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SEZIONE SECONDA

IL FATTO

LA STRUTTURA DEL FATTO TIPICO

LA STRUTTURA GENERALE DEL FATTO TIPICO: FATTISPECIE OGGETTIVA E FATTISPECIE


SOGGETTIVA
La prima e più importante figura di qualificazione del fatto penalmente rilevante concerne la sua
dimensione di conformità alla descrizione normativa di un reato, che viene designata col nome di tipicità.
Il fatto storico in cui siano presenti tutti gli elementi che compongono la fattispecie legale di un
determinato reato è un fatto tipico.
All’interno del fatto tipico, si suole distinguere tra fattispecie oggettivo-materiale e fattispecie
soggettiva.
Alla prima si assegnano gli elementi di carattere oggettivo, in base ai quali si stabilisce il carattere tipico di
un fatto; alla seconda tutti gli elementi di ordine psichico, che ugualmente concorrono a definirne la tipicità.

FATTISPECIE OGGETTIVA

GLI ELEMENTI DELLA FATTISPECIE OGGETTIVA: L’AUTORE; IL SOGGETTO PASSIVO DEL


REATO; L’OGGETTO MATERIALE; LA CONDOTTA; L’EVENTO; NESSO SI CAUSALITA’
Gli elementi costitutivi della fattispecie oggettiva sono: l’autore; il soggetto passivo del reato; l’oggetto
materiale; la condotta; l’evento; il nesso di causalità fra condotta ed evento.
1) “Autore” è colui che realizza nel mondo esterno il fatto tipico di un determinato reato. Può essere
“autore” soltanto una “persona fisica”. Il nostro ordinamento, infatti, ha optato per un modello extrapenale di
responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica
per i reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da organi dell’ente o da suoi sottoposti, che viene
esplicitamente definito come “responsabilità amministrativa” e concretamente disciplinato dalla normativa
contenuta nel d.lgs. 231/2001.
Occorre subito precisare che la qualità di “autore” è del tutto indipendente dal giudizio sulla colpevolezza
del soggetto che agisce e, in generale, dalla sua punibilità in concreto. Così, ad esempio, il minore non
imputabile che sottrae un oggetto dal banco del supermercato non per questo cessa di essere autore del reato
di furto; tant’è vero che la sua qualità può rappresentare il punto di riferimento per la punibilità o la maggiore
punibilità di terzi che ne siano stati complici e per l’esercizio di un’azione civile per il risarcimento del danno.
Con riferimento all’autore del fatto illecito si suole distinguere tra reati comuni, reati propri e reati di
mano propria.
Si definiscono comuni i reati il cui fatto tipico può essere realizzato da chiunque.
Si definiscono propri i reati il cui fatto tipico può essere realizzato solo da una persona che si trovi in una
particolare relazione con il bene protetto dalla norma: la vita del neonato (infanticidio), il patrimonio della
P.A. (peculato), e così via. La speciale relazione con il bene tutelato può assumere rilevanza, o in quanto
determina l’esistenza stessa di un illecito penale, che non si configurerebbe affatto in mancanza della
particolare qualità del soggetto (es. omissione di referto); ovvero in quanto dà luogo al configurarsi di un
diverso tipo di illecito (ad esempio l’appropriazione indebita di denaro o di cose altrui se commessi dal p.u.
costituiscono delitto di peculato, mentre se commessi da un privato cittadino integrano il fatto tipico
dell’appropriazione indebita).
Si definiscono, infine, reati di mano propria i reati che, pur potendo essere commessi in astratto da
chiunque, richiedono, tuttavia, per realizzarsi in concreto, che al momento del fatto il soggetto si trovi appunto
in una particolare relazione con il bene protetto. Il delitto di falso giuramento, ad esempio, può essere
commesso sì da chiunque, ma richiede che il soggetto attivo rivesta, al momento della condotta, la qualità di
parte in un giudizio civile.
2) Altro elemento della fattispecie oggettiva è il soggetto passivo del reato ovvero il portatore dell’interesse
penalmente protetto, su cui incide la condotta tipica (persona offesa dal reato).
La nozione di soggetto passivo non coincide, necessariamente con quella di danneggiato dal reato, che
designa il soggetto che subisce il danno, patrimoniale e non, derivante dal reato e suscettibile di risarcimento.
Così ad esempio, nell’omicidio, soggetto passivo è la vittima dell’azione omicida, danneggiati, invece, sono gli
stretti congiunti.
Soggetti passivi del reato possono essere sia persone fisiche, sia le persone giuridiche, nonchè lo Stato e la
Pubblica Amministrazione.
La categoria del soggetto passivo concorre, come ogni altro elemento della fattispecie oggettivo-materiale, a
determinare il carattere tipico del fatto. Anche se, nella maggior parte dei reati, soggetto passivo può essere
“chiunque”, vi sono casi in cui le qualità personali del soggetto passivo sono determinanti, per stabilire
l’esistenza di un fatto tipico o per distinguere un fatto tipico dall’altro. Così ad esempio, la qualità di minore
degli anni 14 è essenziale per il configurarsi della fattispecie oggettiva del reato di violenza carnale.
3) Un altro elemento della fattispecie oggettiva del reato è il c.d. oggetto materiale dell’azione:
espressione con cui si designa l’entità su cui incide la condotta tipica. Oggetto materiale dell’azione può essere
dunque una cosa, un animale, una persona umana.
L’oggetto materiale dell’azione può essere uno solo, o più di uno: ad esempio, nel delitto di rapina
costituiscono al contempo oggetto materiale dell’azione sia la persona minacciata o sottoposta a violenza, sia
la cosa sottratta mediante l’uso della minaccia o violenza.
L’utilità della nozione di oggetto materiale sta nel fatto che anche la natura e la qualità dell’oggetto
concorrono a definire la tipicità del fatto, dal punto di vista oggettivo-materiale. La fattispecie del furto, ad
esempio, si realizza solo se oggetto materiale dell’azione è il denaro.
La nozione di oggetto materiale dell’azione non va confusa con quella del bene giuridico, che, viene definito
anche oggetto giuridico del reato, cioè l’interesse tutelato dalla norma. Così ad esempio nel furto, oggetto
materiale dell’azione è la cosa altrui che viene sottratta, mentre oggetto giuridico del reato è il patrimonio
4) Nucleo essenziale della fattispecie oggettivo-materiale è la condotta del soggetto che, per essere tipica,
e quindi potenzialmente rilevante per il diritto penale, deve corrispondere, nelle sue esterne modalità di
realizzazione, a quella descritta da una norma incriminatrice speciale.
La condotta tipica può consistere in un comportamento positivo, cioè in un “fare” (azione in senso stretto),
ovvero in un comportamento negativo, cioè nel “non fare qualcosa” (omissione).
Un comportamento che non presenti, oggettivamente, tutte le caratteristiche descritte da una norma
incriminatrice, non può assumere alcuna rilevanza per l’ordinamento penale; quand’anche esprima un
contenuto di disvalore analogo a quello che contrassegna la condotta vietata; e perfino se realizza la lesione del
medesimo bene giuridico.
5) Altro elemento della fattispecie oggettiva del reato è l’evento inteso come modificazione della realtà
esterna preesistente, che consegue alla condotta dell’autore.
Con riferimento all’evento si suole distinguere tra reati di evento e reati di pure condotta.
Si definiscono reati di evento i reati nei quali il legislatore richiede, per la perfezione dell’illecito, il
verificarsi di un determinato accadimento naturalistico come effetto della condotta (es. omicidio).
Si definiscono, invece, reati di pura condotta i reati nei quali il legislatore si limita a descrivere la
condotta incriminatrice senza richiedere, per la perfezione dell’illecito, il verificarsi di un accadimento
naturalistico come effetto della condotta (es. falso giuramento in un giudizio civile, omissione di denuncia di
reato).
Ciò premesso, va osservato però che anche i reati di pura condotta implicano, in realtà, un “evento” di
lesione del bene, solo che esso non si manifesta nella forma di una modificazione del mondo esterno,
distinguibile dalla condotta del soggetto.
La dottrina penalistica italiana è stata a lungo segnata dalla contrapposizione fra i sostenitori della
concezione “naturalistica” dell’evento e i sostenitori della concezione “giuridica” di esso.
I primi considerano l’evento come accadimento naturalistico, corrispondente, cioè, ad una modificazione
della realtà esterna preesistente, distinguibile dalla condotta e, quindi ammettono, l’esistenza sia dei reati “con
evento”, in cui il fatto tipico consiste in una condotta umana più un risultato naturale della stessa, e reati
“senza evento”, in cui il fatto tipico consiste solo in un comportamento umano, a prescindere dal suo risultato.
I sostenitori della concezione giuridica, invece, considerano l’evento in termini di lesione o messa in
pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma (si richiede accanto ad un evento naturalistico un evento in
senso giuridico, in termini di lesione o messa in pericolo del bene giuridico), per cui escludono l’esistenza dei
reati “senza evento”, poiché la lesione del bene protetto dalla norma penale è una conseguenza immancabile
dell’azione vietata e si configura indipendentemente dal fatto che essa sia più o meno “incorporata”, per così
dire, in un accadimento percepibile con i sensi.
Il dibattito sul concetto di evento si risolve, ormai, facendo leva su una regola fondamentale
dell’ordinamento: e cioè quella per cui il reato costituisce sempre un’aggressione al bene tutelato.
Per meglio ancorare alla nozione del fatto tipico questo irrinunciabile requisito, una parte della dottrina
ricorre alla nozione di “offesa” e la distingue da quella di evento: per offesa si dovrebbe intendere la lesione o
messa in pericolo del bene protetto, quale requisito essenziale del fatto; mentre alla nozione di evento
dovrebbe riservarsi un significato più ristretto, sostanzialmente coincidente con quella dell’evento in senso
naturalistico. L’offesa, quindi, sarebbe presente in qualsiasi reato, ivi compresi quelli c.d. di pura condotta;
l’evento, invece, sarebbe presente solo in quelle fattispecie in cui esso appare isolabile dalla condotta, in
quanto modificazione del mondo esterno sensibile.

LE TIPOLOGIE DELL’OFFESA: REATI DI DANNO E REATI DI PERICOLO.


