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DIRITTO CIVILE-DANNO INGIUSTO E RESPONSABILITA’

> PRIMA LEZIONE, 30/03/2023

PREMESSA
Il modulo riguarda il danno ingiusto e, più in generale, la responsabilità civile. Oggi tratteremo in
particolare il concetto di danno ingiusto. Quando parliamo di “danno ingiusto” facciamo
riferimento alla c.d. responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.), la quale è ricompresa, insieme
alla responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) nella c.d. responsabilità civile.
Prima di esaminare la nozione di danno ingiusto, va fatta una considerazione a livello generale:
che differenza c’è tra la responsabilità extracontrattuale e quella contrattuale?
- innanzitutto, la fonte che sta alla base della responsabilità: nel primo caso il fatto illecito, nel
secondo caso il contratto
- varia il termine di prescrizione: 5 anni nel primo caso, 10 anni nel secondo caso. Il problema
semmai sta nell’individuazione del dies a quo dal quale decorre il termine di prescrizione. La
questione si pone soprattutto nei casi danno lungo latente, cioè di danno che si prolunga nel
tempo: Nel caso lungo latente occorre ricordare che il termine di prescrizione inizia a decorre da
quando il danneggiato ha scoperto o poteva scoprire il danno
- diverso è l’onere probatorio: nel primo caso è il soggetto danneggiato che dovrà provare la colpa
del danneggiante, nel secondo caso è il debitore che dovrà provare di non aver colposamente
inadempiuto (la prova liberatoria spetta al debitore, il quale dovrà provare o l’esatto adempimento
o l’impossibilità sopravvenuta per causa a lui non imputabile). Sotto questo profilo la
giurisprudenza è assolutamente pacifica, in forza di una sentenza resa a Sezioni Unite nel 2001:
tradizionalmente si ritiene che sia il danneggiato a dover fornire la prova, anche presuntiva, del
dolo o della colpa del danneggiante.
Tuttavia, con la Legge Gelli-Bianco (2017) il legislatore è intervenuto nell’ambito della
responsabilità sanitaria. Questa legge, che porta il nome dei promotori, fu presentata ai sanitari dai
promotori che erano due medici come una vittoria per la classe medica, in quanto l’art. 7 della
legge inquadra la responsabilità del sanitario che non stipula un accordo diretto con il paziente
come una responsabilità ex art. 2043 c.c., al fine di superare, per via legislativa, un orientamento
giurisprudenziale che si era diffuso con la CASS. 589/1999 che aveva, per la prima volta, applicato
la fattispecie del c.d. contatto sociale se io paziente vado in ospedale e sono curato da un
sanitario che non scelgo, non ci può essere tra me e questo un rapporto contrattuale, ma,
nonostante ciò, la Cassazione dice che c’è comunque un contatto qualificato, cioè un fatto da cui
nasce un’obbligazione, alla stessa stregua di un contratto. Da qui sorgono obbligazione, che se
inadempiute determinano un regime di responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.).
Da questa sentenza si è diffusa tutta una ricostruzione volta a tutelare il paziente in base alla
responsabilità contrattuale. La Gelli Bianco invece riporta il rapporto nell’alveo dell’art. 2043 c.c.
Questa scelta fu sbandierata alla classe medica come normativa per ridare loro serenità,
mantenendo comunque fermo il diritto al risarcimento del danno dei danneggiati.
Questa enfatizzazione del ritorno al 2043 c.c. ha, dal punto di vista concreta, poca rilevanza, se non
per il profilo della prescrizione. Ha poca rilevanza perché, se noi ragioniamo in tema di inversione
dell’onere probatorio, la Legge Gelli Bianco prevede subito un accertamento tecnico preventivo
questa distinzione tra 1218 e 2043 dal punto di vista della ripartizione degli oneri probatori in
molte fattispecie di responsabilità è molto svuotata di contenuto concreto.
- l’art. 1225, il quale prevede che se l’inadempimento o il ritardo nella esecuzione della prestazione
non dipende da dolo della prestazione (cioè se è meramente colposo) il risarcimento è limitato al
danno prevedibile nel momento in cui è sorta l’obbligazione, si applica al risarcimento del danno
da inadempimento delle obbligazioni e non al risarcimento del danno da fatto illecito.
In tutta franchezza, esistono pochissime sentenze che abbiano fatto applicazione del 1225,
escludendo il risarcimento del danno in quanto si trattava di danni non prevedibili derivanti da
inadempimento colposo. Questo perché il giudizio sulla prevedibilità del danno viene assorbito dal
giudizio sulla prevedibilità immediata e diretta alcuni casi non sono risarcibili non perché
imprevedibili ma perché non sono concepiti come conseguenza immediata e diretta
dell’inadempimento.

CONCETTO DI DANNO INGIUSTO EX ART. 2043


Uno dei temi più controversi è rappresentato dalla nozione di “ingiustizia” del danno, tenuto conto
che noi l’ingiustizia del danno la ritroviamo all’art. 2043 c.c. Il termine danno compare due volte,
una volta nella parte finale e un’altra nella parte centrale. Solo nella parte centrale si fa tuttavia
riferimento all’ingiustizia del danno, in quanto la parte finale attiene alla c.d. liquidazione del
danno, cioè alle regole per stimare e tradurre per equivalente una determinata perdita.
A noi interessa la parte centrale, la quale prevede che il danno, per essere risarcibile, deve essere
anche ingiusto. Questo perché può anche accadere che un danno non produca conseguenze
risarcitorie
ESEMPIO 1: i casi di danno commessi nell’esercizio dell’attività sportiva
ESEMPIO 2: prima si parlava di immunità del diritto di famiglia alle regole della responsabilità civile.

