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IL FATTO
FATTISPECIE OGGETTIVA
LA FATTISPECIE SOGGETTIVA
DELITTI E CONTRAVVENZIONI
L’art. 39 c.p. vigente distingue i reati in delitti e contravvenzioni. Sono “delitti” i fatti costituenti reato, per i
quali la legge stabilisce le pene dell’ergastolo, della reclusione e della multa; sono “contravvenzioni” quei fatti
costituenti reato, per i quali è dalla legge comminata la pena dell’arresto ovvero quella dell’ammenda (art. 17
c.p.). Sia i delitti che le contravvenzioni possono configurarsi come fatti dolosi o come fatti colposi.
La definizione legislativa del dolo è contenuta nell’art. 43 c.p., a norma del quale: “Il delitto: è doloso, o
secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione e da
cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione od omissione”.
Nella struttura del dolo si individuano, dunque, due momenti costitutivi: un momento intellettivo
dato dalla rappresentazione anticipata (previsione) delle possibili conseguenze del proprio agire; e un
momento volitivo corrispondente alla volontà del soggetto di agire per la realizzazione del fatto tipico.
La fattispecie oggettiva del reato doloso di azione è, quindi, costituita da un comportamento attivo, cioè
da un movimento corporeo tangibile, che si manifesta nel mondo esterno, sorretta non solo dalla “coscienza e
volontà”, ma anche da una volontà diretta alla realizzazione di un reato.
La dottrina ha individuato varie forme di dolo.
● La prima importante distinzione è quella fra dolo diretto di primo grado, dolo diretto di secondo
grado e dolo eventuale.
Si ha dolo diretto di primo grado quando l’evento dannoso o pericoloso, preveduto e voluto dall’agente
concreta la finalità per cui egli agisce o costituisce il mezzo necessario per raggiungere quella finalità o
scaturisce, come conseguenza che l’autore ritiene non evitabile, dall’uso dei mezzi prescelti per la realizzazione
dello scopo. Si ha dolo diretto di omicidio, ad esempio, non solo quando si agisce allo scopo di uccidere
qualcuno, ma anche quando l’uccisione di un uomo è il mezzo prescelto per realizzare un evento di natura
diversa, per esempio, uccidere una guardia allo scopo di rapinare una banca.
Si ha dolo diretto di secondo grado quando l’agente si rappresenta l’evento come un effetto secondario
altamente probabile del proprio agire, anche se esso non coincide affatto con lo scopo della sua azione e
non è da lui “desiderato”; giudicando come assai probabile il verificarsi dell’evento “collaterale”, senza per
questo astenersi dall’agire, si può dire che egli l’abbia voluto al pari dell’evento principale. Chi incendia uno
stabile allo scopo di ottenere i soldi dall’assicurazione, pur sapendo che con ogni probabilità la morte di un
uomo che si trova all’interno dello stabile, avrà agito dolosamente, non solo con riguardo alla fattispecie
dell’incendio, ma anche rispetto alla fattispecie dell’omicidio. Gli effetti secondari dell’azione, che l’agente si
rappresenta come conseguenza di essa, appartengono infatti alla sua volontà finalistica di azione, anche se per
lui non rivestono alcun interesse.
Una forma particolare di dolo diretto di secondo grado è il c.d. dolo alternativo, che, secondo l’accezione più
diffusa, ricorrerebbe in tutte le ipotesi in cui l’agente vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi
causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (questa figura di dolo è compatibile con il
tentativo perché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve prevederli
entrambi). Ad esempio Tizio colpisce Caio con un coltello, volendone indifferentemente la morte o il
ferimento.
Si ha dolo indiretto o eventuale, quando l’agente si rappresenta l’evento come possibile conseguenza
del proprio agire, accettando, dunque l’eventualità del suo verificarsi. In altre parole, l'evento finale è preso in
considerazione solo come eventualità, ma comunque non è voluto direttamente. Il soggetto, cioè, accetta il
rischio che l'evento si verifichi, e quindi agisce anche a costo di cagionarlo, pur non avendolo preso di mira. Ad
esempio: Tizio, per allontanare dei ragazzi che fanno una gran confusione, tira una bottiglia dal balcone della
sua casa e ferisce un ragazzo; ei rapinatori fuggono a gran velocità su un’auto, sapendo che potrebbero
investire qualcuno, ma accettando le conseguenze del loro agire.