La realizzazione di una condotta tipica può avere come conseguenza la lesione o la messa in pericolo di un
bene giuridico. Di regola, la mera esposizione al pericolo di un bene giuridico non è sufficiente ad integrare la
fattispecie di un reato.
Nella maggior parte dei casi, infatti, la legge richiede, per il perfezionarsi del reato, che si verifichi
un’effettiva lesione del bene protetto, sicchè, ove la condotta tipica, non abbia prodotto il risultato a cui era
diretta, potrà solo assumere rilevanza, a determinate condizioni, come tentativo di delitto.
Talvolta, tuttavia, la legge ritiene sufficiente, per la punibilità del fatto, la mera esposizione a pericolo del
bene tutelato: ciò avviene, di solito, in relazione a beni di particolare importanza o di natura tale che solo una
penalizzazione, per così dire, anticipata delle condotte idonee a porre in pericolo il bene può garantirne
un’adeguata protezione.
I reati la cui fattispecie legale esige la effettiva lesione del bene tutelato, si definiscono reati di danno.
Viceversa, i reati la cui fattispecie legale esige la semplice esposizione al pericolo del bene e, quindi, anticipa la
tutela, dal momento del danno effettivo al momento del danno potenziale (pericolo di danno), si definiscono
reati di pericolo. Nell’ambito dei reati di pericolo si suole distingue fra reati di pericolo concreto e
reati di pericolo astratto.
Nei reati di pericolo concreto l’accertamento del verificarsi del pericolo, in quanto elemento essenziale
della fattispecie oggettiva, dev’essere compiuto caso per caso dal giudice. Esempio classico di reato di pericolo
concreto è l'incendio di cosa propria di cui all'art. 423 c.p., comma 2°.
Accertare l’esistenza di un pericolo significa accertare l’esistenza di una situazione oggettiva, il cui evolversi
– in mancanza dell’insorgere di circostanze impeditive – avrebbe verosimilmente condotto ad un evento di
lesione del bene protetto.
Il giudizio in cui si concreta l’accertamento del pericolo è contrassegnato dallo schema della c.d. prognosi
postuma ex antea a base totale, per cui il giudice si colloca mentalmente al momento del fatto e verifica, alla
stregua della migliore scienza ed esperienza e tenendo conto di tutte le circostanze esistenti in quel momento,
se effettivamente la condotta fosse pericolosa per il bene giuridico,
Nel caso del giudizio relativo al disvalore d’azione si parla, invece, di prognosi postuma ex antea a base parziale, per cui il
giudice si colloca mentalmente al momento del fatto e verifica, alla stregua delle conoscenze dell’agente o di un
osservatore avveduto posto nella stessa situazione e tenendo conto di tutte le circostanze esistenti in quel momento, se
la volontà dell’agente fosse effettivamente diretta alla lesione o messa in pericolo del bene giuridico.
Nei reati di pericolo astratto, invece, il legislatore incrimina un certo tipo di fatto in base alla
presunzione che in esso sia insita, nella normalità dei casi, la esposizione a pericolo di un determinato bene
giuridico, pur senza richiedere che si accerti, caso per caso, il verificarsi di un danno effettivo o di un concreto
pericolo di danno (fattispecie criminose nelle quali la messa in pericolo del bene protetto è insita nella
realizzazione stessa del fatto tipico senza la necessità di indagine alcuna da parte del giudice con la facoltà,
tuttavia, per l'autore del fatto, di provare, in concreto, l'inesistenza del pericolo). In tali casi, quindi, la
constatazione di un concreto pericolo, eventualmente corso dai beni protetti, non è rilevante per la punibilità
dell’agente. Esempio classico di reato di pericolo astratto è l'incendio di cosa altrui, laddove il Giudice non è
chiamato, al contrario della fattispecie dell'incendio di cosa propria, ad alcun esame in merito alla sussistenza
di un pericolo in concreto.
Si sottolinea che nei reati di pericolo astratto il pericolo (è presunto) non rappresenterebbe un elemento
costitutivo della fattispecie e che, pertanto, a differenza che nei reati a pericolo concreto, esso non debba
essere accertato dal giudice. Questo assunto, tuttavia, può essere condiviso solo a patto di distinguere in modo
netto il concetto dell’offesa, intesa come lesione o messa in pericolo del bene, dalla nozione di evento (c.d.
evento in senso materiale).
Tuttavia, il fatto che nei reati di pericolo astratto non sia richiesto un evento, inteso come modificazione del
mondo esterno, conseguente alla condotta e da essa isolabile, non significa che in essi sia irrilevante il dato
dell’offesa al bene che è, viceversa irrinunciabile in qualsiasi ipotesi di reato, sia pure nella forma della mera
esposizione a pericolo.
È evidente, come il problema cruciale dei reati di pericolo astratto sia, quello della vincibilità o meno
della presunzione di pericolo, insita nella previsione legislativa.
La giurisprudenza dominante propende per una soluzione negativa alla luce delle esigenze di politica
criminale che sono sottese alla categoria dei reati di pericolo astratto.
Tuttavia, l’assoluta invincibilità della presunzione legislativa di pericolosità della condotta si presenta in
contrasto con l’art. 49 co. 2 c.p. che esclude la punibilità del fatto, quando, “per la inidoneità dell’azione o per
l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.
E poiché la pericolosità presunta dal legislatore altro non è se non l’idoneità della condotta all’aggressione
del bene tutelato, la dimostrazione dell’assoluta impossibilità di questa dovrebbe condurre, anche nei reati di
pericolo astratto, a negare la rilevanza penale dell’azione inidonea.
Fiore, quindi, ammette la facoltà per l'autore del fatto, di provare, in concreto, l'inesistenza del pericolo
precisando, però, che bisogna distinguere tra reati di pericolo astratto-concreto e reati di pericolo
presunto.
Si definiscono reati di pericolo astratto-concreto quelle ipotesi normative in cui il legislatore, pur non
richiedendo un evento di pericolo concreto, impone, tuttavia, la valutazione caso per caso della “pericolosità”
della condotta; sia pure apprezzata in una fase, per così dire, “prodromica” rispetto al vero e proprio evento di
pericolo.
Ad esempio l’art. 440 c.p. punisce il fatto di chi corrompe o adultera acque o sostanze destinate
all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose per la salute
pubblica. Si tratta di un reato di pericolo astratto perché il legislatore non si limita a descrivere la condotta, ma
richiede una generica pericolosità e anticipa la punibilità al momento prima che la condotta sia concretamente
pericolosa per la salute pubblica. Si pensi al caso in cui un soggetto immette una sostanza nociva prima che le
acque passino dal depuratore, che avvertendo la presenza della sostanza blocca la distribuzione. È evidente
che la condotta dell’agente non pone concretamente in pericolo i consociati, tuttavia, la norma anticipa la
tutela penale al momento precedente alla distribuzione delle acque per cui la condotta sarà ugualmente
punita. Ovviamente, se la sostanza immessa è innocua saremmo in presenza di un reato impossibile, giacchè la
norma esige una generica pericolosità della condotta.
È evidente che qui non si pone alcun problema in ordine all’ammissibilità della prova contraria alla
presunzione legislativa di pericolo perché è la legge stessa che evoca, ai fini dell’accertamento della condotta
tipica, l’’apprezzamento della sua idoneità a determinare un pericolo per il bene tutelato. Il pericolo
incriminato rimane, bensì, “astratto” nel senso che esso non si è ancora profilato come rischio concretamente
corso dai consociati (e quindi come evento di pericolo); ma l’affermazione della tipicità della condotta è
interamente affidata ad un giudizio sulla sua attitudine lesiva.
Si definiscono, invece, reati di pericolo presunto quelle ipotesi normative in cui il legislatore descrive
in modo più o meno dettagliato la condotta incriminata, presumendola pericolosa, senza lasciare alcuno
spazio all’interprete e al giudice in ordine alla valutazione del pericolo.
Ipotesi non controverse di reato di pericolo presunto sono ad esempio le norme che vietano la
fabbricazione, la detenzione o il commercio di armi, lo spaccio o la detenzione di sostanze stupefacenti.
In questi casi, l'autore del fatto non è ammesso a provare l'inesistenza in concreto del pericolo che è, per
l'appunto, presunto iuris et de iure.
Quanto alla compatibilità delle ipotesi di pericolo presunto con il principio della necessaria offensività della
condotta, essa resta affidata alla ragionevolezza della presunzione normativa di pericolosità della condotta ed
alla puntualità della sua definizione. Ed invero, la Corte costituzionale investita della delicata questione
dell’ammissibilità dei reati di pericolo presunto ha avuto modo di precisare che le ipotesi di pericolo presunto
“non sono incompatibili in via di principio con il dettato costituzionale”, purché, appunto, le relative
presunzioni non siano “irrazionali od arbitrarie, il che si verifica quando esse non sono collegabili all’id quod
prelumque accidit”.
MOCCIA
Moccia sostiene che i reati di pericolo astratto sono assolutamente incompatibili con le prospettive
dell’integrazione sociale in quanto la totale mancanza di lesività della condotta rende difficilmente percepibile
il disvalore del fatto, sia per la generalità dei consociati, sia per l’eventuale reo che potrà non rendersi conto,
all’atto dell’inflizione e dell’esecuzione della pena, della gravità della sua condotta. A ciò si aggiunga il rischio
di una perdita di credibilità per il sistema, dovendo esso intervenire con la soluzione penale per fatti di lieve
entità, quali appunto le fattispecie di pericolo astratto. Per tali ragioni Moccia propone per le ipotesi di
pericolo astratto un a soluzione di depenalizzazione ovvero la trasformazione in illecito amministrativo.

