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DIRITTO PENALE – PARTE SPECIALE

DELITTI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE


A cura di Alessandra Chianella

1. Generalità sui reati contro la P.A.


Il Titolo II del Libro II del c.p. è dedicato all’esame dei delitti contro la pubblica
amministrazione. Tale “famiglia” di reati è stata oggetto di diversi correttivi, il più
significativo dei quali ad opera della prima complessiva riforma dei delitti contro la
P.A. dovuta alla L. n.86/1990, sino agli interventi più recenti atti a contrastare il
fenomeno della corruzione.
Con tali riforme si è inteso potenziare la risposta punitiva dello Stato di fronte alle
condotte illecite poste in essere dai soggetti rivestiti di funzione pubbliche
nell’esercizio di tali funzioni e, nello stesso tempo, eliminare ogni ingiustificato ed
arbitrario sindacato del giudice penale sul merito delle scelte amministrative, specie
se discrezionali.
In particolare sono stati soppressi reati che avevano dato origini a vivaci contrasti sia
in dottrina che in giurisprudenza: si pensi all’abuso innominato di ufficio o ancor più
all’ipotesi di peculato per distrazione.
Parimenti, è stata soppressa la dicotomia peculato-malversazione, che traeva origine
dalla diversa titolarità del bene mobile (appartenente alla P.A. nel peculato; al
privato nella malversazione). In base alla nuova disciplina, in entrambi i casi si avrà
peculato, mentre una particolare ipotesi di malversazione (questa volta, ai danni
dello Stato) è stata introdotta con riferimento a contributi, sovvenzioni o
finanziamenti che vengono “distratti” dalle finalità per le quali sono erogati, ma il
soggetto attivo può essere “chiunque”. La concussione (inizialmente reato proprio di
p.u.) è diventato reato anche per l’incaricato di un pubblico servizio.
Sono state riformulate le norme incriminatrici dell’abuso e dell’omissione o ritardo
di atti d’ufficio, dettandosi per tale ultima ipotesi un’articolata disciplina per la
concretizzazione del ritardo.
Infine, ad opera dei più recenti correttivi, si è provveduto a riformulare l’istituto
della corruzione nonché a creare una figura speciale del delitto di millantato credito,
denominata traffico di influenze illecite.

Oggetto giuridico della tutela penale dei delitti in esame è rimasto, in via generale, il
regolare funzionamento ed il prestigio degli enti pubblici e dei soggetti che ad essi
appartengono.

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2. Il concetto di <<pubblico ufficiale>>

A norma dell’art. 357 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali
coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o
amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata
da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e
dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo
svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. >>

Secondo la giurisprudenza, nel concetto di poteri autoritativi rientrano non solo


quelli coercitivi, ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di
un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un
piano non paritetico rispetto all’autorità. Rientrano nel concetto di poteri
certificativi tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna
efficacia probatoria, quale che ne sia il grado.
Dalla definizione legislativa si deduce che l’elemento che caratterizza il pubblico
ufficiale è l’esercizio di una funzione pubblica.
Si è accolta, in altri termini, la concezione c.d. funzionale oggettiva di p.u., che fa
dipendere tale qualifica esclusivamente dall’attività esercitata.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno precisato che è p.u. il pubblico dipendente o
il privato che, nell’ambito dei poteri di diritto pubblico, può e deve formare e
manifestare la volontà della pubblica amministrazione, anche senza investiture
formali, ovvero esercita poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, considerati
distintamente. Inoltre, la medesima Corte, ha puntualizzato che è p.u. ai sensi
dell’art. 357 c.p. non solo colui il quale con la sua volontà concorre a formare la
volontà dello stato o degli altri enti pubblici, ma anche chi è chiamato a svolgere
compiti aventi carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali degli enti
pubblici.

a) Il c.d. <<funzionario di fatto>>

Corrisponde alle logiche della nozione funzionale oggettiva l’attribuzione della


qualifica anche al c.d. funzionario di fatto, cioè a chi eserciti poteri e prerogative
caratteristiche del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio non per un
atto personale di “usurpazione”, bensì con la tolleranza della P.A., o addirittura in
virtù di un incarico implicito da parte degli organi competenti. Può così, ad esempio,
realizzare un delitto di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio l’autista di un
ufficio giudiziario che, di fatto, si era occupato della fonoregistrazione di
interrogatori in carcere, della preparazione di copie di atti, dell’inserimento di dati
nel registro informatico mediante chiavi d’accesso fornitegli da colleghi a ciò
abilitati.

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b) L’estensione della qualità di pubblico ufficiale

L’art. 322 c.p. opera un’assimilazione ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni
corrispondenti, e agli incaricati di pubblico servizio negli altri casi, dei seguenti
soggetti:

- I membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento


europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità
europee;
- I funzionari nonché le persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi
ente pubblico o privato c/o le Comunità europee, che esercitino funzioni
corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti delle Comunità europee.

Per effetto dei correttivi, il novero dei soggetti equiparati si estende:

- Ai giudici, al procuratore, ai procuratori aggiunti, ai funzionari della Corte


penale internazionale e alle persone comandate dagli stati parte del Trattato
istitutivo della Corte penale internazionale le quali esercitino funzioni
corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti della Corte stessa, nonché ai
membri e agli addetti agli enti costituiti sulla base dello stesso Trattato.

3. Il concetto di <<persona incaricata di un pubblico servizio>>

Per l’art. 358 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico
servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.
Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della
pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima,
e con esclusione dello svolgimento di semplici mansione di ordine e della prestazione
di opera meramente materiale.>>

4. Il concetto di <<persona esercente un servizio di pubblica necessità>>

Detta l’art. 359 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono persone esercenti un
servizio di pubblica necessità:

1. i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie o altre professioni il cui


esercizio sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando
dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;

2. i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico


servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto
della P.A.>>

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Occorre precisare al riguardo che anche “i privati che esercitano professioni forensi
o sanitarie” di cui parla il n. 1 dell’art. possono essere p.u. allorché ne ricorrano gli
estremi, per cui:

1. è p.u. l’avvocato che autentica la firma di un cliente in calce alla procura alle liti,
poiché esercita potestà certificativa;

2. è p.u. il sanitario che eserciti le funzioni di ufficiale sanitario di un comune o le


funzioni di medico condotto.

N.B.: Per distinguere il servizio di pubblica necessità dal pubblico servizio


occorre ricordare che il pubblico servizio presuppone una vera e propria
concessione amministrativa, mentre il servizio di pubblica necessità esige una
autorizzazione amministrativa.

5. Rapporti tra qualifica e fatto

È opportuno precisare che la semplice qualifica, nell’agente o nella vittima, di p.u., di


incaricato di pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità, non
basta perché un determinato fatto possa considerarsi rientrante tra le fattispecie
criminose previste nel Titolo II; spesso, infatti, occorre un particolare rapporto tra la
qualifica e il fatto, rapporto che può essere di:

a) contestualità, nel senso che il fatto deve esser commesso contestualmente


all’esercizio della funzione (esempio: art. 316);

b) finalità, nel senso che tra il fatto e la funzione vi deve essere un nesso finalistico
(esempio: art. 318);

c) causalità, nel senso che il fatto deve verificarsi “a causa” dell’esercizio della
funzione o del servizio.

6. Cessazione della qualifica (art. 360 c.p.)

Detta l’art. 360 c.p. <<Quando la legge considera la qualità di p.u. o di incaricato di
un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento
costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità,
nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la
circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato.>>

In altre parole, affinché sia configurabile il reato, occorre che il fatto “si riferisca” alle
funzioni o al servizio, e cioè sia “in qualche modo” connesso con le funzioni già
esercitate dal soggetto.
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PECULATO
Art. 314 c.p. << Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che avendo
per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di
denaro o di altra cosa mobile altrui se ne appropria, è punito con la reclusione da 4
anni a 10 anni e 6 mesi.
Si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni quando il colpevole ha agito al
solo scopo di fare un uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso
momentaneo, è stata immediatamente restituita.>>

Il delitto di peculato ha carattere plurioffensivo.


Esso tutela non solo la legalità, efficienza, probità e imparzialità dell’attività della
P.A., ma altresì il patrimonio della stessa P.A. o di terzi.

Il peculato ha natura di <<reato proprio>>, perché il soggetto attivo deve rivestire


una particolare qualifica giuridica. Il delitto può essere commesso indifferentemente
dal p.u. o dall’incaricato di un pubblico servizio.
La disposizione richiede, inoltre, che l’appropriazione avvenga su una cosa detenuta
dall’agente pubblico per ragione del suo ufficio o servizio.
Ai fini dell’integrazione della qualifica soggettiva, può considerarsi “pubblico agente”
anche il c.d. <<funzionario di fatto>>. Si tratta di una persona che, senza essere
investito formalmente delle funzioni pubbliche, le abbia in concreto esercitate con il
consenso della P.A.
Soggetto passivo del reato è non soltanto la P.A., ma altresì il privato rispetto al
quale sia concretamente offeso un interesse patrimoniale.

Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. Dunque, un
bene immobile non può mai costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato.
I beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio ecc.), sia patrimoniali (opere
dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio ecc.) – non possono,
inoltre, costituire oggetto di peculato perché non sono cose. Tuttavia, nell’ipotesi di
beni patrimoniali immateriali, può costituire oggetto di peculato il denaro o l’altra
cosa mobile che derivi dall’utilizzazione del bene immateriale.
La cosa mobile di cui l’agente pubblico si appropri, deve avere valore apprezzabile:
nel senso che la cosa abbia almeno un minimo valore o, comunque, una qualche
utilità; giacché le cose prive di valore non possono rivestire alcun interesse per il
diritto.
Il denaro o la cosa mobile, oggetto dell’appropriazione da parte dell’agente
pubblico, deve essere “altrui”. Infatti, con l’unificazione nel 1990 tra peculato e
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malversazione a danno dei privati, integra tale delitto anche la condotta del pubblico
funzionario che si appropri di un bene che non appartenga alla P.A. bensì ad un
privato.