Per altro, la previsione dell’evento semplicemente come possibile, integra una ipotesi di dolo diretto (di
primo grado), tutte le volte che l’agente si è impegnato proprio in vista di quel risultato, anche se lo riteneva
poco probabile. Chi spara contro taluno allo scopo di ucciderlo è in dolo diretto anche se ha agito con la
consapevolezza che, a causa della notevole distanza, il verificarsi dell’evento era assai poco verosimile. Sono
ugualmente da qualificarsi come ipotesi di dolo diretto (di secondo grado) quelle in cui l’agente si rappresenta
come altamente probabile l’evento, anche se esso non coincide affatto con lo scopo della sua azione e non è da
lui “desiderato”. Ciò indica che i confini tra dolo diretto e dolo eventuale sono contrassegnati dal labile confine
tra “probabilità e possibilità”.
Rispetto alla definizione di dolo eventuale sono state elaborate tre teorie che fanno leva sul momento
volitivo (“teorie della volontà”) o su quello intellettivo (“teorie della rappresentazione”).
Ponendosi dal punto di vista della rappresentazione, si fanno rientrare nel dolo tutte quelle conseguenze
dell’azione che il soggetto si è rappresentate con alto grado di verosimiglianza. Tuttavia, si è osservato che
accentuando eccessivamente la portata dell’elemento intellettivo del dolo a scapito di quello volitivo, si rischia
di allargare eccessivamente l’ambito del dolo eventuale.
Alla luce di questa obiezione, si spiega la diffusa adesione alla c.d. teoria del consenso, secondo la quale
sono imputabili a titolo di dolo eventuale quegli eventi che l’agente abbia interiormente approvato, abbia, cioè,
“acconsentito” alla sua realizzazione. L’utilizzazione di tale criterio può tuttavia condurre ad una eccessiva
restrizione dell’ambito del dolo indiretto, poiché potrebbe indurre ad escluderne i casi nei quali il soggetto, pur
non “auspicando” l’evento, tuttavia “si rassegna” al suo verificarsi.
La teoria a lungo prevalente in dottrina è quella dell’accettazione del rischio che identifica il dolo
eventuale con l’atteggiamento psicologico di chi, pur ritenendo in concreto la realizzazione dell’evento una
possibile conseguenza della propria azione, tuttavia non se ne astiene, accettando dunque consapevolmente il
rischio del suo verificarsi.
Con riferimento al dolo eventuale si sono poste una serie di questioni.
1)Una prima questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e delitto tentato. La dottrina
dominante propende per una soluzione negativa data la ritenuta incompatibilità tra l'azione diretta in modo
non equivoco a delinquere (che presuppone il dolo diretto) e l’atteggiamento psicologico di chi, perseguendo
un fine diverso, si rappresenti soltanto come possibile il verificarsi di un evento secondario e, ciononostante,
agisca accettando il rischio di cagionarla.
Ad esempio: Tizio dà fuoco ad una palazzina prevedendo e accettando il rischio che vi dorma qualcuno e che muoia;
può rispondere - oltre che di incendio - di tentato omicidio con dolo eventuale?
L’opposta tesi minoritaria, condivisa da Fiore, ritiene legittima l’imputazione di atti di tentativo anche a
titolo di dolo eventuale. Non si comprende, infatti, perché ciò che, al momento dell’azione, sarebbe sufficiente
a costituire l’agente in dolo rispetto al delitto consumato, dovrebbe, ex post, ritenersi insufficiente se l’evento,
poi, non si verifica per ragioni indipendenti dalla volontà dell’agente. Né si comprendono appieno le
motivazioni per cui gli elementi idonei ad essere apprezzati come rappresentazione e volontà del fatto
nell’ambito della nozione generale, del dolo, non lo sarebbero più quando si tratti di delitto tentato.