IL NESSO DI CAUSALITA’ FRA CONDOTTA ED EVENTO


Il nesso di causalità non è altro che il rapporto di causa ed effetto che deve sussistere fra la condotta e
l’evento, affinchè la condotta stessa sia punibile. A differenza di altre legislazioni, il nostro ordinamento
contiene l’espressa menzione del rapporto di causalità fra condotta ed evento, quale elemento costitutivo
essenziale del fatto tipico.
Ed invero, l’art. 40 co. 1 c.p. dispone: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge
come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della
sua azione od omissione”.
È evidente, però, che la norma si limita soltanto ad enunciare l’esigenza di un nesso causale fra condotta ed
evento (per assumere rilevanza penale, la condotta dell’agente deve potersi effettivamente riconoscere come
causa dell’evento tipico) ma non chiarisce che cosa si debba intendere per rapporto di causalità, né tanto meno
specifica quali debbano essere i criteri in base ai quali si decide della rilevanza giuridica del rapporto causale.
Il compito di meglio delineare il rapporto di causalità, quindi, è stato affidato alla dottrina e alla
giurisprudenza. Vediamo pertanto le varie posizioni della dottrina.
Le proposte teoriche alle quali si è fatto tradizionalmente riferimento sono: la teoria della condicio sine qua
non; la teoria della causalità scientifica; la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento; la teoria della
causalità adeguata; la teoria della causalità umana.
a) Secondo la teoria della condicio sine qua non (o teoria dell’equivalenza) una condotta è “causa”
dell’evento se eliminando mentalmente la condotta viene meno anche l’evento. In tale
prospettiva, tutte le cause sono equivalenti se costituiscono condizione necessaria e sufficiente per la
produzione dell'evento. Ciò comporta però un eccessivo ampliamento della fattispecie: un’azione omicida ad
esempio viene compiuta non solo da chi ha esploso il colpo letale ma anche da che ha fabbricato o venduto
l’arma.
La teoria della condicio sine qua non appare condivisibile sulla base di alcune considerazioni.
Nei casi in cui, per la presenza di un decorso causale atipico, l’applicazione della sanzione appare
inadeguata, i sostenitori della teoria dell’equivalenza fanno ricorso alla mancanza del dolo, spostando il
problema dall’ambito dell’imputazione oggettiva a quella soggettiva. Ad esempio, pensiamo al caso di chi,
all’approssimarsi di un temporale, induca taluno a fare una passeggiata, nella speranza che un fulmine lo
colpisca. Se l’evento si verifica, in base alla teoria dell’equivalenza, la causalità non può essere negata, per cui
si considera realizzata la fattispecie oggettiva e la sanzione può non essere inflitta solo sulla base
dell’esclusione del dolo.
Tuttavia, va osservato che da un punto di vista soggettivo, l’agente vuole ciò che poi si è realizzato ma,
nonostante ciò si ritiene che non debba essere punito, per cui l’esclusione dell’imputazione non deve essere
ricercata nella mancanza del dolo quanto piuttosto nell’oggettiva casualità dell’accadimento dal momento che
una morte casuale non può considerarsi omicidio in senso giuridico-penale.
Vi sono poi dei casi in cui è impossibile provare che un dato evento possa essere fatto risalire con certezza
ad una determinata causa. Si pensi, ad esempio, al caso, realmente capitato, di un farmaco (il Talidomide) che,
somministrato a donne gestanti, provoca figli con malformazioni genetiche oppure al caso in cui il medico
omette di prescrivere un esame clinico e la paziente muore per una sindrome non diagnosticata. In questi casi,
applicando la teoria della condicio sine qua non, è assai difficile provare che l'evento finale sia stato causato
effettivamente da quella determinata condizione. Se io elimino ipoteticamente l’assunzione del farmaco e
l’omissione della diagnosi, come faccio a provare che i neonati sarebbero nati senza malformazioni o che la
morte della paziente venga meno. In altre parole, la teoria dell’equivalenza non funziona nei casi in cui tra
condotta ed evento c'è solo un legame di probabilità. Ciò è dovuto al fatto che la teoria della condicio
sine qua non è soltanto un procedimento logico e, per funzionare, richiede che si conosca la legge scientifica in
base alla quale una determinata condotta provoca un determinato evento. Così possiamo dire che eliminando
la coltellata viene meno la morte perché sappiamo che un coltello infilato nel cuore provoca l’arresto cardiaco
con conseguente cessazione delle funzioni vitali. Viceversa, abbiamo maggiori difficoltà ad affermare che
l’assunzione del farmaco provoca malformazioni al feto, perché la scienza non è in grado di dimostrare che tali
malformazioni conseguono con certezza all’assunzione del farmaco.
Ancora, un’altra critica mossa alla teoria della condicio sine qua non è che sarebbe inutilizzabile nei casi di
causalità addizionale e di causalità alternativa ipotetica.
La causalità addizionale ricorre quando un evento è stato prodotto da più cause, tutte da sole sufficienti
a produrlo. Si può citare il caso in cui A e B propinano a C, l’uno indipendentemente dall’altro, dosi dello
stesso veleno, ciascuna delle quali sarebbe stata letale.
La causalità alternativa o ipotetica ricorre quando un evento è prodotto da una certa condotta, ma si
sarebbe ugualmente verificato per un'altra causa, sopravvenuta all'incirca nello stesso momento. Si può citare
il caso in cui A avvelena B un attimo prima che questi prenda un aereo che precipita, sicchè B sarebbe
ugualmente deceduto.
Questi casi mettono in crisi la teoria della conditio sine qua non perché eliminando mentalmente la
condotta di A l’evento si sarebbe ugualmente verificato.
b) Il problema principale della teoria dell’equivalenza rimane il fatto che a volte è impossibile spiegare in
termini naturalistici un dato evento. Così, preso atto di questa difficoltà, la dottrina ha cercato di apportare dei
correttivi ed ha elaborato la teoria della causalità scientifica, che oggi è quella accolta dalla dottrina
prevalente.
Secondo questa teoria la condotta è causa dell'evento quando, secondo la migliore scienza ed
esperienza del momento storico (cioè secondo il metodo scientifico-causale) l'evento è
conseguenza, certa o altamente probabile, dell'azione, in quanto senza di essa l'evento non si
sarebbe verificato. In relazione al rapporto tra legge scientifica e accertamento del nesso causale si è
registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti. Il contrasto concerneva quella percentuale di validità
statistica della legge che è necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale. Il problema non
si poneva in relazione alle leggi c.d. universali in quanto sono in grado di ricollegare un evento ad un
determinato antecedente in termini di certezza, non essendo mai state smentite. Il problema si poneva,
viceversa, per tutte quelle leggi scientifiche probabilistiche che funzionano soltanto in una data percentuale di
casi c.d. leggi statistiche. Ebbene, la giurisprudenza si era divisa proprio su questa percentuale di probabilità
statistica. Un primo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente se vi
erano apprezzabili probabilità che l’evento fosse conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento aveva
affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente solo se la legge scientifica aveva un coefficiente
percentuale pari alla certezza (100%).
Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle S.U. della Corte di Cassazione nel 2002 con la nota
sentenza Franzese (sent. 30328/2002). Le S.U., partendo dal presupposto che il rapporto di causalità è un
elemento essenziale della fattispecie oggettiva del reato, ritengono che il giudice debba ritenere provato oltre
ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto, sottoposto al suo esame, esista un rapporto di causalità
tra condotta ed evento. Ciò significa che in merito all’esistenza del rapporto di causalità è sempre necessario
un giudizio di alta probabilità logica. Tale giudizio non va, però, confuso con l’astratta percentuale di validità
statistica della legge scientifica perché è formulato tenuto conto delle caratteristiche del caso concreto. Le S.U.
con la sent. Franzese hanno prospettato quello che è stato definito come un “modello bifasico di accertamento
della causalità”. Nella prima fase (ex ante) si ricerca in astratto la legge scientifica applicabile al caso. Una
volta identificata la legge che spiega il fenomeno, il giudice non deve accertare l’esistenza del rapporto di
causalità in base alla percentuale di validità statistica della legge, considerata in astratto, ma deve controllare
(seconda fase ex post) se il fenomeno verificatosi in concreto possa essere spiegato alla luce di quella legge.
Occorre, cioè, poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato.
In conclusione, possiamo affermare che le leggi statistiche con frequenza medio-bassa possono essere
utilizzate ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, se l’accertamento processuale è stato in grado di
escludere la presenza nel caso concreto di altri fattori causali che possano aver determinato l’evento.
Una ipotesi supportata da una legge di copertura dotata di un elevato grado di probabilità statistica potrebbe infatti
non essere comunque idonea a spiegare l’eziologia dello specifico evento se si dimostra che nel caso concreto l’evento è
stato cagionato da una diversa condizione, la cui sussistenza è stata processualmente accertata; reciprocamente, una
ipotesi fondata su regole di ricorrenza statistica percentualmente medio-basse potrebbe però in concreto risultare
suffragata dall’accertata assenza nel fatto storico di altre possibili cause dotate di un maggior grado di probabilità.
c) Merita di essere segnalata la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento, che ha tentato in parte di
superare i problemi posti dalle teorie menzionate mediante il ricorso a criteri di giudizio idonei a fondare, dal
punto di vista giuridico, l’imputazione dell’evento. Va precisato, però, che non si tratta di utilizzare un criterio
alternativo alla causalità, bensì di integrare l’accertamento del nesso causale con valutazioni politico-criminali,
tali da fornire una soluzione razionale ai casi più problematici. In altri termini, il giudice dovrà innanzitutto
accertare la sussistenza di un nesso causale secondo criteri naturalistici e successivamente dovrà integrare tali
criteri naturalistici con criteri normativi orientati a scopi di politica criminale.
In tale prospettiva, per l’imputazione oggettiva di un evento alla fattispecie non è sufficiente
causare una lesione al b.g. conforme a quella prevista dalla fattispecie, ma è necessario che
l’evento causato dall’autore si concretizzi in un pericolo non consentito e da lui creato.
Ne consegue che l’evento non può essere imputato all’agente:
1) Principio della diminuzione del rischio. Quando questi non crea né accresce il pericolo di un evento
conforme alla fattispecie, bensì attenua o evita l’evento. Esempio: A punta una pistola contro B per colpirlo
alla testa e C devia il braccio di A cosicchè B viene colpito alla spalla.
2) Principio del rischio consentito. Quando rispetta le prescrizioni legislative, perché si tratta di un rischio
consentito e non di un pericolo non ammesso. Esempio: un guidatore rispetta le regole del traffico e un
passante, senza che ciò sia evitabile, gli finisce sotto l’auto.
3) Principio della contrarietà allo scopo di tutela della norma. Quando l’evento è conseguenza di un rischio
non consentito, ma la fattispecie non è diretta ad impedire eventi del genere di quello realmente verificatosi.
Esempio: due ciclisti pedalano nel buio l’uno dietro l’altro a luci spente. Il primo dei due si scontra con un
ciclista che procede in senso inverso. È chiaro che il primo ciclista risponderà di lesioni colpose perché la
prescrizione di tenere le luci accese serve proprio ad evitare gli scontri, quindi, ha creato un rischio non
consentito di collisione, pericolo che si è poi verificato. Il secondo ciclista, invece, anche se con la sua condotta
ha contribuito a creare il rischio, non risponde di lesioni, perché lo scopo della prescrizione è quello di evitare
le proprie e non le altrui collisioni.
4) Principio di autonomia della vittima. In caso di volontaria autoesposizione al pericolo della vittima.
Esempio: lo spacciatore non risponde della morte del tossicodipendente che si è iniettato una dose eccessiva di
eroina che gli aveva venduto.
5) Responsabilità del terzo. Nel caso in cui l’evento rientri nella sfera della responsabilità professionale di un
terzo. Esempio: tizio investe caio e gli procura una frattura alla gamba, trasportato in ospedale caio muore per
una sepsi dovuta alla disattenzione del medico.
Facendo ricorso alla teoria dell’imputazione oggettiva si riescono a risolvere i casi di causalità cumulativa,
di decorso causale atipico, di causalità addizionale e di causalità alternativa o ipotetica.
La causalità cumulativa ricorre quando l’evento è prodotto da più condotte attribuibili a soggetti diversi;
ciascuna, da sola, non sarebbe sufficiente a produrre l'evento, ma cumulate insieme lo sono. Si può citare il
caso in cui A e B propinano a C, l’uno indipendentemente dall’altro, dosi dello stesso veleno, ciascuna delle
quali non sarebbe stata letale, ma che sommandosi cagionano la morte di C.
Secondo la teoria dell’imputazione oggettiva, ciascuno degli avvelenatori ha contribuito a determinare il
rischio della lesione di beni che si è poi effettivamente prodotta, sia pure con il concorso di una causa
concomitante (costituita dalla condotta dell’altro).
Il decorso causale atipico in realtà altro non è che un caso di forza maggiore o caso fortuito. Ad esempio,
pensiamo al caso di chi, all’approssimarsi di un temporale, induca taluno a fare una passeggiata, nella
speranza che un fulmine lo colpisca oppure al caso in cui Tizio, a seguito di incidente stradale cagionato da
Caio, viene portato in ospedale e il giorno successivo muore per l’incendio dell’edificio.
Secondo la teoria dell’imputazione oggettiva in entrambe le ipotesi l’evento morte non potrà essere imputato
all’agente perché questo tipo di eventi appartengono a un tipo di rischio differente da quello da lui creato.
Diversamente stanno le cose nelle ipotesi in cui l’evento ricade nell’ambito del rischio giuridicamente rilevante
creato dalla condotta. Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’egente getta la vittima da un ponte per farla
annegare nel fiume, ma questa muore perché batte la testa sui pilastri del ponte. È chiaro che l’agente
risponde di omicidio, perché la caduta dal ponte determina in partenza il rischio rilevante di schiantarsi sui
pilastri.
La causalità addizionale ricorre quando un evento è stato prodotto da più cause, tutte da sole sufficienti a
produrlo. Si può citare il caso in cui A e B propinano a C, l’uno indipendentemente dall’altro, dosi dello stesso
veleno, ciascuna delle quali sarebbe stata letale. Secondo la teoria dell’imputazione oggettiva l’evento morte
potrà essere imputato sia ad A che a B, in quanto entrambi gli autori hanno posto in essere il rischio,
giuridicamente riprovato, che si è poi concretato nell’evento.
La causalità alternativa o ipotetica ricorre quando un evento è prodotto da una certa condotta, ma si
sarebbe ugualmente verificato per un'altra causa, sopravvenuta all'incirca nello stesso momento. Si può citare
il caso in cui A avvelena B un attimo prima che questi prenda un aereo che precipita, sicchè B sarebbe
ugualmente deceduto.
Benchè l’elaborazione della dottrina dell’imputazione oggettiva sia avvenuta in Germania, il cui ordinamento penale non
contiene una disciplina relativa alla rilevanza del nesso causale, non vi è dubbio che anche in rapporto ad un
ordinamento come il nostro, che agli artt. 40 e 41 si sforza di dettare una disciplina legislativa della materia, possono
essere utilizzati i principi normativi di imputazione dell’evento, sostanzialmente per due ordini di motivi:
- da un lato, per l’infelice formulazione della norma 41 co 2, relativa alla pluralità dei fattori causali;
- dall’altro, per la presenza di decorsi causali atipici
Alla teoria dell’imputazione oggettiva sono state avanzate diverse critiche tendenti ad individuare nei criteri
di Roxin dei semplici criteri di accertamento della responsabilità colposa, svuotando di significato la categoria
dell’imputazione oggettiva. In realtà, però, secondo Moccia, i piani di considerazione dell’imputazione
oggettiva e dell’imputazione colposa sono ben distinti, in quanto i criteri per l’imputazione oggettiva,
riferendosi all’accertamento della realizzazione del tatbestand oggettivo, precedono logicamente e
teleologicamente le definizioni di responsabilità colposa o dolosa, le quali fanno riferimento alla fase
successiva dell’accertamento della realizzazione del tatbestand soggettivo. In effetti, attraverso i criteri
dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della norma, il piano dell’imputazione oggettiva valuta la
condotta come mero pericolo obiettivo per il bene in questione. Una volta accertato che l’offesa al bene è
conseguenza della condotta obiettivamente pericolosa, questa sarà imputata a titolo di dolo, se la condotta era
obiettivamente diretta al risultato verificatosi, ovvero a titolo di colpa, se quel risultato era prevedibile, sempre
che, ovviamente, il fatto fosse punibile anche a titolo di colpa.
d) Secondo la teoria della “causalità adeguata” si possono considerare come causa dell’evento solo quelle
condotte che, verosimilmente, e cioè secondo l’id quod plerumque accidit, si presentano come possibili
antecedenti dell’evento, e cioè come causa adeguata alla sua produzione. Il giudizio di probabilità è
contrassegnato dallo schema della c.d. prognosi postuma, per cui il giudice si colloca mentalmente al
momento del fatto e verifica, alla stregua delle conoscenze dell’agente o di un osservatore avveduto posto nella
stessa situazione e tenendo conto di tutte le circostanze esistenti in quel momento, se la condotta appariva
come non improbabile causa dell’evento.
Alla stregua di questa delimitazione della rilevanza causale delle condizioni, il nesso causale fra l’azione e
l’evento potrebbe essere escluso nella maggior parte dei casi che sono contrassegnati da un decorso casuale
atipico: sia nell’esempio della passeggiata durante il temporale, sia in quello della morte nell’incendio
dell’ospedale, è vero che l’agente ha posto una condizione dell’evento, ma essa non è causalmente adeguata.
Tuttavia, anche questa teoria è stata fatta oggetto di una serie di critiche. In particolare, si è osservato che
essa, non può essere applicata:
- nei casi in cui anche se l’azione è adeguata a produrre l'evento, questo si è verificato a
causa di un altro fatto successivo e imprevedibile. Così, ad esempio, se Tizio provoca con un
coltello una ferita mortale a Caio e questi, mentre sta miracolosamente per guarire, muore
nell'incendio dell'ospedale, applicando la teoria della causalità adeguata Tizio dovrebbe rispondere del
reato di omicidio; la morte infatti si è verificata, e l’azione era adeguata a produrre l’evento. I
sostenitori della teoria della causalità adeguata superano questa critica affermando che l'adeguatezza
va valutata in concreto e non in astratto; e dunque nel caso in esame Tizio non è punibile, perché la
sua azione, pur adeguata in astratto a produrre l'evento, non lo ha prodotto in concreto;
- nei casi di sfruttamento doloso di particolari conoscenze individuali. Ad esempio se Tizio,
sapendo che Caio è un emofiliaco, vuole ucciderlo e lo graffia leggermente, applicando la teoria della
causalità adeguata non dovrebbe rispondere di omicidio perché la sua azione non era adeguata a
produrre l'evento. I sostenitori della teoria della causalità adeguata superano anche questa critica
affermando che l'adeguatezza va valutata in concreto e non in astratto perché un'azione che non è in
astratto adeguata a produrre un certo evento, può però esserlo quando ricorrono circostanze
eccezionali; e dunque se il soggetto attivo conosce tali circostanze non c'è ragione di non considerare
adeguata la sua azione.
e) La teoria della causalità umana (Antolisei) parte dal presupposto che ci sono determinati avvenimenti
su cui l'uomo (in quanto dotato di coscienza e volontà) può influire, e altri che sono completamente
indipendenti dal suo raggio di azione. Questi ultimi sono i fatti eccezionali, quelli, cioè, del tutto imprevedibili
(l’art. 41 co. 2 c.p., che, esclude la rilevanza del rapporto causale, in presenza di cause sopravvenute “da sole
sufficienti a determinare l’evento”).
Ne consegue che la condotta, potrebbe essere identificata come causa dell’evento, a due condizioni: a) che
essa sia conditio sine qua non dell’evento stesso (nel senso che non possa essere mentalmente eliminata senza
che venga meno la produzione dell’evento); b) che il decorso causale fosse dominabile dall’agente sulla base
delle sue conoscenze; appunto tale requisito verrebbe meno, allorché l’evento sia il prodotto di un fatto
eccezionale, che, per definizione, si sottraeva alla controllabilità (dominabilità) da parte dell’agente.
Questa teoria presenta un duplice inconveniente. Innanzitutto, presenta un difetto di tipo metodologico,
perché facendo riferimento alla dominabilità introduce sostanzialmente un riferimento all’elemento
psicologico.
Viene, inoltre, giustamente rilevato che, almeno nella sua originaria proposizione, la teoria della causalità
umana, pur assumendo la formula della conditio sine qua non come base della rilevanza causale, tuttavia non
enunciava i criteri in base ai quali andrebbe accertata la dipendenza causale, nell’atto in cui si dovrebbe
operare la c.d. “eliminazione mentale” del fattore causale in questione.
SCHEMA
La concezione naturalistica dell’evento, a lungo dominante, ritiene sufficiente accertare un nesso di
causalità di tipo naturalistico presente tra l’altro nei soli reati con evento materiale e non anche nei reati di
mera condotta.
La concezione giuridica dell’evento sostiene, invece, che il nesso di causalità fra condotta ed evento
può atteggiarsi non solo nei termini propri di un processo della realtà naturale, ma altresì come un rapporto di
conseguenzialità fra una determinata condotta e un determinato evento lesivo, la cui qualificazione come
conseguenza può essere stabilita soltanto sulla base di un carattere di regolarità desunto da massime di
esperienza che poco hanno a che vedere con leggi scientifiche.
NOTA
La teoria dell’imputazione oggettiva non va confusa con la teoria della responsabilità oggettiva: 1) secondo la
teoria dell’imputazione oggettiva è necessario integrare i criteri naturalistici con quelli normativi per poter
imputare oggettivamente l’evento ad una determinata condotta, ma ciò non toglie che si debba
successivamente accertare la presenza di dolo o colpa; la responsabilità oggettiva, invece, basandosi sulla mera
possibilità oggettiva di imputare l’evento prescinde del tutto dall’accertamento del dolo o della colpa.

LA DISCIPLINA DELLE CONCAUSE


L’articolo 41 c.p. si occupa delle cosiddette concause, ovvero disciplina i casi in cui, oltre alla condotta,
l'evento è il risultato di ulteriori e diversi fattori causali.
Il 1° comma di detta disposizione (“Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche
se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od
omissione e l’evento”), sancisce l’irrilevanza, in via di principio, delle cause preesistenti o simultanee o
sopravvenute dell’evento, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole.
Ciò significa che, se, oltre alla condotta, l'evento è il risultato di altre cause (preesistenti, simultanee o
sopravvenute) concorrenti, non per questo è escluso il nesso causale.
Per esemplificare: causa preesistente può essere la particolare fragilità dei capillari della vittima, che trasforma in un
evento mortale il pugno sferrato da Tizio; causa simultanea può essere un colpo di vento che permette al proiettile
sparato da Tizio di raggiungere la vittima a una distanza superiore rispetto alla normale portata di tiro dell'arma; causa
sopravvenuta può essere una complicazione derivate dalla ferita riportata.
In tutti questi casi la condotta dell'aggressore è causa dell'evento e costui risponderà di omicidio mentre le cause
concorrenti non spezzano il nesso causale.
Il 3°comma dello stesso articolo, precisa che “Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la
causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”.
Il 2° comma dell’art. 41 cp stabilisce che “Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione
precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”.
Tale disposizione suscita rilevanti perplessità. Innanzitutto, non si comprende quando una causa
“sopravvenuta” possa ritenersi sufficiente, da sola, a determinare l’evento. Ciò, a stretto rigore, è impossibile,
dal momento che la causa sopravvenuta, per definizione, si innesta su un processo causale già avviato, con
determinate caratteristiche; e da esso, dunque, non può mai essere interamente autonoma.
Ne consegue che, l’art. 41 co. 2 c.p. va necessariamente letto nel senso che la causa sopravvenuta
esclude la rilevanza del rapporto di causalità fra la condotta e l’evento, quando, per la sua
natura e le sue caratteristiche, è da sola sufficiente a cagionare l’evento.
È il caso del ferito che muore nell'ospedale per un incendio; l'incendio è una causa sopravvenuta sufficiente
a determinare la morte, il che significa che la morte non sarà attribuibile al feritore (l'incendio è infatti una
serie causale autonoma e indipendente rispetto alle lesioni, che per sé stesse non sarebbero sufficienti a
determinare la morte); a quest'ultimo si applica, però, la pena stabilita per il reato di lesioni.
In secondo luogo, non si comprende la differente disciplina prevista per le concause preesistenti e
simultanee, rispetto a quella delle cause sopravvenute. Una parte della dottrina ritiene, in verità, che si
possibile, in via analogica, l’estensione alle cause preesistenti e simultanee della disciplina dettata dall’art. 41
co. 2 c.p., per le sole cause sopravvenute; possibilità da altri contestata, per due ordini di motivi: da un lato,
l’art. 41 co. 1 c.p. contiene una espressa disciplina delle concause antecedenti e concomitanti, nel senso della
loro irrilevanza, per cui non si può dire che si sia qui di fronte ad una lacuna normativa, bisognosa di essere
colmata; dall’altro, la disposizione dell’art. 41 co. 2 c.p. riveste tutti i caratteri di una norma eccezionale –
rispetto alla regola generale della irrilevanza delle concause – e che, pertanto, anche sotto questo punto di
vista l’analoga sarebbe inibita.
Fiore ritiene, quindi, necessario fare ricorso all’art. 3 Cost. per contestare la singolare discriminazione operata
dall’art. 41 c.p. fra le diverse specie di cause concomitanti, unicamente in rapporto al momento temporale del
loro insorgere.