Per commettere il delitto di peculato l’agente pubblico, che si appropria della cosa
mobile o del denaro altrui, deve averne in precedenza il possesso o la disponibilità in
ragione del suo ufficio o servizio.
La nozione di possesso ha qui un significato più ampio di quello civilistico di cui
all’art. 1140 c.c.
Infatti, la nozione di possesso deve perciò intendersi non solo come comprensiva
della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica. Nel
senso che il soggetto deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua
competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel
maneggio o nella disponibilità del denaro o della cosa mobile e di conseguire quanto
poi oggetto di appropriazione.
Riguardo al titolo del possesso o della disponibilità della cosa da parte del pubblico
agente, il legislatore richiede che esso sia caratterizzato dalla ragione dell’ufficio o
del servizio.

Quanto alla condotta, a seguito della l. n. 86/1990, l’elemento oggettivo del delitto
di peculato comune è costituito unicamente dalla condotta di appropriazione. Con
la riforma del 1990 il legislatore ha, infatti, escluso formalmente dal testo della
disposizione la figura del c.d. “peculato per distrazione”.
Quanto al concetto di “appropriazione”, esso designa il comportamento di chi fa
propria una cosa altrui mutando il titolo del possesso. In altri termini il soggetto
compie atti incompatibili con il titolo per cui possiede la cosa, e comincia ad agire
nei confronti della medesima come se ne fosse il proprietario.
Si possono così identificare nell’appropriazione due momenti distinti:
a) espropriazione: ossia non riconoscimento o negazione dei diritti altrui;
b) impropriazione: affermazione del proprio dominio di fatto sulla cosa.

Esempi pratici:
- L’ufficiale giudiziario che si appropri delle somme a lui versate a titolo di
tributi;
- Il curatore fallimentare che si appropri di beni della società dichiarata fallita,
dei quali abbia il possesso in ragione del suo incarico;

Il delitto di peculato è punibile soltanto a titolo di dolo generico, nel senso che
l’agente pubblico deve effettivamente volere l’appropriazione del denaro o della
cosa mobile altrui, che si possiede per ragioni d’ufficio o di servizio, con la
consapevolezza che, proprio per questo, su di essa insiste un diritto altrui.
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Il delitto di peculato si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica
l’appropriazione del denaro o della cosa. Si tratta dunque di un reato istantaneo.
Orbene, il peculato si consuma anche quando tale condotta non arreca, per qualsiasi
motivo, danno patrimoniale alla P.A., giacché essa è comunque lesiva dell’ulteriore
interesse tutelato che si identifica nella imparzialità, legalità e buon andamento
dell’operato dell’amministrazione. Si pensi, ad esempio, al concessionario di un
pubblico servizio che trattenga le somme incassate per conto dell’ente pubblico al
fine di soddisfare un proprio diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo,
ricorrendo quindi ad una sorta di “autoliquidazione”.

Il tentativo si ritiene ammissibile, allorché l’appropriazione implichi sul piano


fenomenico per la sua realizzazione una molteplicità di atti.
Esempio: il sindaco che, per commettere il reato de quo, emetta più mandati di
pagamento, poi non pagati dal tesoriere.

Quanto all’ipotesi di concorso di persone nel reato, al delitto di peculato possono


concorrere con l’agente pubblico, ai sensi dell’art. 110 c.p., anche soggetti non
qualificati.
Non è necessario che il pubblico funzionario sia l’esecutore materiale della condotta.
In tal caso occorre però che il complice, per appropriarsi della cosa, sfrutti la
“relazione di possesso per ragioni d’ufficio o di servizio” che mette capo al pubblico
agente, altrimenti si realizza il delitto di furto.
Il concorso d i persone può realizzarsi anche mediante una condotta di natura
omissiva, ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p. È il caso, ad esempio, dell’agente
pubblico che ometta in modo intenzionali necessari e possibili controlli sull’operato
del subordinato gerarchico. Il mancato controllo si risolve qui in un contributo
causale alla commissione del delitto di peculato, giacché la condotta doverosa
omessa avrebbe portato alla scoperta o all’impedimento della commissione del
reato.

Nel delitto di peculato è, inoltre, configurabile la responsabilità del c.d. <<autore


mediato>> ex art. 48 c.p.; nel caso in cui il soggetto attivo con inganno induca in
errore l’agente pubblico, e per mezzo di quest’ultimo si appropri di denaro o altra
cosa mobile posseduta dal medesimo agente pubblico per ragione del suo ufficio.

PECULATO D’USO
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Al comma 2 dell’art. 314 è prevista una pena di minore gravità, allorché il
funzionario pubblico abbia <<agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa,
e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita>>.
Si tratta del c.d. “peculato d’uso”, che deve essere considerato una figura autonoma
di illecito penale – ricalcante lo schema del furto d’uso ex art. 626 c.p. – e non già
una semplice circostanza attenuante del delitto di peculato.
La condotta tipica si differenzia da quella del peculato comune perché
l’indispensabile restituzione della cosa, da parte dell’agente pubblico, esclude che si
possa configurare qui un’autentica e definitiva appropriazione della cosa.
L’elemento oggettivo non coincide, dunque, con l’appropriazione in senso specifico
di cui al comma 1, consistendo piuttosto nel fatto di distogliere temporaneamente la
cosa dalla sua originaria destinazione, per volgerla a scopi personali.
È controverso se il peculato d’uso possa avere oggetto denaro (o comunque altre
cose fungibili o di quantità). Sembra preferibile l’opinione che esclude dall’ambito
applicativo dell’incriminazione l’uso del denaro, riconducendolo invece alla figura
prevista dal comma 1.
La restituzione della cosa deve avvenire <<immediatamente>>: e ciò vuol dire che
tra l’attività consistente nell’uso della cosa e la sua restituzione debba intercorrere
un tempo minimo; un tempo che non può essere quantificabile cronologicamente in
astratto, ma va calcolato come necessario e sufficiente in concreto per la riconsegna
medesima.
La reiterazione delle condotte di peculato d’uso determina l’integrazione di una
pluralità di reati ex art. 314, comma 2, eventualmente avvinti dal vincolo della
continuazione, ma non il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in
peculato <<ordinario>> ex art. 314, comma 1.
Quanto all’elemento soggettivo del peculato d’uso, malgrado l’apparenza creata
dall’espressione “allo scopo di”, non si tratta di una figura di reato a dolo specifico.
Ebbene, lo scopo di restituire immediatamente la cosa dopo l’uso momentaneo
connota l’aspetto soggettivo del reato di peculato d’uso nel senso di richiedere un
dolo intenzionale, precludendo così la configurabilità del delitto a titolo di dolo
eventuale.
Una delle questioni più controverse che concernono la figura di cui al capoverso
dell’art. 314 c.p., è sicuramente quella del c.d. <<peculato telefonico>>. Al termine
di un travagliato percorso giurisprudenziale si è giunti a ritenere sussumibile nel
peculato d’uso l’utilizzo, per fini personali, da parte del pubblico agente, del
telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio. E ciò soltanto se produca un danno
apprezzabile al patrimonio della P.A. o una lesione concreta alla funzionalità
dell’ufficio.

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IMP. (!): Non è riconducibile alla figura in esame l’utilizzazione a proprio favore di
energie umane di pubblici agenti, cosicché, ad esempio, l’impiego di un autista per
fini non istituzionali ovvero l’uso nel proprio privato interesse delle prestazioni
lavorative di un dipendente dell’ente di appartenenza integra la fattispecie di abuso
d’ufficio. Infatti, il peculato, in tutte le sue forme, presuppone l’appropriarsi da parte
dell’agente di una cosa che viene destinata ad una finalità diversa da quella prevista
dalla legge, mentre non è concepibile l’appropriarsi di una persona o della sua
energia lavorativa.

L’art. 323-bis, comma 1, c.p. prevede l’applicazione di una circostanza attenuante


speciale, quando il fatto di peculato sia di <<particolare tenuità>>. A tal fine si deve
considerare non soltanto l’entità del fatto economico o del lucro conseguito, ma
ogni caratteristica della condotta, dell’atteggiamento soggettivo dell’agente e
dell’evento da questi determinato.
Appare difficile ipotizzare l’applicabilità di tale circostanza attenuante al peculato
d’uso, trattandosi di un’ipotesi di reato per cui già il legislatore ha valorizzato un
minor disvalore del fatto.
Alla condanna per delitto di peculato consegue la pena accessoria dell’interdizione
perpetua dai pubblici uffici.
Quando la condanna inflitta, a causa dell’applicazione di una o più circostanze
attenuanti, sia inferiore ai 3 anni di reclusione, la pena accessoria da irrogare è
l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, commisurata alla pena principale.

PECULATO MEDIANTE PROFITTO


DELL’ERRORE ALTRUI
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Art. 316 c.p. << Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale,
nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene
indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione
da 6 mesi a 3 anni.>>
La figura criminosa descritta dall’art. 316 era già prevista al comma 2 dell’art. 170
del codice Zanardelli del 1889, quale ipotesi specifica di concussione che si
commette con il “giovarsi dell’errore altrui”.
La classificazione della fattispecie quale forma di concussione è stata abbandonata
dal codice Rocco, che ha inserito l’incriminazione tra i delitti di peculato. Tuttavia,
l’incriminazione in questione, non può essere considerata nemmeno una vera e
propria ipotesi di peculato, perché è assente il preventivo possesso della cosa da
parte dell’agente pubblico per ragione d’ufficio o di servizio. Si tratta, dunque, di
un’autonoma figura di reato assimilabile in parte alla concussione e in parte al
peculato.

