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LE CAUSE GENERALI DI ESCLUSIONE DEL FATTO TIPICO

PREMESSA
Il fatto storico in cui siano presenti tutti gli elementi oggettivi e psicologici che compongono la fattispecie
legale di un determinato reato è un fatto tipico.
L’esistenza di un fatto tipico costituisce un presupposto necessario, ma non sufficiente per la punibilità.
Questa, infatti, può essere esclusa:
- per effetto di una norma che, nel caso concreto, autorizza o addirittura impone la realizzazione del fatto,
come avviene nelle ipotesi della legittima difesa o dell’adempimento del dovere;
- per il ricorrere di condizioni che precludano la possibilità di muovere all’autore un addebito in termini di
colpevolezza individuale, come nel caso del fatto commesso da un minore o da un incapace;
- o, infine, per il verificarsi di fatti o comportamenti, successivi alla realizzazione del fatto tipico, a cui la
legge attribuisce l’efficacia di “annullare” il disvalore della condotta antigiuridica. Si pensi al recesso da una
banda armata (art. 309 co. 1 n. 2 c.p.) o alla ritrattazione della falsa testimonianza (art. 376 c.p.).
In tutti questi casi, la legge esclude l’applicabilità della pena, in relazione ad un fatto che presenta tutti i
caratteri della tipicità.

LE CAUSE GENERALI DI ESCLUSIONE DEL FATTO TIPICO


Le cause di esclusione della tipicità sono quelle ipotesi normative che escludono lo stesso configurarsi del
fatto tipico, nei suoi connotati generali. Tali cause, contenute negli artt. 45-49 c.p., sono: il caso fortuito; la
forza maggiore; il costringimento fisico; l’errore sul fatto che costituisce il reato; l’errore determinato
dall’altrui inganno; il reato putativo o erroneamente supposto.

●CASO FORTUITO
L’art. 45 c.p. stabilisce che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza
maggiore”.
Per quanto concerne la figura del “caso fortuito” la norma fa riferimento ai casi in cui il fortuito – cioè il
fattore causale “imprevedibile” e quindi non dominabile dall’attore – interferisce in una serie causale
innescata dalla condotta umana – o comunque ad essa riconducibile – e determina il verificarsi di un evento
che, secondo la migliore scienza ed esperienza, non era conseguenza neppure probabile della condotta. Si
pensi alla deviazione dell’attrezzo lanciato da un discobolo, per effetto di un improvviso colpo di vento.
Nei casi in cui l’evento è interamente un prodotto del caso, senza alcun processo di interazione con una condotta
umana. In questa ipotesi, infatti, la non punibilità deriverebbe direttamente dall’art. 40, comma 1 c.p. (“Nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende
l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”).
In casi del genere, condotta del soggetto, pur essendo causalmente connessa all’evento lesivo, risulta
penalmente irrilevante perché manca un requisito essenziale della fattispecie oggettiva ovvero il nesso di
causalità che viene meno perché si verifica una deviazione del decorso causale verso un esito anomalo e
imprevedibile. L’agente, infatti, con la sua condotta non ha né creato, né accresciuto, alcun rischio
giuridicamente riprovato per il bene protetto.
● FORZA MAGGIORE
Per quanto concerne, invece, la figura della “forza maggiore” la norma fa riferimento ai casi in cui
l’intervento d’una energia fisica proveniente dall’esterno, e non riconducibile alla condotta di un terzo,
determina il movimento corporeo di un soggetto, escludendo da parte sua qualsiasi possibilità di
padroneggiarne le conseguenze; cosicché tutti gli eventi che possono esservi connessi da un punto di vista
causale, non sono a lui riconducibili quali esiti di una azione rilevante per il diritto penale.
Si pensi al caso in cui un improvviso colpo di vento sospinga la persona investita, così da farla rovinare
addosso ad altri che, conseguentemente, riportano lesioni.
In casi del genere si dice che il soggetto non agit, sed agitur, cioè non agisce, ma viene agito dalla forza
naturale che lo travolge. Non vi è quindi la possibilità di considerare l’azione o l’omissione alla stregua di
condotte rilevanti per il diritto penale, in quanto manca la coscienza e volontà e quindi la possibilità di
imputazione soggettiva.
●COSTRINGIMENTO FISICO
L’art. 46 c.p. disciplina la figura del costringimento fisico, stabilendo che: “Non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere
o comunque sottrarsi. In tal caso del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della
violenza”.