CLASSIFICAZIONI DEI REATI


REATI UNISUSSISTENTI E REATI PLURISUSSISTENTI
Si dicono reati unisussistenti quei reati la cui condotta tipica si esaurisce con il realizzarsi di un unico
atto, che da solo è capace di configurarsi quale azione; si dicono, invece, reati plurisussistenti quelli la cui
realizzazione esige il compimento di una pluralità di atti.
È bene chiarire, però, che questa distinzione non riguarda la fisionomia della condotta tipica in astratto,
ma la forma particolare con cui essa si presenta in concreto. Lo stesso reato può infatti manifestarsi tanto nella
forma della condotta unisussistente, quanto nella forma di un’attività complessa.
REATI ABITUALI (O A CONDOTTA PLURIMA)
Il reato abituale è quel reato la cui struttura implica la reiterazione di attività positive, ciascuna delle quali,
in sé considerata, o non costituisce affatto un reato (cd reato abituale proprio), oppure riveste gli estremi di un
reato diverso (cd reato abituale improprio). Reato abituale è ad esempio il delitto di maltrattamenti contro i
familiari e conviventi che presuppone una serie di comportamenti aggressivi di uno o più beni giuridici.
Alcuni autori suggeriscono per i reati abituali, in genere, la definizione di reati a condotta plurima.
Quest’ultima scelta terminologica non appare però opportuna, in quanto suscettibile di determinare
confusione tra l’ipotesi considerata e quelle previsioni normative caratterizzate dal fatto che la norma
incriminatrice prende in considerazione un ventaglio più o meno ampio di comportamenti, ciascuno dei quali
è ritenuto rilevante per il configurarsi della fattispecie tipica (c.d. fattispecie a condotta plurima).
I REATI PLURIOFFENSIVI
Il reato può offendere un singolo bene giuridico, o dar luogo alla lesione di una molteplicità di beni o
interessi. Quando si verifichi questa seconda ipotesi, parte della dottrina penale parla di reati
plurioffensivi. È necessario, però, che la plurioffensività del fatto derivi dalla struttura della condotta
incriminata.
Ciò avviene, ad esempio, nella rapina (art. 628 c.p.) ove si aggredisce sempre, ad un tempo, il patrimonio
del soggetto passivo e la incolumità personale o la libertà morale dello stesso.
REATI ISTANTANEI E REATI PERMANENTI
Una ulteriore classificazione dei reati, dal punto di vista della struttura oggettiva, è rappresentata dalla
distinzione fra reati istantanei e reati permanenti.
Preliminare alla nozione di reato permanente è quella di consumazione del reato. Un reato si dice
“consumato”, quando sono stati realizzati tutti gli estremi descritti nella norma incriminatrice che lo prevede,
compreso l’evento che incorpora, per così dire, la lesione del bene protetto; e, quando si tratti di reati c.d. di
mera condotta, quando sia stata realizzata per intero la condotta incriminata. Per contrassegnare il momento
nel quale il reato giunge al suo perfezionamento si adopera l’espressione “momento consumativo del reato”.
Ora, nella maggior parte dei casi, il momento consumativo del reato coincide con l’esaurirsi della sua
rilevanza giuridico-penale, dal punto di vista della tipicità; nel senso che tutto ciò che avviene dopo la
consumazione del reato può avere rilevanza solo ai fini della sua punibilità in concreto, o nella sfera degli
eventi giuridici di natura extrapenale, ma non altera la fisionomia, ormai compiuta, della fattispecie oggettiva.
In altri casi, però, il perfezionamento del reato non segna l’esaurimento della fattispecie, ma solo l’inizio di
una fase di consumazione del reato stesso, destinata a protrarsi per un certo tempo. È appunto a queste ultime
ipotesi che corrisponde la categoria dei reati permanenti (es. sequestro di persona).
Perché si abbia un reato permanente, dunque, la fattispecie legale deve essere strutturata in modo tale da
richiedere – o almeno da permettere – che la consumazione si protragga nel tempo. Più precisamente, il reato
permanente è contrassegnato dal perdurare nel tempo della lesione di un bene giuridico, per effetto di una
corrispondente condotta dell’autore.
Una parte della dottrina ha cercato di dimostrare che il reato permanente sarebbe caratterizzato da una
struttura c.d. bifasica: nel senso che ad una condotta necessariamente attiva – indirizzata a cagionare la
lesione del bene – seguirebbe immancabilmente una parte di condotta omissiva, contrassegnata dalla mancata
rimozione della condotta antigiuridica, determinata dalla precedente condotta attiva. L’asserita struttura
bifasica del reato permanente non è però affatto presente in tutti i casi. Nello stesso sequestro di persona, da
un lato è ipotizzabile una condotta fin dal principio omissiva, come nel caso di chi approfitti di una situazione
causalmente determinata per instaurare un sequestro, e dall’atro, è possibile che la condotta successiva alla
privazione della libertà si concreti in comportamenti attivi, come lo spostamento del prigioniero.
Da altro punto di vista, si è osservato che un reato permanente, a ben vedere, sarebbe configurabile solo in
presenza di beni giuridici che, per loro natura, siano suscettibili di essere, per così dire, “compressi” per
un certo tempo, conservando però la capacità di riassumere l’originaria espansione nel punto in cui cessi la
“compressione” indotta dal comportamento del soggetto attivo. Anche questo enunciato – per quanto colga
una caratteristica senz’altro assai ricorrente del reato permanente – non sembra, tuttavia, esprimere l’essenza,
visto che, in altri casi, la supposta “elasticità” del bene aggredito, non si attaglia affatto alla sua struttura; si
pensi all’ordine pubblico o alla morale familiare, oggetto rispettivamente della condotta di associazione per
delinquere e di relazione incestuosa.
In realtà, l’essenza del reato permanente sta nel rapporto che si stabilisce fra la condotta,
attiva ed omissiva, dell’autore ed il protrarsi del momento consumativo del reato. Non a caso,
come la dottrina concordemente riconosce, il perdurare della lesione del bene deve essere “sostenuto” dalla
volontà del soggetto attivo. Se il sequestratore perde conoscenza o viene a sua volta a trovarsi in una
condizione di costringimento fisico, il residuo periodo di privazione di libertà del sequestrato non può essergli
addebitato.

LA FATTISPECIE SOGGETTIVA

GLI ELEMENTI DELLA FATTISPECIE SOGGETTIVA: COSCIENZA E VOLONTA’, DOLO; COLPA


E PRETERINTENZIONE.
Alla fattispecie soggettiva del fatto tipico appartiene l’intero contenuto psichico dell’azione od omissione che
presenti i requisiti oggettivi di una condotta tipica.
Negli artt. 42 e 43 c.p., il vigente c.p. dispone quali sono i requisiti minimi che un comportamento umano
deve presentare, dal punto di vista psichico, per assumere la rilevanza di un fatto costituente reato.
a) Il primo requisito di ordine psichico, che la legge richiede per il configurarsi di un fatto penalmente
rilevante è costituito dalla c.d. “coscienza e volontà” dell’azione od omissione. L’art. 42 co. 1 c.p., infatti,
dispone: “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non
l’ha commessa con coscienza e volontà”.
In altre parole, è suscettibile di una valutazione in termini di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza soltanto
la condotta (oggettivamente tipica) che sia sorretta dalla volontà e assistita dalla consapevolezza del proprio
operare nel mondo esterno. Non sono, dunque, azione nel senso del diritto penale, i movimenti che si
compiono durante il sonno o le parole pronunciate sotto l’effetto di un’anestesia, poiché il soggetto non è in
grado di controllare i propri impulsi fisici e in quanto tale non può essere sottoposto a pena o a misura di
sicurezza (ma ad esempio a sanzione civile o a risarcimento del danno). Diverso è il caso del soggetto non
imputabile, il quale è in grado dio dominare i propri impulsi, ma non è in grado di comprendere il significato
normativo delle proprie azioni.
La possibilità di un controllo psichico sui propri impulsi manca in due ipotesi normativamente previste
dagli artt. 45 e 46 c.p. che disciplinano rispettivamente la forza maggiore e il costringimento fisico. In
entrambi i casi manca la coscienza e volontà, quindi, la possibilità di imputazione soggettiva.
2) Altri requisiti di ordine psichico, che la legge richiede per il configurarsi di un fatto penalmente rilevante
sono il dolo, la colpa e la preterintenzione. L’art. 42 co. 2 c.p. stabilisce: “Nessuno può essere punito per un
fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto
preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”. L’art. 42 co. 4 c.p. dispone, invece, che,
nelle contravvenzioni, “ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa
dolosa o colposa”.
Tale disposizione definisce, cioè, i criteri per la imputazione soggettiva del fatto tipico.
Limitatamente ai delitti, l’art. 42 c.p. enuncia il principio per cui, in mancanza di diverse statuizioni
normative, il fatto tipico si intende sempre come doloso.
Per il configurarsi di un delitto colposo o preterintenzionale vale, invece, la regola opposta: è, cioè,
richiesta una espressa previsione normativa. Per le contravvenzioni, infine, vale la regola dell’indifferenza
dell’atteggiamento psicologico, con cui il fatto viene commesso: dolo e colpa, cioè, sono ad egual titolo, e senza
bisogno di espressa previsione, validi criteri di imputazione soggettiva per questa specie di illecito.
Infine, l’art. 42 co. 3 c.p., poiché dispone che la legge “determina i casi nei quali l’evento è posto
altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione”, introduce nel sistema
anche la possibilità che si prescinda da un criterio di imputazione soggettiva del fatto, attribuendolo a un
soggetto sulla base dei soli criteri della imputazione oggettiva; in particolare sulla base del rapporto di
causalità fra condotta ed evento (c.d. responsabilità obiettiva).
L’art. 43 c.p. fornisce una nozione generale del dolo, della colpa e della preterintenzione, alla stregua
dell’ordinamento vigente, stabilendo che “Il delitto: è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso
o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto,
è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; è preterintenzionale,
o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grande di
quello voluto dall’agente; è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline. La distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo
per i delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge penale faccia dipendere
da tale distinzione un qualsiasi effetto giuridico”.
L’esistenza di un nesso psichico tra l’autore e il suo fatto, nella forma del dolo o della colpa, costituisce una
premessa essenziale del giudizio di colpevolezza. Dolo e colpa vengono, dunque, ad assumere due funzioni.
All’interno del fatto, dolo e colpa assumono un ruolo costitutivo della conformità al tipo; rispetto alla
colpevolezza, invece, dolo e colpa svolgono la funzione di delimitare l’oggetto del rimprovero: questo, infatti,
può dirigersi solo nei riguardi di chi ha realizzato dolosamente o colposamente un fatto penalmente illecito. La
riferibilità psicologica del fatto all’autore, nella forma del dolo o della colpa, è, dunque, un requisito essenziale
per il configurarsi della colpevolezza, ma non per questo fa parte del suo contenuto. L’accertamento del dolo o
della colpa dell’autore costituisce una condizione imprescindibile della sua “rimproverabilità”, ma dolo e colpa
non costituiscono il “criterio” di rimprovero, bensì soltanto un suo necessario presupposto.
Per quanto attiene al dolo, la sua rilevanza per il giudizio di colpevolezza non richiede alcun ulteriore
momento valutativo. È infatti del tutto sufficiente che la sussistenza del dolo sia stata accertata in sede di fatto
tipico; l’eventuale esclusione della responsabilità dell’autore potrà qui dipendere solo dall’assenza di altri
requisiti della colpevolezza (imputabilità, possibilità di conoscere la norma violata, etc.).
Diversamente stanno le cose per ciò che riguarda l’illecito colposo che è contrassegnato già nella sua
tipicità dal dato dell’inosservanza della regola di diligenza obiettiva, mentre al piano della colpevolezza
appartiene solo il giudizio sulla concreta esigibilità della diligenza richiesta, da parte del singolo autore.
Ed invero, l’affermazione di una responsabilità colposa richiede una doppia valutazione della colpa:
nell’ambito della tipicità la colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza obbligatoria
per chiunque nella situazione data (cd misura oggettiva della colpa); nell’ambito della colpevolezza, invece, la
colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza che può essere richiesta e quindi
“rimproverata” al singolo autore (misura soggettiva della colpa).
In altre parole, una volta stabilito quale condotta era oggettivamente dovuta, è altresì necessario stabilire
anche se quel determinato autore, alla stregua delle sue personali capacità ed attitudini, era in grado di tenere
la condotta richiesta.

LE TIPOLOGIE DEL REATO


Attraverso la combinazione dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo della fattispecie si perviene
tradizionalmente ad una tripartizione dei reati che, a sua volta, legittima una costruzione parzialmente
separata dei diversi tipi di illecito.
Sul piano della fattispecie oggettiva, assume rilevanza la distinzione fra condotta attiva e condotta
omissiva; sul piano della fattispecie soggettiva, la differenza è data dai criteri dell’imputazione soggettiva, che
vengono di volta in volta in questione.
Si individuano, così, tre categorie fondamentali dell’illecito penale: il reato doloso di azione (o reato
commissivo doloso); il reato colposo; il reato doloso omissivo.
a) Con l’incriminazione del reato doloso di azione, la legge vieta la realizzazione finalistica, con
determinate modalità, di eventi socialmente indesiderati, corrispondenti alla lesione di beni giuridici
penalmente tutelati: la legge vieta, cioè, di volere, nel senso dell’art. 43 c.p., determinate condotte, in quanto
antecedenti causali di determinate lesioni di beni.
b) Nell’incriminazione del reato colposo la legge punisce, invece, i comportamenti che, per definizione,
sono indirizzati alla realizzazione di finalità penalmente indifferenti, quando da essi scaturiscono eventi
socialmente indesiderati (lesione di beni), rispetto ai quali, l’imprudenza, la negligenza, l’imperizia, etc. si
presentano come antecedenti causali. Si può dire, dunque, che dietro ogni norma incriminatrice che prevede
una ipotesi di reato colposo, si celi una norma generale che comanda di tenere costantemente sotto controllo i
decorsi causali connessi alla propria condotta, così da evitare che ne derivino eventi socialmente indesiderati.
La legge penale, in altre parole, incrimina l’intrapresa di azione, indirizzata ad un fine lecito, quando l’agente
abbia tuttavia trascurato di attivarsi nei modi opportuni, per scongiurare l’ingresso di conseguenze dannose
per i beni presidiati.
c) La peculiarità delle norme penali che prevedono reati omissivi consiste nel fatto che esse contengono,
sia pure per implicito, non già un divieto, ma un comando. Esse comandano, infatti, di intraprendere
determinate azioni, in quanto idonee a realizzare situazioni socialmente positive o ad evitare il realizzarsi di
situazioni socialmente indesiderate: ciò che viene penalizzato, per converso, è il mancato attivarsi del soggetto,
nel senso richiesto dall’ordinamento. La fattispecie oggettiva nell’omissione penalmente rilevante, però, non
può mai essere configurata come mero “non agire”, bensì sempre e soltanto come mancato compimento di una
determinata azione: quella, appunto, pretesa dall’ordinamento. Il dolo nei reati omissivi, dal canto suo,
corrisponde all’omissione cosciente e volontaria dell’azione che l’ordinamento si attende, con la
consapevolezza di poter agire nel senso richiesto.
Le differenze e le particolarità strutturali dei tre tipi fondamentali dell’illecito penale, così sommariamente
delineati, suggeriscono per ciascuno di essi una costruzione parzialmente separata del momento della tipicità.