C’è stata una evoluzione della responsabilità civile soprattutto alla luce dell’evoluzione della
nazione di danno ingiusto. Questa evoluzione ha portato ad un intervento sempre più massiccio
dello strumento risarcitorio, è scoppiata la funzione para-riparatoria della responsabilità civile.
Tutto ciò è passato attraverso l’evoluzione della clausola generale dell’ingiustizia del danno.
L’art. 2043 c.c. ha avuto un’evoluzione giurisprudenziale nel corso dei decenni. La responsabilità
extracontrattuale era tradizionalmente collegata alla lesione di diritti assoluti, cioè alla lesione del
diritto di proprietà e alla lesione dei diritti della personalità. Vi sono state delle tappe
giurisprudenziali molto importanti:
- CASO SUPERGA: aereo che si schianta per la nebbia sulla collina di Superga mentre stava
portando a casa la squadra del Torino. I familiari ottennero dal vettore aereo il risarcimento del
danno. Anche il Torino calcio chiese il risarcimento del danno, per essere stata privata dei propri
giocatori migliori. La Cassazione Sent. 2085/1953 riconosce che il Torino ha subito un danno ma
non è risarcibile, in quanto non si tratta di un diritto assoluto ma di un diritto di credito ad ottenere
prestazioni sportive.
- la vicenda si ripropone a distanza di 20 anni. È ancora il Torino calcio che lamenta un danno
ingiusto per la morte di un calciatore. La Cassazione interviene con la Sent. 174/1971 sul c.d.
CASO NERONI: calciatore che viene investito ed ucciso da un’autovettura, guidata da un giovane
che successivamente diventerà presidente del Torino. Anche qui il Torino ha lamentato un danno
ingiusto perché ha perso uno dei suoi migliori calciatori. La Cassazione, a distanza di venti anni,
afferma per la prima volta la risarcibilità dei diritti di credito danno ingiusto può essere anche la
compromissione di un diritto di credito. È necessario, comunque, che ci sia un diritto soggettivo del
danneggiato che reclama il risarcimento. Nell’aprire le porte alla risarcibilità del danno derivante
dalla lesione del diritto di credito, tuttavia, la Cassazione afferma anche un principio: tu Torino non
hai diritto al risarcimento perché quel giovane della primavera che ha sostituito Neroni si è rivelato
altrettanto bravo; quindi, tu non hai subito una perdita definitiva. La lesione, quindi, deve essere
definitiva. Questa limitazione, tuttavia, non verrà più affermata nelle sentenze successiva sulla
risarcibilità dei diritti di credito.
-un ulteriore passaggio molto importante si ha quando la Cassazione riconosce l’ingiustizia del
danno anche per la lesione delle situazioni di fatto. La Cassazione nel 94’ afferma per la prima
volta, in caso di uccisione di un convivente more uxorio, tutela sul piano risarcitorio sulla base di
una equiparazione tra famiglia coniugale e famiglia di fatto.
Queste varie tappe dell’evoluzione del concetto di danno ingiusto culminano con due sentenze
delle Sezioni Unite del luglio del 1999:
- SEZ. UN. 500/1999: per la prima volta viene affermata la risarcibilità della lesione agli interessi
legittimi da parte della P.A. La vicenda sottesa alla sentenza in esame è il caso di un cittadino
proprietario di un terreno che ha tutti i requisiti per costruire sul terreno, ma il Comune gli nega
illegittimamente il permesso a costruire. Lui fa il ricorso al TAR, finisce al Consiglio di Stato che
annulla il provvedimento amministrativo. Nel frattempo, però il piano regolatore è cambiato e non
può ricostruire. Subisce quindi un danno. Chiede risarcimento ma il giudice di merito glielo aveva
negato sostenendo che non vi fosse diritto soggettivo. Non era considerato danno ingiusto, ai sensi
dell’art. 2043, la lesione avente ad oggetto un diritto soggettivo. Le Sezioni Unite danno una
interpretazione dell’art. 2043, mettendo in evidenza come l’ingiustizia del danno non possa essere
collegata esclusivamente alla lesione di diritti soggettivi e quindi caratterizzata da un sistema di
tipicità, perché la caratteristica è invece quella dell’atipicità il danno ingiusto non può essere
ingabbiato in una scatola chiusa di diritti soggettivi. C’è un passaggio in cui viene messo in evidenza
l’errore che i giudici avevano seguito fino all’epoca, di inventarsi diritti soggettivi al fine di tutelare
determinate situazione nei casi in cui i diritti soggettivi non c’erano. E viene fatto l’esempio di una
vicenda giurisprudenziale: DE CHIRICO era uno dei massimi pittori del secolo scorso, che tante
volte non riconosceva bene gli autentici dai falsi. È accaduto che un gallerista un bel giorno
acquista un quadro di De Chirico da un pittore ma non è sicuro dell’autenticità. Chiede allora a De
Chirico di autenticarlo. Viene certificato ma a distanza di tempo si scopre che è un falso. Chi lo ha
venduto sparisce. Chi lo ha acquistato fa causa al De Chirico perché è stata lesa la sua autonomia
contrattuale. Il Tribunale di Roma, nel condannare De Chirico parla di danno ingiusto perché è stato
leso il diritto all’integrità patrimoniale dell’acquirente. Cioè questo caso viene riportato dalle
sezioni unite del 99’ per stigmatizzare la tecnica di inventarsi diritti soggettivi per tutelare una
situazione meritevole di risarcimento. Invece le Sezioni Unite dicono che per accertare se c’è o
meno l’ingiustizia del danno bisogna valutare se l’interesse di danneggiato è meritevole di tutela
oppure no. Come si fa a valutare se sia meritevole di tutela? Bisogna bilanciare l’interesse del
danneggiato al risarcimento con l’interesse che il danneggiante intendeva perseguire nel momento
in cui ha compiuto l’azione foriera di danno. Sulla base di questo giudizio di bilanciamento, se
prevale l’interesse al risarcimento, ci sarà diritto al ristoro. Questo giudizio di bilanciamento viene
effettuato sulla base del diritto positivo, verificando quale dei due interessi è tutelato dal diritto
positivo. E se entrambi sono tutelati dal diritto positivo e da fonti di pari grado, allora sarà il diritto
vivente a dettare le condizioni per cui dovrà prevalere l’uno o l’altro interesse. Tuttavia, quello che
viene valorizzato è che il danno ingiusto è “atipico”, cioè costituisce una clausola generale, la cui
sussistenza andrà valutata caso per caso.