Tale figura di reato è da considerarsi plurioffensiva.


Essa tutela sia il regolare funzionamento della P.A. sia gli interessi patrimoniali e non
patrimoniali del privato pregiudicati dall’abuso della funzione o del servizio da parte
del pubblico agente.

Si tratta di un reato proprio del pubblico agente.


Soggetto attivo può essere, infatti, sia il pubblico ufficiale sia l’incaricato di un
pubblico servizio.
Soggetto passivo può essere tanto il privato quanto la P.A. Quest’ultima ipotesi si
configura quando l’agente profitti di un errore commesso da altro pubblico ufficiale
o incaricato di pubblico servizio.

L’oggetto materiale del delitto di peculato mediante profitto dell’errore altrui è il


denaro o altra utilità. È discusso se l’espressione “altra utilità” equivalga a quella
contenuta nel peculato comune che si riferisce “ad altra cosa mobile”. Secondo un
primo orientamento, il concetto di “utilità” deve farsi coincidere con quello di “cosa
mobile”, poiché, stante la natura intrinsecamente patrimoniale del peculato, risulta
incompatibile con altri vantaggi di ordine morale. Per un diverso indirizzo, invece, la
nozione di “utilità” deve essere intesa in accezione più ampia di “cosa” mobile,
includendo perciò anche altri tipi di vantaggi non necessariamente patrimoniali.

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Quanto alla condotta tipica del reato, consistente nella ricezione ritenzione del
denaro o altra utilità, contempla due presupposti:
a) l’esercizio delle funzioni o del servizio da parte dell’agente pubblico;
b) il preesistente errore del soggetto passivo (il privato).
Quanto al requisito sub a, non è sufficiente che, per errore, il privato paghi a lui:
occorre che il privato paghi, ma sapendo di pagare in ragione del fatto che il
soggetto esercita una pubblica funzione o un pubblico servizio.
Per quel che concerne il requisito sub b, basti dire che l’errore altrui deve essere
spontaneo, e non deve essere ricollegato in alcun modo al comportamento
dell’agente pubblico, il quale deve limitarsi solamente a tratte profitto dell’errore in
cui versa il terzo. Diversamente, il pubblico funzionario potrebbe essere chiamato a
rispondere del delitto di induzione indebita oppure di truffa aggravata.
Le condotte alternativamente punite si sostanziano nel ricevere o nel ritenere
indebitamente, per se stessi o per un terzo, denaro o altra utilità.
<<Ricevere>> significa accettare il denaro o l’altra utilità offerta da un terzo, senza
che il pubblico agente si dia da fare per ottenere o respingere la dazione.
Il termine <<ritenere>> designa la condotta di non restituire la cosa, nel senso che
non è necessario che la cosa sia trattenuta fisicamente presso l’agente pubblico, ma
è sufficiente che questi ne abbia la disponibilità.
Per quanto concerne l’avverbio <<indebitamente>>, si tratta di un requisito di
illiceità speciale che esclude il reato quando il soggetto attivo riceve o ritiene denaro
o altra utilità che era dovuta.

Il delitto è punito a titolo di dolo generico. Quest’ultimo consiste nella volontà di


ricevere o ritenere il denaro o altra utilità di cui il soggetto attivo è venuto in
possesso nell’esercizio della sua funzione o servizio, unitamente alla consapevolezza
dell’errore altrui.
L’errore sulle norme che regolano l’esercizio della funzione o del servizio, o su quelle
che stabiliscono che cosa il pubblico agente può lecitamente ricevere, esclude il
reato a norma dell’art. 47, ultimo comma, c.p.

Il delitto si consuma nel momento in cui l’agente riceve consapevolmente l’indebito,


ovvero in quello in cui trattiene la cosa o il denaro senza restituirlo. Si tratta dunque
di un reato istantaneo.
Il tentativo è ammissibile e si verifica quando il pubblico funzionario ponga in essere
atti idonei e diretti in modo univoco a ricevere o a ritenere indebitamente denaro o
altra utilità, giovandosi dell’errore altrui.

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Al delitto di peculato mediante profitto dell’errore altrui è applicabile la circostanza
attenuante speciale indefinita di cui all’art. 323-bis, della particolare tenuità del
fatto.

N.B. Il delitto di peculato mediante profitto dell’errore altrui ha, col reato di truffa,
un elemento in comune: la circostanza che il possesso della cosa oggetto
dell’appropriazione sia conseguente all’errore altrui. Cagionato quest’ultimo, nel
caso di truffa, dalla condotta del reo che induca in errore; nel caso di peculato ex art.
316, da una situazione di fatto diversa dalla realtà che il reo ometta di far rilevare e
da cui tragga profitto.

MALVERSAZIONE A DANNO DELLO


STATO
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Art. 316-bis c.p. <<Chiunque, estraneo alla P.A., avendo ottenuto dalla Stato o da
altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti
destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di
attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito con la
reclusione da 6 mesi a 4 anni.>>

L’ enunciato, colpendo la distrazione del contributo dallo scopo per il quale era
stato concesso, vale a dire punendo chi elude il vincolo di destinazione gravante
sulle somme erogate, ci rivela che l’illecito tutela in via immediata la corretta
allocazione-gestione degli incentivi pubblici; un’oggettività giuridica, questa, che
accoglie da un lato il buon andamento e dall’altro il patrimonio della P.A.

Quanto al soggetto attivo del reato, a dispetto del lessico prescelto dal legislatore
(<<chiunque estraneo alla P.A.>>), si tratta all’evidenza di reato proprio, essendo la
soggettività attiva circoscritta ai beneficiari dell’erogazione.

La figura in esame si pone in rapporto di conseguenzialità logico-cronologica con gli


artt. 316-ter (<<Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato>>) e 640-bis
(<<Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche>>): mentre
quest’ultima copre la fase propedeutica-genetica del finanziamento e colpisce chi la
ottiene indebitamente, il delitto di malversazione si occupa della fase esecutiva e
presuppone la debita (regolare, legittima) percezione del contributo. In altre parole,
l’agente ex artt. 316-ter e 640-bis c.p. non ha titolo per beneficiare del
finanziamento, per ottenere il quale ricorre ad sotterfugio - ossia inducendo in
errore l’ente erogatore - mentre il malversatore, invece, possiede i requisiti per
accedere alla sovvenzione, che non destina, una volta ottenuta, alle finalità
prestabilite.

Come da enunciazione legislativa, i fatti di distrazione-sviamento devono avere ad


oggetto <<contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative
dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico
interesse>>. La formula comprende, quindi, qualsiasi elargizione di denaro pubblico
(proveniente dalle casse dell’UE, dello Stato o di altro ente pubblico) caratterizzata
da condizioni di favore (rispetto ai tassi o ad altre condizioni ordinarie di mercato) e
sottoposta a vincolo di destinazione (ossia finalizzata a realizzare certe
opere/attività).

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Secondo i più, l’enunciato, sanzionando la non destinazione delle somme alle finalità
predette dalla P.A., ossia evocando un’inazione, descriverebbe una condotta
omissiva. La tesi può essere sottoscritta, con la precisazione, però, che il fatto di
malversazione è omissivo in senso normativo, non già in senso strutturale-
naturalistico: integrerà perciò la condotta tipica sia chi si astiene del tutto
dall’impiegare il denaro pubblico (es. limitandosi a depositarlo su un conto
corrente), sia chi lo distrae in tutto o in parte, appropriandosene oppure
utilizzandolo per scopi diversi da quelli prestabiliti. Peraltro, il concetto di
“distrazione-sviamento, nel diritto giurisprudenziale, si è via via dilatato sino a
comprendere i casi in cui il finanziamento sia stato integralmente destinato allo
specifico scopo previsto dalla legge istitutiva del finanziamento, ma l’opera/attività
sia stata realizzata con modalità e tempistiche diverse da quelle prestabilite.
Esempio: Caio ottiene una sovvenzione dall’UE per aprire un comparto della sua
azienda in Brianza, che effettivamente realizza nei tempi stabiliti, ma visto che è
riuscito a spendere meno di quanto ricevuto, trattiene per sé il denaro pubblico
risparmiato. Bene, Caio risponderà, ex art. 316-bis, di <<danno da sviamento>>, in
quanto ha comunque sottratto una parte della sovvenzione dalla sua finalità
istituzionale.

Si tratta, poi, di un reato a dolo generico, consistente nella consapevolezza di essere


beneficiari di un contributo pubblico e del suo vincolo di scopo, e nella volontà di
eludere quel vincolo: di utilizzarlo, cioè, in modo difforme dall’impegno assunto.
Esempio: L’appartamento di Mevio è stato distrutto dal terremoto, ed egli ottiene
un contributo per ricostruirlo; poi, però, re melius perpensa, decide di utilizzare il
finanziamento per acquistare una villetta in una zona diversa da quella terremotata.
C’è spazio, oltre che per il dolo eventuale, anche per l’errore sul fatto: come ne caso
in cui l’estraneo-beneficiario sia convinto di aver sostanzialmente ottemperato il
vincolo di destinazione (che l’opera è stata realizzata o, comunque, le “difformità”
tra realizzato e programmato sono marginali), oppure di essere ancora dentro le
tempistiche imposte (che il termine non è scaduto o, comunque, che il ritardo è, pe
così dire, “indolore”). Chiaro, poi, che il raggio di azione dell’art. 47 c.p. sarà tanto
più ampio quanto più generici saranno i contenuti della normativa istitutiva delle
sovvenzioni e/o dell’erogazione.
Il delitto, secondo i più, si consuma istantaneamente con lo spirare del termine –
indicato nell’atto di concessione o da ricavarsi in via ermeneutica – entro cui
realizzare l’opera finanziata; tuttavia, nelle frequentissime ipotesi di erogazioni
“frazionate” nel tempo, anche l’esecuzione della condotta tipica diverrà
“frazionata”: l’illecito resterà unico, ma il momento consumativo avanzerà e si
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prolungherà sino alla distrazione dell’ultimo “rateo” (da cui, appunto, decorrerà il
termine prescrizionale).

