subito in seguito alla
condotta con i criteri precedentemente elencati; cioè, sono dei criteri che portano verso proprio
un aggravamento della sanzione, ossia dell'entità del risarcimento nel caso in cui vi sia anche un
profitto e non semplicemente un danno.
Questa era la situazione relativa al quadro precedente all'emanazione della direttiva 2004/35
sulla responsabilità ambientale; cioè, questa direttiva cambia un po’ la prospettiva e anche
l'ottica di intervento del legislatore, perché viene assolutamente messa in primo piano la
riparazione del danno causato alle risorse naturali nel contesto di una politica europea di
integrazione, quindi, non interessa il risarcimento per equivalente che poi vedremo addirittura
escluso per il danno ambientale, ma interessa esclusivamente il ripristino e si cerca di
uniformare la disciplina del danno ambientale italiana a quella di tutti gli altri Stati europei.
Un primo passo in tal senso era già stato fatto nel 1989, anno in cui la commissione europea
inquadrò il problema dei danni causati dai rifiuti alle persone e alle cose; un'ulteriore proposta fu
fatta nel 1991 sempre dalla commissione europea al consiglio e in questa proposta si
evidenziavano le innovazioni sistematiche che avrebbero potuto determinare un discostarsi dal
risarcimento per equivalente e poi con la convenzione di Lugano per la prima volta viene
introdotta una definizione giuridica di ambienti a livello comunitario come quel contesto le cui
componenti fondamentali comprendono non solo le risorse naturali, come dice esattamente la
convenzione di Lugano, biotiche, abiotiche e paesaggistiche suscettibili di danneggiamento ma
anche l'interazione tra le medesime nonché l'alterazione del paesaggio e del patrimonio
culturale; altro documento di fondamentale rilevanza il cosiddetto Libro verde in cui la
comunità europea esamina l'utilità della responsabilità civile ed impone dei parametri di
comportamento per obbligare i responsabili dell'inquinamento a sostenere il costo causato dal
danno e ad attuare quindi la politica e il principio del chi inquina paga; nel 2000 la commissione
europea propone il Libro bianco sulla responsabilità per danno all'ambiente, in cui si prevede
per la prima volta un sistema più complesso di danno, perché si passa dal semplice danno alla
biodiversità all'ipotesi più complessa di danno alla contaminazione dei siti, cosicché i soggetti
responsabile responsabili della contaminazione sono le persone che esercitano il controllo sulla
attività produttrice del danno, per cui la conformazione dell'azione di danno ambientale
riproduce l'approccio del Libro bianco che stabilisce degli ulteriori principi che sono
l’irretroattività della disciplina che quindi potrà essere applicata esclusivamente a danni che si
verificano da quel momento in avanti e poi la responsabilità oggettiva per danno causato da
attività intrinsecamente pericolosa oppure la responsabilità per colpa per il danno alla
biodiversità causato da attività non pericolose;
l'aspetto più significativo è rappresentato dalla cosiddetta “financial responsability” ossia
responsabilità finanziaria quale strumento per garantire la copertura dei rischi da danno
all'ambiente. L'ultima tappa del cammino verso l'emanazione della direttiva 2004 del 35 è la
proposta avanzata dalla commissione nel 2002 che introduce nella politica comunitaria
ambientale non solo il danno all'ambiente quindi da intendersi come episodio puntuale ma
proprio la contaminazione dei siti e inoltre viene posta in primo piano la necessità
dell'attuazione del principio del chi inquina paga che rappresenta la base giuridica della
normativa comunitaria attuabile laddove in sostanza si sia realizzato si sia realizzata una
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contaminazione.

Quindi in quest'ottica quindi nell'obiettivo di attuare il principio del chi inquina paga quindi la
cosiddetta responsabilità finanziaria del debitore, nel 2004 viene emanata la direttiva 2004/35 e
viene evidenziato come questa direttiva più che nei confronti del danno ambientale vero e
proprio, vuole intervenire proprio sulla contaminazione dei siti e come da questa
contaminazione dei siti possa derivare un danno alla salute. Per cui è chiaro nella direttiva
l'intento di prevenire e riparare il danno ambientale, considerando anche i costi che questo danno
ambientale ha per la società in termini sanitari, cioè in termini di spese che uno stato deve
supportare per far fronte alle conseguenze del danno ambientale; in particolare, la definizione
danno ambientale nella direttiva è contenuta all'articolo 2, paragrafi 1 e 2 che, pur
presupponendo un concetto unitario di ambiente, suddivide l’ ambiente in tre diverse fattispecie
che sono:
-il danno alla specie e agli habitat naturali protetti;
-il danno alle acque;
-il danno al terreno;
Col primo, vale a dire specie e habitat naturali protetti, ci si riferisce ai danni che producono
degli effetti nocivi ai fini del mantenimento di uno stato di conservazione favorevole alle specie
e agli habitat; è evidente quindi la connessione con la tutela della biodiversità.
Stesso discorso per il danno alle acque e stesso discorso per il danno al terreno, vale a dire
qualsiasi contaminazione del terreno che crei un rischio significativo per la salute umana, a
seguito dell'introduzione diretta o indiretta nel suolo o nel sottosuolo, di sostanze preparati
organismi o micro organismi; in ordine alle attività alle quali è applicabile questo regime
speciale di responsabilità per danno ambientale, la direttiva introduce i criteri di selezione o
quella che viene chiamata una metodologia selettiva.
In particolare, la direttiva ci serve a interpretare poi quello che è il codice dell'ambiente che è
stato emanato in attuazione della direttiva. Le attività a cui si riferisce la direttiva sono quelle
professionali, il cui svolgimento può determinare un rischio reale o potenziale per la salute e per
l'ambiente e il regime di responsabilità, infatti, è assolutamente basato su un soggetto che è un
professionista e che è chiamato a rispondere per il danno ambientale e la direttiva fa riferimento
a due forme di attività professionali rispetto alle quali vi è una differenziazione dei regimi di
responsabilità.
La prima forma riguarda le attività indicate nell'allegato alla direttiva e che necessitano dei
requisiti normativamente previsti come, per esempio, l'ottenimento di un'autorizzazione perché
rappresentano un rischio reale o potenziale per la salute e per l'ambiente; l'altra forma di danno,
quindi tutte le attività che per definizione sono idonee a provocare danno e che sono contenuti
nell'allegato alla direttiva; e poi il danno alla biodiversità che invece è escluso da qualsiasi tipo
di attività professionale che sia produttiva di un danno, purché venga accertato il dolo o la colpa
del professionista o operatore e nel contesto di queste specificità, gli operatori devono essere
soggetti ben identificabili e il danno deve essere oltre che concreto, misurabile e, inoltre, deve
essere individuabile il nesso causale tra il danno e l'attività dei singoli operatori. Attraverso
questo nesso causale emerge la responsabilità civile degli operatori quali responsabili effettivi
del danno e del suo risarcimento in termini di costi, in termini di prevenzione e in termini di
riparazione; infatti, la direttiva istituisce proprio un quadro per la responsabilità ambientale che è
fondato sui due principi:
-il principio del chi inquina paga;
-il principio della riparazione e prevenzione del danno ambientale;
Nella direttiva rispetto al Libro bianco apporta delle innovazioni. Innanzitutto l'esclusione dei
danni tradizionali e cioè quelli che non sono riconducibili all'attività d'impresa e l'eliminazione
di ipotesi di responsabilità, oltre che l'eliminazione di tutto il sistema di diretta imputabilità del
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danno perché viene introdotta un'ampia discrezionalità agli Stati membri circa l'individuazione
dei criteri soggettivi di imputazione del danno.
Possiamo sicuramente tutte sintetizzare gli elementi presenti nella direttiva: innanzitutto la
qualifica di operatore di attività professionale, quindi, se un “x” qualsiasi provoca un danno
all'ambiente questo non rientra nell'ambito della direttiva; rientrano, invece, nell'ambito della
direttiva le azioni poste in essere dall'operatore o da chi pone in essere un'azione come attività
professionale;
poi secondo elemento, la sussistenza di un nesso di causalità tra l'attività dell’agente e la
realizzazione del danno ambientale. Chiaramente la responsabilità dell'operatore porta con sé
l'obbligo di sostenere i costi di prevenzione e riparazione del danno, obbligo che viene escluso
nell'ipotesi in cui non sia attribuibile all'operatore un comportamento doloso o colposo e anche
nell'ipotesi in cui il danno si sia verificato in presenza di due particolari situazioni: la prima
situazione è quella che prevede che l'operatore non è responsabile se un'operazione se
un'emissione o un evento siano stati espressamente autorizzati dall'autorità pubblica e la
seconda ipotesi è quella che prevede un'esenzione dalla responsabilità se l'operatore prova che
le emissioni sono state causa del danno ambientale in base alle conoscenze tecnico scientifiche
esistenti al momento del rilascio dell'emissione dell'esecuzione dell'attività.
Possiamo dire che nella disciplina della direttiva non vi è il ricorso a dei criteri equitativi nel
senso che la compensazione o la riparazione per equivalente non è contemplata dalla direttiva,
ma esclusivamente il risarcimento in forma specifica. Particolare rilevanza in tal senso e anche
nell'ottica di evitare che si verifichino danni ambientali viene dato proprio all'azione di
prevenzione del danno ambientale e in particolare, per attuare l'azione preventiva è obbligo
dell'operatore professionale realizzare tutta una serie di misure di prevenzione per far sì che non
si verifichi neanche la minaccia imminente del danno ambientale e questo al fine di minimizzare
il danno stesso. Invece, le misure di riparazione devono portare al ripristino o addirittura alla
sostituzione delle risorse naturali danneggiate fornendo una soluzione alternativa e in particolare
all'articolo 7 della direttiva vengono determinate le misure di riparazione a cui attenersi
distinguendo che si tratti di danno all'acqua, agli habitat naturali predetti oppure al terreno. A tal
proposito vengono illustrati tre criteri di riparazione:
La prima è la cosiddetta riparazione primaria, con cui si si cerca di riportare le risorse e i
servizi danneggiati alle condizioni precedenti il danneggiamento, se nonostante ciò le risorse e i
servizi danneggiati non tornano alle condizioni originarie si passa ad una cosiddetta riparazione
complementare, con cui si cerca anche da un sito diverso da danneggiato di ottenere un livello
di risorse e servizi analoghi a quello che era il contesto ambientale precedentemente al danno,
per esempio: distruggo tutta una piantagione di alberi, in quel posto non è possibile ricostituire
lo status quo ante però lo ricostruisco in un altro ambiente; poi abbiamo un altro tipo di
riparazione cioè quella compensativa che si concretizza in qualsiasi intervento volto a
compensare la perdita temporanea di risorse e servizi naturali che sono stati scompensati dal
danno, fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo.
Tuttavia, possiamo dire che dalla direttiva sono esclusi, dal suo ambito di attività di operatività,
gli effetti della tossicità dei prodotti oppure emissioni nei confronti di persone fisiche, mentre vi
rientrano tutte le forme di danno provocate da inquinamento delle acque interne europee, dalla
contaminazione dei terreni, dalla riduzione di specie che danno la biodiversità, nonché quei
danni che colpiscono le specie naturali protette dalle direttive sugli habitat e sugli uccelli.
Naturalmente nel complesso e sembra evidente che vi sia stata un radicale cambio di
orientamento nell'approccio alla tutela ambientale attraverso la disciplina del danno ambientale,
proprio perché questa direttiva va ad impattare specialmente il mondo delle imprese più che
l'ambiente in generale.
Vediamo come in realtà la direttiva sia stata poi recepita dal legislatore italiano attraverso il
decreto legislativo del 3 Aprile 2006 e in particolare il decreto legislativo, proprio sul danno
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ambientale, che dagli articoli 299 al 318 disciplina proprio il danno ambientale e prevede la
sostituzione dell'intera disciplina del danno ambientale contenuta nell'articolo 18 della legge 349
del 1986 che viene abrogata dall'articolo 318 del testo unico dell'ambiente emanato nel 2006 e
cioè il decreto legislativo 152 del 2006.
Ora la definizione di danno ambientale che viene prevista nell'articolo 300, al primo comma, e
che va a sostituire l'articolo 18 della legge 349 dell'86 è la seguente: “qualsiasi deterioramento
significativo e misurabile diretto o indiretto di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata
da quest'ultima” questo è, per il codice dell'ambiente, il danno ambientale. Quindi, con
l'espressa limitazione conformemente alla direttiva, al danno, alle specie e agli habitat protetti, a
delle acque del terreno, salvo l'esclusione previste dall'articolo 303.
Queste esclusioni riguardano i conflitti bellici, tutti i casi che si sono verificati prima dell'entrata
in vigore del codice dell'ambiente.
Il codice dell'ambiente riproduce tutta una serie di disposizioni attuative del principio di
precauzione e del principio del “chi inquina paga” introducendo tutta una serie di prescrizioni
sull'auto controllo dell'operatore, ossia del soggetto che esercita l'attività pericolosa o l'attività
professionale a rilevanza ambientale. In particolare, quando un danno ambientale ancora non si è
verificato o non esiste oppure pur non essendosi verificato esiste una minaccia imminente che si
verifichi, sono delle edizioni utilizzate per evidenziare come l'azione che si voglia svolgere sia
preventiva. Viene altresì individuato nell'ambito dell'azione preventiva un'azione di controllo in
capo al ministero dell'ambiente che viene a svolgere un ruolo centrale nell'individuazione sia
delle misure di prevenzione del danno, sia nelle misure di ripristino laddove il danno ambientale
si verifichi e queste sono disposizioni previste nell'articolo 305 e 308 del codice dell'ambiente.
Dobbiamo anche notare un ridimensionamento del ruolo degli enti locali che hanno solo la
facoltà di sollecitare l'intervento statale in caso di inerzia o di omissioni può ricorrere
all'intervento statale, vale a dire il comune o le comunità montane, ma non sono legittimate ad
agire o ad intervenire in sede di processo per danno ambientale.
Altro elemento che si deve notare è l'abrogazione dell'articolo 9 terzo comma del decreto
legislativo 267 del 2000, che consentiva anche alle associazioni di protezione ambientale, di cui
all'articolo 13 della legge istitutiva del ministero dell'ambiente ossia della legge 349 dell'86,
permetteva di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario spettanti al
comune e alla provincia in seguito al danno ambientale; quindi, questa azione sostitutiva
prevista a favore delle associazioni di protezione ambientale viene abrogata.
Invece, è previsto sempre con riferimento al risarcimento del danno ambientale, l'alternativa tra
l'azione risarcitoria in sede giudiziaria e l'ordinanza a contenuto risarcitorio percorribile in via
amministrativa che il ministero dell'ambiente può emanare ai sensi degli articoli 312 e 314 del
codice dell'ambiente; quindi, un doppio binario di tutela sia a livello giudiziario ordinario sia a
livello di giurisdizione amministrativa ma rimane sempre anche l'azione penale sull’ambiente.
Vengono, inoltre, individuati nuovi parametri di riferimento delle misure risarcitorie sia quando
il danno si è verificato sia in sede di ordinanza ministeriale, e dal danno ambientale vengono
tenute distinte le lesioni di natura individuale che derivano dalla compromissione dell'ambiente,
cioè praticamente viene introdotta questa distinzione tra i due profili, letteralmente resta in ogni
caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto tipo di danno ambientale nella loro salute
e nei loro beni di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli
interessi lesi, quindi un'azione individuale del singolo.

