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Riassunto Manuale di

Criminologia - Marotta
Criminologia
Università degli Studi di Roma La Sapienza
81 pag.

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Riassunto Criminologia

Cap. 1 - Definizione di criminologia e Ruolo del criminologo

Con il termine Criminologia si intende lo studio scientifico della 1) Criminalità, del 2) Delinquente, e del 3)
Comportamento criminale. In particolare i criminologi studiano la Natura e la Dimensione del crimine, i tipi
di criminalità, cercano di individuare e spiegare i fattori connessi al reato e al comportamento antisociale,
nonché la conseguente reazione sociale. Tuttavia, in tempi più recenti si è parlato di criminologia come di
una disciplina che trae le sue conoscenze da altre materie come la Sociologia, la Psicologia, la Psichiatria,
l’Antropologia, la Biologia, la Giurisprudenza, la Scienza Politica e la Storia. I criminologi dunque,
ottenendo una formazione nei campi sopra indicati, possono eseguire lo studio della criminalità attraverso lo
sviluppo di ricerche scientifiche nonché misurare la dimensione attuale del comportamento criminale nella
società, in rapporto ad una serie di fattori come età, sesso, provenienza geografica, religione, classe, stato
civile ecc. Il ruolo del criminologo non consiste solo nel trattare le criminalità ed elencarne tipologie e
manifestazioni bensì anche nell’ analizzare, interpretare ed organizzare le relative informazioni al fine di
ottenere una chiara definizione del fenomeno.

Sappiamo che per molto tempo gli studiosi di criminologia hanno tentato di rispondere ad un quesito relativo
a “Quali fossero le cause del delitto?”, rendendosi conto che spiegare le cause di questo fenomeno fosse
particolarmente complicato. E’ stato poi appurato come in criminologia non sia possibile giungere ad una
spiegazione attraverso un processo induttivo di causa-effetto, bensì come sia più efficace ricorrere all’esame
delle connessioni che esistono fra il fenomeno criminale e quei fattori sociali che contribuiscono a
perpetuarne l’esistenza. Un notevole contributo in questo senso è stato fornito dall’introduzione della “teoria
dei sistemi” nel campo sociologico : questa permette, attraverso analisi statistiche, di produrre e collegare
una massa di dati tale da poter costruire reti di relazioni fra fenomeni ricorrenti. In definitiva la Criminologia
può essere definita come una disciplina multifattoriale, tenendo presente che la scelta dei “fattori
statisticamente associati al delitto e quindi potenzialmente causali” dipende dalle nostre conoscenze
precedenti. Si tratta comunque di una Scienza Idiografica, che studia quindi i fatti, le cause e le probabilità,
e Nomotetica, cioè mirante a scoprire leggi scientifiche universalmente valide.

Il criminologo quindi assume un duplice ruolo : Teorico e Ricercatore

1. Nel primo caso il criminologo si occuperà di sviluppare teorie e di tentare di individuare le


motivazioni del comportamento criminale. Nella spiegazione teorica di reati violenti come
l’omicidio o la violenza sessuale, ad esempio, egli metterà in evidenza un insieme di fattori correlati
riguardanti caratteristiche fisiche e tratti di personalità propri del comportamento psicologico
dell’individuo.

2. Nel secondo caso il criminologo si occuperà di analizzare i fattori causali della criminalità attraverso
una ricerca empirica, servendosi di strumenti propri di una ricerca scientifica.

Ulteriore ruolo rivestito dal criminologo è quello di 3) Ermeneuta (interprete di testi e documenti) : egli deve
continuamente sottoporre a valutazione critica i risultati degli studi teorici ed empirici, al fine di proporre
cambiamenti e suggerire nuovi indirizzi di indagine.

In conclusione, sappiamo che la criminologia si prefigge i seguenti fondamentali obiettivi :

• Individuare, definire e descrivere il maggior numero possibile di atti e comportamenti devianti


all’interno della società;

• Analizzare, interpretare ed organizzare i dati rilevanti sulla criminalità;

• Sviluppare spiegazioni teoriche sull’eziologia della criminalità e sul comportamento deviante;

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Le informazioni poi raccolte dovranno poi servire di ausilio per la scelta e la valutazione delle risposte
sociali attuali e future rivolte a ridurre la criminalità, compresi i programmi di trattamento e riabilitazione per
gli autori e di sostegno alle vittime.

L’Approccio Scientifico

Per studiare e spiegare il comportamento criminale e deviante possono essere utilizzati diversi approcci,
tuttavia l’approccio proprio della criminologia deve essere distinto dagli altri in quanto essa utilizza il
metodo scientifico nelle sue investigazioni. Nell’uso di questo metodo i criminologi seguono determinate
linee guida, le cui più importanti sono : l’obiettività, i dati fattuali, la precisione, la valutazione e la
verificazione.

1. Per massimizzare l’obiettività, lo studioso di criminologia deve stare in guardia dai propri “moti
d’animo”e questo è possibile solo attraverso un’adeguata formazione ad un prolungato
addestramento nell’approccio scientifico. Il ricercatore dovrà dunque far riferimento ai dati fattuali
emersi dalla ricerca e non a speculazioni personali o su nozioni di senso comune;

2. Il dato fattuale è l’unico valido sul quale si può basare un’indagine svolta attraverso metodo
scientifico, in quanto capace di fotografare con obiettività il fenomeno oggetto di studio;

3. La precisione in tutte le fasi di una ricerca ed in particolare nella raccolta e nella analisi dei dati
rappresenta una linea guida da rispettare con massima attenzione;

4. Ultimo elemento di un corretto approccio scientifico consiste nella valutazione critica e verificazione
da parte degli studiosi della materia.

Prospettive psicologiche in criminologia : rapporti con la criminalistica

Le applicazioni della psicologia al campo criminologico e giudiziario risultano piuttosto ampie e di grande
interesse : fin dagli studi di Lombroso possiamo individuare i fondamentali contributi delle discipline
comportamentali e della psicologia, in particolare, allo sviluppo del pensiero criminologico. I contributi
iniziali si riferiscono dunque alla psicologia criminale e a quella giudiziaria : scienze ben distinte nate dal
metodo sperimentale :

• La prima ha origine fin dalle prime ricerche in campo antropologico criminale e tende ad individuare
i diversi fattori psicologici che concorrono a determinare comportamenti antisociali, sia riguardo alle
caratteristiche della personalità dell’autore, sia in relazione alla componente psicologica della
condotta;

• La seconda invece, come affermava Sante De Sanctis, fra i primi fondatori della psicologia
giudiziaria, si occupa dello studio di tutte le figure che svolgono un ruolo nel contesto legale e
comprende al suo interno la psicologia della testimonianza e della confessione.

Importante sottolineare tuttavia come i contributi forniti dalla psicologia alla criminologia non si limitino
agli aspetti generali relativi ai fattori psichici che conducono alla commissione di un delitto e alla psico –
diagnosi del reo in sede giudiziaria : essi trovano infatti spazio anche nei campi applicativi della
criminologia, ad esempio quella clinica, trovando sempre più possibilità di utilizzazione. Va ricordato inoltre
che alcune brillanti intuizioni sul tema erano già presenti nei primi studi italiani di psicologia giudiziaria, in
cui si accennava agli aspetti psicologici del sopralluogo, ossia agli errori di valutazione cui può incorrere
l’esaminatore della scena di un crimine in base ai suoi processi psichici.

Da allora comunque si sono compiuti notevoli passi avanti tanto che oggi è possibile individuare la
psicologia investigativa come una delle discipline che si raggruppano sotto la denominazione di scienze
criminali o criminalistiche. A tal proposito importante ricordare come Filippo Grispigni distinguesse

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all’interno di tali scienze criminalistiche quelle 1) rivolte allo studio dei delinquenti e del reato da quelle 2)
rivolte allo studio delle norme giuridiche.

In risposta a tale classificazione, il Mantovani, penalista e studioso della criminologia, parla di una “ampia
categoria delle scienze criminali, nelle quali confluiscono discipline autonome ma aventi come comune
oggetto di interesse il crimine”. Secondo Mantovani, oltre alla filosofia e alla storia del diritto penale, tali
scienze comprenderebbero :

• Diritto Penale > complesso di norme che regolano l’applicazione del diritto penale sostanziale;

• Politica Criminale > studio ed elaborazione degli strumenti e dei mezzi per combattere il fenomeno
della delinquenza;

• Tecnica dell’investigazione criminale > studio dei mezzi suggeriti per l’accertamento del reato e la
scoperta dell’autore;

• Psicologia Giudiziaria > indagine delle manifestazioni psicologiche dei vari soggetti che
partecipano al processo penale;

• Psichiatria Forense > accertamento delle situazioni psichiche sia in rapporto al soggetto attivo, sia
in rapporto al soggetto passivo;

Il Saponaro, aderendo alla precedente analisi del 1979 di Mantovani relativa alle scienze criminali normative
e sperimentali, inserisce nelle seconde la Vittimologia, nata dalla criminologia, e definisce la criminalistica
come la disciplina che consente la scoperta del reato, la sua qualificazione e la identificazione dell’autore e
della vittima dello stesso. Tuttavia tale definizione appare eccessivamente estensiva e rischia di creare
confusione fra le diverse discipline.

I paradigmi sociologici

Nella seconda metà dell’800, lo sviluppo delle scienze biologiche, il pensiero evoluzionista darwiniano e lo
sviluppo industriale determinarono incisivi mutamenti nei rapporti sociali che imposero l’esigenza di
riflettere in termini scientifici sui problemi sociali, fino ad allora oggetto di riflessioni filosofiche. Da qui
nasce il positivismo sociologico, avente come precursore Auguste Comte, la cui visione era quella di una
società come sistema armonico, la cui dinamica non trae il suo principale impulso da istanze conflittuali ed i
cui elementi cercano di trovare un accordo fra di loro. Altra esigenza era quella di regolare i rapporti su basi
politiche di forza : si svilupperà a tal proposito un filone di studi sociologico – politici di fondamentale
importanza anche per le analisi sociologiche su criminalità e devianza. Risulta a questo punto utile
soffermarsi sul pensiero di Vilfredo Pareto, in particolare per quanto riguarda i concetti di Consenso e
Conflitto. Secondo il pensatore, partendo dalla constatazione che nel corso della storia il potere sia sempre
stato gestito da pochi, dunque dall’élite, è proprio dal rapporto che quest’ultima instaura con la massa
(governanti) che si realizzano i vari modelli di società. Sulla base di tali premesse possono comprendersi i
termini “Consenso”, quindi adesione ed appoggio all’azione dei governanti, e “Conflitto”, cioè opposizione
alla loro azione. Per quanto riguarda il consenso questo può avere carattere Assoluto o Totale, tuttavia
assume tali aspetti solo in pochissime società o piccole comunità. Pareto inoltre parla anche di consenso
Compromissorio, stipulato quindi sulla base di interessi, consenso Manipolatorio, quindi manipolato dai
vertici del potere, e Coatto, ossia ottenuto con l’uso della forza. In quest’ottica egli evidenzia come, per
poter realizzare una società coesa e funzionante, risulta necessario mirare ad un consenso di tipo assoluto, in
cui i singoli vengono coinvolti emotivamente : è infatti fondamentale, per tale costruzione, il processo di
interiorizzazione dei valori condivisi, che minimizza i conflitti e rende la società più stabile. Tuttavia, date le
difficoltà per raggiungere questo tipo di condizione, spesso i governanti tendono ad ottenere un consenso di
tipo compromissorio, tipico delle democrazie occidentali : è proprio qui che risiede l’aspetto principale del
Welfare State, che vede il gruppo al governo ottenere il sostegno garantendo prestazioni sociali. Per quanto

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riguarda il consenso manipolatorio invece, l’assenso si ottiene attraverso una serie di inganni, che l’élite
compie nei confronti delle masse. Nel consenso coatto infine l’élite necessita di un apparato mediante il
quale esercitare la forza per raggiungere la stabilità sociale : tuttavia se non si riesce a far rispettare le norme
imposte alla massa si crea il caos sociale e di conseguenza la massima instabilità. Per Pareto dunque, la
stabilità politica oscilla continuamente fra il consenso da valori e quello basato sull’uso della forza.

Il primo Paradigma Teorico da esaminare quindi è quello legato allo Struttural – Funzionalismo o
Prospettiva del Consenso, secondo il quale la società consiste in un insieme di unità interdipendenti, quindi
in un sistema di interrelazioni fra i singoli e le diverse istituzioni sociali. La relazione fra le parti è
caratterizzata dalla cooperazione e dall’accordo : quindi, se gli individui sono adeguatamente socializzati il
sistema sociale funzionerà in maniera regolare. La criminalità invece è vista come disfunzionale e come
conseguenza di attività individuali che interferiscono con i bisogni del sistema sociale. Altra interpretazione
paradigmatica deriva dalla Teoria del Conflitto, che ponte il suo punto di partenza nella diversità : tale
prospettiva quindi basa la sua premessa sul fatto che alcuni valori sociali sono in contrasto con altri e che tale
situazione produca criminalità. Molti settori della società competono per ottenere determinati beni, non a
caso la competizione è considerata la forma più elementare di interazione sociale, tuttavia è da tenere sotto
controllo poiché può scatenare conflitti e comportamenti criminali e devianti. Essenzialmente la teoria del
conflitto ruota intorno all’idea per cui chi stabilisce le regole e le norme, decida di fatto chi sia il criminale.
Altro paradigma è quello dell’ Interazionismo, che modifica ulteriormente le precedenti interpretazioni :
secondo quest’ottica infatti le persone affrontano ogni situazione sociale con determinate convinzioni
relative al significato del loro comportamento, per cui ogni volta queste convinzioni determinato il come ed
il perché dell’agire. Questo implica che i singoli possono comportarsi in maniera sia socialmente accettabile,
sia deviante o criminale. In altri termini, per l’Interazionismo simbolico, la definizione di “crimine” riflette
le scelte di chi detiene il potere sociale e lo utilizza per imporre la sua definizione di giusto o ingiusto sugli
altri attori sociali : di conseguenza i criminali sono coloro che la società va ad etichettare come tali o come
devianti per la violazione delle regole sociali.

Devianza e Criminalità, Diritto penale e Criminologia.

Per la criminologia il crimine è individuato come la forma più grave di comportamento deviante : per cui il
comportamento deviante è quello che non si conforma alle regole sociali e che viene meno alle aspettative di
un gruppo o una comunità, mentre per criminale si intende il comportamento che va a violare le leggi penali.
A questo punto risulta necessario interrogarsi sul perché si osservino le regole della cultura di appartenenza.
Sappiamo che in ogni società, gruppi di soggetti dominanti istituiscono un insieme di procedure e tecniche
al fine di garantire il mantenimento del controllo sociale e della conformità a regole e leggi : tutto questo
avviene principalmente attraverso il processo di socializzazione, consistente nell’interiorizzazione di valori,
credenze e modelli di comportamento.

• La prima forma di socializzazione avviene nell’habitat di nascita, nella famiglia quindi, dove i
minori apprendono un sistema di valori sulla base del quale decidono di fare o non fare azioni
approvate o disapprovate dagli altri : in questo modo la socializzazione porta allo sviluppo di un
sistema di controllo interiorizzato quale la coscienza autoregolante.

• Altro sistema per ottenere la conformità consiste nell’acculturazione, che consiste nel processo di
trasformazione culturale che si determina attraverso il contatto o l’influenza intensa fra due o più
gruppi culturalmente distinguibili.

Sappiamo inoltre che la conformità alle leggi e alle regole sociali si sviluppa anche grazie a numerosi
meccanismi esterni, sia formali che informali : le società più piccole si affidano a sistemi di controllo
informale. Per cui più le società sono complesse più viene introdotto il controllo formale, i cui meccanismi
consistono essenzialmente nel sistema di leggi scritte, nel potere legislativo e giudiziario, nelle forze di
polizia e nel sistema penitenziario. A tal proposito, possiamo evidenziare che le politiche di controllo sociale

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possono esprimersi con l’incentivazione, quindi premi e gratificazioni, la costrizione, punizioni e sanzioni, la
manipolazione, mass media e propaganda, la distrazione. Tuttavia, a parte le varie concettualizzazioni, è un
dato di fatto che i meccanismi esterni ed interni, mirati al mantenimento della conformità ed al controllo, non
siano mai completamente efficaci, tant’è che il comportamento criminale e deviante è riscontrabile in
qualsiasi tipo di società.

Gli studi criminologici, a seconda delle correnti di pensiero, si concentrano sia sulle azioni che rientrano
nella definizione legale di criminalità, sia sui comportamenti che appartengono alla definizione sociologica
di devianza. Questi due termini, spesso utilizzati come sinonimi, non sempre coincidono ma possono essere
individuati come due cerchi che si intersecano e che presentano un’area comune di comportamenti che
violano sia regole sociali che norme giuridiche. In ogni caso bisogna tener presente che il comportamento
deviante in senso lato, e quello criminale in senso stretto sono entrambi relativi nel tempo e nello
spazio : ciò significa che un fatto considerato reato o deviante in un determinato periodo storico può non
esserlo in un altro, oppure ciò che è considerato deviante o criminale all’interno di uno Stato può non esserlo
in un altro. Di fronte a tale constatazione, una delle funzioni della criminologia è appunto quella di
analizzare e mettere in evidenza, da una parte, quei comportamenti che risultano dannosi per la collettività e
che dunque necessitano una sanzione penale, e dall’altra sollecitare una revisione di atti considerati dalla
maggioranza ormai inoffensivi. Sulla base di queste variazioni relative ai concetti di devianza e criminalità,
sappiamo che il teorico Garofalo cercò di individuare una “Struttura di base dei delitti” valida in ogni
tempo e basata sulla lesione di fondamentali sentimenti comunitari : così arrivò a sviluppare la dottrina del
“Delitto Naturale”, un diritto che vale indipendentemente dalle diverse legislazioni positive. Tuttavia, al di
là di queste posizioni ideologiche, sappiamo che con l’avanzare delle ricerche sia sociologiche sia statistiche,
e con l’analisi storica dei fenomeni sociali, si sono iniziati ad individuare “fatti costanti” e “fatti variabili” :

1. Le costanti storiche si costituiscono in primo luogo dai “delitti naturali”, che sono quindi
immutabili nel tempo, in quanto offendono beni fondamentali in goni società. In secondo luogo
abbiamo il principio sanzionatorio, in base al quale l’azione antisociale prevede una riduzione delle
possibilità giuridiche del soggetto. In terzo luogo rimangono costanti le categorie razionali del
pensiero criminalistico, che rappresentano la base di ogni sistema penale moderno.

2. Nel settore delle variabili si rivelano le “cause scriminanti” che presentano, oltre ad una parte
costante, una vasta area di variabilità anche riguardo ai beni esistenziali. Per cui può variare la sfera
del “delitto naturale”, ma non può essere soppressa la sua essenza costante o essere elevata a diritto.
Basti pensare all’omicidio, che di per sé è sempre stato considerato un delitto, ma in determinate
epoche e all’interno di alcuni sistemi politici non ha rappresentato un’ipotesi criminale.

Importante evidenziare a questo punto come proprio riguardo alle varianti storiche il diritto penale, più di
ogni altro settore giuridico, si presti ad essere lo strumento più diretto per tutelare o per negare i diritti umani
fondamentali. Non è un caso dunque che su questo aspetto la criminologia svolga un ruolo non di poco conto
nell’individuazione dei meccanismi discriminatori e nel perseguire comportamenti antisociali. I risultati della
criminologia quindi, oltre all’approfondimento delle conoscenze relative alla genesi e allo sviluppo del
fenomeno criminale, possono offrire utili consigli all’operatore del diritto per modificare le norme di
controllo del suddetto fenomeno o per crearne di nuove.

Cap. 2 – Aspetti metodologici della ricerca criminologica

Come ben sappiamo ogni possibilità di misurare la criminalità dipende sia dallo strumento metodologico
adottato sia dalla “qualità” dei dati elementari a disposizione, quindi dal grado di oggettività che essi
possono assicurare. Ovviamente, se la rilevazione viene estesa a tutto il territorio nazionale, è necessario
accertarsi che i criteri di raccolta siano uniformi su un unico modello di classificazione e su un unico sistema
di procedure per la registrazione dei dati. Qualsiasi strumento metodologico pur raffinato infatti, urterebbe
inevitabilmente contro due ostacoli : i diversi criteri di rilevazione da paese a paese, e i differenti modelli di

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legislazione penale, e questo comporterebbe una classificazione dei fenomeni di devianza criminale con
divergenze tra i paesi comparati. A tal proposito, alcuni studiosi hanno ritenuto opportuno seguire un’altra
strada, procedendo a ritrattare statisticamente i dati dei singoli paesi, attraverso un’analisi minuziosa delle
diverse normative, al fine di conferire ad essi un contenuto giuridico uniforme e ricavare serie comparabili.
In questo caso, i criteri di base per la scelta dei reati che assumono funzione di “indicatori standard di
devianza” sono :

• Considerare solo fatti previsti come reati da tutte le legislazioni;

• Che siano rappresentativi dello standard di devianza caratteristico dei singoli paesi;

• Che siano di elevata frequenza relativa;

• Che risultino facilmente classificabili;

Altro problema, legato alla comparazione sia intranazionale che internazionale, sorge dal fatto che la
probabilità di denuncia non è uniforme fra gli Stati e, spesso, anche all’interno dello stesso paese, come nel
caso dell’Italia dove in alcune aree vige ancora la legge dell’omertà o della vendetta privata. Ulteriore
aspetto a cui può andare incontro un ricercatore, durante lo studio comparato della criminalità, riguarda la
relazione fra la popolazione studiata e la situazione politica sia del paese analizzato sia di quello del
ricercatore stesso : ogni ricercatore quindi non può condurre indagini senza tener conto delle implicazioni
politiche presenti nei suoi studi e nelle sue scoperte.

Come già accennato dunque, il compito principale della criminologia è quello di acquisire conoscenza sulla
devianza e sulla criminalità, sugli autori, sulle vittime, sui comportamenti devianti e sulla reazione sociale
che essi provocano, al fine di costruire modelli teorici di riferimento per la politica criminale e per la politica
generale di uno Stato. Lo scopo ultimo è quindi quello di fornire indicazioni per un’efficace attività di
controllo sociale, che tenderà a svolgersi lungo due direttrici principali. La prima direttrice consiste :

1. nella prevenzione primaria, che tenderà a ridurre la criminalità attraverso interventi di politica
sociale;

2. nella prevenzione secondaria, mirata invece a ridurre le iniziali espressioni di comportamento


deviante, soprattutto negli adolescenti;

3. nella prevenzione terziaria, tesa al recupero dei condannati per mezzo dei trattamenti risocializzativi
dentro e fuori dalle strutture penitenziarie.

La seconda direttrice invece riguarda le attività di repressione messe in atto dal sistema di giustizia penale,
quindi potere giudiziario, forze di polizia ecc.

La ricerca empirica : metodi e strumenti

Sappiamo che i criminologi utilizzano svariati metodi e tecniche per misurare specie e dimensione della
criminalità, e che i dati relativi possono essere raccolti sia conducendo ricerche empiriche con strumenti di
osservazione, sia analizzando e rielaborando dati statistici ufficiali già raccolti da altre fonti. Il punto di
partenza della ricerca è costituito dalla formulazione dell’ipotesi, che definisce a sua volta il campo di
indagine, e si basa su questioni empiricamente verificabili. Una volta formulata l’ipotesi da dimostrare, le
fasi successive vedranno lo sviluppo di :

• Analisi della lettura sull’argomento e commento critico dei risultati conseguiti da altre indagini;

• Scelta del metodo da utilizzare, influenzata quasi sempre dalla formazione del ricercatore e degli
strumenti;

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• A seconda del metodo, l’approccio può essere di due tipi : quantitativo e qualitativo. Il primo
tende a quantificare il fenomeno ed a rapportarlo ad altri indicatori sociali, e può essere a sua volta
esplicativo, mirato cioè a spiegare perché si verifichi un dato fenomeno, oppure descrittivo, volto
cioè a descrivere come esso di manifesti in un determinato periodo. Il secondo ha lo scopo di
studiare le caratteristiche, le similarità e le connessioni logiche e funzionali fra i fenomeni osservati;

• E’ sempre preferibile svolgere uno studio pilota, utilizzando lo strumento di rilevazione prescelto su
di un numero limitato di casi per controllare la funzionalità e tararlo sul campo;

• Raccolta dei dati attraverso lo strumento adottato : questionari, interviste, colloqui clinici, se la fonte
informativa sono le persone, oppure schede di rilevazione se si opera su materiale cartaceo;

• L’elaborazione dei dati viene eseguita attraverso i programma informatico prescelto tuttavia, nel caso
l’indagine si svolga manualmente, l’elaborazione può avvenire anche manualmente;

• I dati elaborati vengono poi sintetizzati attraverso rappresentazioni, tabelle, ortogrammi, diagrammi
in scala ecc : tale rappresentazione grafica dei dati ha il compito di rendere il contenuto dei dati più
evidente;

• La fase finale della ricerca consiste nell’interpretazione dei dati, da svolgere in maniera obiettiva,
seguendo la “generalizzazione empirica”, ovvero secondo proposizioni che mostrano come in un
certo tempo ed in un certo luogo alcuni fenomeni si verificano. Importante a questo punto
evidenziare come l’interpretazione dei dati svolge anche l’importante funzione di valorizzazione del
dato imprevisto ed anomalo, definito dagli studiosi americani la Serendipity. Con questo termine si
vuole proprio indicare la valorizzazione del dato nuovo, non previsto dall’ipotesi di ricerca, che
introduce un rapporto non direttamente osservabile e supera l’aspetto constatativo della
generalizzazione, al fine di raggiungere un livello più alto di tipo teorico.

In sintesi possiamo affermare che, attraverso l’indagine criminologica, si passa dal momento constatativo in
cui si analizzano gli aspetti direttamente osservabili di un fenomeno, al momento teorico – scientifico che
stabilisce leggi generali e teorie valide, possibilmente in ogni tempo e in ogni luogo.

Il questionario

Il questionario è un piano strutturato di domande che consente di verificare l’ipotesi di ricerca : esso viene
compilato direttamente dall’intervistato e viene spedito ad un campione specifico di persone considerate
rappresentative rispetto ad una popolazione più ampia. In criminologia si preferisce utilizzare questionari
poiché meno costosi rispetto ad altre forme di raccolta dati e perché permettono di ottenere informazioni da
un numero più elevato di soggetti, in un tempo relativamente breve. Tuttavia l’uso dei questionari presenta
alcuni problemi come il rifiuto di rispondere da una parte dei soggetti : infatti chi commette un reato o ne è
vittima può decidere di non fornire informazioni personali, e questo comporta chiaramente una serie di
conseguenze sui risultati della ricerca. Un secondo problema è costituito dal fatto che un numero
significativo di persone potrebbe fraintendere o non capire alcune domande, che possono presentare
difficoltà sia per la loro formula sia per la loro interpretazione. In ogni caso, alcuni problemi possono essere
superati mediante la tecnica della ripetizione delle stesse domande, parafrasando le parole o svolgendo uno
studio pilota. Inoltre sappiamo che il questionario può essere sviluppato con risposte “chiuse” od “aperte” : il
primo tipo presenta una compilazione più semplice, in quanto l’intervistato si limita a mettere una crocetta
sulla risposta scelta, il secondo tipo invece prevede che le possibilità di risposta non siano stabilite e quindi
la compilazione appare più difficile. Infine, la disposizione logica delle domande deve tener conto delle
eventuali reazioni psicologiche del soggetto : per questo motivo in ceri casi è preferibile richiedere i dati
personali dell’intervistati alla fine.

L’intervista

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Il metodo dell’intervista rappresenta un’altra modalità attraverso la quale ottenere i dati di ricerca :
l’intervista si basa essenzialmente sull’incontro fra un soggetto, che può essere un deviante, un detenuto o
una vittima di reato, e l’intervistatore e può essere condotta o faccia a faccia, o per telefono o per via
telematica. Differentemente dal questionario, che viene compilato in maniera autonoma, l’intervista è svolta
direttamente da un intervistatore addestrato, che pone le domande preparate appositamente. E’ chiaro che con
l’intervista i costi e i tempi di ricerca aumentino, questo aspetto tuttavia è compensato da una serie di
vantaggi : si elimina quasi totalmente il problema del rifiuto, si possono porre domande più personali,
l’intervistatore può riformulare o spiegare in modo più chiaro alcune domande, evitando così
fraintendimenti. Altro carattere peculiare dell’intervista riguarda il fatto che il rapporto che si instaura fra
intervistatore ed intervistato è una “relazione reciprocamente condizionata”, ciò significa che il
comportamento dell’uno è influenzato da quello dell’altro. Infine, è importante sottolineare che esistono due
tipi di intervista , quella strutturata e quella semistrutturata. La prima si basa sull’uso di un questionario, che
permette di raccogliere un certo numero di informazioni principali dalle persone scelte per l’indagine.
Questo documento dovrà essere predisposto per soddisfare due esigenze fondamentali : trasformare in
domande specifiche gli obiettivi della ricerca, e prevedere l’elaborazione dei dati in rapporto ad essi. Per
quanto riguarda l’intervista semistrutturata invece, sappiamo che prende le mosse da uno schema di massima
con l’indicazione di aree tematiche obbligatori : all’interno di queste aree il colloquio si sviluppa in base
anche alle risposte dell’intervistato. Dal punto di vista metodologico, è molto simile all’intervista libera o
colloquio in profondità, dove prevale la tecnica della non direttività : sappiamo che con essa si sviluppa una
grande apertura e un calore comunicativo da parte dell’intervistatore, che permette al soggetto di esprimere
sentimenti ed opinioni rispetto alle quali egli tende ad assumere un atteggiamento di opposizione.

E’ possibile dunque affermare che l’intervista, seppur offra una minore garanzia di anonimato, presenta
comunque il grande vantaggio di essere più flessibile, di ottenere risposte più spontanee e complete,
contrariamente da quanto si verifica nelle ricerche con questionari.

Ulteriore riferimento indica l’uso dell’intervista di gruppo, che risulta molto utile per ottenere informazioni
più obiettive e dettagliate su determinate strutture organizzative. Il gruppo, in particolare quando si tratta di
indagini mirate alla modifica di condizioni lavorative, diviene uno “strumento di potere” : attraverso di esso
infatti si cerca di esercitare una forma di pressione per un cambiamento. Altro aspetto importante delle
interviste di gruppo riguarda le dinamiche che si verificano al suo interno e che possono rappresentare
espressioni della sua “cultura”. Fra i meccanismi di difesa possiamo riscontrare :

• la “ fuga nel passato “ per evitare argomenti ansiogeni attuali;

• la “ confusione di ruolo “, ovvero la tendenza di alcuni intervistati ad assumere la conduzione al


posto dell’intervistatore;

• la “ fuga nella virtù ” caratteristica dei soggetti meno aggressivi che dimostrano una dipendenza
meno passiva e possono assumere il ruolo di “ assistente del conduttore “, spiegando agli altri il
significato delle domande, ed infine la “ formazione di sottogruppi “, dovuta spesso ai diversi vissuti
o alle differenti classi di età;

Passando poi all’individuazione dei così detti “ episodi di gruppo “:

• il primo è quello definito dei “ silenzi “, che può rappresentare una situazione stimolo in cui si
proiettano atteggiamenti, speranze e paure;

• si possono poi sviluppare episodi di “ aggressività “, sia nella forma latente con atteggiamenti
passivi e risposte povere o monosillabiche, sia nella forma manifesta, con comportamenti di
coinvolgimento e irritazione;

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• abbiamo poi episodi di “ risonanza “, che vedono il crearsi una sorta di lunghezza d’onda delle
problematiche discusse da un individuo all’altro : questa dinamica permette anche di individuare la
leadership del gruppo, che può manifestarsi in maniera fissa o variabile;

• altro episodio riguarda il fenomeno definito “ sala specchi “, per effetto del quale ciascun membro si
riflette negli altri, che fungono da punto di riferimento continuo.

La ricerca sperimentale

Anche nel campo della criminologia si utilizza, seppur di rado, il metodo rigoroso della sperimentazione
controllata, che consiste nel mantenere controllati o costanti tutti i fattori e le condizioni che si ritiene
influenzino i risultati dell’esperimento. Possiamo portare come esempio il fatto che alcuni studi criminologo
– clinici si siano indirizzati nella ricerca di terapie farmacologiche per ridurre aggressività e comportamento
deliquenziale dei minori. Tuttavia, l’applicazione del metodo sperimentale in questo campo implica l’uso di
due gruppi di soggetti : uno sperimentalo o campione, e l’altro di controllo. Entrambi dovranno essere simili
per età, quoziente intellettivo, sesso, classe sociale ed altre caratteristiche associabili all’aggressività ed al
comportamento deviante. Al gruppo testato viene somministrato il farmaco, mentre al gruppo di controllo
viene somministrata, senza che esso lo sappia, una sostanza innocua e solo dopo tale operazione vengono
controllati i differenti comportamenti aggressivi fra i due gruppi. Per cui verranno svolte per entrambi i
gruppi determinate misurazioni del comportamento aggressivo dopo l’assunzione del farmaco, e confrontate
con quelle fatte prima del trattamento. Tuttavia, sebbene questo modello metodologico viene considerato
“ideale” ed estremamente rigoroso, il suo utilizzo in criminologia è abbastanza limitato in quanto può
risultare particolarmente costoso in termini di tempo e denaro.

L’osservazione diretta e partecipante

Nell’osservazione diretta, sappiamo che il criminologo rimane sullo sfondo, quindi fuori dal gruppo oggetto
di studio : infatti, considerata la difficoltà di osservare direttamente i comportamenti, il ricercatore utilizza
specchi unidirezionali, visori notturni, videocamere e registratori. Di tutt’altra struttura è invece quella
definita osservazione partecipante che si sviluppa nel momento in cui l’osservatore viene accettato e si
unisce direttamente alla vita del gruppo o comunità di studio. Si tratta di una forma di osservazione che
permette di entrare a pieno nello stile di vita del gruppo : questo permetterà di conoscere e capire il mondo
dal punto di vista dei soggetti osservati. Il rischio tuttavia in cui si può intercorrere procedendo con questo
metodo, sta nel fatto che si possa arrivare ad un’interpretazione neutrale della realtà, priva di una
connotazione critica ed esplicativa : può quindi accadere che “l’osservatore partecipante” diventi un
“partecipante non osservatore“.

Studio di casi, metodo longitudinale e studi predittivi

Lo studio del caso o dei casi consiste nell’analisi intensiva di un singolo individuo o di un gruppo : tale
analisi può far riferimento ad un preciso momento storico o ad un periodo di tempo più o meno lungo,
parleremo in questo caso di studio longitudinale, che permette di cogliere a pieno l’evoluzione di un
fenomeno. L’indagine longitudinale, se svolta in retrospettiva, risulta molto utile per spiegare lo
svolgimento delle carriere criminali, se svolta invece in prospettiva permette di analizzare l’efficacia delle
misure di trattamento e recupero sociale dei condannati. Sappiamo che fra le opere più famose in questo
campo è possibile citare le numerose ricerche svolte dai coniugi Glueck, mirate ad individuare i fattori
familiari – situazionali ed individuali più frequenti nei giovani delinquenti. L’analisi svolta dai due è iniziata
con la comparazione “ a tappeto “ di insiemi di minori delinquenti, che rappresentavano il campione, e non
delinquenti, che rappresentavano il gruppo di controllo, nati nella stessa città e nello stesso anno e
frequentanti la stessa scuola, per poi passare alla comparazione di più insiemi dello stesso genere, ma nati in
anni diversi, al fine di distinguere i fattori determinati dagli effetti della crescita da quelli derivanti dal
periodo storico. Importante evidenziare che proprio dalle ricerche svolte attraverso il metodo longitudinale

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sono poi derivati gli studi predittivi, che consentono di elaborare le cosiddette “ tabelle di predizione “, in
base ai fattori o alle variabili maggiormente riscontrate nei delinquenti o più frequentemente collegate al
comportamento deviante. Chiaramente queste tabelle non permettono di stilare una prognosi sul
comportamento futuro della singola persona, ma consentono una selezione dei fattori potenzialmente
predittivi. La predizione di massa, infatti, può condurre a 4 tipi di risultati :

1. Vero positivo : l’evento predetto si verifica;

2. Vero negativo : si predice che l’evento non avviene e non si verifica;

3. Falso positivo : l’evento predetto non si verifica;

4. Falso negativo : si predice che l’evento non avviene e invece si verifica;

E’ chiaro che passando dall’analisi di massa a quella individuale è più probabile si ottengano risultati di falso
negativo o positivo, mentre nella predizione di gruppo vi è una probabilità più elevata di veri positivi e
negativi.

Successivamente Le Blanc e Frechette, sulla base di uno studio effettuato su una casistica di giovani
delinquenti, hanno individuato una serie di fattori che emergono nelle carriere criminali ed in particolare nel
passaggio dalla delinquenza minorile a quella adulta. Questi fattori sono :

• Precocità, età di inizio della delinquenza;

• Volume, numero dei delitti commessi;

• Varietà, tipologie dei delitti commessi;

• Durata, periodo di tempo compreso fra l’inizio e la fine dell’attività criminale;

• Gravità, numero dei delitti ponderato per la gravità legale di ogni delitto;

• Sequenza o aggravamento, progressione dai delitti meno gravi ai più gravi;

• Violenza, numero dei delitti contro la persona, comprese le rapine;

Per cui, partendo da queste determinanti della delinquenza in età minore si può prevederne l’evoluzione in
età adulta. Tuttavia, in tempi più recenti, molti studiosi hanno cercato di individuare i precursori dei
comportamenti devianti in adolescenza, al fine di elaborare programmi preventivi. I fattori di rischio
individuati come i più rilevanti sono i seguenti :

• Scarse competenze educative da parte dei genitori;

• Basso reddito;

• Problemi psichiatrici dei genitori;

• Conflittualità genitoriale;

• Scarso coinvolgimento dei genitori nelle esperienze scolastiche dei figli;

• Tossicodipendenza dei genitori;

• Gravidanza precoce;

• Disturbi del comportamento nei bambini;

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• Deficit di attenzione e iperattività nei bambini;

Il dato interessante che emerge da questi studi è che lo stile educativo genitoriale è fondamentale nella
formazione di comportamenti e sentimenti empatici nei bambini, la cui assenza è evidente nella personalità
di adulti antisociali e devianti.

La ricerca storica

La ricerca storica, definita da Delogu come Metodo Storico, è un modello di ricerca utilizzato negli studi di
criminologia storica, che consiste essenzialmente nell’indagare su fenomeni criminali del passato.
Importante evidenziare come l’ utilizzo di questo metodo presuppone delle conoscenze non solo
criminologiche bensì anche relative alla storia nei suoi vari aspetti. Le prime applicazioni di questo metodo
in camp criminologico risalgono al periodo compreso fra la seconda metà dell’800 ed i primi del ‘900. A tal
proposito è necessario segnalare una serie di opere come quella di Avé – Lallemant relativa alle classi
criminali tedesche, dalla loro origine sino al periodo a lui contemporaneo; quella di Pike relativa alla storia
del crimine; ed infine quella di Umberto Dorini sul diritto penale e la criminalità nella Firenze del XIV
secolo, opera che può considerarsi il vero primo modello di ricerca criminologica secondo il metodo storico.

Per quanto riguarda le fasi che ogni criminologo deve seguire nell’applicazione di questo metodo, sappiamo
che la prima fase è quella del reperimento e della descrizione dei dati storici : il criminologo dovrà dunque
raccogliere il maggior numero possibile di dati sui delitti, descrivere poi sulla base di questi dati le forme di
manifestazione dei reati, le modalità, la frequenza e le caratteristiche socio – demografiche dei loro autori.
Egli tuttavia non può arrestarsi a questo punto, dovrà dunque andare oltre cercando di penetrare nella verità
interiore e di interpretarla.

Infine, è importante evidenziare come il metodo storico presenti delle difficoltà applicative. In primo luogo
sappiamo che l’esito positivo dipende da una perfetta conoscenza delle non poche teorie esplicative del
delitto : infatti, in mancanza di queste conoscenze il ricercatore rischierebbe di stravolgere il significato dei
fatti per porli in sintonia con la sia “teoria”. In secondo luogo è necessario avere un’effettiva conoscenza del
periodo storico nel quale si sono svolti gli eventi : per cui solo rispettando queste condizioni la spiegazione
dei fenomeni criminali del passato può essere attendibile e perciò utile.

Sappiamo che numerosi possono essere i possibili oggetti di ricerca : parliamo quindi del delinquente, del
delitto, il controllo della criminalità ecc. Attraverso il metodo storico quindi si può indagare sull’evoluzione
storica di un tipo determinato di realtà. Tuttavia, per completezza di esposizione, è sempre utile sotto il
profilo metodologico, affrontare il problema relativo al campionamento degli oggetti di ricerca, in quanto
può sussistere una non corrispondenza fra le figure delittuose del presente e quelle del passato. Non è un
caso che, a seconda del loro rapporto di coincidenza o di divergenza, i delitti possono essere divisi in tre
classi :

1. Nella prima classe troviamo i delitti che sono espressione di un mondo giuridico culturale
incompatibile con quello attuale, si tratta di tipici reati di stregoneria, delitti di eresia e di esercizio
delle arti magiche.

