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1 Per l'aumento della pena per i delitti non colposi di cui al presente titolo commessi in danno di persona
portatrice di minorazione fisica, psichica o sensoriale, vedi l'art. 36, 1° co., L. 5.2.1992, n. 104, come sostituito
dall'art. 3, 1° co., L. 15.7.2009, n. 94.
2 L'importo della multa è stato così aumentato, da ultimo, ai sensi dell'art. 113, L. 24.11.1981, n. 689.
3 Comma abrogato dall'art. 10, 1° co., D.Lgs. 10.4.2018, n. 36, a decorrere dal 9 maggio 2018. Vedi, anche, le
disposizioni transitorie di cui all'art. 12 del medesimo D.Lgs. n. 36/2018.
Bibliografia
L'identificazione del soggetto passivo dell'appropriazione indebita, come tale titolare del
diritto di querela (con l'eccezione delle ipotesi previste nei due capoversi), è chiaramente
subordinata e condizionata alla previa individuazione del bene giuridico tutelato dalla
fattispecie in oggetto. Dunque, per quanto appena detto, sicuramente il proprietario, ma
anche il titolare di un diritto (assoluto o relativo) sulla cosa che ricomprenda un vincolo
di destinazione inerente alla stessa. O, più specificatamente, il titolare di un potere
giuridico poziore rispetto a quello fondante il possesso del soggetto agente (Marini, PS, II,
531). Secondo taluni anche l'affidante può essere considerato soggetto passivo del reato
di cui all'art. 646 in quanto «quando vi sia un affidamento della cosa, anche il rapporto di
fiducia è leso» (Pagliaro, PS, III, 447).
L'art. 646 esige che il soggetto attivo abbia «a qualsiasi titolo il possesso» del
denaro o della cosa mobile altrui. Proprio sulla nozione di possesso viene comunemente
incentrata la distinzione tra furto e appropriazione indebita, il cui esatto confine da
sempre costituisce oggetto di ampie dissertazioni in dottrina. Si è discusso se la nozione
di possesso vada mutuata da quella specifica del diritto privato (e si consideri, peraltro,
che anche in tale ambito non esistono univoche interpretazioni; per tutti, v. Masi, Il
possesso e la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Tratt. Rescigno, 8, II, Torino,
1982, 425) o se, invece, come sembra più corretto, essa debba essere individuata
autonomamente all'interno del diritto penale (tra i fautori della tesi civilistica c'è
Pannain, Il possesso nel diritto penale, Roma, 1946, 62, il quale, però, sembra far confluire
nella nozione di possesso alcuni esempi che per la dottrina privatistica sono di
detenzione). Il dibattito riguarda in generale tutti i concetti tipici del diritto privato quali
proprietà, patrimonio, cosa mobile, ecc. e rappresenta l'effetto del contrasto esistente tra
i sostenitori della funzione sanzionatoria del diritto penale e quelli che, viceversa, ne
affermano la natura autonoma. L'opzione ermeneutica che sembra prevalere è quella
che rifugge da definizioni aprioristiche e assolute preferendo invece stimare, caso per
caso, in relazione alla singola figura di reato, la riconducibilità o meno della definizione
del concetto al diritto civile (v. per tutti Pedrazzi, Appropriazione indebita, in ED, II,
Milano, 1958, 834).
Una tesi che seppur autorevolmente sostenuta non ha trovato grande seguito in dottrina
e giurisprudenza è quella che ravvisa nell'apparentia iuris il substrato del fenomeno
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possessorio ex art. 646 (Nuvolone, Il possesso nel diritto penale, Milano, 1942, 133): il
possesso consisterebbe in un rapporto con la cosa, ottenuto lecitamente, che abbia la
parvenza di una "autonoma disponibilità di diritto", in realtà inesistente, del bene stesso
(apparentia domini), tanto che il fatto appropriativo (illecito), venendo sostanzialmente
colto dai terzi come continuazione (e non rottura) dello stato preesistente, non
creerebbe quell'allarme sociale tipico invece del furto. In realtà, l'opinione dei terzi in
relazione alla legittimità o meno del possesso e dell'atto di disposizione del possessore
(rectius: l'apparenza di legalità) è elemento estraneo alla fattispecie. La dottrina
pressoché unanime identifica il possesso di cui all'art. 646 in un autonomo potere di
fatto sulla cosa che comporta, quindi, la facoltà, più o meno vasta e giuridicamente
riconosciuta, di servirsi della cosa stessa (Antolisei, 347; De Marsico, Delitti contro il
patrimonio, Napoli, 1951, 194; Fiandaca, Musco, 103; Regina, 2). È indispensabile che ci sia
una relazione diretta con la cosa per cui non rientra nella corrispondente nozione
penalistica, il c.d. possesso mediato, disciplinato dall'art. 1140, 2° co., c.c., ovverosia
quello che si realizza per il tramite di un'altra persona che ha la detenzione (in senso
civilistico) della cosa. Con la precisazione che non è necessario un rapporto di contatto
fisico o di stretta contiguità tra il soggetto e il bene ma è sufficiente la disponibilità dello
stesso, cioè la possibilità di disporne concretamente in qualsiasi momento lo si voglia
(Mantovani, 113). Il significato penalistico di tale elemento appare dunque
complessivamente più ampio dell'omologo civilistico (secondo Pisapia, 797, «il
presupposto dell'appropriazione indebita, che il Codice individua come "possesso a
qualsiasi titolo" sarebbe più chiaramente espresso con la formula "possesso o
detenzione": in questo modo si comprenderebbero, senza possibilità di dubbio, tutti i
casi in cui l'agente ha un potere di fatto, non illecito, consistente nella possibilità di
signoreggiare la cosa altrui»). Il possesso nel diritto penale (rectius: nell'appropriazione
indebita) non si esaurisce nel «potere sulla cosa che si manifesta in un'attività
corrispondente all'esercizio della proprietà o di altro diritto reale» (art. 1140, 1° co., c.c.)
ma abbraccia, ad esempio, anche i diritti personali di godimento. Senza alcuna pretesa di
completezza, sono considerati possessori ai sensi dell'art. 646: l'usufruttuario, il locatario,
il mandatario, il depositario, il comodatario, il vettore, il mezzadro, l'amministratore di
una società, il coerede, ecc. L'autonomia del potere sopra menzionato sembra doversi
accertare in relazione alla capacità di controllo rimasta al titolare del diritto di grado
superiore sulla cosa - normalmente il soggetto passivo del reato -, nel senso che,
laddove quest'ultimo conservi (anche) la signoria di fatto sul bene (la c.d. sfera di
custodia e sorveglianza), il soggetto agente non potrà considerarsi, ai fini di cui all'art.
646, possessore ma semplice detentore materiale: si pensi al noto caso di scuola del
facchino che trasporta le valigie a fianco del viaggiatore. In tale ipotesi, persistendo il
potere di controllo sui bagagli in capo a quest'ultimo, il facchino dovrà prima sottrarglieli
e poi appropriarsi degli stessi integrando così il contiguo delitto di furto. Si pensi ancora
allo studioso che consulta un libro in una biblioteca sotto la vigilanza degli impiegati.
Non sempre è facile distinguere tra possesso (necessario per la sussistenza
dell'appropriazione indebita) e mera detenzione materiale (che invece può dar luogo,
sussistendone tutti gli elementi, al delitto di furto) per cui, al fine di dirimere gli episodi
più controversi, dottrina e giurisprudenza sembrano ricorrere più al metodo casistico che
ad un'elaborazione concettuale valida per tutte le variegate ipotesi prospettabili nella
realtà. Peraltro, potrebbe apparire contraddittorio (Lanzi, Possesso, V, Diritto penale, in
EG, XXIII, Roma, 1990, 5) ritenere punibile per furto il detentore, considerato che la
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struttura disegnata dall'art. 624 prevede la detenzione come situazione tipica del
soggetto passivo («sottraendola a chi la detiene») e non di quello agente (in questo
senso Mantovani, 48); in realtà, al di là del fatto che nel differenziare l'appropriazione
indebita dal furto si distingue tra possessore e mero detentore materiale (Antolisei, 300,
nt. 34, al fine di focalizzare la detenzione della persona offesa parla di «detentore non
semplice, ma qualificato, o se si vuole, in senso giuridico e non materiale») e che
comunque il problema sembra principalmente terminologico, ciò che rileva (e
discrimina) realmente è la condotta della sottrazione: il ladro deve necessariamente
sottrarre la cosa per impossessarsene mentre colui che se ne appropria non deve
sottrarre alcunché perché già la possiede (in sintesi v. La Macchia, Detenzione e possesso
nel furto e nell'appropriazione indebita, in CP, 1982, 235). In questo consiste l'autonomo
potere di fatto del possessore, dove l'autonomia è data proprio dalla mancanza, in capo
al titolare del potere giuridico maggiore, di una diretta vigilanza sul bene, vale a dire
della disponibilità concreta della cosa. Invece, se per ottenere il possesso di questa la si
deve previamente, per così dire, levare al titolare, allora la condotta rientra nell'alveo
dell'art. 624 (per tutti, Pedrazzi, Appropriazione, 835).