N.B. Il delitto di malversazione è incluso nel catalogo dei reati-presupposto della


responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 che, come noto, sussiste qualora
l’illecito:

a) sia stato commesso nell’interesse ovvero a vantaggio dell’ente da soggetti-


persone fisiche inserite – formalmente o di fatto – nel relativo organigramma
(legame oggettivo ente-reato)
b) sia stato occasionato da un deficit organizzativo (legame soggettivo ente-reato,
c.d. <<colpa di organizzazione>>).

15
INDEBITA PERCEZIONE DI EROGAZIONI A
DANNO DELLO STATO

Art. 316-ter c.p. <<Salvo che il fatto costituisca reato previsto dall’art. 640-bis,
chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o
attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute,
consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui
agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o
erogati dallo stato, o da altri enti pubblici o dalle Comunità europee, è punito con la
reclusione da 6 mesi a 3 anni. *La pena è della reclusione da 1 a 4 anni se il fatto è
commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con
abuso della sua qualità o dei suoi poteri.*
Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a € 3.999,96 si applica
soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da
€ 5.164 a € 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio
conseguito.>>

*previsione integrata dalla L. n.3/2019 nota come “Legge Spazzacorrotti”

Così come la malversazione, anche l’indebita percezione ex art. 316-ter è stata


introdotta con l’intento di rafforzare il sistema di tutela penale degli interessi
finanziari nazionali ed euro-unitari. L’output confezionato dal legislatore non è stato,
però, dei migliori: non già per ragioni lessicali, trattandosi di un enunciato limpido e
stringente, quanto perché di quell’innesto non v’era alcun bisogno. Ed infatti, come
tutte le norme superflue, anche questa ha rischiato di essere controproducente: di
indebolire, anziché potenziare, l’apparato di contrasto alle “frodi comunitarie”.
Nel teorico disegno del legislatore del 2000 (anno in cui siffatto enunciato è stato
introdotto), l’illecito era destinato a raccogliere e colpire fatti che ricadevano al di
fuori del raggio applicativo della truffa ex art. 640-bis: condotte, cioè, troppo poco
decettive ed elaborate per essere definiti <<artifici>>.
Nella realtà applicativa, però, le condotte descritte dall’enunciato ex art. 316-ter
sono sempre state considerate artificiose: sono più di ottant’anni, infatti, che il
diritto giurisprudenziale ritiene sussistere il reato di truffa (contrattuale) anche
quado l’agente-contraente si limita a dichiarare il falso (mera menzogna), oppure a
omettere informazioni doverose (mero silenzio); e ciò sia quando la vittima del
16
tranello è un privato, sia, a maggior ragione, quando ad essere raggirato è un
soggetto pubblico. Se non fosse stata disinnescata dalla giurisprudenza - secondo la
Consulta, in particolare, ciò che distingue la “truffa aggravata” dall’ ”indebita
percezione” sono gli artifici o raggiri e l’induzione in errore entrambi assenti nella
seconda - , insomma, questa figura, sovrapponendosi alla fattispecie madre di
truffa, di cui specifica gli elementi costitutivi, avrebbe finito per divorarne l’ambito
applicativo, paradossalmente sottoponendo a un trattamento più mite, e in certi casi
persino decriminalizzando, fatti da sempre ricondotti alle norme ex artt. 640 e 640-
bis.

Nonostante la questione sia ancora controversa, sembra più corretto inquadrare


l’illecito tra i reati propri, essendo la soggettività attiva circoscritta ai privati –
aspiranti o effettivi – beneficiari del contributo.
La captazione, poi, è indebita in quanto ottenuta con l’inganno da soggetto
sprovvisto dei requisiti per accedere alla provvidenza. Essendo, poi, la fattispecie
costruita sulla falsariga della truffa ex art. 640-bis, esattamente come quest’ultima
opera nella fase propedeutica-genetica del finanziamento.

Possiamo affermare che la disposizione disegna sostanzialmente una frode


cartolare-contrattuale in danno a soggetti pubblici, coprendo tutte le fasi in cui si
snoda il procedimento di erogazione, e colpendo tutte le possibili astuzie attraverso
cui può essere captato un finanziamento: dalla nuda menzogna, alla certificazione di
stati o fatti inesistenti, dall’allegazione di documenti fallaci alla mera omissione di
informazioni doverose. In sostanza la condotta di reato si riassume in un artificio
cartolare (presentazione di dichiarazioni /documenti falsi/incompleti) finalizzato ad
ingannare l’ente erogante, facendo fittiziamente apparire come esistenti i
presupposti, o celandone circostanze che ne impedirebbero la cessione, al fine di
accedere al finanziamento pubblico.

L’illecito si consuma nel momento e nel luogo in cui il beneficiario percepisce


materialmente la sovvenzione.
Anche in questo caso, nell’ipotesi in cui il finanziamento venga frazionato in una
pluralità di rate, pure l’illecito diverrà <<a esecuzione frazionata>>: resterà quindi
unico, ma il momento consumativo avanzerà e si prolungherà sino alla ricezione
dell’ultimo “rateo”.
Si tratta di un reato con evento dannoso. La nozione di “danno” non va intesa solo
in senso strettamente patrimoniale, ma in un’eccezione dinamica: quando un
contributo viene assegnato a chi non ne ha il titolo per accedervi, infatti, è sempre
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apprezzabile una scorretta allocazione delle risorse pubbliche, proprio perché,
appunto, tali somme vengono assegnate a soggetti sprovvisti dei requisiti per
poterne beneficiare.

Si tratta di reato a dolo generico, consistente nella consapevolezza della falsità e/o
incompletezza del compendio documentale destinato al soggetto pubblico erogante,
e nella volontà di servirsene per ottenere un contributo che si sa essere indebito.
C’è spazio, oltre che per il dolo eventuale, anche per errori sul fatto ex art. 47 c.p.,
come nell’ipotesi in cui il privato sia convinto di possedere i requisiti per ottenere il
contributo.

Anche l’indebita percezione è inclusa nel catalogo dei reati-presupposto della


responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001.

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CONCUSSIONE

Art. 317 c.p. <<Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da
6 a 12 anni.>>

L’etimo della parola <<concussione>> deriva dal latino <<concutere>>, che in origine
indicava l’azione di scuotere l’albero per farne cadere i frutti. Questa immagine
evoca anche il disvalore tipico dell’omonimo reato nella tradizione giuridica interna,
quale fatto del pubblico agente che attraverso un abuso intimidatorio di qualità o di
poteri carpisca da un privato un’utilità indebita. Rappresenta, la concussione, il più
grave dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. e trova indicazione nell’art. 317 il
quale, nel testo risultante dalla novella contenuta nella l. n. 190/2012, ulteriormente
ritoccato dalla l. n. 60/2015, punisce con la reclusione da 6 a 12 anni il <<pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei
suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo,
denaro o altra utilità.>>

Quanto alla sua struttura oggettiva, il fatto costitutivo del delitto di concussione
abbraccia, sul piano oggettivo, una pluralità di requisiti:
a) la condotta di costrizione, che deve essere realizzata dal pubblico agente
mediante un abuso della sua qualità o dei suoi poteri;
b) la coazione psichica del privato quale evento naturalistico intermedio;
c) l’evento finale rappresentato, indifferentemente, dalla promessa o dalla dazione
indebita di denaro o altra utilità ad opera della parte esterna alla P.A.;
d) il nesso di causalità tra l’abuso del pubblico agente e l’evento psichico intermedio,
nonché tra quest’ultimo e la promessa/dazione non dovuta.

Il reato in esame è di tipo plurioffensivo, dacché danneggia non solo l’imparzialità e


il buon andamento della P.A., ma anche la libertà di autodeterminazione del
concusso il quale, essendo costretto al compimento di un atto per lui
pregiudizievole, è al contempo persona offesa e persona civilmente danneggiata dal
reato.

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Il delitto di concussione rientra nella categoria del reato proprio in quanto
realizzabile dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Soggetto attivo della concussione può essere anche chi esercita una pubblica
funzione soltanto di fatto, purché un titolo sussista; non, quindi, il privato
usurpatore di pubbliche funzioni, che potrà rispondere di altri reati (estorsione,
rapina etc.). Le qualifiche pubblicistiche penalmente rilevanti agli effetti dell’art. 317
includono anche i pubblici agenti extranazionali enumerati dall’art. 322-bis c.p.
Quanto ai soggetti passivi, dalla plurioffensività del reato ne discende che sono
tanto la P.A. per la condotta del suo funzionario infedele, quanto il soggetto coartato
a dare o a promettere. Quest’ultimo di norma sarà un individuo estraneo alla P.A.,
ma adoperando la legge il termine “taluno” può trattarsi anche di un altro pubblico
agente, non necessariamente di grado inferiore a colui che abusi della sua funzione.
Soggetto passivo può essere, altresì, un incapace, ma nella sola misura in cui sia in
grado di avvertire almeno in parte la pressione coercitiva.

La condotta costrittiva deve essere necessariamente espressione dell’abuso della


qualità o dei poteri. L’abuso, pertanto, rappresenta non solo la nota modale tipica
della condotta, ma il nucleo portante dell’intera fattispecie.
L’impostazione oggi più accreditata suddivide l’abuso a seconda che sia realizzato
mediante la strumentalizzazione da parte del soggetto pubblico:
a) della posizione personale ricoperta (cd abuso di qualità);
b) di specifici poteri inerenti all’ufficio (cd abuso dei poteri).
In entrambi i casi, fine immediato dell’abuso è costringere alla dazione o alla
promessa indebita.
L’abuso dei poteri, poi, può riguardare qualsiasi tipologia di atto: amministrativo in
senso stretto, ovvero attinente alla funzione legislativa o giudiziaria; legittimo o
illegittimo, lecito o illecito.
L’ abuso costrittivo è certamente realizzabile in forma omissiva in relazione ai
poteri: si pensi alla minaccia del mancato compimento di un atto doveroso (ad
esempio, il rilascio di un permesso di costruire, presenti i presupposti di legge) o a
condotte ostruzionistiche finalizzate all’ottenimento di un’indebita dazione.