15 novembre (20)
Le norme del danno ambientale vanno dall’art 299 all’art 318. Questi, comportano
l’abrogazione dell’art 18 della l. 349/46 abrogato dall’art 318 del testo unico dell’ambiente.
All’art 300 viene definito il danno ambientale, “qualsiasi deterioramento significativo e
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misurabile diretto o indiretto di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da


quest’ultima”. Nel codice dell’ambiente vi è una limitazione, cioè la direttiva è relativa al
danno, alle specie, alle aree protette, alle acque e al terreno salve le esclusioni dell’art 303: ne
risulta esclusa l’aria. L’inquinamento dell’aria non è incluso nelle fattispecie del danno
ambientale, a meno che non sia contaminata e possa nuocere agli uccelli, habitat protetti, acqua
e terreno. I principi che si vogliono applicare sono quelli comunitari: il soggetto investito nella
disciplina è l’operatore che non è una persona fisica che agisce nella propria vita ma è
imprenditore che svolge attività economica a livello professionale o imprenditoriale.
La normativa 152/2006 si indirizza al danno ambientale che non si sia ancora verificato, questo
in relazione al principio di precauzione o danno alla fonte oppure esiste una minaccia concreta
che il danno si verifichi: è necessario attuare delle azioni di controllo all’ambiente. Il controllo è
importante e il danno ambientale viene per questo ricostruito nel codice dell’ambiente come
procedura amministrativa volta alla prevenzione che alla riparazione del danno e nel caso in cui
il danno si sia verificato si passa al ripristino tra gli art. 305 a 308.
Nel codice dell’ambiente viene menzionato il ruolo degli enti locali: essi hanno la facoltà di
sollecitare l’intervento statale (art.309) o ricorrere allo stato in caso di inerzia o omissioni (art.
310) ma non hanno legittimazione ad agire o diritto di intervento in processi per danno
ambientale.
Viene abrogato l’articolo 9, comma 3 d. lgs 267/2000 che consentiva anche alle associazioni di
protezione ambientale di cui all’art 13 della legge 349/1986, cioè la legge istitutiva
dell’ambiente, è la prima definizione di danno ambientale. La legge 349/86 è la legge istitutiva
del ministero dell’ambiente. L’art 9 comma 3 del d.lgs. 287/2000 che consentiva alle
associazioni di promuovere attività per l’ambiente in seguito al verificarsi del danno ambientale.
Il testo unico del danno ambientale prevede all’art 311, primo comma, e 315 l’alternativa tra
l’azione risarcitoria in sede giudiziaria e l’ordinanza a contenuto risarcitorio: la differenza è che
una è la via civilistica cioè risarcimento del danno ambientale del giudice civile e l’altra è
l’ordinanza ministeriale a titolo risarcitorio in sede di procedura amministrativa attraverso
l’intervento del ministero dell’ambiente secondo gli art. 312/313/314.
Vengono individuati nuovi parametri per le misure risarcitorie sia in sede di giurisdizione
ordinaria che amministrativa con distinzione tra danno ambientale e lesioni di natura individuale
che possono derivare dalla compromissione dell’ambiente. Da un lato c’è il danno all’ambiente
e dall’altro il danno a soggetti che possano essere danneggiate dal fatto produttivo di danno
ambientale nella loro salute e nei beni di loro proprietà. Questi soggetti possono agire in
giudizio nei confronti del responsabile per la tutela degli interessi lesi ed è all’art. 313 comma 7.
Il concetto di danno ambientale nel testo unico: mentre l’art 18 della legge 349/86 aveva esteso
il danno ambientale a tutte le componenti dell’ambiente, adesso l’art 300 riprende la direttiva
2004/35 costituisce danno ambientale il deterioramento in confronto alle condizioni originarie
provocato alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa di cui alla legge 157/1992;
poi abbiamo la lesione e il danno di specie all’habitat naturale Protetti di cui alla dir. 94/43
relativa alla conservazione delle acque interne e abbiamo inciso in modo negativo sullo stato
ecologico, chimico e quantitativo oppure sul potenziale delle acque interessate; ed è sempre
danno ambientale quello delle acque costiere ed anche il danno al terreno mediante qualsiasi
contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi sulla salute umana al seguito
dell’introduzione di cose nocive per l’ambiente. La nozione di danno ambientale è limitata alle
componenti naturalistiche dell’art 300 e non si riferisce né al paesaggio né all’atmosfera.
L’art. 18 aveva una funzione ricognitiva la cui violazione andava accostata con la ricostituzione
e con l’art 2043. Relativamente al paesaggio, il decreto-legge 42/2004 all’art 134 prevede quali
beni paesaggisti debbano essere considerati nella più ampia definizione di paesaggio. Per i beni
diversi dagli habitat naturali, la tutela viene affidata al d. legge 42/2004 fermo restando il caso in
cui il fatto lesivo non porti il danneggiamento della salubrità degli eventi naturali contemplati
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come l’acqua o il suolo e possono essere inclusi nel concetto di danno ambientale attraverso l’art
300.
Determinati beni sono assolutamente esclusi dalla normativa del testo unico ambientale come
atmosfera e paesaggio e sono riassumibili nella tutela attraverso il d.lgs. 42/2004.
Resta esclusa dalla tutela ambientale l’aria ma questa è un’esclusione dolosa da parte del
legislatore perché l’aria non è stata inclusa perché altrimenti sarebbe stato semplice provocare
lesioni al danno ambientale. Gli elementi aerodispersi vengono identificati nel concetto di danno
ambientale solamente nella misura in cui possano causare danno all’acqua, al terreno, alla specie
e agli habitat protetti; l’inquinamento atmosferico può rilevare solo se contamina queste
componenti.
L’art. 303 del TU esclude ulteriori elementi ossia conflitti armati, calamità naturali, rischi
nucleari e tutti gli eventi che si siano verificati prima dell’entrata in vigore del TU
dell’ambiente.
Una questione riguarda la sentenza 126/2016 che si è soffermata sulla legittimazione attiva
all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale: la sentenza si sofferma anche
sul giudizio di legittimità istituzionale del sistema proposto dal d.lgs. 152/2006.
Il problema è che il ministero dell’ambiente è soggetto propulsivo dell’azione di danno
ambientale nei confronti degli stessi soggetti statali preposti alla tutela dell’ambiente e il
risarcimento che venga proposto eventualmente andrà al ministero dell’ambiente. Il ministero è
quindi al contempo legittimato attivo e passivo, cioè chi chiede tutela si avvale della tutela.
L’art 311 del codice ambiente prevede che il ministro dell’ambiente agisca esercitando l’azione
civile nel processo penale per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e se
necessario per emendamenti patrimoniali. Per l’art 318 comma 2 che abroga la l’art.18/1986
stabilisce che l’azione di risarcimento di danno ambientale anche se in sede penale è promossa
dallo stato sui beni su cui incide il danno. Nel passaggio da un art. all’altro sono esclusi gli enti
territoriali e la legittimazione è in capo allo stato. Resta la legittimazione delle associazioni
ambientaliste ad intervenire nell’azione del danno ambientale. La questione era stata portata
dalla regione Calabria che ha impugnato l’art 311 codice dell’ambiente che riguarda l’art 24 cioè
il diritto alla difesa, ognuno può agire per il proprio interesse. Nella sentenza 235/2009 la Corte
costituzionale aveva dichiarato la questione non fondata relativamente all’art 318 per le
ripartizioni tra le competenze tra stato e regioni; invece, per l’art.311 era stato detto che l’art.311
non è relativo alla funzione amministrativa ma a quella giurisdizionale. Per gli art. 118 e 311 la
questione era infondata, per l’art 24 era stato dalla Corte costituzionale che la questione fosse
inammissibile in quanto non si poteva parlare di una violazione di diritto di difesa perché era di
carattere amministrativo; pertanto, la corte costituzionale aveva argomentato quanto alla
legittimazione degli enti locali a proporre l’azione risarcitoria per danno ambientale, va
osservato che la disposizione impugnata, ossia l’art 24 del diritto di difesa, nel regolare in
termini alternativi il rapporto tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria, non
riconosce la legittimazione ma neanche la esclude in modo implicito. Quindi la sentenza
235/2009 non esclude esplicitamente gli enti territoriali dalla legittimazione attiva ad agire in
giudizio del danno ambientale perché dice che non c’è un’espressa conclusione per questi enti;
quindi, dà un’interpretazione che invece la precedente sentenza 126/2016 non ne aveva parlato,
dichiarandola inammissibile. Con la sentenza 126/2016 viene esclusa la possibilità per gli enti
territoriali di agire in modo espresso per il risarcimento del danno ambientale e la Corte
costituzionale inibisce agli enti territoriali questo potere che spetterà esclusivamente al ministero
dell’ambiente
L’art 311 del d.lgs. 152/2006 con un giudizio di legittimità costituzionale per cui nell’ambito di
un processo penale lo stato non si era costituito come parte civile ed aveva chiesto di poterlo
fare la regione: in questo caso, la Corte costituzionale evidenziava che gli imputati erano
dipendenti statali ed erano accusati di aver commesso un reato nell’esercizio del servizio per cui
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lo stato qualora avesse esercitato l’azione per il risarcimento di danno ambientale avrebbe
cumulato due errori: quello di parte civile e quello di responsabile civile e quindi avrebbe finito
col chiedere danni a sé stesso e, quindi, ci sarebbe stata imputazione attiva e passiva.
La sentenza 126/2016 dichiarando infondata la questione in quanto non c’è contrasto con
l’art.118 perché la regione potrà sempre rivolgersi al ministero, questa sentenza farà salvo il
codice dell’ambiente. La corte proclama che l’ambiente è un bene immateriale unitario, sebbene
abbia varie componenti, e che l’ammissione di questo rende la necessità della sua tutela che può
essere affidata solo allo stato e non agli enti territoriali; all’art 117, comma 2, lettera s,
l’ambiente è riservato allo stato e la prima disciplina organica della materia, che prevedeva la
titolarità dell’ambiente, era coerente con il tipo di risarcimento per danno ambientale di tipo
extracontrattuale.
Con la direttiva ci si discosta dall’art. 18 della legge 349/86 perché ci si va a collocare in un
ambito diverso: nell’art 18 il sistema di risarcimento era per equivalente, nel testo unico
dell’ambiente il risarcimento è in forma specifica, quindi, il ripristino dello stato e può essere
attuato solo dallo stato.
Il caso del poligono, che era stato sottoposto all’attenzione della Corte costituzionale, era
inammissibile perché si pensava ci fossero altri soggetti interessati al di fuori dello stato. Questa
sentenza, quindi, evidenzia che lo stato dev’essere l’attore fondamentale del ripristino
ambientale e il ripristino dev’essere affrontato con il sostenimento da parte dello stato delle
spese alla bonifica dei siti contaminati e anche ripristinando la qualità della vita delle persone
che riconoscono il territorio. In una sentenza precedente era stata affermata la responsabilità
civile per danni ambientali oltre che la reintegrazione patrimoniale per il soggetto danneggiato e
naturalmente questo era possibile per un sistema retto dall’art. 18 della legge 349/86 che
riconduceva il danno ambientale alla responsabilità extracontrattuale cioè ex. art. 2043;
viceversa, la sentenza 126/2016 non è in grado di espletare quella fazione ripristinatoria
patrimoniale che proviene dall’art. 2046 e quindi, l’autorità competente è assolutamente lo stato
e non altri.

