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Criminologia e psicologia penale -


Riassunto
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CAPITOLO 1 - L’AUTORE DEL REATO.

CONFINI NORMATIVI E RISCONTRI CRIMINOLOGICI


La criminologia studia il crimine, il suo autore, la criminalità come fenomeno sociale; il
sistema penale definisce e delimita il campo di indagine della criminologia, riguarda il
modo in cui il soggetto si pone di fronte alle norme, alle regole e alle procedure che
controllano la sua presenza dentro determinati contesti.
La criminologia indaga empiricamente sul crimine, sulla personalità dell’autore e sul
controllo della condotta socialmente deviante. Il diritto penale ha lo stesso oggetto di
indagine della criminologia: il fatto criminale. Il diritto penale definisce il fatto criminale
un reato e si interessa alle norme che lo disciplinano e alla loro interpretazione.

È importante che si stabilisca un equilibrio tra le due discipline considerando “costanti e


variabili” perché la valutazione di un fatto criminoso non può prescindere dallo studio
della personalità dell’autore.
“Costanti”: sono i cosiddetti delitti naturali, incontestabili delitti contro l’uomo che
rivendicano i diritti umani (vita, libertà personale, onore, ecc.); le categorie del pensiero
criminalistico (soggetto attivo, condotta, causalità dell’evento offensivo, elemento
psicologico, soggetto passivo, capacità, conseguenze panali).
“Variabili”: sono le cause di esclusione del reato e gli strumenti penali dipendenti dal
contesto e dagli scopi che si perseguono.

La criminologia riguarda in primo luogo gli illeciti penali e i fenomeni delittuosi di


maggiore gravità e allarme sociale, ma anche manifestazioni e fenomeni di devianza
(intesa come difformità dalle norme e dalle convenzioni sociali) non suscettibili di
rilevanza penale.
La struttura del fenomeno criminoso è costituita da:
- un fatto= l’espressione della personalità dell’autore;
- un autore
- una conseguenza: una sanzione adeguata e rapportata al destinatario.

La personalità dell’autore del reato è il momento illuminante del diritto penale


moderno e consente di comprendere il fatto nelle sue radici e nelle sue finalità.
Il diritto penale considera i fatti umani considerando l’uomo come autore di un reato
e quest’ultimo come una sua creatura. Deve esserci equilibrio tra le esigenze di una
considerazione oggettiva dei fatti illeciti e le esigenze di una valutazione dei momenti
caratteristici del soggetto che agisce. Un reato non può, quindi, essere valutato solo
per la sua produzione causale e la corrispondenza a un modello legale, ma deve
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essere inquadrato in un complesso di circostanze e condizioni che esprimono la
personalità criminologica dell’autore. La valutazione di fattori ed elementi soggettivi
non determina comunque l’abbandono di una concezione oggettiva del reato.

Aleo illustra due concetti importanti:


- crime (anglosassone): violazione di una norma sanzionata penalmente equivalente
alla nostra concezione di reato;
- crimina (diritto romano): violazioni di interesse pubblico che coinvolgono i valori
fondamentali sui quali si fonda la società.

EVOLUZIONE DEGLI STUDI SULL’AUTORE DEL REATO


La responsabilità morale postula l’uomo come causa cosciente e libero dal proprio agire.
Nascono diverse scuole di pensiero:
Scuola classica: la responsabilità presuppone la libertà di volere (il libero arbitrio).
L’uomo, capace di intendere e di volere, sceglie di agire in un determinato modo e ne
diventa responsabile, meritando quindi la pena. La valutazione del reato si concentra sul
singolo fatto delittuoso; il diritto penale giudica i fatti e non gli uomini. Ma, non
valutando la personalità dell’agente si prescinde dalla realtà individuale e sociale, non
vengono valutati fattori extravolontari, endogeni ed esogeni ai fini della pena.
Scuola positiva: sposta l’oggetto di analisi dal delitto al delinquente e nasce la
scienza criminologica (si afferma in Italia nell’ultimo periodo del XIX secolo).
Gli esponenti della scuola positiva posero il problema delle cause del
comportamento criminale; il reato viene concepito come azione reale di un uomo
concreto esposto a condizionamenti che possono annullare la libertà di volere,
prendendo in considerazione fattori biologici, sociali e culturali che l’uomo vive. Al
posto della pena retributiva, vengono proposti mezzi preventivi di difesa sociale,
misure di sicurezza di durata indeterminata.

I positivisti delineano per primi una tipologia di delinquenti e analizzano il modo di


essere dell’uomo e le caratteristiche della personalità criminologica.
Secondo Lombroso l’uomo che commette reati è caratterizzato da un’anomalia organica
che ha arrestato lo sviluppo del suo organismo e lo ha reso inadatto alla vita di
relazione. Rilevò nel delinquente alcune caratteristiche somatiche, come: zigomi
sporgenti, fronte sfuggente, larghezza di braccia, mani e piedi, ecc.
Dal punto di vista psichico, invece, il delinquente è crudele, superstizioso, insensibile
al dolore. Ha fatto una prima classificazione in tre categorie:
- delinquente nato;
- delinquente occasionale (con tratti patologici);
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- delinquente per passione (con indebolimento momentaneo del senso morale e dei
freni inibitori).

Ferri invece insiste sulle anomalie psicologiche e su quelle dovute all’influsso


ambientale; distinse:
- delinquenti pazzi, nati incorreggibili, per abitudine acquisita,
- delinquenti d’occasione e
- delinquenti per passione.
Il diritto penale dei positivisti vuole fissare le note comuni di determinate classi di
delinquenti e creare quindi dei tipi criminali, prendendo in considerazione le
caratteristiche del reo, la sintesi psichica, le particolarità fisico-psichiche e tutto ciò che
le differenzia dalle altre persone.

Ma nasce una terza scuola di pensiero, la Nuova difesa sociale (o scuola eclettica):
secondo questo movimento le responsabilità viene considerata espressione della
personalità.

Teorici della devianza: osservano il comportamento che viola una norma penale e
analizzano il rapporto tra comportamento, soggetto, contesto e risposta sociale.
Si parla di DEVIANZA solo se e quando esiste una norma; si parla di CRIMINALITA’
solo se e quando esiste una norma penale.

Il sistema del doppio binario mantiene la responsabilità per il fatto commesso con
volontà colpevole e la pena destinata agli imputabili ma considera anche la
pericolosità sociale di certi soggetti e le misure di sicurezza.

IL TIPO NORMATIVO D’AUTORE


La dottrina tedesca elabora un concetto di colpa per il modo di essere che ha per
oggetto le caratteristiche psichiche del reo. Rimprovera all’individuo la sua
inclinazione al delitto e il mancato controllo delle funzioni superiori dell’Io. Sono
considerati reati anche i momenti meramente psichici, gli atteggiamenti volontari
puramente interni o i modi di essere della persona.
Il tipo normativo d’autore considera il reo da un punto di vista diverso da quello
criminologico: l’autore del reato non è il delinquente con le sue caratteristiche
psicologiche o sociologiche ma “l’uomo nella sua personalità giuridica”. Questo
diritto penale è stato considerato ideologico, poliziesco, terrorista che
dematerializzando, soggettivizzando ed eticizzando il reato come puro atto di
ribellione o di infedeltà alle regole della nuova comunità si propone di colpire non
più il fatto offensivo ma l’autore in ragione del suo modo di essere immorale e
antigiuridico. Una teoria opposta sembra essere quella dell’azione finalistica (nasce
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anch’essa in Germania per opera di Welzel, prima legato alla teoria del tipo
normativo d’autore): l’azione finalistica è quella di un soggetto capace di organizzare
il suo comportamento in funzione di un obiettivo antigiuridico da conseguire, capace
di volere e di conseguire tale risultato.

Nel nostro sistema penale italiano la personalità dell’autore viene considerata solo al
fine di determinare le conseguenze penali applicabili. Nella Costituzione repubblicana
l’art. 25 punisce esclusivamente il “fatto commesso”, l’art. 27 prevede la responsabilità
penale. Vengono rifiutate le teorizzazione che accreditano una responsabilità penale dal
fatto interiore, per il modo psicosociale di essere o per una condotta di vita ancora
giuridicamente insignificante sul piano offensivo, o della volontà. L’intenzione dichiarata
ma non realizzata non è penalmente rilevante. Si attribuisce rilievo quindi
all’atteggiamento del soggetto rispetto al fatto espresso in termini di valore.

Un’impostazione personalistico-sociologica considera il soggetto come il prodotto di un


insieme di rapporti sociali e la responsabilità come determinata dal grado di libertà
raggiunto nella società. Assumendo quindi responsabilità e libertà come prodotti della
storia.

L’IMPUTABILITÀ
L’imputabilità consiste nel criterio minimo dell’attitudine ad autodeterminarsi,
condizione per esprimere la disapprovazione al fatto commesso dall’agente.
La volontà umana può definirsi libera quando il soggetto riesce ad esercitare poteri di
inibizione e controllo sulle proprie scelte ed è assunta dal diritto penale come contenuto
di un’aspettativa giuridico sociale. Le decisioni umane sono determinate da cause che
operano secondo leggi psicologiche, non scaturiscono dal puro arbitrio della volontà. Si
può esercitare sull’agente un condizionamento idoneo a indurlo a non delinquere.
Ross sottolinea come il carattere condizionato della libertà umana sia funzionale alla
prospettiva penalistica, che influenza la condotta dell’uomo mediante la minaccia
della pena. Occorre capire le condizioni psichiche del soggetto agente e se aveva
presente i valori condivisi e se ha consapevolmente violato tali valori. Solo alla
presenza della capacità di intendere e di volere è possibile muovere un rimprovero
all’autore del reato, ma in mancanza tale rimprovero non verrebbe compreso
rendendo meno il concetto di colpevolezza (reazione psicologica di volizione che
intercorre tra il soggetto e il risultato lesivo, successivamente, valorizzando il
momento della disobbedienza espresso dal comportamento lesivo). Il soggetto è
ritenuto colpevole per aver manifestato una volontà di lesione che non ci doveva
essere perché in contrasto con le norme di legge.
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Secondo l’art. 27 della Costituzione al primo comma la responsabilità penale è
personale: l’autore deve essere responsabile, capace di intendere i precetti di legge
ed è necessario che il fatto sia psicologicamente proprio.
L’ultimo comma dello stesso articolo stabilisce che le pene devono tendere alla
rieducazione del condannato, ovvero correggere difetti del comportamento che
realizzano antisocialità, che si differenzia dal termine “emenda” che implica il
pentimento.
- La previsione della pena, dovendo distogliere i potenziali autori dal commettere reati,
presuppone che questi siano psicologicamente in grado di lasciarsi motivare;
- L’esecuzione concreta della pena nei confronti del singolo, dovendo tendere a
rieducarlo, necessita la capacità psicologica di cogliere il significato del trattamento
punitivo;
- A limitazione della pena ai soli soggetti psicologicamente maturi riflette la concezione
socialmente dominante dell’imputabilità.

Si è giunti a sostenere la proposta di equiparare il trattamento dei soggetti sani e


psichicamente malati con l’obiettivo di abolire la misura dell’ospedale psichiatrico
giudiziario, sostenendo che riconoscere a questi ultimi una capacità di
autodeterminazione ne promuoverebbe il senso di responsabilità.