2. Delitti della seconda classe sono quelli frutto dell’evoluzione della tecnologia, e che dunque non
trovano un riscontro nella storia : si parla della pirateria aerea, dell’offesa alla privacy, ecc.

3. Nella terza classe rientrano i tipi di criminalità tradizionale, che sono sempre esistiti e sempre
esisteranno : parliamo dei delitti contro la persona, contro la famiglia, lo Stato ecc.

Ulteriore difficoltà alla quale il ricercatore deve far fronte riguarda la criminalità storica che risulta mutilata
di quegli strumenti che sono invece considerati essenziali dalla criminologia attuale, ovvero le statistiche
criminali. Questo aspetto giustifica la presenza di un numero oscuro ancora più rilevante, determinato

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proprio dall’assenza di apposite strutture mirate alla raccolta dei dati statistici nonché dalla mancata denuncia
di molti crimini. Tuttavia, seppure si presenta questa condizione, un ricercatore accorto riuscirà comunque ad
aggirare tale ostacolo servendosi del proprio bagaglio culturale, al fine di approdare alla ricostruzione di un
dato fenomeno.

Sappiamo poi che, a fine puramente sistematici, è possibile attuare una distinzione fra fonti giuridiche e non
giuridiche : nelle prime facciamo rientrare le leggi, gli statuti, i regolamenti e le ordinanze, per quanto
riguarda le seconde invece sappiamo che queste possono distinguersi in letterarie e criminologiche, alle quali
appartengono le storie della criminalità di carattere sia generale sia parziale. Anche le fonti letterarie, insieme
a quelle storiche, forniscono svariato materiale, in particolare biografie e autobiografie che trattano
personaggi distintisi per le loro gesta criminali.

Tornando alla funzionalità del metodo storico, spesso si tende ad obiettare che tale modello presenti uno
scarso valore pratico ed applicativo. Tuttavia, seppure da una parte questo metodo incontra un limite
insuperabile negli studi predittivi, dove nessun contributo fornisce alla formazione delle relative tabelle,
dall’altra esso si è rivelato uno strumento capace di confermare, smentire o correggere convinzioni ormai
radicate, soprattutto in relazione alle situazioni politico – sociali connesse al delitto. Non è un caso che
nell’esperienza pratica si sia giunti a sconfessare quelle che possono essere definite le teorie monocausali
della delinquenza.

Le statistiche ufficiali in Italia

Sappiamo che le ricerche criminologiche possono basarsi anche su dati cosi detti “secondari”, quindi
raccolti da organizzazioni private e pubbliche, fondazioni ed agenzie del controllo sociale. Questi dati,
solitamente rilevati su larga scala, hanno come vantaggio quello di permettere al ricercatore di risparmiare “
tempo e denaro “, ma come svantaggio quello di non offrire informazioni dettagliate, poiché sono dati
raccolti per fini amministrativi e non per una particolare analisi criminologica. A tal proposito, sappiamo che
nella letteratura criminologica si sono opposte due correnti di pensiero riguardo la validità o meno delle
statistiche ufficiali : la prima è detta Realistica, e ne enfatizza l’attendibilità conoscitiva della realtà
criminale, la seconda è detta Istituzionalista e ritiene che tali statistiche vadano più che altro considerate
come prodotti delle agenzie che se ne occupano. Ovviamente, a prescindere da quale sia l’impostazione,
sappiamo che si deve far ricorso ad entrambe per avere un quadro sufficientemente indicativo

dell’evoluzione nel tempo della criminalità e del relativo atteggiamento della repressione penale. Infine
risulta importante evidenziare che è l’Istituto Nazionale di Statistica ISTAT a pubblicare annualmente
un Annuario di Statistiche giudiziarie penali, in cui vengono riassunte le rilevazioni eseguite in materia
penale. Esse si possono suddividere in due grandi categorie :

• La prima categorie è riferibile all’attività dei vari organi della giustizia penale, come la statistica
processuale penale e la statistica della criminalità;

• La seconda categoria riguarda invece le rilevazioni in materia penitenziaria, che però da alcuni
anni sono reperibili direttamente sul sito del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

La statistica processuale

Le statistiche processuali penali possono essere considerate un’unità piuttosto complessa in quanto composte
da un insieme di unità semplici, come l’attività degli organi giudiziari, il reato, l’imputato, il provvedimento,
il condannato e così via. In questo caso i dati vengono trasmessi all’ISTAT dalle cancellerie e dalle
segreterie dei diversi uffici giudiziari mensilmente o trimestralmente. Altro aspetto importante da evidenziare
riguarda il fatto che negli Annuari, fino al 2004, era presente anche la statistica processuale militare : le

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rilevazioni riguardavano solo i procedimenti di competenza della magistratura militare ed i provvedimenti
adottati.

La statistica della criminalità

Altro dato da prendere in considerazione riguarda gli imputati e i reati che, come sappiamo, si distinguono in
delitti e contravvenzioni che tuttavia, dal 1968, l’ISTAT non rileva più in quanto ritenute di scarso rilievo
per gravità e pericolosità sociale. Per cui da quell’anno si hanno solo tabelle, a doppia e tripla entrata, che
indicano i delitti denunciati e le persone denunciate secondo le seguenti variabili :

1. Specie e delitto, secondo la rubricazione del codice penale e di alcune altre leggi;

2. Luogo del commesso reato;

3. Provincia e regione del commesso delitto;

Delle persone denunciate sono poi specificate le donne ed i minori degli anni 18. Sicuramente un aspetto
importante relativo alle persone denunciate è dato dall’incidenza del numero di delitti di autore ignoto sul
totale complessivo, in quanto rileva come fosse uno degli indicatori del funzionamento dell’apparato della
polizia giudiziaria. A queste vanno poi aggiunte le rilevazioni sulle persone denunciate di cittadinanza
straniera per gruppi di delitto, sesso e Paese, e per regione del commesso delitto, a cui si è iniziata a porgere
metodicamente l’attenzione a partire dal 1988, in concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso
l’Italia e l’insorgenza dell’immigrazione clandestina. Ovviamente il numero degli imputati denunciati non
corrisponde a quello dei delitti denunciati, per il fatto che alcune persone possono essere denunciate per più
di un delitto e per la notevole aliquota di autori ignoti.

I condannati

Sappiamo che l’ISTAT fornisce anche dati relativi ad imputati condannati, tuttavia tale rilevazione riguarda
l’insieme degli individui condannati in qualsiasi fase o tipo di giudizio con riferimento al momento in cui
diviene irrevocabile il provvedimento di condanna. In caso di concorso di delitti, il condannato viene
registrato con riferimento al delitto per il quale è prevista la pena più grave, mentre in caso di concorso di
contravvenzioni, viene classificato in base alla prima commessa iscritta nel casellario. Infine, in caso di più
reati non in concorso fra loro, il soggetto risulta tante volte per quante sono le sentenze irrevocabili di
condanna che sono state pronunciate a suo carico. Importante evidenziare come anche in questo tipo di
rilevazione sono previsti i dati disgiunti per i minorenni condannati e per i soggetti nati all’estero. E’ chiaro
quindi che l’insieme dei dati fin qui descritti permette di svolgere un’analisi non solo quantitativa sulla
dimensione della criminalità registrata in Italia, bensì anche qualitativa sulle tipologie di reato e su alcune
caratteristiche socio – demografiche dei soggetti attivi.

Sappiamo inoltre che a partire dal 2004 è stato istituito il sistema informativo SDI – Sistema di Indagine, che
ha unificato i dati a livello interforze e su scala nazionale : si tratta essenzialmente di una banca di dati in cui
vengono raccolte le informazioni sui reati e su ogni altro fatto di interesse per le forze di polizia. Questo
modello quindi risulta molto dettagliato ed utile sia ai fini investigativi, che per la ricerca criminologica.

Le statistiche penitenziarie

Tali statistiche riguardano la rilevazione del movimento dei detenuti nei vari stabilimenti carcerari e le
caratteristiche socio – demografiche della relativa popolazione : sappiamo in particolare che è possibile
conoscere sia il movimento in entrata che quello in uscita negli istituti penitenziari, distinti per categoria, sia
la situazione dei detenuti ed internati ad dato momento. Risulta ora necessario descrivere l’organizzazione e
l’articolazione degli istituti, secondo quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario. Essi si distinguono in :

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1. Istituti di custodia preventiva : istituti utilizzati per la custodia di persone fermate o arrestate
dall’autorità di pubblica sicurezza o dagli organi di polizia giudiziaria e per i detenuti e internati in
transito;

2. Istituti per l’esecuzione delle pene, che sono le case di arresto e le case di reclusione : in essi sono
reclusi i condannati alla pena dell’arresto o della reclusioni;

3. Istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive : dove vengono internate le persone
socialmente pericolose.

Sappiamo inoltre che con la legge numero 81 del 2014 è stata disposta la chiusura degli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari e che in particolare l’articolo 1 stabilisce che il giudice disponga nei confronti
dell’infermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico
giudiziario. Di conseguenza, i cosi detti internati, devono essere ospitati presso strutture residenziali socio
sanitarie denominate “ residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza “ ossia REMS, istituite a livello
regionale. Per quanto riguarda invece gli istituti per minorenni, sappiamo che il vigente codice di procedura
penale minorile li distingue in : istituti penali per minorenni, che accolgono minori imputati e condannati per
gravi delitti, centri di prima accoglienza per minori arrestati.

I dati sui suicidi

E’ importante evidenziare come negli Annuari delle Statistiche Giudiziarie Penali siano presenti da molti
anni i dati sui suicidi e tendati suicidi, distinti per provincia e regione e secondo alcuni caratteri. Questo
argomento, il suicidio quindi, seppur non rientra nei comportamenti criminali, ha destato da sempre
l’interesse dei criminologi, in quanto manifestazione di un malessere sociale e perciò di “devianza o
patologia sociale”. A tal proposito è bene ricordare Enrico Morselli il quale, introducendo il termine
“autochiria” per denominare il suicidio, ne studiò le variazioni. Inoltre sappiamo che le sue osservazioni
poi, insieme a quelle di altri, hanno ispirato l’opera di Emile Durkheim : quest’ultimo infatti, per spiegare il
fenomeno, si concentrò in particolare sulle motivazioni più sociali, introducendo il concetto di “Correnti
Suicidiogenetiche”, quali confessione religiosa, stato civile, condizioni economiche e politiche ecc.
Durkheim tuttavia evitò di tracciare una connessione diretta fra tali condizioni e la frequenza del suicidio,
sostenendo invece che esso variasse tendenzialmente in ragione inversa del livello di integrazione della
società religiosa, politica e domestica. Per questo motivo egli distinse il suicidio in Altruistico, ovvero
quando l’individuo si identifica con i valori e gli ideali del gruppo di appartenenza e si sacrifica per fini
sociali, Egoistico, quando il soggetto non è integrato nella società in maniera adeguata, ed infine Fatalista,
quando si sente legato ad un destino. L’interesse per questo tema è poi proseguito nel tempo, sia dal punto di
vista sociologico – statistico, sia da quello psicologico, prendendo sempre ispirazione da vari classici.

Problemi e limiti delle statistiche giudiziarie

Come ben sappiamo, l’accuratezza e la validità delle statistiche ufficiali, come fonte di dati, sono state messe
più volte in discussione negli studi criminologici : se infatti da una parte offrono un’ampia gamma di
informazioni, dall’altra non risultano poi così esaustive ai fini di una ricerca in profondità. Fra le prime
critiche formulate abbiamo quella riguardante il fatto che tali dati ufficiali si riferiscano ai termini legali, che
sarebbero inadeguati, in certi casi, per l’indagine scientifica , ed inoltre essi si basano solo su reati venuti a
conoscenza dalle agenzie del controllo sociale. A tal proposito sappiamo che Quetelet e Guerry, considerati
pionieri nello studio delle “statistiche morali”, hanno sostenuto l’esistenza di crimini non registrati e di un
numero oscuro della criminalità che sfuggiva alle statistiche ufficiali. E’ quindi da tener presente che la
ricerca criminologica, basata su dati ufficiali, analizza soltanto comportamenti considerati criminali
da un’assemblea rappresentativa, costituita proprio con il fine di stabilire le norme.

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Altro aspetto da tener presente riguarda il problema del “Numero Oscuro”, che consiste essenzialmente nel
numero di reati effettivamente commessi in un determinato contesto sociale, ma che rimangono non scoperti,
non denunciati e non registrati. A tal proposito sappiamo che Corrado distingue fra criminalità :

1. Reale : è quella realmente esistente nel contesto sociale, e che non risulta nelle statistiche
giudiziarie in quanto sfugge a rilevazioni;

2. Apparente : costituisce l’oggetto effettivo delle rilevazioni perché denunciata;

3. Legale : riguarda quell’insieme di reati che vengono portati in giudizio e per i quali si emette una
sentenza;

Anche Ambroset e Pisapia hanno individuato, nell’analisi della criminalità occulta, 4 categorie più altre 2
aggiunte successivamente :

• Il numero oscuro delle attività criminali;

• Il numero oscuro della popolazione criminale;

• Il numero grigio della popolazione criminale;

• Il numero oscuro delle carriere criminali;

• Il numero oscuro e il numero dell’errore giudiziario.

Relativamente al primo punto, sicuramente l’aspetto più interessante è rappresentato dai tentativi di
classificazione delle situazioni in cui i reati non vengono segnalati o denunciati. Secondo McClintock, le
ipotesi più frequenti sono riscontrabili nei casi in cui :

1. la vittima acconsente, per paura, vergogna ecc;

2. la vittima considera il reato subito di lieve entità per sporgere querela e vuole evitare spese
processuali;

3. l’autore e la vittima sono legati da un rapporto di parentela o affinità tale che la parte lesa non vuole
nuocere al primo;

4. la vittima subisce il reato in una situazione pregiudiziale per la sua immagine ;

5. la vittima è intimidita o ricattata e minacciata dall’autore;

6. la vittima preferisce un sistema privato di giustizia, ad esempio guardie giurate per furti nei grandi
magazzini;

7. la vittima ha un atteggiamento ostile nei confronti delle autorità o appartiene anch’essa ad una sotto
cultura criminale;

8. la vittima non approva l’eventuale sanzione che subirebbe il reo;

9. la vittima non considera efficace l’opera delle forze di polizia;

10. il testimone non vuole essere coinvolto nel processo penale perché ritiene che il fatto non lo riguardi;

11. la vittima non sa di essere implicata in un fatto illecito;

Passando poi alla categoria relativa al numero oscuro della popolazione criminale, sappiamo che esso si
costituisce di quei casi in cui il reato è registrato nelle statistiche ufficiali ma l’autore o gli autori non

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vengono identificati : si tratta di un’analisi molto utile nella valutazione delle varie tipologie di delitti in base
alla loro gravità. Nel numero grigio della popolazione criminale si fanno invece rientrare quei soggetti
arrestati o imputati che non arrivano ad una sentenza di condanna per svariati motivi, ad esempio perché
prosciolti in fase preliminare o beneficiati dal perdono giudiziale.

Come già delineato, sappiamo che Ambroset e Pisapia hanno preso in considerazione altre due categorie che
sono state trascurate negli studi criminologici :

• il numero oscuro dell’errore giudiziario : che riguarda i soggetti condannati che, dopo la revisione
del processo risultano innocenti;

• il numero grigio dell’errore giudiziario : che riguarda i condannati innocenti che non ottengono la
revisione del processo o che subiscono la condanna per non denunciare i veri responsabili.

Tuttavia, seppur il numero oscuro rappresenta un problema fondamentale per gli studi sui dati ufficiali della
criminalità, è bene evidenziare che non sia l’unico : infatti altro aspetto critico non meno importante,
riguarda l’accuratezza con cui vengono registrati i reati da parte delle forze dell’ordine o delle cancellerie
giudiziarie. Ulteriore grave lacuna è rappresentata dall’assenza di rilevazioni sulle vittime, sulle
contravvenzioni e sui reati minori, tuttavia sappiamo che per la prima si cerca di colmare attraverso la ricerca
empirica basata su questionari di vittimizzazione. Si tratta di un tipo di indagine che assume il punto di vista
della vittima e permette di risalire al numero di reati che ha subito, nonché di rilevare il contesto socio –
ambientale in cui vive. Proprio per questo motivo dunque l’ISTAT ha avviato dal 1997 un’indagine di
vittimizzazione, denominata Indagine sulla sicurezza dei cittadini che tende a definire l’entità e la
diffusione della criminalità rispetto ai reati rilevati a valutare la percentuale del sommerso, ad evidenziare
quali sono le categorie della popolazione sottoposte ad un maggiore rischio di furto, aggressione o rapina, ed
infine ad individuare le modalità attraverso le quali si sono verificati. Per quanto riguarda invece le
violazioni meno gravi, le notizie mancanti possono essere reperite mediante le indagini svolte con
questionari di autodenuncia, detto anche metodo del Self – Report, che tuttavia soffrono di alcune criticità
come l’affidabilità e la validità dei risultati dovute alla sincerità degli intervistati.

Gli indici di gravità dei reati

Sappiamo che le misure statistiche della criminalità si distinguono in 3 tipi :

1. le frequenze assolute dei delitti denunciati;

2. le frequenze riferite alla popolazione;

3. i numeri costruiti su aggregati di delitti, tenendo conto della loro gravità;

Quest’ultima classe riveste un’importanza primaria : gli aggregati convenzionali, ai quali si riferiscono gli
indici, si ottengono sommando i delitti delle varie categorie, dopo averne moltiplicato le frequenze per un
coefficiente di ponderazione atto ad esprimere la gravità relativa. Per cui gli indici di criminalità consentono
di valutare le variazioni della gravità delle manifestazioni criminose, e nascono proprio come esigenza di
rendere conto dei mutamenti sostanziali di gravità del reato, aspetto che prima non veniva evidenziato dai
meri rilevamenti numerici o quantitativi.

Importante evidenziare che il primo tentativo di costruire un indice di criminalità lo dobbiamo a


Messedaglia, nella sua nota interpretazione delle statistiche criminali dell’Impero austriaco : egli delineò la
nozione di “statistica morale” con la quale andò a riconoscere nelle statistiche criminali il sintomo più

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significante della moralità di un popolo. Tuttavia l’autore, seppur abbia avuto il merito di aver per primo
tentato la costruzione di un indice di criminalità, è stato molto criticato e in particolare per due ragioni : egli
ha escluso dal suo computo i reati puniti con la pena di morte e quella perpetua, che rappresenta invece la
parte più grave della delinquenza totale; la seconda si riferisce all’arbitrarietà di una media asimmetrica fra
massimo e minimo di ogni tipo di pena temporanea. Il metodo di Messedaglia fu ripreso successivamente da
Zigali, che lo utilizzo per misurare l’ammontare delle pene inflitte non rilevato dalla statistica giudiziaria,
che sappiamo forniva il numero dei condannati divisi per classi di pena. Egli calcolò così la media aritmetica
per ogni classe e la moltiplicò per il numero dei condannati della relativa classe : il totale di pena per ogni
classe quindi dava il peso della delinquenza della classe stessa, mentre il totale generale registrava il peso
della criminalità complessiva in un determinato anno. Quindi è possibile affermare che l’indice di Zigali si
differenzia da quello di Messedaglia perché tiene conto della pena detentiva perpetua, tuttavia anch’esso non
considera le pene pecuniarie senza alcuna valida ragione e per questo è soggetto a critiche.

A tal proposito sappiamo che De Castro chiarì la funzione che deve avere un indice di criminalità : riteneva
infatti che l’indice servisse per la comprensione del fenomeno e per seguirne l’andamento, considerando che
la sua complessità e quella delle statistiche ufficiali non ne permettevano una visione sintetica. Egli si
occupò poi dello studio degli indici di criminalità anche sotto l’aspetto della criminalità qualitativa,
apportando una serie di novità : finché si considerava quella quantitativa, si poteva sapere solo se i delitti nel
loro complesso aumentassero, diminuissero o rimanessero costanti. Invece, con lo studio di quella qualitativa
si può esprimere un giudizio sul reale andamento della criminalità, osservando in più se questa si sia
aggravata o scemata. L’operazione da eseguire quindi per poter calcolare quali siano le variazioni della
criminalità complessiva consistono dell’andare a moltiplicare ogni anno il numero di reati di ciascuna specie
e dividere il risultato per la somma di reati commessi in un anno.

Possiamo quindi affermare che la statistica criminologica inizia ad evolvere quando, oltre ai dati quantitativi,
si iniziò ad indagare sulla possibilità che questi ultimi divenissero espressione di valori e di valutazioni
qualitative : i ricercatori, resisi conto della necessità di misurare la gravità dei reati infatti, avvertirono il
bisogno di ricorrere ad un numero indice che potesse misurarla effettivamente. Tra i fattori che concorrono
alla costruzione di questo indice troviamo il sistema di peso, ovvero il criterio attraverso il quale valutare la
gravità relativa dei reati oggetto di indagine. A tal proposito è importante evidenziare che, mentre per molto
tempo gli studiosi hanno ritenuto che la gravità dei reati potesse essere misurata in funzione di quella delle
sanzioni, un più recente indirizzo ha espresso che si debba prescindere dalla pena, edittale o applicata, per
procedere all’individuazione di quegli elementi che rendono un reato più grave rispetto ad un altro. Tuttavia
questo criterio di misurazione della gravità dei reati in funzione della pena concretamente applicata è stato
fortemente criticato per l’incidenza di numerosi fattori quali la recidiva, il numero oscuro, il concorso
formale di reati e il reato continuato. Inoltre è importante che un numero indice sia agganciato all’unità di
tempo, cosa che risulta impossibile con il criterio della pena concretamente applicata, data la lentezza delle
indagini e la lungaggine dei processi.

Intorno agli anni ’60 due sociologi statunitensi quali Sellin e Wolfgang si riproposero di individuare un
indice che permettesse di misurare, non solo quantitativamente ma anche qualitativamente, l’intensità della
delinquenza minorile e le sue variazioni nel tempo : la ricerca individuò un indice risultato idoneo ad essere
utilizzato per quantificare la gravità di un qualunque gruppo di reati, a prescindere dall’età dei loro autori. I
risultati infatti evidenziarono come l’età non fosse una variabile rilevante nelle valutazioni del quantum di
gravità attribuito. Sappiamo poi che l’indice, affinché potesse essere comparato a livello internazionale,
venne costruito in base a valutazioni di gravità espresse non in relazione ai fatti illeciti bensì su descrizioni
fondate su elementi di disvalore sociale. Tali situazioni che Sellin e Wolfgang denominarono Events si
riferivano ad ogni fatto storico che rappresentasse un accadimento unitario della vita ed implicasse la
realizzazione di almeno un tipo di reato. Per quantificare poi il giudizio qualitativo espresso dagli intervistati
sulla minore o maggiore gravità di un event rispetto ad un altro, Sellin e Wolfgang adottarono due apposite
scale :

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• la Category Scale, in base alla quale gli intervistati dovevano associare ad ogni comportamento
descritto un numero compreso fra 1 e 11, attribuendo il punteggio minimo ai comportamenti ritenuti
di lieve gravità, il valore 6 a quelli di media gravità e 11 a quelli ritenuti più gravi;

• la Magnitudo Scale, in base alla quale venne attribuito il punteggio base di 10 ad un certo
comportamento e venne richiesto agli intervistati di giudicare gli altri Events descritti nel
questionario, valutandoli in comparazione con quello base.

Tuttavia anche questo sistema è stato oggetto di parecchie critiche, specialmente per la scelta del campione
dei soggetti intervistati, si parla di studenti universitari, magistrati minorili e forze di polizia, considerato
poco rappresentativo. Ciò nonostante questo indice ha trovato svariate applicazioni, ad esempio venne
impiegato da Bernard Cohen per verificare e comparare le attività criminose commesse dalle Gang giovanili
e dai cosi detti gruppi spontanei della città di Filadelfia. In particolare furono esaminati i reati commessi
dalle gang e dai gruppi e quantificati in termini di maggiore o minore gravità, e si osservò come i reati
commessi dalle gang risultarono più gravi di quelli dei gruppi spontanei, e si evidenziò che le prime
commettevano fatti di sangue, mentre i secondi realizzavano in prevalenza reati contro il patrimonio.

Sappiamo che dal 1982 Tullio Delogu e Maria Cristina Giannini si sono riproposti di convalidare per
l’Italia le ipotesi, minimale e massimale, formulate da Sellin e Wolfgang e di ricavare un indice ponderato di
gravità dei reati utilizzando sia la magnitudo scale sia la category scale.

La comparazione criminologica

Nella tradizione criminologica va menzionato, nel campo della criminologia comparata, il contributo del
Tarde. L’autore, sul piano logico, insisteva sui concetti di “Analogia” ed “Omologia” da utilizzare nella
criminologia comparata in modo non diverso da come, già da tempo, avveniva nelle scienze fisiche e
naturali. Altra opera essenziale è La Giurisprudenza Etnologica di Post, autore che ha dedicato l’intera
esistenza allo studio del diritto comparato : l’autore affrontò il problema della comparazione della
fenomenologia criminale sotto il profilo giuridico ed etnologico. Anche il trattato di Mannheim è fra le opere
classiche quella più perspicua nel settore : la criminologia comparata per l’autore mira, oltre che a
raggruppare il maggior numero possibile di fonti di informazione, anche a pervenire ad un esame
approfondito dei vari problemi sulla base delle ricerche effettuate in molti paesi. Negli anni successivi si è
assistito poi allo sviluppo di indagini cross-culturali sui reati e sulle condotte criminali : i primi studi relativi
a questo tema si sono limitati ad osservare gli schemi di variazione di determinati reati per spiegarne
l’andamento. La maggior parte delle ricerche comparate sul reato è consistita in lavori di tipo teorico e con
dati riferiti a contesti diversi ed ottenuti in ricerche separate. Altri studi condotti su schemi comparativi sono
quelli svolti da Quinney e da Wolf : il primo esaminò quantitativamente omicidi e suicidi in 48 paesi,
rilevando i nessi fra incremento della urbanizzazione e dell’industrializzazione e frequenza dei suicidi, in
aumento, e degli omicidi, in diminuzione; il secondo invece rilevò la numerosità dei reati in 25 paesi,
notandone l’incremento generalizzato in rapporto allo sviluppo del benessere economico – sociale. Anche
Krohn e Wellford tentarono di esaminare la relazione fra variabili pertinenti allo studio del mutamento
sociale. Le variabili osservate in particolare furono 3 : popolazione, reddito nazionale lordo, orientamento
politico. Nell’analisi statistica risultò che esse spiegavano una parte rilevante della varianza per i tassi di
omicidio. Sappiamo poi che Denis Szabo, nella sua opera Comparative Criminology, distinse il paradigma
criminologico dal microcriminologico, delineando il primo come caratterizzato dall’approccio tassonomico
ed il riferimento a società globalmente intese ed alla loro evoluzione storica, ed il secondo basato sul
processo di interazione fra valori – norme, come trasmessi dai singoli, e gli stessi valori – norme come
espressi dagli agenti del controllo sociale. Possiamo dunque dedurre che l’obiettivo del metodo comparato,
nella macro e nella micro criminologia, consiste nell’estrapolare gli elementi universali nella reazione
sociale alla “devianza – delinquenza” in relazione a valori – norme- ruoli.

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L’indagine comparata implica quindi il debordare dallo studio ristretto ed unilaterale del proprio diritto
positivo per approfondire normative e fenomenologie in più Stati, tuttavia essa dovrà essere necessariamente
fondata sul metodo statistico, sull’osservazione dei fatti e sulla raccolta dei dati, e sulla classificazione,
elaborazione ed interpretazione di essi. Così percepita, questo tipo di ricerca, si inquadra metodologicamente
nel contesto delle scienze logico – induttive, mirando ad includere nel suo orizzonte un numero sufficiente di
fatti, così da poterne coglierne le costanti, le omologie, le gradazioni, differenze e divergenze. La ricerca
comparata sembra dunque presentare vantaggi e utilità pluridimensionali riconducibili essenzialmente a tre
settori :

• la risultante di una comune origine etico – storico – culturale;

• la conseguenza dell’assorbimento, o della sovrapposizione da un paese all’altro di modelli o temi


culturali;

• il naturale esito di analoghe condizioni di vita o di sviluppo;

Importante infine evidenziare come l’indagine comparata implichi, ovviamente, rapporti interdisciplinari :
l’interdisciplinarietà offre ulteriori ragioni di interesse nel combinare diverse direttive concettuali e
metodologiche.

Cap. 3 Nascita della criminologia

Sappiamo che le più importanti interpretazioni teoriche hanno dato origine alla materia nel 18esimo secolo,
intrecciandola inevitabilmente con le riflessioni giuridiche e filosofiche. Nonostante ciò, è importante
evidenziare come ci siano stati tentativi interpretativi del crimine nel corso dei secoli precedenti, in
particolare si parla di spiegazioni naturali e spirituali : le prime considerano il comportamento criminale
come dovuto ad oggetti ed eventi del mondo naturale, si tratta di un approccio caratteristico dei fenici, greci
e successivamente dei romani; per quanto riguarda le seconde invece, sappiamo che queste consideravano
che molti eventi non fossero altro che il risultato dell’influenza di poteri soprannaturali. La pena nasce quindi
come reazione – manifestazione dell’istinto di conservazione dei singoli e del gruppo sociale, contro
qualsiasi danno comunque prodotto da forze inanimate, o dagli uomini in forma volontaria o involontaria.

A tal proposito sappiamo che nell’Antica Roma la sanzione, che poteva avere natura divina ed umana, per
l’omicidio involontario non consisteva nella condanna a morte del colpevole, ma nella consegna di un capo
di bestiame pregiato alla famiglia della vittima per un sacrificio espiatorio. Attraverso il sacrificio quindi si
cercava di placare la divinità offesa e si purificava il gruppo, e allo stesso tempo si dava una ripartizione
sociale ai parenti dell’ucciso. Nel Medioevo poi, l’approccio spiritualista venne utilizzato
dall’organizzazione del feudalesimo per dare inizio al sistema di giustizia penale. Sappiamo infatti che a quel
tempo il crimine veniva considerato prevalentemente un affare privato, in cui la vittima e la sua famiglia
potevano ottenere giustizia infliggendo un danno uguale o maggiore all’autore, queste modalità tuttavia
conducevano al rischio che la vendetta privata potesse durare per anni, fino alla distruzione completa di una
delle due famiglie. Di fronte a questa situazione allora, i signori feudali adottarono il principio secondo cui
era Dio ad indicare chi fosse innocente e chi colpevole, concedendo nel duello la vittoria alla parte che era
nel giusto. Tuttavia, dal momento in cui questa procedura non diminuiva ma aumentava i delitti, si passò
all’uso delle torture da parte dei tribunali e se l’accusato superava le sofferenze inflittegli, era considerato
innocente per volere di Dio. A questo proposito è importante evidenziare il ruolo giocato dall’Inquisizione,
che per molti scrittori non fu altro che il simbolo delle spirito tirannico, attraverso cui la Chiesa romana
combatté contro l’eresia ed i delitti connessi. L’Inquisizione tuttavia, oltre ad essere un organo ecclesiale, fu
anche un fenomeno piuttosto complesso, che assunse diverse forme relative alle situazioni socio politiche, e
che in generale perseguì gli ebrei, i maomettani convertiti, coloro che praticavano la magia e gli autori di
delitti contro la morale. Dal 16esimo secolo il tribunale inquisitorio rallentò l’intensità della sua espressione
e divenne più mite nelle condanne, che si rivolsero prevalentemente a libri considerati pericolosi.

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Nonostante ciò, fino al 18esimo secolo, le persone coinvolte in delitti o in comportamenti devianti furono
considerate spesso possedute dal demonio o da spiriti maligni.

Dal 1700 in poi iniziarono a proliferare analisi di interesse criminologico ad opera di studiosi provenienti da
diversi campi quali la filosofia, la teologia, la medicina e la psichiatria, la psicologia e la storia. I primi studi
che emersero quindi analizzarono in maniera rudimentale lo sviluppo del crimine e la relazione fra tassi di
criminalità e condizioni sociali. Si cercò poi di capire le cause del fenomeno e di selezionare, proprio come
tentò di fare Cressey, una causa unica la cui eliminazione avrebbe permesso sia di recuperare i delinquenti
sia di prevenire i futuri delitti. La nascita della scienza criminale si deve però a Cesare Beccaria, sia in
termini di diritto penale e processuale penale, sia di criminologia vera e propria. Fu proprio lo stesso
Beccaria insieme a Jeremy Bentham a fondare la Scuola Classica di diritto penale e criminologia,
sviluppatasi poi proprio in contrapposizione al sistema giuridico e primitivo esistente in Europa prima della
rivoluzione francese : fino a quel momento infatti la giustizia criminale, esercitata dai sovrani e
dall’inquisizione, si concretizzava in forme barbare e plateali della pena di morte e della pena corporale.
Altro aspetto importante riguarda il fatto che tutte le leggi e i provvedimenti giudiziari erano scritte in lingua
latina, cosicché il popolo, in una condizione di ignoranza, non potesse capirle.

L’epoca dei Lumi e Cesare Beccaria

Fra il ‘500 e il ‘600 sappiamo che le correnti moderne del pensiero del “Giusnaturalismo” si contrapposero
a quelle del “Positivismo giuridico”.

• Per quanto riguarda il giusnaturalismo, sappiamo che poneva al centro della propria visione il
principio di socialità e del contrasto sociale, nonché l’identificazione di ciò che è naturale con ciò
che è razionale, per cui considerava il diritto naturale fondato solo sulla ragione umana. In
quest’ottica lo scopo della punizione per le infrazioni ai diritti non doveva essere punitivo bensì
correttivo : bisognava punire colui che sbagliava non per l’errore bensì perché non tornasse a
sbagliare in futuro. La pena doveva poi essere proporzionata sia alla gravità del reato, sia alla
convenienza che se ne voleva trarre.

Sulla base di queste premesse si svilupparono le teorie illuministiche di filosofi come Rousseau, Voltaire,
Montesquieu, ovvero coloro che ne hanno costituito l’esperienza più significativa e che hanno permesso la
formulazione di principi unitari e sociali del periodo. Tutti iniziarono ad appellarsi ai diritti e alla legge
naturale dell’Uomo che nasce libero nel suo stato naturale ma che si trova limitato dallo sviluppo della
società. Solo attraverso la legge egli può godere dei suoi diritti naturali : è quindi compito della legge
restaurare l’uguaglianza di base e prevenire ingiustizie politiche e sociali. Fu proprio in base a tali principi
che si diffusero nei vari paesi europei le idee di riforma dell’intero sistema della giustizia. A tal proposito
sappiamo che in Francia Montesquieu discusse l’evoluzione e la variazione delle leggi in rapporto a diversi
fattori ecologici, economici, culturali e militari; egli esaminò poi l’efficacia delle pene, dichiarandosi
contrario a quelle troppo dure, in quanto riteneva fossero negative per la morale e che solo l’appello al
sentimento morale avrebbe contrastato il delitto. Tuttavia, come già evidenziato, il contributo maggiore lo si
deve a Cesare Beccaria, il quale espresse in maniera chiara le nuove concezioni della giustizia penale : egli
non si limitò a contestare i metodi proposti dall’ancien régime, bensì costruì contemporaneamente un
nuovo sistema penale all’interno della sua opera Dei delitti e delle pene, pubblicato inizialmente in forma
anonima nel 1764 per paura che venisse censurato. Beccaria condannò le accuse segrete ed anonime
ricevute, auspicando poi che il giudice venisse affiancato da una giuria sorteggiata essendo secondo lui “ più
sicura l’ignoranza che giudica per sentimento, che la scienza che giudica per opinione”. Sostenne poi la
libera valutazione di tutte le prove, assegnata non al magistrato bensì alla giuria, ed in relazione alla

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credibilità dei testimoni spiegò che quanto più atroce è il delitto, tanto minore essa si dimostra. Ulteriore
aspetto ritenuto fondamentale da Beccaria è la prevenzione, egli ritiene che essa rappresenti il fine principale
di ogni buon ordinamento giuridico e che si ottenga attraverso leggi chiare e semplici. In particolare egli
sottolinea che il carcere preventivo deve essere custodia degli imputati e non pena in se stessa, e sono
proprio le argomentazioni sulla pena a costituire il punto centrale del suo pensiero : egli ritiene infatti che la
pena, perché non sia una forma di violenza, deve avere carattere pubblico, deve essere determinata da leggi
e deve essere eguale per tutti. Da questi pensieri discende l’inutilità che egli attribuisce alle torture e alla
pena di morte : Beccaria evidenzia infatti come la pena di morte non sia né utile né necessaria e come
questo sia dimostrato dal fatto che la minaccia della pena capitale non abbia distolto gli uomini dal
commettere dei reati.

Sappiamo che l’opera di Beccaria ebbe una vasta eco in tutta Europa e che fu tradotta nelle principali lingue
europee : non è un caso che tutti i principali aspetti affermati in Dei delitti e delle pene si ritrovano ancora
oggi nella maggior parte delle carte costituzionali e dei Codici.

L’utilitarismo e Jeremy Bentham

Sappiamo che l’Utilitarismo, come dottrina storicamente determinata, è un indirizzo etico, politico ed
economico che nasce in Inghilterra nel 18esimo secolo, e che fu il filosofo e giurista inglese Jeremy
Bentham il primo ad usare il termine “utilitarista” nel 1781. Egli riteneva che le persone fossero in grado di
scegliere fra giusto e ingiusto, quindi fra bene e male, sostenendo che nel comportamento umano tutte le
azioni sono calcolate in virtù di pulsioni edonistiche che inducono a desiderare un alto grado di piacere e ad
evitare la sofferenza. L’unico principio al quale Bentham si appellava dunque, per spiegare la nascita delle
società e delle leggi, era quello del vantaggio ossia il principio dell’utile che egli riassumeva attraverso una
determinata formula quale “ la massima felicità del maggior numero di persone possibile “. Secondo
questo principio quindi le azioni sono valutate secondo la loro possibilità di procurare piacere o sofferenza,
e un atto di può ritenere “utile” se tende a produrre benefici, vantaggi, piacere o a prevenire l’avvento di
danni e sofferenze. Bentham sviluppò poi il concetto di “ Calcolo Morale “, per valutare la probabilità che
una persona metta in atto un certo tipo di comportamento : proprio partendo da questa considerazione,
l’autore sostenne che un individuo commette un crimine perché il piacere anticipato, provato per l’atto
commesso, è notevolmente superiore alla sofferenza che ne potrebbe derivare. Sappiamo poi che
Bentham sviluppò un nuovo sistema carcerario detto Panopticon, che servì da modello per la costruzione
della prima prigione cellulare : si trattava di una struttura circolare a più piani, composta di celle aperte
attorno ad una torre centrale di ispezione, in cui i prigionieri non potevano guardare ma dalla quale i
carcerieri potevano controllare dappertutto, ed inoltre i detenuti avrebbero dovuto lavorare sedici ore al
giorno nelle proprie celle. In conclusione, sia Beccaria che Bentham proposero una morfologia e un nuovo
sistema di giustizia penale : entrambi infatti evidenziarono che la pena non dovesse essere inflitta per
vendetta bensì per ridurre il crimine, attraverso una utilizzazione razionale e responsabile.

La Scuola Classica di diritto penale

La Scuola Classica, come d’altronde l’Utilitarismo, afferma che gli uomini sono razionali e dotati di libera
volontà e, per ciò, calcolano vantaggi e svantaggi di qualsiasi azione scegliendo liberamente quelle che
presentano vantaggi minori. Poiché gli uomini non differiscono molto sotto questo aspetto, le diversità
principali sono soprattutto nelle situazioni : in questo senso, la Scuola Classica fornisce il prototipo di una
teoria unilaterale del controllo della motivazione, in cui il ruolo decisivo è rappresentato dai controlli
“esterni”, ovvero da quelli sulla situazione.

Francesco Carrara, professore di diritto criminale e senatore del regno d’Italia, sostenne prima di tutto che
scopo principale del diritto penale dovesse essere quello di prevenire gli abusi da parte dell’autorità e che il

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delitto non fosse un ente di fatto bensì un ente giuridico. In particolare egli definì il concetto di
imputabilità, evidenziando che l’uomo, che è libero nella scelta delle proprie azioni, è responsabile
moralmente di ciò che fa, e per questo motivo la sanzione penale deve essere proporzionata al danno
arrecato : sulla linea di quest’ottica Carrara sarà anche contrario alla pena di morte. Comunque, in definitiva
le concettualizzazioni fondamentali della Scuola Classica si possono riassumere in una serie di punti :

• Volontà colpevole dell’autore, indipendentemente dai condizionamenti sociale;

• Imputabilità al fine della Punibilità, per cui il reo sia in grado di comprendere il disvalore delle
sue azioni;

• Retribuzione della pena caratterizzata da determinatezza ed inderogabilità;

Ultimo aspetto sta nell’evidenziare come la Scuola Classica abbia fortemente ispirato sia il primo codice
penale italiano, quale lo Zanardelli, sia quello attuale, ovvero il Rocco, e continua tutt’ora ad influenzare la
politica della giustizia penale in molti paesi.