16 novembre (21) RESPONSABILITA’ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Molte sono le possibili fattispecie di responsabilità della pubblica amministrazione.


Il diritto amministrativo che è quello che regola l’azione pubblica amministrazione, ricordiamo la
differenza di quando si agisce sul piano di parità tra il privato e la pubblica amministrazione che
agisce come privato, in quel caso rientra la giurisdizione ordinaria, se agisce invece in azione
sovraordinata in un rapporto verticale rispetto al privato allora pietra quella competenza del diritto
amministrativo che ha ad oggetto diritti soggettivi ma anche interessi che vengono definiti legittimi.
Il diritto soggettivo assoluto o relativo (assoluto quando si tratta di un diritto tutelato erga omnes,
relativo quando si tratta di un diritto di debito o credito tra il singolo e la pubblica amministrazione)
può declinarsi anche nel senso di dovere della pubblica amministrazione, E questo porta alla nascita
di veri e propri rapporti giuridici.
Nell'ambito della pubblica amministrazione dobbiamo dire che sono molteplici i modelli di
responsabilità, la prima articolazione (che è la principale articolazione) È quella di riprendere gli
schemi classici civilistici della responsabilità precontrattuale, la responsabilità contrattuale e la
responsabilità extracontrattuale (con molte articolazioni in questa ultima fattispecie di responsabilità
extracontrattuale).
Vediamo che nell'ambito della responsabilità di diritto amministrativo abbiamo notevoli incroci
perché da un lato c'è il dualismo tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, E
dall'altra ci sono molteplici modelli di responsabilità che si applicano proprio alla responsabilità
della pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie funzioni.

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Partiamo con la responsabilità precontrattuale, e in particolare facciamo riferimento ai doveri


reciproci di protezione e libertà negoziale. La responsabilità precontrattuale viene a configurarsi
nella fase che precede la stipula dei contratti della pubblica amministrazione. Nell'impostazione
tradizionale della procedura di evidenza pubblica, che sono tutte le procedure della pubblica
amministrazione, devono essere assolutamente dotate del requisito della trasparenza, ed efficacia
dell'azione della pubblica amministrazione, in particolare nella pubblica amministrazione si parla
del dualismo, o della dialettica tra poteri pubblici e interessi legittimi di cui è portatore, E rispetto a
questi procedimenti ci sono anche dei procedimenti negoziali in cui vengono a confrontarsi le
libertà di contrarre E i doveri reciproci di protezione che possono sussistere nei rapporti tra pubblica
amministrazione e privato. La natura della responsabilità precontrattuale nella pubblica
amministrazione e rientra nella fattispecie del contatto sociale qualificato, in particolare la
cassazione nella sentenza del 2016 numero 14.188 ha affermato che tra le parti nasce un contatto
sociale qualificato proprio alla luce del principio di affidamento, il qualche come dovere specifico di
buona fede viene declinato come dovere di protezione dell’altrui sfera giuridica, cioè come dovere
di vedere dei comportamenti che non cagionino dei danni all’altrui sfera giudica, per cui deve essere
sempre preservato l’affidamento sia della controparte sia dei terzi in ordine alla loro ampiezza,
chiaramente il dovere di affidamento viene in evidenza non solo nella responsabilità precontrattuale
ma anche nella responsabilità extracontrattuale, che in ragione del contatto sociale qualificato
assume delle connotazione specifiche, in particolare il cosiddetto dovere di buona fede e protezione
che deve essere il perno dell’operato della pubblica amministrazione, non viene violato da chiunque
nel caso in cui si valuti il comportamento della p.a. ma viene violato da un funzionario che esprime
questo contato sociale qualificato (di cui abbiamo già parlato ma in realtà non sappiamo niente
perché abbiamo fatto il progetto ihih ). In questa prospettiva i profili di responsabilità che possiamo
delineare sono dei profili che vanno nell’ambito della responsabilità contrattuale (più tutelato per
dieci anni).
La prima peculiarità da esaminare è quella relativa alle posizioni soggettive che vengono in rilevo
quando si considera la responsabilità della pubblica amministrazione. Fermo restando la distinzione
ma anche l’assimilazione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, ciò che accomuna
queste due fattispecie è il dovere di prestazione che incombe della p.a., dovere di prestazione che è
correlato ad una situazione attiva sia che si tratti di un diritto di credito oppure questa
conformazione può accompagnarsi ad una prestazione di carattere passivo ciò il dovere di
protezione, obbligazione secondo una specifica prerogativa a proteggere la situazione giudica che
viene affidata alla p.a.
Le controversie relative dalla responsabilità amministrativa sono attribuite al giudice amministrativo
e le situazioni giuridiche proprio di questa fattispecie sono situazioni caratteristiche del diritto
privato.
Laddove due soggetti pubblico e privato vengano a contatto per una situazione giuridica in cui la
pubblica amministrazione agisce come privato allora anche quel rapporto giuridico sarà oggetto di
trattazione da parte della giurisdizione ordinaria E non da parte della giurisdizione amministrativa.

La responsabilità contrattuale è quindi configurabile nei casi in cui vi siano dei comportamenti che
derivino da contratti pubblici, l'amministrazione quindi adotta nell’esercizio di poteri pubblici, in
cui si confrontano degli interessi delle parti, la stipula di contatto di diritto pubblico. Invece
nell’ambito della esecuzione del contratto le parti adottano degli arti nell’esercizio dell’autonomia
negoziale, cioè nell’esercizio di una autonomia tra virgolette privata, per cui divengono titolari di
situazioni soggettive così come avviane nella contrattazione privata, e la relativa giurisdizione
spetterà al giudice ordinario.