ESEMPIO: caso separazione tra due coniugi. Famiglia perfetta, idilliaca. 30 anni di matrimonio
senza uno screzio. Uno dei due ha sacrificato la vita per la carriera dell’altro. I figli sono diventati
grandi. Uno dei due all’improvviso va via di casa perché ha incontrato un’altra persona e se ne è
innamorato. È un danno ingiusto il danno da separazione? La Cassazione, tra l’altro, collega la
separazione ai diritti di libertà fondamentale. Ci sono sentenze della Cassazione che inquadrano il
diritto di separarsi nell’ambito dei diritti fondamentali della persona. La separazione in sé per sé
non potrà mai essere fonte di danno ingiusto. Non c’è dall’altra parte un diritto del coniuge a
mantenere integro un nucleo familiare. Il matrimonio non è un contratto. Esso può essere sciolto
ad iniziativa di uno dei due coniugi e l’altro coniuge non ha un diritto all’intangibilità della propria
sfera familiare e del proprio rapporto matrimoniale. C’è stata una vicenda relativa ad un padre di
famiglia che, rovistando tra le cose della moglie, scopre una lettera tra la stessa e un proprio
dipendente dove, non solo scopre che i due intrattenevano una relazione, ma anche che il figlio era
figlio del dipendente. Il marito fa causa al terzo, cioè al dipendente. Il Tribunale di Roma, in modo
errato, fa una comparazione tra il matrimonio e il contratto, sostenendo che, così come un terzo
non può indurre un contraente a violare un contratto, così il terzo non può indurre la moglie a
violare i doveri nascenti dal matrimonio. L’errore del Tribunale di Roma è che il matrimonio non è
un contratto, concludendo addirittura dando ragione all’amante perché l’iniziativa era stata dalla
moglie, per cui la fattispecie non era equiparabile a quella dell’induzione del terzo alla violazione
degli obblighi contrattuali.
Qui il tema è che, quando c’è un danno, per stabilire se esso è ingiusto bisogna accertare quali tra i
due interessi prevale. Nel caso di separazione, se le modalità di separazione assumono determinati
caratteri ci può essere danno ingiusto, perché non si tratterebbe più di separazione ma sarebbero
altre condotte a trascinare nell’ambito dell’illiceità condotte che invece sarebbero esenti da
responsabilità.
ESEMPIO: si pensi al caso della moglie di un imprenditore che, con il marito spesso via per lavoro,
scopre foto in cui lo stesso aveva un’altra famiglia in tutt’altra parte del mondo. Qui viene ravvisata
ingiustizia del danno per la modalità offensiva con cui la doppia relazione era stata portata in avanti
Questo nuovo filone della responsabilità civile che entra nel diritto di famiglia noi ce l’abbiamo
all’indomani della Sent. 500/1999 perché soltanto nel 99’ viene riconosciuta la valenza di
clausola generale di danno ingiusto, soltanto allora viene demandato al giudice di valutare caso
per caso per il danno è meritevole o meno di tutela, senza necessità di fare riferimento alla
lesione di diritti soggettivi.

> SECONDA LEZIONE 05/04/2023

SINTESI DELLA PUNTATA PRECEDENTE


Abbiamo visto l’evoluzione della clausola generale del danno in giusto, partendo da casi
giurisprudenziali che sono passati ormai alla storia. Siamo arrivati all’arresto delle SU del 99’, le
quali hanno dato una definizione di danni ingiusto come una clausola generale, rispetto alla quale
non è possibile individuare a priori un elenco tassativo di ipotesi in cui vi è responsabilità
extracontrattuale. Vi è stato, quindi, un superamento di quella impostazione che vedeva
l’ingiustizia del danno collegata alla lesione di un diritto soggettivo. Le SU censurano questa tecnica
di collegare il risarcimento del danno alla lesione di un diritto soggettivo, perché ponendo il caso
emblematico della lesione dell’autonomia contrattuale (caso De Chirico), ritengono inesistente un
diritto all’integrità del patrimonio. Questo esempio serve alle SU per chiarire l’errore
nell’approccio: il danno ingiusto altro non è che una clausola generale, rispetto alla quale bisogna
di volta in volta verificare se sia meritevole di tutela l’interesse del danneggiato al risarcimento del
danno. Come si fa a valutare se c’è danno ingiusto, se deve prevalere o meno il diritto al
risarcimento del danno? Si fa una comparazione in concreto tra l’interesse che la condotta del
danneggiante intendeva perseguire e interesse del danneggiato che viene leso.
Questa comparazione si effettua vedendo quale tra i due interessi è più tutelato dall’ordinamento,
basandosi sulla gerarchia delle fonti. Può però accadere che entrambi gli interessi in conflitto siano
presi in considerazioni dell’ordinamento positivo e siano tutelati da fonti di pari grado (es.
entrambi tutelati dalla costituzione). In questo caso bisogna risolvere il conflitto anche alla luce
delle regole che il diritto vivente si è dato. La scorsa volta avevamo fatto tre ipotesi di casi
indiscussi dove c’è un danno, ma non necessariamente questo danno è ingiusto.
Tra questi abbiamo visto il caso del danno da separazione/rottura del rapporto matrimoniale.