Precursori e contemporanei della Scuola Positiva

In contrasto con la Scuola Classica, sappiamo che nell’800 iniziarono a svilupparsi diverse correnti di
pensiero, che porteranno alla nascita della criminologia. Una delle più importanti ebbe origine in Francia e fu
la così detta “Scuola Francese” o “Scuola di Lione”, il cui fondatore fu proprio il medico legale ed
antropologo Alexander Lacassagne il quale, aderendo al positivismo sociologico di Comte e Tarde, contestò
la teoria lombrosiana del delinquente nato ponendo l’accento sul ruolo dell’ambiente sociale. Per cui la
Scuola di Lione non negò l’importanza dei fattori biologici, bensì propose di associare questi punti di vista
con quelli sociologici, tant’è che è stata definita come Scuola di Biosociologia e di politica penale. Ad essa
aderì anche Franz Von Liszt, fondatore della nuova scuola sociologica tedesca di diritto penale. Il pensiero
di Von Liszt parte dal presupposto che il reato, come ogni altro fenomeno naturale e sociale, va considerato
su una base deterministica, ciò significa che deve essere studiato nei suoi fattori individuali e sociali. In
quest’ottica il diritto penale è diritto di difesa speciale dei beni della vita, e la pena ha finalità di prevenzione
e quindi di mettere il criminale in condizione di non nuocere.

E’ importante evidenziare a questo punto che sin dai tempi antichi esistevano due discipline quali la
Fisiognomica e la Frenologia, mirate a cogliere le relazioni fra il soma e gli atteggiamenti o comportamenti
psichici. Per quanto riguarda la Fisiognomica, sappiamo che tale disciplina cercava di scoprire le impronte
esteriori del carattere morale nei lineamenti e nella forma complessiva del volto o nella conformazione della
scatola cranica, a cui doveva corrispondere un diverso sviluppo del cervello. L’obiettivo quindi era quello
di delineare i segni o i caratteri distintivi dell’uomo “Degenerato”. Come ricordato da Della Porta, anche
Socrate coltivò la fisiognomica, mentre Aristotele, oltre a giudicare i caratteri fisionomici in base alla
rassomiglianza con i caratteri degli animali, segnalava l’analisi delle impronte lasciate dalle passioni sulla
fisionomia del volto. Così Aristotele consigliava Alessandro di guardarsi da chi avesse, ad esempio, un
colorito livido giallo, perché incline ai vizi e alla lussuria, o da chi avesse le tempie gonfie e la mandibola
voluminosa, perché incline all’Iracondia. La Frenologia invece analizzò le relazioni fra cranio, cervello,
funzioni psichiche e comportamento sociale : si parla di una disciplina che destò un certo interesse nel
mondo scientifico e che istituì una scuola dalla quale derivarono poi studi di antropologia fisica ed
antropologia criminale.

La Scienza Antropologica, che rappresenta la base dei primi studi antropologici, è stata fondata come
disciplina razionale dal medico francese Paul Broca il quale fu anche pioniere nel campo
dell’Antropometria e delle misure craniali. In questo campo rivestirono poi particolare interesse storico
anche gli studi fisiognomici e frenologici di Lavater e Gall. In relazione a quest’ultimo, sappiamo che le
ricerche sul sistema nervoso lo condussero a sostenere la teoria delle localizzazioni cerebrali, egli non a caso

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fu il primo a studiare la corteccia cerebrale, e ciò che derivò dalle sue indagini relative ai condannati
detenuti lo portò a concludere che la condotta criminale sarebbe stata provocata da un eccessivo sviluppo dei
centri della aggressività o dell’istinto di proprietà, ma anche dalla scarsa educazione. Secondo Gall un
individuo che non ha né soldi né cibo è portato quasi necessariamente a rubare : su questa linea Gall riteneva
quindi che ogni uomo potesse essere un potenziale delinquente.

Fra i primi psichiatri, che contribuirono allo studio dei criminali anormali ricordiamo : Pinel, Esquirol,
Prichard e Morel, mentre è riconosciuto come fondatore della psicologia criminale Despine, che nel terzo
volume della sua opera fondamentale analizzò la psicologia di diverse figure di devianti. In particolare a
Morel si deve l’individuazione della Demenza Precoce e la Teoria della “Degenerazione”, secondo la
quale i comportamenti delittuosi non sarebbero che il risultato di un progressivo processo patologico in cui
l’eredità gioca un ruolo importante. Importante poi evidenziare che anche coloro che istituirono la statistica
criminale, e fra essi primo fra tutti Lambert Quetelet che pubblicò nel 1835 la sua opera fondamentale ,
possono essere considerati fra gli ispiratori della criminologia. Importante evidenziare che l’istituzione della
sociologia e della statistica criminale devono essere considerate in connessione con quella della sociologia
generale e della statistica generale. Quindi la data di inizio della sociologia criminale, come si è accennato,
coincide con la pubblicazione dell’opera di Quetelet, che in parte si era ispirato anche alle analisi
climatologiche di Melchiorre Gioja : lo studioso belga infatti aveva affrontato lo studio di fenomeni
individuali e sociali attraverso il metodo quantitativo. Sappiamo che Quetelet affrontò una serie di tematiche,
ad esempio affrontò la questione dello “sviluppo delle doti morali”, considerando il tema del suicidio e dei
suoi rapporti con l’omicidio, le stagioni, l’età, il sesso e così via. Riguardo al delitto poi egli formulò una
“Legge di possibilità”, vale a dire una previsione nel campo di quei particolari fatti sociali costituiti da
eventi delittuosi, ed indicò successivamente la probabilità statistica che, in un dato luogo e in determinato
periodo di tempo, un numero di soggetti appartenenti ad un determinato gruppo sociale, avrebbe commesso
un reato di una data specie. E’ chiaro dunque che Quetelet sia il più importante degli statistici sociali
dell’inizio del 19esimo secolo e che la sua opera abbia dato un forte impulso al pensiero criminologico sino
alla Scuola Positiva, ma è allo stesso tempo necessario ricordare che anche il francese Guerry offrì un
grande contributo alla Scuola Statistica Francese, studiando la distribuzione dei delitti contro la persona e
contro la proprietà in rapporto all’istruzione nelle diverse regioni della Francia e dell’Inghilterra.

Il Positivismo e la Scuola Positiva

La rivoluzione industriale apportò un cambiamento radicale del mondo, mutarono i vecchi modelli delle
relazioni sociali e si sviluppò una crisi intellettuale a livello europeo. Nel campo della filosofia si fece strada
l’idea che la società ed i suoi mutamenti potessero essere studiati fattualmente, obiettivamente e
scientificamente, mentre gli interrogativi antichi sulla natura dell’uomo e sul suo comportamento, incluso
quello deviante e criminale, iniziarono ad essere affrontati in termini non più religiosi ma di obiettività
scientifica. E’ proprio in questo contesto che prende forma il Positivismo come metodo basato
sull’osservazione scientifica dei fatti, sulla comparazione e sulla sperimentazione nello studio del
comportamento dell’uomo e della società. In particolare sappiamo che la prospettiva positivista enfatizzava
l’idea che molti comportamenti fossero una funzione delle forze sociali esterne e delle spinte interiori,
ritenendo quindi che gli uomini fossero influenzati nelle loro azioni da fattori culturali, sociali e biologici,
piuttosto che liberi di agire secondo la loro volontà. La Scuola Positiva Criminologica quindi, oppose alla
libera volontà un determinismo rigoroso : secondo quest’ottica, forgiati dalla biologia e dalle circostanze
sociali, gli uomini sarebbero portati ad essere uniti da somiglianze più o meno forti, rientrando in numerosi
tipi. L’obiettivo primario della teoria è quindi identificare i vari tipi e scoprire le forze che li determinano,
avvalorando l’idea per cui il controllo della deviazione non si ottenga attraverso appelli alla moralità, bensì
mediante misure individuali, che tengano conto delle circostanze che lo condizionano. Il positivismo trova
quindi nella criminologia un terreno piuttosto fertile, dando così luogo alla produzione di una serie di opere
di svariati cultori fra cui Cesare Lombroso, il quale volse particolare attenzione sul fatto “crimine” con
metodi da laboratorio, ispirati o alla biologia o alla fisiologia. Si ebbe quindi un’importante produzione

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che mirava soprattutto allo studio del delitto. Possiamo quindi affermare che la Scuola Positiva, in
criminologia come nelle altre discipline, ha avuto un’importanza fondamentale : infatti, il metodo
naturalistico da essa adottato, ha costituito un fertile campo di esplorazione, aggiungendo alle ricerche
giuridiche e filosofiche, le indagini biopsicologiche e sociologiche.

Cesare Lombroso

La posizione positivista venne formulata sistematicamente, dopo il 1870, da Cesare Lombroso il quale la
rielaborò, insieme ai suoi discepoli, basandosi sulle misure antropometriche di quanti erano reclusi nelle
prigioni italiane. In particolare Lombroso descrisse il “Delinquente Nato” il cui comportamento e la cui
struttura corporea erano tratti caratteristici di uno stadio più primitivo dell’evoluzione biologica della razza.
Sappiamo che nel 1864, studiando i soldati dell’esercito piemontese, Lombroso fu sorpreso nel notare la
grande abbondanza dei tatuaggi del soldato disonesto rispetto al soldato onesto, tuttavia egli non diede
seguito a tali considerazioni e proseguì con i suoi studi. Nel 1870 Lombroso si focalizzò poi sulle anomalie
riscontrate nel cranio di un delinquente, un certo Giuseppe Villella : come egli racconta, durante
l’autopsia riscontrò nel cranio la presenza di numerose anomalie, fra le quali l’esistenza nell’occipite di una
fossetta occipitale, simile a quelle che presentano gli animali inferiori. Alla vista di tale fossetta, Lombroso
sostenne che tali anomalie potessero essere espressione materiale delle tendenze verso il delitto, e quindi un
caratteristiche sensibili che avrebbero permesso di distinguere i criminali dagli uomini onesti. Da
queste analisi nasce l’elaborazione teorica dell’Atavismo, secondo la quale le così dette “stimmate
criminali” fisiche, più che causa diretta del comportamento antisociale, rappresentano indicatori visibili di
una personalità primitiva ed arretrata rispetto alla scala darwiniana dell’evoluzione umana. Lombroso inoltre
avviò una campagna per l’istituzione del manicomio criminale. E’ importante evidenziare che, nel corso dei
35 anni in cui dominò la criminologia europea, la sua posizione si modificò a più riprese, tant’è che definì
varie tipologie del criminale, da quello alienato a l’alcolista, quello passionale o d’impeto ed il delinquente
d’occasione. Tuttavia egli mantenne l’attenzione sulla predisposizione biologica, mirando ad evidenziare che
per definire il delinquente atavico fosse necessario riscontrare almeno 5 stimmate fisiche. Si interessò poi ai
delitti economici e politici, partecipando anche al dibattito dello scandalo della Banca Romana, e
classificando inoltre il truffatore comune e il politico come criminaloidi, che hanno i caratteri dell’uomo
comune. Solo successivamente si soffermò sulla figura della donna che delinque e su quelle che sono le sue
caratteristiche, per poi scrivere insieme a Guglielmo Ferrero l’opera intitolata “La donna delinquente, la
prostituta e la donna normale” nel 1893, all’interno della quale sostenne che, se la criminalità femminile
risultava in maniera minore rispetto a quella maschile, ciò derivava in parte dal fatto che essa trovava il suo
equivalente nella prostituzione. La prostituta infatti veniva considerata spesso una potenziale criminale.
Infine gli ultimi anni della sua vita Lombroso li dedicò a studiare l’ipnotismo e lo spiritismo, chiedendosi
cosa ci fosse dopo la morte. Tuttavia il materiale proveniente da Lombroso, valutato con principi critici e
metodi più che moderni, risulta oggi privo di valore. Anche le sue teorie, relative all’importanza della
predisposizione criminale e alla connessione fra delitto e pazzia, sono state qualificate come non sostenibili.
Inoltre, a due anni di distanza dalla sua morte, Agostino Gemelli propose una critica riguardo le dottrine del
positivismo diffuse da Lombroso, delineandole come nefaste e grette. Anche Aschaffenburg commentò il
metodo scientifico lombrosiano, andandolo a delineare come un “percepire con l’intuito del genio, piuttosto
che con un esame accurato” : in effetti l’intuito, ed anche la fantasia, in Lombroso spesso prendevano il
sopravvento, sino a condurre a scoperte “immaginarie”.

E’ importante ricordare comunque che successivamente la biologia e la psicologia criminale hanno fatto
rivivere la teoria dei criminali con predisposizioni. Earnest Hooton ad esempio, nonostante avesse
affermato l’insostenibilità dell’esistenza di un tipo antropologico criminale sul modello lombrosiano,
attraverso le sue investigazioni individuò l’esistenza di alcune caratteristiche in un grande numero di
criminali posti a confronto con gli individui normali. Le sue principali indagini infatti sostennero che i
delinquenti erano biologicamente inferiori e che tale inferiorità fosse dovuta soprattutto a fattori ereditari.

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Possiamo affermare comunque che il contributo di Lombroso sia stato il più fecondo tentativo di studiare il
fenomeno della criminalità attraverso il metodo dell’osservazione scientifica e di affrontare il rapporto fra
struttura corporea e comportamento. L’antropologia criminale tuttavia verrà consacrata come scienza al 1
Congresso Internazionale, tenutosi a Roma nel 1885, e entrerà nella cultura europea in quello di Bruxelles
nel 1892.

L’origine della polizia scientifica italiana

Altro grande merito del Lombroso fu quello di ribadire, nella sua opera intitolata “L’uomo delinquente”, la
necessità di una polizia scientifica che sfruttasse il progresso degli studi nelle scienze biologiche e fisiche
nel campo della lotta alla criminalità. Così, grazie alla spinta determinata dalle dottrine di Lombroso e dei
suoi allievi nel campo del diritto penale, nel 1902 grazie a Salvatore Ottolenghi nacque la Polizia
Scientifica Italiana nonché Scuola di Lombroso. Egli aggiunse all’idea fondamentale della conoscenza
dell’uomo quella dell’indagine giudiziaria, affermando che questa si dovesse basare sull’osservazione e sul
ragionamento induttivo, prendendo in considerazione inoltre i saperi dell’antropologia, della psicologia e
della medicina legale. Lo stesso Ottolenghi creò poi, sulla base degli studi positivisti sull’uomo delinquente,
una cartella “biografica”, ritoccata fino al 1931 al fine di armonizzarla con il nuovo codice penale italiano.
Tale cartella si compose di 4 parti : la prima riportava i dati raccolti nel “cartellino segnaletico”; la seconda
e la terza erano biografiche e si suddividevano a loro volta in due settori A) relativo alle notizie sui reati e
B) relativo alle notizie sulla personalità del delinquente ; la quarta parte conteneva giudizi periodici
relativi ai caratteri di criminalità. Inoltre, nonostante la cartella biografica contenesse già dati sulla dinamica
del delitto, Ottolenghi creò il “ritratto parlato” del sopralluogo, ovvero un esame metodologico dell’ambiente
svolto con criteri scientifici, che si basava essenzialmente sull’osservazione ed il fissare tutto ciò che il luogo
del delitto presentasse. Queste operazioni venivano definite da Ottolenghi indagini dirette per distinguerle da
quelle indirette, ovvero quelle informazioni assunte da persone informate sui fatti, che andavano tuttavia
sempre verificate. E’ appurato dunque che la figura di Ottolenghi sia stata determinante per l’evoluzione
delle investigazioni criminali e dell’analisi della scena del crimine.

Enrico Ferri e Raffaele Garofalo

Sappiamo che la sociologia del crimine, oltre che dell’uomo che delinque, si preoccupò di definire
scientificamente il crimine in termini sostanziali e quindi di studiare la società dal punto di vista dei
fenomeni delittuosi che si verificano all’interno di essa. Enrico Ferri nella sua opera fondamentale definì la
Sociologia criminale come “ uno studio concreto del reato, non come astrazione giuridica bensì come
azione umana, come fatto naturale e sociale “. Egli, esponente della scuola positiva, mirò poi a rafforzare
il concetto basilare per il quale si debba studiare il delitto prima come fenomeno naturale e sociale e poi
come fenomeno giuridico, e a contestare le critiche degli avversari relative al volere della scuola positiva di
mettere da parte l’aspetto giuridico : in altre parole, riteneva che solo dalla natura dell’uomo derivava la
natura del delitto e che non si poteva formulare una regola giusta se non quando si conosceva prima l’uomo
che lo aveva commesso. E’ inoltre importante ricordare che Ferri sosteneva che i crimini avessero i loro
determinanti non solo nell’ambiente in cui vivono gli autori, bensì anche nelle condizioni biologiche degli
individui stessi. Tuttavia, per meglio comprendere quella che è la sua concezione, è importante evidenziare
che Ferri apprese la filosofia positivista da Roberto Arigò, tramite il quale si convinse della rilevanza dei
fatti e della biologia nello studio dei fenomeni sociali. Egli inoltre cresce in un’epoca in cui la sociologia,
grazie all’apporto di Comte, prende coscienza della possibilità di studiare scientificamente i fatti sociali
secondo il metodo naturalistico. Racchiuderà poi le sue teorizzazioni nelle sue opere prime quali la
Sociologia criminale e Principii di diritto criminali del 1928 : in esse riportò una ricostruzione del sistema
di difesa sociale contro la criminalità, intesa come necessità della società di provvedere alla propria
conservazione, secondo il quale la pena e dunque il provvedimento di difesa rappresentavano una forma di
difesa contro l’azione che andava a turbare l’ordine. Sappiamo poi che Ferri non ritenne sufficienti né le

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spiegazioni di Lombroso sul determinismo biologico né quelle della scuola socialista sulle cause sociali, ed
evidenziò a tal proposito tre specie di fattori della criminalità :

• Individuali o antropo – psicologiche;

• Ambientali in senso fisico – geografico;

• Ambientali in senso sociale;

Per dimostrare poi scientificamente la sua tesi studiò in Francia il movimento della delinquenza e ne derivò
la formulazione di una “ Legge della saturazione criminosa “, in base alla quale ogni ambiente sociale e
fisico in un determinato momento storico ha una determinata forma e quantità di delitti, contro i quali i
rimedi non sono le pene codificate ed applicate, quanto piuttosto il rimuoverne o ridurne le cause. Evidenziò
inoltre che in alcuni casi si poteva assistere ad una sorta di soprasaturazione criminosa, determinata da
eccezionali condizioni ambientali. Vi erano poi delle soprasaturazioni “ straordinarie e transitorie “,
determinate da eventi particolarmente importanti per la società, come ad esempio elezioni politiche o colpi di
stato. Riassumendo quindi, il concetto di sociologia criminale ha dubito diverse formulazioni : Ferri nella
prima stesura dell’opera la definì come una scienza sintetica, avente per oggetto lo studio dell’uomo
delinquente, dei delitti e dei mezzi di repressione e di prevenzione. Sostenne poi la necessità di una scienza
unica che potesse studiare cause, condizioni e rimedi dei fenomeni criminosi, perché la separazione fra
scienze criminaliste – giuridiche, sociologia e scienze penitenziarie avrebbe prodotto danni sia per la società
civile, sia per il condannato. Sicuramente il contributo principale apportato da Ferri ha consistito nel
rafforzamento di una concezione sociologica del delitto che permise di porre accanto allo studio del reato,
quello del reo e delle caratteristiche relative alla sua personalità. Partendo poi dal concetto per cui il
delinquente è una figura inadatta alla convivenza, egli stabilì una classificazione dei delinquenti in 5 tipi :

• Il delinquente nato, con una tendenza congenita al delitto;

• Il delinquente pazzo, o con una grave anomalia psichica;

• Il delinquente abituale, con una tendenza acquisita al delitto;

• Il delinquente occasionale, che si fa trascinare dalle situazioni;

• Il delinquente passionale, che ha una maggiore propensione dalle reazioni esplosive di carattere
sentimentale.

Tale classificazione venne messa in pratica da Ferri nei suoi studi sull’omicidio, in cui evidenziò i tratti
psicologici ed omise i dati antropologici non più rilevanti per la costituzione dell’omicida. Sappiamo inoltre
che proprio l’indagine sulla prevalenza delle forze ambientali o individuali ha permesso di delineare una
nuova nozione di delitto intendendolo non solo come un’entità giuridica in quanto atto illecito, bensì
anche come fenomeno umano e sociale definito dalla legge penale e legato appunto a variabili socio –
psicologiche ed ambientali. Da qui si sviluppa la formula ferriana in base alla quale la società si deve
difendere dal delitto attraverso il diritto, che diviene quindi lo strumento contro la criminalità. Così, nel
progetto di Codice Penale del 1921 Ferri applicò le teorie della sociologia criminale con il concetto di
responsabilità sociale, quindi il dovere da parte di ogni delinquente di subire la sanzione come conseguenza
del rapporto sociale, perciò la pena – espiazione si sostituì alla pena – difesa che divenne provvedimento di
rieducazione sociale. Tuttavia il progetto di codice penale non ebbe seguito, ma una parte del pensiero di
Ferri e più in generale della Scuola Positiva si è trasfuse nel Codice Civile del 1930.

Altra figura il cui contributo risultò fondamentale all’interno della Scuola Positiva Italiana è quella di
Raffaele Garofalo, il cui pensiero si distingue sia da quello di Lombroso che da quello di Ferri. Garofalo fu

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il primo ad enunciare i principi fondamentali giuridico – penali della Scuola – Positiva, che si possono
riassumere in :

• Prevenzione speciale come funzione della repressione criminale, in aggiunta a quella generale;

• Prevalenza della prevenzione speciale sulla generale;

• Pericolosità del reo come criterio e misura della repressione;

Denominò poi il crimine come “Delitto Naturale”, cioè tale da valere indipendentemente dalle legislazioni
positive, e dopo aver definito l’azione criminale ne indicò una soluzione in termini extra – giuridici.
Sappiamo che il concetto del diritto naturale si fonda non sulla violazione dei diritti, bensì su quella dei
sentimenti morali più profondi, tant’è che sostenne che la genesi del delitto andasse rintracciata in
un’anomalia del sentimento morale.

Possiamo dunque affermare che si deve ai fondatori della Scuola Positiva Italiana quali Lombroso con il
Determinismo Biologico, Ferri con il Determinismo Sociale, e Garofalo con il Determinismo Morale, la
nascita e l’evoluzione della criminologia come una nuova scienza. Inoltre va sottolineato che agli inizi del
‘900 l’Italia detenne il primato negli studi sia antropologici sia sociologici sulla criminalità, che poi però
perse negli anni successivi in particolari per due ordini di motivi : il primo fu legalo all’opposizione del
regime fascista, in particolare riguardo alle istanze di rieducazione e recupero sociale del reo, il secondo
invece si riferisce all’ostilità che la Chiesa cattolica, che guardava con diffidenza alle polemiche della Scuola
Positiva in relazione al libero arbitrio. Tuttavia le indagini socio – giuridiche non si arrestarono totalmente
nel nostro paese, bensì ebbero un proseguo con minore visibilità in altri campi del sapere, come quello
medico.

Cap. 4 – Gli studi Bio – Antropologici

La questione eredità – ambiente

La Scuola Positiva ha condotto ad una dicotomia fra antropologia criminale e sociologia criminale,
producendo due correnti di pensiero tuttora ancora vive nel pensiero scientifico contemporaneo : la prima
fondata su quella che Giovanni Botero definiva Vis Generativa, dal carattere individuale ed ereditario, e
l’altra sulla Vis Nutritiva dal carattere invece sociale. Sappiamo poi che la sociologia, dopo aver accolto la
teoria evoluzionista darwiniana applicandola ai fenomeni sociali ed economici, ha sviluppato una reazione
negativa nei confronti dei contributi sull’eredità e del determinismo biologico, dettati entrambi dal
darwinismo sociale. Il Darwinismo Sociale riguarda essenzialmente quelle teorie psicologiche e
sociologiche che, dalla fine del 19esimo secolo, utilizzarono la concezione evoluzionista di Darwin per
andare a studiare le trasformazioni dei sistemi sociali e per interpretarne i conflitti, e quando i darwinisti
sociali iniziarono a ritenere che il progresso umano richiedesse lotta e competizione non solo fra persone ma
anche fra nazioni e razze, iniziò a prendere forma la concezione relativa alla razza superiore. Inoltre l’ipotesi
darwiniana relativa alla “sopravvivenza del più adatto”, nel momento in cui le grandi potenze tendevano ad
ingrandirsi e a creare imperi coloniali, si prestava a sostenere l’azione giustificando così la distruzione
delle razze inferiori proprio perché meno adatte. In tali concezioni affondarono le loro radici anche i primi
sostenitori dell’eugenetica o eugenica, di cui inizialmente fece parte la genetica che poi però se ne distaccò a
causa della piega ideologica e non scientifica che stavano prendendo queste correnti. E’ evidente dunque
come, ad un certo punto, la confusione fra obiettivi politici e aspetti scientifici condusse a numerosi effetti
deleteri : basti ricordare come il movimento eugenetico fu strumentalizzato dalla classe dominante negli Stati
Uniti per limitare le migrazioni dai paesi più poveri, aggrappandosi all’argomentazione per cui gli immigrati
producessero un consistente aumento di criminalità, povertà e malattie. E’ dunque importante analizzare a
fondo il ruolo dei fattori bio – antropologici nella spiegazione del comportamento criminale. Infatti, se da
una parte alcune teorie sostengono l’idea che il comportamento deviante debba essere messo in relazione con

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le caratteristiche fisiche dell’uomo, altre sottolineano l’importanza dell’eredità o l’influenza di fattori
biochimici e neuro – fisiologici. A tal proposito sappiamo che alcuni studiosi sostengono che certi fattori
biologici aumentino la probabilità che un soggetto agirà in maniera antisociale. In ogni caso comunque, al
fine di comprendere l’atto criminale, è importante considerare sempre l’interazione fra l’uomo, con il suo
substrato biologico, e l’ambiente. Superata poi dalla seconda metà del ‘900 la deriva eugenetica e xenofoba,
la ricerca biologica ha evidenziato l’influenza sul comportamento deviante da parte di una serie di fattori :
Genetici, come le anomalie cromosomiche; Biochimici, come gli squilibri ormonali e nutrizionali; Neuro –
Fisiologici, come le alterazioni delle onde cerebrali e le disfunzioni cerebrali.

Antropo – biologia e criminalità. Le tipologie costituzionali

La genetica del comportamento è una scienza che cerca di spiegare le somiglianze e le differenze del
comportamento dei singoli soggetti. A tal proposito è importante chiarire il significato di alcuni termini che
provengono da questo ambito ma che, nel linguaggio comune, vengono usati come sinonimi per indicare
fattori non sociali :

• Ereditarietà > indica i caratteri morfologici e fisiologici trasmessi dalla progenie. Tutto ciò che è
innato, quindi derivante dai geni invece, non è necessariamente ereditato, poiché possono prodursi
mutazioni nella trasmissione fra genitori e figli. Il genotipo di una persona quindi comprende sia
caratteri ereditari sia quelli innati.

• Congenito > si intende ciò che è presente alla nascita, che non sempre è innato.

• Costituzionale > si fa riferimento alla costituzione fisiologica di un organismo umano, che può
subire cambiamenti nel processo di sviluppo, ad esempio per incidenti o malattie.

• Genotipo > è l’effettiva costituzione genetica di un individuo.

• Fenotipo > riguarda il complesso delle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo,


prodotto dall’interazione dei geni fra loro e l’ambiente.

A tal proposito ricordiamo che Dobzhansky sostenne che “ tutti i tratti, i caratteri o le caratteristiche del
fenotipo sono determinati dal genotipo e dalla sequenza di ambienti con cui il genotipo interagisce “.

Ciò premesso, molte teorie antropologiche prendono le mosse dall’affermazione per cui il comportamento
criminale sia il risultato di alcune caratteristiche fisiche e biologiche , e proprio queste ultime vennero
studiare dai primi criminologi al fine di identificare quali fossero i connotati distintivi del “ tipo criminale “.
Come ben sappiamo fu Cesare Lombroso il primo a cercare di spiegare il crimine sulla base di dati fisici ed
ereditarietà e nonostante la sua teoria fosse stata fortemente criticata, la ricerca sui fattori costituzionali del
crimine proseguì per molti anni. In particolare, fra i primi tentativi di individuare le determinanti biologiche
della deficienza mentale e di varie forme di comportamento deviante, ricordiamo gli studi sulle famiglie
criminali emerse fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. Fra i vari ricercatori abbiamo :

• Charles Goring trovò alcune differenze fisiche, come statura e peso corporeo più bassi ed
intelligenza più debole, fra un campione di tremila condannati ed il gruppo di controllo di non
delinquenti. Suddivise poi la casistica in 4 classi sociali ed in 7 categorie lavorative e rilevò che in
ogni classe ed occupazione i soggetti meno intelligenti e meno dotati sul piano fisico presentavano
una predisposizione più elevata per il crimine;

• Albert Hooton invece si oppose a Goring : nel suo studio su mille criminali e non criminali, scoprì
una differenza significativa fra i primi e i secondo in quanto i delinquenti erano inferiori in quasi

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tutte le misurazioni corporee, sostenendo che tale inferiorità fosse dovuta all’ereditarietà piuttosto
che a situazioni ambientali o sociali;

• Kretschmer e Sheldon invece tentarono di dimostrare l’esistenza di una relazione fra determinati
tipi costituzionali e vari aspetti della personalità, sostenendo che alcuni tipi psicofisici propendessero
verso l’agire criminale.

Lo stesso Kretschmer stilò anche una classificazione tipologica di base, da cui poi si è sviluppata la scuola
criminologica moderna. Nell’intento quindi di esaminare le interrelazioni fra tipo fisico, carattere e anomalia
distinse tre tipi costituzionali principali, risultati dalle sue ricerche empiriche :

• Tipo Leptosomo, con un corpo snello, una testa piccola, torace ristretto e spalle esili, ossatura
delicata con un carattere rigido, riservato, freddo e poco socievole;

• Tipo Atletico, con una forma muscolosa, un torace ampio, con un temperamento vischioso, stabile,
non nervoso ma a volte esplosivo;

• Tipo Picnico, con un corpo tozzo, viso largo, con un carattere allegro ed affabile;

• Tipo Displastico, che differiva dagli altri tre individuati e caratterizzato da disturbi ghiandolari.

Il passo successivo di Kretschmer fu poi quello di individuare se vi fosse una relazione fra i tipi
costituzionali e la predisposizione verso alcune malattie mentali : egli rilevò da un lato una notevole
correlazione fra i tipi leptosomo , atletico e alcuni displatici, e la schizofrenia, mentre dall’altro fra il tipo
picnico e la psicosi maniaco – depressiva. Individuò poi altre 2 categorie ovvero gli Schizoidi e i Cicloidi,
nelle quali fece entrare tutti quei soggetti che oscillavano fra la salute mentale e la malattia. Nelle sue
elaborazioni successive poi cercò di mettere in relazione la sua tipologia con il delitto, analizzando più di
4000 casi criminali. Riuscì così ad osservare che i leptosomi iniziavano a delinquere molto giovani, al
contrario dei picnici i quali, essendo socialmente più adattabili, divenivano delinquenti verso i 45-50 anni,
mentre gli atletici risultavano stabili nella popolazione criminale fino a circa 55 anni. In relazione invece alle
tipologie di reato, i leptosomi erano più frequenti fra i ladri ed i truffatori, gli atletici fra colo che
commettevano delitti sessuali, i picnici fra gli autori di frodi e, infine, i displastici fra i delinquenti sessuali.

Successivamente Sheldon riprese la classificazione di Kretschmer e la rielaborò con tecniche statistiche e


più sofisticate . In pratica egli rilevò un’alta correlazione fra i 3 tipi corporei fondamentali e un determinato
tipo temperamentale :

1. Ectomorfi, in cui prevaleva l’inibizione, la riflessione e l’ipersensibilità e corrispondevano ai


leptosomi;

2. Mesoformi, in cui prevaleva il piacere per l’attività muscolare, l’aggressività nel trattare con gli altri
e l’autoimporsi, ed equivalevano agli atletici;

3. Endomorfi, in cui prevaleva l’amore per la comodità, al socievolezza e l’affettività, e


corrispondevano ai picnici.

Egli ritenne che il tipo mesomorfo fosse quello maggiormente coinvolto nel comportamento criminale.
Seppure i risultati ottenuti da Sheldon nel complesso non sono stati confermati da studi successivi, la sua
classificazione ha ottenuto un certo successo nel capo dell’osservazione della criminalità. Importante
ricordare come lo stesso Sheldon insieme ad Eleanor Glueck rilevarono una relazione fra delinquenza e
mesomorfismo nel loro studio comparativo fra 500 giovani delinquenti e 500 non delinquenti, ed

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evidenziarono proprio come i mesomorfi fossero maggiormente caratterizzati da tratti predisponenti verso la
commessione di atti aggressivi.

Fra gli altri studiosi ricordiamo che Verkko, un criminologo finlandese, tentò di spiegare l’alta percentuale
di delitti violenti in relazione all’alcolismo, utilizzando la tipologia di Kretschmer e la sua tesi, secondo la
quale l’atletico era il tipo con minor resistenza alle sostanze alcoliche, mentre il picnico era quello che le
sopportava meglio. Successivamente Cortes e Gatti, confermarono una maggiore frequenza di mesomorfi
fra i delinquenti che sono più ricchi di energia e con un temperamento più aggressivo rispetto ai non
delinquenti. Eysenck si occupò poi, negli anni 60 del ‘900, di caratteristiche della personalità che potrebbero
predisporre alcuni soggetti ad assumere comportamenti definibili antisociali, e fra i tratti individuati come
geneticamente determinanti vi erano l’estroversione, l’introversione e l’emotività. In termini molto
semplificati possiamo dire che egli rilevò una maggiore estroversione nei delinquenti : in altre parole
Eysenck ipotizzò nei criminali l’eredità di un sistema nervoso centrale che mal si fa condizionare dai
processi di socializzazione e dall’apprendimento sociale.

Studi genetici sui gemelli e sui soggetti adottati

Sappiamo che uno dei metodi per determinare l’impatto dei fattori genetici è rappresentato dallo studio della
relazione fra il comportamento antisociale dei gemelli identici, detti Monozigoti, e quello dei gemelli
fraterni, detti invece Dizigoti. Prendendo in considerazione il fatto che l’ambiente sociale sia lo stesso per
entrambi i gemelli, sappiamo che se l’ereditarietà gioca un ruolo importante nel determinare il
comportamento criminale, si dovrebbe giungere al risultato che i gemelli monozigoti dovrebbero avere un
comportamento molto più simile rispetto a quello dei dizigoti. Ricerche di questo tipo sono state svolte in
svariate parti del mondo, fra i primi ricordiamo sicuramente :

• Lange, in Germania, che analizzò ben 13 coppie di monozigoti, rilevando che entrambi i gemelli
erano stati detenuti in ben 10 casi, e altre 17 coppie di dizigoti di cui solo due avevano avuto a che
fare con la giustizia;

• Newman, Freeman e Holzinger, negli Stati Uniti, evidenziarono che fra 42 coppie di gemelli
identici analizzate ben il 93% dei casi presentava il coinvolgimento di entrambi in atti
delinquenziali , mentre nelle 25 coppie di gemelli fraterni solo il 20%.

Dagli anni ’70 del 900 molte ricerche di questo tipo furono avviate negli Stati Uniti e nei Paesi Scandinavi
soprattutto grazie all’opera di Mednick e dei suoi collaboratori. Mednick, insieme a Volavka, esaminarono
una serie di studi svolti nell’arco di circa 30 anni ed evidenziarono che il 60% dei monozigoti aveva
condiviso modelli comportamentali devianti contro il 30% dei dizigoti. In definitiva quindi tali ricerche
mirano a sostenere l’ipotesi che nei gemelli identici vi sia una caratteristica genetica tale da aumentare la
probabilità di un loro coinvolgimento in attività criminali. Aspetto importante da considerare sta nel fatto che
la maggior somiglianza rilevata nel comportamento dei gemelli monozigoti potrebbe essere dovuta ad una
maggiore conformità di esperienze nel processo di socializzazione e nell’ambiente di appartenenza. Quindi,
seppur gli studi sui gemelli e sui comportamenti devianti correlati forniscono interessanti prove su un
effetto genetico, gli effetti genetici richiedono sicuramente studi più rigorosi.

Un ulteriore tentativo di evidenziare gli effetti dell’ereditarietà sul comportamento deviante è offerto dagli
studi sui soggetti adottati : tali studi si pongono il problema di scoprire se il loro comportamento sia più
simile a quello dei genitori adottivi, ed in questo caso prevarrebbe l’influenza dei fattori ambientali, o se
sia più simile a quello dei genitori biologici, con una maggiore rilevanza quindi dei fattori genetici. A tal
proposito sappiamo che la maggior parte delle ricerche ha dimostrato una maggiore concordanza della
delinquenza dei soggetti adottati con la condotta deviante dei genitori biologici rispetto a quella dei genitori
adottivi. Uno degli studi più importanti in relazione a questo tema fu condotto da Mednick e Hutchings i
quali presero in esame un campione di 4000 maschi, adottati in Danimarca : i due ricercatori individuarono

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che la percentuale più elevata di adottati con una condanna penale per reati gravi proveniva dal gruppo con
genitori sia adottivi sia biologici criminali. E’ chiaro che sarebbero necessarie ulteriori indagini sia per
determinare l’esatta natura delle caratteristiche genetiche ereditare sia per individuare quali di queste
possano effettivamente predisporre un individuo all’agire antisociale.

Il cromosoma “ Criminale “

Dal momento in cui è apparsa la prima notizia relativa ad un uomo avente cromosa 47 XYY, si è avuta una
importante diffusione di ricerche bio criminologiche relative alle caratteristiche genetiche innate e alla
criminalità. Alcuni studiosi avevano dunque notato che molti uomini con cariotipo XYY presentavano
episodi di comportamento aggressivo associato ad atti criminali, e proprio da qui vennero avviate
numerose indagini su maschi alti ricoverati per malattia mentale o per condotte criminali. Da queste analisi
alcuni i ricercatori conclusero che il cromosoma extra Y in qualche modo predisponeva l’individuo a
comportarsi in maniera antisociale e violenta. A tal proposito sappiamo che negli Stati Uniti durante i
procedimenti penali gli imputati di omicidio hanno adottato, seppur quasi sempre senza successo, una difesa
basata sull’infermità mentale in quanto portatori del cromosoma extra Y, al fine di evitare la pena di morte.
In particolare si operò in relazione a tale quesitone il genista Court – Brown : egli, richiamando proprio
l’attenzione sul fatto che questi soggetti tenessero non di rado un comportamento antisociale e fossero quindi
episodi di violenza, richiese un riconoscimento di ridotta responsabilità per effetto della loro costituzione
genetica. Sappiamo che le implicazioni sul piano dell’imputabilità di questi soggetti rappresentino una
questione non di poco conto : in riferimento al sistema giuridico italiano ad esempio, sappiamo che se ad un
imputato di omicidio venisse riscontrato l’extra Y, quindi un‘anomalia ,genetica non avrebbe comunque
alcuna chance di riabilitazione e rischierebbe la pena dell’ergastolo, oppure il ricovero a vita, in
quanto non verrebbe mai meno la sua pericolosità sociale. Fra i primi studi relativi a tale anomalia
cromosomica ricordiamo quelli condotti da Patricia Jacobs in un ospedale psichiatrico di massima sicurezza
in Scozia : la Jacobs, insieme ai suoi collaboratori, evidenziò una percentuale significativa di soggetti con
extra Y che presentavano una propensione criminale pericolosa e violenta. Mentre in un lavoro successivo
notarono che i maschi XYY erano meno aggressivi e indisciplinati rispetto al gruppo di controllo, nonostante
i precedenti fossero violenti. Tuttavia studi successivi hanno disconosciuto che vi sia una relazione
diretta fra l’anomalia cromosomica XYY e l’infermità mentale o quello che è il comportamento
deviante, anche perché sono state prese in esame popolazioni detenute. Possiamo quindi affermare in
conclusione che le ricerche svolte non presentano criteri scientifici validi per sostenere una spiegazione del
comportamento criminale.

I fattori biochimici

Un altro settore esplorato dai biologi riguarda l’importanza dei fattori biochimici nel campo della criminalità.
E’ importante sottolineare come non tutti gli studiosi del settore siano concordi nel sottolineare l’importanza
dei fattori nutrizionali e dietetici sul comportamento, in particolare quello antisociale, anche se molti altri
hanno invece rilevato delle differenze significative in relazione al tipo di nutrizione, disfunzioni cerebrali e
agire deviante. A tal proposito sappiamo che uno studio interessate è stato svolto proprio facendo focus sul
rapporto che esiste fra dieta ad alto contenuto di zucchero ed aggressioni da due studiosi quali Schoenthaler
e Doraz : i due hanno osservato circa 276 delinquenti in carcere per determinare gli effetti dello zucchero sul
comportamento nel setting istituzionale. Altre ricerche in questo campo sono state invece condotte sulle
carenze vitaminiche bei giovani delinquenti : si è osservata ad esempio la relazione fra differenti tipi di
comportamenti antisociali e deficit di vitamine B6 e B3. Tuttavia la maggior parte di queste analisi è stata
criticata poiché non va realmente ad informare sul grado di influenza delle condizioni nutrizionali sul
comportamento delinquenziale o su come quest’ultimo possa essere ridotto mediante terapie dietetiche.