2)Una seconda questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e reato omissivo. La
giurisprudenza è ormai concorde nel ritenere che lo schema del dolo eventuale sia applicabile ai reati omissivi
impropri. In particolare, si realizza un reato omissivo con dolo eventuale quando il soggetto omittente, pur
essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione dell’evento, si è sottratto consapevolmente
all’adempimento dei propri doveri di controllo, accettando il rischio che l’evento si verificasse.
Ciò non di meno, parte della dottrina continua a ritenere incompatibile la figura del dolo eventuale con il
reato omissivo improprio, in quanto l’evento criminoso non sarebbe una conseguenza accessoria di un
risultato positivamente perseguito dal soggetto, bensì di una condotta omissiva, cioè del mancato compimento
dell’azione doverosa, che è stata tenuta senza un orientamento finalisticamente volontario al soggetto.
Es. Tizio che, vedendo Caio in pericolo di vita, non gli rechi soccorso per paura o per altro motivo diverso
dall’intenzione di lasciarlo morire. Rappresentandosi Tizio la probabilità o addirittura la certezza della morte
di Caio, si dubita che l’evento lesivo possa considerarsi volontaristicamente “accettato” da Tizio in assenza di
un positivo atto decisionale di volontà capace di condizionare il decorso causale verso quell’evento.
Il discorso sarebbe diverso nell’ipotesi in cui l’evento lesivo non intenzionale fosse però accessorio ad altro
evento intenzionalmente perseguito con la condotta omissiva.
Es. Tizio non presta soccorso a Caio per liberarsi di lui pur rappresentandosi l’eventualità che anche Mevio
venga travolto dalla caduta di Caio => in tale caso l’accessorietà che lega l’evento ulteriore a quello
intenzionale fa sì che rispetto al 1° sia configurabile un dolo diretto o eventuale.
3)Una terza questione concerne la compatibilità fra dolo eventuale e colpa cosciente. Sia nel dolo
eventuale che nella colpa cosciente il fatto dannoso non può dirsi voluto, perchè il soggetto, pur
rappresentandosi l’evento dannoso o pericoloso come possibile conseguenza del proprio agire, non è da lui
voluto direttamente (non è il fine principale). Tuttavia, mentre nel dolo eventuale l’agente accetta comunque il
rischio del verificarsi dell’evento; nella colpa cosciente l’autore ritiene possibile il verificarsi dell’evento, ma
non lo accetta, nel senso che cerca comunque di evitarlo (confida che esso non si verificherà).
La struttura psicologica della colpa cosciente è, dunque, contrassegnata da un elemento negativo, costituito
dalla non volizione dell’evento, e da un elemento positivo, costituito dalla rappresentazione dell’evento
medesimo, come possibile conseguenza dell’azione od omissione, accoppiata alla convinzione che esso non si
verificherà.
Sull’argomento sono intervenute le SS.UU Cass. (sent. 38343/2014), con la nota sentenza Tyssenkrupp, nella quale,
in primo luogo, si è proceduto ad una decisa valorizzazione dell’elemento volitivo, richiedendo che “nella scelta di
azione sia ravvisabile una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di scorgervi un
atteggiamento ragionevolmente assimilabile alla volontà”. Ma soprattutto l’accento metodologico è stato spostato sul
piano dell’accertamento probatorio, attraverso la elaborazione di una serie complessa ed integrata di indicatori
dell’atteggiamento doloso dell’agente, da utilizzare al fine di riconoscere nel caso concreto quell’atteggiamento di
adesione all’evento “assimilabile alla volontà” e non invece una decisione, che pur nella consapevolezza di una concreta
connessione causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento, può al contrario dirsi dettata da “trascuratezza,
imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo” e dunque da ricondurre alla colpa cosciente.
● Altra importante distinzione è quella fra dolo generico e dolo specifico. Il dolo “generico”
corrisponde alla coscienza e volontà di realizzare tutti gli estremi di un fatto costituente reato.
Si parla, invece, di dolo “specifico”, quando, per integrare il reato, il legislatore prevede oltre alla volontà
dell'evento, un fine ulteriore, anche se poi il fine non si realizza. È necessario, quindi, riuscire a dimostrare che
il soggetto abbia agito per quel determinato fine, indipendentemente dalla circostanza che il fine sia stato o
meno raggiunto. Ad esempio nel furto non basta volersi appropriare della cosa d'altri; occorre anche il fine di
trarne profitto. Non importa poi se il fine si realizza, purché la volontà di trarne profitto esistesse al momento
del furto.