Non pare avere particolare importanza la natura del titolo del possesso visto l'inciso a
qualsiasi titolo che permette di collegarlo a qualsivoglia causa (una legge, un contratto,
ecc.). Un titolo, si badi, deve però sussistere, per cui il possesso non dovrà essere stato
acquisito dal soggetto agente tramite una condotta criminosa (Mantovani, 114; Pedrazzi,
Appropriazione, 838). Diverso il caso in cui la cosa abbia una provenienza illecita non
dipendente da fatto dell'agente, salva ovviamente l'integrazione di altri reati (es.
ricettazione, favoreggiamento reale, ecc.) qualora questi sia consapevole dell'origine
illegale. Ovviamente, il titolo non deve essere traslativo della proprietà, ma sul punto si
tornerà a proposito del requisito dell'altruità. Un'ipotesi che ha suscitato un rilevante
dibattito, anche per il carattere paradigmatico che assume nell'individuazione dei confini
tra possesso e detenzione, è quella del possesso c.d. sprangato. Come è noto esso
consiste nel possesso di un bene che contiene, chiuso al suo interno, un altro bene (o
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più beni). In relazione a quest'ultimo ci si è chiesti quale tipo di rapporto esista con il
possessore del bene-involucro: possesso anch'esso o semplice detenzione? Sposano la
seconda soluzione coloro che considerano determinante la "chiusura" dell'involucro,
arrivando alla opinabile conclusione che il possessore del contenente, aprendo lo stesso,
se si impadronisce del solo contenente commette appropriazione indebita, se del solo
contenuto furto, se dell'uno e dell'altro entrambi i reati in concorso materiale (Petrocelli,
Del possesso nel diritto penale e delle cose custodite in involucro chiuso, in GP, 1947, II,
12). In realtà, chi possiede il contenitore possiede contestualmente anche il bene ivi
racchiuso perché quest'ultimo gli è stato affidato insieme al primo: pure il contenuto,
essendo uscito completamente dalla c.d. sfera di sorveglianza del titolare del diritto
poziore, è pienamente soggetto all'autonomo potere di fatto da parte del possessore
dell'involucro (così sembra ragionevolmente orientata la dottrina maggioritaria; v. per
tutti Mantovani, Il "possesso sprangato" nella problematica del furto e
dell'appropriazione indebita, in T, 1963, 939). Qualche dubbio può sorgere anche nel caso
in cui il possesso sul bene sia unito ad altro possesso sullo stesso bene (c.d.
compossesso). In siffatta evenienza, il potere sulla cosa non è del tutto autonomo a
causa della coesistenza di un potere di fatto di pari grado. L'appropriazione realizzata da
uno solo dei compossessori deve necessariamente passare per la sottrazione della cosa
all'altro possessore, integrando così il delitto di furto. Nel caso di beni ereditari, il
coerede possessore - purché esclusivo - che si impossessi, prima della divisione, anche
della quota appartenente agli altri coeredi, consumerà il reato de quo [Magri, I delitti
contro il patrimonio mediante frode, in Trattato, 3, VII, 2, 113]. Ovviamente, se tutti i
compossessori d'accordo si appropriano della cosa altrui violano il combinato disposto
degli artt. 110 e 646 (Pedrazzi, Appropriazione, 837).
Sia sotto la vigenza della vecchia figura di peculato (e di malversazione), sia sotto la
nuova, si è asserito che, mentre nel delitto contro la P.A. il possesso trova la sua origine
e causa in ragioni di ufficio o servizio, l'appropriazione indebita aggravata ai sensi
dell'art. 61, n. 9, presuppone che il possesso sia stato ricevuto intuitu personae e che
l'abuso dei poteri o la violazione dei doveri siano serviti non a fornire il possesso ma a
facilitare la realizzazione della condotta tipica (C., Sez. VI, 7.3.2007). Integra il delitto di
peculato la condotta del titolare di una tabaccheria che si appropri di una somma di
denaro della quale abbia il possesso perché autorizzato alla riscossione delle tasse
automobilistiche regionali (C., Sez. II, 22.3-3.5.2011, n. 17109). La condotta appropriativa del
responsabile della cassa di una Federazione sportiva integra il delitto di peculato
quando ha ad oggetto fondi pubblici erogati per la promozione dell'attività sportiva e,
invece, quello di appropriazione indebita aggravata, quando si riferisce a somme raccolte
dall'ente per il proprio finanziamento quale soggetto giuridico privato (C., Sez. VI,
21.10.2014, n. 53578). Commette il delitto di appropriazione indebita, non avendo la
qualifica di incaricato di pubblico servizio, il dipendente delle Poste italiane s.p.a.
addetto ad attività di mero smistamento della corrispondenza (C., Sez. VI, 20.11.2012, n.
46245). Nell'ambito dello svolgimento di funzioni di tipo bancario, quale è la raccolta del
risparmio, l'attività svolta da Poste s.p.a. è di tipo privatistico, non diversamente da
quella svolta dalle banche. Ne consegue che l'appropriazione di somme di risparmiatori
commessa con abuso del ruolo integra il reato di appropriazione indebita e non il reato
di peculato (C., Sez. VI, 21.10.2014, n. 10124). Integra il delitto di peculato la condotta del
direttore dell'ufficio postale che si sia appropriato del denaro afferente alla raccolta di
risparmio postale e di cui aveva la disponibilità ed il possesso ex qualitate, nonché del
timbro, funzionale alla realizzazione delle altre condotte appropriative ed allo
svolgimento dell'attività certificativa; viceversa, si configura il reato di appropriazione
indebita in ordine all'appropriazione di somme di denaro la cui origine non risulti in
alcun modo afferente alla raccolta di risparmio postale, avendo l'agente fatto
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Si è già accennato, nella parte dedicata alla dottrina, alla figura del c.d. possesso
sprangato. La giurisprudenza ha avuto modo in diverse, assai lontane, occasioni di
occuparsi del problema, arrivando a conclusioni tra loro divergenti. Cosi, si è sostenuto
che il depositario di un involucro chiuso ha il possesso del medesimo ma la sola
detenzione del contenuto, con la conseguenza che commetterà appropriazione indebita,
furto o entrambi i delitti in concorso materiale, a seconda che si impossessi
rispettivamente del solo contenente, del solo contenuto o di tutti e due (C., Sez. II,
28.2.1950; C., Sez. I, 13.5.1946; sostanzialmente nello stesso senso C., Sez. II, 19.7.1950).
Oppure si è affermato, sulla base della nozione civilistica del possesso e a proposito di
vettori e spedizionieri, che questi ultimi, non tenendo i beni (soprattutto nel caso di
possesso sprangato) con l'animo di esercitare sugli stessi un diritto reale, non li
possiedono. Perciò l'appropriazione di questi delinea il delitto di furto e non quello di cui
all'art. 646 (C., Sez. III, 15.1.1962).