Per quanto riguarda invece la correlazione fra valori ormonali e comportamento aggressivo, sappiamo che
molti ricercatori hanno collegato i livelli di androgeni, quindi ormoni sessuali maschili, e testosterone,
con appunto l’antisocialità : quanto più alti sono i primi, tanto più frequenti risulterebbero i comportamenti

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violenti. Non a caso i detenuti con un elevato tasso di testosterone sono più numerosi fra i condannati per
delitti piuttosto gravi. A tal proposito sappiamo che alcuni studiosi hanno ritenuto ce la quantità del
testosterone sia importante pe capire le disparità nei quozienti di criminalità non solo in termini di differenze
di genere, ma anche di processo di invecchiamento : ciò sta a significare che negli uomini si riduce
l’aggressività con l’età in quanto diminuirebbe il libello di testosterone con l’avanzare della vita. Altre
ricerche più recenti hanno poi rivolto l’attenzione sui livelli di androgeni e dei loro effetti sul
funzionamento del cervello e sul comportamento antisociale : secondo una serie di analisi quindi i livelli
di tali ormoni influirebbero sulle capacità di apprendimento e sul grado di eccitazione. Sempre in questo
settore vanno inserite inoltre le analisi mirate ad associare le attività devianti delle donne alle variazioni
ormonali che si verificano prima o durante il ciclo mestruale : in particolare è stato rilevato uno stretto
legame fra la sindrome premestruale e la delinquenza, nel senso che le donne in questa fase tendono ad
essere più aggressive ed antisociali, nonché a commettere più spesso atti suicidi. E’ importante sottolineare
comunque che anche la valutazione dell’influenza dei fattori ormonali sul comportamento va analizzata con
cautela, tenendo sempre presente che possono intervenire molti altri fattori. Anche il problema
dell’ipoglicemia, condizione fisiologica per cui risulta nel sangue un livello di zucchero al di sotto della
norma, è stato analizzato con molta attenzione : è stato infatti riscontrato che questa malattia può determinare
alterazioni nel funzionamento cerebrale, provocando nel soggetto sintomi di ansia, rabbia ed aggressività.
Alcune ricerche hanno anche rilevato una correlazione con reati contro la persona, in particolare violenze
sessuali, omicidi e aggressioni, dimostrando quindi come nei delinquenti siano spesso presenti livelli di
ipoglicemia significativamente più elevati di quelli del gruppo di controllo.

Altro aspetto da non trascurare riguarda poi gli effetti dei prodotti chimici sul comportamento. E’ stato
infatti riscontrato che i loro cambiamenti, causati da sostanze ambientali inquinanti, possono provocare nella
popolazione depressione e diverse anomalie comportamentali, e come ancora le sostanze tossiche come
mercurio, piombo, pesticidi e altri, possono entrare nel corpo attraverso la catena alimentare. Anche le
sostanze che inquinano l’aria, se assorbite, vanno a causare problemi di salute e in certi casi di morte. A tal
proposito sappiamo che Needleman ed i suoi collaboratori hanno riscontrato, attraverso una ricerca,
un’associazione fra l’esposizione al piombo e il disadattamento sociale dei minori e il rischio di
incremento di comportamenti aggressivi. Anche l’Environmental Protection Agency degli USA ha
indagato sul livello di piombo nell’aria in 3111 contee, riscontrando proprio come il tasso di omicidio fosse
quattro volte più alto nelle contee aventi una concentrazione massima di piombo nell’aria rispetto a quelle
con concentrazioni più basse. Questa ed altre contaminazioni ambientali sono state messe dunque in
relazione con gravi disturbi emozionali e disordini comportamentali nella popolazione già da diversi anni,
muovendo di conseguenza anche una forma di sensibilizzazione verso l’ambiente.

Chiaramente in un’analisi sulle modificazioni fisiche dovute a fattori chimici è quasi fondamentale far
riferimento all’alcol e alle droghe : queste sostanze infatti causano spesso irritabilità, violenza,
depressione e tendenza al suicidio e all’omicidio. Non a caso molti omicidi, come quelli colposi dovuti ad
incidenti stradali, avvengono in stato di intossicazione alcoolica. A tal proposito sappiamo che molte ricerche
statunitensi hanno dimostrato che nel 40% dei delitti violenti e degli omicidi, nel 37% degli stupri e nel 15%
delle rapine, l’alcool rappresenta una fattore fondamentale. Lo stesso problema emerge con le sostanze
stupefacenti, sia naturali che sintetiche : sempre ricerche provenienti dagli USA hanno evidenziato come
l’uso di droghe è molto spesso legato a omicidi, rapine, violenze sessuali, aggressioni gravi e reati commessi
alla guida di motoveicoli, e fatto ancora più allarmante vede che esiste una percentuale compresa fra 60 e 80
% di chi abusa di droghe che, una volta dismesso dal carcere, commette un nuovo delitto, mentre il 95%
torna a drogarsi. Questi dati mostrano chiaramente come una semplice detezione, priva di un programma di
recupero e disintossicazione, non sortisca alcun tipo di effetto. Nel caso dell’Italia tuttavia non si hanno dati
ufficiali su quanti e quali delitti siano effettivamente correlati all’alcoolismo e all’uso di sostanze
stupefacenti, ma alcuni indicatori di tale rapporto possono essere dedotti dalle statistiche
dell’amministrazione penitenziaria.

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Neuroscienze e crimine

Sappiamo che per più di 50 anni si è cercato di determinare se vi fosse o meno una relazione fra alcuni
tipi di onde cerebrali anomale, misurate con l’EEG ossia l’elettroencefalografo, ed il comportamento
antisociale. In uno dei più importanti studi di questo settore, un campione di 355 minori delinquenti è stato
diviso in 2 gruppi : il primo era composto da coloro che avevano commesso un solo atto criminale, il
secondo invece costituito da soggetti violenti e recidivi. I tracciati EEG sono risultati irregolari nel 24% dei
casi del primo gruppo e nel 65% di quelli del secondo. In generale comunque sappiamo che i risultati non
esprimono segni specifici del comportamento delinquenziale, piuttosto mettono in evidenza la presenza di
anormalità nei tracciati dei criminali violenti. Anche disfunzioni e danni cerebrali possono essere
collegati al comportamento deviante, per questo motivo attraverso l’uso di test clinici e risonanza
magnetica, alcune ricerche hanno associato deficit strutturali, soprattutto nella regione della corteccia
prefrontale, con comportamenti antisociali e violenti : disfunzioni in questa area del cervello infatti, sono
presenti nel 75% dei ricoverati aggressivi e sociopatici depressivi. Anche i medicinali, le sostanze
chimiche ma soprattutto le lesioni cerebrali, come le neoplasie, sono spesso causa di una marcata
modificazione nella personalità e nel comportamento : questa patologia viene definita nell’ICD – 10, ovvero
“Disturbo organico di personalità” e nel DSM-5 “Modificazione della personalità dovuta a una
condizione medica generale”, e sta ad indicare una sindrome prefrontale, il cui quadro clinico è
caratterizzato da deficit cognitivi e disturbi comportamentali, emotivi e motori. Ultimo accenno riguarda
determinati atteggiamenti sociopatici e sessuali alterati che possono essere presenti nei soggetti affetti da
tumore cerebrale : alcuni studi infatti hanno evidenziato come soggetti, in precedenza miti e allegri, possano
trasformarsi in aggressivi e violenti per l’insorgenza di una forma tumorale nel cervello. A tal proposito
possiamo ricordare un caso interessante, relativo ad un uomo di 40 anni con un tumore nella corteccia
orbitofrontale che ha iniziato ad avere comportamenti pedofili, descritto da Burns e Swerdlow. In
conclusione possiamo evidenziare come, allo stato attuale, molte ricerche genetiche e neuroscientifiche siano
entrate a pieno titolo anche nella letteratura criminologica, seppure alcune di esse siano ancora in fase
sperimentale e non offrano dati soddisfacenti. In particolare si è dato risalto agli studi mirati ad individuare
il “ gene criminale “, proprio come è successo per il cromosoma extra – y ed ora avviene con il gene
dell’enzima monoamino ossidasi A.

Una problematica di natura etica e giuridica sorge poi dall’istituzione della Banca Dati Nazionale del DNA
nel nostro paese con la legge n. 85 del 2009 per l’acquisizione ed il trattamento delle bio informazioni
genetiche ai fini forensi : in particolare l’articolo 9 stabilisce che il prelievo può essere effettuato
esclusivamente se si procede nei confronti di soggetti per delitti non colposi per i quali è consentito l’arresto
facoltativo. E nonostante l’alto livello di garanzie adottate per la sicurezza, si è sviluppato il timore della
creazione di una sorta di “panopticon genetico”, in grado di rivelare in futuro molte più informazioni sulle
caratteristiche genetiche personali e del nucleo familiare. Tuttavia problemi etici, ancora più drammatici,
sorgono in relazione alla predizione e alla prevenzione delle manifestazioni violente. Bisogna comunque
considerare che risulta molto difficile, se non impossibile, prevedere il futuro comportamento aggressivo di
un bambino senza tener conto di altri fattori quali il processo di socializzazione, l’ambiente sociale,
economico e culturale in cui cresce, rischiando inoltre di mettere in secondo piano tutti quei problemi sociali
che producono criminalità. Sulla base di questa riflessione, il sociologo – criminologo Cullen ha proposto un
paradigma che permetta di comprendere i rapporti fra ambiente sociale, cervello e comportamento : secondo
l’autore, sviluppando interventi preventivi attraverso le ricerche nel campo dell’epigenetica e nella Systems
Biology, si potrà superare l’antico dibattito ed avere un nuovo approccio al fenomeno criminale.

E’ chiaro quindi che la presenza di una patologia organica o grave anomalia cerebrale o di una alterazione
genetica può provocare un comportamento deviante ed essere quindi considerata determinante
indipendentemente dalle condizioni ambientali, allo stesso tempo però tali teorie non offrono una
spiegazione valida per la maggior parte dei comportamenti criminali, che sono commessi da persone

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“normali” a causa di fattori situazionali : in altre parole queste teorie non permettono di conoscere e
comprendere il fenomeno della “criminalità” nel suo complesso.

Cap. 5 – Psicologia e Delitto

In opposizione alle teorie biologiche si sono sviluppate numerose interpretazioni del crimine di tipo
psicologico che hanno messo in rilievo l’importanza dei tratti della personalità nell’agire deviante. Fra i
termini principalmente utilizzati nelle diverse interpretazioni della psicologia criminale troviamo:
Temperamento, Carattere e Personalità. Queste parole si usano spesso nel linguaggio comune, senza
alcuna distinzione, per indicare le caratteristiche psichiche di una persona, mentre nel campo delle scienze
psicologiche e psichiatriche non sono sinonimi bensì indicano diversi livelli psichici.

1. Per Temperamento si intende la base innata, legata alla struttura biologica. E’ un termine che deriva
etimologicamente da Temperamentum che sta ad indicare una mescolanza dei vari umori del corpo.
A tal proposito sappiamo che Galeno delineò 4 temperamenti, a seconda del prevalere di uno dei
quattro umori di cui si riteneva allora composto l’organismo umano : il collerico, il flemmatico, il
sanguigno e il melanconico. Per cui il temperamento così inteso è distinto dal carattere propriamente
detto, perché non comprende le qualità dell’individuo che orientano la sua condotta. Secondo Kahn
è possibile evidenziare due elementi principali : la valutazione dell’Io rispetto al mondo e lo scopo
delle direttive. In altre parole le diverse esperienze di vita, i rapporti familiari ed interpersonali
influiscono sul temperamento, modificando pensieri, atteggiamenti ed azioni.

2. Il Carattere invece indica la peculiarità invisibile della persona, ovvero l’impronta che lascia nei
suoi atti. E’ dunque l’espressione della persona e costituisce un gradino verso lo sviluppo della
personalità.

3. La Personalità, che deriva dal latino Persona, sta ad indicare il tipo psicologico rappresentato in
teatro e il tipo psicologico dei singoli. In generale significa la totalità affettivo – volitiva del
soggetto, compresi la tendenza istintiva, il temperamento e il carattere. Secondo la definizione di
Allport, “ la personalità è l’organizzazione dinamica all’interno dell’individuo di quei sistemi
psicofisici che determinano il suo adattamento unico all’ambiente “. In altri termini la personalità è
definita come l’organizzazione di attitudini, credenze, abitudini e comportamenti, oltre ad altre
caratteristiche, che si sviluppa nell’individuo attraverso l’interazione sociale. Dal punto di vista
psicologico si acquisisce dopo la nascita ed è il risultato della socializzazione e delle relazioni
interpersonali.

Psicoanalisi : Freud e il delinquente per senso di colpa

Sappiamo che molti psichiatri e psicologi hanno discusso sul perché alcune persone divenissero aggressive e
violente e di conseguenza sono stati pubblicati diversi libri sulla psicologia criminale, senza giungere però ad
una esaustiva spiegazione della personalità del delinquente non affetto da malattia mentale. La prima
interpretazione soddisfacente giunse grazie a Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, le cui idee sono
state utilizzate dai criminologi proprio per spiegare il comportamento antisociale. Egli sostenne che la
personalità non era altro che il risultato dell’esperienza sociale e sottolineò l’importanza delle esperienze
nella prima infanzia e dei conflitti fra i bisogni dell’individuo e le richieste della società. Secondo la sua
teoria, relativa all’apparato psichico, la personalità si distingue in 3 parti quali :

• ID o ES : fin dalla nascita costituisce il polo pulsionale della personalità, i suoi contenuti sono
inconsci, per una parte ereditari ed innati, per l’altra acquisiti e rimossi. L ’Es rappresenta per Freud
il serbatoio primario dell’energia psichica, che dal lato dinamico entra in conflitto con l’Io ed il
Super-Io, che rappresentano geneticamente differenziazioni dell’Es. Quest’ultimo non ha il senso del

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tempo, dell’ordine e della morale ed è alla ricerca costante del piacere : nel ricercare il
soddisfacimento dei primitivi stati di bisogno infatti, è regolato dal “principio del piacere”.

• IO o EGO : è parte della struttura psichica conscia e razionale e si sviluppa quando il bambino
comincia a realizzare la separazione dagli altri e dagli oggetti dell’ambiente. Si pone come mediatore
fra le pulsioni inconsce dell’Est e gli imperativi del Super – Io, e viene definito come fattore di
legame fondamentale dei processi psichici in quanto aziona i meccanismi di difesa motivati dalla
percezione di un effetto spiacevole.

• SUPER IO o SUPER EGO : interiorizza le esigenze e i divieti dei genitori o del gruppo sociale.
Ha quindi la funzione di “coscienza sociale “, di censore e di formazione di ideali . Quando si
interagisce con gli altri infatti, si è soggetti all’autorità genitoriale esteriore : durante lo sviluppo
inizia ad identificarsi con questa immagine, e la introietta nella sua personalità. Freud riteneva che la
pressione maggiore da parte della società fosse diretta verso il Super – Io, in modo tale che la
personalità si conformasse alle regole sociali : è infatti quest’ultimo che permette l’espressione di
quegli atteggiamenti che la società considera appropriati.

Nelle sue analisi, Freud collegò la criminalità ad un inconscio senso di colpa che il soggetto prova a
causa del complesso di Edipo, se è maschio, o di Elettra se è femmina, vissuto durante l’infanzia. Tale
complesso consisterebbe nel provare, da parte del bambino, una forte attrazione ed affetto particolare nei
confronti della madre o del padre. Durante lo stadio edipico dello sviluppo psicosessuale, il soggetto rinuncia
secondo Freud ad una parte dei suoi desideri sessuali nei confronti del genitore, mentre si identifica con il
genitore dello stesso sesso, ed è proprio attraverso tale identificazione che il bambino interiorizza le regole
ed i ruoli della sua cultura, facendo emergere il Super-Io.

Freud comunque ritenne che in alcuni criminali fosse possibile individuare un senso di colpa
preesistente dalla commissione del reato, che quest’ultimo dunque non fosse il risultato della colpa bensì
la sua motivazione. A tal proposito Freud evidenziò che molti suoi pazienti, che si sentivano colpevoli,
commettevano atti antisociali, al fine di essere arrestati e puniti severamente, in modo tale da essere liberati
dal sentimento di colpa. Nel caso delle condotte antisociali quindi, il senso di colpa può insorgere come
risultato del conflitto fra Super-Io e desideri aggressivi e sessuali infantili, originati dal complesso edipico. Si
tratta chiaramente di un’ipotesi interpretativa che non coinvolge tutti i delinquenti, tanto che spesso si tratta
di soggetti con una coscienza morale sviluppata. In accordo con la tesi freudiana si svilupparono così
numerose teorie, basate appunto sulle idee e sui metodi psicoanalitici.

Reik e la coazione a confessare

Theodor Reik, riprendendo il caso clinico dell’avvelenatore analizzato da Freud, teorizzò la nascosta
“coazione a confessare” di alcuni soggetti. Venne così evidenziato come questo impulso si potesse
manifestare attraverso atti di dimenticanza e di trascuratezza sulla scena del delitto, oppure con atteggiamenti
di disprezzo ed arroganza in sede di interrogatorio di polizia e di giudizio. Secondo Reik quindi questi
comportamenti possono rappresentare forme inconsce di auto accusa provocate da un bisogno,
anch’esso inconscio, di punizione per il senso di colpa che affonda le sue radici nel complesso edipico.
In altre parole quindi, il delinquente attraverso il modo indiretto del lapsus, come ad esempio lasciare oggetti
personali sul luogo del delitto, svela il proprio segreto : questo perché, se il delitto è scoperto, la conduzione
alla pena può portare sollievo psichico dal senso di colpa. Le teorie di Freud e Reik si prestano tuttavia ad
altre due possibili ipotesi :

• la prima si riferisce al caso in cui il senso di colpa inconscio porta a commettere un delitto ed
alla conseguente ricerca della punizione per alleviare l’angoscia, ma poi spinge a reiterare
l’agire antisociale per ottenere una successiva punizione. Ci si riferisce in questo caso ad un
delinquente il cui senso di colpa o di angoscia non si risolve in un’unica soluzione, in quanto le

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tracce lasciate sono criptiche e non sufficienti per farlo individuare come colpevole, ed il gioco
perverso di seminare indizi placa il senso di colpa temporaneamente.

• La seconda riguarda invece il caso in cui il senso di colpa ed il desiderio della punizione sono
talmente forti da bloccare la confessione del soggetto, che non vuole liberarsi dalla colpa in
maniera così semplice e veder diminuita la sua pena interiore. E’ chiaro dunque che in questo caso
la punizione non esercita alcun tipo di controllo sul delinquente, ne la sanzione ha un effetto
deterrente, anzi potrebbe avere un effetto attraente e soddisfare inconsce tendenze masochiste.

La diagnostica criminale di Alexander e Staub

Sappiamo che già Freud riteneva che nella psicologia del criminale fossero determinanti due tratti :
l’egoismo illimitato ed una forte tendenza distruttiva, dovuti alla mancanza di amore ed all’assenza di
apprezzamento affettivo degli altri. Alexander, insieme prima a Staub e successivamente a Healy,
riprendendo i concetti di Freud sull’analisi del comportamento criminale, ha formulato una nuova teoria :
partendo dal pensiero secondo il quale gli impulsi criminali siano presenti nella personalità di ognuno, è stato
evidenziato come nel soggetto normale questi impulsi siano controllati e non conducano mai all’azione
vera e propria. L’Io quindi, secondo quest’ottica, svolgerebbe una funzione fondamentale nelle
manifestazioni antisociali, e quando esso è debole è più probabile che si manifesti il comportamento
deviante. Alexander e Staub hanno poi classificato la criminalità in ordine crescente, in rapporto al grado di
partecipazione dell’Io : entrambi ritenevano infatti che vi fosse una partecipazione minima dell’Io nella
criminalità fantastica, che aumenta e diviene più evidente nell’espressione di errori, come reati colposi ad
esempio, fino a divenire una partecipazione totale nella criminalità senza conflitto interiore, definita
quindi normale. Schematizzando quindi la loro “diagnostica criminale psicoanalitica” è possibile distinguere:

1. una “ criminalità fantastica “, quando le azioni criminali rimangono a livello di sogni o fantasia. In
questo tipo di criminalità il soggetto ha un Super – Io che non consente all’aggressività di realizzarsi
in condotte delinquenziali e che riduce la tensione attraverso la dislocazione degli istinti a livello di
fantasia;

2. una “ criminalità accidentale “ ad opera di persone non criminali, in cui il Super – io non permette
una realizzazione diretta dell’aggressività, bensì riduce il suo controllo in modo tale che l’Io ka
manifesti attraverso condotte imprudenti;

3. una “ criminalità cronica “ commessa da soggetti con una personalità criminale, in relazione alla
quale Alexander e Staub distinguono una serie di sottocategorie :

• Azioni criminose per processi tossici o biopatologici, dovute a soggetti in cui la “ funzione dell’Io
è profondamente pregiudicata o neutralizzata “;

• Azioni criminose da eziologia nevrotica, causate da motivi inconsci, in cui ci sono meccanismi
nevrotici che spingono all’azione ed indeboliscono il vincolo di dipendenza dell’Io dall’influenza del
Super – Io o lo ingannano circa i veri motivi dell’atto stesso.

• Azioni criminose del delinquente normale con Super-Io criminale, non dovute a nevrosi ma alla
formazione di un Super – Io che si identifica con modelli criminali. In tale categorie rientrerebbero
vagabondi, mendicanti, capibanda e delinquenti professionali, in cui vige un codice di
comportamento diverso da quello della cultura dominante : si tratta dunque di soggetti che sono
psichicamente normali.

• Azioni criminose da delinquente genuino, senza Super – Io quindi, dovute ad un soggetto inadatto
alla vita sociale, che traduce subito in atto i suoi impulsi primitivi, privo di qualsiasi controllo
interiore.

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Antisocialità per impulsi proibiti dei genitori di Johnson

Già John Bowlby aveva messo in evidenza l’importanza dei legami affettivi per lo sviluppo del
bambino, e come la carenza di affetto da parte delle figure genitoriali o un loro atteggiamento
eccessivamente severo potesse causare nel figlio conflitti non risolti e sensi di colpa tali da dover essere
soddisfatti, provocando quindi situazioni per cui fosse necessaria una punizione. Egli notò inoltre che se
l’atteggiamento dei genitori oscilla fra l’esagerato permissivo e l’eccessiva severità, oppure se la figura
materna è troppo rigida e severa rispetto a quella paterna che invece riveste un ruolo opposto, il Super-Io del
bambino si svilupperà in maniera discontinua. Da qui si sviluppa la Teoria Eziologica di Johnson, che parte
proprio dal presupposto per cui il modo di essere antisociale del minore sia inconsciamente incoraggiato
e sanzionato dai genitori, che ottengono attraverso l’agire del figlio, soddisfazione per i loro impulsi
proibiti : la inconscia approvazione e l’incoraggiamento indiretto da parte dei genitori infatti, possono essere
una delle cause della condotta antisociale. E’ possibile riconoscere tali condotte antisociali per il chiaro
atteggiamento di approvazione da parte dei genitori, rilevabile nel raccontare in modo dettagliato “ le
imprese “ del figlio, come se ne fossero affascinati. In quella che è quindi l’analisi del rapporto fra genitori e
figli devianti, è possibile quindi individuare le lacune del Super – Io non solo nei secondi, ma anche dei
primi che attraverso l’incoraggiamento, ottengono inconsciamente la soddisfazione delle proprie tendenze
devianti rimosse. Tuttavia, secondo Johnson e Szurek, attraverso il processo di soddisfazione vicariante, si
possono spiegare solo le manifestazioni di delinquenza individuale ad opera di giovani appartenenti alle
classi agiate, mentre apparirà più difficile interpretare le condotte delinquenti di bande minorili.

Mailloux e la teoria della “Pecora Nera”

Altro concetto spesso utilizzato nella letteratura criminologica è quello di Identità, che sta ad indicare la
rappresentazione mentale del soggetto, della sua presentazione pubblica, della sua percezione e del Sé. Il
termine identità presenta al suo interno due dimensioni : una intrapsichica, l’altra culturale e relazionale.
In relazione al concetto di identità sappiamo che lo psicologo canadese Mailloux elaborò la teoria sulla
personalità del delinquente “tipico” : egli parte dall’ipotesi che sono i genitori ad influenzare, in modo più o
meno esplicito, il figlio che si identifica con l’immagine negativa che si sono fatti di lui. In altre parole il
giovane delinquente deriva da una negativa percezione di sé, derivante dall’interiorizzazione delle
aspettative non positive dei genitori o di altre figure adulte particolarmente significative. Quindi, il
considerare il bambino un buono a nulla, un fallito o un teppista, creerà nel giovane la convinzione di
essere diverso e di non potersi inserire nella società : questo lo condurrà a comportarsi in maniera negativa
in tutte le altre esperienze che verranno, mettendo in atto atteggiamenti aggressivi e violenti. Si svilupperà in
lui così un profondo sentimento di inferiorità e di disagio sociale che lo porterà a crearsi un’immagine
di “duro”, in modo da compensare il suo senso di inadeguatezza, e si indirizzerà poi verso il mondo della
delinquenza, inserendosi in una banda in cui si sentirà accettato. Secondo Achille, la ricerca dell’identità in
questo caso avviene mediante la socializzazione in un gruppo, dove l’identità negativa del soggetto
troverà un sostegno positivo ed il Super – Io del gruppo soppianterà quello individuale ancora
presente. Per effetto della ripetizione compulsiva, infine il soggetto diventerà un delinquente professionale,
sino ad avere il riconoscimenti della sua identità negativa attraverso una condanna pubblica.

I meccanismi di difesa

Secondo il pensiero di Freud, i meccanismi di difesa sono alla base del comportamento non solo conforme
ma anche deviante. Fu Anna Freud a fornire una prima elencazione sistematica dei nove meccanismi presenti
nelle opere del padre : tali meccanismi sono operazioni psichiche, in parte inconsce e a volte coatte, adottate

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per ridurre o sopprimere qualsiasi elemento possa turbare l’equilibrio dell’Io. Fra i principali meccanismi
presi in considerazione dalla criminologia abbiamo :

1. Identificazione : è un processo psicologico con cui il soggetto assimila un aspetto di un’altra


persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest’ultima. Questo meccanismo è
detto anche “ introiezione o incorporazione “, e permette all’individuo di identificarsi con un
“oggetto” ritenendolo partecipe del proprio Io. Si tratta di una delle maniere più arcaiche di
rivolgersi verso un oggetto desiderato tuttavia, dato che l’introiezione può anche distruggere
l’oggetto incorporato, l’Io lo adotta anche nel tentativo di eliminare oggetti ostili : l’obiettivo di
questa dinamica è quello di ridurre l’angoscia sorta in seguito ad una privazione o frustrazione. La
criminologia ha puntato l’attenzione su questo processo in quanto l’identificazione con un
soggetto deviante o fantastico può essere alla base delle scelte criminali. Una forma specifica di
Identificazione può dunque essere quella con l’aggressore : il soggetto, di fronte ad un pericolo
esterno, si identificherà con il suo aggressore, sia assumendo la stessa funzione aggressiva sia
imitandolo fisicamente o moralmente.

2. Proiezione : si tratta di un’operazione psichica con cui il soggetto espelle da sé e localizza


nell’altra persona delle qualità, dei sentimenti e dei desideri che egli non riconosce o rifiuta in
sé : si tratta in altre parole di una falsa percezione che aiuta a diminuire l’angoscia per sentimenti
vietati o negativi, specialmente se si ha un Super – Io rigido. La criminologia ha quindi osservato
come, attraverso il meccanismo della proiezione della colpa, si possono verificare quelle forme di
delinquenza.

3. Razionalizzazione : attraverso il processo della razionalizzazione il soggetto cerca di dare una


spiegazione, dal punto di vista logico, ad un atteggiamento, un’azione o un’idea, di cui non
sono percepiti i veri motivi : secondo questa dinamica l’azione del Super – Io rafforzerebbe le
difese dell’Io. Nel campo della criminalità tale meccanismo si può riscontrare nell’autore di delitti
politici, in cui i motivi razionali accettati dall’Io per agire in maniera deviante nascondono tendenze
aggressive inconsce ad esso estranee. Questa interpretazione si collega alla teoria psicoanalitica del
simbolismo, secondo la quale ogni oggetto, ogni azione e ogni persona possono avere un inconscio
valore simbolico per rappresentare qualcosa di diverso : di conseguenza, anche un delitto può avere
un significato completamente diverso da quello apparente. Ovviamente il soggetto non è mai
consapevole del significato simbolico del suo pensiero o della sua azione, tuttavia ne è
profondamente condizionato.

4. Rimozione : è l’operazione con cui l’Io cerca di respingere o mantenere nell’inconscio le


rappresentazioni legate ad una pulsione il cui soddisfacimento rischierebbe di provocare
dispiacere rispetto ad altre esigenze. E’ quindi una dinamica che ha origine da un conflitto di
desideri opposti che non si possono conciliare. Di interesse criminologico sono anche alcune forme
di amnesia, come effetto di una rimozione, che si possono verificare dopo la commissione di un
delitto in soggetti affetti da isteria, così come la rimozione di un evento traumatico subito da parte
della vittima.

5. Formazione reattiva : si tratta di un atteggiamento psicologico di senso contrario ad un


desiderio rimosso e formato in reazione contro di esso. Un esempio può essere la crudeltà
repressa che è mantenuta inconscia da una eccessiva compassione per le sofferenze altrui, oppure il
sentimento di inferiorità che può essere nascosto da un atteggiamento di superiorità. Quindi questo
formarsi delle reazioni non è altro che lo sviluppare delle misure difensive dell’Io contro le tendenze
represse che rimangono inconsce, finché tali misure riescono a funzionare.

E’ possibile quindi affermare che le teorie psicoanalitiche permettono di studiare l’atto criminale, proprio
come se si analizza un sogno o un sintomo nevrotico. Indubbiamente la concezione psicoanalitica ha

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mirato ad approfondire i motivi e le dinamiche che spingono un soggetto, non malato di mente, a
commettere atti criminali, tuttavia le sue interpretazioni sono state criticate da più parti, in particolare
per la loro non dimostrabilità scientifica. Per questo motivo queste interpretazioni non vengono utilizzate nel
campo della giustizia penale. E’ necessario infine sottolineare che gli studi psicoanalitici svolgono un ruolo
importante anche nell’analisi delle testimonianze : come sottolinea Musatti infatti, la psicologia della
testimonianza, mediante lo studio delle successive deposizioni testimoniali di un soggetto su un determinato
accadimento, ha potuto stabilire l’esistenza di una tendenza razionalizzatrice, che opera sul quel ricordo
introducendo la massima unità e coordinazione logica del fatto. A tal proposito è possibile riassumere i
processi deformatori delle testimonianze :

• Il processo di unificazione, dovuto ad una specie di funzione economica per la quale il fatto troppo
complesso viene semplificato, e quindi impoverito di elementi;

• Il processo di sdoppiamento, segue l’esigenza di riempire la scena, la quale nel suo insieme
fornisce un’impressione generica di complessità e ricchezza, mentre all’analisi gli elementi ricordai
risulterebbero effettivamente pochi.

Comportamentismo e teorie dell’apprendimento sociale

Le teorie del comportamentismo nascono nei primi anni del ‘900, proprio quando si iniziarono a sviluppare il
materialismo, il darwinismo ed il positivismo. In psicologia quindi, come in qualsiasi altra scienza, è
necessario prendere in considerazione come dati di osservazione solo quegli eventi che possono essere
verificabili da uno sperimentatore, e rifiutare quindi il metodo dell’introspezione, i pensieri e le pulsioni,
gli istinti e lo studio delle relazioni genitori – figli. A tal proposito, sappiamo che Watson sosteneva che
fosse necessario limitarsi allo studio del comportamento, misurabile in base al sistema di risposte date
agli stimoli, al di là delle forze interne dell’individuo : la preoccupazione principale di Watson fu quindi
quella di eliminare imprecisione e soggettività. Fra i punti cardine della sua teoria, quello che risultò di
maggiore interesse per la criminologia fu proprio la “ dottrina estrema dell’importanza degli influssi
ambientali “, andando poi avanti nei suoi studi Watson spiegò tutte le differenze individuali per mezzo dei
processi di apprendimento : egli evidenziò che l’azione ripetuta di uno stimolo ad una risposta faceva in
modo che, dopo un periodo di tempo, a quello stimolo avrebbe seguito la risposta condizionata.
Successivamente, negli Stati Uniti in particolare, si sviluppò la corrente del Behavorismo di cui si ricordano
una serie di teorizzazioni fondamentali :

1. La Teoria dell’apprendimento cognitivo, di Tolman . Questa teoria si può riassumere in una serie
di punti quali :

• Ogni atto della condotta ha caratteri del tutto specifici e descrivibili, indipendentemente dai processi
muscolari, ghiandolari o neurali ad esso connessi;

• L’individuo non impara sequenze di movimenti, bensì aspettative sorte da precedenti esperienze, e
quindi da rapporti fra due stimoli dati : lo stimolo attuale S1 e la situazione che si crea nel corso
dell’azione S2;

• Al posto del rinforzo subentra il principio della conferma;

Altro aspetto importante in questa teoria riguarda il fatto che per Tolman una psicologia basata solo
sull’arco del riflesso non è sufficiente, in quanto ritiene che molte altre variabili intervengano fra lo

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stimolo e la risposta, modificandone il rapporto. Per cui egli riteneva che per studiare con
esattezza un comportamento fosse necessario conoscere anche la storia evolutiva dell’intero
organismo.

2. La Teoria sistemica del comportamento, di Hull. E’ una delle teorie più importanti del neo –
behaviorismo che spiega la formazione di un habit, ovvero di un’abitudine, attraverso un modello
complesso il cui principio fondamentale stabilisce che la forza di un’abitudine è direttamente
proporzionale al numero delle associazioni stimolo – reazioni rinforzate. Ciò significa che lo stimolo
iniziale, quindi l’imput, è solo il primo di una catena di avvenimenti che conducono poi alla reazione
ovvero l’output, e che fra lo stimolo e la reazione vi sono molte variabili intervenienti.

3. L’analisi sperimentale del comportamento, di Skinner. Il concetto che Skinner elabora evidenzia
come ogni individuo si comporta nel rispettivo ambiente : egli avrà quindi una condotta di partenza,
tipica della specie o condizionata dalla civiltà, che secondo Skinner può essere modificata o
controllata attraverso una serie di stimoli che hanno una funzione di rinforzo. Lo scopo degli studi di
Skinner era dunque quello di prevedere e controllare ogni condotta indipendentemente da qualsiasi
processo o condizione.

E’ chiaro dunque che dalle teorie behavioriste ha origine la convinzione per cui il comportamento sia appreso
ed il rifiuto dell’idea che l’aggressività sia espressione di una pulsione innata. I comportamenti criminali
sono quindi considerati come risposte, apprese, alle condizioni sociali ed alle situazioni di vita. Da questa
corrente di pensiero sono derivate diverse teorie psicologiche di interesse criminologico : fra queste
ricordiamo quella di Bandura, basata sull’apprendimento sociale, e quella di Dollard e dei suoi
collaboratori incentrata sull’ipotesi frustrazione – aggressività. Per poter comprendere la teoria relativa
all’apprendimento sociale è necessario rifarsi al concetto di socializzazione, che riguarda sia i tratti di
personalità che si acquisiscono, sia i meccanismi psicologici che ne stanno alla base. In questa ottica
Bandura sottolinea come non si nasca già con la capacità di comportarsi in modo violento, quanto
piuttosto la violenza si apprenda nel corso della socializzazione : la sua teoria si fonda quindi sull’idea
per cui il comportamento violento venga appreso dai bambini osservando ed imitando i modelli di
ruolo. Tuttavia una ulteriore scoperta di Bandura riguarda il fatto che, sebbene il modello aggressivo venga
imitato, i suoi attributi vengono valutati negativamente : secondo il teorico infatti non sussiste
incompatibilità fra l’avere elevati valori morali ed il commettere atti criminali, in quanto possono intervenire
meccanismi psicologici che bloccano il senso di autocondanna. Si metterebbe in atto il “disimpegno
morale“ che opera sotto vari forme : la giustificazione, il confronto vantaggioso, lo spostamento della
responsabilità, la diffusione della responsabilità e l’attribuzione della colpa. Tali meccanismi di disimpegno
morale agiscono molto spesso in sinergia, specialmente nelle violenze sessuali e nella partecipazione a bande
criminali. Altro aspetto fondamentale derivato dalle ricerche di Bandura riguarda l’aver messo in evidenza
come aggressività e violenza vengano apprese non solo attraverso l’interazione con gli altri, ma anche
in altri setting sociale che offrono svariate esperienze di apprendimento, fra questi abbiamo : la
presentazione di scene di violenza e aggressività nei film o nei programmi televisivi. Non è un caso che fra
gli studi pioneristici relativi agli effetti della televisione sui giovani, ci siano proprio quelli dei Bandura.
Queste analisi miravano proprio ad evidenziare come i bambini in età prescolare imitavano i
comportamenti aggressivi osservati nei filmati televisivi, e come l’esposizione ai mezzi di comunicazione
di massa potesse produrre tre diverse reazioni quali : le risposte imitative non presenti nel soggetto, l’effetto
inibitorio o disinibitorio su risposte precedentemente acquisite, risposte simili. In altre parole quindi i media
hanno la capacità di influenzare i bambini in modo tale che abbandonino, modifichino o rafforzino stili di
vita e modelli di comportamento.

Per quanto riguarda invece la teoria della frustrazione – aggressività elaborata da Dollard, è bene partire
dalla comprensione del termine “frustrazione” : questa parola venne introdotta da Freud per indicare la

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condizione del soggetto che si vede rifiutare o rifiuta a se stesso il soddisfacimento di una domanda
pulsionale. In psicologia però questo termine viene impiegato in 3 accezioni diverse :

1. La prima forma si riferisce alla “situazione frustrante”, i cui carattere devono essere la mancata
possibilità di soluzione, l’impossibilità di uscirne ed una forte motivazione all’azione.

2. La seconda accezione riguarda lo “stato di frustrazione”, il cui grado varia nei diversi individui.
Anche la tolleranza di frustrazione dipende infatti dalle differenze individuali nel sopportare più o
meno situazioni frustranti.

3. La terza accezione fa invece riferimento alla “reazione alla frustrazione”, che può essere di varia
natura : fra le più studiate abbiamo l’aggressione, la regressione e la fissazione.

Per quanto riguarda invece il comportamento “aggressivo”, esso si caratterizza essenzialmente


dell’intenzione di distruggere un oggetto, inanimato o umano : tale intento distruttivo può
concretizzarsi in un atto o rimanere inattuato. Tuttavia come osservano Sears, Maccoby e Levin :
l’aggressività sia individuale che di gruppo non sempre porta con se una connotazione negativa o distruttiva,
poiché può essere positiva per la società come forma di “autoaffermazione”. Anche l’etolo Lorenz ha
sostenuto che l’aggressività è una tendenza positiva negli esseri viventi per la conservazione della vita nella
forma di difesa del territorio, della lotta per procurarsi cibo, ma specialmente per la sopravvivenza.

Sappiamo che le ricerche iniziali sull’aggressività si sono ispirate al principio secondo il quale gli impulsi
aggressivi siano una funzione del grado di frustrazione : da questa teoria deriverebbe l’ipotesi
“frustrazione – aggressività” esplorata per la prima volta nel 1939 da Dollard e dai suoi collaboratori, a
Yale. Questa teoria si basa essenzialmente su due assiomi ovvero che “l’aggressività è sempre conseguenza
di una frustrazione” e che “l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di
aggressività”. Inoltre la condotta aggressiva si può rivolgere all’oggetto causa di frustrazione. Per quanto
riguarda l’aspetto prettamente criminologico di tale ipotesi, sappiamo che il gruppo di ricerca di Yale
esaminò numerosi fattori come le condizioni economiche, l’occupazione, il livello di istruzione, sesso,
aspetto fisico, razza ecc., in rapporto alla frustrazione e all’anticipazione della punizione, e che dalle analisi
che ne derivarono emerse che il criminale fosse sottoposto ad una frustrazione maggiore della media .
Tutte le persone, sin dalla tenera età, subiscono continue frustrazioni e reagiscono aggressivamente ma,
grazie al processo di socializzazione, la maggior parte delle persone apprende ad accettarle o a scaricarle
attraverso l’aggressività di fantasia. Tuttavia, oltre alle condizioni socio – economiche, è importante tener
presente la soglia di tolleranza di ogni singolo soggetto, che varia a seconda della frequenza e del genere di
frustrazione. Come ricorda Mannheim, è importante valutare anche il senso di ingiustizia : infatti, se un
soggetto viene oltraggiato, il sentimento di frustrazione sarà tale da portarlo a commettere azioni aggressive
e violente. E’ importante inoltre evidenziare come la teoria della frustrazione – aggressione sia stata
utilizzata da alcuni studiosi per spiegare l’influenza dei mass media e dei video-giochi sul
comportamento antisociale. Ciò che è emerso ha dimostrato come tali reazioni non siano soltanto frutto
della visione di messaggi a contenuto violento, bensì anche di quelli a contenuto neutro : si è constatato
infatti che il sottoporre i soggetti a miti di facile successo e a simboli di una invidiata condizione socio –
economica, provoca lo svilupparsi di forti frustrazioni connesse all’impossibilità di raggiungere gli stessi
traguardi.