● In relazione all’oggetto del dolo si suole distinguere tra dolo di danno e dolo di pericolo, a seconda che
il dolo si concreti nella volontà di cagionare la lesione del bene ovvero la sua mera esposizione a pericolo. La
contrapposizione fra dolo di danno e dolo di pericolo costituisce, in sostanza, un riflesso della differente
struttura delle corrispondenti fattispecie oggettive, dal punto di vista delle tipologie dell’offesa. Si deve però
sottolineare che una fattispecie di danno può ben essere realizzata con dolo di pericolo, e viceversa.
● Con riguardo al momento in cui il dolo si manifesta, si distingue fra dolo iniziale, concomitante e
successivo, a seconda che il dolo: sia presente solo nel momento iniziale del processo causativo, che tuttavia
si sviluppa in seguito, fino all’evento, in assenza di dolo (es. tizio spiana un’arma contro Caio con l’intenzione
di uccidere, ma desista poi dallo sparargli); lo accompagni durante tutto il suo svolgersi; ovvero sorga solo
dopo che l’agente ha realizzato, senza dolo, la fattispecie oggettiva del reato (es. medico che avendo
somministrato accidentalmente ad un paziente una sostanza letale in luogo del medicinale prescritto,
avvedutosi di ciò, decide tuttavia di lasciar morire il paziente).
È evidente che il dolo c.d. iniziale e il dolo c.d. successivo non costituiscono in alcun modo ipotesi di dolo
penalmente rilevante: in nessuna delle due ipotesi, infatti, l’agente ha consapevolmente messo in moto le
energie causali idonee a cagionare l’evento.
● In relazione all'intensità, si distingue fra dolo d’impeto e dolo di proposito. Il dolo è d’impeto quando
la decisione criminosa sorge all’improvviso e si traduce immediatamente nell’azione esecutiva del reato (es.
Tizio coglie sul fatto l'assassino della propria moglie e lo uccide); è di proposito, per converso, quando tra la
risoluzione e l’esecuzione intercorre un certo lasso di tempo (es. Tizio uccide l'assassino dopo averlo rincorso a
lungo). Nei casi in cui l’intervallo temporale è utilizzato per la preordinazione dei mezzi e della modalità
dell’azione criminosa si ha dolo di premeditazione (es. omicidio su commissione).
Il reato omissivo consiste nel mancato compimento di un’azione richiesta dall’ordinamento per una finalità
di tutela di beni giuridici di particolare rilevanza (all’interno della fattispecie del reato omissivo distinguiamo,
quindi, un disvalore d’evento, quale lesione o messa in pericolo di un bene giuridico tutelato da una norma
incriminatrice, e un disvalore d’azione, quale violazione di un obbligo di agire).
Quanto al fondamento politico-criminale dell’incriminazione dei reati omissivi dolosi, esso è del tutto analogo a
quello che caratterizza il corrispondente reato commissivo: nell’omettere deliberatamente la condotta doverosa l’autore
prende consapevolmente posizione contro i valori tutelati dall’ordinamento, scegliendo di non compiere l’azione, che
l’ordinamento prescriveva appunto in quanto mezzo per scongiurare l’instaurarsi di situazioni socialmente
(giuridicamente) indesiderate.
I reati omissivi si distinguono in reati omissivi propri (o “di pura omissione”) o impropri (o
“commessi mediante omissione”).
a) Nel reato omissivo proprio la semplice omissione del soggetto è sufficiente per ritenere quest’ultimo
penalmente responsabile di quanto accaduto, senza che sia necessario il verificarsi di un evento materiale
(affinchè sussista il reato è sufficiente che, in presenza di determinati presupposti oggettivi e/o soggettivi,
l’autore obbligato ad agire si astenga dal compiere l’azione che era tenuto a compiere). Esempi di reato
omissivo proprio sono l’omissione di soccorso e l’omessa denuncia di un reato.