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Tradizionalmente si ritiene che per aversi appropriazione, nel significato tipico della
fattispecie in esame, sia necessario che il soggetto agente si comporti, nei confronti del
denaro o della cosa mobile altrui di cui ha il possesso, uti dominus, cioè come se ne
fosse il proprietario e, quindi, oltrepassando le facoltà di disposizione del bene
consentitegli dal titolo in virtù del quale lo possiede. C'è anche chi distingue, all'interno
dell'appropriazione, tra il momento negativo dell'espropriazione dell'avente diritto,
intesa quale esclusione definitiva dalla proprietà, e quello positivo dell'impropriazione
dell'agente, interpretata come immissione nel proprio patrimonio (Pagliaro,
Appropriazione, 226; Proto, Analisi del concetto di appropriazione e abuso del possesso,
in RIDP, 1953, 329). Si parla anche, per esprimere sostanzialmente lo stesso concetto, di
interversione del possesso - richiamando così la rubrica dell'art. 1164 c.c. - dato che si ha
una sorta di trasformazione (illecita) del possesso in proprietà. Questo non significa
naturalmente che il soggetto diventa realmente proprietario, il che sarebbe
giuridicamente inammissibile, ma solo che si comporta come se lo fosse. Evidentemente,
in quel momento, il possessore è ispirato da un animus domini la cui concreta
manifestazione costituisce proprio la condotta appropriativa. Quest'ultima, nella maggior
parte dei casi, non è agevolmente definibile, di per sé, sul piano puramente fisico (come
potrebbe essere, ad esempio, il "cagionare la morte") contenendo, per così dire,
un'ontologica ambiguità, nel senso che uno stesso identico contegno materiale può
costituire (perlomeno se valutato dall'esterno) appropriazione oppure no a seconda che
sia sorretto o meno dalla volontà di comportarsi da proprietario (Pagliaro,
Appropriazione, 226; Pedrazzi, Appropriazione, 842; secondo Magri, 150, «il termine "si
appropria" è un concetto normativo» che rinvia alle norme disciplinanti il diritto di
proprietà sanzionando il «compimento di atti riservati al proprietario»). Anche se la legge
non le individua esplicitamente, si reputa che forme caratteristiche di manifestazione di
tale animus siano la consumazione, l'alienazione (sia a titolo oneroso che gratuito), la
ritenzione e la distrazione (della quale si parlerà a parte). Ma vanno fatte alcune
precisazioni. La prima figura integra il delitto solo quando si tratti di cose consumabili, il
cui ordinario modo di fruirne sia proprio quello di consumarle (es. benzina). Altrimenti,
nell'eventualità di un mero disfacimento, si potrebbe delineare il diverso delitto di
danneggiamento (Pagliaro, Appropriazione, 226; contra, Pedrazzi, Appropriazione, 845. Il
dilemma, in sostanza, si risolve a seconda che si ritenga la distruzione come un aspetto
del diritto di proprietà o, al contrario, come il suo annientamento). Negli stessi termini
sembra porsi il problema dell'alterazione della cosa che faccia perdere alla medesima le
proprie qualità originarie (si pensi alla fusione di un monile). Quanto alla ritenzione, va
precisato che la semplice mancata restituzione in quanto tale non pare sufficiente a
configurare l'appropriazione, essendo necessario anche un atteggiamento positivo
(rectius: commissivo) idoneo ad evidenziare il rifiuto di (e la volontà di non) restituire
(Attili, L'appropriazione indebita, in Viganò, Piergallini (a cura di), Reati contro la persona
e contro il patrimonio, in Trattato, 4, VII, 745; Pagliaro, Appropriazione, 227) come, ad
esempio, nel caso di diniego in seguito ad una richiesta di resa. Né sembra impiegabile a
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tal uopo la clausola di equivalenza di cui all'art. 40 stante la natura di reato di "mera
condotta" del delitto in oggetto (Marini, 534). La ritenzione c.d. precaria, volta a garantire
un richiesto diritto di credito, non dà luogo a condotta appropriativa poiché, in effetti, si
tiene il bene a disposizione del proprietario condizionandone la consegna
all'adempimento dell'obbligazione pretesa: non si ha, dunque, alcuna volontà di farlo
proprio. A proposito di condotte omissive, parte della dottrina, fondatamente, non
condivide il prevalente orientamento giurisprudenziale, precedente ad una recente (e di
segno contrario) presa di posizione delle Sezioni Unite, secondo il quale l'omesso
versamento, da parte del datore di lavoro, di somme trattenute dalla retribuzione del
lavoratore e destinate a terzi per fini previdenziali o altro (ad es. Casse edili) - situazione
equiparabile all'omesso versamento di ritenute fiscali da parte del sostituto d'imposta -
integrerebbe il delitto disegnato dall'art. 646. Il motivo del dissenso risiede
principalmente nel fatto che il denaro "trattenuto" non è altrui, non è cioè né del
lavoratore, né del terzo creditore, ma è di proprietà del datore di lavoro sul quale grava
l'obbligo di corrispondere la somma al terzo. Dunque, la mancanza di un possesso di
denaro altrui in capo al datore di lavoro impedisce per definizione di ritenere sussistente
l'appropriazione indebita in questi fatti di omesso versamento (Camelio, Appropriazione
indebita e violazione amministrativa nell'omesso versamento delle ritenute previdenziali
a carico del lavoratore, in CP, 1984, 2167; Palladino, Appropriazione indebita ed omesso
versamento contributivo: ancora dubbi mentre la Cassazione conferma il proprio
orientamento, in CP, 2000, 1938).
Siccome l'aggettivo indebita della rubrica dell'articolo non costituisce per la dottrina
prevalente un'ipotesi di antigiuridicità speciale ma, semplicemente, un rinvio
all'antigiuridicità obiettiva, cioè alla ovvia pretesa che il reato sia realizzato in mancanza
di cause di giustificazione (c.d. antigiuridicità espressa), la ritenzione finalizzata a
compensare un proprio credito, pur consistendo in un'appropriazione, - poiché sussiste
in capo all'agente la volontà di far sua la cosa - sarà giustificata ai sensi dell'art. 51
laddove sussistano tutti i requisiti perché possa validamente operare la compensazione
(art. 1243 c.c.): esistenza, liquidità, esigibilità del credito avente ad oggetto una somma di
denaro o altra cosa fungibile (Mantovani, 120). Sul punto sarà utile ritornare quando si
tratterà dell'ingiustizia del profitto.
La mancanza di una norma analoga all'art. 314, 2° co., e all'art. 626, n. 1, porta
ragionevolmente ad escludere la punibilità dell'appropriazione indebita d'uso (ma v., in
senso contrario alla maggior parte della dottrina, Marini, 534), figura viceversa
contemplata nel diritto romano. Il semplice uso al di fuori dei poteri consentiti dal titolo
del possesso, di per sé, non è appropriazione ma, più propriamente, illecito civile.
Tuttavia, in presenza di un uso non momentaneo potrà configurarsi il delitto di cui all'art.
646 quando l'utilizzo abusivo della cosa sia realizzato come se questa fosse propria e con
l'intenzione di servirsene uti dominus (Pisapia, 800). Inoltre, l'uso, per essere penalmente
irrilevante, non deve comportare la consumazione anche incompleta della cosa (ad
esempio, un rimarchevole deprezzamento della stessa) perché, altrimenti, si rientrerebbe
nel campo della appropriazione punibile (in questo senso Pedrazzi, Appropriazione, 844).
Nel medesimo contesto si discute anche se la dazione in pegno (o, più in generale, in
garanzia) della cosa da parte del possessore dia vita al delitto in esame. La risposta
affermativa si impone nel caso in cui vi sia la certezza o la seria probabilità di non
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Dalla lettera della norma si evince che il soggetto attivo del delitto può essere chiunque.
Per questo motivo l'appropriazione indebita viene usualmente catalogato tra i "reati
comuni", quelli che possono essere commessi da chicchessia. Va però aggiunto, per
completezza, che il soggetto agente deve avere il previo possesso della cosa (per questo
motivo taluno lo qualifica quale "reato proprio": Attili, 736) e che, a detta di parte della
dottrina, non può mai essere il proprietario (Attili, 736; De Marsico, 192; Pisapia, 794.
Sull'argomento si tornerà brevemente nel par. 5). Peraltro, in ragione della qualità del
soggetto attivo potrà mutare la qualificazione giuridica del fatto di appropriazione. Così,
sussisterà il delitto di peculato laddove la condotta venga realizzata da un pubblico
ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che possiedano il denaro o altra cosa
mobile altrui per ragione del loro ufficio o servizio. Un'ipotesi speciale di appropriazione
indebita è poi disciplinata nell'art. 235 c.p.m.p. per il caso in cui soggetto attivo e passivo
siano entrambi militari [v. Ciardi, Appropriazione indebita (diritto penale militare), in
NN.D.I., I, 1, Torino, 1968, 808]. Altri esempi particolari di appropriazione indebita,
caratterizzati anche (ma non solo) per la qualità del soggetto attivo (il comandante o il
componente dell'equipaggio della nave o dell'aeromobile, il personale marittimo, ecc.)
sono previste negli artt. 1143, 1144, 1145, 1146, 1147 c. nav. - v. anche art. 1138 - (per una
veloce panoramica su tali fattispecie, Marini, 547).
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citato orientamento sulle ritenute fiscali, hanno deciso, relativamente a tutte le forme di
ritenute alla fonte, la non altruità del denaro trattenuto dal datore di lavoro che, al
contrario, permane nel suo patrimonio. In particolare, hanno affermato che «il lavoratore
(...) non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, e il datore di lavoro
non perde la «proprietà» di tali somme, ma ha soltanto l'obbligo, analogamente a
quanto avviene per il sostituto d'imposta, di versarle alla Cassa edile e agli enti di
previdenza nella misura e alle scadenze previste dalle singole disposizioni». Con la
conseguenza che l'eventuale omesso versamento non darà luogo ad alcuna
appropriazione indebita (C., S.U., 27.10.2004). Per completezza, va soggiunto che, a detta
delle Sezioni Unite, in simili casi sarà applicabile la sanzione amministrativa di cui all'art.
8, L. 14.7.1959, n. 741 come sostituito dall'art. 13, D.Lgs. 19.12.1994, n. 758. Sullo stesso solco
si pone una nuova pronuncia delle Sezioni Unite, le quali hanno riaffermato i principi de
quibus in riferimento al datore di lavoro (debitore ceduto) che, in caso di cessione di
parte della retribuzione dal lavoratore (cedente) al suo creditore (cessionario), ometta di
versare la quota dovuta a quest'ultimo. Richiamando la loro precedente decisione del
2004, ne colgono l'assoluta adattabilità all'ipotesi della cessione di una quota dello
stipendio, in quanto «in relazione a un inadempimento di tal fatta del datore di lavoro
non è possibile considerare già appartenente al patrimonio del lavoratore la somma
corrispondente alla retribuzione a lui dovuta, mai uscita e separata dal patrimonio del
datore di lavoro (...)» (C., S.U., 25.5.2011). Integra il delitto ex art. 316 ter, e non quelli di
truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex art. 10 quater, D.Lgs.
10.3.2000, n. 74, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver
corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e
cassa integrazione guadagni, ottiene dall'I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non
corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali,
così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni (C., Sez.
II, 16.3.2016, n. 15989).
Non integra il delitto di truffa, bensì quello di appropriazione indebita nei confronti del
lavoratore, aggravata ex art. 61, n. 11, la condotta del datore di lavoro, il quale, abusando
delle relazioni d'ufficio o di prestazione d'opera, indichi falsamente, negli appositi
prospetti mensili, di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per
malattia, maternità o assegni familiari, quale anticipazione effettuata per conto dell'Inps,
così ottenendo dall'ente pubblico il conguaglio degli importi fittiziamente indicati con
quelli da lui dovuti al medesimo istituto a titolo di contributi previdenziali e assistenziali,
non potendo ravvisarsi in tal caso né un danno economico per l'ente pubblico, né una
condotta di artifici e raggiri nella mera falsa esposizione (C., Sez. II, 14.7.2015, n. 41357).