In ordine all’ipotesi del “costringimento fisico” si suole distinguere tra vis absoluta e vis compulsiva:
- la vis absoluta ricorre quando il movimento corporeo di chi subisce la violenza sia interamente
determinato dall’impiego di energia fisica da parte di chi la attua, si può pensare il caso di chi immobilizza
taluno per impedirgli di compiere un’azione doverosa;
- la vis compulsiva, invece, ricorre quando residuino per la vittima margini, sia pure ridottissimi, di
autodeterminazione si può pensare il caso di chi rivela un segreto perché sottoposto a torture.
Le ipotesi di vis absoluta sono pacificamente assimilabili, nella rilevanza giuridica, a quelle di forza
maggiore, con la sola differenza che qui la forza “irresistibile” promana non dalla natura, ma dall’uomo.
In casi del genere si dice che il soggetto non agit, sed agitur, cioè non agisce, ma viene agito dalla forza che
lo travolge. Non vi è quindi la possibilità di considerare l’azione o l’omissione alla stregua di condotte rilevanti
per il diritto penale, in quanto manca la coscienza e volontà e quindi la possibilità di imputazione soggettiva.
Da un punto di vista eminentemente naturalistico, il requisito della “coscienza e volontà” dell’azione od
omissione dovrebbe, invece, ritenersi presente nel fatto commesso sotto l’effetto di vis compulsiva; ma non v’è
dubbio che manchino, comunque, i presupposti per l’imputazione oggettiva in capo a chi subisce la violenza.
In entrambe le ipotesi il vero “autore” del fatto è l’autore della violenza, che si serve della vittima come di
uno “strumento”: non a caso la legge prevede il “trasferimento” della responsabilità penale dall’autore
materiale del fatto al cd “autore mediato”, cioè a colui che detiene l’effettivo dominio finalistico della condotta
(la figura dell’autore mediato compare anche nell’istituto dello stato di necessità, che però esclude
l’antigiuridicità e non la tipicità del fatto).
●ART. 47 c.p.
ERRORE SUL FATTO
Art. 47 comma 1 c.p.: “L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente.
Nondimeno, se si tratta di un errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo.
L’errore sul fatto, disciplinato dall’art. 47 comma 1 cp, ricorre allorquando l’agente percepisce in modo
falso, o erroneo un dato della realtà corrispondente ad un elemento essenziale della fattispecie oggettiva del
reato. Esso esclude la responsabilità dolosa, residuando la responsabilità colposa ove l'errore
sia rimproverabile ed ove il fatto di reato sia preveduto dalla legge come delitto colposo.
Esempio: tizio in un locale prende il cappotto di un altro scambiandolo per il proprio.
In questi casi, l’agente realizza la fattispecie oggettiva del reato. Ciò che manca è la fattispecie soggettiva,
poiché manca la rappresentazione, da parte dell’agente, di uno o più elementi essenziali della fattispecie
oggettiva e, quindi, viene meno il momento intellettivo del dolo.
Ed invero, dolo ed errore sul fatto si condizionano a vicenda, in una logica di reciproca esclusione: dove v’è
errore sul fatto non può esservi dolo, perché l’erronea rappresentazione della realtà inibisce anche una
volizione rilevante per l’elemento psicologico del reato. Riprendendo l’esempio fatto in precedenza, se Tizio
non si rende conto di prendere il cappotto di un altro, non può nemmeno averlo voluto.
Tuttavia, affinchè l'errore abbia l'effetto di escludere la responsabilità penale dell'agente, occorre
naturalmente che esso cada sugli elementi essenziali della fattispecie penale astratta. Sono perciò irrilevanti gli
errori sul soggetto passivo o sull’oggetto dell’azione. Es. Tizio che vuole uccidere Caio e, per errore nella
rappresentazione del soggetto passivo, infligge un colpo letale a Sempronio.
L’art. 47 precisa che se si tratta di un errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il
fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
In altre parole, se l’agente è pervenuto ad una erronea rappresentazione per aver violato una regola di
diligenza oggettiva, e se tale violazione è a lui imputabile da un punto di vista soggettivo egli dovrà rispondere
a titolo di colpa del fatto oggettivamente realizzato, purchè però la legge preveda quel determinato fatto come
reato colposo.