Per poter svolgere un ruolo trainante rispetto alla prestazione indebita, l’abuso
concussorio contiene un quid più specifico, ravvisabile nella valenza intimidatoria
dell’uso distorto della qualità o dei poteri pubblicistici, che si riflette nella
consapevolezza dell’extraneus di soccombere ad un sopruso.

20
Nel linguaggio comune, <<costringere>> significa coartare, forzare qualcuno, con la
forza fisica o con altro mezzo adeguato, a compiere un’azione che diversamente non
avrebbe compiuto oppure a omettere una condotta che altrimenti avrebbe tenuto.
Posto ciò, i mezzi idonei a coartare l’altrui volontà sono essenzialmente due:
a) la violenza (vis physica);
b) la minaccia (vis moralis).
La violenza consiste nell’applicazione di energia fisica volta a piegare l’altrui volontà.
Ovviamente, perché possa ricorrere il delitto in esame, la forza corporea non deve
condurre all’integrale annullamento dell’altrui capacità di autodeterminazione, ma
limitarsi a “indebolire spiritualmente il soggetto, rendendolo arrendevole alla
volontà dell’agente”. Ai fini concussivi, quindi, rileva solo la “violenza fisica
motivante”.
Non vi è dubbio, comunque, che il veicolo di gran lunga più frequente della condotta
costrittiva sia la minaccia, cioè la rappresentazione di un male futuro la cui
verificazione dipende dalla volontà dell’agente. Il criterio di distinzione rispetto alla
violenza sta nel fatto che in questa l’inflizione del male è già in atto, mentre nella
minaccia è solo in potenza, quale evento preannunciato.
Proprietà essenziale della minaccia concussiva, come in generale nell’accezione
penalistica del termine (art. 612 c.p.), è l’ingiustizia (in senso giuridico) o
antigiuridicità del male paventato, quindi la sua contrarietà al diritto.
A veicolare una minaccia in senso tecnico possono essere anche messaggi
comunicativi più sottili o impliciti, come atteggiamenti suggestivi, frasi o gesti
allusivi, richieste velate, consigli “apparentemente” amichevoli etc. Ciò che
realmente conta, in linea con il principio di offensività in concreto, è che il
comportamento del soggetto pubblico abbia assunto un inequivocabile significato
minatorio.
Esempio: il responsabile di un procedimento amministrativo lascia intendere, con
atteggiamenti allusivi, che sarebbe opportuno “oleare gli ingranaggi” per agevolare
l’adozione di un atto amministrativo spettante al privato (un permesso di costruire,
un documento necessario per presentarsi ad una gara pubblica etc.), tenendo medio
tempore chiusa la pratica nel cassetto finché il privato non si decida a soddisfare la
sua pretesa arbitraria.

Il concetto di “costrizione” è compatibile con espedienti fraudolenti del pubblico


ufficiale nella sola misura in cui l’errore del soggetto passivo cada non sulla
doverosità di quanto dà o promette, ma sulla reale capacità del minacciante di
cagionare il pregiudizio antigiuridico preannunziato.

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Esempio: l’agente della Polizia municipale che riesce a carpire una somma indebita
facendo temere un arresto illegittimo del tutto estraneo alla sua sfera di poteri.

L’evento terminale della fattispecie concussiva è, indifferentemente, la dazione o la


promessa del privato, che deve derivare causalmente dalla condotta costrittiva del
pubblico agente.
a) la dazione consiste nel trasferimento di un bene al soggetto pubblico o a un terzo
avvantaggiato. Nel caso di utilità diverse da beni materiali, la dazione può
consistere, di volta in volta, in dichiarazioni, prestazioni etc.
B) per promessa si intende l’assunzione di un impegno a realizzare una prestazione
futura. La nozione penalistica prescinde dai requisiti della corrispondente figura
civilistica. Può essere effettuata in qualsiasi forma, purché risulti vestita di credibilità
ed espressiva della seria intenzione di corrispondere un’utilità.
L’oggetto della dazione o promessa deve essere, per espresso dettato normativo,
“denaro” o “altra utilità.”
La nozione di denaro comprende qualsiasi moneta cartacea o metallica avente corso
legale, in Italia o all’estero.
Quanto alla nozione di altra utilità, prevale tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza una lettura semantica estensiva, che fa ricomprendere in tale
concetto sia vantaggi economici (prodotti alimentari, fideiussioni, l’uso di
un’abitazione etc.) sia vantaggi morali.

Il dolo è generico e consiste nella volontà del pubblico agente di porre in essere una
costrizione connotata dall’abuso funzionale, finalizzata alla dazione o promessa che
sa non essergli dovuta.
È da escludere la rilevanza del dolo eventuale: l’agente si prefigge la prestazione del
privato, cosicché il concetto di “costrizione” implica una condotta diretta, in tutte le
sue fasi, a coartare il soggetto.

Il delitto di concussione si consuma nel momento e nel luogo in cui è avvenuta la


dazione o promessa, fatta dal privato a causa dell’abuso costrittivo del soggetto
pubblico.

Il tentativo è senz’altro configurabile tutte le volte in cui il pubblico agente ponga in


essere atti di abuso idonei e diretti in modo non equivoco a costringere il privato a
effettuare la dazione o la promessa di denaro o altra utilità, ma l’azione non si
compia (ad esempio, per un’intercettazione della Polizia della lettera contenente la
richiesta concussoria prima che arrivi a destinazione) o l’evento non si verifichi (ad
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esempio, per un intervento tempestivo delle forze dell’ordine, impeditivo della
dazione, in assenza di precedente promessa).
Irto di incertezze ermeneutiche è il caso della dichiarazione di promessa effettuata
con riserva mentale, vale a dire senza un’effettiva intenzione di adempiere.
Emblematiche sono le vicende in cui il promittente agisca con l’obiettivo antitetico di
far arrestare in flagranza l’autore del reato mediante la predisposizione di un piano
di polizia (cd. promessa-trappola).
Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, la riserva mentale non
escluderebbe la consumazione del reato, dal momento che la promessa, anche
unilaterale, rileva per il suo significato oggettivo e per il vincolo che comunque fa
nascere.

Quanto al concorso di persone, nel reato di concussione può senz’altro concorrere


alla realizzazione del fatto l’ “estraneo”, che è diverso dal concusso, e il suo
contributo nella realizzazione della fattispecie tipica può assumere sia la forma del
cd “concorso morale” (promesse, consigli, proposte di spartizione del denaro
illecitamente carpito etc.), sia quella del cd “concorso materiale”, ad esempio con
atti che rafforzino la carica intimidatoria della minaccia del soggetto pubblico.
Il concorso di persone è ipotizzabile anche in termini rovesciati, cioè da parte del
pubblico agente che operi da determinatore/istigatore dell’estraneo che interagisca,
in qualità di intermediario, con il soggetto passivo.

N.B. DIFFERENZE CON ALTRE FATTISPECIE:

CONCUSSIONE/CORRUZIONE:
Nella concussione a innescare la relazione illecita è sempre il soggetto pubblico,
nella corruzione il privato. Per meglio spiegare, seguendo altresì il cd criterio del
danno o vantaggio, il concusso è colui che effettua la prestazione indebita per
evitare un danno ingiusto minacciato dal funzionario; il corruttore, viceversa, è chi
punta a conseguire un profitto illecito ai danni della P.A.

CONCUSSIONE/TRUFFA:
Il delitto di concussione esige una condotta prevaricatrice imperniata sulla minaccia
di danni ingiusti dipendenti dalla volontà del pubblico agente o, come più di rado
accade, sulla violenza fisica; la truffa si concretizza, invece, attraverso modalità
ingannatorie.

23
CONCUSSIONE/PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI:
Nella concussione, fattore di distorsione del processo volitivo della vittima è
l’atteggiamento prevaricatore del pubblico agente; nel peculato mediante profitto
dell’errore altrui, il vizio della volontà del privato non è provocato dal pubblico
agente che si limita semplicemente ad approfittarsene.

La L. n.3/2019 nota come “Legge Spazzacorrotti” ha interamente sostituito l’art.


317-bis inerente le pene accessorie, stabilendo anche per il reato in esame
l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’incapacità in perpetuo di contrattare
con la P.A., salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Nondimeno,
se viene inflitta la reclusione per un tempo non superiore a 2 anni o se ricorre la
circostanza attenuante prevista dall’art. 323-bis, la condanna comporta
l’interdizione e il divieto temporanei, per una durata non inferiore a 5 anni né
superiore a 7 anni.

Anche nel caso della concussione è prevista la responsabilità degli enti collettivi ex
d.lgs. n. 231/2001.

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CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA
FUNZIONE
(Corruzione cd. “impropria”)

Art. 318 c.p. <<Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi
poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta
la promessa, è punito con la reclusione da 3 a 8 anni.*>>

*parole così sostituite (inerenti l’aumento della pena prevista) dalla L. n.3/2019
nota come “Legge Spazzacorrotti>>

I delitti di corruzione (dal latino cum rumpere, cioè <<distruggere insieme>>),


trovano la propria disciplina normativa negli artt. 318-322 c.p.
Il nucleo centrale comune risiede nell’esistenza di un patto criminoso tra il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio e il privato cittadino, in forza del quale,
incontrandosi su un piano di parità, il primo soggetto fa mercimonio della propria
funzione pubblica, o dei poteri a essa connessi, mettendoli a disposizione del privato
in cambio di denaro o di altra utilità.
La figura in esame, disciplinata dall’art. 318, è comunemente definita, tanto in
dottrina quanto in giurisprudenza, <<impropria>>, e si pone in contrapposizione alla
più grave figura di corruzione cd. <<propria>> disciplinata al successivo art. 319.