La capacità di intendere indica il possesso di abilità cognitive tali da consentire la


comprensione di ciò che si sta facendo e il significato nei casi di un eventuale distacco
dalle norme.
La capacità di volere implica la possibilità di autodeterminazione e autolimitazione di
fronte a una scelta che trasgredisce una norma, anche se appaga un bisogno soggettivo.
La capacità di intendere e di volere costituisce l’insieme delle capacità di
comprendere la scelta comportamentale e di controllare le componenti emotive e
motivazionali, legata strettamente alle condizioni psicosociali ed al contesto in cui lo
specifico atto matura. Pur in mancanza della capacità di intendere e di volere non si
rinuncia totalmente alla pena. Le cause che escludono del tutto la possibilità di pena
devono essere considerate come “casi limite”. Il vizio di mente è rilevante se
dipende da infermità, una condizione patologica accidentale (ha una durata limitata
di tempo) in senso più limitato rispetto alla malattia, che richiede un minimo di
stabilità. Può dipendere da qualunque patologia anche di breve durata, che non
consente di intendere e volere.
LA CAPACITÀ A DELINQUERE
Per valutare il fatto nell’ambito della personalità dell’autore bisogna considerare
anche la sua volontà, ovvero se ha commesso il reato volontariamente o se è stato
costretto o condizionato da fattori sociali e psicologici. La responsabilità personale si
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riferisce alla personalità del reo che si manifesta nell’azione criminosa in un’ottica di
prevenzione sociale, uno stesso fatto può essere valutato in modo diverso a seconda
della personalità del suo autore. Il giudizio si sposta dal fatto alla personalità.
Costituisce un giudizio sulla personalità del soggetto che serve da criterio per
adeguare la qualità e la misura della pena alle esigenze del singolo individuo.
Secondo l’art. 133 del Codice penale il giudice deve tenere conto della capacità a
delinquere del colpevole desunta:

- dai motivi a delinquere e dal carattere del reo;

- dai precedenti penali e giudiziari e dalla condotta di vita del reo;

- dalla condotta contemporanea o susseguente al reato;

- dalle condizioni di vita individuale, sociale e familiare del reo.

Il motivo (o movente) è la causa psichica, lo stimolo che induce l’individuo ad agire e


consiste in un’inclinazione affettiva, un sentimento, un impulso, che può essere
consapevole o inconscio. La capacità a delinquere va rapportata alla natura e
all’intensità dei motivi, alla loro forza propulsiva, al ruolo svolto dalla vittima nel
processo motivazionale.
Il carattere del reo è costituito dall’integrazione tra un fattore endogeno
(temperamento) ed esogeno (ambiente). Rappresenta una struttura di autocontrollo
nella tensione tra uomo e realtà esterna. La vita e condotta del reo, antecedenti al
reato, servono a ricostruire la personalità di un individuo. Vengono considerati, inoltre, i
precedenti penali (sentenze di condanna e carichi pendenti) e i precedenti giudiziari
(provvedimenti giurisdizionali in genere) o episodi, atteggiamenti, inclinazioni che
possono costituire un indice del modo di essere del soggetto.

La condotta contemporanea o susseguente al reato costituisce un indice,


particolarmente significativo, in ragione del rapporto di vicinanza logica alla
commissione del fatto.

Le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo comprendono tutte le


condizioni economiche, sociali, culturali e morali sia del soggetto sia del gruppo
familiare in cui vive, che possono influire sulle predisposizioni criminali.

LA RECIDIVA
È lo status di chi ricade nel reato presentandosi come un soggetto suscettibile di
essere classificato in una tipologia criminale ed è caratterizzato dall’abitudine al
delitto. La recidiva esprime una volontà antigiuridica, si tratta di una qualificazione
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giuridica soggettiva che produce un aggravamento di pena perché l’inclinazione al
delitto postula un’espiazione particolare per un determinato modo di essere.
Il codice prevede tre forme di recidiva:
1. Semplice : per la commissione di un illecito in seguito a una condanna;
2. Aggravata : se l’illecito è della stessa indole o è commesso entro cinque anni dalla
condanna o durante o dopo l’esecuzione della pena o nel tempo in cui il condannato
si sottrae volontariamente all’esecuzione della stessa;
3. Reiterata : se l’illecito è commesso da chi è già recidivo.
Legge 5 dicembre 2005 n.251= chi, dopo essere stato condannato per un delitto non
colposo, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della
pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.

La pena può essere aumentata fino alla metà se:


a) Il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;
b) il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna
precedente;
c) il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della
pena.
Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l’aumento
di pena è della metà. In nessun caso l’aumento di pena per recidiva può superare il
cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo
delitto non colposo. Il giudice continua ad accertare in concreto se la ricaduta nel
delitto sia espressione di una più marcata pericolosità del reo. Perciò si introduce il
regime di obbligatorietà nei casi di: devastazione, saccheggio, strage, guerra civile,
rapina, associazione mafiosa e finalizzata al contrabbando, omicidio, terrorismo,
possesso di armi, uso o spaccio di stupefacenti e violenza sessuale.
La nuova disciplina individua nel recidivo un tipo normativo d’autore.
Padovani osserva che guardando al passato del reo, la recidiva può essere intesa come
una forma di maggior colpevolezza derivata dall’insensibilità verso la condanna
precedente. Guardando al futuro, invece, va intesa come sintomo di pericolosità sociale.
Il recidivismo va considerato come espressione del persistere nel tempo di motivazioni,
condizioni ambientali, aspetti di personalità, che fanno preservare la condotta
criminosa. (vedi pag 34-35)
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LA PERICOLOSITÀ CRIMINALE
La capacità criminale esiste perché il soggetto ha già commesso il reato. La
pericolosità è solo una probabilità, un’ipotesi e non ricorre sempre. Il giudizio di
pericolosità non può prescindere da un rapporto con l’ambiente sociale. Al concetto
di colpevolezza che concerne soltanto i soggetti capaci di intendere e di volere, si
contrappone quello di pericolosità sociale che privilegia la personalità dell’autore e
fa riferimento alla probabilità che l’autore continui a delinquere in futuro.

All’art. 203 il codice afferma: “agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa
la persona, anche se non imputabile e non punibile, la quale ha commesso dei fatti
indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti
preveduti dalla legge come reati”.
Per la pericolosità occorre un’attitudine particolarmente intensa. È un modo di
essere del soggetto; consiste in una qualità del soggetto da cui si deduce la
probabilità che commetta nuovi reati. Il giudizio di pericolosità non può prescindere
da un rapporto con l’ambiente sociale; la qualità indiziante è criminalità in potenza,
che, per tradursi in atto, dovrà trovare terreno favorevole nel mondo esterno.
L’art. 31 stabilisce che tutte le misure di sicurezza personali devono essere ordinate
dopo avere accertato che il colpevole è una persona socialmente pericolosa.
Accanto alla perizia criminologica, infatti, è stata introdotta la perizia psichiatrica anche
se l’accertamento della pericolosità del malato di mente fosse di competenza medica e
non psichiatrica.

ABITUALITÀ, PROFESSIONALITÀ E TENDENZA A DELINQUERE


Il tipo criminologico legale è quello utilizzato dal legislatore per combattere forme di
delinquenza professionale o determinate da una particolare inclinazione. Esso opera
una distinzione tra chi ha semplicemente commesso un reato e chi rivela una
personalità criminale. Il codice, influenzato dal positivismo criminologico, ha previsto tre
tipi normativi di delinquenti pericolosi:
- delinquente abituale;

- delinquente professionale;

- delinquente per tendenza.

L’abitualità criminosa (ripetizione di un determinato comportamento) attenua i freni


inibitori rendendo più facile la commissione di reati. Occorre che la reiterazione abbia
determinato nella psiche dell’autore l’effetto di rendere più agevole l’esecuzione di un
reato: è una condizione personale, la quale dimostra che il soggetto ha acquisito una
notevole attitudine criminale. La dichiarazione di abitualità viene pronunciata contro
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chi, dopo essere stato condannato per due delitti non colposi, riporta un’altra condanna
per delitto non colposo, se il giudice ritiene che il colpevole sia dedito al delitto.
L’essere dedito al delitto significa che il soggetto deve aver acquisito una struttura della
personalità incline alla commissione di reati, pertanto viene considerato pericoloso. La
professionalità nel reato è una specie dell’abitualità criminosa. Non basta che i reati
siano commessi a scopo di lucro, ma occorre che forniscano una fonte economica
stabile di mantenimento. Un individuo è dichiarato delinquente professionale qualora
debba ritenersi che egli viva abitualmente dei proventi del reato.
L’attitudine professionale indica una vocazione per il delitto quindi la possibilità di
nuove recidive è criminologicamente fondata. La tendenza a delinquere: la
dichiarazione di tendenza a delinquere viene pronunciata contro chi, non recidivo o
delinquente abituale o professionale, ha commesso un delitto di sangue, un delitto cioè
che offenda la vita o l’incolumità di una persona.

Bisogna tenere conto del fatto che il soggetto non vuole soltanto il risultato lesivo, ma
vuole che la lesione produca la maggiore sofferenza possibile alla vittima. La tendenza a
delinquere, per questo, è prevista solo per i delitti contro la vita e l’integrità personale.
L’anormalità etico-affettiva è considerata irrilevante ai fini dell’imputabilità. Il
soggetto è concepito come privo di senso morale. Abitualità, professionalità e
tendenza a delinquere comportano sia aumenti di pena sia applicazioni di misure di
sicurezza come l’assegnazione a una casa di cura o il ricovero in un riformatorio
giudiziario. Bisogna tenere conto, però, che la tendenza a delinquere va sempre
riferita al soggetto imputabile ed esclusivamente per illeciti dolosi. Comportano
l’applicazione di misure di sicurezza come l’assegnazione ad una casa di cura o
custodia, la libertà vigilata. Producono l’interdizione perpetua dai pubblici uffici,
l’inapplicabilità dell’amnistia, il divieto della sospensione condizionale della pena e
del perdono giudiziale.

CENNI CONCLUSIVI
Le modalità con cui viene commesso il reato sono rivelatrici di una particolare
conformazione psichica. I vari modi possibili di comportarsi possono ridursi ad alcuni
tipi fondamentali, ciascuno dei quali è indicativo di un particolare carattere.
Non esiste il delitto o il delinquente ma una serie estremamente diversa di situazioni
e autori. L’errore più evidente è quello di considerare il crimine come un fenomeno
unitario: la personalità umana è individuale e molteplice e non può essere
interpretata con
leggi generali che dovrebbero valere per gruppi di personalità. Lo sviluppo delle
personalità viene sempre valutato all’interno di contesti e rapporti.
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I reati possono essere commessi con precipitazione, con ponderazione, con senso di
economia, con senso di prodigalità, con il massimo di crudeltà, con violenza, con
perseveranza, con timidezza, con spregiudicatezza, con rimorso, per motivi egoistici o
altruistici, per motivi di lucro, per vendetta ecc.

La psicologia fornisce criteri per la caratterizzazione delle azioni, nelle costanti e nelle
variabili nel processo di motivazione.
▪ Teoria della frustrazione-aggressione : la caratteristica dei delinquenti sarebbe la
loro minore capacità di tolleranza alle frustrazioni;

▪ Psicoanalisi;

▪ Approccio sociologico studia il crimine e la criminalità come prospettive sociali;

▪ Teoria funzionalista sostiene il carattere normale della criminalità;

▪ Teoria dell’Etichettamento indaga i processi di criminalizzazione e di


stigmatizzazione di determinati soggetti.

CAPITOLO 2- PERCHE’ SI DIVENTA CRIMINALI


TEORIE E MODELLI INTERPRETATIVI
DEVIANZA E MARGINALITA’: DEFINIZIONI TEORICHE
Il moderno concetto di devianza è nato nell’ambito di una scuola sorta negli Stati
Uniti: lo struttural-funzionalismo, i cui maggiori esponenti sono Pearson e Merton.
Secondo questo indirizzo i soggetti che agiscono nella società “gli attori sociali”
regolano il loro comportamento in base alle norme che ognuno acquisisce.
Il comportamento sociale, in base all’osservanza o non osservanza delle norme, si
colloca tra due opposte alternative: conformità o devianza.