La dottrina ha talora qualificato le ipotesi di responsabilità colposa ex art. 47 c.p. come casi di colpa
impropria ovvero ipotesi eccezionali in cui l’evento è voluto ma l’agente risponde ugualmente di reato
colposo (fatti dolosi puniti a titolo di colpa). Questa opinione, però, non è condivisa da Fiore il quale ritiene
che nelle ipotesi riconducibili allo schema dell’art. 47 c.p. si è, da ogni punto di vista, di fronte ad una condotta
colposa ex art. 43 c.p. Per affermare che l’errore “è determinato da colpa” è, infatti, necessario, da un punto di
vista oggettivo, che alla radice dell’errore si riscontri la violazione di una regola di diligenza, che si ponga in
connessione causale con l’evento cagionato; dal punto di vista soggettivo, che la lesione del bene protetto sia
stata da lui prodotta involontariamente.
È del tutto coerente con la struttura del fatto colposo, infine, l’esclusione della punibilità, a qualsiasi titolo,
quando, anche adottando ogni possibile cautela, l’errore sarebbe stato inevitabile.

Una rilevante eccezione alla disciplina dell’art. 47 c.p. era costituita dalla previgente disciplina dell’art. 609 sexies
c.p., che dichiarava irrilevante l’errore sull’età della persona offesa da parte dell’autore di reati di tipo sessuale,
compreso quello previsto dall’art. 609 quater, cd violenza presunta, che consiste nel compimento di atti sessuali con
persona consenziente che non abbia però compiuto gli anni quattordici. La Corte Costituzionale, dopo aver rigettato più
volte la questione di legittimità della norma, nel 2007 ha espresso la necessità di un intervento almeno correttivo del
rigore della norma. La sollecitazione è stata accolta dal legislatore che nel 2012 ha modificato la norma assegnando
rilevanza all’errore sull’età, purchè si tratti di errore inevitabile, quando cioè all’autore del fatto non può essere mosso
alcun rimprovero.
Diverso dall’errore sul fatto è l’errore sul divieto, che ricorre allorquando l’agente versa in errore sulla
legge penale e che esclude la colpevolezza solo ove si tratti di errore inevitabile ex art 5 c.p.(non si riflette sulla
rappresentazione del fatto di reato ma sulla coscienza della sua illiceità penale erroneamente ritenuta
insussistente non esclude il dolo quindi il fatto resta tipico).
In altre parole, chi versa in errore sul fatto “non sa quel che fa”; chi versa in errore sul divieto, invece, sa
quel che fa, anche se crede, erroneamente, che il suo fatto non ricada nell’ambito di una incriminazione: egli
dunque versa in errore sulla legge penale; errore che, a norma dell’art. 5 c.p., di regola non è rilevante e, per
esplicita disposizione di legge, non può essere invocato dall’agente a sua discolpa, a meno che non si tratti di
errore inevitabile.
RESPONSABILITA’ PER UN REATO DIVERSO
L’art. 47 co. 2 c.p. stabilisce: “L’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la
punibilità per un reato diverso”.
Ciò vuol dire che, quando l’agente realizza la fattispecie oggettiva di un determinato reato, rispetto al quale,
però, per effetto dell’errore, manca il dolo, egli non cesserà per questo di essere punibile per quel reato
diverso, rispetto al quale egli era in dolo.
Trattasi in sostanza dei casi in cui l’errore dell’agente cada su un requisito del fatto che abbia il ruolo di
elemento specializzante, rispetto a una figura più generale. Così ad esempio, chi cagiona la morte di un uomo,
credendo erroneamente che vi sia il consenso della vittima, non sarà punibile per omicidio comune, ma per
omicidio del consenziente.
La regola dell’ordinamento, insomma, sembra essere quella di ritenere la responsabilità dell’agente per il
reato di cui egli si è rappresentato la fattispecie oggettiva. Questo principio incontra, tuttavia, un limite
generale nel principio del favor rei: essa non si applica, cioè, quando l’agente si rappresenta una figura di reato
più grave di quello che realmente commette. Una parziale deroga è inoltre ravvisabile nell’art. 59 co. 3 c.p., là
dove dispone: “Se l’agente ritiene per errore che esistono circostanze aggravanti o attenuanti, queste non sono
valutate contro o a favore di lui”.
ERRORE “SUGLI ELEMENTI NORMATIVI DEL FATTO”.