Dal punto di vista della struttura del fatto, i reati omissivi propri sono reati c.d. di pura condotta; dal punto di vista
dell’offesa, sono inquadrati nella categoria dei reati di pericolo presunto.
b) Nel reato omissivo improprio, invece, non basta la semplice omissione, ma è altresì richiesto il
verificarsi di un evento causalmente collegabile alla condotta dell’agente. Esempio di reato omissivo improprio
è la madre che non allattando il figlio ne provochi la morte.
Vi sono casi in cui è la stessa norma incriminatrice a prevedere, accanto all’ipotesi dell’azione, quella
dell’omissione, come modalità di realizzazione del fatto tipico.
Al di fuori dei casi di espressa previsione legislativa, la configurabilità di reati omissivi impropri resta
affidata, nel nostro ordinamento, ad una clausola di equivalenza contemplata nell’art. 40 co. 2 c.p., a norma
del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Anche nel reato omissivo improprio, come in quello commissivo, occorrono, quindi, una condotta (benché
omissiva), un evento, nonché un nesso di causalità tra la condotta e l’evento.
Tuttavia, non essendo l’omissione un dato della realtà empirica, ma un puro concetto normativo, il giudizio
sul valore “causale” della condotta omissiva non può essere identico a quello che caratterizza la verifica del
nesso causale nei reati di azione.
Del resto, l’art. 40 cpv con lo stabilire l’equivalenza tra “il cagionare e il non impedire”, postula
espressamente un diverso criterio di imputazione oggettiva dell’evento: evento che l’omissione non può aver
propriamente cagionato, trattandosi per definizione di un processo causativo, su cui l’autore si è astenuto
dall’intervenire (in linea di principio, affianca dunque ai criteri di imputazione oggettiva che si fondano sul
rapporto di causalità, un ulteriore criterio normativo di imputazione, fondato “per equivalenza” sull’obbligo
giuridico di impedire l’evento).
Ciò non significa, però, che non si possa ricondurre sotto leggi scientifiche l’accertamento dei presupposti
per dichiarare l’equivalenza tra l’omissione e la condotta attiva.
Il punto di riferimento per il giudizio di equivalenza causale è costituito dall’azione dovuta (che il
soggetto ha omesso). Più precisamente, si tratta di un giudizio ipotetico, di carattere meramente
probabilistico, che mira ad accertare, secondo la migliore scienza ed esperienza, se l’attuazione della condotta
dovuta avrebbe impedito il verificarsi dell’evento lesivo.
Anche nel reato omissivo si usa dunque una formula molto simile a quella della condicio sine qua non,
in virtù della quale l'omissione è causa dell'evento quando non può essere mentalmente sostituita dall'azione
doverosa, senza che l'evento venga meno. Si pensi, ad esempio, al caso del medico che non abbia
somministrato le cure ad un paziente gravemente malato, poi deceduto. Ora, se si accerta che la
somministrazione delle cure avrebbe impedito la morte del paziente, il medico dovrà ritenersi responsabile;
viceversa, se si accerta che nonostante la somministrazione delle cure il paziente sarebbe comunque deceduto,
il medico non dovrà ritenersi responsabile.
Nella maggior parte dei casi, questa formula è corretta con quella della causalità scientifica, nel senso che il
giudizio prognostico deve essere effettuato alla luce della migliore scienza ed esperienza, secondo le leggi
scientifiche o statistiche. In relazione al rapporto tra legge scientifica e accertamento del nesso causale si è
registrato il formarsi di due orientamenti contrapposti. Il contrasto concerneva quella percentuale di validità
statistica della legge che è necessaria e sufficiente per affermare l’esistenza del nesso causale. Il problema non
si poneva in relazione alle leggi c.d. universali in quanto sono in grado di ricollegare un evento ad un
determinato antecedente in termini di certezza, non essendo mai state smentite. Il problema si poneva,
viceversa, per tutte quelle leggi scientifiche probabilistiche che funzionano soltanto in una data percentuale di
casi c.d. leggi statistiche. Ebbene, la giurisprudenza si era divisa proprio su questa percentuale di probabilità
statistica. Un primo orientamento aveva affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente se vi
erano apprezzabili probabilità che l’evento fosse conseguenza dell’azione. Un secondo orientamento aveva
affermato che il rapporto di causalità doveva ritenersi esistente solo se la legge scientifica aveva un coefficiente
percentuale pari alla certezza (100%).