Nei casi in cui si tratti di violazione di doveri, di prestazioni derivanti dal contratto è possibile
proporre l’azione di risoluzione per grande inadempimento ai sensi dell’articolo 108 dei contratti
pubblici, unitamente all’azione risarcitoria. Questa responsabilità contrattuale viene ampiamente

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incanalata nei binari della giurisdizione ordinaria, e i rimedi sono quelli della risoluzione per
inadempimento grave e risarcimento del danno laddove si tratti di procedure ad evidenza pubblica.
Nella fase esecutiva, sempre nell’ambito del procedimento ad evidenza pubblica, oltre a poter
configurarsi l’ipotesi della cosiddetta autotutela è possibile che il privato possa anche fare
riferimento a delle prerogative contenenti il contratto del codice degli appalti, perché laddove
vengono violati dei requisiti che riguardano la partecipazione alle gare di appalto allora il codice dei
contratti pubblici all’articolo 108 porta ad una contrapposizione nell’ambito del rapporto giuridico
tra i poteri pubblici da un lato e gli interessi legittimi del privato dall’altro, quindi la giurisdizione in
tal caso sarà una giurisdizione del giudice amministrativo.

Altro tipo di responsabilità della pubblica amministrazione è ravvisabile nell’ambito della


responsabilità civile da comportamento materiale, in particolare in questo caso la responsabilità
extracontrattuale presuppone che non vi sia un precedente rapporto giudico pregresso violato, in
questo ambito quindi i modelli sono vari e la difficoltà aumenta.
Perché sul piano strutturale viene innanzitutto preso in considerazione l’art. 2043 del c.c. che mette
in relazione questi elementi:
- L’elemento oggettivo articolato al suo interno in condotta alla pubblica amministrazione,
rapporto di causalità materiale o strutturale e danno ingiusto, inteso come lesione di una
situazione giuridica rilevante (il cosiddetto danno evento della responsabilità extracontrattuale).
- Il secondo elemento di valutazione è l’antigiuridicità che esprime il rapporto tra il fatto che
causa l’evento lesivo e l’intero ordinamento giuridico che deve essere violato, cioè vi deve
essere un comando giudico violato. (Questa è l’antigiuridica che si accompagna oltre che alla
violazione di un comando giuridico anche alla assenza di cause di giustificazione di quella
violazione)
- Il terzo elemento è un elemento soggettivo, stiamo quindi cercando di traslare il modello di
responsabilità dell’art. 2043 dal piano prettamente civilistico al piano dell’azione
amministrativa. Quindi è un elemento soggettivo che fa riferimento all’imputabilità, vale a dire
al contegno del soggetto (dolo o colpa) in relazione alle conseguenze; quindi, la fattispecie
illecita deve essere connessa al pregiudizio ossia ai danni diretti e immediati subiti dalla parte
danneggiata, di carattere patrimoniale o non patrimoniale (quindi il danno evento o il danno
conseguenza).
Elemento centrale per individuale quale sarà il giudice competente se il giudice amministrativo o il
giudice ordinario, è rappresentato dal danno ingiusto , quindi dal danno oggettivo dell’ingiustizia
del danno e quindi bisognerà ad indagare sulle condotte poste in essere dai pubblici poteri
distinguendoli dai comportamenti materiali, quindi nel primo coso nei comportamenti materiali
vengono ricondotte le fattispecie di responsabilità per danni da cose in custodia con riferimento ai
compiti di gestione per mano pubblica, o la responsabilità dell’attività pericolosa (art. 2051 del c.c.
e 2050). La commissione dell’illecito da parte di una persona giuridica implica anche la necessita di
individuare i soggetti responsabili del danno concretamente. Anche su questo punto vi è una
sentenza della corte di cassazione la n. 13.246 del 2019 secondo la quale la cassazione afferma che
avendo riguardo all’ente pubblico e al soggetto che è la controparte secondo la cassazione sussiste
una responsabilità da preposizione , che è quella citata dall’art. 2049 c.c. nell’ambito da queste
responsabilità di preposizione è una forma di responsabilità oggettiva che nasce ogni qual volta un
soggetto è preposto alla vigilanza o al funzionamento di una determinata funzione in particolare
facciamo riferimento in questo caso nel 2049 c.c. alla possibilità del danno che viene cagionato
nell’ambito della fattispecie dei propri comminati. È come se la pubblica amministrazione dovesse
avere una responsabilità per la gestione di determinati beni, come i beni demaniali, in particolare il
requisito richiesto è quello della occasionalità necessaria, significa che ne verificare l’entità
dell’area del danno risarcibile. In altre parole, significa che il fatto illecito posto in essere dal
soggetto preposto, cioè dall’addetto, domestici, commessi nell’esercizio delle incombenze a cui
sono stati adibiti dai padroni e committenti, l’avere adibito questo soggetto allo svolgimento di una

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funzione rappresenta l’occasionalità necessaria ad imputare la responsabilità al committente per cui


la responsabilità del funzionale Viene addirittura addebitata alla p.a. in base all’art, 2049 c.c.

Ci si potrà allontanare da questa fattispecie in virtù di un fatto che contraddice quello che è la
formulazione della norma. Cioè che è assolutamente anomalo e improbabile che in danno si
verifichi in presenza di determinate condizioni; quindi, il fatto illecito poteva essere evitato, ed è
stato attuato in un modo tale per cui l’esenzione della responsabilità della pubblica amministrazione
si avrà esclusivamente nell’ipotesi di un comportamento assolutamente anomalo del funzionale
della p.a.
Quindi in questi casi le situazioni giuridiche che si confrontano sono quelle del dovere generale di
attenzione che consiste nel non ledere l’altrui sfera giuridica e la situazione violata deve essere una
situazione di diritto soggettivo assoluto, per cui così configurata l’ipotesi del rapporto che esiste tra
la p.a. e il funzionale nell’esercizio delle sue funzioni la giurisdizione sarà affidata al giudice
ordinario e non al giudice amministrativo.

Un’altra forma della responsabilità civile della pubblica amministrazione è quella derivante dal
provvedimento illegittimo emesso dalla pubblica amministrazione , quindi in questo caso vengono a
confrontarsi il potere pubblico da un lato e dall’altro l’interesse legittimo del privato, in particolare
in questo secondo ambito vengono a collocarsi quei comportamenti che si risolvono nell’adozione
di comportamenti amministrativi illegittimi, e la natura di questo tipo di responsabilità in
giurisprudenza appare controversa, in particolare vi sono delle sentenze del consiglio di stato che
dubitano sulla possibilità di ricondurre questa fattispecie nell’ambito della giurisdizione ordinaria,
ma si esprimono ampiamente a favore della giurisdizione amministrativa.
Il modello generale composto dall’art. 2043 della responsabilità extracontrattuale presenta delle
peculiarità che è rappresentata dal fatto che tra le parti prima dell’illecito esiste un contatto, il così
detto contatto sociale qualificato, questo contato fa sorgere dei doveri di protezione pero in realtà è
un contatto diverso da quello definito come contatto sociale qualificato e prende il nome di contatto
procedimentale, significa che si tenta un’assimilazione alla responsabilità contrattuale , per una via
diversa cioè pur optando per una forma di contatto procedimentale si finisce per andare nei confini
dell’art. 2043 c.c.
Ferma restando la contrapposizione tra poteri pubblici e interessi del privato il procedimento che
deriva dal rapporto giuridico viene ad essere inquadrato dell’ambito del diritto amministrativo, per
cui in questo contatto che pur essendo sostanzialmente e funzionalmente simile al contatto sociale
qualificato prende il nome di contatto procedimentale e viene trattato come il. 2043 ma non gestito
dal giudice ordinario ma dal giudice amministrativo.
La fattispecie della responsabilità derivante da un provvedimento amministrativo favorevole per il
privato destinatario che viene annullato in via giudiziale dal giudice amministrativo o in via di
autotutela da parte dell'amministrazione con atto legittimo.
Quindi il privato aveva prima avuto un provvedimento favorevole della pubblica amministrazione
tuttavia questo provvedimento favorevole viene annullato dal giudice amministrativo quindi si deve
valutare se è possibile configurare una responsabilità civile da provvedimento illegittimo, in
particolare si tratta di valutare se il privato avendo fatto affidamento Sulla validità dell'atto possa
ottenere un risarcimento del danno, nel caso in cui un atto positivo della pubblica amministrazione
venga poi annullato dal giudice amministrativo, si parla di affidamento incolpevole del privato
che È diverso dal legittimo affidamento, perché il legittimo affidamento che rileva ai fini dei poteri
di annullamento di un atto d'ufficio è garantito dalla legge, invece l'affidamento incolpevole che si
ingenera nel privato È un atteggiamento del privato che si basa su un atto della pubblica
amministrazione, se poi questo atto amministrativo viene annullato è legittimo che venga annullato
per questo l'affidamento viene definito incolpevole.
Questo affidamento incolpevole del privato, quindi, Deve confrontarsi con un comportamento
illecito della pubblica amministrazione; infatti, successivamente viene annullato dal giudice
amministrativo per cui può ben legittimare un diritto al risarcimento del danno da parte del privato.

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Tra le due nozioni di affidamento legittimo e affidamento incolpevole c'è una grande differenza
perché l'amministrazione potrebbe aver adottato un legittimo provvedimento di secondo grado. Ciò
significa che l'atto annullato dal giudice di primo grado potrebbe poi essere, nel caso di ricorso alla
magistratura al secondo grado di tutela amministrativa, dichiarato danno inefficace e quindi in tal
caso sia un comportamento della pubblica amministrazione che era stato dichiarato illegittimo
successivamente si rivela invece legittimo e quindi questo può far nascere dei dubbi interpretativi
tali che sono stati variati dalla giurisprudenza del consiglio di Stato in adunanza plenaria E
particolare si sono configurati vari orientamenti:
- il primo orientamento che ritiene che invece la giurisdizione spetti al giudice amministrativo
proprio perché si tratta di lesione di un interesse legittimo, e questa lesione di interesse legittimo
viene a configurarsi non solo quando l'amministrazione neghi il legittimamente un
provvedimento favorevole ma anche quando rilascia al cittadino illegittimamente un
provvedimento favorevole. Quando è l'agire della pubblica amministrazione a dover determinare
un danno al privato ci sarà sempre una competenza del giudice amministrativo.
- Vi è anche un secondo orientamento maggioritario che sostenuto dalla corte di cassazione
secondo cui la giurisdizione spetta invece al giudice ordinario nel caso in cui si verta in una
materia di competenza esclusiva, in particolare la corte affermato che la giurisdizione del
giudice amministrativo si può giustificare solamente nell'ipotesi in cui l'esercizio del potere
pubblico ha inciso negativamente nella sfera giuridica del privato come accade nel caso in cui
venga negato il legittimamente il rilascio di un provvedimento richiesto dal privato.
Ogni qualvolta ci si trova di fronte ad un atto amministrativo illegittimo in realtà ci si trova di fronte
ad un comportamento materiale della pubblica amministrazione che non è collegato all'esercizio di
un potere pubblico. Questo può portare ad una competenza di giurisdizione del giudice
amministrativo. Tuttavia, possiamo sicuramente affermare che non vi è una univocità di
orientamento sulla giurisdizione amministrativa o civile del giudicato della pubblica
amministrazione, ma più che altro bisognerà andare ad indagare la natura del diritto del privato,
perché laddove si tratti della lesione di un diritto soggettivo assoluto sicuramente la competenza
sarà del giudice ordinario, nel caso in cui invece venga leso un interesse legittimo la competenza
sarà del giudice amministrativo.
La cassazione infatti ha puntualizzato dicendo che è una situazione anomala tutelata in se e non nel
suo collegamento con l'interesse pubblico, come appunto l'affidamento incolpevole di natura
civilistica che si sostanzi a nella fiducia che venga emanato un determinato atto nel danno subito dal
privato nel caso in cui questa fiducia sia stata mal riposta nella pubblica amministrazione si tratta di
un comportamento dell'amministrazione fondato sulla buona fede e quindi può essere ricondotto nel
ambito della responsabilità contrattuale da contatto sociale, cioè il privato ha fatto affidamento sul
comportamento della pubblica amministrazione e quindi si è affidato incolpevolmente pertanto si
tratterebbe di un comportamento materiale.