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quanto previsto dal codice civile, certo, liquido ed esigibile ( C., Sez. II, 12.12.2017-
12.3.2018, n. 10977; C., Sez. II, 14.2.2017, n. 11112; C., Sez. II, 4.12.2013, n. 293; C., Sez. II,
15.4.2010; C., Sez. II, 7.11.2007). La mancanza di queste condizioni rende la ritenzione del
soggetto agente penalmente illecita (C., Sez. II, 16.6.2011, n. 28875; C., Sez. II, 18.6.2009; C.,
Sez. VI, 19.11.1998). Al riguardo, si è detto che colui il quale vanti un diritto di ritenzione
sulla cosa può vendere la stessa, se soggetta a privilegio, ma a condizione di rispettare
l'art. 2756, 3° co., c.c. che rinvia alle modalità previste per la vendita del pegno. L'omessa
osservanza di tali formalità può integrare l'art. 646 perché il creditore fa suo il bene
violando la disciplina civilistica del diritto di ritenzione (C., Sez. II, 17.5.2001). La c.d.
ritenzione precaria non dà luogo per definizione ad un'appropriazione. Infatti, il soggetto
non muta il possesso in proprietà ma si limita a tenere la cosa a garanzia di un proprio
supposto credito; il proprietario non viene espropriato, potendo riavere la cosa in
qualsiasi momento, subordinatamente all'adempimento dell'obbligazione imputatagli (C.,
Sez. II, 25.1.2002; C., Sez. II, 24.4.1997). C., Sez. II, 23.3.2011, correttamente ritiene irrilevante il
carattere liquido ed esigibile del credito che si vuole salvaguardare ai fini della
configurabilità del diritto di ritenzione suscettibile di escludere l'appropriazione.
15
Pluris
20.9.2000). Praticamente identica l'ipotesi del socio che trattenga somme a lui date da
terzi a favore della società purché vi sia, in capo al primo, «la soggettiva interversione del
possesso di tali somme» (C., Sez. II, 30.4.1996). Risponde del delitto il socio che, una volta
iscritti gli utili al bilancio e che questo sia stato approvato, prelevi, appropriandosene, le
somme spettanti, sulla base del rapporto societario, ad altro socio sia esso di diritto o di
fatto (C., Sez. II, 22.1.2015, n. 5362). È stato, invece, qualificato mero inadempimento
civilistico, l'omesso versamento da parte di un gestore di bar - incaricato di tenere un
posto telefonico pubblico - del corrispettivo delle telefonate, in quanto egli non poteva
reputarsi né mandatario, né depositario della società telefonica (C., Sez. VI, 30.1.1995).
Correttamente la cassazione ha escluso la sussistenza del delitto de quo nel
comportamento del custode che tralasciando i suoi doveri di vigilanza di alcuni beni ha
in tal modo consentito a terzi - naturalmente senza che vi fosse la prova di preordinate
collusioni - la dilapidazione dei beni medesimi (C., Sez. II, 3.3.2005). Certamente singolare
la decisione che ha ritenuto sussistere l'appropriazione indebita nell'omessa
restituzione, da parte di un carabiniere assente per malattia, del munizionamento della
pistola d'ordinanza (C., Sez. I, 16.11.2007). Anche perché, in un caso analogo (omessa resa
di munizioni da sostituire con altre di diverso tipo) si è invece reputato integrata la
contravvenzione di cui all'art. 697 (C., Sez. I, 30.10.2003). Anche il broker assicurativo può
consumare il delitto in argomento quando incameri i denari percepiti quali premi per le
relative polizze (C., Sez. II, 17.11.2010). Commette il reato il consulente fiscale che si
appropria, sottraendola al cliente, di una somma di denaro consegnatagli dal medesimo
cliente per pagare le imposte (C., Sez. II, 3.6.2015, n. 24772). Commette il reato il titolare di
una officina meccanica che abbia utilizzato una vettura consegnatagli per la riparazione
quale auto di cortesia per i propri clienti (C., Sez. II, 24.9.2015, n. 44650).
I diversi atti posti in essere per procurarsi un ingiusto profitto, anche se realizzati in
distinti contesti temporali, se sorretti da un'unica e continua determinazione
costituiscono momenti di un'unica azione (C., Sez. II, 16.6.2016, n. 43107).
Per quanto concerne i rapporti con altre figure di reato è pressoché pacifico che il porre
in essere degli artifizi o raggiri al solo fine di occultare l'appropriazione già avvenuta, non
consente di ritenere integrata la truffa ma solo il delitto di cui all'art. 646 (C., Sez. II,
11.11.2016, n. 51060; C., Sez. II, 17.12.2003). Così, ad esempio, nel caso del promotore
finanziario che rilasci falsi rendiconti relativi ai fondi da lui gestiti, dato che, in questo
caso, i raggiri sono successivi alla «presa in possesso del denaro» (C., Sez. II, 28.5.2003).
Risponde di appropriazione indebita e non di truffa il direttore di un istituto bancario,
che, in collusione con un cliente ed omettendo i doverosi controlli interni, metta a
disposizione dello stesso somme di denaro, accreditando sul di lui conto o pagando
direttamente assegni privi di provvista (C., Sez. II, 21.1.2014, n. 6603). Ad opposta
conclusione si perviene quando la consegna della cosa sia stata ottenuta tramite artifici
o raggiri posto che il delitto di cui all'art. 646 «presuppone il possesso della cosa da
parte dell'agente per libero affidamento e proprio in ciò consiste l'elemento differenziale
fra i due reati» (C., Sez. II, 18.6.2013, n. 35798; nello stesso senso C., Sez. II, 9.4.2001; App.
Bologna, Sez. III, 28.2.2007). Non incorre nella violazione del principio di correlazione tra
accusa e sentenza il giudice di appello che ritenga colpevole l'imputato del delitto di
appropriazione indebita, così diversamente qualificata l'originaria imputazione di truffa,
non essendo configurabile alcuna violazione del diritto di difesa in quanto tale fatto
16
Pluris
costituisce una porzione della condotta originariamente contestata (C., Sez. II, 12.12.2014,
n. 1378). Non sussiste violazione della correlazione tra accusa e sentenza qualora
venga riqualificata come truffa l'imputazione originaria di appropriazione indebita, nella
quale, a seguito di contestazione suppletiva, erano già descritti i connotati ingannatori
della condotta tenuta dall'imputato (C., Sez. II, 24.1.2017, n. 5260). Sui rapporti tra
appropriazione indebita e i delitti di cui agli artt. 640 bis e 316 ter: C., Sez. II, 5.11.2015-
10.2.2016, n. 5486; C., Sez. II, 17.10.2014, n. 48663.
17
Pluris
30.11.2005). Per i rapporti col nuovo reato di "infedeltà patrimoniale" si rinvia al prossimo
paragrafo.
Sulla responsabilità dell'amministratore di condominio: C., Sez. II, 10.6.2016, n. 38660; C.,
Sez. II, 11.12.2013, n. 16209.
all'art. 646 abbia un'accezione più ampia di quella omologa del peculato (perlomeno
quando questa era affiancata dalla distrazione), mettono in risalto una parziale
sovrapposizione tra appropriazione e distrazione causata da un ingiustificato utilizzo di
termini diversi nell'art. 314 (vecchia formulazione) e nell'art. 646, pur di fronte ad un
identico contegno. Nello specifico, l'appropriazione di beni di cui si abbia il possesso per
ragioni di ufficio o servizio diretta a procurare un ingiusto profitto ad altri veniva
chiamata dal legislatore "distrazione" nell'art. 314 (se il soggetto agente rivestiva una
qualifica pubblicistica) e irragionevolmente "appropriazione" nell'art. 646 (se il soggetto
non ricopriva alcuna carica pubblica). Siffatta contraddizione è venuta meno con
l'eliminazione della distrazione dal testo del delitto contro la P.A. (sul punto, v. Militello,
Gli abusi nel patrimonio di società controllate e le relazioni fra appropriazione e
distrazione, in RIDPP, 1991, 275). Ad ogni modo, la dottrina ha avuto modo di occuparsi
della distrazione e dei suoi rapporti con l'appropriazione indebita soprattutto
analizzando i frequenti mutamenti di opinione manifestati dalla giurisprudenza in ordine
alla natura giuridica dell'attività bancaria. Come si vedrà nel commento
giurisprudenziale, si trattava di stabilire se il dipendente bancario fosse o meno
incaricato di un pubblico servizio e, quindi, quale tipo di statuto penale fosse ad esso
applicabile laddove avesse concesso irregolarmente ad un cliente un fido bancario. La
risposta al secondo quesito era ovviamente condizionata dalla risoluzione del primo
problema. Anche nel tentativo di evitare pericolosi vuoti di tutela, si è ritenuto che la
concessione abusiva di fido, purché connotata oltre che dalla violazione delle norme
interne sugli affidamenti e dalla collusione con il cliente, pure dalla certezza che il
denaro impiegato non verrà restituito, sia da considerare condotta appropriativa, come
tale rientrante fisiologicamente nella fattispecie di cui all'art. 646 (sul punto, anche per
un riepilogo delle diverse posizioni, v. Mezzetti, L'appropriazione indebita nell'abuso di
fido bancario, in GP, 1990, II, 193; Paliero, Lo "statuto penale" degli operatori bancari fra
disciplina comunitaria e politica penale giudiziale, in RIDPP, 1986, 1359; Zannotti, Banche
e diritto penale: la terza pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, in CP, 1989, 2150).