Il contrasto giurisprudenziale è stato risolto dalle S.U. della Corte di Cassazione nel 2002 con la nota
sentenza Franzese (sent. 30328/2002). Le S.U., partendo dal presupposto che il rapporto di causalità è un
elemento essenziale della fattispecie oggettiva del reato, ritengono che il giudice debba ritenere provato oltre
ogni ragionevole dubbio che nel singolo caso concreto, sottoposto al suo esame, esista un rapporto di causalità
tra condotta ed evento. Ciò significa che in merito all’esistenza del rapporto di causalità è sempre necessario
un giudizio di alta probabilità logica. Tale giudizio non va, però, confuso con l’astratta percentuale di validità
statistica della legge scientifica perché è formulato tenuto conto delle caratteristiche del caso concreto. Le S.U.
con la sent. Franzese hanno prospettato quello che è stato definito come un “modello bifasico di accertamento
della causalità”. Nella prima fase (ex ante) si ricerca in astratto la legge scientifica applicabile al caso. Una
volta identificata la legge che spiega il fenomeno, il giudice non deve accertare l’esistenza del rapporto di
causalità in base alla percentuale di validità statistica della legge, considerata in astratto, ma deve controllare
(seconda fase ex post) se il fenomeno verificatosi in concreto possa essere spiegato alla luce di quella legge.
Occorre, cioè, poter escludere qualsiasi fattore causale diverso o alternativo rispetto a quello ipotizzato.
In conclusione, possiamo affermare che le leggi statistiche con frequenza medio-bassa possono essere
utilizzate ai fini dell’accertamento del nesso di causalità, se l’accertamento processuale è stato in grado di
escludere la presenza nel caso concreto di altri fattori causali che possano aver determinato l’evento.
Una ipotesi supportata da una legge di copertura dotata di un elevato grado di probabilità statistica potrebbe infatti
non essere comunque idonea a spiegare l’eziologia dello specifico evento se si dimostra che nel caso concreto l’evento è
stato cagionato da una diversa condizione, la cui sussistenza è stata processualmente accettata; reciprocamente, una
ipotesi fondata su regole di ricorrenza statistica percentualmente medio-basse potrebbe però in concreto risultare
suffragata dall’accertata assenza nel fatto storico di altre possibili cause dotate di un maggior grado di probabilità.
Da quanto detto si deduce che i reati omissivi impropri pongono gravi problemi di determinatezza. Ecco
perché Fiore propone di rinunciare del tutto all’applicabilità dell’art. 40 e di sostituirla con la previsione
espressa di singole fattispecie omissive di parte speciale. Si tratterebbe cioè di procedere alla creazione di
fattispecie omissive proprie: il rimprovero legislativo, al quale collegare la responsabilità penale del soggetto,
non riguarderebbe più il mancato impedimento dell’evento, bensì il non essersi attivato in presenza di
condizioni e circostanze, normativamente predeterminate, che rendevano tale attivazione doverosa.
Si tratterebbe di una soluzione sicuramente più rispettosa del principio di legalità in quanto la valutazione
della rilevanza della condotta omissiva non viene lasciata alla giurisprudenza del caso concerto, ma affidata al
legislatore.
Ciò premesso, la dottrina tende a limitare l’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv ai soli reati con
evento materiale. Al di fuori delle ipotesi di reato con evento naturalistico, si ritiene che l’ambito di
applicazione dell’art. 40 cpv c.p. incontri limiti significativi.
In particolare, l’art. 40 cpv c.p. non poterebbe essere applicato:
- ai reati di mano propria, cioè a quei tipi di illecito, la cui fattispecie presuppone una condotta attiva di
carattere “personale” (es. incesto);
- ai reati abituali la cui struttura implica la reiterazione di attività positive;
- alle ipotesi in cui la fattispecie legale del reato può essere compiuta tanto con una condotta attiva
quanto con una condotta omissiva, e che, quindi, rendono superlfuo il richiamo all’art. 40 cpv. Si
pensi a reati come l’infedeltà del patrocinatore o del consulente, ove il nocumento agli interessi della
parte può essere indifferentemente arrecato con una condotta attiva o omissiva;
- nei reati a forma vincolata, giacchè un eventuale estensione comporterebbe una forzatura dei limiti
della legalità. Ed invero, l’art. 40 cpv dispone solo l’equivalenza del non impedire al cagionare, in
presenza di un obbligo giuridico, per cui non si può forzare la tipicità considerando equivalente al non
far nulla il fare secondo modalità prescritte dalla legge.