Eravamo arrivati alla conclusione che non ci possa essere un danno ingiusto in sé e per sé per la
rottura del rapporto matrimoniale, né nei confronti del coniuge che subisce la separazione né nei
confronti dei figli che subiscono la separazione. Questo perché ognuno ha il diritto di separarsi,
ponendo fine al rapporto matrimoniale e, addirittura, la giurisprudenza collega il diritto di separarsi
alle libertà fondamentali della persona. Per questa ragione, proprio perché l’ordinamento
contempla il diritto di separarsi, non si potrà mai avere danno ingiusto in sé e per sé. Poi ci siamo
detti che magari certe condotte che accompagnano la separazione (es. relazione extraconiugale)
possano integrare il danno in giusto, in ragione delle modalità con cui questa separazione viene
realizzata.
A partire dalla sentenza SU 500 e 501 del 1999, l’elemento soggettivo della colpa della P.A. viene
collegato a canoni particolarmente stringenti. Quando abbiamo parlato del CASO MERONI, la
Cassazione introdusse un criterio selettivo del risarcimento del danno relativo alla risarcibilità dei
diritti di credito.
In tema di responsabilità medica il legislatore, con la LEGGE 24/2017, ha tentato di superare la
teoria del contatto sociale, qualificando la responsabilità del medico come responsabilità
extracontrattuale. Abbiamo però rimarcato come cambia poco dal punto di vista pratico, in quanto
in queste ipotesi l’elemento soggettivo viene accertato sulla base di una CTU.
Quindi, abbiamo detto che in alcuni casi è molto semplice accertare se il danno è ingiusto o meno
sulla base del bilanciamento tra interessi contrapposti, altre volte questa valutazione è più
complessa, in quanto si rinvia, quanto al bilanciamento, alle regole che si è dato il diritto vivente.
La scorsa volta abbiamo fatto due esempi a tal proposito: uno era quello del partecipante ad una
manifestazione sportiva che subisce un danno dall’avversario; l’altro era relativo al giornalista che,
nell’esercizio del proprio diritto di cronaca, rivela notizie lesive dell’altrui reputazione, magari
dell’altrui riservatezza. Come vengono risolti questi conflitti?
Prendiamo quello della c.d. responsabilità sportiva. Qui noi abbiamo un contendente ad una gara
sportiva che subisce una lesione, magari anche importante, alla propria integrità fisica. Dall’altra
parte però abbiamo che il danno è stato arrecato nell’esercizio di un’attività non solo lecita ma
anche incentivata a livello di ordinamento positivo. Quindi, noi abbiamo un conflitto tra interessi
entrambi di rango costituzionale. Negli ultimi anni la Cassazione sembra aver dato delle linee guida
per accertare l’ingiustizia del danno in siffatta ipotesi: l’ingiustizia del danno non è collegata alla
violazione della regola tecnica (regola di gioco del calcio). La responsabilità civile c’è soltanto
quando il danneggiante agisce con dolo, non inteso come volontarietà del fallo ma come
volontarietà di ledere l’altrui integrità fisica, oppure quando il danneggiante attua una condotta
per irruenza, cattiveria agonistica, del tutto incompatibile con il contesto di gioco, cosicché
proprio quella particolare condotta proprio così eccessiva è del tutto estranea al contesto
agonistico. Queste regole dettate in questa sentenza, la quale viene citata in tutti i casi di
responsabilità sportiva, rappresenta un’applicazione di quanto detto dalle SU nel 1999: quando
entrambi gli interessi sono contemplati da fonti giuridiche di pari grado, il giudice dovrà di volta in
volta fare riferimento alle regole che il diritto vivente ha dettato per dirimere questo conflitto
bisogna accertare caso per caso se il danno è ingiusto oppure no.

L’elemento soggettivo che caratterizza il fatto illecito può assumere rilievo anche sotto il profilo
dell’ingiustizia del danno, attirano nell’ambito dell’ingiustizia del danno condotte che, se
realizzate con una semplice colpa, sarebbero del tutto irrilevanti.
Noi abbiamo tutta una serie di illeciti, ad esempio nel caso di denuncia infondata, in cui la
risarcibilità del danno è ammessa solo se il danno è cagionato con dolo. Nel caso di denuncia
infondata, la giurisprudenza ha detto che non è risarcibile in tutti i casi, perché se noi
sanzionassimo tutti coloro che presentano denunce infondate, nessuno denuncerebbe più.
L’unico caso in cui ci sono conseguenze risarcitorie è quando il soggetto cagiona il danno mosso da
dolo o almeno da colpa grave. Solo in questi casi la denuncia infondata determinata conseguenze
sul piano della responsabilità civile. Questo significo che questo è un c.d. ILLECITO DI DOLO o
COLPA GRAVE.
L’altro caso che abbiamo esaminato è quello del giornalista. Qui noi vediamo, forse ancor meglio,
come opera il giudizio di bilanciamento. Qui abbiamo interesse del giornalista a pubblicare certe
notizie e l’interesse del danneggiato a tutelare la propria riservatezza e il proprio onore. Si tratta di
due diritti costituzionali dello stesso rango. Come si risolve questo conflitto? Sempre con le regole
che ha dato il diritto vivente. Noi abbiamo, da un po’ di decenni a questa parte, una pronuncia di
Cassazione che viene sempre richiamata (c.d. decalogo del giornalista). Questa sentenza ci dice
quando prevale il diritto di cronaca o il diritto del danneggiato alla propria reputazione. Si tratta di
tre criteri: verità/veridicità notizia, interesse pubblico alla sua conoscenza (collegato alla
notorietà del soggetto di cui si parla), continenza (criterio che descrive il modo in cui una notizia
viene presentata.).