DELITTI E CONTRAVVENZIONI
L’art. 39 c.p. vigente distingue i reati in delitti e contravvenzioni. Sono “delitti” i fatti costituenti reato, per i
quali la legge stabilisce le pene dell’ergastolo, della reclusione e della multa; sono “contravvenzioni” quei fatti
costituenti reato, per i quali è dalla legge comminata la pena dell’arresto ovvero quella dell’ammenda (art. 17
c.p.). Sia i delitti che le contravvenzioni possono configurarsi come fatti dolosi o come fatti colposi.

REATO DOLOSO DI AZIONE

La definizione legislativa del dolo è contenuta nell’art. 43 c.p., a norma del quale: “Il delitto: è doloso, o
secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da
cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione od omissione”.
Nella struttura del dolo si individuano, dunque, due momenti costitutivi: un momento intellettivo
dato dalla rappresentazione anticipata (previsione) delle possibili conseguenze del proprio agire; e un
momento volitivo corrispondente alla volontà del soggetto di agire per la realizzazione del fatto tipico.
La fattispecie oggettiva del reato doloso di azione è, quindi, costituita da un comportamento attivo, cioè
da un movimento corporeo tangibile, che si manifesta nel mondo esterno, sorretta non solo dalla “coscienza e
volontà”, ma anche da una volontà diretta alla realizzazione di un reato.
La dottrina ha individuato varie forme di dolo.
● La prima importante distinzione è quella fra dolo diretto di primo grado, dolo diretto di secondo
grado e dolo eventuale.
Si ha dolo diretto di primo grado quando l’evento dannoso o pericoloso, preveduto e voluto dall’agente
concreta la finalità per cui egli agisce o costituisce il mezzo necessario per raggiungere quella finalità o
scaturisce, come conseguenza che l’autore ritiene non evitabile, dall’uso dei mezzi prescelti per la realizzazione
dello scopo. Si ha dolo diretto di omicidio, ad esempio, non solo quando si agisce allo scopo di uccidere
qualcuno, ma anche quando l’uccisione di un uomo è il mezzo prescelto per realizzare un evento di natura
diversa, per esempio, uccidere una guardia allo scopo di rapinare una banca.
Si ha dolo diretto di secondo grado quando l’agente si rappresenta l’evento come un effetto secondario
altamente probabile del proprio agire, anche se esso non coincide affatto con lo scopo della sua azione e
non è da lui “desiderato”; giudicando come assai probabile il verificarsi dell’evento “collaterale”, senza per
questo astenersi dall’agire, si può dire che egli l’abbia voluto al pari dell’evento principale. Chi incendia uno
stabile allo scopo di ottenere i soldi dall’assicurazione, pur sapendo che con ogni probabilità la morte di un
uomo che si trova all’interno dello stabile, avrà agito dolosamente, non solo con riguardo alla fattispecie
dell’incendio, ma anche rispetto alla fattispecie dell’omicidio. Gli effetti secondari dell’azione, che l’agente si
rappresenta come conseguenza di essa, appartengono infatti alla sua volontà finalistica di azione, anche se per
lui non rivestono alcun interesse.
Una forma particolare di dolo diretto di secondo grado è il c.d. dolo alternativo, che, secondo l’accezione più
diffusa, ricorrerebbe in tutte le ipotesi in cui l’agente vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi
causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (questa figura di dolo è compatibile con il
tentativo perché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve prevederli
entrambi). Ad esempio Tizio colpisce Caio con un coltello, volendone indifferentemente la morte o il
ferimento.
Si ha dolo indiretto o eventuale, quando l’agente si rappresenta l’evento come possibile conseguenza
del proprio agire, accettando, dunque l’eventualità del suo verificarsi. In altre parole, l'evento finale è preso in
considerazione solo come eventualità, ma comunque non è voluto direttamente. Il soggetto, cioè, accetta il
rischio che l'evento si verifichi, e quindi agisce anche a costo di cagionarlo, pur non avendolo preso di mira. Ad
esempio: Tizio, per allontanare dei ragazzi che fanno una gran confusione, tira una bottiglia dal balcone della
sua casa e ferisce un ragazzo; ei rapinatori fuggono a gran velocità su un’auto, sapendo che potrebbero
investire qualcuno, ma accettando le conseguenze del loro agire.
Per altro, la previsione dell’evento semplicemente come possibile, integra una ipotesi di dolo diretto (di
primo grado), tutte le volte che l’agente si è impegnato proprio in vista di quel risultato, anche se lo riteneva
poco probabile. Chi spara contro taluno allo scopo di ucciderlo è in dolo diretto anche se ha agito con la
consapevolezza che, a causa della notevole distanza, il verificarsi dell’evento era assai poco verosimile. Sono
ugualmente da qualificarsi come ipotesi di dolo diretto (di secondo grado) quelle in cui l’agente si rappresenta
come altamente probabile l’evento, anche se esso non coincide affatto con lo scopo della sua azione e non è da
lui “desiderato”. Ciò indica che i confini tra dolo diretto e dolo eventuale sono contrassegnati dal labile confine
tra “probabilità e possibilità”.
Rispetto alla definizione di dolo eventuale sono state elaborate tre teorie che fanno leva sul momento
volitivo (“teorie della volontà”) o su quello intellettivo (“teorie della rappresentazione”).
Ponendosi dal punto di vista della rappresentazione, si fanno rientrare nel dolo tutte quelle conseguenze
dell’azione che il soggetto si è rappresentate con alto grado di verosimiglianza. Tuttavia, si è osservato che
accentuando eccessivamente la portata dell’elemento intellettivo del dolo a scapito di quello volitivo, si rischia
di allargare eccessivamente l’ambito del dolo eventuale.
Alla luce di questa obiezione, si spiega la diffusa adesione alla c.d. teoria del consenso, secondo la quale
sono imputabili a titolo di dolo eventuale quegli eventi che l’agente abbia interiormente approvato, abbia, cioè,
“acconsentito” alla sua realizzazione. L’utilizzazione di tale criterio può tuttavia condurre ad una eccessiva
restrizione dell’ambito del dolo indiretto, poiché potrebbe indurre ad escluderne i casi nei quali il soggetto, pur
non “auspicando” l’evento, tuttavia “si rassegna” al suo verificarsi.
La teoria a lungo prevalente in dottrina è quella dell’accettazione del rischio che identifica il dolo
eventuale con l’atteggiamento psicologico di chi, pur ritenendo in concreto la realizzazione dell’evento una
possibile conseguenza della propria azione, tuttavia non se ne astiene, accettando dunque consapevolmente il
rischio del suo verificarsi.
Con riferimento al dolo eventuale si sono poste una serie di questioni.
1)Una prima questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato. La dottrina
dominante propende per una soluzione negativa data la ritenuta incompatibilità tra l'azione diretta in modo
non equivoco a delinquere (che presuppone il dolo diretto) e l’atteggiamento psicologico di chi, perseguendo
un fine diverso, si rappresenti soltanto come possibile il verificarsi di un evento secondario e, ciononostante,
agisca accettando il rischio di cagionarla.
Ad esempio: Tizio dà fuoco ad una palazzina prevedendo e accettando il rischio che vi dorma qualcuno e che muoia;
può rispondere - oltre che di incendio - di tentato omicidio con dolo eventuale?
L’opposta tesi minoritaria, condivisa da Fiore, ritiene legittima l’imputazione di atti di tentativo anche a
titolo di dolo eventuale. Non si comprende, infatti, perché ciò che, al momento dell’azione, sarebbe sufficiente
a costituire l’agente in dolo rispetto al delitto consumato, dovrebbe, ex post, ritenersi insufficiente se l’evento,
poi, non si verifica per ragioni indipendenti dalla volontà dell’agente. Né si comprendono appieno le
motivazioni per cui gli elementi idonei ad essere apprezzati come rappresentazione e volontà del fatto
nell’ambito della nozione generale, del dolo, non lo sarebbero più quando si tratti di delitto tentato.
2)Una seconda questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e reato omissivo. La
giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che lo schema del dolo eventuale sia applicabile ai reati omissivi
impropri. In particolare, si realizza un reato omissivo con dolo eventuale quando il soggetto omittente, pur
essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione dell’evento, si è sottratto consapevolmente
all’adempimento dei propri doveri di controllo, accettando il rischio che l’evento si verificasse.
Ciò non di meno, parte della dottrina continua a ritenere incompatibile la figura del dolo eventuale con il
reato omissivo improprio, in quanto l’evento criminoso non sarebbe una conseguenza accessoria di un
risultato positivamente perseguito dal soggetto, bensì di una condotta omissiva, cioè del mancato compimento
dell’azione doverosa, che è stata tenuta senza un orientamento finalisticamente volontario al soggetto.
Es. Tizio che, vedendo Caio in pericolo di vita, non gli rechi soccorso per paura o per altro motivo diverso
dall’intenzione di lasciarlo morire. Rappresentandosi Tizio la probabilità o addirittura la certezza della morte
di Caio, si dubita che l’evento lesivo possa considerarsi volontaristicamente “accettato” da Tizio in assenza di
un positivo atto decisionale di volontà capace di condizionare il decorso causale verso quell’evento.
Il discorso sarebbe diverso nell’ipotesi in cui l’evento lesivo non intenzionale fosse però accessorio ad altro
evento intenzionalmente perseguito con la condotta omissiva.
Es. Tizio non presta soccorso a Caio per liberarsi di lui pur rappresentandosi l’eventualità che anche Mevio
venga travolto dalla caduta di Caio => in tale caso l’accessorietà che lega l’evento ulteriore a quello
intenzionale fa sì che rispetto al 1° sia configurabile un dolo diretto o eventuale.
3)Una terza questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e colpa cosciente. Sia nel dolo
eventuale che nella colpa cosciente il fatto dannoso non può dirsi voluto, perchè il soggetto, pur
rappresentandosi l’evento dannoso o pericoloso come possibile conseguenza del proprio agire, non è da lui
voluto direttamente (non è il fine principale). Tuttavia, mentre nel dolo eventuale l’agente accetta comunque il
rischio del verificarsi dell’evento; nella colpa cosciente l’autore ritiene possibile il verificarsi dell’evento, ma
non lo accetta, nel senso che cerca comunque di evitarlo (confida che esso non si verificherà).
La struttura psicologica della colpa cosciente è, dunque, contrassegnata da un elemento negativo, costituito
dalla non volizione dell’evento, e da un elemento positivo, costituito dalla rappresentazione dell’evento
medesimo, come possibile conseguenza dell’azione od omissione, accoppiata alla convinzione che esso non si
verificherà.
Sull’argomento sono intervenute le SS.UU Cass. (sent. 38343/2014), con la nota sentenza Tyssenkrupp, nella quale,
in primo luogo, si è proceduto ad una decisa valorizzazione dell’elemento volitivo, richiedendo che “nella scelta di
azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di scorgervi un
atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà”. Ma soprattutto l’accento metodologico è stato spostato sul
piano dell’accertamento probatorio, attraverso la elaborazione di una serie complessa ed integrata di indicatori
dell’atteggiamento doloso dell’agente, da utilizzare al fine di riconoscere nel caso concreto quell’atteggiamento di
adesione all’evento “assimilabile alla volontà” e non invece una decisione, che pur nella consapevolezza di una concreta
connessione causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento, può al contrario dirsi dettata da “trascuratezza,
imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo” e dunque da ricondurre alla colpa cosciente.
● Altra importante distinzione è quella fra dolo generico e dolo specifico. Il dolo “generico”
corrisponde alla coscienza e volontà di realizzare tutti gli estremi di un fatto costituente reato.
Si parla, invece, di dolo “specifico”, quando, per integrare il reato, il legislatore prevede oltre alla volontà
dell'evento, un fine ulteriore, anche se poi il fine non si realizza. È necessario, quindi, riuscire a dimostrare che
il soggetto abbia agito per quel determinato fine, indipendentemente dalla circostanza che il fine sia stato o
meno raggiunto. Ad esempio nel furto non basta volersi appropriare della cosa d'altri; occorre anche il fine di
trarne profitto. Non importa poi se il fine si realizza, purché la volontà di trarne profitto esistesse al momento
del furto.
● In relazione all’oggetto del dolo si suole distinguere tra dolo di danno e dolo di pericolo, a seconda che
il dolo si concreti nella volontà di cagionare la lesione del bene ovvero la sua mera esposizione a pericolo. La
contrapposizione fra dolo di danno e dolo di pericolo costituisce, in sostanza, un riflesso della differente
struttura delle corrispondenti fattispecie oggettive, dal punto di vista delle tipologie dell’offesa. Si deve però
sottolineare che una fattispecie di danno può ben essere realizzata con dolo di pericolo, e viceversa.
● Con riguardo al momento in cui il dolo si manifesta, si distingue fra dolo iniziale, concomitante e
successivo, a seconda che il dolo: sia presente solo nel momento iniziale del processo causativo, che tuttavia
si sviluppa in seguito, fino all’evento, in assenza di dolo (es. tizio spiana un’arma contro Caio con l’intenzione
di uccidere, ma desista poi dallo sparargli); lo accompagni durante tutto il suo svolgersi; ovvero sorga solo
dopo che l’agente ha realizzato, senza dolo, la fattispecie oggettiva del reato (es. medico che avendo
somministrato accidentalmente ad un paziente una sostanza letale in luogo del medicinale prescritto,
avvedutosi di ciò, decide tuttavia di lasciar morire il paziente).
È evidente che il dolo c.d. iniziale e il dolo c.d. successivo non costituiscono in alcun modo ipotesi di dolo
penalmente rilevante: in nessuna delle due ipotesi, infatti, l’agente ha consapevolmente messo in moto le
energie causali idonee a cagionare l’evento.
● In relazione all'intensità, si distingue fra dolo d’impeto e dolo di proposito. Il dolo è d’impeto quando
la decisione criminosa sorge all’improvviso e si traduce immediatamente nell’azione esecutiva del reato (es.
Tizio coglie sul fatto l'assassino della propria moglie e lo uccide); è di proposito, per converso, quando tra la
risoluzione e l’esecuzione intercorre un certo lasso di tempo (es. Tizio uccide l'assassino dopo averlo rincorso a
lungo). Nei casi in cui l’intervallo temporale è utilizzato per la preordinazione dei mezzi e della modalità
dell’azione criminosa si ha dolo di premeditazione (es. omicidio su commissione).