Tuttavia, Fiore osserva che un’interpretazione troppo restrittiva dell’art. 40 cpv rischia di impoverirne
eccessivamente il significato. L’art. 40 cpv c.p., in sostanza, non avrebbe altro effetto, se non quello di semplificare la
soluzione del problema causale nelle fattispecie imperniate sulla produzione di un evento naturalistico: in casi, cioè, nei
quali l’omissione potrebbe comunque essere considerata una modalità di realizzazione del fatto tipico, “causalmente”
rilevante già ex art. 40 co. 1 c.p. La scelta del “non intervento”, infatti, è pur sempre un modo di influire sui decorsi
causali. In tal modo, però, potrebbero restare fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 40 cpv c.p. tutte le ipotesi in cui,
pur essendo fuori discussione l’esistenza di un obbligo giuridico di agire, sarebbe tuttavia alquanto azzardato parlare di
una vera e propria efficienza causale dell’omissione.
In realtà – ferma restando l’incompatibilità strutturale di talune fattispecie con il paradigma dell’art. 40 cpv c.p. –
l’ambito di operatività di questa disposizione può essere utilmente circoscritto, solo quando l’obbligo di agire, che
incombe al soggetto, venga posto in una relazione significativa con le sue concrete possibilità di intervenire per
l’impedimento dell’evento.
La definizione legislativa della colpa è contenuta nell’art. 43 c.p., a norma del quale: “Il delitto: è colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di
negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
Il giudizio sulla rilevanza penale di una condotta colposa comporta la verifica di alcuni presupposti essenziali e
cioè:
a) l’esistenza di una condotta obiettivamente contraria a una specifica regola di diligenza nei reati colposi di
mera condotta (si tratta, dunque, di fattispecie di pericolo astratto, in relazione alle quali la constatazione di
un concreto pericolo, eventualmente corso dai beni protetti, non è rilevante per la punibilità ma, al più, per la
determinazione della gravità del fatto); ovvero la produzione di un danno o di un pericolo per i beni protetti
mediante una condotta obiettivamente contraria ad una regola di diligenza nei reati colposi di evento;
Nei reati colposi di mera condotta il legislatore si limita a descrivere la condotta incriminatrice senza richiedere, per la
perfezione dell’illecito, il verificarsi di un accadimento naturalistico come effetto della condotta. Esempio l’art. 451 c.p.,
punisce il fatto di “chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi
destinati all’estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro”.
Nei reati colposi di evento per la perfezione dell’illecito, si richiede il verificarsi di un determinato accadimento
naturalistico, corrispondente cioè ad una modificazione della realtà sensibile, ben distinguibile dalla condotta, anche se
individuabile come sua conseguenza. Al pari che nei reati dolosi, l’evento può configurarsi sia come evento di danno, sia
come evento di pericolo concreto.
b) l’evitabilità della situazione di danno o di pericolo, mediante una condotta obiettivamente conforme alla
regola di diligenza violata;
c) la possibilità, da parte del singolo autore, di osservare la regola di diligenza prescritta, idonea ad evitare la
situazione di danno o di pericolo per il bene giuridico.
Da quanto detto si deduce che il delitto colposo si compone di una fattispecie oggettiva e di una fattispecie
soggettiva.
●La fattispecie oggettiva è costituita:
- nei reati colposi di mera condotta dalla inosservanza di una regola di diligenza;
- nei reati colposi di evento dall’attribuibilità dell’evento di danno o di pericolo (concreto) alla violazione
della regola di diligenza, secondo un rapporto di causa ed effetto.