▪ CONFORMITÀ è lo stile di vita coerente con l’insieme delle norme. Non è un


comportamento casuale ma costituisce una scelta che viene a far parte della
personalità del singolo. Rappresenta un comportamento consapevole che fa parte
della personalità dell’individuo; questa conoscenza deriva dai processi di
socializzazione perché l’apprendimento delle norme avviene attraverso vari
meccanismi come, ad esempio, l’educazione (quindi ambiente scolastico, di lavoro
ecc.), l’imitazione di modelli di riferimento o l’identificazione in quest’ultimi oppure
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l’interiorizzazione, cioè include nella propria coscienza norme e principi che diventano
parte integrante della personalità.
Il sistema di controllo sociale è l’insieme delle strutture e istituzioni che consentono ad
ogni individuo di conoscere le conseguenze della non osservanza delle norme, che
rafforzano e mantengono la conformità.

▪ DEVIANZA: è la condizione opposta alla conformità. Comprende comportamenti che


violano sia norme penali (i delitti), sia le condotte contrarie alle regole sociali ( gravi
comportamenti contrari alla morale o ai costumi). La vera devianza, però, è quella non
accidentale ma frutto di una precisa scelta del soggetto. Il deviante ha un atteggiamento
ambivalente: conosce la norma ma la disattende non accettando l’autorità normativa.
Sono considerati devianti tutti quei comportamenti non rispettosi di norme che sono
ritenute fondamentali.

1. Teoria dell’imposizione sociale dell’ideologia dominante (Merton)


La devianza scaturisce dal fatto che la popolazione non può raggiungere, attraverso mezzi
legali, quel successo economico previsto dalla società.

2. Scuola di Chicago (1924-1940\1960) Sutherland e Cressey


La devianza va ricercata in una sorta di alienazione (spostamento della propria identità)
connessa all’urbanizzazione e al moltiplicarsi degli slums (quartieri malfamati, baraccopoli) e
all’accentuarsi di forme di disorganizzazione sociale.

3. Teoria delle subculture (Cohen, Cloward e Ohlin)


Se persone in comunicazione tra loro presentano problemi simili non risolvibili
individualmente, saranno indotte ad aderire o a dar vita a forme subculturali sostitutive
rispetto al modello di relazioni sociali dominante.
Devianti vittime della società a causa delle discriminazioni subite dalle classi egemoni che
consideravano diversi tutti coloro che non accettavano il sistema dominante.
Bisogna distinguere però tra diversi comportamenti che sono stati denominati devianti:
- comportamenti che non provocano giudizi morali negativi anche se di minoranza (protesta
giovanile del ’68);
- condotte che suscitano disapprovazione e censura sociale con richiesta di sanzione
(tossicomania e terrorismo).

Dalla devianza alla marginalità


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Cohen considera la devianza come il comportamento che viola le aspettative condivide e
riconosciute come legittime all’interno di una società. Si è proposto diverse volte di
abbandonare il termine “devianza” e utilizzare quello di “marginalità” per indicare la
condizione di alcuni individui che vivono in condizioni solitamente peggiori rispetto a
quelle del resto della società.
I fattori che possono condurre alla devianza i soggetti marginali sono:
- Decadenza di valori tradizionali;
- Individualismo dilagante;
- Stimolazione al successo e difficoltà a raggiungerlo;
- Assenza dei servizi sociali;
- Bassa qualità delle istituzioni educative;
- Marginalità economica che diventa marginalità sociale e psicologica.

DALLA DEVIANZA ALLA CRIMINALITÀ: LA “QUESTIONE MINORILE”


Bisogna fare una distinzione tra:
 Criminodinamica (il “come”)
 Criminogenesi (il “perché”) a seconda dei tipi di delitti e dei tipi di autori.

Un’altra distinzione va fatta tra la criminalità compiuta dal singolo e la criminalità delle
organizzazioni criminali come quelle mafiose. Il termine crimine indica atti
particolarmente efferati che suscitano una reazione sociale di sdegno e di
colpevolizzazione dell’autore; è fondamentale, però, evitare le generalizzazioni e parlare
sempre al singolare perché non esiste, ad esempio, la categoria dei delinquenti, dei ladri
o dei truffatori: esistono tanti singoli individui, ciascuno con la propria storia individuale
e le proprie motivazioni. Assume un’importanza fondamentale la cosiddetta “questione
minorile”: le ricerche indicano, infatti, che un numero sempre crescente di minorenni
criminali partecipano ad attività illecite. Questa partecipazione dei giovani alle attività
illecite può essere causata da vari fattori come:
- Incompleta maturazione della personalità;
- Inesperienza di vita;
- Impulsività;
- Minor conformismo.

Il processo di socializzazione del minore si articola in:


1. socializzazione primaria in cui si viene a costruire il primo mondo dell’individuo e si
verifica quell’astrazione da ruoli e da atteggiamenti concreti;
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2. socializzazione secondaria in cui vengono interiorizzati i sottomondi istituzionali e si
acquisisce una conoscenza legata ai diversi ruoli.

In un quartiere marginale possono prevalere modelli di devianza che adottano tipologie


quali vandalismo e guerre tra bande.

LE DIVERSE TENDENZE TEORICHE NELLO STUDIO DELLA CRIMINALITA’


A partire dagli anni 50-60 del secolo scorso si sono affermate le teorie multifattoriali che
hanno preso in esame l’individuo e il contesto sociale evidenziando che non tutti gli
individui reagiscono all’ambiente e a determinate situazioni socioeconomiche con le
stesse risposte comportamentali.

TEORIA NON DIREZIONALE DEI GLUECK


I coniugi Glueck hanno messo a confronto due gruppi di minorenni: uno composto da
giovani che avevano commesso delitti e l’altro composto da coetanei che avevano una
condotta normale.
I due gruppi avevano in comune:
 la residenza in zone povere e periferiche;
 l’età;
 livello intellettivo;

  razza.

Vennero individuati specifici fattori di vulnerabilità legati a:


 caratteristiche fisiche: costituzione robusta, muscolosa;
 temperamento: irrequieti energici, aggressivi;
 atteggiamento psicologico: ostili, pieni di risentimento, sospettosi;
 capacità intellettive: capacità di apprendere tramite modalità concrete e dirette.

Ma si evidenziò una caratteristica tipica dei giovani delinquenti: erano stati cresciuti in
una famiglia in cui vi era poca coesione e scarsi valori sociali e da genitori non adatti a
essere una guida e che non rappresentavano un modello di identificazione positivo.
Quindi la somma di fattori ambientali negativi, inadeguatezza della famiglia e
determinate caratteristiche psichiche porta più facilmente alla realizzazione di una
condotta criminosa.
TEORIA DEI CONTENITORI (RECKLESS) Reckless parla di quei fattori che favoriscono il
contenimento della condotta nell’ambito della legalità e che la carenza di questi “contenitori”
favorisce la scelta criminale:
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 contenitori interni: legati alle caratteristiche psicologiche dell’individuo e sono:
- buon autocontrollo;
- buon concetto di sé;
- forza di volontà;
- principi etici;

- buona socializzazione;

- senso di responsabilità.

 contenitori esterni: derivano dall’ambiente dove si vive e rappresentano i freni strutturali


che non permettono di oltrepassare i limiti normativi, sono:
- prospettive di successo;
- consenso del proprio ambiente;
- appartenenza a un gruppo sociale ben integrato;

- disporre di modelli d’identificazione.

Quando i contenitori esterni sono carenti, anche quelli interni sono deficitari e la
condotta criminosa è molto probabile.

CRIMINOLOGIA DEL CONFLITTO


Secondo questo tipo di criminologia la delinquenza si può eliminare solo dopo una
radicale trasformazione della struttura sociale-economica e dopo l’eliminazione dei
conflitti di classe e delle ingiustizie sociali. Difficoltà economiche, discriminazioni sociali,
riduzione delle opportunità di successo sono il motivo per cui i giovani disagiati vengono
attirati dalle subculture criminose.
TEORIA DELLE SUBCULTURE
Taylor definisce cultura quell’insieme di conoscenze, fede, arte, morale, usanze e modelli
di valori morali e di norme sul comportamento che vengono appresi durante
l’interazione sociale. Per cultura di gruppo s’intendono norme, ideali e principi fatti
propri dagli appartenenti al gruppo. Se un gruppo sociale ha norme proprie diverse da
quelle della cultura dominante si parlerà di sottogruppo o di subcultura. La subcultura
delinquenziale è quella di un sottogruppo che, anche se condivide molti valori normativi
con altri gruppi, se ne allontana per quanto riguarda alcuni comportamenti che invece la
cultura dominante ritiene illegali. La subcultura criminale, infatti, possiede proprie regole
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e codici morali ma condivide con la cultura dominante la maggioranza di altre norme
(come i valori familiari, religiosi, ecc.)
TEORIA DELLA CULTURA DELLE BANDE CRIMINALI DI COHEN
Cohen sostenne che i giovani di bassa estrazione sociale vivono un conflitto nei confronti
della classe media dalla quale si sentono estraniati, per superare questo conflitto
interiore mettono in atto il meccanismo difensivo della formazione reattiva (non
potendo raggiungere i traguardi dei borghesi li rifiutano e li disprezzano).

TEORIA DELLE BANDE GIOVANILI (CLOWARD E OHLIN)


Secondo questa teoria in una società caratterizzata dal liberismo economico e dalla
competitività le mete più prestigiose sono più facilmente raggiungibili dai giovani delle
classi borghesi. I soggetti socialmente sfavoriti, invece, si organizzano in bande criminali
(gang) e si dedicano ad attività illecite come furti, rapine, truffe.
Sono state proposte due tipi di bande:
- bande conflittuali: dedite alla violenza e al vandalismo con il solo scopo di distruggere i
simboli irraggiungibili del successo ed esprimendo in questo modo la protesta per essere
esclusi;
- bande astensioniste: caratterizzate da giovani che trovano rifugio nell’abuso di alcol o
droghe, con cui esprimono il totale rifiuto della cultura stessa.

Questa teoria, però, è troppo radicalizzata perché la delinquenza giovanile non sempre è
organizzata in bande perché spesso si esercita anche in modo isolato.

TEORIA DELL’ETICHETTAMENTO (LABELLING) Kitsue, Becker, Lemert anni 60.


Affermano che la devianza è creata dalla società perché il deviante chi compie quelle
azioni e lo utilizza come capro espiatorio per spostare l’attenzione su di lui e non
percepire come devianti altre condotte dannose ma che appartengono alla classe
dominante. Viene etichettato come criminale chi commette alcuni tipi ben precisi di atti
criminali. Questi autori hanno elaborato i concetti di stereotipo del crimine e di stigma.
Il comportamento deviante, quindi, è un comportamento che viene etichettato come
tale. Accade poi il consolidamento della devianza: colui che viene definito deviante
tende a stabilizzare la sua condotta in una “carriera deviante” in quanto riconosce sé
stesso nell’etichetta che gli è stata posta e non modifica più la sua condanna.
Questa teoria fornisce un’efficace spiegazione dei meccanismi psico-sociali con cui si può
essere facilitati a diventare stabilmente devianti. Chi è considerato deviante tenderà a
stabilizzare il suo comportamento in una condotta deviante (profezia che si autoavvera).
TEORIA DELLA DEVIANZA SECONDO MATZA
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Secondo Matza non esiste una scissione tra i valori accettati dai soggetti conformi e
quelli di coloro che delinquono. La maggior parte delle attività criminose sono sostenute
da forme di autogiustificazione che il delinquente mette in atto per difendersi dall’atto
delinquenziale commesso. Egli, infatti, opera un processo di razionalizzazione per cui
neutralizza, tramite tecniche difensive, il conflitto con la morale sociale. Ha individuato
cinque tecniche di neutralizzazione:
1. La negazione della propria responsabilità: il delinquente si percepisce come trascinato e
non si assume le proprie responsabilità;
2. La minimizzazione del danno provocato: egli ridefinisce le proprie condotte, per cui un
furto diventa una presa in prestito, per esempio
3. La negazione della vittima: il deviante si definisce un giustiziere nei confronti del
malfattore (la vittima);
4. La condanna di coloro che condannano: il deviante definisce i cittadini conformi degli
ipocriti, la polizia corrotta, ecc.
5. Il richiamo a ideali più alti: il delinquente considera alcuni ideali superiori come la
fedeltà al gruppo di appartenenza ola solidarietà tra amici.