Sempre nel campo della psicologia sociale, sappiamo che Zimbardo ha condotto diverse analisi relative alle
azioni violente commesse in una situazione di gruppo. Sicuramente lo studio più interessante è quello
riguardante le dinamiche di gruppo in un contesto penitenziario : Zimbardo fece così costruire una finta
prigione e reclutò studenti universitari volontari per interpretare, per circa 2 settimane, il ruolo di giudice o di
detenuti, al fine di analizzare quanto tale situazione avrebbe influenzato gli atteggiamenti dei partecipanti.
L’accentuato realismo dell’esperimento provocò degli effetti così gravi, che lo studioso fu costretto ad
interromperlo dopo 2 giorni : i ragazzi che egli aveva reclutato si erano trasformati in un brevissimo tempo,

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interiorizzando impulsi distruttivi coloro che rivestivano il ruolo delle guardie, e assumendo una condizione
di depressione e rassegnazione quelli che invece interpretavano i detenuti. La ricerca svolta da Zimbardo,
come altre di questo genere, tendono dunque a dimostrare come il male possa essere commesso da
chiunque si trovi in una particolare condizione : ogni soggetto che viene inserito in un contesto di forze
negative può quindi mettere in atto comportamenti crudeli ed estranei alla sua natura.

La “Personalità Criminale”

Per quanto riguarda il rapporto fra personalità e delitto, sappiamo che sin dall’inizio la letteratura psichiatrico
– criminologica si è posta il problema di analizzare tale relazione. A tal proposito De Marsico sottolineò che
esiste una categoria di delinquenti che ha una personalità non malata ma abnorme, soffrendo quindi non una
psicosi bensì una psicopatia : si tratterebbe delle personalità psicopatiche o irregolari del carattere. Nel 1968
la psicopatia la American Psychiatric Association era ancora inserita nella categoria della “personalità
antisociale”, le cui caratteristiche si possono riassumere in : individuo compulsivo, privo del senso di
responsabilità ed incapace di vivere le normali componenti dei rapporti interpersonali. Non è un caso dunque
che molti studi relativi al comportamento deviante abbiano sottolineato l’importanza di diversi tratti della
personalità per spiegare il motivo per cui alcuni individui diventino poi criminali. In ambito psichiatrico
attualmente si preferisce utilizzare l’espressione di “disturbi di personalità” o “sindromi caratteriali”, per
evidenziare che il disturbo persistente si rileva nel carattere, inteso come somma delle caratteristiche abituali,
congenite ed acquisite di essere, agire e reagire alle circostanze esterne. I soggetti psicopatici, definiti
Alloplastici, tendono a soddisfare i propri bisogni attraverso la manipolazione dell’ambiente esterno e,
inoltre, sono Egosintonici in quanto accettano e condividono le loro alterazioni : ciò significa le l’individuo
non si sente mai in colpa per il suo comportamento. Per cui ciò che caratterizza lo psicopatico, oltre al
comportamento cronicamente anomalo, è l’abnorme struttura del carattere, che rende difficile il
modificarsi in relazione alle esperienze e alla precarietà dei rapporti interpersonali. Per questo motivo
i disturbi della personalità non rientrano fra le malattie mentali in senso stretto, ma fra le anomalie del
carattere e della personalità. Chiaramente la descrizione della malattia e l’importanza della diagnosi
differenziale, oltre ad essere rilevante sul piano clinico ai fini della terapia, producono conseguenze
importanti anche per quanto riguarda la valutazione dell’imputabilità : infatti, non essendo considerati veri e
propri malati di mente, i delinquenti affetti da disturbo di personalità vengono ritenuti capaci di intendere e
di volere e quindi imputabili e punibili.

Sappiamo poi che il DSM – 5 ha descritto 10 specifici disturbi di personalità, riunendoli in 3 gruppi in base
alle analogie descrittive :

1. Gruppo A comprende il paranoide, lo schizoide e lo schizotipico : si tratta di individui strani e


bizzarri, che sono predisposti a sviluppi di patologia mentale più severa;

2. Gruppo B riguarda i disturbi antisociali, borderline, istrionico e narcisistico : i soggetti compresi


in questo gruppo evidenziano una difficoltà nel controllo degli impulsi, irritabilità, imprevedibilità ed
emotività esasperata;

3. Gruppo C include disturbo deviante, dipendente ed ossessivo compulsivo : le persone appaiono


spesso ansiose, fragili, indecise e paurose, e possono presentare una predisposizione a soffrire di
patologie nevrotiche.

E’ possibile analizzare poi dettagliatamente i singoli disturbi :

• Disturbo paranoide di personalità : Si caratterizza di diffidenza e sospettosità nei confronti degli


altri. I soggetti paranoidi vivono in costante aspettativa di essere ingannati e danneggiati, per
questo motivo sono sempre vigili nei confronti dell’ambiente che li circonda, dubitando della
correttezza e della lealtà di colleghi ed amici. Sono individui rancorosi che non perdonano le

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offese e le ingiurie, e lo stile di pensiero che li caratterizza vede in loro una costante ricerca dei
significati oscuri e l’attribuzione agli altri pensieri astiosi, che sono in realtà proiezioni delle loro
paure. Il paranoide è inoltre caratterizzato da una mancanza di flessibilità, per questo motivo anche
gli argomenti più persuasivi non generano su di essi alcun tipo di influenza. Dal punto di vista
criminologico, questo tipo di disturbo può favorire una immotivata litigiosità legale, che può sfociare
in interminabili battaglie giudiziarie.

• Disturbo schizoide di personalità : E’ caratterizzato da un accentuato distacco nelle relazioni


sociali e da un gamma ristretta di espressioni emotive. I soggetti che ne sono affetti denotano
una freddezza emotiva e tendono a prediligere l’isolamento : non provano piacere nelle relazioni
strette e personali, questo ha come conseguenza la difficoltà di inserirsi in qualsiasi ambiente sociale
e ad impegnarsi ina una professione. Secondo quella che è la prospettiva criminologica, gli schizoidi
risultano autori di reati aggressivi e violenti, eseguiti mantenendo sempre un elevato distacco e
freddezza. Proprio per questo motivo fra questi soggetti è possibile individuare delinquenti
particolarmente pericolosi.

• Disturbo schizotipico di personalità : Questo disturbo presenta delle caratteristiche comuni a


quello di tipo schizoide. Il soggetto che ne è affetto infatti è stravagante e bizzarro, e si
caratterizza per distorsioni cognitive e percettive, ha credenze strane che si trovano in contrasto
con quella che è la cultura dominante. Anche il suo modo di pensare e di esprimersi sono iper
elaborati, metaforici ed eccentrici.

• Disturbo antisociale di personalità : Un tempo la psichiatria classica definiva “Psicopatico” il


soggetto affetto da questo tipo di disturbo. Il primo ad offrirne una descrizione clinica completa fu
Cleckley, il quale considerò lo psicopatico come un individuo, non palesemente psicotico, ma dal
comportamento caotico e scarsamente in linea con la realtà e con la società. Lo psicopatico
riveste un atteggiamento di irresponsabilità in tutte le sue relazioni, non ha nessun rispetto per
i sentimenti o le preoccupazioni degli altri, e sembra incapace di apprendere dall’esperienza.
Tuttavia successivamente il termine “psicopatico” è stato sostituito dal termine “sociopatico”, che
sembrava riflettere meglio le origini sociali di alcune delle difficoltà che caratterizzano tale soggetto.
Dalla pubblicazione poi del DSM – II, l’espressione “ personalità antisociale “ è divenuta la
denominazione elettiva, tuttavia successivamente i criteri diagnostici del DSM – III hanno ristretto
il disturbo antisociale ad una popolazione criminale appartenente alla classe socioeconomica
inferiore, oppressa e svantaggiata. In definitiva comunque, a seguito dei tratti peculiari espressi dal
DSM – 5 relativi a tale disturbo, gli antisociali sono individuati come coloro che esibiscono
ripetutamente comportamenti di inosservanza e violazione dei diritti altrui e che hanno inizio
nell’infanzia per poi proseguire nell’età adulta, quando divengono irritabili, aggressivi e ricorrono
facilmente all’uso di droghe ed alcool.

• Disturbo “Borderline” di personalità : Si caratterizza di un’accentuata instabilità ed intensità


nelle relazioni interpersonali. Il soggetto che ne risulta affetto ha un’alterata immagine di se, soffre
di una notevole inadeguatezza affettiva, di una frequente variabilità dell’umore e di timori di
abbandono. Tali soggetti sono inoltre persone fortemente impulsive, che manifestano episodi di
rabbia immotivata ed intensa che spesso sfocia in scontri fisici. E’ bene sottolineare che la

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definizione di “borderline” è piuttosto controversa e complessa, e tende ad inglobare al suo interno
tutti i disturbi presenti nel gruppo B. Tuttavia, negli ultimi anni, il frequente utilizzo della diagnosi di
borderline l’ha fatta divenire una sorta di “cestino dei rifiuti”, generando una certa confusione
diagnostica. Altro aspetto di rilievo riguarda i rapporti interpersonali : i borderline tentano infatti
di stabilire delle relazioni esclusive con un’unica persona, con la quale non vi è nessun rischio
di abbandono. Stabilita poi una certa intimità, vengono attivate due tipologie di ansia : il soggetto
teme di essere inglobato dal partner, finendo così per perdere la sua identità, e contemporaneamente
vive nell’angoscia di poter essere abbandonato. Infine, per prevenire la solitudine, sappiamo che
questi soggetti tenderanno a ricorrere a comportamenti autodistruttivi, in modo da ottenere delle
rassicurazioni dai loro partner. Dal punto di vista criminologico, il disturbo borderline si presenta
come una categoria piuttosto significativa : i soggetti affetti da tale disturbo infatti, possono
commettere reati contro la persona, giocare d’azzardo ed avere rapporti sessuali non protetti.

• Disturbo istrionico di personalità : Tale disturbo, che ha sostituito quello isterico di personalità,
determina nel soggetto che ne è affetto un’emotività pervasiva ed una tendenza a comportarsi in
maniera drammatica, teatrale e mirata ad attirare su di se l’attenzione degli altri, alle volte
anche attraverso un atteggiamento seducente. Si tratta di un soggetto poco genuino, incline a
manipolazioni, tuttavia facilmente influenzabile e ricorrente alla bugia patologica. In particolare, si
definiscono mitomani quelle personalità istrioniche che si immedesimano talmente tanto nei
ruoli costruiti sulle bugie raccontate, vivendo ingannando gli altri ed in parte anche se stessi.
Nella storia della psichiatria sappiamo che la personalità isterica è stata considerata, per molto
tempo, tipica delle donne, nonostante ciò questo disturbo è altamente documentato anche fra i
maschi, tanto da poter distinguere per questo genere due sottotipi : l’ipermascolino e il passivo
effemminato. Per quanto concerne la prospettiva criminologica, fra gli individui affetti da questo
disturbo possiamo trovare i truffatori, coloro che svolgono professioni senza alcun titolo o che
simulano di essere stati vittima di reato.

• Disturbo narcisistico di personalità : Per poter meglio definire tale disturbo, è necessario
distinguere fra i livelli di narcisismo sano e narcisismo patologico, tuttavia risulta difficile cogliere
il punto in cui quello sano si tramuta in quello patologico : alcuni comportamenti infatti possono
essere patologicamente narcisisti in un individuo, mentre in un altro sono semplicemente
manifestazione di normale autostima. Si aggiunga poi il fatto che viviamo in una cultura narcisistica,
in cui prevale il culto dell’immagine e dell’apparire, di conseguenza risulta piuttosto difficile
determinare quali tratti siano sintomatici di un disturbo. In linea generale sappiamo che il narcisista
è caratterizzato da una tendenza a rapportarsi alla realtà e al prossimo in maniera
manipolatoria e funzionale ai propri interessi, ma anche da una difficoltà a sviluppare relazioni
affettive profonde nonché da una mancanza di empatia ed incapacità di riconoscere sentimenti
e bisogni degli altri. Queste caratteristiche possono essere inserite fra due poli opposti, definibili in
base allo stile delle relazioni interpersonali : “narcisista inconsapevole” e “narcisista ipervigile”. Il
primo tenta di impressionare gli altri con il suo talento e preservarsi allo stesso tempo dalle loro
risposte, il secondo invece tenta di mantenere la stima di sé, evitando situazioni di vulnerabilità. Sul
piano criminologico, l’alterazione narcisistica della personalità non sfocia necessariamente in
aggressività, ma può indurre il soggetto a fare uso di sostanze e ad organizzare truffe.

• Disturbo evitante di personalità : Come lo schizoide, anche il soggetto affetto da disturbo


evitante si caratterizza per una sorta di ritiro sociale, sentimenti di inadeguatezza ed

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ipersensibilità al giudizio altrui. Tuttavia, a differenza dello schizoide, chi soffre di questo
disturbo desidera delle strette relazioni interpersonali ma allo stesso tempo ne risulta spaventato, di
conseguenza cercherà di evitare relazioni con gli altri ed occasioni sociali. Il disturbo deviante
quindi presenta qualche tratto comune con quello dipendente, ma la paura dell’umiliazione e del
rifiuto , che si traduce appunto nel ritiro e nella timidezza sociale, resta l’elemento
caratterizzante.

• Disturbo dipendente di personalità : Si caratterizza per una dipendenza dagli altri così estrema
da essere patologica : i soggetti affetti da questo disturbo non sono dunque in grado di
prendere decisioni da soli, sono solitamente sottomessi ed hanno sempre bisogno di rassicurazioni.
Hanno inoltre difficoltà ad iniziare un progetto e sono incapaci di agire in maniera autonoma.
Raramente questo disturbo viene usato come diagnosi principale o esclusiva, viene invece spesso
associato alla depressione e all’ansia. Sul piano criminologico si parla di una categoria che prevale
fra le vittime, ma può anche costituire l’elemento succube di una coppia criminale.

• Disturbo ossessivo – compulsivo di personalità : Rispetto a quelli inseriti nello stesso gruppo,
questo disturbo è senz’altro quello che presenta una più lunga tradizione clinico – psichiatrica
e maggiori contributi da parte della letteratura psicoanalitica. Il soggetto affetto da questo
disturbo si presenta attento ai dettagli, all’ordine, all’organizzazione ed ai programmi, così tanto
da perdere di vista lo scopo delle attività. Si mostra inoltre eccessivamente scrupoloso, inflessibile
e per un’accentuata dedizione al lavoro ed alla produttività, tanto da non riuscire a delegare compiti
o a svolgere lavori di gruppo. Inoltre non riesce ad eliminare oggetti consumati che, di
conseguenza, accumula ossessivamente, ed è spesso avaro con se stesso e con gli altri, mantenendo
un livello di vita modesto rispetto alle sue possibilità. Bisogna tuttavia distinguere fra Nevrosi
ossessivo compulsiva e Disturbo ossessivo compulsivo di personalità, tale distinzione infatti si
basa sulla differenza fra sintomi e tratti del carattere : la prima si delinea in un soggetto che vive i
sintomi come problematici, e solitamente desidera liberarsene, la seconda invece determina nel
soggetto degli schemi di comportamento dal carattere egosintonico, che raramente implicano un
disagio nel soggetto. Dal punto di vista criminologico, l’ossessivo compulsivo può caricarsi di rabbia
quando perde il controllo della situazione o subisce troppe critiche, egli potrà reagire con
aggressività per poi passare all’atto del delitto.

E’ importante evidenziare infine due categorie diagnostiche di particolare interesse per l’ambito
criminologico, che tuttavia non classificato nel DSM – 5. La prima categoria riguarda il disturbo sadico di
personalità : il sadico presenta un abile comportamento aggressivo e crudele, che lo conduce a godere di
fronte alla sofferenza fisica o psichica inflitta agli altri. I soggetti affetti da tale disturbo possono essere autori
di feroci torture, omicidi, lesioni e maltrattamenti in famiglia. La seconda categoria riguarda invece il
disturbo esplosivo intermittente, il cui aspetto peculiare risiede nella frequente ricorrenza di reazioni
imprevedibili e molto violente, che possono anche sfociare in attentati all’incolumità altrui o alla distruzione
di cose. In conclusione è possibile a affermare che molti disturbi della personalità conducono a
comportamenti devianti, ma si dovrà sempre tener conto del fatto che non tutte le persone affette da
tali disturbi diventino poi dei criminali.

I disturbi Parafilici

Il termine Parafilia si riferisce a qualsiasi interesse intenso e persistente di natura sessuale, diverso da
quello per la stimolazione genitale o per i preliminari sessuali. Il disturbo parafiliaco emerge nel momento in
cui causa disagio o compromissione del soggetto, o quando la soddisfazione della parafilia arreca danno al

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soggetto stesso o ad altri. E’ importante ricordare che inizialmente veniva usata la locuzione Perversione o
Deviazione proprio per indicare un comportamento psicosessuale, espresso in forme atipiche rispetto
alla norma. Lo stesso Freud, nel 1905, definì perversa ogni tipo di condotta che si discostasse dalla
norma riguardo sia all’oggetto sessuale, come nella pedofilia, sia alla zona corporea, sia alla meta
sessuale da raggiungere come nel feticismo. Tuttavia contemporaneamente egli mise in guarda dal
considerare la perversione automaticamente come segnale di malattia. Non a caso nel DSM si specifica
l’importanza di valutare l’intensità della parafilia secondo una comparazione di fantasia, desideri o
comportamenti con quelli che sono gli interessi ed i comportamenti sessuali normofilici. Sicuramente
un’opera fondamentale sull’argomento è quella proposta da Krafft – Ebing il quale, nella sua
“Psychopathia Sexualis” , descrisse in particolare le “parestesie” ovvero le perversioni dello stimolo
sessuale, e distinse poi la perversione dalla perversità del commercio sessuale, che può non derivare da
cause psicopatologiche, dividendo le perversioni in 2 gruppi :

• Il primo gruppo vede la perversione in quello che è lo scopo dell’azione ( feticismo, masochismo,
sadismo) ;

• Il secondo si caratterizza per la perversione dell’oggetto (omosessualità, pedofilia, zoofilia);

Per quanto riguarda i disturbi parafilici, sappiamo che nel DSM-5 è stato scelto di descriverne solo 8 con
criteri specifici, per la loro maggiore diffusione e pericolosità. Essi implicano tutti una forma di
eccitazione sessuale ricorrente ed intensa, manifestata attraverso delle fantasia, dei desideri o dei
comportamenti, per un periodo di almeno sei mesi, causando inoltre un disagio sul piano clinico nonché una
compromissione nel contesto sociale e lavorativo :

1. Disturbo Voyeuristico : osservare una persona nuda o impegnata in attività sessuali, a sua insaputa.
E’ il più diffuso fra i comportamento sessuali potenzialmente criminali, anche se non vi è contatto
fisico;

2. Disturbo Esibizionistico : esibizione dei propri genitali a persona che non se lo aspetta, senza
cercare un contatto diretto. L’età della vittima è importante per poter collegare questo disturbo alla
pedofilia e valutarne la pericolosità;

3. Disturbo Frotteuristico : toccare o strusciarsi contro una persona non consenziente;

4. Disturbo da Masochismo sessuale : farsi infliggere umiliazioni o sofferenze in vario modo,


rischiando di rimanere vittima di morte accidentale;

5. Disturbo da Sadismo sessuale : infliggere umiliazioni o sofferenze fisiche o psicologiche ad


un'altra persona : il sadico è indubbiamente il soggetto più pericoloso;

6. Disturbo Pedofilico : avere interesse sessuale per bambini in età prepuberale al di sotto dei 13 anni,
maschi, femmine o di entrambi i generi. Per la diagnosi di tale disturbo il soggetto deve avere
almeno 16 anni di età, ed essere almeno di 5 anni maggiore della vittima;

7. Disturbo Feticistico : usare da soli o con un partner oggetti inanimati o avere un interesse molto
specifico per una o più parti del corpo non genitali. Gli oggetti possono essere capi di abbigliamento
o altri strumenti che stimolano l’eccitazione. Nel campo criminale questo soggetto viene spesso
arrestato per furto o violazione di domicilio;

8. Disturbo da Travestitismo : indossare indumenti del sesso opposto da soli o in presenza di un


partner.

In conclusione è importante evidenziare che tutti questi comportamenti, sia esperiti sia rifiutati, possono
caricare di aggressività e di rabbia il soggetto, fino a sfociare in alcuni casi nella commissione di atti

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criminali. Sicuramente un filone molto importante per la ricerca delle origini della malvagità è quello
relativo al “circuito dell’empatia”, ben descritto da Baron – Cohen : egli infatti mette in evidenza come
la mancanza totale di empatia sia dovuta non solo a fattori sociali, fra cui l’anaffettività dei genitori o i
maltrattamenti e gli abusi subiti, bensì anche a fattori biologici, associando alcuni geni con il quoziente
di empatia. A tal proposito, attraverso l’analisi dei geni coinvolti negli ormoni sessuali, ha dimostrato che le
donne sono dotate di un maggior quoziente di empatia : questo potrebbe spiegare la minor incidenza
quantitativa della devianza femminile. Come sappiamo, l’empatia rappresenta un aspetto importante nei
disturbi di personalità, ma è anche un elemento che spesso è presente in chi commette un delitto, tuttavia
siccome non tutti i delinquenti sono psicopatici e non tutti gli psicopatici sono delinquenti, è sempre bene
tener conto di quanto detto all’interno dei classici. Essere empatici significa immedesimarsi nell’altro, in
maniera cosciente, fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo : questa capacità si apprende sin da bambini
dai genitori e dagli altri significativi, per questo motivo è fondamentale che il processo di socializzazione sia
accompagnato dallo sviluppo del processo empatico.

Cap. 6 – Sociologia della devianza : Struttural – Funzionalismo e comportamento deviante

La Sociologia della devianza cerca di stabilire, in maniera non deterministica, quali siano le condizioni
ambientali necessarie e sufficienti per il verificarsi delle manifestazioni delittuose. Quando si parla di
ambiente, si fa riferimento ad un concetto dal significato molto vasto, risulta dunque necessario distinguere
fra Generale, Immediato ed Occasionale.

• In senso generale, sappiamo che esso comprende l’insieme delle condizioni fisiche, sociali, culturali
ed economiche che influiscono sul comportamento individuale;

• In senso immediato, si considera l’uomo nella continuità della famiglia, il gruppo sociale, lo Stato
a cui appartiene e quindi in relazione al condizionamento dovuto allo stile di vita e di convivenza;

• In senso occasionale, si comprendono tutte quelle occorrenze non abituali per il soggetto, le quali
risultano interessanti perché, in ragione della loro particolare qualità ed intensità, possono
influenzarlo;

Sempre in relazione all’ambiente, sappiamo che Lewin con la sua Teoria del Campo ha messo in stretto
rapporto la persona, l’ambiente e lo spazio di vita, ovvero lo “spazio vitale” di ogni individuo, che nello
specifico implica la totalità dei fattori interdipendenti. Un apporto fondamentale negli studi funzionalisti,
relativi al sistema sociale, lo si deve a Parsons il quale riteneva che l’azione è l’unità elementare che
richiede una serie di elementi quali :

• un attore, ovvero colui che compie l’atto;

• un fine verso cui è orientato;

• una situazione di partenza, da cui si sviluppano nuove linee d’azione ed in cui vi sono le condizioni;

• ambientali, sulle quali l’attore non ha possibilità di controllo;

• i mezzi, che invece l’attore controlla ed utilizza;

• un orientamento normativo, che porta l’attore a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre;

Successivamente l’approccio sistemico di Luhmann attribuì al rapporto sistema – ambiente un ruolo


centrale, poiché i sistemi sono un meccanismo di riduzione della complessità ambientale e di ottimizzazione
della complessità interna. Nelle società più avanzate l’ambiente più rilevante è quello costituito soprattutto
dagli altri sistemi sociali : di conseguenza, l’andamento della criminalità in un gruppo sociale va analizzato

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solo in rapporto all’ambiente di riferimento e le variazioni nella criminalità di una data popolazione vanno
interpretate sulla base dei mutamenti socio – ambientali intervenuti.

Sappiamo che gli studi relativi alla devianza sociale sono costellati di opinioni contrastanti. In particolar
modo si è discusso sulla categoria di “devianza”, che negli anni ’50 del ‘900 è stata definita da Parsons in
una delle sue opere maggiori : egli evidenziò come la devianza non fosse altro che uno scostamento dalla
regolarità letto come un comportamento disdicevole dal punto di vista della morale collettiva, quindi
da studiare, controllare e reprimere, se necessario. Tuttavia negli ultimi anni il susseguirsi di
provvedimenti legislativi ha reso più complesso il descrivere, spiegare e valutare il fenomeno deviante,
cosicché non sempre i comportamenti considerati criminali sono sanzionati da leggi penali. Di fronte a
questo molti studiosi ritengono necessario considerare come crimine qualsiasi comportamento dannoso per la
società, al di là di quelle che sono le definizioni normative : questo tipo di impostazione tuttavia è stata
rifiutata dalla maggior parte dei sociologi, i quali preferiscono sostenere la validità scientifica delle regole e
dei metodi della criminologia. Gli studi nel settore comunque sono sempre più interdisciplinari,
ampliando così il raggio delle interpretazioni del comportamento deviante. Ulteriori studi, ad esempio,
sostengono che la criminalità sia il risultato delle diseguaglianze sociali ed economiche, e che la legge sia
influenzata dagli interessi delle classi dominanti. Per conoscere meglio le varie teorizzazioni, è bene partire
dall’analisi della corrente Struttural – Funzionalista, che nel complesso affronta il problema
dell’integrazione dei membri all’interno di una determinata società, basandosi su un sistema di valori.

Disorganizzazione Sociale : la Scuola di Chicago

Il focus principale degli studi relativi alla disorganizzazione sociale è rivolto a numerose condizioni
urbane ed ambientali che incidono sui tassi di criminalità, e considera, inoltre, anche lo sviluppo delle
comunità ad alto indice di devianza, collegandolo con la caduta dei valori e delle norme convenzionali,
conseguenza principale dell’incremento dell’immigrazione, urbanizzazione ed industrializzazione. E’
importante evidenziare come l’approccio teorico della disorganizzazione sociale prenda le mosse dai
processi di mutamento esistenti all’interno della società statunitense, portando dunque ad individuare come
ogni società sia soggetta a mutamenti. Nelle società in cui questi mutamenti avvengono in maniera
repentina, si possono manifestare fenomeni di disorganizzazione sociale e si possono andare a formare
dei nuovi atteggiamenti, nuove regole sociali e nuovi comportamenti devianti. Mentre per alcuni
individui ed istituzioni i cambiamenti all’interno della struttura sociale non creano alcun tipo di problema,
per altri risultano difficili da accettare, in quanto generano una situazione di frustrazione e confusione. Al
fine di poter comprendere meglio la relazione che esiste fra devianza e disorganizzazione sociale, è bene far
riferimento al significato di organizzazione sociale utilizzato dalla criminologia, che consiste in linea di
massima in quelle che sono le norme e le aspettative sociali che guidano il comportamento. Sappiamo che
in ogni società le persone dipendono reciprocamente per la loro sopravvivenza, costituendo
un’organizzazione per regolare la loro condotta ed usare le risorse per soddisfare i loro bisogni :
l’organizzazione quindi avrebbe origine dalla ragione e dall’idea dell’ordine finalizzato. In questo modo si
vanno a formare le tradizioni culturali, le usanze e il sistema di norme che va a regolare le azioni e le
attività : in questo modo la società diviene organizzata. Infatti, quando tali norme funzionano in modo
efficiente e vengono percepite come valide, la maggior parte delle persone le assimila automaticamente e vi
si conforma. Il problema sorge però quando, con i mutamenti sociali, molte norme non sono più in grado di
svolgere la loro funzione, oppure quando i cittadini continuano a seguire delle linee guida, che in realtà sono
inappropriate per le nuove condizioni.

Negli anni ’20 del ‘900, grazie alla figura di Robert Park, si sviluppò la Scuola di Chicago, il cui principale
merito fu quello di dare un forte impulso alla ricerca empirica sulla comunità e sui problemi sociali della vita
urbana : la scuola ha fornito dei contributi sull’esclusione, sulla marginalità, sulla disorganizzazione sociale
che hanno poi portato alla luce nuove problematiche sociologiche. In particolare si deve a Park l’analisi
della figura del Marginal Man, che egli individuò come un ibrido culturale, quindi un tipo di uomo che

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vive all’interno della tradizione di due diversi popoli, che quindi non si distacca mai dal proprio
passato e dalla propria tradizione e che, di conseguenza, non è mai realmente accettato. Anche se Park
parla di Marginal Man riferendosi soprattutto allo straniero, frustrato nella sua esclusione da certi beni e
certi diritti, è possibile far rientrare in questa categoria tutti i soggetti emarginati. Fra i maggiori studiosi
della Scuola di Chicago ricordiamo Henry McKay e Clifford Shaw, i quali ampliarono il discorso sulla
disorganizzazione sociale e sulla criminalità. Entrambi iniziarono le loro ricerche negli anni ’20, proprio nel
periodo in cui la città era interessata da massicce migrazioni interne dalle zone rurali e immigrazioni di
stranieri, molti dei quali convergevano verso la zona centrale in condizioni di totale degrado urbanistico,
occupando case vecchie e prive dei minimi requisiti igienici ed ambientali. I due sociologi, in particolare,
studiarono il fenomeno criminale giovanile che si stava sviluppando in questa area urbana e rilevarono che
in realtà il comportamento deviante fosse soprattutto il prodotto delle condizioni ecologiche urbane. Per
potenziare le loro analisi utilizzarono il modello sociologico delle “Aree” di Park, Burgess e McKenzie,
attraverso il quale studiarono i tassi di criminalità in rapporto alle diverse zone, rilevando così una più
elevata densità criminale nelle zone di transizione, dove si era insediato di recente un alto numero di
immigrati. Da queste analisi si poté osservare che :

• la curva dell’andamento dei reati si abbassava, in maniera significativa, quanto più ci si


allontanava dal centro verso la periferia:

• i tassi di criminalità più elevati persistevano sempre nelle stesse aree, prima e seconda
principalmente;

• tali aree mantenevano il loro primato negativo, anche se la loro composizione etnica andava
mutando negli anni;

Queste scoperte contrastarono la convinzione, molto radicata al tempo, che la criminalità fosse una
caratteristica di alcune minoranze etniche e razziali, rafforzando l’ipotesi di una forte influenza delle
condizioni socio-ambientali sull’agire deviante.

La teoria della “tensione” : dall’anomia di Durkheim ai modelli di adattamento di Merton

Una parte degli studi sociologici sul crimine e sulla devianza, è stata fortemente influenzata dall’opera di
Emile Durkheim : egli propose una serie di riflessioni sui comportamenti devianti, concentrandosi più sui
fattori sociali e dando meno rilevanza alle considerazioni basate solo sui modelli statistici. Osservando
qualsiasi comportamento è possibile affermare che esso dipenda, da un lato, dalla storia e struttura della
personalità dell’attore, e dall’altro dalla storia e dalla struttura del sistema sociale in cui esso si manifesta.
Sappiamo poi che un’indagine sugli aspetti psicologici o sociologici della devianza non è conducibile
separatamente, poiché gli uni implicano alcune acquisizioni degli altri : questo è il problema che dovette
affrontare Durkheim quando introdusse il termine Anomia, all’interno della sua opera fondamentale quale
“Il Suicidio”. Egli delineò che una società può divenire anomica se non riesce a porre limiti alle proprie
aspirazioni o se gli individui non riescono a relazionarsi con gli altri, dando così vita ad una
disgregazione delle usali condizioni sociali. Per tanto, nel momento in cui le istanze normative etico –
morali di una data società cadono e, di conseguenza, perdono di significato, si è di fronte ad uno stato di crisi
all’interno della struttura sociale, che non riesce più a risaldare i legami profondi di solidarietà fra i singoli.
L’anomia, quindi, si riferisce essenzialmente alla perdita delle norme sociali e delle condizioni in cui
esse non controllano più le attività dei singoli membri della società : questo meccanismo che si attiva
produce di conseguenza insoddisfazione, frustrazione, conflitto e devianza.

Durkheim tuttavia riteneva che il comportamento deviante dovesse essere considerato come inevitabile in
ogni struttura sociale, e che solo se superati certi limiti fosse da considerare come qualcosa di negativo. In
altre parole, l’autore sostiene l’utilità della criminalità in quanto questa contribuisce all’evoluzione della
coscienza morale e del diritto sia in senso indiretto, poiché dimostra la plasmabilità dei sentimenti collettivi,

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sia direttamente. In particolare il teorico, nella sua opera “La divisione del lavoro sociale” del 1893, parla di
2 forme di legame sociale e di solidarietà : la meccanica, da riferire alle società tradizionali, e la organica da
riferire alle società di stampo moderno, nelle quali la divisione del lavoro produce differenziazioni nelle
funzioni, nei ruoli e nelle aspirazioni. Secondo Durkheim solo in una società così impostata è possibile la
produzione di una solidarietà organica fra soggetti dissimili, ed è “crimine” quell’azione che va ad offendere
la coscienza collettiva, espressa in una situazione di solidarietà organica.

Il concetto di Anomia, che nell’opera durkheimiana rimaneva piuttosto astratto, fu ripreso e modificato dal
sociologo americano, il quale influenzò in maniera determinante tutta la sociologia della devianza
successiva, insieme con la teoria dello Struttural – Funzionalismo. Sappiamo che egli intuì che l’anomia era
il risultato della non – integrazione fra le mete culturalmente prescritte e la disponibilità di mezzi legittimi
per raggiungerle. Tuttavia, per la loro posizione all’interno della struttura sociale, determinati segmenti della
popolazione hanno opportunità limitate per poter ottenere successo : i membri dei gruppi svantaggiati
subiscono di conseguenza numerose frustrazioni e vivono tensioni spesso tali da farli deviare dalle mete e dai
mezzi legittimi della società. Secondo la prospettiva mertoriana dunque, gli individui che vivono
un’impossibilità di ascensione sociale, entrano in una condizione di anomia o di alienazione che li
porta ad agire in maniera deviante. Per spiegare meglio tali dinamiche, Merton elaborò una tipologia con
5 Modalità di Adattamento Individuale basate sull’utilizzazione dei mezzi ed il conseguimento delle mete.
Quattro di esse rappresento risposte devianti, criminali o anomiche, dovute all’indisponibilità dei mezzi
legittimi, e sono :

• Innovazione : Individui che hanno la possibilità limitata dell’uso di mezzi legittimi, adottano
frequentemente l’adattamento anomico o deviante dell’innovazione, attraverso la quale rifiutano
soltanto i mezzi istituzionalizzati e li sostituiscono con altri illegittimi o criminali, per raggiungere
mete di successo. Merton, non a caso, riteneva che moltissimi delitti comuni o della criminalità
organizzata, potessero essere considerati come una modalità di risposta anomica alla carenza dei
mezzi convenzionali.

• Ritualismo : Si tratta dell’adattamento caratteristico di quelle persone che falliscono nel raggiungere
il successo ed allora abbandonano interiormente qualsiasi ulteriore sforzo, si adattano quindi ad
utilizzare i mezzi socialmente definiti necessari per conseguire i fini. Il ritualista, ignorando
l’importanza delle mete, trova una soluzione nelle proprie frustrazioni e nei propri fallimenti. Merton
delineò il ritualismo come un comportamento deviante, perché indica una mancanza di aspirazioni al
successo ed un modo di ritirarsi dalla lotta per raggiungerlo.

• Rinuncia : Coloro, a cui è bloccato il raggiungimento delle mete, possono decidere di abbandonare
“la partita” rifiutando sia i mezzi legittimi sia le mete prefissate : questi individui si collocano nella
categoria dei rinunciatari, ai quali solitamente è attribuito il vagabondaggio, l’abuso di sostanze
alcooliche stupefacenti e a volte il suicidio;

• Ribellione : Gli individui possono anche ribellarsi contro l’ordine sociale, cercando di introdurre
nuove mete ed adottare nuovi mezzi. La risposta deviante della ribellione è tipica dei gruppi radicali
e rivoluzionari che vogliono cambiare la società;

Mentre la quinta forma di ribellione si verifica quando il soggetto accetta sia i mezzi a disposizione, sia le
mete socio – culturali, in quanto si trova in una condizione sociale che ne consente l’accesso : tale forma è la
Conformità. L’analisi offerta da Merton, mette dunque in luce come alcune strutture sociali esercitino una
forte pressione su certi attori per coinvolgerli in comportamenti non conformisti, di contro però le
teorizzazioni del sociologo non risultano soddisfacenti ad alcuni critici per spiegare i delitti contro la
persona. In tempi più recenti Robert Agnew ha proposto un ampliamento della teoria della tensione,
parlando di tensione “positiva” : egli, sebbene sosteneva l’idea per cui la tensione potesse essere
conseguenza di un’incapacità di conseguire determinati obiettivi, allo stesso tempo riteneva che

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l’impossibilità di raggiungerli, fosse solo una forma di tensione, derivante dalla perdita di stimoli positivi o
dall’insorgere di stimoli negativi. Inoltre Agnew, riferendosi a fattori che spingono alla commissione di un
delitto o meno, affermò che è più probabile che si produca una risposta deviante nel momento in cui :

• il soggetto attribuisca la colpa della sua tensione alle azioni altrui;

• il soggetto abbia scarse risorse e capacità per affrontare situazioni problematiche;

• il soggetto non riceva il sostegno sociale dei familiari o di altre persone;

• il soggetto si trovi nella condizione in cui commettere un delitto presenti costi bassi e benefici
elevati;

• il soggetto mostri una disponibilità verso la delinquenza, derivata da tratti della personalità;

In definitiva, le Strain Theories, se da un lato possono spiegare alcune forme di devianza, soprattutto
giovani, dall’altro soffrono di alcuni limiti in quanto non sono in grado di interpretare in modo soddisfacente
perché alcuni tipi di tensione favoriscano atti devianti ed altri no.

Comportamento deviante ed apprendimento sociale : dalle associazioni differenziali di Sutherland alle


identificazioni differenziali di Glaser

I primi tentativi sociologici mirati ad identificare i processi attraverso i quali alcuni soggetti divengono
criminali, hanno promosso l’utilizzazione di alcuni concetti provenienti dalla psicologia sociale quali
l’Imitazione, la Role-playing, associazioni differenziali, identificazioni differenziali ecc. La più esaustiva, in
termini di idoneità alla comprensione di ogni forma di devianza e criminalità, è la “Teoria delle associazioni
differenziali” di Edwin Sutherland : il sociologo, inserendosi successivamente all’interno della Scuola di
Chicago, dichiarò che il delitto in se fosse una costruzione definita socialmente, la cui formulazione è
prerogativa di alcuni settori influenti delle società che hanno questo potere. Sutherland tuttavia, pur non
aderendo ad una visione psicopatologica o biologica del comportamento criminale, non perse di vista
l’individuo in quanto era fortemente interessato a comprendere perché tale comportamento si trasmettesse di
generazione in generazione. Egli sostenne quindi che il meccanismo di Trasmissione Culturale, mediante
il quale si producono questi processi, fosse costituito dall’Apprendimento, perciò risultava essenziale
comprendere come impattassero nell’individuo le influenze sociali. I singoli acquisiscono infatti i modelli di
comportamento, sia criminali sia conformi, dall’interazione con gli altri in un quadro di comunicazione, e la
specifica direzione delle motivazioni, delle pulsioni e delle razionalizzazioni in senso sociale o antisociale,
viene appresa da persone che definiscono le norme come regole da osservare

oppure che sono favorevoli alla loro violazione. Sutherland infatti, in una successiva elaborazione della
teoria, affermò che il soggetto diviene delinquente a causa di una prevalenza di definizioni favorevoli
alla violazione della legge su quelle sfavorevoli alla violazione stessa. I processi di comunicazione
culturale, essendo più intensi nell’ambito dei micro gruppi, trovano in essi l’habitat o la cultura ottimali per
la formazione del delinquente. Per quanto riguarda l’apprendimento, questo si sviluppa su due fonti : quello
delle motivazioni ideologiche o culturali e quello delle tecniche operative, in una sorta di alfabetizzazione
verso il crimine. Come per ogni altra azione determinante, i concetti di intensità e frequenza appaiono
basilari ai fini dell’incidenza delle associazioni differenziali : alla frequenza si connette poi la durata e
all’intensità si collega l’interiorizzazione.