Al di fuori dei casi di errore o di ignoranza della legge penale, non vi è dubbio, per altro, che anche – vale a
dire l’errore di diritto – possa determinare un errore sul fatto e, pertanto, escludere la punibilità. Nel
nostro sistema, del resto, ciò si desume dallo stesso
L’art. 47 comma 3 c.p. stabilisce: “L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la
punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Pertanto, l’errore di diritto, cioè la falsa rappresentazione di un dato di carattere giuridico, esclude il dolo, e
quindi la punibilità, solo se per effetto di esso il soggetto ha commesso il fatto, cioè quando a causa dell’errore
l’agente non si rende conto di ledere un bene giuridico. È evidente, quindi, la differenza tra errore di diritto ed
errore sul precetto (o divieto): nel primo caso il soggetto non vuole e non sa di ledere un bene giuridico; nel
secondo caso, invece, il soggetto vuole ledere il bene giuridico, ma non sa che la sua condotta costituisce reato.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, all’errore su una legge extrapenale (che a norma
dell’art. 47 co. 3 c.p. esclude la punibilità dell’agente quando abbia determinato un errore sul fatto) dovrebbe
negarsi efficacia scusante, tutte le volte in cui la legge extrapenale, essendo richiamata, esplicitamente o
implicitamente, dalla norma penale, o costituendone un presupposto, sia divenuta parte di essa (ne sia stata
“incorporata”): in questo caso, l’errore sulla legge extrapenale si convertirebbe in errore sulla legge penale che
non scusa.
Questa interpretazione, secondo la maggior parte della dottrina, corrisponde ad una vera e propria
abrogazione dell’art. 47 co. 3 c.p., in primo luogo perché non si comprende come l’errore su una norma
extrapenale possa determinare un errore sul fatto, se la norma extrapenale non sia in qualche modo evocata
dalla norma penale; in secondo luogo, perché questo criterio condurrebbe al paradossale risultato di escludere
l’efficacia dell’errore sui c.d. elementi normativi del fatto, ogniqualvolta una disposizione di legge dovrebbe
ritenersi “incorporata” nel precetto penale.
La realtà, però, è che con l’art. 47 co. 3 c.p. non si è affatto inteso restringere l’ambito di efficacia dell’errore
sul fatto; ma, al contrario, stabilire una deroga al principio generale, secondo cui “ignorantia legis non
excusat”, col ribadire esplicitamente che il limite della rilevanza dell’errore è segnato dalla sua pertinenza
all’errore sul fatto, e la sua irrilevanza, per converso, dal suo configurarsi come errore sul divieto.
Tutte le volte che l’errore su un elemento normativo abbia determinato nell’agente la rappresentazione di
un fatto diverso da quello tipico, che oggettivamente egli realizza, quell’errore, poiché esclude il dolo del fatto
tipico, ne escluderà la punibilità. Viceversa, tutte le volte che l’errore sull’elemento normativo non abbia
inibito la rappresentazione da parte dell’agente di un fatto corrispondente a quello tipico, quell’errore, poiché
si risolve in un errore sul divieto, risulterà irrilevante.
Versa, ad esempio, in errore sul divieto chi, essendo legato da un matrimonio avente tuttora effetto civile in
Italia, contragga un secondo matrimonio credendo che, in quanto musulmano, ciò gli sia consentito in forza
dell’arti 8 Cost.; versa, invece, in errore sul fatto, chi ritenga di essere libero da un primo matrimonio, per
effetto di una sentenza straniera di divorzio, non ancora delibata in Italia.
Da quest’esempio si può vedere molto bene che l’errore su una legge extrapenale esclude la punibilità
dell’agente, quando ha cagionato errore su un elemento “normativo” del fatto, tale che l’agente venga a
trovarsi nella identica situazione psicologica di chi ha agito in base alla falsa rappresentazione di un dato della
realtà naturale. Il fatto che l’errore sia stato determinato dalla falsa rappresentazione di un dato giuridico-
normativo non ha nessuna importanza, perché ciò che è decisivo è la conseguenza dell’errore, e non la sua
fonte. Chi si impossessa di una cosa altrui scambiandola per propria e che prende la cosa altrui credendo che
una sentenza gliene abbia attribuito la proprietà, da un punto di vista psicologico versano nella stessa
situazione. Entrambi credono che la cosa non sia altrui e mancano, quindi del dolo di furto.