INGIUSTIZIA DEL DANNO RECLAMATA DA CHI È COSTRETTO A VIVERE CON UNA GRAVE
MALFORMAZIONE
- Qualora il medico, a causa di un errore, non informa il genitore che il feto presenta delle gravi
malformazioni, chi può reclamare l’esistenza di un danno ingiusto?
In Francia, questa vicenda prese il nome di CASO PERUCHE, dal nome del bambino nato dopo che
la madre, spaventatasi per il timore di aver contratto il morbillo durante la gravidanza, aveva
ricevuto riscontro negativo dal medico, quando il realtà il morbillo lo aveva e lo trasmise anche al
bimbo che portava in grembo, cagionandone la nascita con delle malformazioni.
Il tema è quindi quello del danno da vita indesiderata. Vengono in rilievo tanti aspetti e non
necessariamente tutti giuridici. Ad esempio, quando si è posta la questione in Francia è sorto un
enorme dibattito etico sul se una vita, per quanto in condizioni di sofferenza, possa essere
considerata come un danno ingiusto. In Francia, la Cassazione ha censurato la Corte d’appello di
Parigi che aveva negato il diritto al risarcimento del danno al nascituro. Da lì si è acceso un enorme
dibattito, poi culminato con una legge di più ampio respiro sulla responsabilità sanitaria, il cui art. 1
dispone che nessun risarcimento del danno può essere accordato per il solo fatto della nascita.
Nel caso Peruche, dunque, non poteva essere riconosciuto un danno al minore.
In Italia la questione si è posta innanzi alla Corte di Cassazione solo nel 2004 (SENT. 14488/2004).
Avevamo due genitori affetti da talassemia mediterranea- una malattia del sangue- che decisero di
avere un figlio, ma non volevano trasmettere al figlio siffatta malattia. Dichiararono di volere
sottoporre il feto ad accertamenti, con la precisazione che se il feto fosse stato contagiato dalla
patologia avrebbero voluto interrompere la gravidanza. Gli accertamenti esclusero la patologia.
Tuttavia, il bambino nacque lo stesso affetto da talassemia. Ai genitori viene riconosciuto il diritto
al risarcimento del danno perché è stato leso il loro diritto ad una loro procreazione cosciente e
responsabile.
- La legittimazione al risarcimento del danno deve essere riconosciuta anche al bambino che
nasce con una determinata malformazione trasmessa dai genitori? Qui l’errore medico è stato
non informare i genitori che sussisteva quella determinata patologia.
Di danno da malformazione si è iniziato a parlare nel dopoguerra, con una sentenza del Tribunale
di Piacenza del 1950. La vicenda era questo: un bambino nasce affetto da sifilide, trasmessa dai
genitori durante il concepimento. Il bambino fa causa al padre e il giudice di Piacenza afferma la
responsabilità dei genitori. La Corte d’Appello di Bologna nel 1951 se ne lava però le mani,
rilevando un vizio di legittimazione processuale nella domanda.
Può chi nasce con una malattia reclamare un danno ingiusto nei confronti dei genitori perché lo
hanno procreato, consapevolmente o comunque accettandone il rischio, con una
malformazione? In questo caso bisogna vedere se prevale l’interesse del minore a nascere sano e
l’interesse della gestante. Prima però dobbiamo chiederci se sussiste un diritto a nascere sano.
Il contesto di riferimento è quello dell’interruzione della gravidanza, disciplinato dalla
Legge 194/1978. L’interruzione della gravidanza è collegata alla salute esclusiva della gestante: la
gestante non può interrompere la gravidanza per una malattia del fino, salvo che questa determini
un pericolo anche per la sua salute psico-fisica. Non ci potrà mai essere un danno ingiusto fatto
valere dal figlio nei confronti dei genitori per non avere interrotto la gravidanza, pur a
conoscenza di una certa malattia. Astrattamente ci può essere un danno ingiusto reclamabile dal
figlio verso la gestante se l’insorgere della malattia è correlata ad una condotta di vita
assolutamente censurabile della gestante (es. assunzione di droga).
Il problema invece si pone quando siamo di fronte ad un illecito pluri-offensivo dei sanitari, nel
senso che il sanitario non diagnostica una patologia. Qui si pone la questione se, oltre alla
gestante, il danno possa essere fatto valere anche da chi quella malattia la deve vivere.
Il padre ha diritto al risarcimento? La Cassazione, nella Sent. 14488 del 2004, ha riconosciuto il
diritto al risarcimento del danno anche al padre, sostenendo che il padre è divenuto genitore di un
figlio malato. Tale legittimazione invece è stata negata al figlio, evidenziando che per lui
l’alternativa era la non vita, la quale non è tutelata dall’ordinamento. Questo orientamento è stato
confermato fino al 2012, quando è intervenuta la Sent. Cass. 16764/2012, la quale si muove però
da una visione particolare della responsabilità civile. Si tratta di una sentenza che porta a
riconoscere al diritto al risarcimento del danno anche una funzione previdenziale e non
meramente riparatoria. Tale sentenza è rimasta isolata. Le S.U. 12767/2015 hanno escluso la
possibilità di riconoscere il diritto al risarcimento del danno per una malformazione non
comunicata allo stesso malformato.
Torniamo però alla figura del padre. La Cassazione ha sostenuto che se la malattia è fonte di danno
anche per lui, allora è legittimato a chiedere il risarcimento del danno: così come la gestante,
anche lui subisce un danno risarcibile.