E’ bene evidenziare tuttavia come, secondo alcuni critici, la teoria di Sutherland presenti delle difficoltà
relative alla concretizzazione di una dimostrazione empirica proprio per l’impossibilità stessa di individuare,
valutare e quantificare il peso delle associazioni differenziali. In conclusione, tale teoria si può quindi
riassumere in 9 postulati :

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1. Il comportamento criminale è appreso;

2. Il comportamento criminale è appreso dall’interazione con altre persone attraverso il processo di


comunicazione;

3. La parte fondamentale dell’apprendimento avviene all’interno di intime relazioni interpersonali;

4. L’apprendimento del comportamento criminale include quello di a) tecniche relative alla


commissione del reato, a volte complesse, a volte semplici; b) orientamento specifico di motivazioni,
pulsioni e razionalizzazioni;

5. L’orientamento specifico di motivazioni e pulsioni è appreso dai codici legali come favorevoli o
sfavorevoli;

6. Le associazioni differenziali possono variare in frequenza, durata, priorità;

7. Il processo di apprendimento del comportamento criminale implica tutti i meccanismi di qualsiasi


altro processo di apprendimento;

8. Sebbene il comportamento criminale sia espressione di bisogni e valori generali, non si può spiegare
in base a questi,

Tra i vari tentativi di riformulare la teoria di Sutherland su basi empiriche, ricordiamo quello di Burgess e
Akers i quali hanno collegato l’associazione differenziale con molti dei concetti e principi moderni relativi al
condizionamento operante o alla teoria del rinforzo, rifacendosi quindi alla corrente del comportamentismo.
Dai loro studi ne derivò la Teoria dell’associazione – rinforzo differenziare, che si basa principalmente
sulle definizioni dei comportamenti che possono produrre un rinforzo negativo, positivo o neutro. Akers
sviluppò ulteriormente tale impostazione fino a definire la teoria dell’apprendimento sociale, secondo la
quale le persone apprendono sia il comportamento deviante sia le sue definizioni, e questo processo può
essere diretto, come nel condizionamento, o indiretto come nell’imitazione. Inoltre, i modelli di ogni
condotta, compresa la deviante, si traggono non solo dai comportamenti di amici e familiari, bensì
anche dalle forze culturali, come le immagini visualizzate e la parola scritta. La devianza appresa poi
può ulteriormente rinforzarsi, sia mediante ricompense esterne di carattere economico o sociale, sia con le
ricompense interne, ma può anche indebolirsi con la punizione : come ha osservato Jeffery infatti, il
comportamento deviante può avere conseguenze negative tali da determinare un effetto punitivo di
indebolimento del comportamento stesso.

Più tardi Glaser sostituì il termine “associazione” con il termine “identificazione”, impostando così la sua
Teoria delle identificazioni differenziali, applicata alle variazioni dei tassi di criminalità all’interno di ampi
sistemi sociali, e definita anche come Teoria dell’organizzazione sociale differenziale. Secondo le
teorizzazioni di Glaser, un elevato indice di criminalità urbana si configura come il prodotto finale di una
situazione, in cui un numero rilevante di persone ha subito influenze maggiori da modelli criminali rispetto a
quelli conformi. Per cui, anche se un gruppo è indirizzato contemporaneamente verso e contro la
devianza, il prevalere delle spinte devianti dipende dal grado in cui il sistema organizzato, che offre
modelli leciti, viene contrastato da quello opposto. Basti pensare che le condizioni sociali che
caratterizzano la società contemporanea, e che determinano sul singolo individuo suggestioni disarmoniche
e contraddittorie, sono esse stesse una forma di organizzazione differenziale, all’interno della quale entrano
continuamente in gioco le variazioni di intensità nel conflitto fra norme legali e norme antisociali. Inoltre
Glaser, in un’opera successiva, ha proposto un ulteriore analisi delineando la Teoria dell’anticipazione
differenziale attraverso la quale sottolinea l’importanza delle aspettative che spingono un soggetto a
coinvolgersi in un atto criminale, e ne distingue l’origine nei legami pro e contro la conformità : in pratica,
per Glaser, l’individuo commette un reato quando l’aspettativa dei benefici supera la punizione
prevista, in base a ciò che ha appreso dal proprio ambiente sociale.

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Thorsten Sellin e i conflitti culturali

Sellin fu il primo studioso ad affermare che il conflitto è causa di criminalità, partendo proprio
dall’osservazione che le società moderne si caratterizzavano per l’anonimato sociale, le superficiali relazioni
interpersonali e la presenza di una grande varietà di gruppi rivali, il che implicava che il comportamento di
un gruppo sarebbe risultato trasgressivo rispetto alle norme di qualche altro gruppo sociale. Egli elaborò così
la Teoria dei conflitti culturali, dando soprattutto risalto al ruolo giocato dal contrasto fra le norme di
condotta : secondo Sellin quindi i comportamenti criminali o meno dei singoli attori sono imputabili alla
qualità delle regole di cui l’individuo ha avuto esperienza, e l’apprendimento di norme contraddittorie
presuppone l’esistenza di un contesto sociale in cui le prescrizioni di un gruppo sono in conflitto con quelle
di un altro, ed è questo che produce un alto tasso di criminalità. L’idea di base quindi, su cui si fonda tutta
la sua teoria, è rappresentata dal fatto che un conflitto di cultura fra i singoli, fra l’individuo e la
comunità o fra gruppi diversi, può generare criminalità. La teoria di Sellin è di grande rilevanza in
quanto si può considerare una vera e propria teoria sociale, in quanto ha come punto di riferimento le difficili
condizioni di adattamento di persone diverse rispetto al contesto circostante. Egli, differentemente dalle
impostazioni della Scuola di Chicago che consideravano lo sradicamento culturale e l’inserimento in un
nuovo ambiente, vedeva il conflitto fra culture un contrasto fra norme e un fenomeno di frontiera,
evidenziando come la cultura importata venisse imposta a popolazioni con tradizioni culturali
differenti. Su tali premesse affrontò poi il tema dell’immigrato, andando ad evidenziare come il conflitto
culturale non si rilevasse tanto nella prima generazione di immigrati, quanto nella seconda : questo perché la
prima rimane legata ai valori di origine, mentre la seconda è più esposta a norme di condotta contrastanti,
difficili quindi da conciliare. Sellin evidenziò poi due forme di conflitto ovvero primario e secondario :

1. Nel primo caso il conflitto si verifica quando un comportamento è deviante in maniera opposta per
due differenti culture;

2. Nel secondo caso il conflitto concerne la formazione di norme di condotta di sottogruppi,


contrastanti con quelle della cultura più ampia, cioè di regole subculturali devianti;

La frustrazione di status e le sottoculture criminali

Sappiamo che il concetto di frustrazione di status è stato sviluppato nella teoria della tensione, al fine di
spiegare la delinquenza giovanile, e si riferisce a quei soggetti che, non potendo raggiungere attraverso
canali legittimi le mete desiderate, si sentono frustrati e possono reagire in modi diversi : tentando di
ottenerle con mezzi illeciti, scaricando la frustrazione sugli altri, cercando di sentirsi meglio mediante il
consumo di sostanze stupefacenti. Partendo proprio da questo concetto, alcuni sociologi statunitensi
iniziarono ad elaborare la Teoria della sottocultura giovanile, intorno alla seconda metà degli anni ’50 del
‘900. Il termine “sottocultura” proviene dall’antropologia e si riferisce a numerosi sottogruppi esistenti nelle
società complesse i quali, pur essendo simili alla cultura generale, stabiliscono regole specifiche che li
distinguono dalla cultura più ampia. Secondo la spiegazione sottoculturale della devianza sociale, data la
numerosità di tali sottoculture, alcune di esse contengono inevitabilmente norme devianti ed in
conflitto con quelle della cultura dominante, ed è proprio il conformarsi con queste norme che implica
l’allontanarsi da quelle socialmente accettate. Sono stati analizzati a tal proposito molti tipi di sottoculture
criminali, da quella dei ladri professionali alle organizzazioni mafiose, rivolgendo tuttavia una particolare
attenzione sulla formazione e sullo sviluppo delle bande delinquenziali giovanili : è proprio all’interno di
esse infatti, che il giovane, mediante la partecipazione ed il coinvolgimento alla vita di gruppo, inizia a

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socializzarsi con una serie di regole. La subcultura delinquenziale, ampiamente studiata anche da Cohen, si
forma in quanto offrirebbe una soluzione ai problemi di status ed alle frustrazioni vissuti dai ragazzi delle
aree di basso livello, nel loro tentativo di raggiungere il successo della classe media. Sebbene questi ragazzi
aspirino ad uno stile di vita della classe media, il loro background culturale non li supporta
adeguatamente per poter mettere in pratica quegli standard necessari per avere successo, come il rispetto
verso la proprietà o il controllo dell’aggressività. Date dunque le differenze di classe, questi giovani
vengono spesso assaliti da forti frustrazioni che li avviano verso una risposta delinquenziale : scatta
così un meccanismo di reazione, mediante il quale invertono i valori della classe media, elaborando un
lessico specifico, regole interne e forme particolari di abbigliamento e comportamento, e si aggregano infine
in una subcultura delinquenziale. All’interno della banda accade che il giovane può trovarsi a rivestire quel
ruolo sociale che non può ottenere all’interno della società e, adottando comportamenti devianti, può
raggiungere posizioni di prestigio e mettersi in luce nella comunità deviante. Cohen ritenne poi necessario
che una teoria sulle gang dovesse render conto anche delle subculture delinquenziali che abitano la classe
media : egli evidenziò quindi come la devianza, per i giovani della classe media non è più ricercata
nell’ambito di un vasto gruppo secondario, bensì in quello del gruppo primario ovvero la famiglia. Tuttavia,
se da un lato Cohen svolge un’analisi approfondita della non – omogeneità della gang di una data classe
sociale, dall’altro trascura dei fenomeni macroscopici : sin dall’inizio quindi la teoria di Cohen è stata
oggetto di numero critiche e rielaborazioni. Ad esempio, i due studiosi Sykes e Matza, pur essendo
d’accordo sul fatto che l’affiliazione alla banda avvenga per i comuni problemi di status, negarono che gli
appartenenti rifiutassero i valori della classe media, e sostennero poi che i giovani delinquenti presentano
un atteggiamento ambivalente nei confronti dei suddetti valori e della conformità delle leggi. Secondo
gli autori, inoltre, i membri di una sottocultura criminale risolvono il problema utilizzando le così dette
tecniche di neutralizzazione, che permettono di mitigare gli effetti del controllo sociale e giustificare i loro
atti antisociali con se stessi e con gli altri. In altre parole, secondo Sykes e Matza, il comportamento
criminale potrebbe essere preceduto da razionalizzazioni che invalidano il codice legale, come
potrebbe essere accompagnato o seguito da autogiustificazioni create ad hoc dal soggetto, per accettare
il proprio agire e sminuire le autorità di controllo. Questa teoria sembra avere un collegamento con le
associazioni differenziali di Sutherland, poiché le tecniche di neutralizzazione vengono apprese attraverso il
contatto con il gruppo criminale, così come può essere inserita anche fra le teorie del controllo, in quanto
descrive come si possano usare le razionalizzazioni per invalidare o ridurre i meccanismi di controllo.
Importante sottolineare come, in un opera successiva, Matza riprese e incorporò le tecniche di
neutralizzazione, ritenendo che esse venissero utilizzate come mezzo per sentire una sorta di “liberazione
temporanea” dai limiti della morale imposta : lo studioso infatti osservò che i membri di una banda non si
sentivano del tutto obbligati a rispettare le regole del gruppo, dato che i delinquenti non commettevano
azioni devianti in modo continuativo. Questo atteggiamento era dovuto principalmente al fatto che nella
società non esiste un consenso pieno, quindi un insieme unico di valori, bensì una pluralità per cui
conformità e devianza si modificano in continuazione. Ulteriore rielaborazione dello studio di Sykes e Matza
venne proposta da Scott e Lyman, i quali proposero una distinzione fondamentale fra le “scuse” con cui
l’autore dell’atto ammette di aver fatto qualcosa di sbagliato, e le giustificazioni con cui si assume poi
la responsabilità ma nega comunque che sia sbagliato. La negazione inoltre può avere un duplice
carattere :

• Conscio : si tratta di un rifiuto retorico, una fuga dalla varietà o dalle sue conseguenze;

• Inconscio : contrariamente dalle negazioni consce, che costituiscono una forma di inganno per gli
altri, quelle inconsce sono semplice espressione di processi psicologici, che permettono al soggetto
di evitare le pressioni della realtà esterna, in una sorta di autoinganno.

Tuttavia la negazione o la smentita di una verità è solo una delle diverse modalità psicologiche per affrontare
una minaccia esterna o un pregiudizio sociale.

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Il discorso di Merton e Cohen è stato poi approfondito, agli inizi degli anni ’60, da Cloward e Ohlin, i quali
accettarono in linea di massima il concetto di subcultura criminale come causa della discrepanza fra mezzi e
mete. Tuttavia la loro prospettiva parte da una concezione diversa : gli studiosi ritenevano infatti che i
giovani delle classi inferiori accettano gli standard culturali della classe media, e la loro scelta verso la
devianza scaturisce dall’impossibilità di credere nei mezzi legittimi per il raggiungimento delle mete, poiché
ne è impedito loro l’accesso da condizioni di ingiustizia economica. Non sarebbe quindi l’incapacità di
immaginare di conseguire il successo o la relativa frustrazione che li porta a deviare, piuttosto la
constatazione di una reale esclusione dai mezzi legittimi. Cloward e Ohlin poi, dopo essersi soffermati
sulle limitazioni culturali e strutturali subite dai giovani dei ceti più bassi, sostennero che le tendenze verso la
devianza fossero modi di adattamento a tensioni strutturate e ad incompatibilità con l’ordinamento sociale. Si
domandarono poi come fosse possibile che, data l’esistenza di condizioni favorevoli al formarsi di una
subcultura, si andassero a sviluppare delle gang che si distinguono per la diversità del contenuto : gli studiosi
affermarono che esistono delle variazioni socialmente strutturate nella disponibilità anche dei mezzi
illegittimi. Volevano quindi intendere che l’accesso ai ruoli, anche devianti, è comunque limitato da fattori
sociali e psicologici, per cui vi sono differenze nelle opportunità offerte all’individuo per accedere ad
ambienti adatti per l’acquisizione di valori e abilità. Perciò il tipo particolare di subcultura che i giovani
andranno a formare, dipenderò in larga parte dalle opportunità devianti a cui avranno accesso e dai
modelli adulti criminali presenti nel contesto di riferimento. A tal proposito Cloward e Ohlin distinguono
così 3 tipologie di subculture giovanili :

1. Criminale : si sviluppa nelle aree in cui le opportunità di esposizione a modelli criminali sono
diffuse e non vi è opposizione e tali modelli, anzi vengono accettati. I giovani che appartengono a
questo tipo di gang imparano una varietà di ruoli devianti e si avviano verso una carriera criminale in
età adulta, diventando quindi professionisti del crimine.

2. Conflittuale : si forma quando non sono disponibili opportunità illecite e modelli criminali. Si viene
dunque a creare una comunità disgregata, priva di una struttura illegale ben organizzata, ed agisce in
modo incontrollato ed imprevedibile mediante atti di violenza fini come mezzi di ascesa sociale.

3. Astensionista : si caratterizza per la fuga nella droga e nell’alcool, costituita da quei giovani che non
sono riusciti ad inserirsi nella società legale o nelle altre 2 tipologie. Si tratta cosi del “doppio
fallimento” di coloro che non sono stati in grado di adattarsi né ai mezzi istituzionalizzati, né a quelli
illegittimi e criminali.

In conclusione la teoria di Cloward e Ohlin, definita anche teoria delle opportunità differenziali,
sostiene che la devianza è essenzialmente una scelta di mezzi illegittimi per raggiungere mete culturali
condivise. Nonostante le critiche, le ricerche subculturali ebbero un forte impatto nella società statunitense,
tant’è che costituirono la base teorica di diversi programmi di prevenzione negli anni ’60, fra i quali il più
famoso fu quello denominato “Mobilitazione per la gioventù”, mirato a creare nuove opportunità per i
giovani.

Un altro teorico quale Walter Miller, più tardi rifiutò l’impostazione che era stata promossa fino ad all’ora
nello studio delle subculture, negando che la sottocultura delinquenziale si formasse per reazione agli
standard della classe media. Egli allora dimostrò, nella sua ricerca, come i valori della cultura della classe
inferiore producano criminalità per il fatto stesso di essere “naturalmente” contrari a quelli della classe
media. In altri termini, Miller riteneva che la devianza non nasce dal rifiuto dei valori della classe superiore,
bensì dalla stessa cultura della classe inferiore che possiede e mantiene il proprio sistema di valori. E’ chiaro
quindi come Miller fosse in totale disaccordo con Cohen, ritenendo appunto che la subcultura delinquenziale
vive indipendentemente dalla cultura dominante e delinea le proprie regole in base a quello che è il suo stile
di vita. Per sostenere la sua tesi, Miller rilevò una serie di interessi focali criminogeni, ovvero tensioni
caratteristiche della cultura dei settori disagiati, ed elencò così 6 aree : Difficoltà, Durezza, Furbizia,
Eccitazione, Fatalismo e Autonomia. Lo studioso, inoltre, mirò ad evidenziare che la preoccupazione degli

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uomini di dimostrarsi duri e forti, aveva origine dal fatto che molto spesso nei ceti bassi le donne erano i
capifamiglia : di conseguenza i ragazzi, non avendo un modello maschile al quale inspirarsi, si univano alle
bande delinquenziali di quartiere con cui potevano identificarsi. Una conferma delle teorizzazioni proposte
da Miller, si può scorgere nella ricerca di Lewis sulla Cultura della povertà attraverso la quale si
evidenziava che i valori dei poveri sono diversi da quelli della maggior parte della società . Lewis
evidenziò ben 70 caratteristiche come, ad esempio, la disoccupazione, il senso di impotenza, mancanza di
privacy : molti di questi tratti quindi, secondo il sociologo, inibivano il povero nel tentativo di orientarsi
verso il successo e di avanzare nella scala sociale. Siamo di fronte ad un punto di vista che ricorda quello dei
teorici del consenso, secondo i quali la causa principale della povertà è la formazione di modelli di consenso
in cui il povero si adatta alla sua condizione con attività illegali, legittimate dalla subcultura. Un ultimo
contributo da evidenziare è quello di Franco Ferracuti e Martin Wolfgang, i quali hanno affrontato due
problemi di base : uno metodologico sull’integrazione nella ricerca criminologica, l’altro sostanziale sulla
sottocultura della violenza.

Cap. 7 – Sociologia della devianza : controllo sociale, conflitto, etichettamento

Rispetto alle teorie della tensione, delle associazioni differenziali o relative subculture che si basano
sull’assunto che l’ambiente in cui si cresce crei sia motivazioni sia opportunità per commettere azioni
antisociali, le Teorie del controllo sociale, sviluppate dagli anni ’50 in poi, prendono da un’ottica
completamente diversa. Tali teorie si basarono infatti sul presupposto per cui la natura umana sia
essenzialmente deviante, per cui il motivo del comportamento criminale va ricercato nel fatto che è “fa parte
della natura umana, e che tutti gli individui commetterebbero istintivamente degli omicidi”. L’interrogativo
su cui ci si volle focalizzare fu quindi il comprendere perché la maggior parte delle persone non commette
reati. I teorici del controllo sociale spiegarono tale fenomeno delineando come esistono nella società
forze repressive e condizionamenti che vengono imposti agli attori : nel momento in cui tali forze si
esauriscono si sviluppa il comportamento criminale “incontrollato”. Evidenziarono poi come molti
individui non commettono crimini perché sufficientemente legati alla comunità, così da tenere sotto controllo
i propri impulsi : se non ci fossero quindi i legami sociali e l’assenza di interesse verso gli altri, chiunque
correrebbe il rischio di delinquere. Gli attori possono quindi realizzarsi in maniera equilibrata se la loro
condotta è governata da un sistema organico di norme, tuttavia quando queste condizioni vengono meno,
anche il controllo perde vigore : sorge l’anomia, che già Durkheim nel 1895 aveva delineato come l’effetto di
un controllo insufficiente, e di conseguenza la devianza. Va comunque ricordato che per Durkheim la
devianza svolge un ruolo importante e positivo per il mantenimento dell’ordine sociale e per il rafforzamento
della coscienza collettiva. Sulla linea di questo pensiero, i teorici della teoria del controllo cercarono
allora di spiegare non la devianza bensì il Conformismo.

Fra i primi studi ricordiamo quello di Reiss il quale, seguendo un’impostazione di tipo prettamente
psicologico nell’analisi di un ampio campione di giovani delinquenti, individuò all’origine della fragilità
dell’Io e della devianza la carenza di alcune componenti del controllo sociale : la prima di riferiva al
mancato sviluppo nell’infanzia di un adeguato autocontrollo, la seconda all’allentarsi di esso e infine la
terza all’assenza di regole sociali, interiorizzate attraverso il contatto con i gruppi significativi. In altre
parole, per Reiss la devianza criminale scaturirebbe da una inadeguata socializzazione e da un deficit dei
meccanismi di controllo interni. Successivamente Ivan Nye iniziò la sua tesi partendo dalla considerazione
che tutti gli umani sono guidati da istinti animali e che nascono con una tendenza naturale a violare le norme
sociali, e tenuta sotto controllo dalla società. Individuò poi 4 fattori di controllo del comportamento
delinquenziali :

1. Controllo Interno : basato sullo sviluppo della personalità, l’autoconsapevolezza e la coscienza


individuale;

2. Indiretto : basato sui vincoli affettivi con persone significative;

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3. Diretto : basato sulla minaccia di sanzioni;

4. Soddisfazione dei bisogni legittimi : basato sul controllo delle opportunità di partecipare ad attività
lecite ed illecite;

Nye inoltre rivolese una particolare attenzione alla famiglia come specifico “agente di controllo sociale”, ed
escluse dall’applicazione della sua teoria i comportamenti dovuti a patologie mentali o all’appartenenza di
subculture criminale. Infine sostenne che un controllo indiretto efficace richiedeva comunque un minor
bisogni di controllo diretto e che un buon controllo interno determinava una minore necessità di intervento
degli altri tipi. Un altro studio è quello di Walter Reckless, il quale iniziò ad elaborare la sua teoria
esaminando le ricerche criminologiche sviluppate fino a quel momento, con particolare attenzione per uno
studio condotto da Sheldon ed Eleanor Glueck : i due ricercatori infatti, svolgendo un’indagine
multifattoriale su 500 ragazzi delinquenti e 500 non delinquenti di Boston, avevano evidenziato ben 5
componenti essenziali, che distinguevano i delinquenti dal gruppo di controllo. Tali componenti furono
divise secondo i seguenti aspetti :

1. Costituzionale : mesomorfismo secondo la tipologia di Sheldon;

2. Temperamentale : irrequieti, impulsivi, aggressivi;

3. Emotivo : ostili, provocanti, pieni di risentimento, non remissivi;

4. Psicologico : capaci di apprendere solo in modo diretto e concreto;

5. Socio – culturale : allevati da genitori inadatti;

In pratica, secondo questa formulazione, la causalità del comportamento criminale si poteva far risalire a 4
fattori individuali ed uno situazionale. In contrasto con l’approccio non direzionale dei Glueck, Reckless
sviluppò la Teoria dei Contenitori mediante la quale tentò di delineare in modo più specifico l’azione dei
controlli interiori ed esteriori sul comportamento conformista. I contenitori sono rappresentati da 4
fattori che favoriscono il contenimento della condotta nell’ambito della legalità, ed occupano un nucleo
centrale fra le impressione e le influenze ambientali e gli stimoli interiori. Ovviamente, se i contenitori sono
deboli le pressioni e gli stimoli porteranno più facilmente ad agire in senso deviante : se il contenitore
esterno è debole, le pressioni e le influenze ambientali dovranno essere controllate da quello interno;
viceversa se i controlli interni del soggetto risulteranno fragili, un efficace sistema di controllo esterno potrà
aiutarlo a non oltrepassare i limiti della legalità. Per sostenere al meglio la sua teoria poi Reckless
evidenziò una serie di argomentazioni : sostenne che essa rappresentava una formulazione di cui potevano
servirsi ugualmente bene psichiatri, psicologi e sociologi; che a livello operativo era idonea per il trattamento
dei delinquenti; che era efficace per la prevenzione, in quanto una volta individuati bambini con un
contenitore debole, si potevano adottare programmi mirati a far interiorizzare loro comportamenti interni più
forti.

Il legame sociale di Hirschi

Fra le prospettive del controllo sociale, la più elevata e conosciuta è quella proposta da Travis Hirschi. Egli
parte dal presupposto per cui i desideri devianti sono normali e che la maggior parte delle persone
infrangerebbe le regole, se non vi fossero circostanze che glielo impediscono. Esiste dunque un legame fra il
soggetto e la società convenzionale : più esso è forte, più intensa risulterà l’interiorizzazione delle norme
sociali e meno probabile la deviazione da esse. Per cui il comportamento criminale dipenderebbe dal vincolo
con la società che, secondo Hirschi, so compone di 4 elementi essenziali quali :

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• Attaccamento : si riferisce ai sentimenti di affetto e sensibilità verso gli altri significativi. Se il
grado di attaccamento è debole, il giovane sarà insensibile alle opinioni altrui e si sentirà libero di
deviare rispetto alle pressioni del contesto di riferimento;

• Coinvolgimento : riguarda il coinvolgimento a lungo termine negli scopi socialmente approvati.


Maggiore è l’assunzione delle proprie responsabilità nel comportarsi in maniera conforme, minore
sarà il rischio di devianza e di compromettere le opportunità future;

• Impegno : l’impegno in attività conformiste si riferisce all’idea che la persona occupata socialmente
nella comunità o in istituzioni locali abbia minori possibilità di allontanarsi dalle norme, e si
restringe quindi il campo delle opportunità illecite;

• Convinzione : consiste nel crede nei valori sociali stessi;

In riferimento a quest’ultimo elemento, Hirschi contesta la teoria di Sykes e Matza relativa alle tecniche di
neutralizzazione, ed evidenzia come questa non possa annoverarsi fra quelle del controllo sociale. Hirschi
infatti non ritiene che la neutralizzazione avvenga per commettere più facilmente atti delinquenziali, e che
quindi l’individuo crei un sistema di razionalizzazioni per giustificare il suo agire illecito. Afferma invece
che le convinzioni che rendono l’uomo libero di commettere azioni devianti sono non – motivate, nel senso
che egli non se le crea o adotta per facilitare la realizzazione di scopi illeciti.

In definitiva, i teorici del controllo hanno avuto un certo seguito, come peraltro diverse critiche. In anni più
recenti, Hirschi e Gottfredson hanno proposto un approfondimento delle condizioni e delle propensioni che
consentono il verificarsi di crimini con un approccio definito “Teoria generale della criminalità”, più nota
come “Teoria del basso autocontrollo”. Secondo la loro interpretazione, i crimini costituirebbero “atti di
forza o frode intrapresi nel perseguimento di uno scopo individuale”. Attraverso questa concezione del
reato, i due autori raggiungono due scopi : 1) ampliare la definizione fino a farvi rientrare anche i reati dei
colletti bianchi, dal momento che negano che il contesto del delitto e dello status del delinquente abbiano
alcuna relazione con il loro originarsi; 2) aderire alla teoria del controllo sociale. Quindi, secondo questa
teoria, il meccanismo fondamentale che spinge verso il comportamento deviante deve essere individuato nel
basso autocontrollo, che trova la sua origine in un difetto di socializzazione nei primi 7-8 anni di vita del
bambino : in altri termini, tutti i soggetti hanno le medesime motivazioni, ciò che varia è la capacità di
controllare i propri comportamenti. Ovviamente, una ridotta capacità di autocontrollo aumenta la probabilità
di deviare, mentre con un forte autocontrollo la riduce fortemente, e siccome i tratti individuali, che incidono
su di esso, vengono assorbiti in giovane età e permangono per il resto della vita, è di fondamentale
importanza il modello educativo. Per questo motivo, per i due studiosi, l’unica vera strategia capace di
combattere a lungo termine la devianza, soprattutto se minorile, è quella di incidere sulla famiglia e
migliorare sulla sua attività di socializzazione nei confronti dei bambini.

La Teoria del Conflitto

Le teorie sociologiche sul “conflitto” si affermarono più o meno contemporaneamente alle teorie
sull’etichettamento, fra gli anni ’60 e ’70 del ‘900 nel clima di agitazione politica. Entrambe le teorie si
basano su una concezione politica del problema devianza con la differenza che quelle relative al conflitto
rivelano un’influenza ideologica più marcata, mentre quelle sull’etichettamento hanno avuto maggiore
seguito dopo gli anni ’70. L’elemento fondamentale comunque è l’idea della conflittualità, vista come
connotato capace di caratterizzare la società molto più del contesto. L’emergere di questa nuova
impostazione, portò ad affrontare il fenomeno della devianza in termini del tutto diversi, delineando
dunque i devianti come manifestazione del fallimento della società nel venire incontro ai bisogni degli
individui : le origini del crimine quindi, secondo tale prospettiva, andrebbero ricercate nelle leggi, nei
costumi e nella distribuzione della ricchezza e del potere. Le teorie del conflitto si basano dunque sull’idea
per cui molti valori sociali siano in contrasto fra di loro ed è proprio in questo che si radica la maggior parte

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della devianza. Risulta quindi fondamentale esaminare la relazione fra i valori in gioco e l’interesse del
potere economico e politico, al fine di comprendere appieno i problemi sociali, proprio perché è questa
interazione che conduce ai conflitti e, di conseguenza, al comportamento antisociale. Inoltre sappiamo che il
modello conflittuale sostiene che chi stabilisce le regole e le norme giuridiche, è anche colui che decide cosa
è deviante o criminale : è centrale quindi in esso il concetto di potere e di predominio dei gruppi
dominanti, i quali definiscono le regole e le leggi che governano la società. Chi entra in conflitto con esse
è giudicato deviante e viene sottoposto ad una punizione da parte dell’autorità.

Riassumendo, i concetti principali della criminologia del conflitto vogliono che :

• Criminalità e violenza sono presenti in tutte le classi sociali, ma quelle inferiori e quindi prive di
potere, vengono definite criminali con più facilità;

• Il gruppo dominante emana leggi e stabilisce le regole per difendere e sostenere i propri interessi;

• La giustizia non viene applicata in maniera eguale per tutti gli attori sociali, quelli dei gruppi
svantaggiati sono infatti più soggetti alle ingiustizie;

Sul piano storico sappiamo che Marx è individuato da alcuni studiosi come il primo teorico del conflitto,
dal momento che scrisse che la realtà sociale andava intesa in termini di lotta di classe per la proprietà
privata dei mezzi di produzione : egli infatti considerò come causa fondamentale di tutti i problemi sociali,
compreso quello della criminalità, il conflitto fra i detentori dei mezzi di produzione ed i lavoratori. In
quest’ottica quindi, il comportamento deviante origina dai conflitti di classe ed economici all’interno sistema
capitalistico, per cui la spiegazione del crimine va ricercata nelle condizioni materiali che caratterizzano le
singole esistenze. Non a caso molti teorici marxisti applicarono al reato l’interpretazione del materialismo
storico. A tal proposito ricordiamo uno dei primi criminologi marxisti ovvero l’olandese William Bonger il
quale, spostando l’ottica sulla degradazione morale indotta dal capitalismo, evidenziò come il sistema di
produzione basato sulla proprietà privata e sul profitto non facesse altro che bloccare lo sviluppo dell’istinto
sociale e dei legami di reciprocità. Inoltre delineò come, ogni classe sarebbe spinta verso l’egoismo da
specifiche influenze : la classe ricca dall’istruzione e dalle opportunità, la classe media dalla lotta per la
sopravvivenza, e il proletariato dalle privazioni. Quest’ultima classe, travolta da disoccupazione, mancanza
di istruzione e pessime condizioni di vita, è condotta a commettere la maggior parte dei reati.

I teorici del conflitto non marxisti

Uno dei primi approcci conflittuali si deve a Lewin Coser : egli delineò il conflitto come una dinamica
sociale che caratterizza la lotta fra i gruppi per la divisione del potere e del controllo. In particolare, per
Coser, si potevano distinguere i conflitti Realistici, inseriti in ogni sistema sociale, e i conflitti Non –
Realistici, dovuti a rinunce e frustrazioni relative al processo di integrazione sociale : questi ultimi in
particolare sono caratteristici della criminalità e dell’emarginazione. Coser descrive poi la figura del
“Nemico Interno”, che ogni gruppo può auto creare : tale figura non è altro che quella che in psicologia
sociale è delineata come “capro espiratorio”, che non è altro il risultato del meccanismo di difesa dell’Io,
attraverso il quale le tensioni accumulate nei confronti di un oggetto – scopo non raggiungibile, vengono
scaricate su un oggetto diverso ed arbitrario. Accade quindi che nel sistema sociale, il gruppo dominante ha
tutto l’interesse ad allontanare da sé l’aggressività dei dominanti, giungendo così ad additare il capro
espiatorio e ad incoraggiare così l’aggressione. Un’approfondita analisi di questo fenomeno è stata fornita
da Chapman, il quale denuncia la figura del capro espiatorio, evidenziando come questa non sia altro che
il risultato di particolari processi sui quali la “falsa coscienza” si fonda, in parte, come manifestazione
deviata delle tensioni. Secondo Chapman quindi l’ideologia dello stereotipo fa si che il criminale non possa
sfuggire al suo ruolo di vittima della società, anche grazie al sistema giudiziario, produttore poi del vero
crimine e primo responsabile delle diseguaglianze sociali.

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Tornando alle teorie conflittuali, il tema centrale della questione è rappresentata dal rapporto fra Potere e
Legiferazione. In relazione a questo sappiamo che George Vold considera la società struttura in gruppi in
competizione fra loro, e che entrano in conflitto quando i differenti interessi e scopi tendono a
sovrapporsi. La crescita dei contrasti rafforza la solidarietà all’interno di ogni gruppo fino al punto di farlo
lottare per difendere i propri interessi tuttavia, poiché le minoranze non sono in grado di influenzare il
processo normativo, ne consegue la criminalizzazione dei loro comportamenti da parte delle leggi. La
criminalità dunque non sarebbe altro che la conseguenza dell’azione di gruppi conflittuali che agiscono con
la stessa logica di minoranze politiche, al fine di consolidare i propri interessi. A tal proposito Austin Turk,
rivolge l’attenzione alla necessità di analizzare la criminalità in relazione all’ordine legale: in altre parole
secondo Turk è necessario attuare un’analisi avendo come base la legge penale, ed esaminarne quindi la
relazione con lo status criminale. Nell’analisi che svolse infatti, lo studioso osservò che più semplici e
deboli erano i singoli, più alta era la probabilità di una loro relazione conflittuale con le autorità. Le
conseguenze finali ovviamente sono sempre le stesse : quanto maggiore è il potere dei gruppi dominanti,
tanto più accentuata la criminalizzazione dei gruppi subalterni ed inferiori. Infine, mediante il concetto di
Sophistication, Turk definisce il livello di raffinatezza con cui un gruppo è in grado di organizzarsi per
opporsi alle norme, senza arrivare ad una forma di ostilità aperta : ne consegue che il conflitto con l’autorità
diviene più significativo se i gruppi sono organizzati e sofisticati.

Quinney e la realtà sociale del crimine

Lo studioso Richard Quinney, dopo aver inizialmente aderito alla prospettiva di Vold e successivamente
all’impostazione marxista, nelle sue opere successive ritenne che l’unica soluzione per il crimine risieda
nella creazione di una società basata sui principi socialisti, piuttosto che su quelli capitalistici. Egli
delineò così la sua teoria relativa alla realtà sociale del crimine, fondandola su 6 posizioni precise :

1. Definizione del crimine : il crimine è una definizione della condotta stabilita da attori autorizzati in
una società politicamente organizzata;

2. Formulazione delle definizioni penali : le definizioni penali descrivono quei comportamenti che
confliggono con gli interessi dei settori;

3. Applicazione delle definizioni penali : le definizioni penali sono applicate da quei settori della
società che hanno il potere di indirizzare la politica criminale, applicare leggi penali ed amministrare
la giustizia penale;

4. Sviluppo dei modelli comportamentali in relazione alle definizioni penali : i modelli di


comportamento di strutturano in classi in relazione alle definizioni penali e le persone si coinvolgono
in azioni che hanno una relativa probabilità di essere definite criminali;

5. Costruzione dei concetti di crimine : i concetti di crimine sono costruiti e diffusi nelle diverse parti
sociali dai mezzi di comunicazione di massa;

6. La realtà sociale del crimine : la realtà sociale del crimine è costruita secondo la formulazione ed
applicazione delle definizioni penali;

Le proposizioni di Quinney derivano dalle prime analisi teoriche della criminologia sociologica : nella prima
egli enfatizza che la devianza è definita in base alla reazione sociale e che il delitto si riferisce alla
definizione di un comportamento sociale “creata” e “sviluppata” dalle autorità. In altre parole Quinney
sostiene che il crimine non sia altro che un giudizio costruito da alcune persone riguardo le azioni, i
comportamenti e le caratteristiche di altre. Nelle ultime due proposizioni invece Quinney rileva che il mondo
in cui viviamo è “primariamente soggettivo e socialmente costruito”. In sintesi è possibile concludere che la
teorizzazione di Quinney mira a porre l’accento su una ideologia del crimine determinata dalla classe
dominante e basata su alcuni assunti : i reati di strada rappresentano la forma maggiore di delinquenza e

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che i crimini sono commessi prevalentemente dalle classi inferiori o dalle minoranza. Ne consegue che gli
appartenenti alle classi disagiate vengono più facilmente perseguiti penalmente, arrestati ed etichettati,
trattati poi dal sistema penale e dalla giustizia in termini più severi, mentre le attività criminali dei ceti
mediosuperiori finiscono per non essere rilevate.

La criminologia radicale

Sul finire degli anni ’60 del ‘900 le teorie del conflitto subirono una svolta radicale, che condusse al
considerare i comportamenti devianti come una risposta razionale al controllo prodotto dalle autorità. Una
prima versione delle teorie radicali è rappresentata dal lavoro di Chambliss, il cui interesse si incentrò
soprattutto sulla formazione ed applicazione delle leggi, partendo dalla divisione in classi nella società
capitalista. Analizzando il sistema penale americano infatti, il teorico notò che le classi dominanti
controllavano quelle inferiori mediante la gestione della legge : ciò avveniva sia emanando norme mirate a
sanzionare i comportamenti dei segmenti più disagiati, sia diffondendo il mito della legge come strumento al
servizio di tutti e plagiando le classi inferiori. Partendo da queste stesse premesse, Steven Spitzer studiò poi
il problema del “pluslavoro” all’interno nelle società capitalistiche, individuando in particolare 5 categorie
sociali problematiche e rappresentanti una minaccia per le classi al potere :

• Poveri che rubano ai ricchi;

• Persone che si rifiutano di lavorare;

• Persone dedite al consumo di stupefacenti;

• Soggetti che rifiutano scolarizzazione o famiglia;

• Attivisti fautori di una società non capitalistica;

Spitzer evidenziò quindi che fino a che tali categorie rimangono calme, non vi è il problema di controllarle :
in questo caso si tratterebbe secondo il teorico di “spazzatura sociale”, che può essere affidata alle cure di
assistenti sociali, psicologi e psichiatri. Nel momento però in cui tali categorie dovessero rappresentare una
minaccia per l’ordine politico e sociale, sarebbe allora necessario attuare un forte controllo e delle severe
punizioni : in questo caso si parla di “dinamite sociale”.

Uno dei più importanti approcci radicali alla devianza di deve al movimento della New Left, nuova sinistra
quindi, e alla Scuola di Criminologia di Berkley. Nell’affrontare la questione criminale, tale corrente di
pensiero si fece portavoce delle istanze emergenti dall’universo crescente degli emarginati e degli
esclusi che aspiravano a cambiare la società. Partì dall’analizzare gli illegalismi del potere che si
manifestavano, ad esempio, nella violazione dei diritti civili delle categorie più critiche della società e
denunciò poi le violenze della polizia : l’obiettivo di queste mosse fu quello di sollevare un sentimento di
protesta a favore delle minoranze emarginate ed oppresse, sino a trasformare la semplice corrente
criminologica in una sorta di “panflettistica moralistica”. Fra i principali esponenti della Scuola di Berkley si
distinse Anthony Park, che analizzando il Child – Saving Movement, ovvero il movimento per la salvezza
dei minori, rilevò come i minori devianti subissero in realtà, rispetto ai coetanei, un processo discriminatorio
ad opera delle istituzioni. Altro approccio alla criminologia radicale si deve alla National Deviance
Conference, una organizzazione sorta nel 1968 ad opera di alcuni criminologi inglesi i quali, partendo dalle
posizioni della sinistra radicale e nel tentativo di ribaltare il paradigma positivista, mirarono a sottolineare la
complessità della devianza e l’impossibilità di ricondurla alla semplice idea di lotta di classe. Sostennero così
la necessità di rivalutare il significato dell’azione deviante, considerandola dal punto di vista di chi l’ha
commessa : quest’ottica voleva dunque delineare la concezione per cui la devianza è, entro certi limiti,
normale, dal momento che chi è deviante è consapevolmente impegnato nell’affermazione della
propria umana diversità. Il compito quindi non è solo il cercare di capire tali problemi, cosa spinge alla
devianza, bensì anche far si che ci sia una società in cui le diversità personali non diventino oggetto di

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criminalizzazione da parte del potere. Siamo quindi di fronte ad una prospettiva in cui l’interesse è spostato
sul singolo, sulla sua soggettività e sulla razionalità del crimine, per cui l’attore si riappropria del suo agire.
Fra gli orientamenti radicali, è poi necessario citare la criminologia anarchica, il cui scopo è quello di
opporsi ad ogni forma di gerarchia : i sostenitori di tale corrente sottolineavano come le élites fomentassero
e mantenessero le divisioni fra le classi, e come le strutture dominanti fossero criminogene, dal momento che
ostacolano le capacità degli individui di relazionarsi solidalmente.