Abbiamo poi un’altra fattispecie, ossia la Responsabilità civile da ritardo che si verifica quando la
pubblica amministrazione non provvede nei termini previsti dalla legge.
Su questo punto c'è un riferimento normativo, l'articolo due bis della legge 241 del 1990 che
disciplina l'azione della pubblica amministrazione e prevede che le pubbliche amministrazioni nei
soggetti privati preposti all’esercizio dell'azione amministrativa sono tenuti al risarcimento del
danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di
conclusione del procedimento.
Quindi in questo art. 2 bis è proprio identificato il risarcimento per il danno ingiusto da ritardo.

L’art. 133del comma 1 lettera a prevede: che anche queste fattispecie siano devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; quindi, nell'ambito di questa fattispecie possono
essere inserite anche altre fattispecie, per esempio quella relativa all'ipotesi in cui la pubblica
amministrazione adotti un provvedimento tardivo che non viene impugnato, Oppure tiene una
condotta omissiva che non viene contestata mediante l'azione del privato che danneggia il singolo.

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Secondo un primo orientamento che si è formato prima dell'introduzione dell’articolo 2 bis della
legge 241 del 1990 il risarcimento del danno per essere richiesto deve sempre avere la propria base
nella dimostrazione del pregiudizio risultante dalla mancata attribuzione del provvedimento
amministrativo.
È sempre necessario, aldilà del ritardo E dell'eventuale omissione, dimostrare quale sia stato il
danno che è derivato al privato da quel ritardo. Questa è una sentenza del Consiglio di Stato del
2005 numero sette, e questo orientamento è stato seguito anche da altre decisioni che hanno
affermato che poter riconoscere la tutela risarcitoria nei casi in cui la lesione nasca da un
provvedimento espresso non si possa in alcun caso prescindere dalla spettanza di un bene della vita,
quindi non un qualsiasi danno ma deve essere deve essere un danno definito bene della vita e quindi
un danno che condiziona la vita della persona, solo la lesione del bene di vita è quella lesione che
giustifica il verificarsi di un danno e l'ingiustizia dello stesso tanto che questa lesione del bene vita
derivi da un provvedimento illegittimo e colpevole dell'amministrazione quanto dalla inerzia di
un'amministrazione e quindi il danno sia in concreto risarcibile.
Il Consiglio di Stato, quindi, nel 2020 successivamente dell'entrata in vigore dell'articolo due bis
della legge 241 del 1990, con la sentenza 6755 del 2020 ha affermato che l'ingiustizia del danno e
quindi la sua risarcibilità per il ritardo della azione amministrativa è configurabile solo ove il
provvedimento favorevole sia stato adottato sia pure in ritardo da un'autorità competente, ovvero
sarebbe dovuto essere adottato sulla base di un giudizio prognostico effettuandone sia in caso di
adozione di un provvedimento negativo sia in caso di inerzia reiterata in esito al procedimento.
Quindi in questa prospettiva vengono a confrontarsi potere pubblico da un lato e interesse legittimo
dall'altro e il bene della vita che correla queste due situazioni. Non manca un orientamento
giurisprudenziale diverso cosicché l'sempre il Consiglio di Stato relativo a un caso di responsabilità
precontrattuale affrontato nel mero ritardo può essere fonte di responsabilità per lesione del diritto
soggettivo di autodeterminazione negoziale. Quindi il ritardo nell'adozione di un provvedimento
genera una situazione di incertezza in capo al privato e può indurlo a scelte negoziali che non
avrebbe compiuto se avesse tempestivamente ricevuto la risposta della pubblica amministrazione
pertanto questa responsabilità secondo il Consiglio di Stato è assimilabile alla responsabilità
precontrattuale in quanto la violazione del termine di conclusione del procedimento determina non
l'invalidità del provvedimento adottato in ritardo ma un comportamento scorretto
dell’amministrazione, che se il privato ha l’onere di provare che oltre al ritardo vi è stato anche
l'elemento soggettivo del rapporto di causalità inerente la privazione del termine del procedimento e
dal compimento di attività e di scelte pregiudizievoli per il privato che non avrebbe altrimenti poste
in essere come ad esempio il caso della conoscenza dell'esito di un concorso che non viene
pubblicata nei termini di legge e il singolo aspettando l'esito di quel concorso non presenta domanda
ad un altro, quindi delle scelte fuorvianti. In questa prospettiva non è necessario un giudizio sulle
prospettive di correlazione tra la lesione del bene vita e l'interesse legittimo tutelato in quanto il
privato si trova a dover registrare un cambiamento della propria situazione giuridica, anche lo stesso
bene della vita che non deve essere collegato a un semplice interesse soggettivo bensì a un diritto
soggettivo assoluto che in concreto verrebbe leso (l'esempio può essere: il ritardo nella risposta
negativa hai indotto la parte a stipulare determinati contratti per l'acquisto di beni necessari in vista
di un permesso di costruire che in realtà non è stato rilasciato, e il danno sarà appunto correlato a
questi beni.

La sentenza della cassazione ha condiviso con la sentenza 8236 del 2020, questa responsabilità della
pubblica amministrazione e questa impostazione E l’ha inquadrata nella fattispecie della
responsabilità per contatto sociale qualificato, cioè la pubblica amministrazione risponderà per
l'affidamento che il privato ha fatto nella propria attività.
Quindi il danno da ritardo a prescindere dalla prova della lesione del bene vita a cui si correla
l'interesse legittimo è condivisibile ma l'assimilazione alla responsabilità precontrattuale in realtà è
un qualcosa di diverso perché farebbe pensare ad un contratto che non si è concluso per cui
sembrerebbe più consona la responsabilità da contatto sociale più che la responsabilità

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precontrattuale, quindi ci si potrebbe trovare di fronte ad una forma di responsabilità civile per
violazione della libertà negoziale, Ulteriore ipotesi che rientra nell'ambito dell'articolo 2043, le
situazioni giuridiche sono sempre quelle che vedono contrapposte da un lato il potere pubblico e
dall'altro la libertà negoziale del singolo.
Sempre nella responsabilità da comportamento della pubblica amministrazione si inserisce anche la
fattispecie in cui la pubblica amministrazione tiene un comportamento omissivo che si protrae nel
tempo facendo sorgere l'affidamento incolpevole in ordine all'adozione positiva che il richiedente
può nutrire nei confronti del provvedimento finale, in realtà in questo caso c’è un ritardo qualificato
da comportamento, quindi in sostanza la pubblica amministrazione pur non avendo adottato
formalmente quel determinato atto ha delle condotte concrete che fanno ipotizzare un esito dell'atto,
quindi c'è un comportamento e non un ritardo nell'emanazione dell'atto che può far conferire dal
privato un significato al silenzio E la corte di cassazione ha ritenuto che anche questa fattispecie
(cioè laddove il privato si trova di fronte ad un ritardo e a dei comportamenti della pubblica
amministrazione che facciano presagire un esito, E la cassazione dice che anche in questo caso ci
troviamo di fronte ad una responsabilità da contatto sociale qualificato quindi responsabilità
contrattuale).
Dal punto di vista dell'amministrazione, l'amministrazione a un dovere di protezione che dipende
dall'obbligo di comportarsi secondo buona fede correttezza dal punto di vista invece del privato
abbiamo un comportamento della pubblica amministrazione che ha violato l'affidamento derivato.
E quindi il regime giuridico secondo la cassazione non è precontrattuale o extracontrattuale ma è
quello contrattuale da contatto sociale qualificato, tant'è che questi comportamenti si ravvisano
specialmente nella materia urbanistica e di edilizia in quanto il comportamento è stato ritenuto
sbagliato e non illegittimo, cioè un comportamento del funzionario non corrispondente ai danni di
agire della pubblica amministrazione non è espressione di un potere pubblico ma di un
comportamento errato da parte dei funzionari addetti all'esercizio dell'azione amministrativa.
In conclusione, possiamo dire che il confine tra diritto pubblico e diritto privato nell'ambito
dell'azione della pubblica amministrazione e nell'ambito anche della responsabilità della pubblica
amministrazione espone dei contorni assolutamente indefiniti, ancora tutti da identificare.
Diventa quindi importante il dialogo che c'è tra corte di cassazione da un lato per la giurisdizione
ordinaria e il Consiglio di Stato dall'altro per la giurisdizione amministrativa, per cui le fattispecie
sono tutte fattispecie che vengono analizzate nella loro particolarità e viene data una rilevanza non
tanto all'atto della pubblica amministrazione quanto al comportamento della pubblica
amministrazione.