E i fratelli, invece, hanno diritto al risarcimento del danno? La giurisprudenza riconosce ai fratelli
già esistenti il diritto al risarcimento del danno perché si fa riferimento allo sconvolgimento della
vita del nucleo familiare. Sui c.d. bambini postumi, c’è la Cassazione (SENT. 9048/2018) che
esclude che persone non solo nate ma neanche concepite alla commissione del fatto illecito
possano domandare, al responsabile di questo, un risarcimento. Erano nati due fratellini a distanza
di uno e sei anni dopo rispetto alla nascita del malformato. Al professore però non convince
l’assunto secondo cui non ci possa essere una legittimazione al risarcimento del danno di chi non
era stato ancora concepito al momento del fatto illecito. A suo avviso, il sistema della
responsabilità civile non permette di escludere che ci siano fatti illeciti con effetti permanenti o che
si manifestino a distanza di anni, in modo tale che anche chi non era nato quando è stato attuato
quel fatto possa subire quel danno ingiusto.
Infatti, in giurisprudenza già si trovano delle ipotesi di questo genere. Un po’ di decenni fa, a
Seveso prese fuoco una fabbrica di solventi chimici e una nube si propagò nell’aria provocando
gravi problemi di salute nella popolazione, ma non solo in quella esistente al momento del fatto,
ma anche in quelli che nacquero a distanza di tempo. Tant’è che gli abitanti di Severo furono
sottoposti a screening anche dopo anni dal fatto. La Cassazione ha riconosciuto il risarcimento del
danno anche a chi non era ancora nato per lo stress e la sofferenza di essere stato sottoposto per
anni a screening sulla sua salute. Questa è la dimostrazione che struttura del fatto illecito non
presuppone una contemporaneità del fatto.

> TERZA LEZIONE

> QUARTA LEZIONE 19/04/2023


Ci ricolleghiamo ai ragionamenti fatti nella scorsa settimana, in particolare con riferimento al
danno per lesione del diritto all’autodeterminazione.
La scorsa volta abbiamo parlato del perché, ad un certo momento, entra in scena la fattispecie di
responsabilità per lesione diritto all’autodeterminazione. In un bellissimo saggio del prof.re
Busnelli, il quale scandisce le tappe più importanti della responsabilità sanitaria.
Una di queste tappe è rappresentata dall’entrata in scena del dovere di informazione.
Abbiamo segnalato come ad un certo punto il Codice di deontologia medica cambi formulazione,
nel senso che fino agli inizi degli anni 90’ vi era una sorta di affidamento del paziente in quello che
faceva il medico. Addirittura, era previsto che il medico potesse tacere al paziente determinate
informazioni sul suo stato di salute, soprattutto se si trattava di patologie molto gravi.
Ad un certo punto, nell’edizione del 94’, cambia l’edizione del Codice: il medico non può mettere
mano sul paziente se non lo ha esaustivamente informato di tutto ciò che quel trattamento
implica. Non solo lo deve informare ma deve anche acquisire un consenso validamente prestato.
Il consenso non si considera validamente prestato se le informazioni trasmesse non erano chiare.
Entra in gioco, quindi, anche la trasparenza dell’informazione: non solo bisogna trasmettere certe
informazioni ma bisogna trasmetterle in un modo tale per cui esse vengano comprese dal
destinatario. Non basta la mera firma di un modulo, ma bisogna anche accertare cosa il paziente
abbia compreso. In questo caso l’onere della prova incombe sul debitore della prestazione, cioè il
soggetto che è tenuto ad informare.
Questa prospettiva del rapporto medico-paziente cambia perché si è arrivati negli anni 90’ ad una
riscoperta dei diritti della persona di rango costituzionale. Si è giunti alla conclusione che se io
decido di farmi curare, cioè di sottopormi ad un trattamento sanitario (anche il più banale),
esercito un diritto di autodeterminazione. Questo diritto di autodeterminazione è esercitato
validamente solo se vi è stata un’informazione a monte da parte del sanitario. Se non c’è stata
questa informazione o essa è carente, il consenso è stato prestato in modo non corretto e, quindi,
vi è la lesione di un diritto di rango costituzionale (diritto all’autodeterminazione).
Agli inizi degli anni Novanta, la Consulta (Cort. Cost. 441/1990) ha collegato ai fini risarcitori il
consenso del paziente alle cure ricevute. Sulla base di queste riflessioni, nel contesto della
responsabilità civile si è fatta strada la responsabilità del “danno da lesione al diritto
all’autodeterminazione” a prescindere da un effettivo danno alla salute.
La volta scorsa abbiamo, a tal proposito, fatto il caso della paziente che lamentava di non essere
stata correttamente informata sulle conseguenze di un trattamento salvavita.
Un altro caso è quello affrontato dal Tribunale di Venezia: paziente cardiopatico a cui viene
sostituita una valvola cardiaca. Questo paziente, poco tempo dopo l’intervento, subisce un ictus in
quanto la sostituzione della valvola comportava questo rischio. Qui l’ictus non era stato provocato
dall’errore medico ma è qualcosa che si può verificare, in percentuale statistica, a seguito di quel
particolare intervento. E di questo rischio il paziente non era stato informato.
Un altro importante caso è sempre del Tribunale di Venezia: una truccatrice, proprio a causa
dell’attività professionale, aveva problema di tunnel carpale. L’intervento viene svolto ma la
paziente lamenta di non essere stata informata perché non è stato detto che dopo l’intervento non
poteva muovere agevolmente le mani per trenta giorni. Per trenta giorni non ha potuto svolgere la
sua attività professionale ma è stata adibita al commerciale. Ha quindi chiesto un risarcimento
cospicuo lamentando la violazione del suo diritto all’autodeterminazione
Altro caso è stato quello affrontato dal Tribunale di Milano (Resp. Civile e previdenza del 2008). Un
paziente era affetto da un ematoma, il quale rischiava di rompersi. L’intervento era ordinario, ma
presentava alcuni profili di rischio. Il paziente viene informato adeguatamente di tutti i rischi
correlati a quell’intervento e di tutti quelli a cui sarebbe andato incontro se non si fosse sottoposto
allo stesso. Egli aveva quindi prestato un consenso, ma era successo che il giorno prima
dell’intervento il paziente era stato sottoposto ad un trattamento propedeutico all’intervento.