Critiche alle teorie conflittuali : il realismo di sinistra

I teorici radicali si sono mossi lungo due direzioni : la prima aveva il compito di segnare le origini e le
funzioni del diritto penale nell’economia politica del capitalismo; la seconda direzione riguarda invece
l’ordine del crimine, partendo dall’assunto che il capitalismo è criminogeno. Le cause della devianza vanno
ricercante, quindi, nell’ineguaglianza, nella disoccupazione e nell’alienazione. Tuttavia le tesi conflittuali
sono state tutte criticate, anche all’interno della scuola stessa : molti teorici del conflitto hanno infatti
contestato che siano state dimostrate correlazioni significative fra devianza e capitalismo, così come molti
studiosi della devianza ne hanno rilevato l’insufficiente spiegazione dei processi che portano un individuo a
divenire criminale. Sul finire degli anni ’70 si è poi diffuso in molti paesi occidentali un clima politico di
stampo conservatore . Con il dilagare della criminalità, ed il conseguente sentimento di insicurezza da parte
dei cittadini, la politica criminale ha infatti diffuso una concezione neoretributiva della pena e del crimine,
come soggetto razionale da punire severamente : siamo di fronte alla politica della “tolleranza zero”. La
criminologia radicale inglese e statunitense degli anni ’80, rielaborò poi in forma critica le sue precedenti
teorizzazioni, affermando così il movimento detto Realismo di sinistra, che rivalutò la componente
Relation Choice (scelta razionale) come presupposto dell’azione e della formulazione di una politica
penale. Il realismo di sinistra si pose di spiegare la criminalità partendo dai processi di privazione relativa e
di marginalizzazione : osservò quindi come la marginalità, dovuta alle difficoltà di accesso al mercato del
lavoro per le classi inferiori, e la privazione relativa, che nasce dal confronto con le classi medio – alte,
facciano emergere una subcultura criminale ed una percezione dell’ingiustizia. Questa prospettiva lascia
dedurre che non è la povertà assoluta che determina la criminalità, quanto piuttosto la povertà e la
diseguaglianza vissute come ingiustizia. Il realismo di sinistra studiò poi il modo in cui lo Stato
criminalizza gli attori e l’impatto che ne deriva per i cittadini, ovvero un totale asservimento allo Stato ed
ai suoi appartenenti e l’incremento delle misure assistenziali con la prioritaria funzione di placare le rivolte
sociale.

La teoria dell’etichettamento

Intorno alla metà degli anni ’60 del ‘900 si verificò una svolta importante nel campo della sociologia della
devianza, prima negli Stati Uniti e poi in Europa. La società iniziò ad essere studiata in modo nuovo e più
approfondito rispetto al passato, alla luce di quelli che erano stati i mutamenti sociali sviluppatisi a
partire dagli anni ’50, fra cui le lotte per le diseguaglianze razziali e per i diritti civili. Di fronte a tali
cambiamenti, gli scienziati sociali si impegnarono a studiare e combattere fenomeni come quello della
Stigmatizzazione, estendendo quindi i loro studi alla ricerca applicata sugli effetti che l’appartenenza ad una
classe sociale o ad una etnia generavano su coloro che venivano a contatto con il sistema penale. In questo
clima, sotto le amministrazioni Kennedy e Johnson, si sviluppò il programma Great Society avente come
obiettivo la costruzione di una società in cui tutti sarebbero dovuti essere uguali. Di fronte a questi nuovi
programmi governativi i sociologi, aderendovi, contribuirono sensibilmente allo sviluppo ed alla diffusione
della teoria dell’etichettamento. Si affermò così una nuova corrente di pensiero, che combinava insieme i
principi teorici ed empirici del funzionalismo, della scuola di Chicago, dell’interazionismo simbolico e della
prospettiva del conflitto, e che assunse diverse denominazioni come “ Teoria interazionista”, “Teoria della
relazione sociale” o più comunemente “Teoria dell’Etichettamento”. Tale corrente giunse alla conclusione
che la devianza non è una qualità dell’atto commesso o dell’individuo, bensì una conseguenza
dell’applicazione da parte degli altri di norme e sanzioni ad un soggetto “etichettato” appunto. Importante

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evidenziare come molti criminologi facciano risalire la teoria all’opera di Frank Tannenbaum, in cui la
devianza veniva considerata come il risultato di un processo di interazione sociale. La tesi principale dei
Neo – Chicagoans, così definiti i teorici dell’etichettamento della nuova Scuola di Chicago, considerava
quindi come variabile fondamentale nello studio della devianza non l’attore, con il suo patrimonio
genetico ed il suo status, bensì la pubblica opinione e la relazione sociale : ritenevano infatti che il
deviante fosse un individuo a cui l’etichetta è stata applicata con successo, il comportamento deviante quindi
è il comportamento così etichettato. La teoria dell’etichettamento quindi non cerca di individuare e spiegare
le “cause” della devianza, integra invece lo studio del comportamento con quello della reazione sociale,
centrando appunto l’attenzione sull’etichettamento che segue la commissione di un atto. Secondo Becker,
l’etichetta non è altro che una definizione che attiene ad un atto, un attore o un gruppo, fornita da una
comunità che le crea in base alla percezione che ha di quell’atto, dell’attore o del gruppo. Ne consegue
che, quando un individuo è etichettato, la qualifica stessa ne causa una reazione negativa che potrà poi
spingerlo ad intensificare l’agire delinquenziale. Dai concetti chiave della teoria emerge quindi come i
soggetti vengano etichettati come devianti, solo se i loro comportamenti non conformi vengono scoperti :
tale stigma li esclude dalla partecipazione alle relazioni e ai gruppi più convenzionali, li rende quindi
Outsiders. Ciò che accade genera delle importanti conseguenze :

• I rapporti con la famiglia e gli amici divengono sempre più difficili;

• Si è costretti a svolgere lavori in nero o attività illecite, a causa dell’impossibilità di ottenerne di


rispettabili;

• Il processo di etichettamento porta tali individui ad interiorizzare un’immagine di sé condizionata


dalla reazione altrui, quindi ad indentificarsi con l’immagine negativa rinviata dagli altri.

La teoria di Becker è stata poi ulteriormente sviluppata da Lemert, il quale propose una distinzione fra
devianza primaria e devianza secondaria : 1) La devianza primaria corrisponde alla violazione di una norma
con un atto non conforme e dovuto a fattori occasionali. Essa è perciò una devianza sintomatica e
situazionale, il che vuol dire dovuta a fattori variamente stimolanti al non conformismo; 2) la devianza
diviene invece secondaria, quindi sistemica, quando interviene la reazione sociale attraverso un atto
definitorio di un gruppo, che dichiara il comportamento diverso rispetto alla società. La stigmatizzazione che
si genera porta l’individuo a continuare a commettere atti devianti sempre più gravi, provocando una
reazione sociale mirata ad applicare l’etichetta di deviante all’attore.

Gli studi successivi sull’etichettamento sono diventati quasi ortodossi per diversi sociologi, fra le teorie
elaborate successivamente ricordiamo quindi :

1. La Teoria del panico morale origina da un’idea avanzata da Becker in relazione all’abuso di droghe
negli Stati Uniti : il focus della teoria si è concentrato sull’eccessiva risposta delle agenzie di
controllo, soprattutto i mass media, quali agenti provocatori di interesse ed ansietà;

2. La Teoria del costruzionismo sociale è un approccio che esplora i processi di costruzione,


produzione e circolazione della realtà e del giudizio sociale, cioè in quale modo gli individui
arrivano ad etichettare certi fenomeni;

3. La Labeling Theory, che si basa sul ruolo della reazione sociale a lungo termine del processo di
stigmatizzazione sull’attore sociale, lasciando però senza risposta il perché solo alcune condotte
siano qualificate come devianti in un determinato contesto storico e politico.

Cap. 8 – Criminologia Moderna e Postmoderna

Sappiamo che in sociologia con il termine Modernizzazione si fa riferimento all’insieme di determinati


processi economici, sociali, politici e culturali che hanno trasformato le società occidentali fra il

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18esimo e il 19esimo secolo. Una società è quindi considerata moderna in base alla presenza di una serie di
caratteri quali :

1. la maggior parte dei suoi membri attivi sono occupati lavorativamente;

2. la posizione sociale è assegnata in base alle prestazioni lavorative fornite e non base alla nascita;

3. vi è una mobilità sociale fra classi inferiori e superiori;

4. sono ricercati e premiati atteggiamenti innovativi e comportamenti razionali;

5. la crescita economica è continua e il mercato è generalizzato;

6. esistono forme organizzate ed istituzionalizzate di partecipazione dei membri della società alle
decisioni che li riguardano;

7. le istituzioni politiche garantiscono un minimo di consenso al sistema, istruzione di base, sicurezza


nonché alcune libertà fondamentali;

Secondo la tesi di Giddens inoltre, sappiamo che la Globalizzazione non è altro che una “conseguenza
della modernità”, in quanto ha favorito lo sviluppo delle relazioni economiche e gli scambi commerciali, la
diffusione delle culture e dei modelli di consumo. Riguardo al Postmodernismo sappiamo che esso
costituisce un approccio relativamente nuovo e applicato alle scienze sociali, e alla criminologia in
particolare. Importante a tal proposito evidenziare come un contributo importante alla corrente postmoderna
sia derivato da due autori che lo hanno maggiormente ispirato : Nietzsche e Lacan. Comunque uno schema
che può delineare al meglio il pensiero postmoderno, dividendolo in 3 correnti principali , è quello di
Inglehart il quale riteneva che :

1. Secondo la prima delle correnti, il postmodernismo non è altro che il rifiuto della modernità, cioè
della razionalità dell’autorità, della tecnologia e della scienza. Da questa prospettiva il
postmodernismo è considerato come il rifiuto dell’occidentalizzazione ;

2. La seconda intende il postmodernismo come la rivalutazione della tradizione. Mentre la


modernizzazione l’aveva drasticamente svalutata, il suo abbandono ha aperto la strada per la sua
rivalutazione;

3. Secondo la terza corrente, il postmodernismo rappresenta l’ascesa dei nuovi valori e stili di vita, con
una maggiore tolleranza per le diversità etniche, culturali e sessuali;

In ogni caso modernità e postmodernità rappresentano un continuum : i valori della seconda discendono
in qualche modo dalla prima : di conseguenza non è sempre semplice attuare una distinzione fra teorie
moderne e teorie postmoderne, soprattutto all’interno dell’ambito criminologico.

La criminologia moderna

Con l’incremento della criminalità e con la percezione del suo aumento nell’opinione pubblica, dovuta agli
effetti della globalizzazione, si è diffuso un forte sentimento di insicurezza e paura del crimine. Quanto
accaduto, oltre a condizionare la vita quotidiana dei singoli, ha condotto i governi occidentali a reimpostare
la loro politica criminale verso un controllo più intenso ed una concezione della pena di tipo neo –
retribuzionistico. In quest’ottica i criminali vengono considerati soggetti razionali, ciò significa che se ne
rivaluta il libero arbitrio nel commettere un reato e la necessità di rinchiuderli in carcere in modo che non
possano più agire e di proteggere così la società. Si è in particolare diffusa la politica del Just Desert, ovvero
del giusto merito : ognuno merita quindi di essere premiato o punito in base alla propria condotta. In
altre parole si affermano, come principi centrali del sistema di giustizia penale :

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• la proporzionalità della pena dell’atto commesso;

• il giusto processo basato su equità e protezione dei diritti;

• la definizione delle sanzioni;

• l’eliminazione delle disparità nelle condanne;

E’ quindi evidente come domini l’idea di sanzionare il delitto e non l’autore, al fine di mettere fine all’abuso
del potere dei giudici. Siamo di fronte ad una politica criminale, nata negli anni ’70 negli USA grazie
all’onda critica innalzata da avvocati liberali e sostenitori delle libertà civili : questi mirarono a denunciare la
indeterminatezza e la sproporzionalità delle condanne, basate sulle condizioni psico – sociali dell’autore più
che sulla gravità del reato commesso. Questa presa di posizione non solo ha prodotto una serie di studi mirati
ad evidenziare come fosse antieconomico impostare programmi di recupero sociale, bensì ha fondato le base
per lo sviluppo della corrente della Criminal Justice. Si assiste così al ritorno alla giustizia retributiva il cui
scopo principale è quello di ristabilire la relazione “spezzata” fra autore e vittima ed il punire quindi
l’autore solo nei limiti necessari per ristabilire tale relazione : ciò significa che il livello della sanzione
deve essere proporzionato alla gravità del reato. La gravità della condotta quindi è considerata in funzione
del danno causato, che può essere costituito da diversi elementi come danni fisici e psicologici subiti dalla
vittima, ed il riconoscimento di esso enfatizza il fatto che il reato non è semplicemente una violazione di
norme o codici, bensì colpisce anche vittime e società. Il modello del Just Desert dimostra quindi in maniera
specifica l’interesse per la vittima nel processo penale come parte integrante della sanzione. Non è un caso
che proprio negli stessi anni ’70 la vittimologia abbia ampliato la sua prospettiva dagli studi sulle
predisposizioni vittimogene e sulle tipologie di vittime e problematiche più ampie.

Le teorie razionali ed integrative

Le teorie razionali si basano sull’assunto che le persone siano in grado di pendere decisioni autonome, anche
se non si esclude l’influenza dell’ambiente e della struttura sociale. David Garland definisce tali decisioni
come Criminologie della vita quotidiana, mettendone in rilievo il comune denominatore della normalità
degli eventi criminosi, che non richiedono particolari motivazioni o predisposizioni, ma che sono appunto
caratteristici della routine della vita contemporanea. Una delle teorizzazioni più innovative si deve a Cohen
e Felson, il cui interesse primario di si rivolse al contesto degli atti delittuosi e al ruolo della vittima come
partecipe attivo nella produzione e prevenzione della criminalità. Felson poi approfondì la così detta Teoria
delle attività di routine, andando a delineare con questa espressione i modelli di comportamento stabiliti
all’interno dell’ambiente spaziale di tre tipi di attori sociali quali : 1) delinquenti motivati all’utile; 2)
guardiani capaci di persone e proprietà; 3) bersagli appetibili e disponibili per la vittimizzazione criminale.
E’ inoltre interessate notare come gli autori preferiscano parlare di Bersaglio e non di Vittima, proprio al
fine di sottolineare che la maggior parte dei delitti sono diretti ad ottenere beni. A tal proposito sono stati
individuati 4 aspetti che determinano se il bersaglio sia o meno appetibile : 1) valore calcolato dal
delinquente; 2) inerzia, aspetto fisico della persona o del bene che possono rappresentare un ostacolo nel
considerarlo adeguato; 3) visibilità, che qualifica la persona o il bene da attaccare; 4) accessibilità, che
aumenta il rischio di attacco. Successivamente Felson ha ampliato la teoria delle attività di routine, al fine di
poterla applicare ad altre tipologie di reati, aggiungendo quindi : attività di sfruttamento, che implicano un
rapporto mutualistico, attività di competizione. Per analizzare le attività criminali, risulta quindi
necessario considerare le interconnessioni fra queste variabili, inoltre Felson specifica che i guardiani
rappresentano la variabile che spiega, più delle altre, il verificarsi di un reato : egli spiega infatti come sia più
probabile che agiscano da guardiani i membri della famiglia, gli amici o le persone sconosciute per strada.

Altra formulazione teorica è la Teoria degli stili di vita, che basa le sue riflessioni sul perché alcune
persone rischino maggiormente di rimanere vittime di atti criminali. La risposta per spiegare i differenti
tassi di vittimizzazione è quindi individuata nei diversi “stili di vita”, per i quali sono determinanti 3

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elementi : ruolo sociale, posizione nella struttura sociale, componente razionale dell’agire, ed è proprio la
loro combinazione a produrre i vari livelli di vittimizzazione. Importante evidenziare come lo stile di vita
non dipenda in modo quasi automatico dalla scelta relazionale, bensì dalle condizioni socio – economiche e
dalle disuguaglianze sociali. Per allargare poi tali indagini anche ai delitti commessi fra le mura domestiche,
Mawby e Walklate hanno proposto una visione della vittimizzazione intendendola come una forma di
impotenza strutturata, dovuta a fattori quali età, sesso e razza.

La Teoria della scelta razionale, proposta da Cornish e Clarke, spiega invece le motivazioni razionali
che spingono a commettere azioni devianti nel tentativo di soddisfare bisogni primari. La teoria della
Rational Choice utilizza il concetto di “razionalità limitata”, in quanto modificabile secondo le motivazioni
che implicano problemi legati a esaltazione, piacere, denaro, status, libertà di controlli ecc., così come
variazioni nella capacità di analisi, nel livello di abilità, nelle condizioni fisiche. Successivamente Clarke ha
rielaborato la Teoria sulla struttura delle opportunità per il crimine mettendo in evidenza 3 elementi di
base : obiettivi, che riguardano la situazione ambientale che influenzerà la scelta degli strumenti utilizzati,
vittime, strumenti che facilitano la commissione del reato. Le interconnessioni fra i 3 elementi sono a
loro volta interessate dalla struttura socio – economica, dall’ambiente fisico, dalla percezione e
dall’elaborazione delle informazioni. Tuttavia bisogna sempre tener conto del fatto che un ruolo
fondamentale è comunque sempre rivestito dalla scelta razionale dell’autore. Come sottolinea la Selmini
infatti, le teorie delle opportunità, e la loro ricaduta nelle politiche sociali, hanno prodotto un ampio dibattito
nella criminologia contemporanea.

Sappiamo che la criminologia integrativa tende a studiare la criminalità ed il relativo controllo attraverso
un’ottica interdisciplinare, includendo sia diverse teorie criminologiche sia le conoscenze di altre materie.
Fra le analisi di tipo integrativo è interessante la Teoria della vergogna differenziale di Braithwaite, il
quale ha cercato di conciliare le teorie del controllo, delle opportunità, delle subculture e dell’etichettamento.
L’autore mirò a sottolineare come il parametro del controllo sociale potrebbe indirizzare il comportamento
verso l’accettazione o il rifiuto della legge, e come tutti i gruppi sia devianti sia conformisti siano soggetti a
varie forme di vergogna. Le forme più rilevanti di vergogna sono la disgregativa e la reintegrativa : la
vergogna può essere quindi reintegrativa, permettendo al soggetto di reinserirsi socialmente attraverso gesti
conciliatori, oppure disgregativa contribuendo ad un ulteriore sviluppo di subculture criminali. La vergogna
disgregativa di Braithwaite produce in pratica un etichettamento e una stigmatizzazione e crea una classe di
emarginati, la reintegrativa invece tende a riconciliare l’autore, la vittima e le altre persone coinvolte.

Altri esempi di criminologia integrativa si trovano nelle ricerche di Elliott, Ageton e Canter relative al
Comportamento delinquenziale strutturato. Nella loro ricerca gli autori, integrando le prospettive del
controllo sociale della tensione e dell’apprendimento sociale, analizzano le variabili caratterizzanti il
processo di socializzazione minorile, sostenendo che i giovani della classe inferiore come della classe media,
possono tendere con la devianza a diversi obiettivi, oltre a quelli economici. Un’analisi sulla delinquenza
minorile e l’uso di sostanze stupefacenti è stata poi svolta da Elliot, Huizinga e Ageton : all’interno di
questa ricerca si sostenne che la disorganizzazione sociale, la tensione e un’inadeguata socializzazione
producono un indebolimento dei legami affettivi convenzionali e un rafforzamento dei legami affettivi con
minori devianti, da cui deriva appunto il comportamento delinquenziale. Un'altra analisi ha portato poi alla
definizione della Teoria del corso della vita, rianalizzando i dati storici della ricerca dei coniugi Glueck :
tale teoria propone uno studio dinamico degli eventi della vita, attraverso il quale è possibile spiegare quali
cambiamenti nel tempo e quali legami sociali indirizzino o meno il soggetto verso il crimine.

Le teorie soggettive e la criminologia culturale

Lo studio della sfera emozionale associata al comportamento deviante ha da sempre attirato l’attenzione
degli psicologi. Anche la prospettiva sociologica, più recentemente, ha posto l’accento sulle motivazioni e
sulle emozioni delle persone devianti : una delle impostazioni teoriche più innovative in quest’ambito si deve
a Katz, il quale parla di Seduzione del crimine, e si pone nei panni di chi delinque al fine di comprenderne

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i desideri soggettivi che determinano l’agire. Sicuramente la maniera più adeguata di captare la motivazione
del violento, consiste nel leggere minuziosamente la sua emozionalità, l’ estetica e la sensualità morale,
coinvolte negli atti criminali o trasgressivi che egli commette. Indubbiamente l’opera di Katz ha fornito un
nuovo impulso alla ricerca e alle riflessioni sociologiche relative alle emozioni del crimine in un periodo
storico in cui sentimenti come la paura, la rabbia e le rivendicazioni, hanno giocato un ruolo importante nelle
reazioni del pubblico di fronte all’aumento della criminalità, tanto da allargarsi all’analisi del “lavoro
emozionale” nell’ambito delle istituzioni e professioni legate alla giustizia penale. Questo tipo di analisi si
inserisce nella corrente di pensiero della Criminologia Culturale, orientamento teorico che studia le
convergenze fra processi culturali, criminalità e controllo sociale, che comprende diverse impostazioni sulla
costruzione culturale del delitto, partendo dagli studi pioneristici sui processi culturali per poi ispirarsi ai
postulati postmoderni . Derivante dal filone della criminologia culturale abbiamo la Criminologia della
Pacificazione, Pacemaking criminology, che è stata sviluppata da Pepinsky, Quinney e Wildeman :
l’analisi proposta da tale teoria coinvolge tutto il sistema penale e sostiene la necessità di affrontare i
problemi sociali in modo diverso. Si tratta quindi di una visione che mira ad alleviare le sofferenze per
ridurre la criminalità e raggiungere lo scopo della “pacificazione”: per gli autori della teoria infatti il
crimine si verifica quando la società porta a relazioni interpersonali di tipo distruttivo, è quindi necessario
che queste vengano migliorate. Siamo in pratica di fronte ad una impostazione, che non è tanto una teoria
quanto una definizione della situazione, che mira a spostare l’attenzione dai criminali ai cittadini al fine di
sottolineare l’importanza, nelle relazioni interpersonali, del reciproco rispetto, dell’empatia e della
compassione. Su tali premesse si propone anche di passare da una giustizia retributiva ad una giustizia
riparativa la quale, basata su una mediazione penale, consiste in un “processo attraverso il quale le parti,
coinvolte in un delitto, risolvono in maniera collettiva come affrontare le conseguenze immediate e le
implicazioni future”. In altre parole la giustizia riparativa, sviluppatasi soprattutto negli Stati Uniti e in
Inghilterra, si basa su una serie di prassi quali :

• mediazione fra vittima e autore, quindi sul coinvolgimento della famiglia dell’autore al fine di
evitare altri episodi devianti;

• consigli riparativi, utilizzati dalle forze di polizia negli incontri organizzati fra vittima e aggressore.

Design ambientale e geografia del crimine

La prospettiva del design ambientale si è sviluppata negli anni ’70 soprattutto grazie all’opera di urbanisti ed
architetti : in particolare l’Environmental Design nel campo della criminologia ha avuto come scopo
principale quello di individuare quali strutture urbanistiche fossero più adeguate per la prevenzione della
criminalità. La prima analisi sull’argomento è stata svolta da Jane Jacobs, la quale ritenne fattori essenziali
per la prevenzione il senso di coesione comunitaria ed i sentimenti di territorialità. La studiosa inoltre criticò
la tendenza dei pianificatori urbani a dividere la città in aree specializzate come quella commerciale,
residenziale ed industriale. In questo modo infatti si andrebbe a creare una dissociazione psichica e sociale
che gli urbanisti definiscono “insufficiente equilibrio strutturale urbano” : ciò va a determinare la nascita di
quartieri con notevole omogeneità architettonica accompagnata da omogeneità sociale. Jane inoltre,
ritenendo che la monotonia della struttura di insediamento è in stretta relazione con l’insorgere di
comportamenti devianti, propose di diversificare l’uso del territorio potenziando l’attività di strada, in modo
da stimolare controlli informali. Nello stesso periodo Angel rilevò che le aree pubbliche diventano
pericolose non solo quando la popolazione circostante attira l’attenzione su potenziali delinquenti, ma anche
quando non è sufficiente per controllare l’area, condizione questa che etichetta “le zone con intensità critica”.
Angel quindi sviluppò un’ipotesi specifica sulle condizioni tendenti al crimine e suggerì i mezzi per
manipolare l’ambiente realizzando condizioni più favorevoli. Nel settore criminologico si deve poi a Jeffery
la formulazione di Crime Prevention Through Evironmental Design, CPTED, con cui si affronta il
problema della sicurezza urbana in rapporto alla pianificazione ambientale. Jeffery, che fu il primo a
porre in evidenza il tema della prevenzione e della sicurezza in un’epoca in cui inizia a diffondersi una forma

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accentuata di insicurezza nella popolazione urbana, sostenne che il modo in cui si progetta l’ambiente urbano
determina, in larga misura, il tasso di criminalità, e come non venga mai considerata la prevenzione della
delinquenza come parte integrante della pianificazione urbanistica.

L’opera di Newman ha sicuramente rappresentato l’apporto più interessante in campo urbanistico –


criminologico. Il programma di prevenzione del crimine mediante delle strutture ambientali, da lui proposto,
si basa sul concetto di spazio difendibile ovvero sull’idea che i singoli e le famiglie possano essere
incoraggiati dalla struttura architettonica del proprio quartiere ad aumentare il loro senso di responsabilità
per la cura, la protezione e la sicurezza dello spazio sociale in cui vivono. Per poter recuperare questo
controllo dello spazio urbano di vita, Newman considera 4 elementi :

1. Territorialità : la suddivisione di edifici in zone che gli utenti inizino a considerare come loro
proprietà. Con l’aumento della popolazione infatti, gli abitanti sono stati costretti a ridefinire il loro
territorio in termini di superficie per piani di unità residenziali. Newman afferma che si può conferire
nuovamente un significato al territorio di proprietà comune sicuramente attraverso l’uso di giardini,
case più basse, recinzioni;

2. Sorveglianza : progettare edifici che permettano la facile osservazione delle aree circostanti;

3. Imago : progettazione e costruzione di case popolari che evitino di farle considerare tali. Queste
infatti spesso si riconoscono poiché vi sono abitazioni su molti piani e la loro facile identificazione
attira la criminalità;

4. Ambiente : prevede un certo numero di attività intorno all’area progettata, evitando così
un’eccessiva esposizione a bande delinquenziali. Newman suggerisce di riaprire tali aree al
commercio limitato come mezzo per incrementare la sorveglianza, evitando tuttavia congestioni
eccessive di ristoranti drive – in, discoteche ed altri locali che possano attirare gruppi devianti.

Molte altre ricerche hanno poi messo inevidenza che vanno considerati anche gli effetti dell’ambiente
economico ed etnico e non solo urbanistico. Alcuni studiosi, ad esempio, hanno dimostrato come l’eccesso di
misure di sorveglianza sortiscano l’effetto contrario : attirano quindi delinquenti, dividono la città in zona dei
ricchi e zona dei poveri. In ogni caso le teorizzazioni di Newman hanno evidenziato come un ambiente
degradato accresca sentimenti negativi e ritorsioni contro oggetti o persone. Sappiamo poi che alla
criminologia ambientale è molto vicina la Teoria geografica del crimine, che pone particolare attenzione
sul luogo in cui si verifica l’atto criminale, quindi sul dove più che sul perché. Questo approccio si basa
sulle attività di routine di autori e vittime nello spazio, sul concetto di movimento verso il crimine e sulle
relative idee di territorialità. Importante comunque sottolineare come, allo stato attuale, la criminologia
ambientale così intesa è considerata una metodologia di indagine investigativa, che si serve di sofisticate
tecnologie per l’analisi dei dati sulla criminalità. Per cui il design ambientale e la geografia del crimine
hanno indubbiamente contribuito ad indirizzare molte politiche sociali locali, soprattutto negli Stati Uniti ma
anche in Canada, dove si è sviluppata una nuova politica di prevenzione denominata Safecity.

La distinzione fra politiche della sicurezza e politiche della prevenzione ha messo in evidenza il fatto che,
negli ultimi anni, nonostante il calo dei delitti denunciati, si è comunque prodotto un aumento dell’allarme
sociale, collegato alla differenza esistente fra rischio oggettivo e percezione soggettiva del pericolo. Le
politiche di prevenzione intervengono sulla prima di queste due situazioni, mentre le politiche di sicurezza si
rivolgono soprattutto alla seconda. Inoltre, mentre le politiche di sicurezza sono finalizzate alla tutela dei
cittadini dalla percezione di insicurezza, le politiche di prevenzione sono dirette ad impedire che vengano
consumati reati e tutelano i cittadini. Nell’ambito della prevenzione inoltre è possibile distinguere le azioni di
prevenzione situazionale da quelle di prevenzione sociale :

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• La prevenzione situazionale aspira a sottrarre al potenziale delinquente tutte le opportunità di
commettere un delitto. I vantaggi sono riscontrabili nell’immediata diminuzione dei delitti, tuttavia
non bisogna perdere di vista gli svantaggi : le azioni delittuose infatti non vengono eliminate, e
tendono a spostarsi in altre zone a rischio.

Questo nuovo modo di vivere ed intendere il proprio spazio di vita si riflette anche nelle forme
architettoniche delle nuove città fortificate ed iper sorvegliate. Si assiste quindi al ricorso diffuso, da parte
delle amministrazioni locali, alle nuove tecnologie di video sorveglianza urbana che ha segnato il passaggio
ad un modello tendenzialmente repressivo delle condotte criminose ad uno schema più preventivo del rischio
di cadere vittima della criminalità. In campo criminologico alcune teorie hanno contribuito in maniera
particolare allo sviluppo della prevenzione situazionale come quelle della scelta razionale e delle attività di
routine, che hanno ispirato la politica della tolleranza zero e la Crime Pattern Theory di Brantingham. Si
tratta di una teoria basata sullo studio del modo in cui le persone e le cose, coinvolti in eventi criminali, si
collocano nel tempo e nello spazio. La particolarità di tale teoria è rappresentata dal fatto che essa consente
una tipologia di analisi ad un livello intermedio, quale può essere quello di una piccola comunità o di un
quartiere, ed il suo obiettivo è quello di analizzare in termini di spazio e tempo, percorsi criminali, al fine di
comprendere quali siano i fattori che li influenzano.

La criminalità femminile : le teorie di genere da Lombroso al femminismo post – moderno.

Sul finire del 19esimo secolo ebbe inizio, relativamente alla figura della donna criminale, uno studio
scientifico che ha posto l’attenzione sin da subito sulla questione relativa alla bassa percentuale e alla
particolare distribuzione della criminalità femminile. Gli studiosi ritenevano che l’atavismo, inteso come lo
stadio più primitivo dell’evoluzione umana, si manifestasse in due modi differenti nell’uomo e nella donna :
nel primo tramite il crimine e nella seconda attraverso la prostituzione. Tali ragionamenti, che oggi
verrebbero considerati assurdi per le loro semplicistiche deduzioni, all’epoca si inserivano perfettamente in
quello che era l’insieme delle credenze, tradizioni e pregiudizi vigente. Proprio Lombroso definì come tipo
completo di donna criminale, l’insieme di quattro o più caratteri degenerativi : la delinquente era infatti
caratterizzata da tratti infantili, crudeltà, tendenza alla vendetta, egoismo e vanità, e fisicamente presentava
uno sviluppo prematuro con caratteri di mascolinità. In ogni caso la donna criminale veniva identificata
principalmente con la prostituta, l’infanticida o l’isterica, comunque ritenuta malata. Le ideologie
ritenevano poi che la donna fosse guidata dalla missione fondamentale di dare la materia per la formazione
dell’essere umano : attraverso quindi l’idea che ella avesse come meta della propria esistenza la
procreazione, si cercò di spiegare il perché la criminalità femminile fosse meno diffusa. Interessante
ricordare l’interpretazione biologica del Comportamento dei due sessi proposta da Thomas, in base alla
quale la donna “anabolica”, quindi accumulatrice di energia, soddisferebbe la sua aggressività istigando ad
agire l’uomo “catabolico”, distruttore di energia. Lo stesso Thomas riteneva che la delinquenza femminile
fosse una conseguenza dell’insoddisfazione legata al ruolo in periodo di forti mutamenti sociali, o comunque
attribuibile a problemi familiari, delusioni amorose, richiesta di attenzione o desiderio di nuove esperienze :
il teorico cercò quindi di analizzare la posizione sociale della donna, sottolineando il potere della comunità e
della famiglia , non riuscendo però ad approfondire le relative problematiche. Riguardo poi alle fanciulle che
si macchiavano di un delitto ai danni dell’amato, vennero individuati dei disturbi neuropatici che si sarebbero
verificati nel passaggio dall’infanzia alla pubertà, spesso causati da presunte congestioni utero - ovariche.
Queste teorizzazioni vanno ad implicare che la donna anche per delinquere dipenda dall’uomo, il cui
abbandono genera in lei la follia omicida : si tratterebbe di una psico – nevrosi, della quale la Scuola
Francese e quella Tedesca fornirono due spiegazioni diverse. Secondo Charcot, esponente della prima, la
nevrosi che si concretizzava nel delitto era in realtà una forma di isterismo preesistente ad esso; Oppenheim
invece, esponente della seconda scuola, non concordava sull’esistenza di precedenti tendenze folli. La
delinquente quindi non solo era determinata nella sua azione nefasta dall’uomo ma, se la portava a termine,
era considerata una folle la cui coscienza subiva un blocco.

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Presente in tutte le epoche e quasi in ogni luogo è un altro reato, considerato tipicamente femminile ovvero
l’Adulterio, analizzato da vari approccio come, ad esempio, quello biologico. Per comprendere come tale
approccio abbia affrontato questo peculiare delitto proprio della donna, possiamo partire dal principio
secondo il quale, mentre nella donna il sentimento nasce nell’anima per poi passare ai sensi, nell’uomo è
proprio dalle sensazioni che si sviluppa la passione per l’altro sesso, passione che di solito non coinvolge
minimamente l’anima del seduttore. A fronte di ciò si sosteneva che la donna subisse una sorta di
“esplosione”, che l’avrebbe trascinata nella devianza, che si sarebbe poi concretizzata nell’omicidio del
marito o in quello dell’amante : mentre il primo è un reato comune, nel secondo caso si parlava invece di
reato passionale proprio delle istero – psicopatiche, diversamente delle istero – nevropatiche che sarebbero
risultate maggiormente propense al suicidio. A tal proposito gli psichiatri osservarono come i disordini
emotivi dell’isterismo potessero degenerare a tal punto da indurre ad azioni violente : ciò implicava che
l’adultera, ossessionata dal tradimento, subisse una riduzione delle funzioni della corteccia celebrale e
giungesse poi a commettere il fatto delittuoso. Quest’ultimo è dunque da considerare come l’esito di un
processo psicologico che avanza per gradi fino a sfociare nel sangue, nel caso in cui la passione sia tale da
turbare la psiche oppure vi sia un’accentuata debolezza mentale. Sulla stessa linea Abraham, nello studiare
i furti, spiegava i meccanismi inconsci sottesi alla cleptomania come dovuti ad una forma di vendetta attuata
dalle donne, che non hanno superato il complesso di castrazione e lo vivono ancora in maniera conflittuale.
Fromm, da parte sua, collegava invece la criminalità a problemi di identificazione psicosessuale con le
figure genitoriali. Queste teorizzazioni vennero riprese da Parsons il quale, per spiegare la minore devianza
femminile, rilevò come nelle società industrializzate i maschi fossero tradizionalmente allevati dalle madri e,
rispetto ai figli di famiglie contadine, abbiano minori opportunità di identificarsi con i madri o con modelli
maschili : tale dislocazione potrebbe creare gravi tensioni nei ragazzi, che potrebbero deviare verso
comportamenti antisociali. Le ragazze invece, continuando ad identificarsi con le madri, non soffrirebbero
invece le stesse “crisi di identità”. Una motivazione ulteriore che avrebbe spinto la donna a delinquere era
la sua innata vanità, accompagnata dal volersi sempre distinguere per la propria bellezza : d’altronde se
l’uomo poteva mettersi in mostra con l’intelletto o lo status sociale, a lei bastava un abito nuovo per sentirsi
appagata, di conseguenza il furto e la fronde si rivelavano un mezzo efficace. E’ chiaro quindi che le
anomalie psichiche connesse con le funzioni sessuali hanno costituito per anni le tematiche più
importanti in campo criminologico. Successivamente Palmieri sostenne che il fattore costante
nell’evoluzione della criminalità femminile fosse quello cronologico : essa sembrava infatti svilupparsi in
coincidenza con le manifestazioni più salienti della vita sessuale, come l’avvento della pubertà, il periodo
mestruale, la gravidanza ecc. Tali interpretazioni hanno avuto seguito fino a tempi relativamente recenti,
talvolta però scontrandosi con qualche voce fuori dal coro come quella di Giorgio Quartara il quale, in
piena epoca di esaltazione della virilità, ebbe il coraggio di sostenere i diritti delle donne e dei minori. Egli
inoltre evidenziò come la superiorità femminile fosse dimostrata anche dalla minore quantità di crimini gravi
commessi.

A partire dal 20esimo secolo, alcuni autori iniziarono a sostenere che essa fosse la vera criminale anche nei
reati commessi dagli uomini : in quest’ottica, attraverso un ruolo parallelo, la donna delinquente avrebbe
tendenzialmente sfogato la propria aggressività servendosi dell’uomo a cui delegare l’Acting Out, ovvero
l’azione delittuosa diretta. A tal proposito possiamo citare il concetto di Masked Criminality, proposto da
Otto Pollak, secondo il quale la donna, meno portata per natura a comportamenti violenti, preferisca
delegare al maschio l’azione vera e propria. Importante evidenziare come siamo di fronte ad interpretazioni
che ruotano sempre intorno ad una concezione maschilista del ruolo sociale della donna che, agendo dietro le
quinte, tende a salvare la propria immagine. Su questa stessa linea si colloca un’altra corrente di pensiero,
mirata a sostenere l’ipotesi della Chivarly, ovvero Cavalleria : con questo termine si indicava infatti
l’atteggiamento più favorevole verso le donne, tenuto dall’autorità giudiziaria e dalla polizia, che contribuiva
a falsare la differenza numerica degli arresti e delle condanne femminili. Tuttavia, secondo il Mannheim,
tale atteggiamento cavalleresco nasceva dalla egoistica convenienza dei legislatori i quali, attuando una sorta

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di indulgenza penale verso la donna, riducevano il loro senso di colpa per la posizione subalterna in cui la si
teneva.

Alla donna, considerata per molto tempo incapace di commettere volontariamente reati, è stata
costantemente negata la “scelta razionale” del crimine come modus operandi e, di fatto quindi, la “capacità
criminale”. Solo con l’avvento degli anni ’60 si assiste ad una vera svolta nell’affrontare il problema,
favorita anche dall’avvento del movimento per la liberazione della donna, che ha creato un clima favorevole
per l’istituzione di un nuovo approccio : infatti si sono iniziate a sviluppare delle analisi relative sia alla
discriminazione contro le donne sia su temi riguardanti la devianza. Un posto di rilievo in questo nuovo
contesto spetta sicuramente a Freda Adler, la quale riteneva che l’incremento della criminalità femminile
dovesse andare di pari passo con il processo di “mascolinizzazione” delle donne : in altre parole, con
l’emancipazione le donne, liberate dai ruoli sociali tradizionali, tenderanno a comportarsi in modo sempre
più aggressivo e deviante. Si assisterà dunque a come la parità dei ruoli condurrà ad una convergenza nei
tassi di tutte le tipologie di reato. In quello stesso periodo Rita Simon sostenne che l’aumento della
partecipazione della donna come forza lavoro, le offra delle nuove opportunità di delinquere all’interno
dell’ambiente lavorativo. Entrambe le studiose poi convalidarono la tesi secondo la quale, ad una maggiore
emancipazione corrisponda una maggiore criminalità.