22 novembre (22) INQUINAMENTO AMBIENTALE


Sulla questione dell’inquinamento ambientale, si pone il problema sulla posizione del proprietario
del sito inquinato, che è una persona diversa dall’operatore.
Operatore: quello che concretamente inquina, che utilizza un bene immobile e produce un danno.
Proprietario di un sito che diviene inquinato:
Su questa fattispecie giuridica si è soffermata la giurisprudenza sia civile, sia amministrativa, sia
penale perché la norma è in conflitto a livello di normativa comunitaria, col codice dell’ambiente e
anche con le norme codicistiche civili.
Sul rapporto tra il sito inquinato e il proprietario ricordiamo dal diritto privato il cosiddetto onere
reale che è un “peso” che grava su un bene indipendentemente dall’appartenenza del bene,
relativamente ad un fondo non è gravato “tizio” in quanto proprietario, ma è gravato direttamente il
fondo stesso; quindi, chiunque sia il proprietario del fondo risponderà di questo peso.
A differenza del diritto reale, caratterizzato dal fatto che si riferisce alla persona, il diritto di
proprietà è relativo al proprietario; invece, l’onere reale è un peso che grava sul bene e non sul
proprietario. Es. le tasse sono un onere reale perché gravano sul bene e non sul proprietario,

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incidono nella sfera giuridica del proprietario nella misura in cui il proprietario venga in rapporto
con un bene immobile.
Se prendiamo l’art. 253 del codice dell’ambiente, cita “gli interventi di cui al presente titolo
costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai
sensi dell’art. 250, in particolare si fa riferimento ai rifiuti sui siti contaminati”. Quindi, dice questa
norma che sul proprietario di un bene immobile grava un onere reale in quanto titolare di una
situazione soggettiva reale, a prescindere da quello che sia stato il suo apporto causale, il suo
concreto contributo che ha dato all’inquinamento di quel contesto reale e quindi, a prescindere dal
fatto che abbia contribuito ad un inquinamento oltre i limiti previsti dalla legislazione. Questa
disciplina pone dei problemi seri di compatibilità sia per la legislazione sia per la legislazione
comunitaria.
La previgente disciplina normativa in materia di bonifiche era prevista dall’art. 17 comma 10 e 11,
del d.lgs. 22/1997, decreto Ronchi, e questa disciplina è stata trasposta nel codice dell’ambiente. È
stata sviluppata una cosiddetta “responsabilità da posizione” e proprio perché il proprietario è tale
risponderà della contaminazione del suolo indipendentemente dal dolo o dalla colpa, e non si
considera neanche l’apporto in colpevole che abbia potuto fare il proprietario. In questo caso
troviamo un contrasto tra due posizioni: la posizione del proprietario responsabile e colpevole e poi
la posizione dell’utilizzatore del fondo che abbia concretamente apportato un problema
relativamente a quel determinato suolo e questa fattispecie viene valutata diversamente dalla
giurisprudenza amministrativa e civile.
In particolare, il tribunale di Venezia nella sentenza del 4 febbraio 2010 n°304, pur ammettendo che
la previsione dell’art 2051 sia inusuale per il danno ambientale, non ne esclude l’operatività e
giunge al riconoscimento della responsabilità oggettiva in capo al proprietario, presunto
danneggiante. Il 2051 prevede la responsabilità dell’esercizio delle attività pericolose che incombe
sul produttore e il magistrato fa una scelta “di comodo”, cioè è più facile individuare il proprietario
del suolo piuttosto che andare alla ricerca di chi ha contaminato il suolo e per questo richiama l’art.
2051 al posto della normativa del “chi inquina paga”;
di conseguenza, il proprietario è ritenuto responsabile per la bonifica e per il danno ambientale. Il
proprietario che non ha contribuito all’inquinamento si trova imputato in base ad un principio di
responsabilità che definiamo oggettiva, cioè che prescinde dalla prova del dolo e della colpa ma si
basa sul rapporto di proprietà.
L’interpretazione delle norme in tema di bonifica porta ad individuare l’unica posizione da punire in
quella del proprietario; l’impianto codicistico, amministrativa e civile, è in conflitto con la direttiva
comunitaria sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale, tant’è che il 31 gennaio 2008 è stata sollevata la procedura di infrazione ai danni
dell’Italia, perché in Italia il recepimento della direttiva non era conforme sul “chi inquina paga”,
per cui all’art. 191, comma 2, si ricorre alle regole sulla proprietà e non all’applicazione del chi
inquina paga; per cui l’art. 253 che configura la situazione dell’inquinamento come onere reale, è
l’unica strada che ha intravisto il legislatore per assicurare al fondo un ripristino e non per punire
chi ha inquinato. Questo pone un problema serio perché viene attuata la funzione sociale della
proprietà, art.42 della Cost. comma 2, in chiave ripristinatoria, cioè grava sul proprietario
l’obbligo di ripristinare e bonificare i siti inquinati; questa situazione non è rispondente alla direttiva
cosicché è stata sollevata la procedura di infrazione.
Questa linea della giurisprudenza non è assolutamente condivisibile ed è necessario distinguere le
varie situazioni giuridiche soggettive che si vengono ad instaurare su un sito contaminato.
L’art. 17, comma 2, d.lgs. 22/1997, decreto Ronchi, imponeva a chiunque cagionasse
l’inquinamento di un sito, di un suolo o un pericolo che comportasse il superamento dei limiti di
accettabilità della contaminazione ambientale, anche in maniera accidentale e non volontaria,
obbligava chiunque ad un principio di intervento e ripristino, quindi, un principio di responsabilità
soggettiva.
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La direttiva 2004/35 sulle bonifiche si fonda sulla clausola generale dell’art. 2043 c.c. che fa
riferimento al dolo o alla colpa; la direttiva ci riconduce al 2043 perché va alla ricerca del dolo o
della colpa nell’inquinamento; invece, il c.c. si rifaceva ad un principio di responsabilità oggettiva,
per cui l’onere reale è in conduzione al proprietario proprio per la sua qualità di proprietario come
responsabile.
Il problema, quindi, è di gerarchia delle fonti.
La direttiva comunitaria, a livello di gerarchia, è una legge ordinaria, si trova sullo stesso livello del
c.c., delle leggi speciali e non è possibile che una direttiva prevalga su un sistema normativo
interno; per cui, il codice dell’ambiente non può sovvertire il nostro sistema di gerarchia delle fonti
ed imporre un principio di responsabilità soggettiva in materia di responsabilità ambientale; quindi,
è necessario valutare la legittimità costituzionale della normativa di cui è portatrice la direttiva
comunitaria perché si giungerebbe con l’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, a combinare una
responsabilità soggettiva del proprietario del terreno sul quale sono stati abbandonati i rifiuti e
questo è possibile ipotizzare una violazione del principio costituzionale ma soprattutto della
gerarchia prevista in costituzione.

Le responsabilità del proprietario previste dal codice dell’ambiente


La fattispecie disciplinata dall’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, che è relativa alla responsabilità
soggettiva del proprietario del terreno sul quale sono stati abbandonati i rifiuti, può sembrare
ragionevole.
La disciplina prevista per i siti contaminati di preminente interesse pubblico per la riconversione
industriale, ex. art. 252 bis comma 2, che prevede la responsabilità sussidiaria del proprietario del
sito, potrebbe far sorgere dei dubbi di legittimità costituzionale per disparità di trattamento tra due
soggetti che occupano una posizione diversa in relazione allo stesso bene.
Possiamo dire che le fattispecie da inquadrare sono 3:
La prima fattispecie è quella relativa all’abbandono e al deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e
nel suolo, art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006.
La seconda fattispecie è la responsabilità sussidiaria del proprietario del sito di preminente interesse
pubblico per la riconversione industriale, ex. art. 252 bis comma 2.
La terza fattispecie è quella dell’onere reale gravante sui siti contaminati, art. 253.
Quindi, nell’ambito del codice dell’ambiente è possibile distinguere 3 situazioni distinte.
Il legislatore nel testo unico ambientale stabilisce, come nel decreto Ronchi, che chiunque viola i
divieti di abbandono e di deposito incontrollato dei rifiuti è tenuto alla rimozione degli stessi, al
recupero e al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti
reali e professionali di godimento dell’area.
Questa violazione deve essere imputabile a titolo di dolo o di colpa e la responsabilità deve risultare
da accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo. È chiaro che il legislatore ha applicato
un principio di responsabilità soggettiva e ha trasposto il sistema di responsabilità dell’art. 2043 e
non del 2051 del c.c.
Non si può ritenere che il legislatore abbia trattato differentemente due soggetti che sono differenti e
che hanno un interesse comune che è il disinquinamento. Il legislatore in questa norma tratta allo
stesso modo i soggetti perché anche il proprietario pur non avendo contribuito all’inquinamento
andrà ad arricchirsi dalla bonifica del suolo che è un solo contaminato che gli viene restituito
bonificato, e quindi i due soggetti sono responsabili solidalmente ai sensi dell’art. 192, comma 3;
per cui, la Cassazione su questo punto è stata coerente e dice che l’opera di disinquinamento
restituisce valore commerciale al bene contaminato, oltre ad essere più onerosa rispetto alla
rimozione dei rifiuti e al ripristino dello stato dei luoghi nella fattispecie di abbandono dei rifiuti sul
terreno altrui senza inquinamento.
Questa discriminazione trova una giustificazione proprio dalle differenti situazioni. L’art. 239,
comma 2, lettera a, d.lgs. 152/2006, esclude espressamente dalla procedura di bonifica la diversa
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fattispecie dell’abbandono incontrollato di rifiuti, in quanto risulta applicabile la procedura, art. 192,
che prevede la rimozione o lo smaltimento dei rifiuti a pure spese del responsabile dell’abbandono,
a meno che si verifichi il superamento dei valori di contaminazione e in questo caso ci sarà il
coinvolgimento anche del proprietario; se, invece, è un abbandono dei rifiuti che possono essere
presi ed esclusi, sarà responsabilità del responsabile dell’abbandono.
La rimozione dei rifiuti non implica la bonifica del sito, ma la bonifica si avrà solamente nell’ipotesi
in cui la permanenza dei rifiuti sul suolo abbia contaminato i valori soglia di inquinamento di quel
determinato suolo, il superamento della concentrazione della soglia di contaminazione (CSC),
previsti dall’art. 242, comma 3. Sarà necessario svolgere delle indagini che sono accompagnate da
un’analisi di rischio sito specifica dalla quale si rilevano i CSC e se sono superiori alla soglia allora
ci sarà la combinazione dell’obbligo di bonifica.

La giustizia amministrativa, quella che ha lo stato da un lato e il privato dall’altro, ha collocato il


principio del “chi inquina paga” nella responsabilità civile ex art. 2043 nell’implicazione del danno
a chi si trovi nella condizione di controllare; nel diritto amministrativo, invece, la situazione è
diversa perché il giudice amministrativo ha optato per la responsabilità oggettiva, art. 2051,
mettendo la responsabilità in capo a chi è in grado di controllare il rischio cioè il proprietario
indipendentemente dal dolo o dalla colpa; in tal modo il costo del danno viene imputato a chi h la
possibilità dell’analisi costi-benefici, per cui lo stesso che ha valutato i costi e i benefici potrà
valutare le conseguenze che si sono verificate sul proprio suolo. Quest’analisi riguarderà il canone
locativo per quelle terre che era tale che, come proprietario, gli ristorava le perdite che avrebbe
subito anche nell’ipotesi in cui il suolo divenisse un terreno contaminato; quindi, nell’analisi il
proprietario va a valutare la variabile e la va a ritenere come beneficio e lo stesso si è assunto il
relativo costo al quale adesso dovrà rispondere. I costi della decontaminazione, che generalmente
vengono esternalizzati a danno della collettività, vengono imputati agli inquinatori. Esternalizzati=
sostenuti dallo stato; se così fosse si avrebbe che il soggetto privato inquina e lo stato deve porre
rimedio al sito contaminato e questa cosa non va bene, per la giurisprudenza amministrativa deve
pagare chi ha inquinato e quindi il tribunale amministrativo in varie occasioni, con varie sentenze,
ha stabilito che il nesso di causalità tra la condotta del responsabile e la contaminazione deve essere
accertata applicando la regola probatoria del “più probabile che non”, pertanto il suo positivo
riscontro può basarsi anche su elementi iniziali quale la tipica riconducibilità dell’inquinamento
rilevato all’attività industriale condotta sul fondo.
L’adozione del nesso di causalità del “più probabile che non” consente di ricondurre al proprietario
la responsabilità perché le conseguenze possono verificarsi dopo molti anni, ma se dopo un certo
numero di anni si verificano il superamento del SCS sarà possibile attraverso un criterio di causalità
più ampio è possibile arrivare all’imputazione della responsabilità a chi è responsabile anche
dell’utilizzo che si fa un determinato suolo, per cui il principio del “chi inquina paga” deve avere
una logica preventiva per cui se un determinato utilizzo può portare all’inquinamento, quest’utilizzo
deve essere inibito e quindi in quest’ottica entra il principio di precauzione che impedisce di dar vita
ad una determinata attività, per cui in questo caso si riconduce la responsabilità dell’inquinamento
al proprietario.
A differenza del tribunale civile che ha optato per un principio di responsabilità soggettiva; in
particolare, la giustizia amministrativa del consiglio di stato ha suggerito l’applicazione della norma
civilistica, l’art. 2727 c.c.