Una volta stabilita l’assimilazione dell’errore sulla norma di legge extrapenale a quello su ogni altro
elemento normativo del fatto, resta ancora da stabilire se, nella nozione di “legge diversa da quella penale”
debbano farsi rientrare anche quegli elementi normativi definiti da una norma penale, che assuma funzione di
qualificazione ai fini del tipo di fatto descritto da un’altra norma incriminatrice. Ci si chiede, ad esempio, se
dovrà rispondere di calunnia (art. 368 c.p.) chi incolpi altri di un atto costituente reato, sapendolo innocente,
ma nell’erronea opinione che il fatto denunciato costituisca un mero illecito civile o un illecito amministrativo
“depenalizzato”. La dottrina è per lo più orientata ad ammettere, in casi del genere, la rilevanza dell’errore, in
base alla considerazione che il soggetto comunque non vuole un fatto corrispondente a quello previsto nell’art.
368 c.p., e cioè la incolpazione di taluno per un “reato”, di cui lo sa innocente. La nozione di legge “diversa da
quella penale” verrebbe dunque a coincidere con quella di legge diversa dalla norma penale incriminatrice,
comprese quelle contenute nel c.p.
Controversa è, infine, la rilevanza dell’errore sulla norma extrapenale che funzioni come norma integratrice
della c.d. norma penale in bianco. Al riguardo, non v’è dubbio che l’errore sul contenuto della norma
integratrice sia irrilevante, quando si traduca in un errore sull’ambito di applicazione del divieto: come, ad
esempio, nel caso di chi ritenga, erroneamente, che una determinata preparazione non sia compresa
nell’elenco delle sostanze psicotrope o stupefacenti, indicate nelle tabelle emanate e periodicamente
aggiornate dall’Autorità di controllo, e di cui è vietata la vendita senza autorizzazione a norma degli artt. 15 ss.
d.p.r. 309/1990.
●ERRORE SUL FATTO DETERMINATO DALL’ALTRUI INGANNO
L’art. 48 c.p. stabilisce: “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto
che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona
ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo”.
Anche qui, come nell’ipotesi del costringimento fisico, la legge prevede il “trasferimento” della
responsabilità penale, dall’autore “materiale” del fatto, all’autore mediato di esso.
Solo chi pone consapevolmente in essere l’inganno, infatti, prevede e vuole l’evento, come conseguenza
dell’azione od omissione dell’autore materiale; quest’ultimo, invece, non sa quel che fa e non prevede, né
vuole, l’evento causalmente connesso alla propria condotta. Si pensi al caso del cacciatore che induca un
compagno di battuta a sparare in direzione di un cespuglio, dietro cui si intravede una sagoma, assicurandolo
che si tratti di un cinghiale, mentre sa benissimo che si tratta di un uomo.
Ciò non di meno, l’esecutore materiale del fatto sarà punito a titolo di responsabilità per delitto colposo,
qualora, nell’indursi ad agire – sia pure per effetto dell’inganno perpetrato ai suoi danni – abbia tuttavia
violato elementari misure di cautela.
●IL REATO “PUTATIVO” E IL REATO “IMPOSSIBILE”. IL CONCETTO DI AZIONE
“SOCIALMENTE ADEGUATA”.
La figura del reato putativo è contemplata nell’art. 49 comma 1 c.p. a norma del quale “Non è punibile
chi commette un fatto non costituente reato nella supposizione erronea che esso costituisca reato”.
Non v’è dubbio che se anche il nostro c.p. non contenesse una disposizione come quella dell’art. 49 co. 1
c.p., il principio ivi espresso troverebbe egualmente applicazione, per effetto dello stesso principio di legalità,
così come formulato nell’art. 1 c.p. che vincola l’interprete e il giudice alla regola della corrispondenza
dell’azione punibile a quella descritta dalla norma incriminatrice speciale che configura il “tipo” di un
determinato reato, in tutti i suoi elementi costitutivi.
Maggiormente problematica, è piuttosto la figura del reato complesso disciplinata dall’art. 49 co. 2
c.p. a norma del quale: “La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la
inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso” (evento in senso materiale).
La struttura del reato impossibile prevede due casi base: quello dell'inidoneità dell'azione e quello
dell'inesistenza dell'oggetto.
La giurisprudenza di legittimità ritiene che l'inidoneità dell'azione deve avere natura intrinseca ed
originaria e presentare altresì il carattere dell'assolutezza; non sono suscettibili di valutazione, ad esempio, i
fattori sopravvenuti e estrinseci (eventuali interventi della polizia e dell'agente provocatore) che abbiano in
concreto determinato l'inidoneità dell'azione. In tali casi la condotta rientra nell'alveo del tentativo punibile
anzichè nell'ambito del reato impossibile (si pensi al borseggiatore che introduce la mano nella borsa ove non
rinviene soldi).