Alla luce di questa nuova formulazione ad opera della legge di Riforma n. 190/2012,
dobbiamo dire che questa innanzitutto ha provveduto a far scomparire dal dettato
normativo il concetto di “retribuzione”, eliminando espressamente ogni riferimento
allo specifico “atto dell’ufficio” e sostituendolo con “l’esercizio delle funzioni o dei
poteri”, rendendo in tal modo punibili anche quelle condotte rispetto alle quali non
si è in grado di individuare specifici e predeterminati atti dell’ufficio oggetti di
mercimonio, perché spesso concepiti e attuati soltanto in “corso d’opera”, ad
accordo avvenuto, al fine di piegare l’azione della P.A. agli interessi privati via via
coinvolti.
Ma v’è di più: per quanto riguarda il rapporto con la corruzione propria ex art. 319,
la dottrina prevalente rileva come la corruzione per l’esercizio della funzione sia
ora una fattispecie di carattere generale, con la conseguenza di ritenere la
corruzione propria una figura speciale più grave, ma residuale, che può ricorrere
25
solo qualora si sia in presenza di un preciso e individuato atto illegittimo, in quanto
contrario ai doveri d’ufficio.
Da notar bene che, quando il legislatore, per l’art. 318, stabilisce “per l’esercizio
delle sue funzioni”, si riferisce:
a) sia all’ipotesi in cui la dazione o la promessa viene effettuata dal privato in vista
del futuro compimento di un’attività da parte del pubblico ufficiale (corruzione
antecedente);
b) sia all’ipotesi in cui la dazione o la promessa è diretta a ricompensare un’attività
già compiuta (corruzione susseguente).
(Da ricordare che, almeno sul fronte concettuale, questa distinzione è stata rimossa dalla legge di Riforma, tanto per
l’art. 318 che per l’art. 319*)

Si è sempre affermato in linea generale che l’interesse protetto dalle norme in tema
di corruzione è rappresentato dal buon andamento e dall’imparzialità della P.A.,
interesse che trova peraltro specifica copertura costituzionale all’art. 97 Cost.

I soggetti attivi del reato di corruzione impropria sono:


a) da un lato, il privato, inteso come soggetto estraneo all’ufficio (ben potendo il
corruttore essere a sua volta un pubblico ufficiale, purché non intraneo alla funzione
pubblica oggetto dell’accordo corruttivo);
b) dall’altro, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio. La corruzione,
infatti, è un tipico reato cd proprio, per la cui sussistenza è necessario che il corrotto
rivesta una di queste qualità. La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto poi tali
qualifiche anche al cd <<funzionario di fatto>>, cioè a colui che, pur in mancanza di
una formale e valida investitura, svolga attività amministrativa con il consenso,
anche tacito, della P.A. La questione, peraltro, non è di poco conto perché alla
categoria del funzionario “di fatto” vengono ricondotte situazioni spesso ricorrenti,
come l’esercizio di pubbliche funzioni in caso di prorogatio dei poteri dopo la
scadenza dell’incarico, le ipotesi di nomine illegittime o annullate e ancora i casi in
cui vi è un esercizio di fatto di pubblici poteri in attesa di formale investitura.

La giurisprudenza di legittimità è pacifica nell’affermare che l’elemento materiale


del delitto è rappresentato dalle condotte convergenti di corrotto e corruttore e, al
fine di rimarcare la distinzione tra corruzione e concussione, sottolinea come occorra
aver riguardo al rapporto che si instaura tra le volontà dei concorrenti, rapporto che
nella corruzione è paritario e implica la libera convergenza delle medesime volontà
verso la realizzazione di un comune obiettivo, mentre nella concussione è
caratterizzato dalla presenza di una volontà costrittiva del p.u.

26
Oggetto della dazione e della promessa (e quindi delle corrispondenti condotte di
ricezione e accettazione della promessa) è individuato dal legislatore nel denaro o in
altra utilità.
La nozione di utilità, anche qui a lungo dibattuta in dottrina, si estende ad ogni
vantaggio, anche di natura non patrimoniale o semplicemente morale, ivi inclusi
quelli derivanti da un comportamento di fare o di non fare che abbia valore per il
pubblico agente. Vi rientrano, pertanto, anche le prestazioni sessuali.
Da notar bene che nel concetto di utilità si fanno rientrare, almeno secondo un
orientamento dottrinale, anche situazioni riconducibili ai “regali” d’uso di modico
valore, concludendo che trattasi di condotte comunque idonee ad integrare la
fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione.
Va però ricordato che in tema di donativi d’uso si è espresso il nuovo codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, il quale, precisamente all’art. 4, prevede la
possibilità per il pubblico dipendente di accettare regali e altre utilità di modico
valore – riconducibili pertanto nei limiti delle ordinarie relazioni di cortesia -,
dovendo intendersi per tali quelle il cui valore non supera orientativamente i 150
euro.

Sul versante del momento consumativo del reato di corruzione impropria, la tesi
che è andata consolidandosi e che tuttora appare prevalente è quella secondo cui il
delitto si consuma nel momento e nel luogo che segnano il perfezionamento
dell’accordo corruttivo, a prescindere dalla dazione del denaro o dal successivo
adempimento della promessa, sicché da tale iniziale momento dovrebbe decorrere il
termine di prescrizione del reato.
In giurisprudenza, tuttavia, è stata elaborata una soluzione più diversificata,
ricostruendo la fattispecie di corruzione attraverso l’istituto della progressione
criminosa, soluzione che sembra aver trovato consacrazione nella nota sentenza
Mills delle sezioni unite. Secondo la Suprema corte il reato può ritenersi consumato
già al momento dell’accettazione della promessa, qualora a questa non segua alcuna
consegna di denaro o altra utilità; tuttavia, se alla promessa segue la consegna della
retribuzione convenuta, il momento consumativo si sposta in avanti nel tempo e le
due condotte di fatto si saldano “concorrendo sostanzialmente entrambe, in
progressione, al completamento della fattispecie criminosa in tuti i suoi aspetti”.
Ciò posto, la tesi che appare senz’altro preferibile è quella che individua il momento
consumativo del reato nel perfezionamento del pactum sceleris tra corrotto e
corruttore, tant’è che se ne fa discendere, come logico corollario, che nell’ipotesi di
un solo accordo il reato deve ritenersi unico, anche se a esso conseguano plurimi
atti posti in essere dal pubblico funzionario corrotto.
27
Occorre rammentare, peraltro, che il reato resta unico anche quando alla promessa
accettata segua poi l’effettiva retribuzione, restando comunque unica la violazione
della norma incriminatrice.

Aspetto problematico è rappresentato dalla possibilità di configurare rispetto al


delitto di corruzione impropria l’istituto del tentativo, giacché la fattispecie di
istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p. sembra coprire l’intero disvalore delle
condotte astrattamente riconducibili a ipotesi di tentativo di corruzione, sia attiva
che passiva.

Il delitto è chiaramente doloso, essendo necessario che entrambi i soggetti partecipi


dell’accordo corruttivo abbiano la consapevolezza e la volontà di porre in essere un
accordo che ha per oggetto l’esercizio della funzione di cui è titolare il pubblico
agente.
Nel caso di corruzione in forma antecedente, il dolo si connota come <<specifico>>,
perché le condotte devono essere finalisticamente orientate, mentre nella forma
susseguente si può parlare di dolo <<generico>>.

A prescindere dalla possibilità di applicare nell’ipotesi di corruzione per l’esercizio


della funzione la tradizionale misura di sicurezza patrimoniale rappresentata dalla
confisca ex art. 240 c.p., in presenza di beni che costituiscono il prezzo o il profitto
del reato, l’art. 322-ter c.p. ha introdotto una nuova ipotesi di confisca obbligatoria
finalizzata a privare i soggetti pubblici e privati responsabili del delitto di corruzione
per l’esercizio della funzione di ogni utilità che sia loro pervenuta per effetto
dell’accordo illecito concluso.

Il reato di corruzione ex art. 318 c.p. rientra anch’esso nel novero dei reati-
presupposto ex d.lgs. n. 231/2001.

28
CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO
AI DOVERI D’UFFICIO
(Corruzione cd. “propria”)

Art. 319 c.p. <<Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o
ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto
contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne
accetta la promessa, è punito con la reclusione da 6 a 10 anni.>>

La legge di Riforma del 2012 non ha modificato il delitto di cd. “corruzione propria”
che resta, quindi, ancorato alla tradizionale impostazione.
Questo rappresenta una fattispecie plurisoggettiva necessaria bilaterale, ossia un
reato imperniato su almeno due condotte illecite contrapposte ma convergenti,
entrambe indispensabili per il perfezionamento dell’illecito. È, altresì, reato proprio
e comune allo stesso tempo, perché uno degli autori deve essere un pubblico
agente ovvero uno dei soggetti indicati dall’art. 322-bis, mentre l’altro può essere
chiunque (un soggetto non qualificato ma anche un pubblico agente).
La corruzione propria, come ogni fattispecie corruttiva, è un reato contratto, il cui
elemento cardine è l’accordo tra il pubblico agente e la sua controparte “comune”
relativo ad un comportamento contra legem attivo oppure omissivo, da tenere o già
tenuto, compensato con la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità.
L’impulso “negoziale” può essere tanto del soggetto comune (corruzione attiva)
quanto del pubblico agente (corruzione passiva).
Offerta e accettazione sono a forma libera, essendo sufficiente che, in relazione alle
circostanze, risultino idonee a realizzare la funzione per la quale sono poste.