Art. 2727. (Nozione).


“Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire
a un fatto ignorato.”
Elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che inducano a ritenere
verosimile che si sia verificato un inquinamento e per questo sia attribuibile a determinati autori;
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cioè, secondo la giurisprudenza del C. di Stato, l’ammissione delle presunzioni semplici consente di
attribuire ai responsabili dell’inquinamento la responsabilità per danno ambientale in quanto è
probabile che da quell’utilizzo sia derivato una contaminazione del suolo e che gli autori possano
essere identificati con coloro che abbiano svolto un’attività su quel determinato suolo che è un
criterio identico al “più probabile che non”.
La giurisdizione amministrativa dice che la ratio in materia di bonifica dei siti oscilla tra le regole
della proprietà e quelle della responsabilità; quindi, a metà strada tra l’onere reale e la responsabilità
ex art. 2043.
Bisogna sempre valutare la coerenza dei vari strumenti normativi con i principi costituzionali che
vedono da un lato la proprietà privata, art. 41,42 della costituzione, e il principio dell’iniziativa
economica privata e dall’altro lato la salute umana e la tutela dell’ambiente, art. 32, 117 della
costituzione e il bilanciamento di tutti questi valori appena elencati devono avere come punto di
riferimento un valore fondamentale che è la tutela della persona.
Affiora nel sistema generale il predominio del comma 4, art. 253 d.lgs. 152/2006 il quale sancisce
che “il proprietario incolpevole che abbia spontaneamente proceduto alla bonifica del sito
contaminato ha diritto di rivalersi per le spese di bonifica e per eventuali danni nei confronti
del responsabile dell’inquinamento”. Questa è una particolare disposizione perché dobbiamo
prendere in considerazione l’art. 2034 c.c. è la norma intitolata “Obbligazioni naturali”, cioè “chi
spontaneamente adempie in base ad un dovere morale o sociale non ha diritto alla restituzione
di quanto ha prestato”. L’art 253 d.lgs. 152/2006 stabilisce un diritto di rivalsa e in realtà
sembrerebbe reclusa dai principi dell’ordinamento perché troviamo un contrasto tra i due articoli
sopraelencati.
Applicando il 2034 i costi della bonifica rimarrebbe, se attuato spontaneamente, su colui che l’ha
attuato; se, invece, il proprietario vi è stato costretto dallo stato può aver diritto all’azione di rivalsa
che attiene alle garanzie reali e, quindi, qualora l’autorità competente non intervenga d’ufficio da
parte del proprietario incolpevole l’esecuzione spontanea rappresenterebbe un’obbligazione
naturale.
Questa è proprio un’eccezione rispetto all’obbligazione naturale perché il legislatore prevede
espressamente quanto detto, cioè che il proprietario incolpevole che abbia spontaneamente alla
bonifica del sito ha il diritto di rivalersi e quindi la norma abilita espressamente il bonificante a
richiedere le spese sostenute per la bonifica e quindi non può essere ricostruita come obbligazione
naturale ma come eccezione di quest’ultima perché c’è la previsione del codice dell’ambiente
comma 4, art. 253 che lo impedisce.
Questa contraddizione è stata rilevata dalla dottrina e dalla giurisprudenza e si applica di obblighi
che si vanno a collocare a metà strada tra la responsabilità oggettiva e soggettiva proprio perché si
parte proprio da una consapevolezza che il proprietario del suolo è il “dominus” nella sua proprietà
ma nel momento in cui la sua proprietà è inquinata è coinvolto un interesse pubblico e quindi la
funzione sociale della proprietà obbliga il dominus all’obbligo di bonifica, per cui il sistema ritorna
coerente.
Addirittura si può giungere a trovare un rimedio estremo all’obbligo di bonifica che è quello
dell’espropriazione, cioè nel caso in cui la pubblica amministrazione non riesca a recuperare le
spese che ha dovuto sostenere per la bonifica, potrà giungere ad espropriate il sito bonificato come
forma di rivalsa nei confronti del privato, quindi possiamo dire che vi sono delle zone d’ombra
nell’ambito del codice dell’ambiente, proprio per la coesistenza del diritto dello stato sull’ambiente
e il diritto del proprietario, perché determinati punti rimangono da interpretare e la funzione sociale
della proprietà si allarga fino a coinvolgere la responsabilità del proprietario e ad imporgli l’obbligo
di bonifica.

Procedura di infrazione comunitaria


È mossa per la non corretta trasposizione per la direttiva 2004/35 che dà luogo a tutte le antinomie.
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Sono state apportate delle modifiche normative dal legislatore italiano alla responsabilità del danno
ambientale con la legge 166/2009, al fine di dare seguito alla procedura di infrazione, ma nella
sostanza rimane sempre il proprietario a dover far fronte alla bonifica e non l’inquinatore.

29 novembre (23) DANNO DA VACANZA ROVINATA

Il contratto di viaggio è stato disciplinato per la prima volta nel 1970 dalla convenzione
internazionale sul contratto di viaggio e fu firmato a Bruxelles ed è stata ratificata in Italia nel 1977
ed è entrata in vigore dopo la firma di 5 stati solo nel 1979 e questa convenzione aveva previsto due
obiettivi fondamentali:
-La tutela del turista;
-La tutela del turista rispetto a servizi di agenzie di viaggio e tour operator;
La convenzione internazionale sul contratto di viaggio disciplina per la mia volta, a livello
internazionale, il contratto di viaggio.
Come norma è valida ma l'Unione europea emana la direttiva 313 del 90 che recepisce i contenuti
della convenzione internazionale sul contratto di viaggio.
Questa normativa internazionale è stata recepita dall'unione europea nel 1990 con la direttiva 313,
che ha disciplinato la materia ed è stata recepita a sua volta nel nostro ordinamento il decreto
legislativo 111 del 95 che disciplina le vacanze e i circuiti tutto compreso.
Questa disciplina è stata abrogata nel 2011 con l’emanazione del codice del turismo che aveva la
finalità di promuovere il turismo e il mercato e rafforzare la tutela del turista consumatore; quindi, il
consumatore diventa, in quanto fruitore dei servizi solistici, turista.
Noi non dobbiamo studiare la vecchia disciplina ma la nuova disciplina.
Quindi prendiamo in considerazione l’art. 34 del codice del turismo:
“I pacchetti turistici hanno ad oggetto i viaggi, le vacanze, i circuiti tutto compreso, le crociere
turistiche, risultanti dalla combinazione, da chiunque ed in qualunque modo realizzata, di
almeno due degli elementi di seguito indicati, venduti od offerti in vendita ad un prezzo
forfetario: trasporti ed alloggio che costituiscano, per la soddisfazione delle esigenze ricreative
del turista, parte significativa del pacchetto turistico”. Questo articolo ci fa capire cosa si intende
per pacchetto turistico; si intende la combinazione ad un prezzo forfettario del trasporto ed alloggio,
e tra questa è compresa anche la crociera ed è una novità perché non avveniva prima del codice del
2011.
Chi sono i soggetti di questo rapporto? L’organizzatore, l’intermediario ed il turista.
L’organizzatore è colui che realizza la combinazione degli elementi del pacchetto turistico e li
procura al turista verso il corrispettivo di un prezzo forfettario, è il tour operator.
L’organizzatore vende i pacchetti turistici o direttamente o tramite un intermediario, come l’agenzia
turistica o a distanza (online).
Es. se comprassimo singolarmente biglietto aereo e alloggio in un hotel a Zanzibar, il costo sarebbe
maggiore; mentre il vantaggio del pacchetto turistico è quello di combinare questi elementi ad un
prezzo forfettario inferiore rispetto a quello che costerebbe il costo dei singoli elementi, per
facilitare proprio quello che è il turismo.
L’intermediario, o agenzia di viaggi, è colui che anche non professionalmente, anche senza scopo
di lucro eventualmente, vende i pacchetti turistici organizzati dal tour operator o dall'organizzatore.
L'intermediario non è necessariamente l'agenzia di viaggi, quindi colei che prende una commissione
per vendere questi pacchetti turistici, ma può essere anche un ente no profit, ovvero un ente del
terzo settore come il “Touring club italiano”, che è un ente senza scopo di lucro che promuove il
turismo e la cultura italiana, realizza pacchetti turistici tutto compreso ed è un intermediario e li
vende e poi mette solo marchio perché comunque ritiene che siano pacchetti turistici validi, ma non
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è che ha uno scopo di lucro.


Il turista è colui che compra il pacchetto turistico o meglio il cessionario di esso o comunque
qualunque persona anche da nominare che fruisce di servizi turistici e non è necessariamente
l’acquirente ma anche un terzo o un cessionario.

Il contratto deve essere redatto in forma scritta, “ad substantiam negotii” e cioè che qualora non si
stipuli il contratto in forma scritta sarà nullo.
Il contratto deve essere redatto in maniera chiara e precisa e deve essere sottoscritta da entrambe le
parti, e non è scontato perché in realtà prima non era così: con la legge del 95 si prevedeva la firma
del turista ma il tour operator potesse anche solo apporre un timbro al contratto e la sua firma non
era richiesta; con il codice del turismo è richiesta anche la firma del tour operator.
Al turista deve essere rilasciata una copia del contratto sottoscritta dal tour operator o
dall’intermediario.

Prendiamo per esempio il catalogo informativo, contiene tutte le informazioni sul contratto di
viaggio e questo catalogo non deve differire dal contenuto del contratto, cioè il contratto deve
contenere tutti gli elementi che troviamo nel catalogo e se il tour operator apporta delle modifiche
senza informare il contraente, questo sarà citato in tribunale per inadempimento contrattuale.
Il pacchetto turistico deve corrispondere in toto al contratto.

Il problema è che può capitare che il turista non possa più partire.
Prima della disciplina del 2011 o recideva dal contratto o perdeva il pacchetto turistico.
Ora è prevista, dall’art. 39, la cessione di un contratto per qualsiasi motivo personale, può avere due
alternative: perdere la caparra o cedere il contratto ad altro soggetto.
Cedere il contratto a terzi senza la necessità del consenso dell’organizzatore solo che devono essere
rispettate alcune condizioni oggettive che sono:
-Il cessionario abbia le caratteristiche necessarie per quel viaggio. Es. se ho prenotato il viaggio per
il cammino di Santiago di Compostela non posso cedere il viaggio a mio zio di 80 anni che non ce
la fa a camminare.
-Non devono mancare meno di quattro giorni alla data di partenza.