Secondo la giurisprudenza è, altresì, necessario che tali requisiti siano verificati (così come in materia di
delitto tentato) ex ante in concreto e tenuto conto delle circostanze conoscibili dall'agente. Prendendo, ad
esempio, in considerazione i reati di falsità nummarie, il requisito dell'assolutezza enucleato dalla
giurisprudenza implica che la banconota falsa debba essere assolutamente riconoscibile come tale da parte da
ciascun soggetto potenzialmente offeso dal fatto tipico.
Il secondo dei presupposti del reato impossibile, è quello dell'inesistenza dell'oggetto; esso può essere
assorbito dal requisito dell'inidoneità dell'azione, in quanto, ove non sussista l'oggetto, a fortiori l'azione sarà
inidonea ad offendere.
Secondo autorevole dottrina, l'art. 49 cpv esprimerebbe il principio della necessaria offensività del
fatto costituente reato (delitto tentato o consumato): parlare di una concreta e necessaria attitudine lesiva
del fatto non significa altro se non ribadire, sotto diversa forma, la regola dell’ordinamento vigente, per cui
l’illecito penale si configura solo in funzione dell’effettiva aggressione di quei fatti che offendono beni giuridici
meritevoli di tutela. In altri termini, se il fatto, pur conforme al modello legale, non integra una lesione del
bene giuridico tutelato, non può considerarsi reato (la differenza sostanziale è che, secondo questa dottrina, la
valutazione sull'offensività dell'azione deve essere effettuata con giudizio ex post in concreto dal giudice).
A tale teoria sono state avanzate una serie di obiezioni.
Si osserva, da un lato, che un fatto conforme al modello legale, ma al tempo stesso privo di lesività, sembra
costituire una sorta di contraddizione in termini; dall’altro, che esigere, oltre alla tipicità, anche la sua lesività,
darebbe adito al ricorso a criteri extranormatvi, con il rischio di un arbitrio da parte del giudice.
Quanto alla prima obiezione si è osservato che la norma incriminatrice non è in grado di disciplinare la
infinità dei casi che l’esperienza concreta presenta, quindi, è ben ipotizzabile la sussistenza di un fatto
conforme al tipo ma privo di un’effettiva lesività della condotta.
Quanto ai timori relativi alla certezza del diritto, si è osservato che trattasi pur sempre di una clausola
normativa – vale a dire di una regola espressa dall’ordinamento – con cui l’interprete e il giudice sono
obbligatoriamente chiamati a fare i conti.
Una volta che si assume la lesione del bene protetto (“l’evento dannoso o pericoloso”) come punto di
riferimento dell’idoneità della condotta (così che l’attitudine aggressiva del fatto si profili come un momento
essenziale della sua tipicità) è facile capire che la funzione dell’art. 49 co. 2 c.p. sta proprio nell’offrire una
soluzione per i casi in cui, all’apparente completezza della fattispecie esecutiva, non corrisponde affatto un
contenuto di aggressione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Fiore non ritiene, tuttavia, che all’art. 49 co. 2 c.p., spetti l’ufficio di risolvere la problematica dei c.d. “reati
bagatellari” (condotte lesive di beni giuridici, ma in modo esiguo); quanto, piuttosto, quello di costituire un
prezioso punto di orientamento, proprio per stabilire l’esistenza dell’offesa, allorché il bene protetto
corrisponda a un’entità astratta e “immateriale”: la fede pubblica, appunto, il comune sentimento del pudore,
la fedeltà all’ufficio, l’innocenza sessuale, etc.
Da quanto detto risulta evidente che la fattispecie del reato impossibile va tenuta distinta da quella del
delitto tentato. La non sovrapponibilità tra reato impossibile e delitto tentato è dimostrata, se non altro,
dalla circostanza che non tutte le azioni che non rientrano nell'ambito del reato impossibile costituiscono
delitto tentato essendo possibile che si tratti di reato consumato. Inoltre, mentre il tentativo di cui all'art. 56 cp
si riferisce soltanto ai delitti, il reato impossibile di cui all'art. 49 cp si riferisce a delitti e contravvenzioni (l’art.