Matza formulò anche la teoria del determinismo debole: a volontà di violare una norma
nasce quando subentra un vero e proprio senso di dispersione dovuto al sentirsi
incapace di dominare gli eventi che, a sua volta, si traduce in un bisogno di convincere sé
stessi di essere ancora padroni della situazione. Diventa allora necessaria un’azione
diversa da solito, una violazione mai sperimentata. Così Matza parla di determinismo
debole (drift): una sorta di limbo tra conformità e devianza; il soggetto non dirige mai
definitivamente il proprio comportamento in senso deviante o conforme e può
accentuare inclinazioni che non sente pur di sollevarsi da situazioni angosciose.
CRIMINOLOGIA CRITICA (Schwendinger e Schwendinger ’70-’80)
Identificò la devianza con il dissenso, i criminali furono definiti oppositori del sistema:
nella forma più estrema tutto il diritto era da sovvertire, la classe dominante veniva
definita criminale per le sue ingiustizie, per il suo sfruttamento e per la sua negazione
della libertà umana. L’ideologia borghese viene repressa perché percepita come una
minaccia al sistema capitalistico; le classi dominanti assoggettano sia i delinquenti sia le
classi subalterne.
NUOVO REALISMO
Lea e Young rivolgono la loro attenzione ai reati da strada (street crimes): scoprono che
proprio i meno abbienti e i ceti più indifesi sono quelli più vittimizzati e che hanno
bisogno di più protezione. Le classi meno favorite che vivono in una condizione di
marginalità si trovano in una situazione di insoddisfazione perché hanno delle
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aspettative eccessive rispetto alle concrete possibilità di realizzarle; la consapevolezza di
non poter realizzare queste aspettative fa scaturire un sentimento di ingiustizia e quindi
la criminalità. Criminalità povera dovuta al malcontento delle categorie marginali che
hanno aspettative eccessive rispetto alle effettive possibilità di realizzarle.
La devianza deriva dal confronto sociale.

APPROCCIO ECONOMICO-RAZIONALE
I mutamenti ideologici sull’economia hanno riflessi anche sul pensiero criminologico che
ha inteso la condotta criminosa come determinata da principi razionali, come quelli che
guidano le scelte economiche. Secondo G.S. Becker (1968) non sono i fattori biologici,
psicologici, ambientali o sociali a causare il comportamento criminale ma una
componente di calcolo e un’analisi dei costi e dei benefici. Il delinquente, quindi, calcola
vantaggi e svantaggi che derivano da un reato e se i benefici sono superiori agli
svantaggi, si determinerà il reato. Il delinquente valuta in modo razionale sia la
possibilità di essere scoperto sia l’utile, economico e no, che potrà ricavare dal delitto.
Sociology of economy, Becker ’68.
Criminalità: calcolo dei costi-benefici. I costi sono legati a:
- Organizzazione;
- Esecuzione del reato;
- Rischio di essere condannati;
- Violazione dei valori etici;
- Legami affettivi;
- Variabili di tipo psicologico.

I benefici sono legati al soddisfacimento pulsionale e/o al guadagno monetario. La


visione che viene fornita da questa teoria è quella di una persona umana responsabile e
consapevole di quello che fa e delle scelte che effettua.

Si adatta a:
- delinquenza dei colletti bianchi,
- frodi,
- bancarotta fraudolenta,
- criminalità organizzata di tipo mafioso, - delinquenza comune.

Non si adatta a:
- delitti d’impulso,
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- delitti compiuti da soggetti con disturbi psichici.

LA DEVIANZA COME AZIONE COMUNICATIVA


L’azione umana intesa come costrutto comunicativo viene pensata come vero e proprio
sistema composto di parti in interazione: esso combina insieme aspetti comportali e
sociali. L’azione deviante comunicativa è considerata come il linguaggio che rinvia al
rapporto tra l’individuo, il suo sé, la sua famiglia, gli altri sistemi relazionali.
Von Cranach e Harré hanno proposto il meccanismo psicologico dell’anticipazione
mentale degli effetti: sia nelle azioni ordinarie sia in quelle complesse l’individuo vuole
raggiungere uno scopo ben preciso. Questi effetti possono essere suddivisi in due
categorie:
-effetti strumentali: sono quelli anticipati dal soggetto in maniera cosciente e
consapevole.
-effetti espressivi e comunicativi: sono quelli che comunicano esigenze del Sé e
dell’identità, delle relazioni, esigenze di sviluppo.
-effetti normativi e di controllo: rapporto con le norme penali e con le regole non
formalizzate.

Tali dimensioni non hanno confini specifici e ben delineati, non vanno considerate
singolarmente ma nella loro interazione reciproca. Nella psicologia delle azioni viene
data molta importanza alle regole. Le regole possono essere definite come modelli
procedurali utilizzati per organizzare logicamente e dare un senso a sequenze di azioni.
Quindi nell’analisi delle azioni bisogna interrogarsi sulle ipotesi che hanno guidato il
compostamente. La devianza è una delle possibilità di comunicazione tra gli esseri umani
e questo vale soprattutto per gli adolescenti. Scegliere la devianza permette di
diffondere meglio e rendere più evidente il messaggio e il suo significato.
Proprio in età evolutiva la componente espressiva della devianza prevale su quella
strumentale.
I comportamenti devianti nell’età adolescenziale sembrano esprimere:
- aggressività verso la società, sentita come distante e poco disponibile
verso le loro esigenze;
- bisogno di protagonismo tra i coetanei;
- confronto verso il mondo degli adulti.
L’individuo utilizza costantemente sistemi di Feedback (teoria delle retroazioni) per:
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a) capire che tipo di funzione svolge l’azione rispetto all’individuo e ai suoi sistemi di
appartenenza (per i soggetti in età evolutiva: dimensione relazionale, dimensione
dell’identità in costruzione, comprensione e ruolo delle regole);
b) capire il tipo di messaggio che l’attore sta lanciando;
c) capire cosa ha guidato l’azione.

A B

Non vi sono legami singoli, si crea sempre una retroazione cumulativa e ogni sistema si
organizza per raggiungere l’omeostasi.

Devianza = azioni del soggetto + azioni del controllo Circolarità


comunicativa che produce coevoluzione.
 Reato: atto che trasgredisce una norma codificata;
 Devianza: interazioni e dinamiche che si scostano da regole sociali condivise;
 Disturbo mentale: devianza da criteri di normalità o sanità psicologica in ambito
psicopatologico.
Talvolta un reato (inquinamento ambientale) non è considerato dalla coscienza sociale
gravemente deviante; talvolta, invece, alcuni comportamenti socialmente non approvati
non sono reati ma ricevono “sanzione sociale” (abbigliamento sportivo a una cerimonia).

CAPITOLO 3: ALLA RISCOPERTA DELLA RESPONSABILITÀ


DIRITTO PENALE E RESPONSABILITA’
Ambiti disciplinari diversi sono interessati al dibattito sulla nozione di responsabilità:
esiste, infatti, una conflittualità fra le concezioni dure, iperdefinite, elaborate in ambito
giudiziario e le concezioni più fluide della psicologia e della sociologia che tengono conto
del piano individuale, dei ruoli e delle reti sociali. Le teorie positiviste hanno cercato di
spiegare l’azione criminale individuando le cause nella società (determinismo sociale) o
nei fattori innati del deviante (determinismo biologico). Entrambi questi approcci
considerano il criminale come un oggetto che compie l’azione senza esserne realmente
consapevole perché condizionato da fattori sociali o per predisposizione genetica.
La responsabilità serve ad analizzare le condizioni psicologiche e sociali del deviante per
poter stabilire le misure utili a rieducarlo. Negli Anni ’60 del Novecento,
responsabilizzare il deviante era il punto d’arrivo del processo penale. L’indagine sulla
responsabilità non è diretta a stabilire livelli di colpevolezza ma ad evidenziare le
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possibilità di recupero sociale del deviante dato che la responsabilità è sempre presente
nel soggetto che compie il reato.

Secondo De Leo alcune dimensioni psicologiche sono considerate le più


strategicamente rilevanti per lo studio delle responsabilità:
✗ Intenzione
✗ Abilità all’azione INTENDERE
✗ Sapere come
✗ Azione finalizzata
✗ Capacità di anticipazione
✗ Capacità di autoriflessione autoregolazione
VOLERE
✗ Locus of control
✗ Autoefficacia

Responsabilità:
- Regolatore dei rapporti sociali e della coscienza individuale (in Occidente)

- Rapporto con l’assoluto e le norme religiose (in Oriente).

Dagli anni Sessanta del Novecento divenne fondamentale responsabilizzare il deviante.


Tale responsabilità serve ad analizzare le condizioni psicologiche e sociali del reo allo
scopo di definire e stabilire le misure utili per rieducarlo. Soprattutto in ambito minorile si
enfatizza il concetto di responsabilità come l’obiettivo ultimo da raggiungere. Una giusta
punizione deve essere intesa come possibilità di cambiamento, che attivi nella vita del
minorenne la possibilità di apprendere. Nessun soggetto può essere considerato come
presunto irresponsabile di un reato, neppure se minorenne o portatore di un disturbo
psichiatrico. Quando si tratta di un minorenne, il concetto di responsabilità è molto vasto
perché bisogna considerare il microcosmo di rapporto in cui è coinvolto e l’ambiente in
cui vive.

RESPONSABILITÀ PER IL MINORENNE


L’art. 97 del Codice penale sancisce la non imputabilità automatica dei minori sotto i 14
anni. Ciò implica la non opportunità di sottoporre a processo e a sanzione un minore
sotto una certa età. Questo limite è stato aspramente criticato perché:

-Il minorenne anche prima dei 14 anni è capace di responsabilità personale e sa ciò che fa;
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- L’imputabilità lascia la possibilità di interventi d’altro tipo di discutibile efficacia;
- Poco utile sul piano psicologico chiedere conto del reato solo per mettere in atto
provvedimenti alternativi di dubbio valore formativo.

In sintesi, devierebbe la concezione che il minore, al di sotto di quell’età è


strutturalmente incapace di responsabilità personale; quindi, non andrebbe punito
perché non sa cosa fa. Rendere responsabile un minore riguardo il suo comportamento
deviante, può comprendere forme di interventi, azioni, modi, contesti particolari,
prevedendo anche diverse forme di sanzione, intesi a stimolare nel minore processi di
cambiamento.

In base all’art. 98, tra i 14 e i 18 anni, purché ci sia imputabilità si deve dimostrare che il
minore sia:
- capace di intendere: possesso di abilità cognitive tali da consentire al minore la
comprensione degli elementi della scelta e del loro significato in termini di
eventualedistacco dalle norme socialmente condivise e sanzionate nei
codici;

- capace di volere: possibilità di autodeterminazione e autolimitazione del


minore di fronte ad una scelta che trasgredisce una norma anche se appaga
un suo bisogno.

L’insieme delle capacità di comprendere gli elementi di una scelta comportamentale e di


controllare le componenti emotive viene definito “maturità”.
Una persona matura è quella che sa essere giudice delle proprie azioni, è capace di
tollerare le frustrazioni e controllare le proprie pulsioni subordinandole al principio di
realtà. Una persona matura riesce a distinguere il lecito dall’illecito sia sul piano morale
che su quello legale. Secondo Winnicott la persona matura riesce ad identificarsi con
l’ambiente e a partecipare alla sua conservazione e partecipazione.