Ci possono essere delle modifiche contrattuali al contratto, il tour operator possa modificare il
contratto dopo che è stato redatto e sottoscritto.
Per esempio la modifica del prezzo: pensiamo alla modifica del prezzo che non dipende dal tour
operator ma che dipende dal costo del carburante, del trasporto ecc., il contratto può subire queste
variazioni di prezzo per cause di forza maggiore. Di fronte a questo aumento di prezzo il turista
potrebbe non voler pagare.
L’ordinamento ha disciplinato che se l’aumento di prezzo è superiore del 10%, il turista ha due
strade: o pagare i soldi in più oppure può recedere dal contratto e avere indietro quanto pagato,
senza versare altre somme a titolo di penale o di recesso.
La variazione del prezzo non può essere effettuata prima di 20 giorni prima della partenza.

Nel caso in cui il tour operator deve apportare delle modifiche prima della partenza al contratto,
deve dare immediato avviso scritto al viaggiatore.
Il viaggiatore può entro due giorni dall’avviso, o accettare o recedere dal contratto o può chiedere
un altro pacchetto di viaggio di uguale valore, salvo risarcimento del danno.
Es. il pacchetto turistico tutto compreso prevede un viaggio a Zanzibar in un albergo 4 stelle vicino
al mare, cambiano le condizioni contrattuali perché questo albergo ha dei problemi che non si
possono risolvere; il tour operator non riesce a trovare un albergo vicino al mare, ma riesce a trovare
un albergo 4 stelle lontano dal mare, il tour operator deve comunicare immediatamente al turista. Il
turista può essere interessato o può non essere più interessato, quindi recedere dal contratto; può,
quindi, comunicare al tour operator che quel pacchetto di Zanzibar lontano dal mare non gli

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interessa più ma vorrebbe cambiare meta pagando lo stesso importo o poco superiore; può
richiedere, inoltre, il risarcimento del danno.
Questo succede prima della partenza.

Se le modifiche ci sono dopo la partenza, art. 49 codice del turismo, il tour operator risponderà nei
miei confronti se accerto il danno per l’albergo che non era confacente a quanto stabilito nel
contratto, quindi non era a quattro stelle oppure se era quattro stelle la stanza era sporca, ma poi si
rivarrà con l’albergatore nei rapporti interni.
Quindi con l’assicurazione del contratto di viaggio, l’organizzatore assume nei confronti del turista
consumatore un obbligazione di risultato, impegnandosi a realizzare l’interesse del turista
consumatore a trascorrere una vacanza buona, serena, rispetto alle condizioni contrattuali previste,
per questo il tour operator assume una sorta di protezione nei confronti del turista ed è chiamato a
rispondere non solo del proprio operato ma anche dell’operato di terzi, degli ausiliari con cui è
entrato in contato per realizzare il pacchetto turistico, ecco perché in caso di inadempimento dei
fornitori e quindi dell’albergatore piuttosto che il ristoratore, il tour operator sarà responsabile in
prima persona, e quindi io turista consumatore mi rivolgerò al tuo operator che poi si rivarrà sul
fornitore di cui è responsabile o sul ristorante che è oggetto del raccheto turistico, perciò si dice che
il tour operator ha una responsabilità quasi oggettiva perché risponde di qualunque cosa, e perché
può avvalersi nei confronti dei suoi fornitori il diritto di rivalsa, cioè risponderà nei confronti del
turista in prima persona ma poi chiederà il diritto di rivalsa per inadempimento che ha realizzato
l'albergatore piuttosto che il vettore(?).
Il tour operator ha una responsabilità quasi oggettiva perché risponde di qualunque inadempimento
dei suoi fornitori nei confronti del turista consumatore. I casi in cui il tour operator non risponde
personalmente degli inadempimenti, (quando il tour operator non è responsabile del mancato
servizio o dell'imperfezione del servizio realizzato nei confronti del turista? Quali sono gli esimenti
della responsabilità del tour operator?) Quando nei casi di forza maggiore per esempio la pandemia,
un tuono, un lampo che distrugge l'aereo e anche nei casi fortuiti imprevedibili, Nel senso che per
esempio nonostante il tour operator abbia visionato le previsioni meteo dell'aeronautica militare
italiana comunque un fulmine si abbatte sull'aeroporto di partenza, quindi il tour operator è stato
molto diligente nell'adempimento dei propri obblighi contrattuali poiché ha visto anche le previsioni
meteo ma l'evento fortuito imprevedibile ha provocato l'impossibilità della partenza perché il
fulmine non previsto a colpito l'aeroporto di partenza dei turisti. In questo caso vi è l’esonero della
responsabilità dell’organizzatore.
Quindi le esimenti relative alla responsabilità dell'organizzatore sono: la forza maggiore, il
caso fortuito, anche il fatto del terzo e la causa imputabile al viaggiatore.
Qualora la mancata o inesatta esecuzione del contratto dipende dal fatto del terzo succede che per
esempio il pacchetto turistico oggetto di compravendita in Egitto prevede una gita al museo egizio,
che parte alle otto dall'albergo io faccio tardi e non riesco ad arrivare alle otto all'appuntamento mi
aspettano alle 8:15 ma io non sono pronta, non suona la sveglia, E arrivo quindi alle 8:30, quindi
l'autista che ci porta dall'albergo al museo egizio del Cairo non mi aspetta e quindi prendo un taxi E
arrivo contemporaneamente al pullman, durante questo tragitto succede che questo taxi come dentro
viene investito da un camion, viene danneggiato da un camion, in questo caso l'organizzatore non è
responsabile, quindi questo è un caso di esimente della responsabilità del tour operator, perché la
causa dell'inadempimento contrattuale non è dipeso dal tour operator perché aveva predisposto il
pullman per arrivare al museo egizio in quell'orario io non ho rispettato l'orario ho preso di mia
spontanea volontà il taxi quindi di conseguenza il tour operator non può essere responsabile.
L'ultimo caso di esimente della responsabilità dell'organizzatore è quello in cui la mancata
esecuzione del contratto dipende dal viaggiatore ad esempio durante il viaggio in Egitto compro ad
un mercato del Cairo un'arma antica, ripongo quest'arma antica nell'armadio che si trova adiacente
al letto dove dormo in albergo quest'arma non è vuota ma parte un colpo da quest'arma nella notte
per l'eccessivo caldo, buca l’armadietto e mi ferisce il piede anche in questo caso il tour operator
quindi non è responsabile.

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Il danno da vacanza rovinata


È riconosciuto dal codice del turismo il danno da vacanza rovinata come danno morale, non di
scarsa importanza, subito dal turista in conseguenza all’inadempimento da parte del tour operator
che è caricato dal danno da vacanza rovinata come danno morale, che si aggiunge alla responsabilità
dell’inadempimento delle prestazioni oggetto del pacchetto turistico.
Es. se la mia finalità era quello di fare una vacanza a Zanzibar nell’albergo quattro stelle vicino al
mare con piscina e mi reco a Zanzibar e l’albergo non è quello che ho richiesto, la vacanza che
avevo sognato in realtà non esiste come da contratto. Dunque, non solo il tour operator è stato
inadempiente ma è responsabile anche del danno morale, perché io avevo solo quelle due settimane
di riposo e ho perso inutilmente quel tempo e non potrò più ripetere quel viaggio.
Quindi il danno da vacanza rovinata è quel danno morale che attiene alla sfera emotiva della
persona ed è un danno correlato all’inutilità del tempo trascorso nella vacanza e alla irrepetibilità
dell’occasione perduta.
In realtà, dall’art. 2059, sappiamo che il danno morale è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge
e prima delle sentenze gemelle si diceva che il danno morale era solo se ci fosse un reato; la novità
del danno da vacanza rovinata è la previsione del danno morale che il turista ha subito in
conseguenza dell’inadempimento da parte del tour operator e quindi abbiamo un caso in cui c’è
un’ipotesi di danno morale prevista dalla legge e non contravveniamo con l’art. 2059 e la legge, nel
codice del turismo, dall’art. 46 prevede il danno da vacanza rovinata come danno morale risarcibile
come conseguenza del tempo trascorso inutilmente e dell’irrepetibilità dell’occasione perduta
collegata ad un inadempimento del tour operator e quindi ci troviamo nell’ipotesi che corrisponde
all’apparato normativo su cui si basa il danno morale; quindi, il codice del turismo del 2011 ha
risolto un vero problema, nel senso che nel nostro ordinamento dagli anni 80, il giudice di merito
aveva previsto il risarcimento del danno da vacanza rovinata ma non esisteva una normativa che
sancisse in via diretta il danno da vacanza come danno morale e quindi c’era la discrezionalità del
giudice che poteva riconoscerlo come danno morale oppure no. Dunque, poteva essere che la stessa
situazione in cui si trovavano più persone fosse risarcita a Roma ma non da quello di Napoli o
Milano e quindi c’era una disparità di trattamento e da qui l’importanza del riconoscimento con un
articolo del danno da vacanza rovinata come danno morale.
In Europa la situazione si è palesata come una situazione da risolvere nel 2002 quando la Corte
europea di giustizia era stata inserita nella questione.
Le sentenze sono costituite da un fatto in concreto, dalla citazione delle domande attorie e poi dalla
decisione del giudice.
Era successo che in Austria una famiglia aveva acquistato un pacchetto compreso ed era partita per
la Turchia e uno dei membri della famiglia aveva avuto un problema alla pancia ed è stato tutto il
tempo in albergo e con lui tutta la famiglia; nel frattempo, la famiglia era andata dal giudice di
primo grado e aveva chiesto il risarcimento del danno morale ulteriore al risarcimento delle spese
mediche ma il giudice non glielo aveva accordato, così come quello di secondo grado, d’appello, il
quale si è posto il problema perché la disciplina austriaca non lo prevedeva espressamente ma c’era
la disciplina 314 del 1990 quindi si sarebbe dovuto interpretare questa direttiva per capire se fosse
riconosciuto il danno morale.
Il giudice di secondo grado ferma il giudizio e propone la pregiudiziale dinanzi al giudice dell’UE.
La corte di Giustizia sostiene che l’art. 5 della direttiva 90/314 c’è un riconoscimento implicito del
risarcimento del danno diverso tra quelli corporali tra cui è compreso il danno morale.
Quindi sosteneva che il giudice austriaco poteva riconoscere il danno da vacanza rovinata come
danno morale che avevano avuto nel viaggio.
La corte dice che se le loro leggi interne non hanno previsto il danno morale da vacanza rovinata, è
possibile riconoscerlo grazie all’art. 5 della direttiva 90/314, perché è possibile abbinare al
risarcimento del danno materiale anche quello morale derivante dall’inadempimento del tour
operator.
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