Peraltro, gran parte della dottrina, conscia dell'inadeguatezza della norma in oggetto a
contrastare le molteplice forme di abusivismi bancari, pensa che sia indispensabile la
creazione di una fattispecie ad hoc (per tutti, Bricola, La responsabilità penale degli
operatori bancari tra decisione delle sezioni unite e progetti di riforma, in IP, 1982, 441;
Paliero, Le Sezioni Unite invertono la rotta: è "comune" la qualifica giuridico-penale degli
operatori bancari, in RIDPP, 1987, 695). In quest'ottica può ricordarsi l'art. 137, 2° co., D.Lgs.
1.9.1993, n. 385. Sempre a commento delle decisioni giurisprudenziali, in particolare di
quelle sulla costituzione di fondi extrabilancio da parte di organi societari per fini (più o
meno) illeciti ma comunque riconducibili lato sensu all'interesse della società, la
condotta distrattiva è stata ritenuta species del genus appropriazione, in quanto la
destinazione arbitraria di un bene ad un fine diverso da quello prefissato rappresenta
pur sempre un'interversione del possesso. Nondimeno, in contrasto con quella
giurisprudenza per la quale l'operazione suddetta costituirebbe sempre e comunque
appropriazione indebita, si è sottolineato che l'amministratore il quale utilizzi risorse
della società in modo che non ne venga negata l'appartenenza alla medesima, per essere
comunque perseguito un interesse dell'ente, agisce sempre quale organo della
compagine societaria compiendo una distrazione penalmente insignificante perché
riferibile al soggetto (appunto la società) proprietario dei beni (Dell'Anno, Creazione di
fondi extrabilancio per finalità illecite: ipotesi di appropriazione indebita, in CP, 1998,
19
Pluris
800). Dunque, la semplice violazione del titolo e delle ragioni del possesso non può, di
per sé, giudicarsi appropriazione se tale inosservanza non si concretizzi in
un'espropriazione del proprietario; il che non avviene quando il possessore, pur non
ottemperando alle prescrizioni del dominus, «continua a impiegare il bene nell'interesse
del medesimo» evitando, in questo modo, di comportarsi uti dominus. Così, anche
l'utilizzo di risorse societarie per attività penalmente illecite ma comunque non estranee
alle finalità dell'azienda (conseguimento di appalti, forniture, ecc.) non potrà configurare
il reato in esame perché destinato a utilità del dominus, cioè la società (Pedrazzi, Sui
limiti dell'«appropriazione», in RIDPP, 1997, 1441). Sul punto pare necessario fare un breve
cenno alla nuova fattispecie della infedeltà patrimoniale, delineata dall'art. 2634 c.c. e
introdotta (dal D.Lgs. 11.4.2002, n. 61) al fine di colmare un antico vuoto di tutela
derivante dalla necessità di punire ipotesi di malversazione dei beni di una società da
parte dei gestori della medesima. Talvolta la giurisprudenza, come si vedrà, ha utilizzato
a tal uopo proprio l'art. 646 ma nel far ciò ha probabilmente oltrepassato i confini del
fatto tipico. Il nuovo modello di reato (proprio) societario nel 1° co. sanziona, con la
reclusione da sei mesi a tre anni, «gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori,
che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o
ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di
disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno
patrimoniale». Si nota subito la contiguità con il delitto di appropriazione indebita
rispetto al quale il reato societario sembra trovarsi in rapporto di specialità per la
presenza di diversi elementi specializzanti (alcuni "per specificazione", altri "per
aggiunta"): i soggetti attivi (gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori), il
presupposto della condotta (il conflitto di interessi), la condotta (compiere o concorrere
a deliberare atti di disposizione dei beni sociali), l'evento (il danno patrimoniale della
società), l'elemento soggettivo (il dolo intenzionale raffigurato dall'avverbio
"intenzionalmente"). D'altro canto, non va sottaciuto che la norma societaria non cita
esplicitamente, al 1° co., il possesso, requisito che può, tuttavia, ritenersi
automaticamente derivante dalla peculiare carica ricoperta dai soggetti attivi; inoltre, il
2° co. («La stessa pena si applica se il fatto è commesso in relazione a beni posseduti o
amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a questi ultimi un danno
patrimoniale»), pone in alternativa il "possesso" alla "amministrazione" (dei beni), sulla
natura della quale potrebbero sorgere dei dubbi (ad esempio, se essa sia riconducibile
alla mera detenzione). Ma anche il dolo specifico caratterizzante la norma del codice
civile è arricchito, in aggiunta al consueto "ingiusto profitto", dall'"altro vantaggio" che
parrebbe concetto di carattere generale rispetto al primo. La sussistenza del rapporto di
specialità (forse "bilaterale") fra le due fattispecie fa sorgere evidentemente profili di
carattere intertemporale ex art. 2, 3° co. Stante la specialità, seppur con le
puntualizzazioni appena fatte, della norma successiva (l'infedeltà patrimoniale) essa
dovrebbe aver sottratto all'ambito applicativo dell'art. 646 i fatti da essa disciplinati,
lasciando alla prima la repressione delle "infedeltà patrimoniali" atipiche rispetto alla
seconda (ad esempio, in quanto commesse senza che vi fosse un interesse in conflitto
con quello della società). Tuttavia, è stato rilevato che ciò produrrebbe «un grave effetto
di irrazionalità nella disciplina, in quanto condurrebbe alla perseguibilità ex officio, sulla
base dell'art. 646, 2° co. (trattandosi di appropriazioni indebite in re ipsa aggravate
dall'art. 61, n. 11, ossia dall'"abuso delle relazioni d'ufficio") delle ipotesi meno gravi di
abuso dei beni sociali poste in essere dagli amministratori, rimettendo, invece - ex art.
20
Pluris
2634, ult. co., c.c. - alla querela di parte le infedeltà patrimoniali commesse in una
situazione di conflitto di interessi e con causazione intenzionale di un danno
patrimoniale alla società» (così, Musco, I nuovi reati societari, Milano, 2002, 151). Per
evitare simile aberrazione - che, peraltro, non sarebbe certo l'unica rinvenibile nella
nuova disciplina dei reati societari! - si è ipotizzato di reputare penalmente rilevanti solo
le infedeltà patrimoniali tipiche alla stregua dell'art. 2634 c.c. (ciò che comporterebbe, in
relazione alle "altre" ascrivibili all'interno dell'art. 646, un fenomeno di abolitio criminis).
inquadrarsi nell'ambito dell'art. 646 (a siffatta conclusione era pervenuta anche C., Sez.
VI, 27.4.1988). Ciò perché il dipendente dell'istituto bancario che conceda un fido al
cliente violando, in accordo col medesimo ed al fine di procurargli un ingiusto profitto, le
regole interne sugli affidamenti, non si limita a dare al denaro una destinazione diversa
da quella prevista ma sfrutta il possesso a profitto del terzo, compiendo sulla cosa (il
denaro) un atto di disposizione inconciliabile col titolo e commettendo, quindi, una
condotta di appropriazione. Appariva evidente il tentativo di colmare il vuoto di tutela
conseguente all'inapplicabilità dello statuto penale della pubblica amministrazione
seguita a C., S.U., 23.5.1987. La giurisprudenza susseguente ha sostanzialmente
confermato l'impostazione di C., S.U., 28.2.1989, sembrando rinvenire nell'indispensabile
(ai fini della configurabilità dell'illecito penale) collusione tra il dipendente bancario e il
beneficiario la volontà del primo di comportarsi uti dominus nei confronti dei beni della
banca ( C., Sez. II, 5.10.2012-23.1.2013, n. 3332; C., Sez. II, 1.4.1999; C., Sez. II, 19.11.1991; C.,
Sez. II, 27.2.1991). Tuttavia, recentemente, è stata negata la natura necessariamente
plurisoggettiva della concessione di un credito extrafido con ciò smentendo l'esigenza
del contributo consapevole del beneficiato (C., Sez. II, 13.6.2007). A tal proposito, è stato
puntualizzato da certa giurisprudenza di merito che la mera concessione illegittima di
fido bancario di per sé, vale a dire senza la consapevolezza che il denaro non sarà mai
restituito, non comporta l'integrazione del delitto in esame poiché, altrimenti, il giudice,
al fine di stabilire la sussistenza o meno del reato, dovrebbe discrezionalmente valutare
il rischio d'impresa, operazione naturalmente inammissibile (T. Taranto 16.6.1999).