A questo concetto generale di maturità, in psicologia giuridica si preferisce il termine di


maturità relativa legata alle condizioni psico-sociali e al contesto in cui lo specifico atto
matura. Vanno distinte le fonti di incapacità relative al soggetto, che sono stabilizzate
nella sua personalità e quindi persistenti nel tempo: il soggetto “in quel momento” e in
“quel contesto specifico” in cui l’azione si è originata e svolta non era in condizioni di
comprendere adeguatamente le alternative legate alla scelta e di controllarsi rispetto
alle pulsioni emergenti.
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INFERMITÀ PSICHICAE ATTENUAZIONE DELLA RESPONSABILITÀ
Il senso comune tende ad attribuire al criminale, soprattutto quando compie atti gravi
che impressionano l’opinione pubblica, l’etichetta di “insanità mentale”, anche se
malattia mentale e delinquenza sono scarsamente correlate fra loro.
La psichiatria forense ha stabilito le diverse forme patologiche che adulti e adolescenti
possono manifestare e che vanno tenute in considerazione in fase di accertamento della
responsabilità:

• Disturbo antisociale di personalità : quadro pervasivo d’inosservanza e violazione dei


diritti altrui che si manifesta sin dai 15 anni d’età.
È caratterizzato da almeno tre dei seguenti elementi:
- incapacità a conformarsi alle regole sociali,
- disonestà,
- tendenza a mentire,
- inosservanza della sicurezza propria e altrui,
- indifferenza,
- mancanza di rimorso.

• Disturbo della condotta : modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i


diritti fondamentali degli altri o le principali norme vengono violati.
Caratterizzato da:
- aggressione a persone o animali;
- distruzione delle proprietà;
- frode e furto;
- gravi violazioni di regole dettate dai genitori; - fuga di casa di notte almeno due volte; -
assenze ingiustificate da scuola.

• Comportamento antisociale del bambino e dell’adolescente : diagnosi usata nei casi di


comportamenti antisociali in età evolutiva non dovuti a disturbi mentali. Si tratta di
azioni antisociali isolate, e non dovute ad un’abitudine all’ antisocialità, che
comporterebbe altrimenti la diagnosi di disturbo della condotta.
Ai fini giudiziari sono da considerare come fonte d’infermità mentale persistente, fonte
d’incapacità del soggetto, solo i disturbi psichici che presentano una perdita di contatto
con la realtà che induce il soggetto a un’alterata percezione di essa (come le
allucinazioni) o a una cognizione scarsamente organizzata e finalizzata (come i deliri o la
confusione mentale). Esempi di malattie mentali persistenti sono:
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- Psicosi schizofrenica o paranoide;
- Autismo;
- Psicosi maniaco-depressiva;

- Sindromi organiche.

Capacità e conseguente responsabilità vanno soppesati di volta in volta in relazione al


soggetto preso in esame, al tipo di atto commesso e al contesto relazionale coinvolto al
momento dell’atto. L’alterazione critica delle capacità d’esame, delle condizioni di realtà
è la condizione essenziale perché possa configurarsi una effettiva situazione di
“incapacità di intendere e volere”.

L’infermità psichica consistente in un persistente uso insufficiente o inappropriato delle


capacità cognitive (Q.I. uguale o inferiore a 70, deficit nel pensiero logico\astratto: il
soggetto è centrato sul concreto, sull’ora e adesso, sull’appagamento di un bisogno
immediato) dà minori problemi. Questi soggetti sono spesso preda di scoppi emozionali
incontrollati non riuscendo a collegare correttamente cause ed effetti.

Disturbi transitori che possono generare incapacità specifiche relative al momento:


- psicosi reattive transitorie,
- disturbi nel controllo degli impulsi in soggetti con danni organici,

- discontrollo episodico, deliri ecc.

- abuso di alcool o sostanze psicoattive

Tutte le fonti di patologia NON devono essere rapportate ad una logica del “tutto o
niente” ma a criteri qualitativi di gradualità. La responsabilità va valutata caso per caso
prescindendo da comodi ma fuorvianti schemi preconfezionati.
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CAPITOLO 4: L’ORDINAMENTO PENITENZIARIO E LE MISURE
ALTERNATIVE:
DIFFERENZE TRA ADULTI E MINORENNI
IL CARCERE E LE SUE ALTERNATIVE
L’utilità del carcere è stata teorizzata in quanto la pena può essere proporzionata alla
gravità del reato e alla condotta del reo. Ma la punizione non può consistere unicamente
nella restrizione fisica e nella privazione della libertà, deve consistere anche in una
rieducazione (trasformare gli individui rendendoli docili e demotivandoli alla recidiva)
che con il carcere non è possibile attuare, poiché strutture inadeguate, sovraffollamento,
impossibilità di differenziare il trattamento, offrono scarse prospettive di riabilitazione.

La sostituzione del carcere, per i maggiorenni, presuppone una pena detentiva breve,
l’adeguatezza della scelta in relazione al bisogno di reinserimento sociale del
condannato e la previsione che la misura non verrà violata.
Esistono diverse sostituzioni al carcere:
✗ Semidetenzione: poco utilizzata, si ha obbligo di trascorrere almeno dieci ore al giorno
in carcere, presso gli istituti o sezioni autonome degli istituti cui sono assegnati gli
ammessi a tale regime. Può sostituirsi a una pena detentiva non superiore a due anni.
✗ Libertà controllata: si attua per una pena detentiva non superiore a un anno, impone
controlli alla vita del sottoposto esercitati mediante:
- il divieto di allontanarsi dal comune di residenza e di detenere armi o esplosivi;
- l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso la locale autorità di Pubblica
Sicurezza,
- ritiro del passaporto,
- sospensione della patente di guida ecc.…
✗ Pena pecuniaria: Può sostituirsi a una pena detentiva non superiore a sei mesi. È una
sanzione penale che consiste nel pagamento di una somma di denaro all’erario
(l’amministrazione patrimoniale dello Stato); può essere di due tipi:
- multa da chi ha commesso un delitto o
- ammenda da chi ha commesso una contravvenzione.
L’art. 69 prevede una sorta di licenza o permesso (non più di 7 giorni ogni mese di pena)
per motivi di particolare rilievo, attinenti al lavoro, allo studio o alla famiglia. Sono
concessi a detenuti o a condannati ammessi, nel corso dell’espiazione detentiva, al
regime alternativo della semilibertà, che hanno avuto una buona condotta solo per
motivi di particolare importanza.
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L’art. 75 prevedeva che libertà controllata nei confronti dei minori di anni 18 venisse
eseguita con le modalità dell’affidamento in prova al servizio sociale.
L’art. 24 assicura l’esecuzione minorile fino al compimento del ventunesimo anno di età,
a prescindere dai tempi di atti processuali che non dipendono da una diretta volontà del
soggetto. La decisione di sostituire la pensa detentiva va presa tenendo conto della
personalità e delle esigenze di studio o lavoro del minorenne e delle sue condizioni
familiari, sociali e ambientali.
Il codice di procedura penale minorile prende in considerazione due occasioni in cui
usare le sanzioni sostitutive:
▪ All’art. 32: prevedendo una sorta di rito alternativo all’udienza preliminare
▪ All’art. 30: ha riscritto i presupposti di accesso alla libertà controllata e alla
semidetenzione.

In caso di più condanne a pena sostitutiva il pubblico ministero deve procedere al


cumulo (al loro computo in un unico titolo riepilogativo), ma:
- se la libertà controllata > 6 mesi, per il residuo e non oltre un anno= semidetenzione

1g pena detentiva = 2g libertà controllata e 1g semidetenzione

 Cosa va valutato?
Che la struttura di personalità del soggetto sia in grado di sopportare una così lunga pena
non detentiva che lo rimandi continuamente alla sua capacità di autocontrollo e
autolimitazione e lo costringa al dialogo con l’operatore sociale per molto tempo.

 A chi è rimessa la scelta della sanzione sostitutiva?


Non è rimessa alla discrezionalità del giudice penale o sulla sola base del Codice penale
ma va presa tenendo conto della personalità e delle esigenze di lavoro o studio del
minorenne, nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali.

LE MISURE DI SICUREZZA
Il Codice penale attualmente vigente risponde alla logica del ‘doppio binario’ (pena-
misura di sicurezza), secondo la quale alla responsabilità (concetto interessante per la
Scuola classica) è correlata la pena e alla pericolosità (concetto interessante per la Scuola
Positiva) una misura di sicurezza che assicura la difesa sociale.
Responsabilità Pena

Pericolosità Difesa sociale


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La Corte costituzionale ha abolito qualsiasi automatismo delle misure di sicurezza per cui
oggi è sempre necessario effettuare una concreta verifica della pericolosità del soggetto
e la misura non verrà applicata, revocata o sostituita con una meno gravosa.
Ai minorenni socialmente pericolosi che non sono malti di mente e sono stati assolti o
prosciolti a causa dell’età o perché ritenuti immaturi, il Codice penale riserva la misura di
sicurezza:
- della libertà vigilata: è considerata una misura impegnativa sotto il punto di vista delle
limitazioni alla libertà ma dal punto di vista dell’avvio di processi di revisione interiore;
- del riformatorio: era uno strumento segregante che lo stesso Codice penale identificava
come di tipo detentivo. Ad oggi, infatti, sono stati aboliti e sostituiti dal collocamento in
comunità (art. 37, comma 2).

LA RECLUSIONE IN CARCERE: CENNI SULL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO PER


ADULTI E MINORENNI
Quando non sono possibili sanzioni alternative, la punizione impone la privazione della
libertà in ambito carcerario. Il regime di detenzione è regolato dalla Legge 26.7.1975,
n.354 Ha costituito il sistema sulla base dei principi di:
-
Legalità;
-
Tutela giurisdizionale delle posizioni soggettive;
-
Rispetto del principio di umanità;
-
Separazione dei detenuti a seconda della qualità del titolo;
-
Uguaglianza e assicurazione dei diritti compatibili con lo stato di detenzione;
- Osservanza scientifica della personalità.
Strumenti privilegiati del recupero sociale vengono previsti sia nell’ambito proprio della
pena, allettandone l’aspetto reclusivo e prereclusivo, sia in alternativa ad essa.
Si impone la difesa sociale e un’attenta opera di ritessitura del legame sociale che,
attraverso risorse adeguate, possa consentire il reinserimento sociale del soggetto con il
superamento del fatto trasgressivo.

Attualmente:
-
il permesso premio può avere durata fino a 20g invece che 15 e in un anno fino a 60g
invece che 45;
-
il condannato minorenne può essere accompagnato per lo svolgimento dell’attività
lavorativa:
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a. Nei casi in cui il permesso premio è concedibile non basta a negarlo la pericolosità
sociale ma occorre che sussista “particolare pericolosità”;
b. Il condannato minorenne non può essere ammesso in ogni tempo al lavoro all’estero
senza che sia necessaria la previa consumazione di 1\3 della pena;
c. La liberazione condizionale continua ad essere concedibile in ogni tempo e per essa non
dovrebbero essere operate preclusioni di alcun genere.

Il codice di procedura penale per i minorenni sancisce che il tribunale per i minorenni e il
magistrato di sorveglianza per i minorenni esercitano le attribuzioni della magistratura di
sorveglianza nei confronti di coloro che commisero il reato quando erano minori degli
anni diciotto. La competenza cessa al compimento del ventunesimo anno di età.

La Corte costituzionale, nonostante gli aggiornamenti, resta rigido e incompatibile con la


posizione che impone la massima flessibilità nella risposta penale che deve essere
sempre pronta ad adeguarsi ai progressi del condannato minorenne e all’esigenza di
privilegiare la scommessa rieducativa.