Tema specifico del delitto di corruzione propria è la definizione dell’atto d’ufficio


<<contra legem>>. Alla luce dei più rilevanti interventi giurisprudenziali è sufficiente
che tale atto “appartenga alla sfera di attribuzioni, pur se latamente intesa”. Ciò
significa che:
1) non è necessario che l’atto rientri nella sua competenza o di quella del suo ufficio;
2) è sufficiente che la sua qualifica renda possibile, in concreto, una qualsiasi
ingerenza o incidenza illecita nella formazione o manifestazione della volontà di un
ente pubblico, che culminerà nell’adozione di un atto.

29
V’è di più: basta che l’atto sia identificabile, non occorre che sia identificato. Ciò
significa che è sufficiente che l’atto sia individuabile in relazione a un
comportamento del pubblico ufficiale ben determinato nel suo contenuto, anche se
suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non a monte prefissati o
programmati.
Secondo la giurisprudenza prevalente, l’espressione “atto d’ufficio” non è sinonimo
di atto amministrativo ma designa un’attività ossia un comportamento del pubblico
ufficiale (posto in essere nello svolgimento del suo incarico) contrario ai doveri
dell’ufficio ricoperto. Sicché, ai fini della sussistenza del reato, occorre aver riguardo
non ai singoli atti, ma alla complessiva condotta tenuta dal pubblico ufficiale in
spregio ai doveri di fedeltà, imparzialità e onestà.

Contropartita dell’attività offerta o assicurata dal pubblico agente è la


corresponsione di denaro o altra utilità. La formula dell’art. 319 c.p. sotto questo
profilo è identica a quella dell’art. 318 c.p. cui, pertanto, si rinvia.

Il dolo del delitto di corruzione propria è comune per entrambi gli autori del reato;
per entrambi la rappresentazione deve comprendere il carattere indebito della
retribuzione e l’illiceità della prestazione richiesta al, ovvero offerta dal, pubblico
agente; per entrambi occorre la consapevolezza e la volontà di offrire e accettare la
retribuzione indebita quale contropartita della prestazione illegittima.

Il reato di corruzione propria si perfeziona nel momento e nel luogo in cui si forma
l’accordo corruttivo. Perfezione e consumazione coincidono senz’altro nella cd.
“forma reale”. Nel caso di corruzione “verbale”, invece, secondo la giurisprudenza
delle sezioni unite il reato si consuma nel momento in cui viene corrisposta la
retribuzione.
Fintantoché l’iniziativa corruttiva resta unilaterale, la corruzione non è configurabile
nella forma tentata perché il tentativo di corruzione, sia esso attivo o passivo, è
assorbito dalla specifica ipotesi di istigazione prevista dall’art. 322 c.p.
Semmai uno spazio di configurabilità del tentativo sorge nel momento in cui le parti
hanno avviato una trattativa che non approda, tuttavia, a un vero e proprio accordo.

N.B.: RAPPORTO TRA CONCUSSIONE E CORRUZIONE PROPRIA:

Stando a quanto specificato dalle sezioni unite il reato di concussione e quello di


induzione indebita si differenziano dalle fattispecie corruttive in quanto i primi due
illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario
30
pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o indurre
l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa
indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed
evidenza l’incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti.

Il reato di corruzione ex art. 319 c.p. rientra anch’esso nel novero dei reati-
presupposto ex d.lgs. n. 231/2001.

31
CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI

Art. 319-ter c.p. <<Se i fatti indicati negli artt. 318 e 319 sono commessi per favorire
o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la
pena della reclusione da 6 a 12 anni.
Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a 5
anni, la pena è della reclusione da 6 a 14 anni; se deriva l’ingiusta condanna alla
reclusione superiore a 5 anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da 8 a 20
anni.>>

L’art. 319-ter è stato introdotto nel codice penale con la l. n. 86/1990.


Con tale Riforma, la disciplina della corruzione giudiziaria viene in buona parte
riformulata:
1) essa viene innanzitutto trasposta in un’autonoma disposizione, quella, appunto,
del 319-ter;
2) viene anticipata la soglia dell’offesa rilevante, che da oggettiva e causale qual era
(<<se dal fatto deriva il favore o il danno>>), si trasforma nel contenuto in dolo
specifico (<<per favorire o per danneggiare>>);
3) il reato viene adesso riferito tanto a fatti-base di corruzione propria (art. 319)
quanto a fatti-base di corruzione impropria o per l’esercizio della funzione (art. 318);
4) esso viene inoltre riferito, almeno secondo la lettura che ne dà la giurisprudenza
dominante, tanto a fatti-base di corruzione antecedente, quanto a fatti-base di
corruzione susseguente.
La scelta di scardinare la corruzione giudiziaria da un comma dall’art. 319 per
disciplinarla in un articolo apposito come autonoma figura di reato, serve a
conferire maggiore importanza a determinate condotte già penalmente rilevanti
poiché rientranti nell’alveo degli artt. 318 e 319. La ragione di questa speciale
rilevanza è da rintracciare nella particolare importanza riconosciuta alla funzione
giudiziaria, rispetto alla generalità delle altre funzioni pubbliche e nella particolare
gravità attribuita, di conseguenza, alle corruzioni che avvengono in questo ambito.
La ratio di questa norma risiede nel bisogno di approntare una speciale tutela per
l’interesse alla trasparenza e all’autorità morale delle decisioni giudiziarie contro il
sospetto che la loro genesi possa essere inficiata da atti di corruzione, dato
soprattutto l’alto tasso di discrezionalità che caratterizza l’esercizio di questa
funzione.

32
Ciò non toglie, naturalmente, che sullo sfondo si scorga la sagoma del più generale
interesse al buon andamento e all’imparzialità della P.A.

Quanto ai soggetti attivi, l’opinione prevalente reputa tali solo coloro i quali abbiano
il potere giuridico di compiere <<atti giudiziari>>, ossia atti la cui funzione tipica sia
quella di incidere sull’esercizio della funzione giudiziaria.
Soggetti attivi di una corruzione giudiziaria non possono essere, invece, gli incaricati
di un pubblico servizio.
L’art. 319-ter non contiene un’autonoma descrizione delle condotte incriminate;
queste vengono individuate a mezzo di rinvio agli artt. 318 e 319.
L’elemento specializzante della fattispecie (e dunque ciò che la distingue rispetto
alle forme base di corruzione) è costituito dal finalismo che deve connotare l’intera
vicenda. Perché si abbia corruzione giudiziaria, occorre infatti che le condotte
indicate negli artt. 318 e 319 siano commesse per favorire o danneggiare una parte
in un processo civile, penale, amministrativo>>.
(Discusso è se danneggiati siano anche la persona sottoposta ad indagini e la persona offesa; la dottrina prevalente
propende per la soluzione positiva.)
La specialità del reato è tutta concentrata, dunque, nei contenuti dell’elemento
finalistico, o dolo specifico, che lo caratterizza.

L’art. 322 che incrimina (sotto la rubrica “istigazione alla corruzione”) il


tentativo/iniziativa di corruzione, non fa alcun riferimento all’art. 319-ter. Ci si
chiede, allora, se, e in che forma, sia punibile il tentativo/iniziativa di corruzione in
atti giudiziari. La risposta, positiva e piuttosto agevole, sta in un’applicazione diretta
del combinato disposto degli artt. 56 e 319-ter.

Il comma 2 dell’art. 319-ter prevede due circostanze aggravanti indipendenti (con


pena, cioè, appositamente stabilita, e non dipendente invece dai meccanismi
generali stabiliti dagli artt. 63 e ss.), per i casi in cui il fatto derivi:
1) l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a 5 anni;
2) l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a 5 anni o all’ergastolo.
Nel primo caso la forbice edittale della corruzione giudiziaria corre tra 6 e 14 anni di
reclusione; nel secondo, invece, tra 8 e 20 anni (forbici così modificate, da ultimo,
con la l. n. 69/2015).
La ratio dell’aggravamento di pena risiede essenzialmente nella lesione degli
interessi del soggetto ingiustamente condannato, che si aggiunge alla lesione legata
al fatto-base di corruzione giudiziaria.

Anche i reati di corruzione giudiziaria rientrano tra i reati-pres. ex d.lgs.n. 231/2001.


33
INDUZIONE INDEBITA A DARE O
PROMETTERE UTILITA’
Art. 319-quater c.p. <<Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi
poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro
o altra utilità è punito con la reclusione da 6 anni a 10 anni e 6 mesi.
Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito
con la reclusione fino a 3 anni.>>

Commette il delitto di induzione a dare o promettere utilità, salvo che il fatto


costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio il
quale, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a
promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità.
Nei casi suindicati è punito anche chi dà o promette denaro o altra utilità al pubblico
ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio.

Tale fattispecie è contemplata dall'art. 319-quater c.p., introdotto dalla l. 6


novembre 2012, n. 190 sulle “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione” ed inserito nel contesto
codicistico dedicato alle diverse tipologia di corruzione.
La presente fattispecie era in precedenza sussunta nel reato di concussione (art.
317) ma, a differenza della concussione, qui viene punito anche il soggetto passivo
indotto, sebbene con una pena più mite.

L'interesse tutelato dalla norma incriminatrice è costituito dalla tutela del regolare
funzionamento dell'amministrazione, sotto il profilo del buon andamento e
dell'imparzialità della P.A. La punibilità del soggetto privato indotto fa sì che l'unica
persona offesa debba essere individuata nella P.A.

Deve invece escludersi che possa parlarsi di reato plurioffensivo (in tal senso, v. da
ultimo, Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 1228). Invero, la possibilità di configurare
anche in relazione all’art. 319-quater c.p. quale oggetto di tutela la libertà di
autodeterminazione della vittima si pone in termini di assoluta incompatibilità con la
previsione della sua punibilità. Anche, infatti, a voler estendere l’induzione in
relazione a quelle ipotesi in cui la libertà del privato pur se non compressa è, al più,
limitata, appare un controsenso affermare da una parte che oggetto di tutela è la

34
autodeterminazione del privato e, dall’altra, prevedere la punibilità di quest’ultimo
nel caso in cui aderisca alle richieste del pubblico agente.