L’OGGETTO DEL DOLO


Alla stregua dell’art. 43 c.p., il dolo ha come suo caratteristico oggetto l’evento dannoso o pericoloso, da cui
la legge fa dipendere l’esistenza del reato. Ma, in realtà, non v’è dubbio che in quanto unità di
rappresentazione e volizione il dolo abbia come oggetto non solo l’evento ma altresì la condotta
stessa del soggetto e l’intero contesto in cui essa si svolge.
Questo principio è anche normativamente fondato: infatti, l’art. 47 co. 1 c.p. dispone: “L’errore sul fatto
che costituisce reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta di un errore determinato da
colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Versare in errore “sul fatto che costituisce il reato” significa percepire in modo falso, o erroneo, un dato
della realtà corrispondente a un elemento essenziale della fattispecie oggettiva del reato.
Esempio: tizio in un locale prende il cappotto di un altro scambiandolo per il proprio.
In questi casi, l’agente realizza la fattispecie oggettiva. Ciò che manca è la fattispecie soggettiva di simili
reati, poiché manca la rappresentazione, da parte dell’agente, di uno o più elementi essenziali della fattispecie
oggettiva, viene quindi meno il momento intellettivo del dolo.
Ed invero, dolo ed errore sul fatto si condizionano a vicenda, in una logica di reciproca esclusione: dove v’è
errore sul fatto non può esservi dolo, perché l’erronea rappresentazione della realtà inibisce anche una
volizione rilevante per l’elemento psicologico del reato. Riprendendo l’esempio fatto in precedenza, se Tizio
non si rende conto di prendere il cappotto di un altro, non può nemmeno averlo voluto.
Si può dire quindi che l’art. 47 co. 1 c.p. concorra, a contrario, in modo decisivo, alla determinazione
dell’oggetto del dolo, identificandolo appunto nel “fatto che costituisce il reato”, vale a dire nell’intero fatto
tipico. Il dolo, in altre parole, implica la conoscenza di tutti gli elementi che sono necessari e
sufficienti a realizzare la fattispecie obiettiva di un reato.
a) L’agire doloso implica, dunque, in primo luogo, la conoscenza dei presupposti, la cui esistenza è
necessaria per il realizzarsi del fatto tipico.
L’agente deve sapere, ad esempio, che sta sparando contro un essere umano, che la cosa sottratta è altrui,
etc., ma deve, parimenti, essere consapevole dell’innocenza dell’incolpato nel delitto di calunnia (art. 368 c.p.),
dell’età del soggetto nella sottrazione consensuale di minore (art. 573 c.p.), della provenienza illecita delle cose
acquisite nella ricettazione (art. 648 c.p.), e così via.
Tra i presupposti del fatto, naturalmente, rientrano anche le qualifiche soggettive dell’autore
medesimo, da cui eventualmente dipenda l’esistenza del fatto tipico, come nei c.d. reati propri. L’ignoranza
della qualifica rivestita impedisce infatti all’agente anche di cogliere il carattere tipico del suo agire. Si deve
però specificare che oggetto del dolo non è la qualifica soggettiva nella sua configurazione giuridica, bensì il
substrato di fatto che ne determina la rilevanza: l’imprenditore commerciale in dissesto che occulti, in danno
dei creditori, parte dei suoi beni, risponderà di bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall.) in quanto consapevole
della sua attività dal punto di vista sostanziale, anche se per avventura ignori che la legge penale lo qualifica
“imprenditore”.
Ciò vale pure per quei presupposti del fatto, che rientrano nella categoria degli elementi normativi
della fattispecie: l’altruità della cosa nel furto, la perdurante validità del precedente matrimonio nella
bigamia (art. 556 c.p.), etc. lo stesso dicasi per gli elementi normativi di carattere extragiuridico, o misto: il
carattere “osceno” dell’atto (artt. 527, 529 c.p.), l’assenza di una “giusta causa” per la rivelazione di un segreto
(art. 621, 622 c.p.), etc.
b) Analogo trattamento, in quanto oggetto del dolo, deve riservarsi alle c.d. ipotesi di illiceità o
antigiuridicità speciale. Sono questi i casi in cui la norma richiede, per la punibilità del fatto, che esso sia
realizzato “abusivamente”, “indebitamente”, “illegittimamente”, etc. Il dolo del reato si configura solo se
l’agente si rende conto del carattere indebito, abusivo, etc. della propria condotta.
c) Nei reati a forma vincolata oggetto del dolo è, naturalmente, la condotta stessa del soggetto, nelle sue
specifiche modalità. Nei reati c.d. a forma libera è invece sufficiente che il soggetto si renda conto
dell’efficacia causale della propria azione, rispetto alla realizzazione dell’evento.
d) Quanto al nesso causale, anch’esso deve essere percepito, nell’essenziale, dall’agente; non è però
necessario che egli conosca, in dettagli, i processi causativi dell’evento. Anche un decorso causale
completamente differente da quello programmato resta nell’ambito del dolo iniziale, quando può farsi
rientrare nella volontà di azione del soggetto.

DOLO E COSCIENZA DELL’OFFESA


Nei reati con evento materiale, l’agente deve prevedere e volere, come conseguenza della sua azione,
l’evento che appartiene alla fattispecie oggettiva del reato e che concreta la lesione del bene protetto.
Ma non vi è dubbio che, anche nei reati senza evento materiale l’agente debba rappresentarsi (e quindi
volere), come conseguenza della sua azione, la lesione di beni che contrassegna la fattispecie tipica.
Non si tratta di una generica consapevolezza del c.d. carattere antisociale del fatto, quanto piuttosto la
consapevolezza che il fatto realizzato presenta un contenuto di offesa all’interesse tutelato dalla norma.
L’assunto che tra gli attribuiti del dolo debba farsi rientrare la coscienza dell’offesa ha sempre trovato
resistenza nella dottrina italiana, principalmente in base al rilievo che in tal modo si rischierebbe di far
rientrare nel dolo la consapevolezza della contrarietà del fatto a un divieto penalmente
sanzionato (recitus: consapevolezza dell’antigiuridicità) che è, invece, di regola, irrilevante.
L’obiezione non è tuttavia da condividere. La coscienza dell’offesa, infatti, non può in nessun caso
essere confusa con la coscienza dell’antigiuridicità penale, poiché essa non ha niente a che vedere
con la conoscenza o meno del divieto penalmente sanzionato, ma corrisponde, molto più semplicemente, alla
consapevolezza della portata offensiva dell’evento, rispetto all’interesse (o agli interessi) tutelati.
La tesi che il dolo comprenda la coscienza dell’offesa trova, fra l’altro, conferma nell’art. 43 co. 1
c.p., che indica come oggetto del dolo non già semplicemente l’evento, bensì proprio “l’evento dannoso o
pericoloso […] da cui la legge fa dipendere l’esistenza del reato”; quindi, l’evento in senso giuridico.
La mancata coscienza dell’offesa può, dunque, essere ricondotta non ai casi dell’efficacia scusante
dell’errore sulla legge penale ex art. 5 c.p., bensì ai casi di errore rilevante ex art. 47 c.p., in cui l’errore
dell’agente non cade propriamente né sui presupposti del fatto, né sulle modalità della condotta, né sul
rapporto di causalità, ma concerne appunto il contenuto lesivo del fatto. Si pensi a chi indirizzi a un terzo, in
pubblico, epiteti di cui conosce benissimo l’innocuo significato lessicale, ignorando però che, secondo l’uso
locale, costituiscono gravi ingiurie. In questo caso, il fatto costituisce oggettivamente lesivo dell’altrui
reputazione, ma nell’agente manca il dolo della diffamazione, proprio perché è assente la consapevolezza del
significato di offesa che la condotta assume rispetto al bene tutelato.
L’ACCERTAMENTO DEL DOLO
L’esistenza del dolo, trattandosi di un processo psicologico interiore, non può essere direttamente provata;
può solo essere ragionevolmente desunta da circostanze oggettive. La volontà dolosa di azione, infatti, si
“obiettivizza”, per così dire, nelle modalità concrete della condotta.
L’accertamento del dolo si fonda dunque interamente sulla utilizzazione di “regole di esperienza”, che
tuttavia circostanze del singolo caso possono far disattendere.
In linea di massima, si può dire che la validità della regola di esperienza può essere messa in dubbio dalla
prova di circostanze le quali rendono legittimo ritenere che, nel caso concreto, i fatti si sono svolti in maniera
difforme da quanto la regola di esperienza suggerirebbe. In tutti i casi, però, il dolo deve costituire oggetto di
specifico e reale accertamento, dovendosi considerare inammissibile il ricorso a qualsiasi presunzione
dell’elemento psicologico. L’idea dei c.d. dolus in re ipsa – categoria di creazione giurisprudenziale che tende a
legittimare la presunzione del dolo nella commissione del fatto – deve essere pertanto respinta in linea di
principio; anche se può essere comprensibile che modalità di azione del tutto univoche rendano superflua una
specifica dimostrazione dell’esistenza del dolo. Ma si badi: ciò può riguardare solo casi concreti, nei quali il
processo di obiettivizzazione del dolo è particolarmente marcato e univoco nel suo significato; non può,
invece, costituire il fondamento per una classificazione dei reati in relazione a un preteso carattere
“soggettivamente pregnante” della fattispecie; tale da consentire, in ogni caso, di desumere l’esistenza del dolo
dalla esistenza della fattispecie oggettiva.
L’ILLECITO OMISSIVO DOLOSO