49 era tradizionalmente intesa come riferita ai soli casi di tentativo inidoneo).
Collegato al tema dell’offensività e del reato impossibile è quello delle c.d. “azioni socialmente
adeguate”: quelle azioni, cioè, che – per la loro coerenza con lo stile di vita della comunità – non possono
farsi rientrare, al tempo stesso, nella fattispecie di un reato perché in esse manca una reale dimensione
aggressiva del bene. Essa nasce da una concezione del bene giuridico che sostituisce, alla nozione “statica” di
esso (Beling: il bene giuridico è tutto ciò che il legislatore ha lo scopo di tutelare, legittimando qualsiasi norma
incriminatrice a prescindere dalla lesione al bene giuridico), una visione dinamico-funzionale del suo ruolo
nella vita sociale, che ne valorizzi il reale significato (Welzel: il bene giuridico va inserito nella realtà sociale).
In tale prospettiva, esistono fatti, come la madre che allatta il bambino in pubblico, che dal punto di vista
meramente naturalistico e formale sembrano realizzare una fattispecie di reato, ma che. Se calati nella realtà
sociale, non sono affatto lesivi di beni giuridici.

L’ERRORE SUL REATO IMPOSSIBILE E SULL’ADEGUATEZZA SOCIALE


La delicata questione dei termini di rilevanza dell’errore sul reato impossibile e sull’adeguatezza sociale va
risolta alla stregua di ogni altro problema di rilevanza dell’errore sul fatto. L’errore risulta, cioè, irrilevante
quando corrisponda ad un errore sul divieto; non, invece, se consiste in un errore su presupposti di fatto che,
se esistenti, avrebbero escluso la tipicità della condotta.
Ciò è particolarmente chiaro per quanto attiene al reato impossibile per inesistenza dell’oggetto.
È certo più difficile concepire un errore sulla idoneità della condotta, che non si traduca in errore sui limiti
del divieto; ma non v’è dubbio, ad esempio, che chi spari contro taluno, con il solo intento di spaventalo, con
un fucile che egli crede caricato a salve, mentre in realtà è caricato con micidiali proiettili, non dovrà
rispondere di omicidio o tentato omicidio, a norma dell’art. 47 c.p., poiché versa in errore sul fatto che
costituisce il reato.
Lo stesso discorso deve farsi per i casi di errore sull’adeguatezza sociale. In tal caso, infatti, l’errore
sull’adeguatezza sociale non nasce da un errore sul fatto, ma costituisce un tipico errore sui limiti del divieto e
risulta, perciò, irrilevante.

PRINCIPIO DI MATERIALITA’ E PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’


Il principio di materialità si desume dall'art. 27 cost. ed impone che la volontà criminale si estrinsechi
quanto meno nella forma del tentativo punibile (il fatto di reato deve avere riscontri esterni oggettivi). Ciò
comporta la non punibilità delle mere intenzioni e delle qualità personali.
Le norme espressive del principio di materialità sono: 1) l'art. 49 comma 1 c.p. che prevede la non
punibilità dell'erronea supposizione di delinquere; 2) l'art. 115 c.p. che prevede la non punibilità dell'accordo
per commettere reato se, poi, il reato non è commesso, salva l'applicazione di una misura di sicurezza; 3) l'art.
56 c.p. che stabilisce, ai fini della punibilità del tentativo, che esso si debba essere concretizzato in atti idonei
non equivocamente diretti alla commissione di un delitto non essendo sufficiente, ai fini della punibilità
penale, la mera intenzione di delinquere o l'aver realizzato solo degli atti preparatori.
Il principio di offensività implica, invece, che il legislatore possa incriminare solo quei fatti che offendono
beni giuridici meritevoli di tutela. Ciò comporta la non punibilità della mera disobbedienza essendo necessario
il danno o la messa in pericolo di un bene giuridico. Occorre, tuttavia, distinguere il caso in cui sia la norma
astratta a non rispettare il principio di offensività da quello in cui, nel caso concreto, difetti la concreta offesa
al bene giuridico tutelato. Secondo la dottrina dominante, non è ravvisabile una norma costituzionale che
contempli espressamente il principio di offensività ma è dal complesso delle norme penali costituzionali che si
può desumere l'esistenza del principio medesimo.
Il diritto penale, dunque, punisce solo fatti (principio di materialità) che siano offensivi di beni giuridici
(principio di offensività).

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