LE MISURE ALTERNATIVE PREVISTE DALL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO


L’ordinamento penitenziario prevede degli strumenti che consentono al detenuto di
mantenere i contatti con il mondo extracarcerario.
Riforma “Gozzini”
a. L’affidamento in prova ha lo scopo di consentire a tutti i detenuti di espiare gli ultimi tre
anni della pena tramite affidamento al servizio sociale. Le prescrizioni devono tener
conto dell’età del detenuto (una particolare cura per la scolarizzazione, l’apprendistato,
la frequentazione di luoghi di risocializzazione).
b. La detenzione domiciliare utile soprattutto per ridurre la popolazione carceraria, denota
una ridotta valenza rieducativa. Il detenuto deve stare in casa e se si allontana viene
configurato il delitto di evasione. Fanno eccezione situazioni in cui le esigenze di salute,
studio, lavoro o famiglia siano talmente imponenti da ridurre l’obbligo di permanere
dentro l’abitazione durante la giornata.
c. La semilibertà consente un graduale reinserimento sociale, istruzione, socialmente utile,
tolleranza, rispetto, pacificazione, lavoro. È difficile che i risultati dell’osservazione di un
giovane non consentano l’affidamento ma consentano la semilibertà in funzione dei
progressi ottenuti.
d. La liberazione anticipata : riduzione della pena di 45 giorni a semestre per il
condannato che ha dato prova di partecipare all’opera di rieducazione.
e. La liberazione condizionale: l’art. 176 stabilisce che essa può essere ammessa dopo aver
scontato almeno 30 mesi o comunque metà della pena. L’art.21, invece, consente
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l’accesso al beneficio ai condannati che commisero il reato quando erano minori di anni
18.
f. L’adempimento delle obbligazioni civili dal reato: impossibilità nel caso in cui il minore
non abbia disponibilità finanziaria: aspetto soggettivo (gesti di solidarietà).

Un problema da prendere in considerazione è l’esecuzione della pena nei ‘giovani adulti’


una volta trascorsa la soglia della maggiore età. L’art. 24 dice che le limitazioni della
libertà derivanti da fatto risalente alla minore età debbono mantenere modalità
esecutive minorili fino al superamento della fase d’età che può definirsi di prima
giovinezza, convenzionalmente fatta coincidere con il compimento del ventunesimo
anno. Attardo ha messo in evidenza, però, come questo articolo possa mettere in una
condizione di disagio non solo il detenuto ma anche la struttura minorile che lo accoglie.
Occorrerebbe ipotizzare un contenitore unico per i giovani adulti che affianca l’istituto
penale per i minorenni. Tenendo conto dei bisogni e delle aspettative derivanti dall’età,
anche in questa struttura sarebbe necessario prevedere una procedura garantita
d’espulsione, così da evitare abusi e discriminazioni, con passaggio al carcere ordinario
per quei detenuti che non ottengono alcun vantaggio da questo inserimento e, anzi,
procurano danno al complesso dell’opera rieducativa condotta nei confronti degli altri
ristretti.

CAPITOLO 5: LA RELAZIONE IN AMBITO PENITENZIARIO


LE “RELAZIONI D’AIUTO” IN CARCERE
L’ordinamento penitenziario (sistema carcerario) è stato concepito e voluto in funzione
sia della custodia del detenuto, sia in funzione del suo recupero sociale. Gli attori
principali di ciò che avviene all’interno del carcere, quindi, non sono solo i detenuti, ma
anche tutte quelle figure professionali che entrano in relazione con loro. La funzione di
rieducazione è affidata a un’équipe di figure professionali che rivestono un ruolo
fondamentale nell’attivazione della motivazione (considerata base imprescindibile per
un successivo cambiamento). L’amministrazione penitenziaria può avvalersi di
professionisti esperti in psicologia, pedagogia o servizio sociale. Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione
del condannato.
Il trattamento rieducativo è un servizio offerto automaticamente:
- cliente suo malgrado (anche se il detenuto ha la facoltà di accettare o meno il
trattamento);
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- cliente volontario: necessarie tre condizioni soggettive: consapevolezza del proprio stato
di bisogno, desiderio di porvi rimedio, fiducia negli interventi offerti.

È una relazione professionale nella quale la persona deve essere assistita per operare un
adattamento personale a una situazione verso cui non è riuscita ad adattarsi
normalmente. La relazione d’aiuto s’instaura quando questa è in grado di favorire la
crescita della persona in difficoltà e la sua maturazione. Chi aiuta deve essere in grado di
compiere due azioni specifiche:
1. comprendere il problema nei termini in cui si pone per quel particolare individuo e
quella particolare esistenza;
2. aiutare il ‘cliente’ ad evolvere personalmente nel senso del suo miglior adattamento
sociale. L’educatore deve pensare all’altro come soggetto portatore di risorse oltre che
di bisogni.

UNA “RICERCA” SUL CAMPO


• SCOPO :
a) Analizzare la relazione d’aiuto all’interno di un istituto penitenziario dalla prospettiva
delle figure professionali che svolgono questo ruolo, per cogliere su quali punti si
concentra la loro attività di aiuto, le difficoltà incontrate nello svolgimento, punti di
contatto e di divergenza tra le varie figure.

b) Capire come viene messa in atto la relazione d’aiuto dagli operatori e come questi
percepiscono il proprio ruolo.

c) Quali fattori possono costituire un ostacolo al cambiamento, quali sono i problemi pratici
riscontrati che possono rallentare o impedire l’intervento rieducativo.

• CAMPIONE : Anzianità di servizio dai 4 ai 33 anni. Tre diverse figure:


- Sei educatori;
- 6 assistenti sociali; - 6 psicologi.

• LUOGO : Casa Circondariale di Piazza Lanza a Catania.

• STRUMENTO : questionario-intervista di 15 domande (8 chiuse, a risposta multipla, e 7


aperte) per evidenziare gli aspetti specifici dell’attività degli operatori, le loro opinioni, i
loro punti di vista.

• DALL’ANALISI DEI DATI EMERGE :


a. Tutti gli operatori concordano sull’idea che nel detenuto ci sia poca consapevolezza del
proprio comportamento deviante;
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b. Psicologi ed Educatori sono più fiduciosi riguardo al fatto che il loro intervento può
incidere positivamente;

c. Gli Educatori sono più propensi a utilizzare interventi pratici e concreti;

d. Gli Psicologi e gli Assistenti sociali si concentrano di più sulla persona e sulla presa di
coscienza dei propri vissuti;
e. Gli Psicologi centrano il loro intervento sull’instaurazione di un clima di fiducia tra
operatore e detenuto in modo da poter rendere più consapevole il soggetto dei propri
conflitti interiori e dei propri punti di forza;

f. Educatori e Assistenti sociali riconoscono come maggiore fattore che ostacola il


cambiamento, il contesto culturale;

g. Gli Psicologi, invece, danno un po’ più di importanza al contesto familiare;

h. Gli Educatori avvertono come problema maggiore la mancanza di luoghi adatti, dove
poter instaurare una positiva relazione d’aiuto;

i. Gli Assistenti sociali e Psicologi avvertono maggiormente la mancanza di continuità


dell’intervento;

j. Secondo Educatori e Psicologi il colloquio di aiuto è ostacolato dalla cosiddetta “cultura


della prigione” che non è facile da superare per instaurare una positiva relazione tra
operatore e detenuto;

k. Tutte le figure professionali ritengono di riuscire a stabilire spesso un clima di fiducia


anche quando non vuole il trattamento psicologico fin dall’inizio;

Secondo gli Educatori la fiducia si stabilisce con:


- Disponibilità ad ascoltare;
- Rispetto;
- Attenzione ai problemi; - Sincerità.

Secondo gli Assistenti sociali e gli psicologi, la fiducia si stabilisce con:

- Fornire info riguardo allo scopo degli interventi;

- Sottolineare il proprio ruolo e la propria funzione.


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Bisogna prendere in considerazione un rischio che può penalizzare il ruolo e la funzione
degli operatori e cioè quello che il loro intervento venga visto come un semplice aiuto
per ottenere i benefici di legge. Per affrontare questo rischio:
 Educatori e Psicologi affrontano il rischio con un dialogo franco e sincero e chiarendo che
la concessione dei benefici dipende solo da una reale volontà di cambiamento;
 Gli Assistenti sociali ritengono che quest’atteggiamento del detenuto possa diventare
uno spunto per costruire un percorso verso il cambiamento.

Per quanto riguarda i punti fondamentali su cui gli operatori focalizzano il proprio
intervento:
 Psicologi e Assistenti sociali puntano sulla creazione di un rapporto di fiducia per aiutare il
detenuto a conoscere i problemi e affrontarli;
 Gli Educatori si concentrano più sulla comprensione, la capacità di ascolto e sulla
possibilità di maggiori contatti con i familiari; quindi, il loro intervento è incentrato più
sull’aspetto familiare e personale del detenuto.

Alla richiesta di qual è la percezione che il detenuto ha della loro figura, gli operatori
rispondono che il loro ruolo è vissuto in maniera ambigua. Gli Psicologi, in particolare,
sottolineano che le poche ore che hanno a disposizione, hanno un impatto negativo
sulla percezione della loro figura. Gli atteggiamenti assolutamente da evitare su cui la
maggior parte degli operatori si trova d’accordo:
- Eccessivo coinvolgimento,
- Pietismo,
- Commiserazione,
- Paternalismo,
- Porsi in posizione di giudizio che potrebbe causare aggressività o chiusura (psicologi).

Gli educatori esprimono l’esigenza di svolgere il proprio ruolo restringendo la rigidità


della burocrazia, e dando spazio alle relazioni umane. Rilevano la necessità di una
formazione tecnico-professionale per svolgere al meglio il loro compito e l’esigenza di
una maggiore consapevolezza da parte del contesto. Gli Assistenti sociali puntualizzano
che è fondamentale la chiarezza del proprio ruolo nel rapporto col detenuto, far
conoscere l’ambiente e le problematiche penitenziarie all’esterno. Gli Psicologi
evidenziano le difficoltà che hanno a svolgere il proprio ruolo in un ambiente sprovvisto
di luoghi adatti a un setting terapeutico. Sostengono che è importante vivere ogni nuovo
incontro come una sfida senza lasciarsi guidare da etichette e rimanendo sempre
disponibili all’ascolto.
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RIFLESSIONE SUI RISULTATI
Nella relazione d’aiuto è fondamentale l’apertura all’altro da parte dell’operatore,
l’evitamento di ogni forma di dogmatismo o mentalità chiusa, la capacità di cogliere gli
aspetti essenziali della persona che si ha davanti. L’intervento dello psicologo è
necessario affinché il detenuto prenda consapevolezza del proprio comportamento
deviante. Si ritiene necessaria una formazione comune degli operatori, che tenga conto
delle diverse prospettive in modo da rendere funzionale il lavoro di équipe.
Educatore = concreti e pratici;

Educatori e Psicologi: offerta di reali e concrete prospettive di inserimento


sociolavorativo + crescita personale;

Psicologi e Assistenti sociali = centrati sulla persona.

50% degli Psicologi e Assistenti sociali: fulcro del cambiamento = clima di fiducia per
rendere maggiormente consapevoli i conflitti interiori del soggetto, i punti di forza e di
debolezza;

100% di educatori e assistenti sociali


66,6% di psicologi contesto maggior ostacolo

Assistenti sociali e Psicologi: mancata percezione del problema = ostacolo al


cambiamento + problemi legati alla prigione stessa:
1. ostacolo: mancanza di luoghi adatti dove instaurare una positiva relazione (educatori) e
mancanza di continuità nell’intervento (assistenti sociali e psicologi);
2. ostacolo: cultura della prigione non facile da superare;
3. ostacolo: figura degli operatori non richiesta;
4. ostacolo: intervento percepito come semplice ausilio per ottenere benefici di legge
(risolto con un dialogo franco e aperto o colloqui di chiarificazione).