Durante questo trattamento l’angioma si rompe e il paziente entra in coma. Il Tribunale di Milano
accerta che la struttura ospedaliera non aveva provato di avere acquisito un consenso valido da
parte del paziente.
Sono tutti casi abbastanza esemplificativi del contenzioso che si crea intorno alla fattispecie della
lesione al diritto all’autodeterminazione del paziente.
In Francia si è formato un orientamento giurisprudenziale tale per cui il sanitario ti deve informare
di tutto ciò che si può verificare con una soglia di probabilità pari o superiore al 3%. Tutto ciò che si
colloca al di sotto di questa soglia viene qualificato come “caso fortuito”.
Nel Lazio si erano posti il problema dell’informazione in ordine al vaccino antinfluenzale, il quale
poteva comunque creare delle reazioni negative. Quindi medici di medicina generale avevano
redatto un modulo di consenso informato particolarmente dettagliato, tale per cui i pazienti si
spaventano e rifiutavano la vaccinazione, con un rischio ben superiore a quello a cui andavano
incontro con l’inoculazione del vaccino. Questo per dire che il contenuto dell’informazione è un
tema particolarmente delicato e non definito.
Torniamo al caso dell’angioma. Dobbiamo comprendere l’ingiustizia del danno sulla base delle
regole della causalità giuridica. Nell’ambito della causalità civile, generalmente, si distinguono due
fasi della causalità:
1) CAUSALITA’ MATERIALE: quando rispetto ad un determinato evento bisogna individuare chi sia il
responsabile. Questa fase è racchiusa nel verbo “cagionare” di cui all’art. 2043. Nell’ambito della
responsabilità civile non abbiamo, a differenza del diritto penale, una disciplina del rapporto di
causalità. L’unico riferimento è questo. Se vogliamo sintetizzare, la causalità materiale risponde alla
domanda “Chi è stato?”.
2) CAUSALITA’ GIURIDICA: dopo che abbiamo individuato il responsabile dell’evento di fanno,
un’altra causalità è quella giuridica, che risponde alla domanda “Quanto bisogna risarcire?”.
Questa causalità è regolata da alcune disposizioni, in particolare l’art. 1223 il quale stabilisce che il
danno deve essere conseguenza immediata e diretta.
Il paziente affetto da angioma subisce un’invalidità del 100% in seguito al trattamento preventivo.
Il Tribunale di Milano ha riconosciuto un risarcimento di quasi 1 mln in favore della moglie, quale
tutrice, del paziente poi deceduto e poi ha riconosciuto una somma di circa 100.000 euro a favore
della moglie e 50.000 a favore di ciascuno dei figli quale danno riflesso per il patimento subito a
causa della morte del congiunto.
Il Tribunale di Milano liquida il danno come se la menomazione fosse stata causata da un errore del
sanitario nell’esecuzione dell’attività terapeutica, quando in realtà non vi è stata responsabilità nel
trattamento: l’angioma si è rotto per un caso fortuito e non per un’imperizia in senso tecnico del
medico.
Solitamente, per stimare il danno si fa riferimento alla c.d. TEORIA DIFFERENZIALE, facendo il
confronto tra la situazione prima dell’inadempimento e la situazione ideale che ci sarebbe stata se
il danneggiante avesse tenuto la condotta ideale. Cioè il danno risarcibile può essere stimato sulla
base di una differenza tra ciò che si è verificato in seguito alla condotta oggetto di contestazione e
la situazione che noi avremmo avuto se il soggetto responsabile avesse tenuto una condotta
ideale. Qui il punto è che il consenso all’intervento principale, non c’è motivo di dubitare
l’esistenza del consenso anche in ordine alla fase preparatoria. Quindi, il danno da invalidità
permanente non può essere una conseguenza immediata e diretta della lesione al diritto
all’autodeterminazione del paziente. Infatti, se così sosteniamo, il risarcimento non ha più una
finalità riparatoria ma acquista una finalità sanzionatoria. Questo giudizio differenziale tra la
situazione concreta che si è verificata a seguito dell’inadempimento e la situazione ideale che noi
avremmo avuto se non ci fosse stato inadempimento, va fatto a trecentosessanta gradi.
Ad avviso del prof.re questa sentenza è profondamente errata: l’invalidità permanente non è stata
provocata dalla mancata affermazione.
Questa tendenza a qualificare il danno da lesione al diritto all’autodeterminazione come un
danno “in re ipsa” è una tendenza che nel diritto vivente si porta avanti da molto tempo,
nonostante alcune sentenze di Cassazione hanno inquadrato in modo preciso la problematica.
Una delle sentenze più condividibile è la Cass. 2847/2010 e la Cassazione 28.985/2019.
Quest’ultima fa parte di quel gruppo di sentenze di cui abbiamo fatto cenno la scorsa volta, che
rientrano nel progetto della Cassazione che ha voluto esaltare la sua funzione nomofilattica per
dettare regole ben chiaro per gli interpreti nell’ambito della responsabilità sanitaria. Essa ha
raggruppato un numero molto elevato di controversie in materia sanitaria, concentrando la
discussione in alcuni giorni. Poi ha individuato una decina di casi diversi. In questa sentenza la
Cassazione ha messo in rilievo che chi si avvale di ausiliari per svolgere la controprestazione non
può agire con regresso al 100% dicendo che è tutta colpa dell’ausiliario, perché tu trai vantaggio
economico dall’attività dell’ausiliario, dando una determinata interpretazione dell’art. 1228 c.c.
Quindi la responsabilità è al 50% tra il debitore principale e l’ausiliario, a meno che non si provi che
l’ausiliario ha realizzato una condotta talmente debordante da quello che era stato convenuto.