Risponde di furto aggravato il dipendente della banca che si impossessa, mediante
movimentazioni effettuate con i terminali dell'ufficio, di somme di danaro di clienti
depositate in conti correnti; risponde, invece, di appropriazione indebita il cassiere che si
appropria del denaro versato dal cliente della banca prima che esso venga accreditato
sul conto corrente (C., Sez. V, 21.12.2015-14.3.2016, n. 10758). Risponde del reato di furto
aggravato, e non di appropriazione indebita, il cassiere dell'ufficio postale che, nel
consegnare al titolare del libretto di risparmio la somma richiesta, trascriva sullo stesso
un importo maggiore, appropriandosi della differenza (C., Sez. II, 5.5.2016, n. 43132). In
relazione al reato di falso interno bancario, previsto dall'art. 137, 2° co., D.Lgs. 1.9.1993, n.
385, che sanziona la falsità o l'omessa segnalazione di dati o notizie da parte del
bancario funzionali alla concessione (o al mutare delle condizioni o all'evitare la revoca)
di un credito ad un terzo, va ricordata quella decisione che ha affermato non essere
necessario per la configurazione del reato bancario (in quanto reato di pericolo) che il
patrimonio della banca sia effettivamente depauperato e che quando questo avvenga si
verifica la più grave ipotesi di cui all'art. 646 (C., Sez. II, 5.10.2012-23.1.2013, n. 3332; C., Sez.
II, 19.11.2004).
Un'altra dibattuta ipotesi rientrante nel novero delle condotte distrattive è quella
consistente nella costituzione, all'interno di una società di capitali e ad opera dei suoi
organi, di fondi extrabilancio destinati a finanziare attività illecite in qualche modo
produttive di vantaggi per la medesima compagine societaria. Tale tipo di operazione è
stata giudicata, in due note sentenze concernenti il c.d. caso Enimont, non penalmente
rilevante ai sensi dell'art. 646 (salva la configurabilità di altri reati). In particolare, la
Cassazione, dopo aver ricordato che il compimento di attività vietate dalla legge da parte
degli amministratori, come tali legati da un rapporto organico alla società, è sempre
imputabile a quest'ultima se non ispirato da ragioni meramente personali, afferma che la
22
Pluris
gestione di fondi extra contabili rivolti ad attività illegali (finanziamento occulto di partiti
politici e di giornalisti finalizzato a procurare benevolenze per la società) non costituisce
attività di distrazione - e tanto meno di appropriazione - in quanto conforme ad interessi
collegabili, seppur indirettamente, all'oggetto sociale (così, C., Sez. V, 13.6.1998; C., Sez. V,
21.1.1998; sulla stessa lunghezza d'onda anche A. Milano, Sez. I, 1.10.1999). Ad analoghe
conclusioni ma sulla base di un ragionamento differente era arrivata un'altra nota
sentenza della Suprema Corte (C., Sez. II, 23.6.1989). Sulla scorta della decisione della C.,
S.U., 23.5.1987, si è giudicato che la mera distrazione - reputata concettualmente
differente dall'appropriazione - di fondi extra contabili, non finalizzata ad ottenere
vantaggi personali e senza alcun accordo fraudolento con i terzi beneficiari, non
corrisponda allo schema delineato nell'art. 646. In altre occasioni, i giudici di legittimità
hanno chiosato in modo antitetico: dopo aver definito la distrazione come la
destinazione del bene in contrasto col titolo che ne legittima il possesso (e, quindi, come
l'esercizio di facoltà competenti al dominus) ed averla, perciò, inclusa tra le condotte
riconducibili al delitto de quo, hanno affermato la sussistenza dello stesso nella
costituzione di riserve extrabilancio da parte di un amministratore di società, con le quali
venivano remunerati pubblici ufficiali al fine di ottenere appalti per la società da lui
gestita; ciò perché il destinare fondi ad attività illecite non può mai rientrare nell'oggetto
sociale, anche in considerazione del necessario requisito di liceità del medesimo (C., Sez.
II, 4.4.1997; in senso conf., C., Sez. V, 9.7.1992). Questi fatti di abuso societario sono oggi
disciplinati (almeno in parte) dal nuovo art. 2634 c.c. sul quale la giurisprudenza, proprio
in relazione al rapporto con l'art. 646, ha avuto modo di interloquire affermandone la
natura speciale (C., Sez. V, 23.6.2003). Con l'ulteriore precisazione che si tratta, come
sostenuto nella parte dedicata alla dottrina, di "specialità reciproca" e che, quindi, la
nuova figura di reato non ha comportato il venir meno della configurabilità
dell'appropriazione indebita aggravata ( C., Sez. II, 25.10.2011, n. 4244; C., Sez. II, 3.6.2009;
C., Sez. II, 27.3.2008; C., Sez. II, 26.10.2005; C., Sez. I, 24.6.2004). Integra il delitto di
appropriazione indebita, e non quello di infedeltà patrimoniale la distrazione di danaro
di una società in favore di soggetti terzi compiuta dall'amministratore in assenza di una
preesistente situazione di conflitto d'interessi con la medesima (C., Sez. feriale, 4.8.2011,
n. 40136). Integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di infedeltà
patrimoniale, l'erogazione di denaro compiuta dall'amministratore di una società di
capitali in violazione delle norme organizzative di questa e per realizzare un interesse
esclusivamente personale, in assenza di una preesistente situazione di conflitto
d'interessi con l'ente, senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci (C., Sez. II,
16.11.2012-23.1.2013, n. 3397). Non integra il reato di appropriazione indebita la condotta
dell'amministratore di una società che dispone in bilancio accantonamenti a titolo di
compenso, ancora non determinato, nel suo ammontare, per l'attività svolta in tale
qualità (C., Sez. II, 22.5.2014, n. 36030). Non integra il reato di appropriazione indebita, ma
una mera condotta di distrazione non rilevante ai sensi dell'art. 646, il compimento, da
parte dell'amministratore di una società di capitali, di atti di disposizione patrimoniale
comunque idonei a soddisfare anche indirettamente l'interesse sociale, e non un
interesse esclusivamente personale del disponente (C., Sez. II, 3.7.2015, n. 30942). Integra,
invece, il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una
società che si appropri di una somma di denaro in violazione delle norme organizzative
di questa e per realizzare un interesse esclusivamente personale o di terzi, in assenza di
una preesistente situazione di conflitto di interessi con l'ente (C., Sez. V, 4.2.2016, n. 29172).
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restituzione; al momento del pagamento del prezzo da parte dell'accipiens (per l'analisi
di queste soluzioni v. Flick, Appropriazione indebita e contratto estimatorio, in RIDPP,
1962, 1123; v. anche Carnevali, Contratto estimatorio, I, Diritto civile, in EG, IX, Roma, 1988,
5). Analoghi dubbi potrebbero sollevare i casi di vendita con condizione sospensiva o con
condizione risolutiva o altri simili che per brevità non si possono affrontare in questa
sede ma la cui soluzione è in definitiva legata agli stessi temi appena analizzati (per
alcune pratiche esemplificazioni, v. Pagliaro, PS, III, 458).
Più o meno le stesse problematiche affrontate nella parte relativa alla dottrina, ed
afferenti alla trasposizione (o meno) di principi e norme tipici del diritto civile nella
struttura dell'appropriazione indebita, sono l'oggetto anche dell'analisi delle sentenze
che si sono occupate dei concetti di «denaro», «cosa mobile» e «altruità».
Si è detto che ci si può impossessare solo di cose fisiche, tangibili. Per questo viene
negata l'appropriabilità di beni immateriali (C., Sez. II, 12.7.2011; C., Sez. II, 11.5.2010; C., Sez.
II, 26.9.2007, a proposito di quote di una società; P. Bergamo 18.4.1997), salvo che non si
tratti degli oggetti corporei (tipo fogli, disegni, ecc.) nei quali i primi sono contenuti (cfr.
C., Sez. III, 25.1.2012, n. 8011, con riferimento all'appropriazione di documentazione
industriale e commerciale, avente rilevanza economica, rappresentativa di un'idea
immateriale). I dati bancari di una società riprodotti su un supporto cartaceo, pur
costituendo un bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, possono essere
trasfusi e incorporati in un'entità materiale attraverso la stampa del contenuto del sito di
home banking, possono essere oggetto di appropriazione (C., Sez. V, 30.9-13.11.2014, n.
47105). Sul punto è interessante e originale quella decisione che, pur partendo
dall'acclarato presupposto che i beni immateriali non possano essere oggetto di
appropriazione, ha riconosciuto la sussistenza del delitto de quo nel comportamento
dell'amministratore e dei soci di maggioranza che avevano fotocopiato dei disegni
industriali-tecnici appartenenti alla società e, dopo averli rimessi al loro posto, li
avevano ceduti (rectius: avevano ceduto le fotocopie racchiudenti i progetti trafugati) ad
una società concorrente. Secondo la Cassazione l'appropriazione del documento era una
modalità per usufruire delle notizie tecniche ivi riportate; il documento, una volta
fotocopiato (vale a dire utilizzato) e rimesso al suo posto, perdeva qualsiasi valore
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intrinseco rimanendogli solo quello insignificante del supporto cartaceo ( C., Sez. III,
2.2.1995).
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risulta a dir poco intransigente quella decisione che ha reputato la sussistenza del reato
nella condotta del compratore il quale, prima di aver saldato il prezzo, aveva spostato la
sua residenza in un luogo sconosciuto, senza comunicarlo al venditore (trasgredendo
uno specifico obbligo contrattuale) e astenendosi dal pagare le rate rimanenti. Siffatto
comportamento - che, a dire il vero, sembrerebbe una mera violazione contrattuale -
evidenzierebbe, secondo la Suprema Corte, l'intenzione di tenere i beni come propri (C.,
Sez. II, 16.7.1969). Commette il delitto il mandatario che, violando le disposizioni
impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e,
quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante (C., Sez. II, 17.10.2013, n.