Il reato omissivo consiste nel mancato compimento di un’azione richiesta dall’ordinamento per una finalità
di tutela di beni giuridici di particolare rilevanza (all’interno della fattispecie del reato omissivo distinguiamo,
quindi, un disvalore d’evento, quale lesione o messa in pericolo di un bene giuridico tutelato da una norma
incriminatrice, e un disvalore d’azione, quale violazione di un obbligo di agire).
Quanto al fondamento politico-criminale dell’incriminazione dei reati omissivi dolosi, esso è del tutto analogo a
quello che caratterizza il corrispondente reato commissivo: nell’omettere deliberatamente la condotta doverosa l’autore
prende consapevolmente posizione contro i valori tutelati dall’ordinamento, scegliendo di non compiere l’azione, che
l’ordinamento prescriveva appunto in quanto mezzo per scongiurare l’instaurarsi di situazioni socialmente
(giuridicamente) indesiderate.
I reati omissivi si distinguono in reati omissivi propri (o “di pura omissione”) o impropri (o
“commessi mediante omissione”).
a) Nel reato omissivo proprio la semplice omissione del soggetto è sufficiente per ritenere quest’ultimo
penalmente responsabile di quanto accaduto, senza che sia necessario il verificarsi di un evento materiale
(affinchè sussista il reato è sufficiente che, in presenza di determinati presupposti oggettivi e/o soggettivi,
l’autore obbligato ad agire si astenga dal compiere l’azione che era tenuto a compiere). Esempi di reato
omissivo proprio sono l’omissione di soccorso e l’omessa denuncia di un reato.
Dal punto di vista della struttura del fatto, i reati omissivi propri sono reati c.d. di pura condotta; dal punto di vista
dell’offesa, sono inquadrati nella categoria dei reati di pericolo presunto.
b) Nel reato omissivo improprio, invece, non basta la semplice omissione, ma è altresì richiesto il
verificarsi di un evento causalmente collegabile alla condotta dell’agente. Esempio di reato omissivo improprio
è la madre che non allattando il figlio ne provochi la morte.
Vi sono casi in cui è la stessa norma incriminatrice a prevedere, accanto all’ipotesi dell’azione, quella
dell’omissione, come modalità di realizzazione del fatto tipico.
Al di fuori dei casi di espressa previsione legislativa, la configurabilità di reati omissivi impropri resta
affidata, nel nostro ordinamento, ad una clausola di equivalenza contemplata nell’art. 40 co. 2 c.p., a norma
del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Anche nel reato omissivo improprio, come in quello commissivo, occorrono, quindi, una condotta (benché
omissiva), un evento, nonché un nesso di causalità tra la condotta e l’evento.
Tuttavia, non essendo l’omissione un dato della realtà empirica, ma un puro concetto normativo, il giudizio
sul valore “causale” della condotta omissiva non può essere identico a quello che caratterizza la verifica del
nesso causale nei reati di azione.
Del resto, l’art. 40 cpv con lo stabilire l’equivalenza tra “il cagionare e il non impedire”, postula
espressamente un diverso criterio di imputazione oggettiva dell’evento: evento che l’omissione non può aver
propriamente cagionato, trattandosi per definizione di un processo causativo, su cui l’autore si è astenuto
dall’intervenire (in linea di principio, affianca dunque ai criteri di imputazione oggettiva che si fondano sul
rapporto di causalità, un ulteriore criterio normativo di imputazione, fondato “per equivalenza” sull’obbligo
giuridico di impedire l’evento).
Ciò non significa, però, che non si possa ricondurre sotto leggi scientifiche l’accertamento dei presupposti
per dichiarare l’equivalenza tra l’omissione e la condotta attiva.
Il punto di riferimento per il giudizio di equivalenza causale è costituito dall’azione dovuta (che il
soggetto ha omesso). Più precisamente, si tratta di un giudizio ipotetico, di carattere meramente
probabilistico, che mira ad accertare, secondo la migliore scienza ed esperienza, se l’attuazione della condotta
dovuta avrebbe impedito il verificarsi dell’evento lesivo.
Anche nel reato omissivo si usa dunque una formula molto simile a quella della condicio sine qua non,
in virtù della quale l'omissione è causa dell'evento quando non può essere mentalmente sostituita dall'azione
doverosa, senza che l'evento venga meno. Si pensi, ad esempio, al caso del medico che non abbia
somministrato le cure ad un paziente gravemente malato, poi deceduto. Ora, se si accerta che la
somministrazione delle cure avrebbe impedito la morte del paziente, il medico dovrà ritenersi responsabile;
viceversa, se si accerta che nonostante la somministrazione delle cure il paziente sarebbe comunque deceduto,
il medico non dovrà ritenersi responsabile.
Nella maggior parte dei casi, questa formula è corretta con quella della causalità scientifica, nel senso che il
giudizio prognostico deve essere effettuato alla luce della migliore scienza ed esperienza, secondo le leggi
scientifiche o statistiche. In relazione al rapporto tra legge scientifica e accertamento del nesso causale si è
registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti. Il contrasto concerneva quella percentuale di validità
statistica della legge che è necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale. Il problema non
si poneva in relazione alle leggi c.d. universali in quanto sono in grado di ricollegare un evento ad un
determinato antecedente in termini di certezza, non essendo mai state smentite. Il problema si poneva,
viceversa, per tutte quelle leggi scientifiche probabilistiche che funzionano soltanto in una data percentuale di
casi c.d. leggi statistiche. Ebbene, la giurisprudenza si era divisa proprio su questa percentuale di probabilità
statistica. Un primo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente se vi
erano apprezzabili probabilità che l’evento fosse conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento aveva
affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente solo se la legge scientifica aveva un coefficiente
percentuale pari alla certezza (100%).
Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle S.U. della Corte di Cassazione nel 2002 con la nota
sentenza Franzese (sent. 30328/2002). Le S.U., partendo dal presupposto che il rapporto di causalità è un
elemento essenziale della fattispecie oggettiva del reato, ritengono che il giudice debba ritenere provato oltre
ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto, sottoposto al suo esame, esista un rapporto di causalità
tra condotta ed evento. Ciò significa che in merito all’esistenza del rapporto di causalità è sempre necessario
un giudizio di alta probabilità logica. Tale giudizio non va, però, confuso con l’astratta percentuale di validità
statistica della legge scientifica perché è formulato tenuto conto delle caratteristiche del caso concreto. Le S.U.
con la sent. Franzese hanno prospettato quello che è stato definito come un “modello bifasico di accertamento
della causalità”. Nella prima fase (ex ante) si ricerca in astratto la legge scientifica applicabile al caso. Una
volta identificata la legge che spiega il fenomeno, il giudice non deve accertare l’esistenza del rapporto di
causalità in base alla percentuale di validità statistica della legge, considerata in astratto, ma deve controllare
(seconda fase ex post) se il fenomeno verificatosi in concreto possa essere spiegato alla luce di quella legge.
Occorre, cioè, poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato.
In conclusione, possiamo affermare che le leggi statistiche con frequenza medio-bassa possono essere
utilizzate ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, se l’accertamento processuale è stato in grado di
escludere la presenza nel caso concreto di altri fattori causali che possano aver determinato l’evento.
Una ipotesi supportata da una legge di copertura dotata di un elevato grado di probabilità statistica potrebbe infatti
non essere comunque idonea a spiegare l’eziologia dello specifico evento se si dimostra che nel caso concreto l’evento è
stato cagionato da una diversa condizione, la cui sussistenza è stata processualmente accettata; reciprocamente, una
ipotesi fondata su regole di ricorrenza statistica percentualmente medio-basse potrebbe però in concreto risultare
suffragata dall’accertata assenza nel fatto storico di altre possibili cause dotate di un maggior grado di probabilità.
Da quanto detto si deduce che i reati omissivi impropri pongono gravi problemi di determinatezza. Ecco
perché Fiore propone di rinunciare del tutto all’applicabilità dell’art. 40 e di sostituirla con la previsione
espressa di singole fattispecie omissive di parte speciale. Si tratterebbe cioè di procedere alla creazione di
fattispecie omissive proprie: il rimprovero legislativo, al quale collegare la responsabilità penale del soggetto,
non riguarderebbe più il mancato impedimento dell’evento, bensì il non essersi attivato in presenza di
condizioni e circostanze, normativamente predeterminate, che rendevano tale attivazione doverosa.
Si tratterebbe di una soluzione sicuramente più rispettosa del principio di legalità in quanto la valutazione
della rilevanza della condotta omissiva non viene lasciata alla giurisprudenza del caso concerto, ma affidata al
legislatore.
Ciò premesso, la dottrina tende a limitare l’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv ai soli reati con
evento materiale. Al di fuori delle ipotesi di reato con evento naturalistico, si ritiene che l’ambito di
applicazione dell’art. 40 cpv c.p. incontri limiti significativi.
In particolare, l’art. 40 cpv c.p. non poterebbe essere applicato:
- ai reati di mano propria, cioè a quei tipi di illecito, la cui fattispecie presuppone una condotta attiva di
carattere “personale” (es. incesto);
- ai reati abituali la cui struttura implica la reiterazione di attività positive;
- alle ipotesi in cui la fattispecie legale del reato può essere compiuta tanto con una condotta attiva
quanto con una condotta omissiva, e che, quindi, rendono superlfuo il richiamo all’art. 40 cpv. Si
pensi a reati come l’infedeltà del patrocinatore o del consulente, ove il nocumento agli interessi della
parte può essere indifferentemente arrecato con una condotta attiva o omissiva;
- nei reati a forma vincolata, giacchè un eventuale estensione comporterebbe una forzatura dei limiti
della legalità. Ed invero, l’art. 40 cpv dispone solo l’equivalenza del non impedire al cagionare, in
presenza di un obbligo giuridico, per cui non si può forzare la tipicità considerando equivalente al non
far nulla il fare secondo modalità prescritte dalla legge.
Tuttavia, Fiore osserva che un’interpretazione troppo restrittiva dell’art. 40 cpv rischia di impoverirne
eccessivamente il significato. L’art. 40 cpv c.p., in sostanza, non avrebbe altro effetto, se non quello di semplificare la
soluzione del problema causale nelle fattispecie imperniate sulla produzione di un evento naturalistico: in casi, cioè, nei
quali l’omissione potrebbe comunque essere considerata una modalità di realizzazione del fatto tipico, “causalmente”
rilevante già ex art. 40 co. 1 c.p. La scelta del “non intervento”, infatti, è pur sempre un modo di influire sui decorsi
causali. In tal modo, però, potrebbero restare fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv c.p. tutte le ipotesi in cui,
pur essendo fuori discussione l’esistenza di un obbligo giuridico di agire, sarebbe tuttavia alquanto azzardato parlare di
una vera e propria efficienza causale dell’omissione.
In realtà – ferma restando l’incompatibilità strutturale di talune fattispecie con il paradigma dell’art. 40 cpv c.p. –
l’ambito di operatività di questa disposizione può essere utilmente circoscritto, solo quando l’obbligo di agire, che
incombe al soggetto, venga posto in una relazione significativa con le sue concrete possibilità di intervenire per
l’impedimento dell’evento.

I PRESUPPOSTI GENERALI DELL’OMISSIONE PENALMENTE RILEVANTE


Il giudizio sulla rilevanza penale di una condotta omissiva comporta la verifica di alcuni presupposti
essenziali.
a) Per affermare l’esistenza di una omissione penalmente rilevante deve potersi affermare, innanzi tutto, la
possibilità di compire l’azione omessa: sia in generale, cioè da parte di chiunque si trovasse nella condizione
dell’autore, sia individualmente, da parte dello specifico autore dell’omissione;
b) L’azione positiva che ci si attendeva dall’autore deve poter essere concretamente pretesa; essa, quindi,
non dev’essere tale da esporre l’autore stesso, o altri, a rischi e pregiudizi non esigibili;
c) I requisiti generali, appena descritti, di una omissione penalmente rilevante devono, naturalmente,
essere inerenti a una condotta di omissione che sia tipica: o per essere conforme alla previsione espressa di un
reato di omissione (proprio o improprio); o perché tale da rientrare nello schema dell’equivalenza causale, di
cui all’art. 40 cpv c.p;
d) Ciò comporta, in relazione ai reati omissivi impropri (non espressamente previsti), la verifica di un
ulteriore presupposto. Occorre, infatti, stabilire, con elevato grado di verosimiglianza, che il compimento
dell’azione dovuta avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo.

L’AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICAZIONE DELLE FATTISPECIE OMISSIVE: LA c.d.


“POSIZIONE DI GARANTE”
Il reato omissivo consiste nel mancato compimento di un’azione richiesta dall’ordinamento per una finalità
di tutela di beni giuridici di particolare rilevanza.
In qualsiasi tipo di reato omissivo il fondamento dell’incriminazione va, quindi, sempre ricercato nel fatto
che al soggetto – o in virtù di una sua preesistente qualificazione, o per la posizione in cui viene a trovarsi al
momento del fatto – è attribuito dall’ordinamento un ruolo di garanzia rispetto al bene tutelato. Mentre, però,
nei reati omissivi impropri, all’origine del dovere di azione può esserci una qualsiasi fonte normativa,
purché di carattere giuridico, nei reati omissivi propri, nonché in quelli impropri espressamente
previsti dalla legge, fonte dell’obbligo di agire è sempre la legge penale, sicchè è abbastanza agevole
determinare l’ambito dei soggetti, su cui incombeva il dovere di agire per la tutela del bene: o perché tale
ambito è preventivamente definito dalla norma mediante il riferimento a una speciale qualificazione
soggettiva; o perché la legge descrive i presupposti di fatto in cui il soggetto attivo deve trovarsi per poter
essere obbligato ad agire.
Meno agevole è, per contro, individuare e circoscrivere l’ambito di coloro a cui compete la c.d. posizione di
garante, nei reati commissivi impropri, quando manchi una espressa previsione della fattispecie omissiva e la
sua rilevanza debba essere stabilita mediante il ricorso all’art. 40 cpv c.p.
Sono state elaborate al riguardo due teorie: la teoria del trifoglio e la teoria funzionale.
Secondo la teoria del trifoglio fonte dell’obbligo di agire può essere: la legge; il contratto; o una
precedente azione pericolosa.
Non vi è dubbio che la legge e il contratto possano essere fonte di obblighi giuridici rilevanti anche per la
fattispecie di un reato omissivo. Ciò non di meno è difficile stabilire quando concretamente l’obbligo
extrapenale di agire si converte nell’obbligo di non impedire l’evento, di cui all’art. 40 c.p.
Controversa è, l’ipotesi della “precedente azione pericolosa” come fonte dell’obbligo di impedire l’evento
(es. chi scava una buca in un luogo aperto al pubblico senza adottare le misure necessarie ad evitare che i
passanti vi cadano dentro). Le obiezioni al riguardo concernono, da un lato, l’assenza di una norma giuridica
espressa, come fonte dell’obbligo d’impedire l’evento a seguito di precedenti azioni pericolose; dall’altro, con
particolare riferimento alle condotte colpose, la superfluità del riferimento all’art. 40 cpv c.p., là dove sarebbe
sufficiente il richiamo agli obblighi precauzionali che accompagnano il compimento dell’azione positiva
pericolosa.
Attualmente si tende a privilegiare la teoria funzionale secondo la quale deve esistere un particolare
rapporto tra il soggetto attivo e il bene giuridico, tale per cui si possa dire che l’agente si trovi in una
posizione di garanzia rispetto al bene giuridico. In particolare, sono individuabili due posizioni di garanzia:
“posizione di controllo e posizione di protezione”.
La posizione di controllo è caratterizzata dall’esistenza di doveri funzionali, incombenti al soggetto, in
ordine alla salvaguardia di indeterminati beni giuridici, rispetto ad una determinata fonte di pericolo. Tale
dovere può trovare origine: in una precedente condotta antidoverosa dell’autore stesso; in obblighi di
sorveglianza, relativi ad edifici, manufatti e, in genere, cose, della cui conservazione, utilizzazione e custodia si
ha la responsabilità; in obblighi di vigilanza nei confronti di persone, della cui condotta si è responsabili.
La posizione di protezione è invece è caratterizzata dall’esistenza di doveri funzionali, incombenti al
soggetto, in ordine alla salvaguardia di determinati beni giuridici, rispetto a qualsivoglia fonte di pericolo, in
conseguenza di un particolare rapporto, giuridicamente rilevante, con il titolare del bene giuridico da
proteggere (genitori-figli) o per effetto di un contratto (babysitter) o a cagione di altri tipi di rapporti (può
essere questo il caso del medico che intraprende la cura di un paziente).

IL DOLO NEI REATI OMISSIVI


Gli elementi costituitivi del dolo nei reati omissivi sono gli stessi che contrassegnano la struttura del dolo
nei reati di azione: anche nel reato omissivo l’autore deve rappresentarsi le circostanze in cui la sua condotta si
inserisce (momento intellettivo) e deve volere la condotta omissiva, nonché, nei reati omissivi impropri,
l’evento ad essa ricollegabile (momento volitivo).
Naturalmente, essendo diversa la struttura della fattispecie oggettiva dei reati omissivi, rispetto a quella dei
reati di azione, non può non risultare parzialmente diverso l’oggetto del dolo e, correlativamente, la sua
struttura.
Nei reati omissivi il dolo è costituito essenzialmente dalla volontà di non compiere l’azione dovuta,
unito alla consapevolezza di poter agire nel senso richiesto dall’ordinamento.
Questo secondo elemento comprende:
1)la conoscenza delle circostanze da cui deriva l’obbligo di agire (es. ai fini del dolo di omissione di soccorso
è necessaria la percezione che taluno versi in una situazione di pericolo);
2)la rappresentazione dei presupposti generali dell’omissione penalmente rilevante e, cioè, la possibilità,
generale e individuale, di compiere l’azione dovuta e la sua esigibilità in concreto. Nei reati omissivi impropri,
è inoltre necessario che l’autore da un lato si rappresenti il fatto che il compimento dell’azione doverosa
avrebbe, con alto grado di probabilità, evitato il verificarsi dell’evento e dall’atro che sia consapevole della
posizione di garante nei confronti del bene tutelato.
Anche l’elemento volitivo del dolo di omissione, si atteggia in modo particolare. Ed invero, nei reati
omissivi, trattandosi di una “decisione” che si concreta nel non intervento – vale a dire nel lasciare che
l’accadere esterno segua il suo corso – non sempre è possibile identificare il momento della volizione, come
dato autonomo dalla rappresentazione. Ciò ha indotto addirittura a negare l’esistenza stessa di un momento
volitivo nel dolo di omissione accontentandosi della “mancata risoluzione” ad agire, unita dalla consapevolezza
dei presupposti che la rendevano obbligatoria. Questa tesi non può essere condivisa, poiché essa sostituisce a
un elemento costitutivo del dolo (la decisione di non agire) un dato puramente negativo (la mancata
risoluzione ad agire). In realtà, il particolare atteggiarsi del dolo nei reati omissivi non per questo ne consente
la mutilazione; ma autorizza soltanto a prendere atto che, in concreto, può essere estremamente difficile il suo
accertamento.
L’ILLECITO COLPOSO