Educatori: disponibilità all’ascolto, rispetto, sincerità e attenzione ai problemi;

Assistenti sociali e Psicologi: sottolineare il proprio ruolo e la propria funzione, fornire


informazioni circa la finalità del trattamento; lasciare al detenuto la decisione di
continuare o meno i colloqui se ritiene che possano essere utili.

Assistenti sociali e Psicologi: clima di fiducia per affrontare e riconoscere i problemi,


aiuto centrato sulle risorse personali del soggetto e sulle sue convinzioni;
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Educatori: comprensione, capacità di ascolto, maggiori contatti con i familiari (sfera
familiare e personale del detenuto).

CAPITOLO 6: IL CARCERE MINORILE È CAMBIATO? RICERCA SU


UN ISTITUTO PENALE PER MINORI
La giustizia minorile è una giustizia “speciale” che intreccia punizione ed educazione,
tutela la società e si fa carico dei diritti e dei bisogni del minore. La custodia cautelare in
carcere è la pena più severa, nell’ambito della procedura penale minorile, e viene
assegnata quando è assolutamente indispensabile. La ricerca riguarda le modalità di
relazione e aspetti comportamentali in un Istituto Penitenziario Minorile di Catania
(Bicocca).
L’obiettivo della ricerca era quello di confrontare atteggiamenti, relazioni e aspetti
psicologici dei minori ristretti in carcere immediatamente dopo la riforma della
procedura penale minorile e a dieci anni di distanza quando la riforma era già
pienamente a regime. Per raccogliere i dati è stata utilizzata una tecnica di valutazione
su dati d’archivio (tecnica di valutazione qualitativa) analizzando le schede tecniche,
compilate dagli educatori penitenziari, sulle caratteristiche psicologiche e
comportamentali dei minori. Il campione della ricerca è costituito da 60 schede estratte
casualmente dai fascicoli degli anni 1990 e per metà da quelli del 2000. L’età giovanile
variava dai 15 ai 20 anni con una percentuale di recidiva del 70%. Il campione era
articolato rispetto alle variabili riguardo al tipo di reato e alla recidività.
Sono stati analizzati:
1. Atteggiamenti psicologici durante la detenzione:
- in calo: impulsivo, ansioso\frustrato, immaturo\infantile; - in crescita: sofferente\
afflitto, insicuro.

2. Ricerca di una figura adulta di riferimento:


- presenza di minori che non ricercano figure di riferimento in crescita (famiglia dal 13% al
6,6%).

3. Rapporto con operatori e autorità:


- Le voci Contraddittorio, Falso, Costruito dal 16% al 3%; - Maggiore fiducia e
comprensione del ruolo; - punto di riferimento per il giovane.

4. Modalità relazionale prevalentemente nei confronti dei coetanei:


- Si riscontra un aumento di conflittualità, isolamento e autoesclusione.
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5. Rapporto con i compagni:
- difficoltà a relazionarsi dal 20% al 13%;
- la relazione tra ragazzi reclusi va considerata sotto molteplici aspetti (provenienti dallo
stesso quartiere—continuare un percorso di gruppo iniziato fuori).

6. Reazioni in situazioni di conflitto verso il gruppo:


- apertura interpersonale < % nel 2000 ma compensazione con voci positive = Corretto \
Rispettoso \ Maturo (quasi il doppio di 10 anni prima);
- poca differenza nelle voci negative = Chiuso\ Antisociale\ Diffidente\ Marginale\
Aggressivo\ Impulsivo.

7. Atteggiamenti verso il lavoro o le attività educative:


- la partecipazione motivata è regolare per il 47% del campione del ’90 e per il 53% del
campione del 2000;
- svalutazione delle attività o poco interesse si registra in pochi casi; - la voce non
espleta attività (7% e 10%) + auto isolamento.

8. Atteggiamento verso il progetto rieducativo:


- positivo e cooperativo ma 27% e 17% = stato di disinteresse.

9. Reazioni in situazioni di conflitto verso la struttura:


- un solo episodio di protesta nel 2000 e abbassamento della % di atteggiamenti di sfida\
contrapposizione (da 6% a 3%);
- il 90% del campione nel 1990 e il 93% del campione nel 2000 NON ha alcuna reazione
conflittuale con la struttura.

I valori positivi si riscontrano di più tra i NON recidivi e gli autori di reato contro il
patrimonio.
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CAPITOLO 7: CATEGORIE GIURIDICHE E CATEGORIE
PSICOLOGICHE: IL CASO DEL “PROBATION” PROCESSUALE
MINORILE
LA MESSA ALLA PROVA MINORILE E LA SUA APPLICAZIONE: ALCUNI DATI SU CUI
RIFLETTERE
Il sistema probation nasce nel XIX sec. negli Stati Uniti e consiste nella sospensione della
pronuncia di una condanna a pena detentiva, cioè un periodo di prova in cui, l’imputato,
di cui sia stata accertata la responsabilità penale ma cui non sia stato ancora inflitta una
condanna, è lasciato in condizione di “libertà assistita e controllata” sotto la supervisione
di un agente di probation.

L’art. 28 prevede la sospensione del processo con messa alla prova e risponde
all’esigenza di poter modulare gli interventi alla personalità del minore. L’obiettivo della
misura è di anticipare l’intervento di trattamento e recupero rispetto al processo
tentando di indurre positivi cambiamenti nel giovane deviante e restituirlo alla società
evitando la segregazione carceraria e lo stesso processo.
Il processo è sospeso per un periodo non > ai 3 anni per reati la cui pena è l’ergastolo o la
reclusione non inferiore a 12 anni; negli altri casi per un periodo non > a 1 anno.
Il giudice affida il minore ai servizi dell’amministrazione della giustizia per lo svolgimento
delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno.

“Probation” processuale: la valutazione viene anticipata già nella fase del giudizio se
l’intervento sostitutivo riesce, si prende atto che è ormai inutile e dannoso infliggere una
pena. (vedi pag 132-135)
IL PROGETTO EDUCATIVO
Gli scopi della ricerca sono:
 Ridurre la pericolosità sociale del soggetto in modo d fargli capire le alternative positive
esistenti;
 Stimolare l’autostima e aiutarlo a capire che può riuscire a cambiare positivamente;
 Valorizzare e canalizzare speranze, risorse e aspettative;
 Concorrere a ottenere una positiva evoluzione della personalità.
È necessaria la collaborazione da parte del soggetto che dovrà assumersi impegni
specifici. Il progetto vuole intervenire su un ragazzo che si avvia verso una strutturazione
rigida in senso deviante dandogli un sostegno, inducendolo alla riflessione e
accostandolo a contesti di società civile a cui non avrebbe mai avuto accesso (aree di
volontariato, psicologi, assistenti sociali ecc.). È importante aiutarlo a rendersi conto del
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valore di sé al di fuori delle bande criminali, renderlo consapevole che nei suoi confronti
non si attua una sorta di persecuzione, ma che le sue condotte impongono una risposta
riparatoria da parte della giustizia. Il progetto secondo l’art. 27 prevede che esso sia
elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia in collaborazione con i
servizi socioassistenziali degli enti locali.
Deve includere:
a) Le modalità di coinvolgimento del minore, del nucleo familiare e dell’ambiente di vita;
b) Gli impegni specifici che il minore assume;
c) Le modalità di partecipazione al progetto degli operatori di giustizia dell’ente locale;
d) Le modalità di attuazione dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la
conciliazione del minore con la persona offesa (anche se non si può sempre ottenere).

Il progetto deve essere:


- RAGIONEVOLE: il minore deve comprenderlo;
- CONCRETO: non può fare riferimento a sentimenti o stati d’animo;
- POSITIVO: più che indicare cose da non fare, deve dare indicazioni sui comportamenti da
tenere;
- FATTIBILE: deve tenere conto delle circostanze e degli ambienti nei quali verrà attuato;
- RIGOROSO e FLESSIBILE: deve prevedere nel dettaglio una serie di impegni e
contemplare modifiche e adeguamenti.

Il controllo va fatto dai servizi minorili che informano periodicamente il giudice


dell’attività svolta e propongono modifiche, abbreviazioni o revoche. Concluso il periodo
va prodotta una relazione conclusiva sul comportamento del minorenne al presidente
del collegio e al pubblico ministero dove si spiega l’evoluzione della personalità del
soggetto. Se la relazione ha esito positiva il reato viene dichiarato estinto e il processo
non viene fatto.
IL DILEMMA DELL’ART. 28: TRA SANZIONE, EDUCAZIONE E RESPONSABILIZZAZIONE
L’art.28 è stato molto criticato perché ci sono:
- da un lato le prescrizioni del giudice, il controllo dei servizi, la verifica e il monitoraggio
del giudice onorario delegato dal presidente del tribunale dei minori;
- dall’altro lato ci sono il sostegno, la stimolazione di responsabilità, il progetto educativo.
C’è un continuo rimbalzo tra istanze punitive ed educative. L’unica cosa che li concilia è
la dimensione di responsabilizzazione.

La funzione sanzionatoria ha lo scopo di:


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- Connotare al minore deviante i sistemi disfunzionali, i sistemi antisociali
precedentemente acquisiti che lo hanno portato alla devianza; - Spingerlo alla
comprensione dell’utilità di un cambiamento.

La funzione educativa ha lo scopo di:


- presentare come possibili, funzionali e più vantaggiosi sistemi di tipo pro-sociale;
- sostenere il minore nella progettazione e nella acquisizione di questi diversi modelli di
comportamento.

Queste due funzioni possono coesistere tra loro quando gli interventi relativi a ognuna
delle due siano distinti e coordinati.

CAPITOLO 8: DEVIANZA E RI-ABILITAZIONE: PROSPETTIVE PER


LA FORMAZIONE
RI-SOCIALIZZAZIONE: UN PROGETTO COMPLESSO

Ricordiamo la distinzione tra i termini:


Reato: atto che trasgredisce una norma notificata.
Devianza: interazioni e dinamiche che si scostano da regole sociali.
Disturbo mentale: atto che devia dai criteri di normalità o sanità psichica in ambito
psicopatologico.
Se reato e devianza coincidono, uno stesso atto può essere:
- considerato fuori norma da un punto di vista giuridico e quindi sanzionato come reato;
- oppure molti comportamenti ritenuti socialmente non appropriati non costituiscono
reato ma possono ricevere comunque una “sanzione” sociale.

Secondo una logica interazionista, la devianza si costituisce come conseguenza


dell’Etichettamento di certi comportamenti come trasgressivi. Quando l’Etichettamento
sociale di un comportamento trasgressivo induce il legislatore a un atto normativo che lo
sanziona come reato, il trasgressore viene punito. Le diverse teorie della devianza,
comunque, si limitano allo studio della genesi delle condotte e delle identità devianti o
alla descrizione delle azioni trasgressive.
LO SVILUPPO PSICO-SOCIALE E IL RISCHIO DI UNA IDENTITA’ DEVIANTE
Le forti stimolazioni, sia interne che esterne, hanno effetti diversi sull’assetto
psicodinamico del soggetto. L’adolescenza comporta lo svolgimento di una serie di
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compiti evolutivi che riguardano sia l’area dello sviluppo personale sia le relazioni sociali
e interpersonali:
• Accettazione del proprio corpo in rapida evoluzione : il preadolescente deve adattarsi
alle diverse condizioni psico-fisiche, il ragazzo si sente diverso e non si riconosce.

• Gestione dell’instabilità psico-motoria : per colpa delle mutazioni psico-fisiche, il ragazzo


si sente instabili, continuamente agitato tra sentimenti opposti da cui si può manifestare
una vera e propria iperattività.
Altre volte, invece, subentra uno stato di passività che sfocia in apatia.
Il compito evolutivo, in questo momento, consiste nel mediare tra questi sentimenti
opposti, realizzando un equilibrio emotivo adeguato.