46256). Sempre a proposito del concetto di altruità, desta molte perplessità quella
giurisprudenza di merito che ritiene integrata l'appropriazione indebita nel
comportamento del cliente che trattenga, nonostante le reiterate richieste dell'avvocato,
le somme liquidate dal giudice a titolo di spese processuali (T. Genova 24.10.2005). In
realtà, tali somme, salvo il caso di distrazione di cui all'art. 93 c.p.c., sono di proprietà del
cliente che semmai ha un autonomo obbligo (civilistico) di pagamento della parcella (C.,
Sez. II, 25.5.2011; T. Bari 21.1.2008). Va infine ricordato che la risoluzione del contratto di
leasing obbliga l'utilizzatore alla restituzione del bene pena l'applicabilità della norma in
commento (C., Sez. II, 31.5.2016, n. 25288; C., Sez. II, 20.9.2007). Tuttavia, il mero
inadempimento dei canoni non integra, di per sé, il reato di appropriazione indebita, che
si perfeziona solo nel momento in cui il detentore manifesta la sua volontà di detenere il
bene uti dominus, non restituendo, senza alcuna giustificazione, il bene che gli viene
richiesto e sul quale non ha più alcun diritto ( C., Sez. II, 5.10-29.11.2016, n. 50733 ; C.,
Sez. II, 31.5.2016, n. 25282).
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Pluris
dell'autoveicolo (C., Sez. II, 31.1-7.3.2012, n. 8927). Il dipendente di una ditta di trasporti che
sottragga la merce a lui affidata commette il reato di furto e non già quello di
appropriazione indebita, atteso che le operazioni materiali di cui è incaricato (trasporto,
deposito, conservazione e consegna) non gli conferiscono sui beni affidatigli
quell'effettivo potere di autonoma disponibilità che è invece presupposto necessario ai
fini dell'integrazione del reato di appropriazione indebita (C., Sez. IV, 20.2.2013, n. 10638).
Per contro, il vettore proprietario del mezzo di trasporto che disponga illecitamente delle
cose affidategli commette il reato di appropriazione indebita e non quello di furto (C.,
Sez. V, 31.5.2013, n. 41875). Stabilire a chi appartengano le cose possedute dal soggetto
agente permette ovviamente di individuare il soggetto passivo del reato. Così, in base
alla premessa che il denaro versato in banca da un correntista appartiene alla banca (ai
sensi dell'art. 1854 c.c.) ed entra a far parte della "massa monetaria", si è detto che
l'appropriazione di questo da parte del cassiere (definito possessore; ma v. contra C., Sez.
IV, 10.7.1996, che lo qualifica detentore con conseguente ipotizzabilità del furto nonché C.,
Sez. VI, 9.5.2007, che parla di furto) offende l'interesse patrimoniale della banca e non del
titolare di conto corrente contro il quale gli eventuali delitti commessi (falso, ecc.)
servono solo a coprire l'ammanco già perfezionatosi (C., Sez. II, 18.6.2015, n. 28786).
Nell'appropriazione di un titolo di credito la persona offesa è individuabile, secondo la
cassazione, nell'emittente e non nel destinatario dello stesso (C., Sez. II, 16.10.2007).
Naturalmente non possono essere considerate "altrui" le res nullius e le res derelictae.
Una singolare decisione sul punto ha statuito che commette appropriazione indebita
colui il quale si impossessi di oggetti rinvenuti su salme inumate o durante operazioni di
bonifica dei cimiteri; tali beni, infatti, appartenuti ai defunti o a loro conferiti da chi ne ha
voluto onorare la memoria, hanno una specifica destinazione e non sono qualificabili
come res nullius o res derelictae (C., Sez. VI, 13.6.1997).
6. L'elemento soggettivo
31
Pluris
Qualche problema in più sorge in relazione all'ingiustizia, qualità del profitto peraltro
non richiesta nel limitrofo delitto di furto. Vi è chi (Pedrazzi, Appropriazione, 846; v. anche
Marini, 539) tende a distinguere tale elemento dall'antigiuridicità obiettiva che, lo si è
detto prima, connoterebbe l'aggettivo "indebita" della rubrica. Il problema che si è posto
era quello di distinguere tra la sussistenza di cause di giustificazione e la non ingiustizia
del profitto. Nel primo caso la scriminante (consenso dell'avente diritto, esercizio del
diritto, ecc.) rende il fatto tipico perfettamente lecito, levandogli qualsiasi aspetto di
ingiustizia; insomma, si «persegue un fine giusto con mezzi giusti». Nell'esame del dolo
specifico, invece, si bada unicamente all'intento dell'agente, sul presupposto che siano
illeciti i mezzi utilizzati (e quindi tipico e antigiuridico il fatto): «è pacifico che l'agente
non aveva diritto di far propria la cosa altrui». In altre parole, se l'agente, utilizzando
«mezzi ingiusti», persegue un profitto «non ingiusto» non vi sarà appropriazione indebita
per mancanza del dolo specifico ma potranno configurarsi i delitti di cui agli artt. 392 e
393 qualora sussistano la violenza sulle cose o la violenza o minaccia alle persone. Si
potrebbe opinare, anche se la questione non appare di eccessiva rilevanza pratica, che la
mancanza del dolo specifico in taluni casi nega tipicità al fatto. Ciò, valorizzando
l'aspetto oggettivo del dolo specifico, vale a dire la concreta idoneità dell'azione a
raggiungere il risultato oggetto dell'intenzione. Laddove il soggetto agente, pur avendo di
mira un profitto ingiusto, commetta un'appropriazione oggettivamente inidonea a
raggiungere quell'esito, il fatto così commesso potrà considerarsi atipico (v., per tutti,
Marinucci, Dolcini, Corso di diritto penale, 1, Milano, 2001, 572, 630). In quest'ottica,
l'esercizio di un diritto (per es. la già vista ritenzione per compensare un proprio credito
ex art. 1243 c.c.), facendo diventare l'azione del tutto inidonea alla realizzazione di un
ingiusto profitto (anzi, il profitto è ovviamente legittimo essendo garantito da una
norma), prima ancora di "scriminare" il fatto renderebbe quest'ultimo non tipico alla
stregua della fattispecie incriminatrice. A tal proposito si è efficacemente affermato che
l'ingiustizia del profitto, qualificante l'appropriazione come indebita, investirebbe tutto il
reato e non solo l'elemento psicologico, onde la mancanza di siffatto requisito
escluderebbe l'illiceità del fatto prima ancora che il dolo (De Marsico, 203; Pisapia, 802).
Siffatta soluzione sarebbe ancor più lineare qualificando, in contrasto con buona parte
della dottrina, il termine indebita e/o l'ingiustizia del profitto come un'ipotesi di
antigiuridicità (o illiceità) speciale, vale a dire come un elemento (normativo) del fatto
tipico che richiama una norma, diversa da quella incriminatrice, quale parametro di
illiceità del fatto medesimo. Tesi sostenibile se si parte dalla premessa che
l'appropriazione è un fatto di per sé lecito che diventa penalmente illecito solo se rivolta
a conseguire un ingiusto profitto. Ciò significa che vi è un collegamento diretto tra
l'aggettivo della rubrica e l'ingiustizia del testo, nel senso che l'appropriazione sarà
indebita (secondo Pagliaro, Appropriazione, 235, più che ricorrere al dolo specifico
sarebbe stato meglio disegnare il fatto tipico come quello di colui che si appropria
«indebitamente» della cosa) quando sarà finalizzata a conseguire un profitto ingiusto.
Ingiustizia che, è ovvio, può essere definita tale solo in base a parametri di qualificazione
giuridici esterni all'art. 646.
32
Pluris
Naturalmente, in base ai principi generali (art. 47), l'errore sul fatto (incolpevole o
colposo non ha importanza) concernente l'ingiustizia del profitto, sia che derivi da una
falsa rappresentazione della realtà naturalistica (errore di fatto), sia che, più
verosimilmente, discenda da un'errata interpretazione delle norme giuridiche
determinanti proprio l'ingiustizia (errore di diritto), esclude il dolo.