Successivamente, in letteratura, si è parlato di “criminologia femminista” : questo termine, che si presta a


diverse ambiguità, sarebbe secondo Greenwood l’insieme delle ricerche ispirate dai movimenti femministi
relativamente al sessismo istituzionalizzato nel processo della giustizia penale. Gelsthorpe e Morris invece
negarono l’esistenza della “criminologia femminista” e parlarono, invece, di un approccio femminista alla
materia che pone come centrale la questione delle donne. Tuttavia, negli ultimi anni, si è ritenuto più corretto
utilizzare il termine Women’s Studies per designare tutte quelle analisi volte ad individuare le problematiche
socio – economiche legate alla devianza femminile e alle questioni relative. In questa prospettiva si
collocano diversi studi italiani come quelli della Ambroset, della Pitch e della Faccioli, mirati a disegnare
un profilo socio – demografico della donna deviante italiana, in rapporto alle caratteristiche della
popolazione femminile di riferimento. Tali ricerche hanno permesso di osservare che, in alcuni periodi,
l’incremento dei tassi di criminalità sia superiore per le donne, mentre in altri si registra una maggiore
flessione per gli uomini, anche se i reati commessi da questi risultano costantemente più numerosi. Himer ha
poi affermato che gli studi futuri in questo campo, al fine di avere una solida base scientifica, dovranno
indirizzarsi verso l’approfondimento delle interconnessioni fra gli specifici elementi legati alle basse
condizioni economiche femminili, influenti sui livelli di criminalità, come l’aumento delle madri single, le
diseguaglianze salariali ed i cambiamenti nelle politiche di welfare. Non mancano infine ricerche di tipo
qualitativo, rivolte ad analizzare i fattori associati alla criminalità cronica femminile, al fine di rilevare
quali siano gli elementi che determinano le scelte criminali. Tali studi hanno aperto la strada alle
prospettive postmoderne ed, in particolare, a quelle radicali del controllo di potere di Hagan e della struttura
sociale patriarcale delle società capitalistiche. In particolare è stato affrontato il tema relativo alle relazioni
familiari e a quelle di potere : poiché diverse relazioni di potere corrispondono a differenti relazioni familiari,
i modelli di socializzazione dei figli variano in funzione della classe sociale di appartenenza e ne influenzano
i ruoli futuri, nonché la tendenza al rischio. Nella famiglia patriarcale, caratteristica delle classi inferiori, le
donne sono soggette ad un più pressante controllo e tenute lontane dalla strada del crimine, ma con il
progressivo diffondersi di modelli educativi egualitari i comportamenti di ragazzi e ragazze tendono a
divenire simili, modificando così le differenze di genere anche al di fuori della famiglia. Con la diminuzione
delle famiglie patriarcali e con l’aumento dell’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, si è assistito ad
una lievitazione della devianza femminile, confermando così la tesi della correlazione fra l’emancipazione e
la criminalità.

La criminologia postmoderna

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La criminologia postmoderna ha incominciato a svilupparsi intorno agli anni ’90, quando le prime analisi
originarono dal disincanto nei confronti del pensiero moderno ed illuminista. Oggi la fase più matura si
definisce “affermativa”, in quanto non si basa su una dinamica di reazione – negazione, ma piuttosto si
concretizza in una Transprassi : con questa espressione si vuole intendere che non si deve soltanto produrre
una reazione e critica negativa a ciò che avviene, ma anche prospettare una società migliore possibile.
L’intento della transprassi è quindi quello di fare in modo che chi vittimizza, criminalizza ed emargina
rinunci alle sue pratiche di vittimizzazione, criminalizzazione ed emarginazione.

Tra le teorie postmoderne più attinenti alla criminologia si colloca la teoria linguistica o semiotica, che si
inspira alla psicoanalisi di Jaques Lacan. Egli riteneva che l’analisi del discorso è importante per studiare le
modalità con cui si costituiscono le diverse realtà sociali e come alcune di esse evolvono in forma più stabile
e privilegiata. Uno dei primi tentativi di applicazione di tale teorizzazione alla criminologia si deve a
Jackson, il quale utilizzò il “modello attanziale” di Greimas, basato sulle relazioni fra gli attanti ( soggetto,
oggetto, destinatore, destinatario ), e sviluppò un modello di “coerenza narrativa” nella giustizia criminale, in
cui indica che la verità non è altro che un discorso determinato.

In seguito Milovanovic ed Arrigo hanno approfondito questo tema, presentando degli esempi pratici su
come i cambiamenti del linguaggio si possano sviluppare attraverso il potere di trasformazione di
coloro che strutturano la realtà sociale del crimine. In altre parole gli studiosi, partendo dalla
considerazione che la realtà è definita come il modo soggettivo di comprendere il mondo circostante,
principalmente in base a concetti e metafore, la giustizia criminale è costruita su concetti linguistici
necessari per il funzionamento del sistema stesso. Così, ad esempio, l’imputato di un reato è di per se
svantaggiato nel procedimento giudiziario, in quanto viene associato al male e al pericolo. Per quanto
riguarda la concezione postmoderna del criminale, sappiamo che i due studiosi lo ritengono non
necessariamente come un malvagio o un prodotto passivo delle forze sociali, piuttosto un potenziale soggetto
pericoloso che si rivela fiducioso nell’onnipotenza della realtà. La figura della vittima del delitto è invece
ridotta ad una non – persona, che dunque non possiede una esistenza completa : le vittime sono coloro che
vivono la sofferenza di vedersi private della loro umanità e della capacità di cambiare le cose. Siamo di
fronte ad una riconcettualizzazione del delitto, del delinquente e della vittima, che non riporta l’azione
deviante alla persona, alla struttura sociale o alla cultura, bensì alla creazione continua di identità sociali
attraverso la narrazione : il delitto quindi non è causato, bensì costruito discorsivamente per mezzo dei
processi umani.

Un’altra corrente di ricerca postmoderna riguarda la Teoria del Caos, definita anche teoria della
complessità. Si tratta di una teoria che ha origine dalle analisi topologiche e matematiche della teoria del
caos in cosmologia e la sua applicazione si deve a Gregersen e Sailer : i due autori ritenevano che tale
teoria, da loro definita trasformazione, potesse offrire un meta – modello del comportamento sociale,
avanzando l’ ipotesi di alcune analogie con le teorizzazioni matematiche che hanno prodotto le distribuzioni
del caos. Successivamente Thorn propose una variante di questa teoria, delineando così la Teoria della
catastrofe : egli postulò l’apparire di discontinuità nei sistemi continui e propose così una tipologia di
diverse forme di catastrofe secondo il numero di variabili contingenti. Molto sviluppata fu poi la Teoria
topologica, il cui ampio utilizzo fatto da Lacan ha mirato ad introdurla nei tentativi esplicativi per inserire il
comportamento sui piani interattivi più complessi e scoprirne le dinamiche. Ulteriore rielaborazione della
teoria del caso è rappresentata, infine, dalla Metateoria dell’incidente critico di Williams, che sottolinea
come crimine e criminale siano concetti estremamente complessi : egli partì dal fatto che il comportamento
è dovuto a variabili biologiche, sociali, ambientali, psicologiche e che tali variabili, accumulandosi nel
tempo, conducono ad un punto critico in cui l’individuo reagisce, per allentare la tensione, mettendo in atto
qualche comportamento. Tuttavia, sulla base di questa teoria risulta difficile prevedere l’agire criminale, in
quanto possono intervenire ulteriori fattori situazionali e si deve tener conto della realtà soggettiva, sia del
potenziale agente sia di coloro in grado di reagire. Siamo di fronte ad una metateoria il cui approccio implica
la consapevolezza della natura complessa della realtà e la necessità di dover inserire tale complessità nella

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comprensione di azione e reazione. Williams comprese dunque come fosse più semplice predire i tassi di
criminalità, poiché a livello collettivo o macro determinate variabili si sommano e si riduce la difficoltà di
analisi.

Cap. 9 - La criminalità delle organizzazioni : Criminalità economica e Criminalità organizzata

Un’altra questione che necessita di essere analizzata è quella riguardante le attività illecite commesse sia
dalle organizzazioni del mondo economico – finanziario e politico amministrativo, sia dalle associazioni di
stampo mafioso. L’intreccio fra criminalità economico – politica e criminalità organizzata, risulta
attualmente piuttosto intenso in quanto la seconda ha bisogno della prima per reinvestire i proventi illeciti,
mentre la prima necessita dei metodi della seconda per dominare sul mercato. Importante evidenziare come
non siamo più di fronte ad una criminalità economica basata su una devianza individuale, bensì
sull’organizzazione stessa dell’economia e sul potere che ne consegue. D’altronde la criminalità organizzata
di tipo mafioso si struttura come un’impresa e si inserisce non solo nei mercati illegali, ma anche in quelli
legali : quelle che possiamo definire Criminal Corportations quindi diventano soggetti attivi dell’economia
e della finanza, che operano a stretto contatto con le strutture economico – finanziarie, soprattutto per
quanto riguarda il riciclaggio di denaro, e quelle politico – amministrative, in particolare attraverso la
corruzione. Importante evidenziare inoltre come nel tempo il termine “Criminalità del colletto bianco“ è
stato sostituito con quello di “Criminalità economica” e di Corporate Crime, sia per dare maggiore risalto
all’azione più che al soggetto, sia per farvi rientrare fattispecie eterogenee.

Origini : la criminalità del colletto bianco di Sutherland

Il termine “colletto bianco” fu utilizzato per la prima volta, in ambito criminologico, da Sutherland al fine
di indicare gli appartenenti ai ceti superiori, quindi i membri della classe agiata. Successivamente, in
campo sociologico, Mills utilizza tale espressione per definire la classe media, supponendo il corpo sociale
diviso in 3 componenti : 1) l’élite del potere; 2) i colletti bianchi; 3) la classe operaia. Così intesa però, la
categoria dei colletti bianchi, si faceva comprensiva di un ampio strato sociale che differiva da quello inteso
da Sutherland. Tuttavia, anche se alcuni pionieri della sociologia americana avessero parlato del reato del
colletto bianco, si deve ad Albert Morris il primo cenno all’argomento : questo autore distinse i delinquenti
abituali in 2 grandi gruppi, quello degli Underworld e quello degli Upperworld, definendo quest’ultimo
come un gruppo di criminali la cui posizione sociale, l’intelligenza e la tecnica nel crimine permette loro di
muoversi fra i loro concittadini virtualmente immuni da ogni condanna di essere criminali. Queste
teorizzazioni posero le basi per la strutturazione dell’opera sulla criminalità economica di Sutherland ,
che fu il primo a trattare sistematicamente l’argomento, a definire le caratteristiche e ad elaborare una teoria
scientifica per spiegare il nascere e l’affermarsi della Criminalità del colletto bianco. Secondo la
definizione, tale criminalità si concretizza in un reato, commesso da una persona rispettabile, di elevata
condizione socio – economica, nell’ambito della propria attività professionale, con abuso della fiducia
di cui gode all’interno della comunità. Svariate furono le critiche mosse verso tale definizione : ad esempio
per quanto riguarda la parola REATO Sutherland, per rispondere alle critiche di coloro che ritenevano il
significato di questo termine troppo ristretto se limitato solo alle infrazioni delle leggi penali, egli vi incluse
ogni condotta ogni qualvolta questa si dimostri “socialmente dannosa”. A proposito di danno sociale, è
interessante ricordare ciò che Durkehim scriveva al fine di sottolineare come il diritto penale trascurasse le
gravi patologie sociali costituite da determinati fatti economici : egli riteneva che nel diritto penale dei popoli
più civili, l’assassinio fosse considerato il maggiore dei reati ma come, tuttavia, una crisi economica o un
colpo in borsa potessero disorganizzare molto più gravemente il corpo sociale. E’ evidente quindi come la
definizione di reato fornita da Sutherland fosse, sotto tutti gli aspetti, inadeguata, e come quindi non risulta
chiaro neanche cosa si intenda per RISPETTABILITA’, se assenza di condanne o forse lo svolgimento di
attività professionali che riscuotano consenso e prestigio sociale. In ogni caso, dato che questa comunque è
indipendente dalla condizione socio-economica, in genere dipende dal giudizio della comunità, espresso in
base ai propri valori socio – culturali. Per quanto riguarda l’elevata CONDIZIONE SOCIO –

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ECONOMICA, questa sappiamo che si basa su parametri più obiettivi, come il reddito. Riguardo alla stretta
relazione che deve esistere fra il reato e l’ ATTIVITA’ PROFESSIONALE dell’autore, è ovvio che nel caso
in cui il “colletto bianco” commetta un reato al di fuori della propria occupazione, tale condotta rientrerebbe
nella categoria della criminalità comune. Inoltre, per Sutherland, è necessario che l’autore commetta
l’illecito, abusando della FIDUCIA conquistata nella comunità.

Gli studi successivi : dal crimine del colletto bianco al corporate crime

Dopo Sutherland, Clinard definì il crimine del colletto bianco come una violazione della legge da parte delle
classi socio – economiche media e superiore, punibile in campo sia penale che civile ed amministrativo.
Sottolineò poi la figura dell,’Occupational Criminal, il quale non viene percepito come un criminale, bensì
continua ad essere considerato una persona rispettabile o, al massimo, violatore di norme, e la comunità non
lo etichetta come un criminale per il suo status sociale e la legittimità della sua professione. Altri autori poi,
restringendo il campo, hanno sostenuto che il reato del colletto bianco è commesso per un’azienda o da
un’azienda, dai suoi agenti o dai dirigenti di grandi industrie in violazione delle leggi anti – monopolio, o da
uomini d’affari in violazione di leggi economiche. Cressey , in particolare, rivolse l’attenzione all’elemento
della rispettabilità, considerando fondamentale che :

• al soggetto venisse offerta l’opportunità di commettere il reato;

• vi fosse la consapevolezza che il problema di natura finanziaria non fosse esternabile perché
socialmente riprovevole;

• le violazioni del trust finanziario fossero considerate non criminali, in modo da rendere più difficile
definirle come reato;

Seguendo questa logica, per l’autore, si fornisce al trasgressore un sostegno sociale alla propria azione, oltre
a quello proveniente dai membri del gruppo di appartenenza : si rende quindi possibile la realizzazione di
condotte devianti da parte di persone rispettabili. In un lavoro successivo, lo stesso Cressey, riferendosi
proprio alle violazioni del trust economico, pose in rilievo 3 elementi : 1) opportunità di commetterle ed
esistenza di un problema da risolvere per avere l’approvazione del gruppo; 2) conoscenza di come violare la
legge; 3) possibilità per i trasgressori di appellarsi a giustificazioni accettabili per il loro comportamento.
Successivamente Bloch e Geis, criticando il concetto di criminalità del colletto bianco individuato da
Sutherland, proposero di ristringerlo a 3 categorie di reato : 1) commesso da singoli come tali (avvocati,
medici ecc.); 2) commesso da impiegati contro la propria corporation o azienda; 3) commesso da funzionari
e dirigenti in favore della propria corporation o azienda. In seguito Geis limitò la criminalità in questione alle
violazioni operate da funzionari e dirigenti d’azienda, definendo così la Corporate Violations. Altra
elaborazione fu quella di Aubert, il quale considerò come violazioni riferibili ai colletti bianchi, quegli atti
commessi in campo economico da persone aventi un elevato status socio – economico e sanzionati
penalmente grazie al mutamento della struttura sociale. Aubert evidenziò poi come l’uomo d’affari si trovi
spesso a svolgere due ruoli in conflitto, quello di cittadino rispettoso della legge e quello membro ella
comunità di affari : il più delle volte l’ideologia del gruppo e dell’incentivo del profitto, lo conduce a
commettere atti illeciti. Al contrario Schut definì il reato del colletto bianco come Respectable Crime,
commesso quindi da una persona di classe media o superiore, consistente un infrazioni penali con basso
livello di visibilità pubblica e di effettiva condanna. Con il passare del tempo si è preferito sostituire
l’espressione “criminalità del colletto bianco” con quella di “criminalità economica”, cercando di trovare
una definizione più giuridica che criminologica. Secondo Edelhertz, il reato economico non è altro che uno
o più atti illegali commessi attraverso mezzi non fisici, di nascosto quindi e con scaltrezza, al fine di ottenere

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denaro o beni, di evitare il pagamento o la perdita di denaro o beni. L’autore riteneva si trattasse di un reato
democratico, la cui caratteristica principale sta nel modus operandi e negli obiettivi, più che nello status e
nell’attore. Kellens invece parla di Gentleman Crime, riferendosi quindi all’azione illegale commessa da
una persona perbene di elevata condizione sociale, nell’ambito dell’attività professionale : egli si rifà alla
concezione tedesca di Helfer secondo la quale il crimine è commesso da un individuo rispettabile che
approfitta della propria condizione di prestigio per portare a termine azioni delittuose.

Un altro filone di studi preferì la definizione di Criminalità degli affari che venne particolarmente
analizzata da Delmas – Marty : la studiosa sostenne che si potesse seguire come criterio di selezione l’abuso
dei beni sociali, che sono appannaggio sia della delinquenza degli affari sia di quella comune. Per distinguere
poi la prima dalla seconda, la studiosa francese affermò che il “criminale degli affari” è colui che conduce
un’attività illecita, mentre il “delinquente comune” è colui che fin dall’inizio è dedito ad attività delittuose.
Si tratta tuttavia di un criterio che rischia di creare confusione per quanto riguarda quelle imprese che
nascono con un’apparenza di legalità, ma che nella sostanza sono costituite allo scopo di commettere un
reato. Anche Poveda e Coleman fornirono il loro contributo, facendo rientrare nella categoria dei colletti
bianchi da un lato l’Occupational Time, commesso nel corso di attività professionale per ottenere vantaggi
personali, e dall’altro il Corporate Crime, commesso a vantaggio dell’organizzazione. Tale distinzione
venne poi ripresa da Slapper e Tombs, i quali ritenevano che i corporate crime consistono in azioni od
omissioni illegali punibili dalla giustizia penale, civile o amministrativa, che sono il risultato di decisioni
deliberate o negligenze colpevoli dell’organizzazione formale legittima. Un aspetto fondamentale riguarda
poi la difficoltà obiettiva di colpire il fenomeno, specialmente se ci si limita ad utilizzare le metodologie
del tradizionale approccio al crimine. Quando si tratta di criminalità degli affari infatti, è chiaro che i metodi
investigativi classici risultino poco se non per niente applicabili : il controllo sociale formale dovrà quindi
basarsi su sofisticate tecnologie. Inoltre, l’attività di contrasto è resa ancora più complicata dalla
presenza di un consistente “numero oscuro” dipendente da una serie di fattori quali :

1. conseguenze economiche dell’illecito di difficile dimostrazione;

2. estrema complessità e tecnicismo della materia regolata da leggi penali, civili ed amministrative, che
solo organi specializzati sono in grado di applicare;

3. potere dei gruppi dominanti, cui appartiene prevalentemente il white – collar – criminal;

4. particolare situazione della vittima : non esiste una relazione diretta fra autore e vittima, che in
diversi casi non realizza di aver subito un danno;

5. assenza di stigmatizzazione sia per l’indifferenza del pubblico, sia per lo scarso allarme sociale, sia
per il prestigio sociale di cui godono i criminali del colletto bianco : gli stessi autori inoltre non si
auto percepiscono come criminali;

6. sistema giuridico finalizzato a proteggere e ristabilire l’ordine sociale di cui il criminale del colletto
bianco è parte integrante e funzionale : le imprese infatti, grazie ai legami politici, si assicurano la
decriminalizzazione delle loro attività;

7. dimensione globale, che implica la necessità di emanare norme e regolamenti a livello


internazionale;

Alcune tipologie di reato economico

Sappiamo che Henry e Milovanovic hanno proposto uno schema all’interno del quale distinguono i Crimini
del colletto bianco e i Crimini dello stato. Nei primi includono la pubblicità menzognera, la frode,
l’evasione fiscale, attività produttive pericolose e corruzione; nei secondi fanno invece rientrare le violazioni
della libertà civili, la repressione politica, le vessazioni e le violazioni del diritto internazionale e i crimini

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contro l’umanità. Per quanto riguarda i crimini dello stato, non vi è dubbio che le connessioni con la
criminalità economica, in certi casi con quella mafiosa, siano pertinenti. Essi possono dunque essere
classificati in 4 categorie :

1. Atti di criminalità politica, come la corruzione, l’intimidazione, la manipolazione delle


consultazioni elettorali e la censura;

2. Criminalità attraverso l’uso delle forze di polizia e di sicurezza, come azioni belliche, genocidio,
pulizia etnica, terrorismo, omicidio di determinate persone;

3. Criminalità in relazione ad attività economiche, come pratiche di monopolio, violazioni delle


norme sanitarie e di sicurezza;

4. Criminalità a livello sociale e culturale, come impoverimento economico di settori della


popolazione, razzismo istituzionale e vandalismo culturale.

Tuttavia leggendo la tipologia costruita dai due autori, si ha l’impressione di un’eccessiva confusione fra
quelli che sono i comportamenti devianti strettamente legati al mondo degli affari ed altri che rientrano nei
classici reati comuni. Una definizione più consona è quella elaborata dal Department of Justice
statunitense, che considera come White collar crime una serie di condotte non violente, che
generalmente implicano frode o abuso di potere : si tratta di reati attinenti agli affari, abuso di cariche
politiche, crimine organizzato e crimini connessi all’alta tecnologia. Si tratta inoltre di reati che si realizzano
con l’inganno di una vittima ingenua e quando il lavoro, il potere o il carisma personale offrono all’autore
l’opportunità di abusare di procedure legali a scopi illegali. Importante poi evidenziare come si possano
sviluppare 2 ipotesi di criminale dal colletto bianco, a seconda della motivazione :

• Quella del lavoratore che sfrutta la sua posizione a scopi personali;

• Quella del manager che sfrutta la sua posizione nel mondo imprenditoriale per aumentare
illegalmente il potere ed i profitti della propria organizzazione;

Altri due settori specifici della criminalità economica, strettamente legati ai mutamenti sociali, sono il
Cybercrime e gli Eco-crime, ovvero i reati ambientali. I primi rappresentano uno dei più importanti fenomeni
criminali del nostro tempo e si sono sviluppati con l’emergere sul mercato dei personal computer. Sul piano
giuridico, i reati informatici vanno distinti in due categorie : gli illeciti integrati da comportamenti già
previsti come penali e gli illeciti che possono essere attuati esclusivamente con l’ICT, ovvero l’Information
and Communication Technology. Dal punto di vista criminologico, molti tendono a considerare il
cybercrime come un fenomeno unitario, spesso identificato con l’hacking o un virus, ma in realtà si
manifesta in forme variegate. Un fatto certo comunque è che lo sviluppo esponenziale dei cybercrime
rappresenta una minaccia sempre maggiore per le società oggi dipendenti da Internet, ciò nonostante la
definizione di criminalità informatica muta da paese a paese in base allo sviluppo informatico e in base alla
percezione che ne ha chi lo utilizza. In pratica quindi la criminalità informatica è un Containerconcept che
comprende così tanti comportamenti devianti e molto diversi che appare difficile trovarne una definizione
onnicomprensiva : per questo motivo la Commissione Europea è giunta, attraverso un approccio molto più
ampio che tiene conto dell’area specifica in cui si verificano tali reati, ad una versione più orientativa
secondo la quale i crimini informatici possono essere definiti come quei crimini che sono commessi via
Internet. Sappiamo che i comportamenti devianti commessi con l’uso del computer sono molto vari : un
esempio può essere rappresentato dal vandalismo, che consiste nel danneggiamento doloso, nella distruzione
del computer o delle sue componenti , dal terrorismo e dalla concorrenza sleale. A tal proposito Newman e
Clarke hanno individuato ben 26 ciberdelitti specifici, in rapporto alla loro diffusione e costi per la società,
e ne hanno poi riassunto gli aspetti criminogeni attraverso l’acronimo SCAREM, derivante da una serie di
termini inglesi quali :

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1. Stealth ovvero Invisibilità, dato che il ciberspazio facilita la possibilità di commettere illeciti in
modo furtivo;

2. Challenge ovvero Sfida, riferito al clima intellettuale che regna fra gli hacker;

3. Anonimity ovvero Anonimato, che favorisce il delitto e rende difficile individuare il colpevole;

4. Reconaissance ovvero Ricognizione, riferito alla rete come contesto in cui si possono pianificare le
operazioni illecite, controllare i bersagli possibili ed agire;

5. Escape ovvero Fuga, essendo la rete un ambiente dove sono sconosciuti identità e domicilio del
delinquente;

6. Multiplicity ovvero Molteplicità, nel senso che il ciberspazio offre l’opportunità di commettere
violazioni multiple e può provare milioni di vittime.

Per quanto riguarda invece la personalità del criminale informatico, risulta difficile interpretare i
comportamenti e spiegarne le motivazioni, dal momento che si spazia dall’Hacker e Cracker, al pedofilo e
al ciberdipendente. E’ quindi complesso utilizzare le conoscenze della criminologia in questo settore,
peraltro l’autore non è un soggetto emarginato bensì un individuo ben integrato dell’ambiente sociale e
professionale. Passando poi al settore degli Eco – Crime, sappiamo che appartengono a questa categoria
i reati ecologici o ambientali, di cui sono responsabili soprattutto le grandi industrie . E’ chiaro che lo
scopo di una grande azienda non è di certo quello di contaminare l’aria, l’acqua o il terreno, bensì quello di
aumentare i profitti riducendo i costi relativi all’istallazione di adeguati impianti di depurazione e allo
smaltimento quindi di scorie. Tuttavia le vittime che ne vengono colpite subiscono gravi conseguenze, basti
pensare al dover affrontare spese sanitarie per curare le malattie correlate oppure al perdere la vita a causa
del risiedere in aree inquinate. Non è un caso dunque che molti delitti ambientali siano previsti in norme
nazionali e in protocolli, in cui si vieta la realizzazione di diverse attività considerate rischiose e nocive. In
particolare l’UNICRI ha suddiviso 5 gruppi di questi reati secondo le risoluzioni internazionali :

• Scarico abusivo di rifiuti domestici;

• Traffico e scarico di rifiuti tossici e materiale radioattivo;

• Deforestazione e Contaminazione ambientale;

• Commercio illegale di sostanze che riducono lo strato di ozono;

• Commercio illegale e bracconaggio di specie animali in via di estinzione;

Altre categorie legali nel settore dei reati ecologici vengono poi collegate alle violazioni commesse con lo
scopo di proteggere l’ambiente : si fa riferimento in particolare ai gruppi di protesta, che sabotano o
distruggono stabilimenti agricoli o chimici, denominati da alcuni come ecoterroristi o ecoattivisti. Infine
sappiamo che oggi si parla di Green Criminology, una disciplina mirata ad esplorare i problemi legati al
danno ambientale attraverso numerosi procedimenti analitici e ad arrivare ad una conoscenza teorica e
politicamente attiva.

Prevenzione e contrasto del crimine economico

Secondo Hirschi e Gottfredson le motivazioni del white collar criminal sono le stesse del delinquente
comune ovvero ottenere facili guadagni attraverso il minimo sforzo e seguire i propri impulsi senza
considerarne gli effetti a lungo termine. Ciò che è chiaro è che il fenomeno del crimine economico risulta
difficile da individuare, da reprimere e da prevenire. A tal proposito l’American Management Association
al fine della prevenzione, nel 1978 ha stilato alcune raccomandazioni suddivise in 3 tipi di programmi :

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1. Programmi difensivi : mirati alla protezione dei beni in modo da rendere difficile la sottrazione;

2. Programmi deterrenti : mirati a rendere più costosa la sottrazione fraudolenta dei beni;

3. Programmi demotivanti : mirati a scoraggiare le motivazioni che spingono a sottrarre beni


all’azienda.

Tali strategie sono state adottate negli anni successivi e in particolare quelle deterrenti, che hanno portato
all’individuazioni delle violazioni e delle responsabilità, nonché alla punizione degli autori. Altro tipo di
strategie sono quelle di Compliance, ovvero di conformità, in base alle quali le aziende devono predisporre
ed attuare modelli organizzativi e di gestione, idonei a prevenire reati. Tuttavia i Compliance Programs
risultano di difficile attuazione se il governo adotta una politica fiscale pro – business, che incoraggia quindi
lo sviluppo economico e riduce i controlli sul mondo degli affari. Per quanto riguarda la capacità della
criminalità economica di sottrarsi al sistema sanzionatorio penale e in particolare alla pena detentiva,
sappiamo che negli Stati Uniti, con l’intento di recupera l’efficacia deterrente della sanzione sui crimini
economici, sono stati ideati dei sistemi alternativi. Fra i principali abbiamo i così detti Ibridi di Yale, noti
anche Middleground Sanctions, caratterizzati dalla contemporanea presenza degli elementi deterrenti delle
reazioni elaborate in sede penale ed in sede civile. Gli ibridi di Yale prevedono infatti l’applicazione della
sanzione direttamente nei confronti dell’impresa e non nei confronti della persona fisica che ha compiuto il
reato, la quale dovrà però rispondere a titolo personale delle conseguenze relative all’illecito.

La criminalità organizzata

In relazione alla criminalità organizzata, sappiamo che alcuni autori avevano osservato tale tematica in epoca
non sospetta, come ad esempio Riccardo Monaco il quale, nel 1943, scriveva che : la potenza terribile che
la criminalità assume quando è organizzata mediante associazione di persone e riunione di mezzi, accresce
ancora di più quando i criminali appartengono a nazionalità diverse, essi infatti si procurano
vicendevolmente informazioni e mezzi di azione. Fra le macchinazioni più pericolose abbiamo la tratta delle
donne e dei fanciulli, il falso nummario, il traffico degli stupefacenti e il terrorismo. Il tutto è ad opera di
bande potentemente organizzate, capeggiate da personalità impressionanti dal punto di vista delinquenziale.
Lo stesso Monaco evidenziava poi come fosse necessario disporre di una cooperazione internazionale, sia
legislativa che di polizia giudiziaria, indispensabile per la lotta contro questo tipo di criminalità. Nonostante
questa prima delineazione, la criminologia si è trovata fortemente impreparata ad affrontare il
fenomeno : prima di tutto, gli studi socio – criminologici non sono stati in grado di produrre una definizione
di criminalità organizzata che non fosse limitata a livello spazio – temporale, e quindi che fosse utile a
comprendere il fenomeno nella sua reale dimensione. Per diverso tempo, molte delle conoscenze che si sono
avute sulla criminalità organizzata si devono ai mass media, basti pensare a film di successo come Il Padrino
o Gli intoccabili, che ne hanno offerto elementi di verità ma allo stesso tempo informazioni fuorvianti.
Sicuramente uno degli errori è stato quello di considerare le organizzazioni criminali dei diversi Paesi come
delle semplici emanazioni delle “mafie” italiane : in realtà esistono numerose organizzazioni criminali di
varia provenienza, che nulla hanno a che vedere con le sottoculture storiche italiane. Oggi si può dunque
parlare di criminalità organizzata Transnazionale, dal momento che il fenomeno ha travalicato
dovunque i confini nazionali ed ha acquisito connotazioni globali. Tali organizzazioni si occupano di
numerosi traffici, da quelli di droga, armi, materiali radioattivi, rifiuti tossici al commercio di esseri umani,
fino ai più sofisticati reati economici e finanziari. Nonostante tali delineazioni comunque non esiste una
definizione universalmente accettata di “crimine organizzato”, tuttavia alcuni studi, sottolineandone l’aspetto
transnazionale, lo definiscono come un’organizzazione del crimine su larga scala, che opera oltre i confini
nazionali o che possiede la base in uno stato, ma opera in altre nazioni.

Ianni e Ianni lo hanno definito come un’impresa di affari organizzata allo scopo di ottenere vantaggi
economici con attività illecite. Da un’analisi dei numerosi studi sulla criminalità organizzata, si possono
comunque riassumere una serie di caratteristiche :

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• Struttura gerarchica : tutti i gruppi organizzati sono comandati da un capo e strutturati in una serie
di gradi subordinati. A livello nazionale le organizzazioni sono suddivise in famiglie, ognuna con il
proprio capo;

• Continuità dell’organizzazione : i gruppi organizzati sono sicuri di poter sopravvivere alla morte o
all’arresto del loro capo;

• Ferrea selezione degli affiliati : i nuovi membri vengono accettati nel gruppo solo dopo aver
dimostrato fedeltà e complicità nel commettere atti criminali;

• Criminalità – violenza – potere : potere e controllo costituiscono le chiavi per raggiungere gli
obiettivi e si ottengono con attività criminali di ogni tipo. Queste ultime vengono svolte direttamente
per produrre “entrate” o per rafforzare il potere del gruppo con violenza ed intimidazione;

• Coinvolgimento in attività lecite : gli affari leciti servono per riciclare il denaro di provenienza
illecita o la merce rubata;

• Utilizzo di specialisti esterni all’organizzazione, che offrono i loro servizi a contratto in maniera
continuativa o a tempo determinato.

E’ possibile poi riassumere i principali approcci per analizzare la criminalità organizzata in tre modelli
interpretativi. Il primo modello è quello di tipo giuridico, elaborato dal legislatore per disporre uno
strumento di prevenzione e repressione del crimine organizzato. Il secondo modello è quello di tipo
sottoculturale che considera questa forma di criminalità come un mezzo per la mobilità sociale, vale a dire un
mezzo attraverso il quale gruppi minoritari di diversa origine acquisiscono un posto o un ruolo di potere
nella società : tale ottica può risultare valida per lo studio delle bande minorili nelle aree urbane dei diversi
paesi, ma non sembra esaustiva per le organizzazioni criminali di tipo mafioso. Il terzo modello
interpretativo rivolge poi l’attenzione agli aspetti strutturali ed economici : si concentra sull’analisi della
struttura delle organizzazioni del sistema sociale, politico ed economico con cui si confrontano, tuttavia
anche in questo caso l’approccio risulta limitato. In definitiva possiamo affermare che tutti e tre i modelli
hanno contribuito, in tempi diversi, a far luce sul fenomeno, anche se in forma parziale. In ultima analisi si
può affermare come siano diversi i fattori che, presi singolarmente o combinandoli fra loro,
contribuiscono al sorgere della criminalità organizzata. Uno di questi è sicuramente rappresentato dalla
Disorganizzazione socio – culturale, conseguenza dell’industrializzazione nei paesi occidentali, e della
diffusione della democrazia del libero mercato nei paesi dell’est europeo. Tali fenomeni hanno infatti
generato come effetto la creazione di un terreno fertile per il proliferare di organizzazioni criminali su larga
scala e a livello globale. Anche al mondo criminale si può dunque applicare il concetto di Glocalizzazione,
che fa riferimento all’affermarsi dell’equilibrio d’insieme e dell’intreccio della società globale e locale. Un
altro fattore è sicuramente rappresentato dall’esistenza di Governi deboli, che mancano di legittimità e non
esercitano un pieno controllo sul loro territorio : questo può condurre all’instaurarsi di un “quasi governo”
della criminalità organizzata, che diviene così funzionale al sistema sociale o ad ampi settori di esso.

L’economia del crimine organizzato

Le organizzazioni criminali hanno assunto una connotazione economica tanto più raffinata quanto maggiore
è il livello del gruppo criminale. L’organizzazione mafiosa infatti tende ormai a strutturarsi seguendo le
caratteristiche proprie dell’azienda : c’è una distribuzione dei ruoli, una specializzazione delle funzioni,
un’espansione sui mercati e collegamenti nazionali ed internazionali. Quindi mentre la vecchia mafia era
sostanzialmente contadina, che viveva delle attività delittuose e grazie al prestigio conquistato attraverso la
violenza, il sistema mafioso attuale ha fra i suoi obiettivi la conquista del massimo potere economico,
divenuto ormai il mezzo attraverso cui poter conquistare ogni altro potere. Sappiamo che le prime analisi
sulle organizzazioni mafiose ruotavano attorno al concetto di mafia imprenditrice, che investiva e ricavava

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utili anche nell’ambito del mercato legale. Con il passare del tempo però le organizzazioni criminali sono
cresciute, sviluppando un vero e proprio sistema economico – criminale globale : la Mafia – Azienda. La
capacità di espansione di quest’ultima, a differenza delle aziende legali, è determinata da ben 4 fattori :
elevate risorse finanziarie, facilità di accesso al credito grazie alla corruzione, inesistenza di attività
concorrenziali legali, notevole riduzione dei costi di produzione. Le mafie si presentano quindi sul
mercato con una loro connotazione societaria, un’organizzazione aziendale, una notevole liquidità ed una
mentalità manageriale. Fra gli obiettivi strategici abbiamo la conquista delle imprese solide : le aziende
concorrenti vengono quindi progressivamente eliminate attraverso intimidazioni o compartecipazioni
economico – finanziarie. Questa dinamica conduce l’imprenditore onesto o a disinvestire nel giro di pochi
mesi o a ritrovarsi ostaggio della strategia imprenditoriale mafiosa. Nel caso dell’Italia, sappiamo essere
difficoltosa l’analisi della presenza delle mafie : essa si basa su stime deducibili da indagini giudiziarie e non
su dati oggettivi, in quanto mancano indici univoci su quantità prodotte, prezzi o fattori impiegati. Le
organizzazioni criminali sono quindi inserite in un sistema di compravendita di titoli, di speculazione sulle
valute e sulle quotazioni borsistiche, e si differenziano dagli investitori legali solo per la provenienza del
denaro investito, provenienza che non è immediatamente riconoscibile. Si tratta comunque di un giro di
affari piuttosto elevato, che gestisce in contemporanea attività criminali e lecite come il traffico di droga, di
armi, di esseri umani, il gioco di azzardo, gli appalti pubblici, l’edilizia, gli investimenti in supermercati,
ristoranti e alberghi.

Una piaga antica : la corruzione

La criminologia, fin dal suo nascere, ha rivolto il suo interesse verso i fenomeni corruttivi. Basti ricordare le
reazioni di numerosi studiosi allo scandalo della Banca Romana, che portò alla luce nel 1893 le collusioni fra
il mondo politico e il mondo finanziario. Arrivando a tempi più recenti poi, lo strutturarsi della criminalità
organizzata e il suo inserimento nei mercati non solo illegali, ha prodotto un aumento delle attività di
riciclaggio e di corruzione, con una più stretta contiguità con le strutture economico – finanziarie e politico
– amministrative della società civile. E’ chiaro che il ruolo sempre più intrusivo dello Stato ha condotto ad
una integrazione sempre più profonda fra la società, le istituzioni e le organizzazioni criminali. Dal punto di
vista criminologico la corruzione presenta, riguardo la criminalità organizzata, due aspetti fondamentali :

1. Propedeutico, nel senso che prepara il campo per le successive violazioni di norme giuridiche;

2. Fisiologico, in quanto la commissione di reati contro la Pubblica Amministrazione riveste la


caratteristica di “sistematicità funzionale”, cioè fa parte del funzionamento del sistema ed è mezzo
naturale per realizzare determinanti interessi economici.

Secondo la microeconomia, il fenomeno corruttivo rappresenterebbe una “perdita secca” per tutta la società,
ovvero una perdita di efficienza dovuta ad uno squilibrio del mercato causato dal calo degli investimenti da
parte delle imprese. La richiesta da parte di un pubblico ufficiale costituisce una tassa ulteriore per l’impresa,
che di conseguenza incide sulla riduzione delle entrate fiscali : in particolare sono le imprese di minore
dimensione a subirne l’impatto maggiore, in quanto hanno più difficoltà a supportare i costi diretti. E’
importante inoltre evidenziare che con l’avvento della globalizzazione anche del sistema criminale, le
pratiche corruttive hanno coinvolto anche i paesi in via di sviluppo e del terzo mondo. Tale situazione
chiaramente non fa altro che produrre un notevole tasso di criminalità. Infine il fenomeno della corruzione va
inserito nel più specifico contesto del Pay – off, cioè del sistema delle tangenti che corrisponde ad un
meccanismo aziendale che si basa su calcoli di tipo economico : in sostanza l’investimento di capitali con
distorsione illecita delle regole mediante tangente è conveniente se si ricava un profitto elevato, da poter
compensar il rischio. Ne consegue che la tangente, da semplice espressione di un fenomeno corruttivo,
diviene metodo normale di lavoro per molte imprese. Sulla base di questa analisi, si possono elencare alcune
misure e rimedi utili per contrastare l’impresa mafiosa :

• Riduzione della burocrazia ed informatizzazione della pubblica amministrazione;

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• Incentivazione delle indagini patrimoniali e dei controlli tributari;

• Privatizzazione delle aziende pubbliche con conseguente riduzione della presenza della pubblica
amministrazione nella produzione di beni e servizi;

• Incentivazione delle sanzioni civili, non solo per la restituzione ed il risarcimento del danno. Si tratta
infatti di sanzioni punitive ed indirette che abbiano una vera e propria funzione alternativa alla
funzione penale.

Il riciclaggio nell’economia criminale

Gli introiti conseguiti dalle associazioni criminali vengono impiegati secondo una serie di criteri :

• Una percentuale viene reimmessa immediatamente nelle attività illecite;

• Una parte più consistente viene immessa nel circuito economico e finanziario legale italiano;

• La parte più cospicua viene esportata in attesa di essere investita nel modo più remunerativo;

• Una quota rappresenta l’utile netto delle organizzazioni criminali;

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