La Cassazione, quindi, ritiene di dover mettere alcuni punti fermi sul risarcimento del danno per
lesione al diritto all’autodeterminazione.
Nella sentenza 2847/2010 il caso era quello di un paziente anziano affetto da cataratta.
Il paziente aveva avuto una complicazione permanente. La Corte d’Appello di Napoli aveva
riconosciuto un cospicuo risarcimento. Stiamo parlando di complicanze che si verificano in ragione
del caso fortuito e non ad errore medico. Il paziente lamentava di non essere stato informato di
questa complicanza. La Corte di Cassazione, con una sentenza di estrema chiarezza, censura la
motivazione della sentenza di appello perché aveva configurato il danno come conseguenza della
lesione del diritto all’autodeterminazione. C’era stato danno all’autodeterminazione ma il paziente
non aveva provato che, se correttamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento.
La Cassazione esclude la possibilità di individuare il danno risarcibile con la lesione del diritto
all’autodeterminazione ma è necessario, ai fini del diritto al risarcimento, che il danneggiato
dimostri che cosa avrebbe fatto se correttamente informato e se si fosse ugualmente sottoposto
all’intervento, con le stesse modalità. Il danno è risarcibile quando il danneggiato dimostra che, a
conoscenza di queste possibili complicanze, avrebbe potuto scegliere una diversa tecnica
operatoria. Ulteriormente, il danneggiato può allegare di avere subito un c.d. danno da shock, nel
senso che la Cassazione pone in evidenza come, un conto possa essere il verificarsi di una
complicanza a cui si è stati preparati, e un conto è risvegliarsi da un intervento chirurgico e scoprire
che si è verificata una complicanza a cui non si era minimamente preparati. Qui il danno non è la
complicanza, ma lo shock del non essere preparato a questo pregiudizio. La Cassazione, peraltro,
ricorda il filtro delle conseguenze e dalla gravità ai fini del risarcimento: il danneggiato non può
limitarsi ad invocare un danno da shock perché non è stato informato che poteva verificarsi questa
complicazione, ma lo deve provare nella sua serietà. Non si tratta di un danno in re ipsa, proprio
perché il paziente deve dimostrare che se fosse stato informato avrebbe accettato e vissuto meglio
la malattia. C’è una sentenza di Cassazione del 2015 che riguardava la vicenda di una paziente che
si sottopose ad un intervento chirurgico di rimozione di un fibroma. Succede che quando i sanitari
intervengono si accorgono di una neoplasia che li costringe ad asportare tutto l’utero senza che ci
fosse alcun consenso della paziente. Intervento eseguito perfettamente e necessario per la
sopravvivenza della stessa. La paziente, nonostante ciò, aveva chiesto il risarcimento del danno.
Il giudice aveva riconosciuto un risarcimento non come danno in re ipsa ma come danno da choc
per mancata informazione: ritrovarsi in una condizione di grandissima menomazione a cui, se fosse
stata preparata, le avrebbe dato la possibilità di viverlo meglio.
Arriviamo alla Sent. 28.985/2019. Essa ribadisce che non ci può essere un danno in re ipsa,
ribadendo la sentenza del 2010. Afferma anche il principio secondo cui, se l’intervento a cui è stato
sottoposto il paziente che lamenta la mancanza di informazione era appropriato, si presume che il
paziente avrebbe accettato l’intervento. È quindi onere del paziente dimostrare che lo avrebbe
rifiutato e che avrebbe conseguito un risultato migliorativo per la propria integrità psico-fisica.
Nel 2021, il Tribunale di Milano nell’ambito del progetto di dettare criteri uniformi per la
liquidazione del danno non patrimoniale, ha preso in considerazione anche il danno al diritto
all’autodeterminazione. Le Tabelle di Milano hanno una valenza para-normativa.
Vengono analizzate in questo documento più di 100 sentenze sul territorio nazionale e vengono
anche dettati i criteri per la liquidazione, sulla base di 4 parametri:
1) LESIONI AUTODETERMINAZIONE DI LIEVE ENTITA: da 1000 a 4000 euro
2) LESIONE AUTODETERMINAZIONE MEDIA ENTITA’: 4000 a 9000 euro
3) LESIONE AUTODETERMINAZIONE GRAVE ENTITA’: 9000 A 20.000 euro
4) LESIONE AUTODETERMINAZIONE ECCEZIONALE GRAVITA’: più di 20.000 euro
Ad avviso del prof.re queste tabelle hanno degli effetti negativi perché vanno contro quello che la
Cassazione ha affermato. Se noi prendiamo il danno di lieve entità, troviamo che le caratteristiche
sono: entità irrilevante, molto modesta dei postumi, tenuità della sofferenza interiore, intervento
poco invasivo oppure molto urgente senza alternative terapeutiche, modesta violazione
dell’obbligo informativo. Se noi dichiamo “molto urgente senza alternative terapeutiche” stiamo
dicendo sostanzialmente che il paziente lo avrebbe comunque accettato se fosse stato informato!!!
Ad avviso del prof.re questi criteri non fanno altro che incentivare delle richieste risarcitorie
bagatellari, andando ad alimentare un conflitto medico-paziente di cui non si sentirebbe la
necessità. Diverso è il caso in cui c’è una lesione del diritto all’autodeterminazione grave o di
eccezionale gravità.
Nel 2017, la legge 219 ha introdotto le DAT anche di fine vita del paziente in cui viene preso in
considerazione anche il profilo del consenso informato e quindi anche il diritto del paziente a
rifiutare le cure.
Per il compito: le tematiche sono quelle di cui abbiamo parlato: ingiustizia del danno (in
particolare nascita indesiderata), nesso di causalità, lesione del diritto all’autodeterminazione
(che consente di parlare sia dell’ingiustizia del danno che del nesso di causalità).

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