La definizione legislativa della colpa è contenuta nell’art. 43 c.p., a norma del quale: “Il delitto: è colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Il giudizio sulla rilevanza penale di una condotta colposa comporta la verifica di alcuni presupposti essenziali e
cioè:
a) l’esistenza di una condotta obiettivamente contraria a una specifica regola di diligenza nei reati colposi di
mera condotta (si tratta, dunque, di fattispecie di pericolo astratto, in relazione alle quali la constatazione di
un concreto pericolo, eventualmente corso dai beni protetti, non è rilevante per la punibilità ma, al più, per la
determinazione della gravità del fatto); ovvero la produzione di un danno o di un pericolo per i beni protetti
mediante una condotta obiettivamente contraria ad una regola di diligenza nei reati colposi di evento;
Nei reati colposi di mera condotta il legislatore si limita a descrivere la condotta incriminatrice senza richiedere, per la
perfezione dell’illecito, il verificarsi di un accadimento naturalistico come effetto della condotta. Esempio l’art. 451 c.p.,
punisce il fatto di “chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi
destinati all’estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro”.
Nei reati colposi di evento per la perfezione dell’illecito, si richiede il verificarsi di un determinato accadimento
naturalistico, corrispondente cioè ad una modificazione della realtà sensibile, ben distinguibile dalla condotta, anche se
individuabile come sua conseguenza. Al pari che nei reati dolosi, l’evento può configurarsi sia come evento di danno, sia
come evento di pericolo concreto.
b) l’evitabilità della situazione di danno o di pericolo, mediante una condotta obiettivamente conforme alla
regola di diligenza violata;
c) la possibilità, da parte del singolo autore, di osservare la regola di diligenza prescritta, idonea ad evitare la
situazione di danno o di pericolo per il bene giuridico.
Da quanto detto si deduce che il delitto colposo si compone di una fattispecie oggettiva e di una fattispecie
soggettiva.
●La fattispecie oggettiva è costituita:
- nei reati colposi di mera condotta dalla inosservanza di una regola di diligenza;
- nei reati colposi di evento dall’attribuibilità dell’evento di danno o di pericolo (concreto) alla violazione
della regola di diligenza, secondo un rapporto di causa ed effetto.
Pertanto, nei reati colposi di evento la mera violazione della regola di diligenza non è di per sé sufficiente a
costituire la fattispecie oggettiva del reato colposo di evento. Occorrerà, altresì, accertare che:
1) fra la violazione della regola di diligenza e la produzione dell’evento sussista un rapporto causale secondo i
criteri della imputazione oggettiva (come quelli dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della norma);
2) che la norma precauzionale trasgredita aveva come scopo proprio quello di evitare la produzione
dell’evento. Ad esempio, chi guida un’auto in direzione vietata, non per questo risponde di lesioni del
trasportato, dovute all’improvviso scoppio di un pneumatico;
3) che l’osservanza della regola di diligenza avrebbe evitato con ogni probabilità il prodursi dell’evento
dannoso o pericoloso.
La violazione della diligenza oggettiva sarà, ad esempio, irrilevante se si accerti che l’evento si sarebbe
egualmente prodotto in presenza di una condotta rispettosa della diligenza: come nel caso di un investimento
stradale, che si sarebbe egualmente verificato anche se l’automobilista avesse viaggiato alla velocità consentita.
Tuttavia, l’osservanza della regola di diligenza non è sufficiente ad escludere la violazione della diligenza
oggettiva, se le circostanze del caso concreto esigevano una ulteriore misura di cautela, come nel caso
dell’automobilista che procede sì alla velocità consentita nell’attraversamento di un centro abitato, ma in
presenza di condizioni particolari che imponevano una prudenza ancora maggiore.
Ciò premesso, la misura di diligenza necessaria a scongiurare danni o pericoli per i beni tutelati incontra tre
limiti fondamentali.
In primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore solo le conseguenze obiettivamente prevedibili,
quelle cioè prevedibili da un agente ipotetico che si fosse trovato nella stessa situazione dell’autore (c.d. agente
modello);
In secondo luogo, nei casi di “rischio consentito” (cioè di quelle attività che anche se pericolose sono
“consentite” dall’ordinamento per il loro carattere di indispensabilità nella vita sociale) sono oggettivamente
imputabili all’autore solo le condotte che suscitano pericoli soverchianti rispetto alla misura di questo rischio
“socialmente adeguato”.
In terzo luogo, facendo leva sul “principio dell’affidamento” (in virtù del quale colui che agisce nel rispetto dei
doveri di diligenza oggettiva, è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente dei
terzi, la cui condotta interferisce con la sua) chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata non
risponde del fatto del terzo, sia esso doloso o colposo, se è legittimato a fare affidamento sul diligente
espletamento dei compiti delegati e non abbia motivo di ritenere il contrario.ad esempio, se tizio consente a
caio, che è in evidente stato di ebrezza alcolica, l’uso della propria auto, in base al principio dell’affidamento
non potrà essere esonerato da responsabilità in relazione all’incidente eventualmente provocato.
●La fattispecie soggettiva, invece, è costituita:
- nei reati colposi di mera condotta dalla mancata previsione del rischio oggettivamente prevedibile;
- nei reati colposi di evento dalla previsione del danno o del pericolo per i beni protetti, come possibile
conseguenza della propria azione od omissione.
La concreta esigibilità delle regole di diligenza da parte del singolo autore appartiene invece al piano della
colpevolezza. La dottrina contemporanea è, infatti, generalmente orientata a riconoscere che l’illecito colposo
è contrassegnato già nella sua tipicità dal dato dell’inosservanza della regola di diligenza obiettiva, mentre al
piano della colpevolezza appartiene solo il giudizio sulla concreta esigibilità della diligenza richiesta, da parte
del singolo autore. Ed invero, l’affermazione di una responsabilità colposa richiede una doppia valutazione
della colpa: nell’ambito della tipicità la colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza
obbligatoria per chiunque nella situazione data (cd misura oggettiva della colpa); nell’ambito della
colpevolezza, invece, la colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza che può essere
richiesta e quindi “rimproverata” al singolo autore (cd misura soggettiva della colpa).
In altre parole, una volta stabilito quale condotta era oggettivamente dovuta, è altresì necessario stabilire
anche se quel determinato autore, alla stregua delle sue personali capacità ed attitudini, era in grado di tenere
la condotta richiesta.

IL GRADO DELLA COLPA


Il diritto civile distingue tradizionalmente la colpa secondo il “grado” di essa (grave, lieve, lievissima, etc.) e fa
talora dipendere da questo elemento la sua stessa rilevanza giuridica. Ciò non avviene nel diritto penale, ove la
rilevanza della colpa per un’ipotesi di reato è indipendente dal grado di essa.
Ciò non di meno, l’art. 133 c.p. menziona il “grado della colpa” fra gli indici ai quali il giudice deve attenersi
nello stabilire la pena da infliggere in concreto, nell’ambito dei limiti edittali previsti dalla legge. Si è posto,
quindi, il problema di definire i criteri in base a quali si debba determinare il grado della colpa.
Ora, non v’è dubbio che, consistendo l’essenza della condotta colposa nell’inosservanza di una regola oggettiva
di diligenza, la colpa sarà tanto più “grave” quanto maggiore sarà il divario tra il comportamento tenuto e
quello a cui ci si doveva attenere, alla stregua della regola di condotta violata.
Assumono, inoltre, rilevanza le condizioni soggettive che possono aver contribuito alla violazione della
diligenza: diversa sarà, nel grado, la colpa del casellante che ometta una manovra di scambio, a seconda che
egli sia stato vinto dal sonno perché stremato da un lungo turno di servizio o perché distrattosi ad amoreggiare
con la fidanzata.
Una significativa eccezione alla irrilevanza del grado della colpa nel determinare la responsabilità penale è
stata introdotta dalla legge 189/2012, relativa al settore dell’attività medico-chirurgica. Ed invero, detta legge
esclude la responsabilità per colpa lieve nel caso in cui il medico abbia osservato le linee guida e le buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica nello svolgimento della propria attività e limita dunque il
rimprovero penale ai soli casi di colpa grave, quando cioè sia riscontrabile una macroscopica violazione delle
regole cautelari. Resta comunque fermo l’obbligo di risarcimento del danno ex articolo 2043 del codice civile.

COLPA COSCIENTE E INCOSCIENTE


La legge descrive solo in termini negativi la struttura psicologica della condotta colposa. L’art. 43 c.p., infatti,
stabilisce che un reato è colposo quando l’evento, “anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a
causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o
discipline”. L’addebito di colpa può concernere, quindi, non soltanto i casi in cui, l’autore pur avendo previsto
come possibile un rischio per il bene tutelato, ha agito, nonostante tale previsione; ma, anche le ipotesi in cui il
pericolo non è stato neppure percepito dall’agente, per la mancata o insufficiente attivazione, da parte sua, dei
poteri di controllo sulla realtà esterna, che gli avrebbero, viceversa, consentito di prevederlo e,
conseguentemente, di evitarlo.
In tale prospettiva si suole distinguere tra colpa cosciente e colpa incosciente.
Si ha colpa cosciente quando l’autore, nel momento in cui realizza una condotta obiettivamente contraria ad
un obbligo di diligenza, si rappresenta l’evento (dannoso o pericoloso) come possibile conseguenza (effetto
secondario) del proprio agire, ma ritiene che l’evento stesso non si verificherà. La struttura psicologica della
colpa cosciente è, dunque, contrassegnata da un elemento negativo, costituito dalla non volizione dell’evento,
e da un elemento positivo, costituito dalla rappresentazione dell’evento medesimo, come possibile
conseguenza dell’azione od omissione, accoppiata alla convinzione che esso non si verificherà.
Va osservato che l’addebito di colpa cosciente può riguardare i soli reati di evento, poichè nei reati di mera
condotta la consapevole violazione della regola di diligenza realizza senz’altro un’ipotesi di comportamento
doloso.
Si ha colpa incosciente quando l’autore, nel momento in cui realizza la fattispecie oggettiva di un reato
colposo, non viola in modo consapevole la regola oggettiva di diligenza, né tantomeno si rappresenta – nei
reati di evento – il rischio a cui concretamente espone il bene protetto. La struttura psicologica della colpa
incosciente è dunque contrassegnata dalla non volizione e dalla non previsione dell’evento. Si pensi
all’automobilista che imbocchi una strada in senso vietato, senza essersi accorto della relativa segnaletica.
Mancando in questi casi sia la previsione che la volontà dell’evento e, più in generale, la consapevolezza di
violare una regola oggettiva di diligenza, parte della dottrina tende a costruire un concetto di colpa in termini
puramente normativi e ad escludere nella colpa incosciente la presenza di componenti psicologiche.
Tuttavia, non vi è dubbio che anche nei casi di colpa incosciente debbano essere presenti i coefficienti minimi
per l’imputazione soggettiva, identificati dall’art. 42 c.p. nella coscienza e volontà del fatto.

COLPA “GENERICA” E COLPA “SPECIFICA”


Con riferimento alla fonte dell’obbligo di diligenza si suole distinguere tra colpa generica e colpa specifica. La
colpa generica sussiste allorquando l’evento dannoso o pericoloso si verifica “causa di negligenza o
imprudenza o imperizia”, ovvero per l’inosservanza di quelle regole di diligenza dettate dal senso comune
e, quindi, di origine non giuridica ma sociale. In particolare, negligente è la condotta contrassegnata dalla
trascuratezza di una regola precauzionale: essa, conseguentemente, si concretizza per lo più in un’omissione
(es. non aver guardato nello specchietto prima di un sorpasso); imprudente è la condotta che per le sue
modalità genera l’insorgenza, o il rilevante aumento del rischio che si verifichi una lesione dei beni protetti (es.
guidare l’automobile ad alta velocità); quanto all’imperizia, si può dire che essa sia una forma qualificata di
imprudenza, che consiste nel non far uso, o nel fare cattivo uso, delle cognizioni e delle capacità che si
possiedono (o si dovrebbero possedere) ai fini dell’esercizio di attività che esigono particolari competenze e/o
attitudini.
La colpa specifica sussiste allorquando l’evento dannoso o pericoloso si produce a seguito di
“inosservanza di leggi, regolamenti ordini e discipline” ovvero per l’inosservanza di quelle regole di
diligenza “positivizzate” in una norma. Può trattarsi: di una norma di legge, anche penale; di una norma
regolamentare, cioè contenuta in un atto normativo, promanante dall’autorità amministrativa e contenente
regole generali per disciplinare lo svolgimento di determinate attività; di “ordini”, provenienti da soggetti
pubblici o privati, aventi comunque l’autorità di imporre norme comportamentali (si pensi al divieto
temporaneo di circolazione in una strada minacciata da frane, o alla disciplina di fabbrica); di regole, a
contenuto eminentemente precauzionale, che presiedono, da un punto di vista tecnico-disciplinare, all’attività
di cerchie predeterminate di soggetti (si pensi ai regolamenti sportivi, ai manuali tecnico-operativi che
regolano l’esecuzione di determinate attività nell’industria, nei trasporti etc.; o alle c.d. regole dell’arte
sanitaria).

AZIONE ED OMISSIONE NELLA CONDOTTA COLPOSA


L’obbligo della diligenza oggettiva, sotteso a ogni fattispecie di reato colposo, può essere violato sia mediante
una condotta attiva, sia mediante una condotta omissiva. Possono aversi, conseguentemente, delitti colposi di
azione (commissivi) e delitti colposi di omissione (omissivi).
Si ha un delitto colposo commissivo, quando la diligenza oggettiva si concreta in un dovere di astenersi
dal compiere determinate azioni pericolose come, ad esempio, consegnare a un bambino strumenti atti ad
offendere o procedere ad elevata velocità.
Si ha, invece, un delitto colposo omissivo quando la diligenza oggettiva si concreta in un dovere di
compiere determinate azioni come, ad esempio, la madre che cagioni la morte del figlio perché dimentica di
allattarlo.
Molto spesso, peraltro, la condotta rilevante per una fattispecie di reato colposo risulta costituita da una
commistione di comportamenti attivi ed omissivi; o, meglio, da una condotta attiva, il cui contrasto
con la regola di diligenza oggettiva scaturisce, però, proprio dalla omissione di una condotta precauzionale che
dovrebbe esservi associata. Si pensi, ad esempio, a chi effettua un sorpasso senza guardare nello specchietto.
In questi casi, il reato va considerato come un reato di azione, e non già come un reato di omissione. L’ambito
della punibilità, d’altra parte, non muta: il contenuto degli obblighi derivanti dall’assunzione di una posizione
di garante è, infatti, del tutto identico a quello dell’obbligo di diligenza, che incombe sull’autore, nell’atto in cui
intraprende un’azione pericolosa.

LA COLPA PROPRIA E IMPROPRIA


La colpa propria è quella che rappresenta il modo tipico in cui si manifesta la colpa, cioè il caso in cui manca
la volontà dell'evento.
La colpa impropria, invece, si ha in quei casi eccezionali in cui l'evento è voluto ma l'agente risponde
ugualmente di reato colposo. Si tratta dei seguenti istituti: eccesso colposo nelle cause di giustificazione
(articolo 55); erronea supposizione della presenza di una causa di giustificazione (articolo 59); errore di fatto
determinato da colpa (articolo 47).

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