• Sviluppo della coscienza di sé : il preadolescente deve acquisire una consapevolezza di


sé, come effettivamente è (sé reale), come vorrebbe essere (sé ideale) e come gli altri lo
percepiscono (sé sociale).
Questa capacità è obiettivo fondamentale dell’educazione che dovrebbe rendere più
possibili congruenti queste tre immagini del sé.
• Ricerca di valori di riferimento : l’età preadolescenziale è quella in cui si forma una
coscienza morale autonoma, dove le norme e i valori non dipendono più dall’esterno.
Si tratta di vedere se i valori sono acquisiti in modo autonomo, oppure se vengono
assunti passivamente da ciò che le famiglie dicono spesso in modo subdolo.

• Acquisizione della autonomia : l’autonomia può venire stimolata oppure inibita ed è la


meta cardine dello sviluppo di ogni essere vivente.
Evitare che sfoci nell’anarchia non vuol dire individualismo ma privilegio del proprio
mondo e dei propri bisogni a scapito di altri.

• Acquisizione della capacità di decentramento : il ragazzo, crescendo, deve comprendere


la necessità di uscire dal proprio punto di vista esclusivo. Il superamento
dell’“egocentrismo” cognitivo ed emozionale di Piaget porta l’adolescente a interagire
con gli altri comprendendone idee, emozioni, affetti (teoria della mente dell’altro =
comprendere e prevedere il comportamento proprio e altrui, mediante l’attribuzione di
stati mentali per promuovere l’empatia).

• Acquisizione della reciprocità : si manifesta come capacità di condividere


empaticamente affetti, emozioni, azioni e come apertura al dare oltre che al ricevere e a
sentirsi in intimità.

• Inserimento nel gruppo : nel gruppo il ragazzo apprendere a cooperare, cioè a costruire
qualcosa insieme con gli altri.
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• Integrazione della sessualità : la sessualità deve essere integrata nello sviluppo globale
della personalità e deve far parte della relazione di intimità. Fondamentale per una
crescita e una maturazione completa della persona, come appagamento di una pulsione
biologica, ma non come attività separata dalla vita affettiva.

• Progettazione del futuro scolastico-professionale : l’uscita dall’adolescenza comporta la


progettazione e la realizzazione di un futuro scolastico e professionale.
La scelta della scuola o del lavoro, infatti, è essenziale per raggiungere la fase di
maturità. Il ragazzo deve essere aiutato a scegliere in base alle proprie caratteristiche ma
anche a progettare il proprio futuro in armonizzazione tra l’immagine di sé, le
aspirazioni, la realtà sociale d’appartenenza.
• Costruzione di una propria famiglia : il ragazzo deve progettare la formazione di una
propria famiglia realizzando il bisogno di generatività proposto da Erikson per
perpetuare la propria esistenza, generando ed educando nuovi esseri.

La percezione dell’importanza di ognuno di questi compiti evolutivi è data soprattutto


dal contesto familiare, dai gruppi di appartenenza e dai mezzi di comunicazione di
massa. La risposta non adattiva a questi compiti e le crisi evolutive possono dar luogo a
irregolarità comportamentali o a vere e proprie devianze (psicopatologiche o criminali).
Occorre che i diversi compiti non siano affrontati contemporaneamente nelle loro
componenti più critiche dando luogo a un sovraccarico breakdown evolutivo. Possono
inoltre ostacolare il normale decorso evolutivo adolescenziale e possono comportare:
 Gli esiti disadattivi :
- abbandono degli studi,
- uso di droghe,
- comportamenti alimentari o sessuali anormali,

- assunzione eccessiva di rischi.

 Le carenze emozionali :
- attivazione esagerata,
- attenzione rivolta al sé piuttosto che agli esterni,
- elevata insicurezza,

- insufficiente autostima

- ansia.
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 Le carenze motivazionali :
- inadeguata percezione dei fini dell’apprendimento scolastico, del lavoro
- disinteresse verso lo studio e poco impegno.
ACQUISIZIONE DELL’IDENTITÀ PERSONALE
L’identità è acquisita mediante due percorsi paralleli:
1. Appartenenza: fonda l’identità su un insieme di legami con modelli esterni. La presenza
di vincoli e di sicurezza ad essa connessi rende questo percorso adatto per l’infanzia e la
prima adolescenza. (replicazione)

2. Individuazione: processo di individuazione, mediante il riconoscimento della diversità,


acquisizione di modelli interni e la necessità di separazione. (autenticità)

L’integrazione tra questi due percorsi porta all’identità positiva che è caratteristica della
maturità. Il conflitto tra esse, invece, può portare alcuni esiti negativi:
 Identità “difensiva” (o nevrotica): il ragazzo non riesce a superare le identificazioni di
dipendenza ed evita il conflitto. Subentra una rigidità cognitiva ed emozionale che
rifugge la complessità delle esperienze e delle relazioni sociali perché vissute come
situazioni fortemente ansiose e pericolose per quell’equilibrio raggiunto.
Tanti atteggiamenti razzisti hanno fondamento in una identità che deve difendersi dagli
altri perché non riesce ad integrare l’altro nella propria vita.

 Confusione dell’identità : il senso di confusione è una delle conseguenze della mancata


integrazione tra appartenenza e individuazione. Si collega ad un sentimento di
esclusione e di emarginazione, chiusura su sé stessi, dispersione ed incertezza dei ruoli.

 Identità psicopatologica : esito drammatico della crisi identitaria adolescenziale. Può


essere di tipo psicotico (- realtà, isolamento, depersonalizzazione) o depressiva (crisi)
arrivando anche al suicidio.

 Identità deviante e antisociale : lo sblocco della crisi consiste nel mettere in atto
comportamenti irregolari, violenti o devianti. È conseguenza di identificazioni con
modelli devianti a loro volta o forti pressioni di ambienti in cui violenza è vista come
valore.
L’ACQUISIZIONE DEL “SENSO DEL LIMITE”COME ANTIDOTO DELLA DEVIANZA
La nozione di “senso limite” ha due accezioni:
1. La capacità di regolazione del comportamento in caso di conflitto motivazionale tra
norme e bisogni.
L’autoregolazione consente di mutare scopi o differire l’appagamento;
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L’autocontrollo è acquisito durante il corso dello sviluppo, consente di inibire
comportamenti e azioni;
L’autoeliminazione (norme e valori) si formano grazie all’influenza di genitori, adulti
significativi, coetanei e mass media.

2. Ideale da perseguire. Nell’adolescenza e nella preadolescenza l’identificazione con il


modello genitoriale dà luogo all’Ideale dell’Io, la struttura che affianca il Super-Io con
compiti di appagamento del desiderio. Se una di queste due strutture prevale sull’altra,
si possono avere squilibri o narcisistici oppure di nevrotica soggezione all’autorità.
Il raggiungimento dell’autoeliminazione è dato da un funzionamento armonico tra
l’Ideale dell’Io e il Super-Io e permette anche il formarsi di un’identità personale
adeguata dal punto di vista sociale.

Interiorizzazione e l’integrazione dei modelli socioculturali sono necessarie perché si


capisca l’importanza delle regole su cui si fonda la convivenza sociale.

Contrapposizione = meccanismo tipico della fase evolutiva adolescenziale per acquisire


un’identità originale e non puramente replicativa.
IL MITO DELLA PREVENZIONE
Nel percorso di formazione dell’identità e del senso del limite, il ruolo dell’educatore
può essere molto importante e costruttivo. Bisogna distinguere tra:
 Educatore autoritario : decide ed impone i fini del percorso educativo, giudica e
valuta il minore secondo il proprio metro, tende a mantenere un rapporto di
indipendenza;
 Educatore autorevole : sostiene il giovane nella autonoma ricerca dei fini e dei valori
su cui centrare lo sviluppo, valuta il minorenne in quanto tale, con esigenze e bisogni
propri della sua età, incoraggia l’autonomia e la crescita di identità.

La prevenzione del reato è distinta in:


 primaria: impedire che il reato venga commesso;
 secondaria: fare in modo che il reo non ripeta il suo atto trasgressivo . Essa implica
una triplice ottica:
1. Indurre il potenziale reo a evitare la situazione che stimola la trasgressione
- dissuasione generale : sapere che un atto trasgressivo ha alta probabilità di essere
punito induce ad evitare di compierlo;
- dissuasione specifica : chi è già stato punito evita di compiere nuovamente la
trasgressione per non essere punito ancora.
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2. Cambiare la situazione elicitante: ridurre le condizioni esterne che favoriscono il
bisogno del reato. Comporta il cambiamento di condizioni sociali che favoriscono il
bisogno di denaro, di successo, di potere.
3. Cambiare la risposta della persona alla situazione elicitante: rinsaldare i valori pro-
sociali, la capacità di stabilire un senso del limite, rafforzare il giudizio morale
autonomo.
È una prevenzione basata sull’educazione che pone il ragazzo potenzialmente
deviante in condizioni di trovare la sua ricchezza e la sua identità in forme che
escludono la devianza

IL MITO DELLA RIEDUCAZIONE


L’attività di rieducazione può essere vista secondo ottiche diverse tra loro:
 Restituito ad integrum: porta la persona a tornare come prima. Nel penale si parla di
risocializzazione (una “nuova” socializzazione che va sostituita a quella finora ricevuta
ed evidentemente inadeguata, oppure occorre far tornare alla società perduta).
Il problema è a quale socializzazione il deviante dovrebbe essere ricondotto dato che
spesso il contesto da cui proviene è caratterizzato da valori devianti, che lo che lo
riporterebbero a commettere reati.

 Utilizzazione e potenziamento delle abilità residue (maieutica rieducativa): una


prospettiva che tende a tirare fuori il potenziale del ‘buon cittadino’ che è in ciascuno
di noi. Lavoro arduo e anche utopico.

 Costruzione di nuovi atteggiamenti, valori e comportamenti opposti a quelli


devianti: si tratta di una costruzione sociale della normalità, come alternativa alla
costruzione sociale della devianza, da realizzare attraverso esperienze correttive come
quelle del lavoro o delle attività di comunità.
Questa costruzione attiva di valori e comportamenti nuovi e diversi è l’obbiettivo del
lavoro condotto nelle comunità.

Questi diversi punti di vista devono essere:


- possibili (realisticamente acquisibili);
- funzionali (utili al miglioramento delle condizioni di vita);
- vantaggiosi (capaci di apportare benefici maggiori di quelli che derivano dai modelli
precedenti)
FUNZIONE SANZIONATORIA ED EDUCATIVA DEL SISTEMA PENALE.
QUALE FORMAZIONE?
Il dilemma tra funzione valutativa/sanzionatoria e funzione educativa/supportiva
dell’azione penale, tra un punto d’incontro nella promozione di responsabilità, cioè
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un’azione sui sistemi di convinzioni, regole e relazioni che possono condurre a un
impegno morale e responsabile. Questa azione definisce disfunzionali le convinzioni, le
regole che hanno portato alla devianza e fanno constatare l’utilità di un cambiamento.
Queste nuove modalità devono essere:
- possibili (quindi realmente acquisibili);
- funzionali (quindi utili a un miglioramento);
- vantaggiose (quindi devono portare benefici).
Il deviante deve essere aiutato e sostenuto nell’acquisizione di questi modelli di vita
alternativi o tramite la comunità, o tramite un educatore, uno psicologo.
Affinché tutto questo possa essere realizzato, occorre un’adeguata formazione degli
operatori. Il reo deve capire che ha sbagliato, deve capire la valenza abilitativa della
misura adottata, l’importanza dell’autoregolazione e della programmazione autonoma
della propria vita.

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