Pertanto, nei reati colposi di evento la mera violazione della regola di diligenza non è di per sé sufficiente a
costituire la fattispecie oggettiva del reato colposo di evento. Occorrerà, altresì, accertare che:
1) fra la violazione della regola di diligenza e la produzione dell’evento sussista un rapporto causale secondo i
criteri della imputazione oggettiva (come quelli dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della norma);
2) che la norma precauzionale trasgredita aveva come scopo proprio quello di evitare la produzione
dell’evento. Ad esempio, chi guida un’auto in direzione vietata, non per questo risponde di lesioni del
trasportato, dovute all’improvviso scoppio di un pneumatico;
3) che l’osservanza della regola di diligenza avrebbe evitato con ogni probabilità il prodursi dell’evento
dannoso o pericoloso.
La violazione della diligenza oggettiva sarà, ad esempio, irrilevante se si accerti che l’evento si sarebbe
egualmente prodotto in presenza di una condotta rispettosa della diligenza: come nel caso di un investimento
stradale, che si sarebbe egualmente verificato anche se l’automobilista avesse viaggiato alla velocità consentita.
Tuttavia, l’osservanza della regola di diligenza non è sufficiente ad escludere la violazione della diligenza
oggettiva, se le circostanze del caso concreto esigevano una ulteriore misura di cautela, come nel caso
dell’automobilista che procede sì alla velocità consentita nell’attraversamento di un centro abitato, ma in
presenza di condizioni particolari che imponevano una prudenza ancora maggiore.
Ciò premesso, la misura di diligenza necessaria a scongiurare danni o pericoli per i beni tutelati incontra tre
limiti fondamentali.
In primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore solo le conseguenze obiettivamente prevedibili,
quelle cioè prevedibili da un agente ipotetico che si fosse trovato nella stessa situazione dell’autore (c.d. agente
modello);
In secondo luogo, nei casi di “rischio consentito” (cioè di quelle attività che anche se pericolose sono
“consentite” dall’ordinamento per il loro carattere di indispensabilità nella vita sociale) sono oggettivamente
imputabili all’autore solo le condotte che suscitano pericoli soverchianti rispetto alla misura di questo rischio
“socialmente adeguato”.
In terzo luogo, facendo leva sul “principio dell’affidamento” (in virtù del quale colui che agisce nel rispetto dei
doveri di diligenza oggettiva, è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente dei
terzi, la cui condotta interferisce con la sua) chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata non
risponde del fatto del terzo, sia esso doloso o colposo, se è legittimato a fare affidamento sul diligente
espletamento dei compiti delegati e non abbia motivo di ritenere il contrario.ad esempio, se tizio consente a
caio, che è in evidente stato di ebrezza alcolica, l’uso della propria auto, in base al principio dell’affidamento
non potrà essere esonerato da responsabilità in relazione all’incidente eventualmente provocato.
●La fattispecie soggettiva, invece, è costituita:
- nei reati colposi di mera condotta dalla mancata previsione del rischio oggettivamente prevedibile;
- nei reati colposi di evento dalla previsione del danno o del pericolo per i beni protetti, come possibile
conseguenza della propria azione od omissione.
La concreta esigibilità delle regole di diligenza da parte del singolo autore appartiene invece al piano della
colpevolezza. La dottrina contemporanea è, infatti, generalmente orientata a riconoscere che l’illecito colposo
è contrassegnato già nella sua tipicità dal dato dell’inosservanza della regola di diligenza obiettiva, mentre al
piano della colpevolezza appartiene solo il giudizio sulla concreta esigibilità della diligenza richiesta, da parte
del singolo autore. Ed invero, l’affermazione di una responsabilità colposa richiede una doppia valutazione
della colpa: nell’ambito della tipicità la colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza
obbligatoria per chiunque nella situazione data (cd misura oggettiva della colpa); nell’ambito della
colpevolezza, invece, la colpa va valutata alla stregua di un parametro costituito dalla diligenza che può essere
richiesta e quindi “rimproverata” al singolo autore (cd misura soggettiva della colpa).
In altre parole, una volta stabilito quale condotta era oggettivamente dovuta, è altresì necessario stabilire
anche se quel determinato autore, alla stregua delle sue personali capacità ed attitudini, era in grado di tenere
la condotta richiesta.