Si è già detto che l'ingiustizia del profitto viene usualmente fatta confluire nel più
generale ambito dell'elemento soggettivo. Risulta quindi difficile incontrare sentenze che
si siano occupate specificatamente del dolo specifico, al di fuori di quelle tautologiche
che affermano la necessità, ai fini della perfezione del reato, del fine di procurare a sé o
ad altri un ingiusto profitto. Si può appena segnalare che è stata ritenuto inesistente
l'ingiusto profitto nell'ipotesi in cui l'appropriazione avvenga in accordo col titolare del
bene e nonostante sia illegittimo, secondo le norme civilistiche, il negozio giuridico in
virtù del quale è avvenuto l'impossessamento. In dettaglio, si trattava di una donazione
nulla per mancanza dell'atto pubblico nella quale il beneficiario si era appropriato dei
beni sapendo di agire secondo la volontà del dante causa (C., Sez. I, 19.5.1993) va esclusa
la sussistenza di un ingiusto profitto nel caso in cui l'appropriazione sia realizzata in
accordo con la volontà del titolare dei beni che sono oggetto della condotta (C., Sez. II,
6.5.2011, n. 20062, in un caso in cui l'amministratore di una società di persone aveva
trasferito all'estero fondi societari per sottrarli all'imposizione fiscale e li aveva fatti poi
rientrare nel patrimonio aderendo allo scudo fiscale). In generale, con riferimento al
delitto di truffa ma con dissertazioni che, almeno in parte, non paiono incompatibili col
reato in esame (pur tenendo conto che nella struttura dell'art. 640 l'ingiusto profitto è
uno degli eventi del reato) la giurisprudenza ritiene che il profitto sussista sia nel caso di
arricchimento che di mancata perdita e che l'attributo dell'ingiustizia connoti il profitto
conseguito sine iure o sine causa per il difetto di un titolo giuridico che lo sorregga (C.,
Sez. VI, 7.11.1991). Inoltre, il profitto ingiusto concerne qualsiasi accrescimento o vantaggio
patrimoniale, il quale non deve necessariamente essere di tipo "strettamente
economico" (tra le tante, C., S.U., 16.12.1998). L'assunto è stato poi ribadito anche
specificatamente per l'appropriazione indebita (C., Sez. II, 22.10.2010). Integra il reato la
condotta dell'amministratore di una società di capitali che eroghi somme di denaro a
terzi in violazione delle norme organizzative di questa, per realizzare un interesse
personale, in assenza di una preesistente situazione conflitto di interessi con l'ente,
senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci (C., Sez. VI, 6.5.2016, n. 39008,
secondo cui tale principio trova applicazione anche quando l'erogazione avvenga in
favore di un partito politico o anche di un esponente politico).
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Pluris
Infine, sempre a proposito dell'ingiustizia del profitto, va ricordata quella decisione che
reputa il già richiamato art. 2634, 3° co., c.c. non estensibile alle ipotesi di appropriazione
indebita commessa dagli amministratori di società (sui beni sociali) - non rientranti
nell'ambito della nuova figura di infedeltà patrimoniale - anche se destinate o trattenute
in vista di vantaggi economici del gruppo al quale appartiene la società espropriata (così,
C., Sez. V, 23.6.2003; più possibilista sembra essere C, Sez. I, 24.6.2004 che però affronta la
questione solo incidentalmente).
La scriminante putativa del consenso dell'avente diritto non è applicabile quando debba
escludersi, in base alle circostanze del fatto, la ragionevole persuasione di operare con
l'approvazione della persona che può validamente disporre del diritto (C., Sez. VI, 15.4-
25.5.2011, n. 20944).
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca può avere ad oggetto sia le somme
identificate nel profitto del reato sia quelle riconducibili a depositi o investimenti in
valori mobiliari, in virtù di un rapporto pertinenziale (C., Sez. II, 27.10.2011, n. 41399).
8. Consumazione e tentativo
ritenzione, ecc.) con la volontà di trattenerlo come proprio (C., Sez. V, 8.7.2014-14.1.2015, n.
1670; C., Sez. V, 26.5.2014, n. 46475, con riferimento all'appropriazione da parte del
consulente di una società, di una somma di denaro destinata al soddisfacimento di un
creditore; C., Sez. II, 2.10.2014, n. 42977, in un caso di mancata restituzione di un bene a
noleggio; C., Sez. II, 1.4.2014, n. 18027 e C., Sez. II, 8.2.2013, n. 22127, entrambe in caso di
mancata restituzione della contabilità dal commercialista al cliente; C., Sez. II, 11.7.2008;
C., Sez. II, 13.6.2007; C., Sez. II, 16.3.2005; C., Sez. I, 2.7.2002; C., Sez. II, 10.4.2002; C., Sez. II,
26.11.1995). Trattasi di reato istantaneo che si consuma con la prima condotta
appropriativa e, cioè nel momento in cui l'agente compia un atto di dominio sulla cosa
con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria ( C., Sez. II, 20.6.2017,
n. 40870 ; C., Sez. II, 11.5.2016, n. 27363, entrambe in relazione alla condotta
dell'amministratore di condominio che abbia omesso la restituzione della contabilità
detenuta e abbia omesso di trasferire al nuovo amministratore le giacenze di cassa; C.,
Sez. feriale, 26.8.2014, n. 36509, in relazione alla condotta dell'amministratore societario
che abbia omesso di mettere a disposizione del curatore i beni mobili societari; C., Sez. II,
10.4.2014, n. 17901; C., Sez. II, 17.5.2013, n. 29451, in un caso di omessa restituzione della
documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato
amministratore). Non vi è affatto concordia nell'individuazione dell'atto che concretizzi
tale interversione, con tutte le immaginabili ripercussioni in tema di decorso del termine
per proporre querela che simile contrasto comporta. Ad esempio, nel frequente caso di
appropriazione di titoli di credito la Suprema Corte, dopo aver ribadito in linea generale
che l'interversione del possesso non coincide obbligatoriamente con la scadenza del
termine stabilito per la restituzione, essendo anche necessario il rifiuto (ingiustificato) di
restituire la cosa - rifiuto che evidenzia la sussistenza dell'elemento oggettivo e di quello
soggettivo del reato -, afferma che il momento consumativo non va rinvenuto nel porre
in circolazione gli stessi ma nel rifiutarne la resa (C., Sez. II, 15.6.1986). Secondo altro
orientamento, al contrario, proprio il mettere questi in circolazione segnerebbe la
consumazione del reato, rimanendo irrilevante il rifiuto di restituzione obiettato
dall'imputato all'avente diritto (C., Sez. I, 7.11.1997). Ma non è tutto. Due decisioni della
cassazione, ricostruendo la fattispecie quasi come fosse un negozio recettizio,
sostengono inopinatamente che «l'evento del reato si realizza nel luogo e nel tempo in
cui la manifestazione della volontà dell'agente di fare proprio il bene posseduto giunge a
conoscenza della persona offesa, e non nel luogo e nel tempo in cui si compie l'azione» (
C., Sez. II, 1.12.2004; C., Sez. II, 3.3.1999). In tal modo si confonde il momento consumativo
del reato con quello, non necessariamente coincidente col primo, dal quale decorre il
termine per proporre querela.
Il termine per proporre querela decorre dal momento in cui la persona offesa ha avuto
chiara conoscenza della definitiva volontà dell'imputato di invertire il possesso del bene,
e quindi non necessariamente dalla scadenza del termine stabilito per la consegna, in
quanto la mera mancata restituzione colposa non integra gli estremi del reato (C., Sez. II,
24.1-17.5.2012, n. 18860). Il termine per la proposizione della querela per il reato di
appropriazione indebita ad oggetto le somme consegnate all'agente a scopo di
investimento decorre non dal momento della consegna delle stesse o da quello della
scadenza dell'obbligo di restituirle, bensì dal momento in cui la persona offesa abbia
raggiunto la consapevolezza che le medesime non verranno restituite per fatto e scelta
del detentore (C., Sez. V, 4.4.2013, n. 28036).
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Pluris
Si è già detto che la circostanza speciale indicata nel 2° co. della norma in esame
escluderebbe la mera fiducia quale interesse protetto. Proprio la valenza per così dire
ermeneutica dell'aggravante in questione sembra esaurirne le funzione data la quasi
inesistente applicazione pratica. La nozione di deposito necessario viene comunemente
ricavata dall'art. 1864 c.c. 1865 secondo il quale è tale quel deposito «a cui uno è
costretto da qualche accidente, come un incendio, una rovina, un saccheggio, un
naufragio, o altro avvenimento non preveduto». L'aggravante di cui al capoverso dell'art.
646 appare in rapporto di specialità con quella prevista nell'art. 61, n. 5, per cui, ai sensi
dell'art. 15, l'applicabilità della prima escluderà la seconda (De Marsico, 208). Anche
l'abuso di autorità o di relazioni domestiche, di relazioni d'ufficio, di prestazione di
opera, di coabitazione, o di ospitalità sembrerebbe inserirsi nel solco del deposito
necessario quale violazione di una sorta di fiducia obbligata. Infine, va segnalata quella
isolata opinione che ravvisa nelle due ipotesi di appropriazione indebita aggravata una
"fattispecie a sé stante" a causa della particolare morfologia del fatto (Pisapia, 803).
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inoltre, successivamente ritenuto tale regime non lesivo dell'art. 3 Cost. (C. Cost. 30.3.2001,
n. 91).
Con riferimento alla circostanza aggravante comune del danno di rilevante gravità si è
affermato che, in caso di reato continuato, la valutazione in ordine alla sussistenza o
meno dell'aggravante deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da
ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni
(C., Sez. V, 7.4.2017, n. 28598). V. amplius sub art. 61.
L'art. 12, D.Lgs. 10.4.2018, n. 36 ha previsto che, per i reati prima procedibili d'ufficio e
ora divenuti perseguibili a querela e commessi prima dell'entrata in vigore del decreto
(9.5.2018), il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la
persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente il reato. Se è
pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il
giudice, dopo l'esercizio dell'azione penale, devono informare la persona offesa della
facoltà di esercitare il diritto di querela; in questo caso, il termine decorre dal giorno in
cui la persona offesa è stata informata.
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