Il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità è a concorso necessario


proprio, posto che la norma prevede la punibilità sia del pubblico funzionario che
del privato indotto, così avvicinandosi alle ipotesi di corruzione a struttura bilaterale.

Soggetto attivo può essere, oltre che il pubblico ufficiale, anche l'incaricato di un
pubblico servizio. Come ovvio, la specifica qualifica soggettiva deve essere presente
al momento del compimento del fatto di reato, non potendo parlare di induzione
indebita nel caso in cui il fatto sia stato commesso prima che il soggetto abbia
rivestito detta qualifica o in un momento successivo alla cessazione.
Il reato può essere commesso dal soggetto che possiede la qualifica non solo
personalmente ma anche attraverso l'intermediazione di un soggetto privato, ma in
questo caso è necessario che la vittima abbia la piena consapevolezza che il denaro
o l'altra utilità sia voluta effettivamente dal funzionario pubblico attraverso
l'intermediazione del soggetto terzo.
Da ciò ne deriva la necessità che il pubblico funzionario sia concretamente ed
effettivamente individuato, anche se non nominativamente, posto che è a costui che
deve essere riferito lo stato di soggezione e di coartazione che si è venuto a
determinare anche per effetto dell'intermediario.
I reati di concussione o di induzione indebita sono configurabili anche se il
destinatario della pressione abusiva sia un altro pubblico ufficiale, ma, in tali casi,
l'effetto coartante o induttivo sulla libertà di autodeterminazione deve essere
apprezzato con particolare prudenza, in considerazione dell'elevato grado di
resistenza che ci si aspetta dal soggetto che riveste la qualifica pubblicistica, il quale,
secondo la fisiologica dinamica dello specifico rapporto intersoggettivo, deve
rendere recessiva la forza intimidatrice o persuasiva di cui è oggetto (Cass. pen., Sez.
VI, 10 marzo 2015, n. 22526).
Come già accennato, il soggetto passivo del reato è da rinvenire esclusivamente
nella P.A., lesa nella sua imparzialità e nel suo buon funzionamento dalla condotta
delittuosa, con esclusione di qualsivoglia lesione meritevole di tutela in capo al
privato destinatario della condotta di induzione.

La punibilità del reato è subordinata alla clausola di riserva relativa a che il fatto non
costituisca più grave reato, il che sembra fare riferimento alla corruzione propria
punita con una sanzione più grave; analoga clausola di riserva non è, invece,
contemplata nel comma 2 dell'art. 319-quater, che prevede la punibilità del
soggetto indotto, con la conseguenza che costui continuerà a rispondere del reato
anche quando il pubblico funzionario sia chiamato a rispondere del reato di cui
all'art. 319 c.p.
35
Come ha affermato importante giurisprudenza, sussiste continuità normativa fra la
concussione per induzione di cui al previgente art. 317 ed il nuovo reato di induzione
indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319-quater, introdotto dalla l. n.
190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo, del soggetto
indotto non ha mutato la struttura dell'abuso induttivo, fermo restando, per i fatti
pregressi, l'applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla
nuova norma (Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).

Per quanto attiene all'elemento oggettivo del reato in commento occorre


innanzitutto che il fatto sia commesso con abuso dei poteri e delle qualità.
Altro elemento costitutivo della fattispecie è rappresentato dalla dazione o
promessa indebita di denaro o di altra utilità, che ricomprende qualsiasi vantaggio
materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il
pubblico agente. Nella nozione di altra utilità vanno sicuramente ricomprese anche
le prestazioni a carattere sessuale, sempre che il fatto non integri il delitto di cui
all'art. 609-bis c.p., commesso con abuso delle qualità o dei poteri, sussistendo, in
tal caso, il solo reato di violenza sessuale.
La condotta deve consistere in una induzione a dare o promettere denaro o altra
utilità. Orbene, l’induzione richiesta dal 319-quater non è diversa, sotto il profilo
strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del
previgente delitto di concussione di cui al 319-quater e consiste, quindi, nella
condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, abusando
delle funzioni o della qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di
suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole
dell'indebita pretesa, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità.
Si tratta di un qualsiasi comportamento, non tassativamente determinato dalla
legge, avente per effetto quello di determinare nel soggetto passivo una sorta di
soggezione psicologica che lo determini a dare o promettere per evitare un male.
Nel delitto di induzione indebita la condotta si configura come persuasione,
suggestione, inganno, pressione morale con un più tenue valore condizionante
(rispetto all'abuso costrittivo tipico del delitto di concussione di cui all'art. 317) della
libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi
margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione
non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto
personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico.

DISTINZIONE TRA CONCUSSIONE/INDUZIONE:

Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza: “Il delitto di concussione, di cui


all'art. 317 c.p. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal
punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua
36
mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno "contra ius" da cui
deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che,
senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all'alternativa di subire
un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si
distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall'art. 319-quater c.p.
introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione,
suggestione, inganno, pressione morale con più tenue valore condizionante della
libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi
margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione
non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto
personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico”.

DISTINZIONE TRUFFA/INDUZIONE:

La distinzione tra il delitto di induzione indebita commesso mediante inganno e


quello di truffa va individuata nel fatto che nella prima fattispecie il privato mantiene
la piena consapevolezza della non debenza della prestazione data o promessa,
accettando la pattuizione illecita per evitare il pregiudizio paventato dal pubblico
agente, mentre nel reato di truffa la vittima viene indotta in errore circa la
doverosità delle somme o delle utilità oggetto di dazione o promessa (Cass. pen.,
Sez. VI, 6 ottobre 2016, n. 53436).
La condotta del pubblico ufficiale che, simulando l'esistenza di una situazione di
pericolo immaginario per la vittima, induce la stessa a remunerarlo per ottenere la
sua "protezione" non integra il reato di induzione indebita a dare o a promettere
utilità di cui all'art. 319-quater c.p., stante la mancanza della condizione di
assoggettamento della persona offesa all'esercizio di una potestà altrui, bensì il
delitto di truffa aggravata, prevista a norma degli artt. 640, comma 2, n. 2, e 61, n.
9, c.p.

DISTIZIONE CONCUSSIONE/INDUZIONE E FATTISPECIE CORRUTTIVE:

Il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si


differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono,
entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a
seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre "l'extraneus",
comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre
l'accordo corruttivo presuppone la "par condicio contractualis" ed evidenzia
l'incontro libero e consapevole della volontà delle parti.

Quanto all’elemento soggettivo, il delitto di induzione indebita a dare o promettere


utilità richiede il dolo generico consistente nella consapevolezza e volontà di indurre
taluno a dare o promettere indebitamente, abusando dei poteri o delle qualità.
37
Tutti gli elementi della fattispecie debbono essere oggetto di rappresentazione, dalla
condizione personale del soggetto attivo, alla natura indebita della prestazione. Il
pubblico agente dovrà essere così consapevole del carattere abusivo della propria
condotta e della sua efficacia induttiva nei confronti del privato, del carattere
indebito della dazione o della promessa, dovrà essere infine consapevole di
esercitare una pubblica funzione o un pubblico servizio.

Il delitto si consuma nel momento in cui il privato effettua la promessa, laddove la


successiva dazione diventa un post-factum irrilevante. La dazione individuerà il
momento consumativo del reato solo allorché essa sia immediata e non sia
preceduta da autonoma promessa.

E' pacifica la configurazione del tentativo, che si realizza quando il pubblico agente
compie atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o
promettere, qualora ciò non sia seguito né dalla promessa o dalla dazione.
Le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano
autonomamente ed in tempi diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel
caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite
pressioni del pubblico agente.

Con la l. n.190/2012 pure l’induzione indebita è entrata a far parte del catalogo dei
reati la cui commissione può far sorgere la responsabilità dell’ente ex. d.lgs. n.
231/2001.

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ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE
Art. 322 c.p. <<Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti ad un
pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle sue
funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia
accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’art. 318, ridotta di un terzo.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di
un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare
un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa
non sia accettata, alla pena stabilita nell’art 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un
pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per
l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un
pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità da
parte di un privato per le finalità indicate dall’art. 319. >>

Nel nostro ordinamento vige un principio generale espresso dall’art. 115, comma 3,
c.p. in base al quale si esclude la punibilità della condotta di istigazione a
commettere un reato “se la istigazione è stata accolta ma il reato non è stato
commesso”. La ratio della norma è quella di sancire l’irrilevanza penale dei soli
propositi criminosi in aderenza al principio, cardine nel sistema penale, di necessaria
offensività, che trova il suo referente normativo negli articoli 25 e 27 della
Costituzione. In base a tale principio il reato può essere considerato tale solo
qualora integri una effettiva offesa in termini di lesione o messa in pericolo del
bene-interesse protetto, pertanto la mera sollecitazione “sterile” a commettere un
reato non integra il “minimum” di offesa penalmente rilevante.
Tuttavia il legislatore ha derogato a tale principio, individuando alcune ipotesi in cui
la condotta di sollecitazione integra un vero e proprio reato. Si tratta di fattispecie
tipiche che anticipano la soglia della punibilità e perseguono, come fatti illeciti
consumati, condotte meramente prodromiche alla realizzazione di un reato.
Tra tali fattispecie vi è l’art. 322 c.p., relativo alla istigazione alla corruzione,
modificato dalla l. n. 86 del 1990: attualmente la norma contempla entrambe le
ipotesi di corruzione, quella attiva e quella passiva.
Pertanto sia nel caso in cui l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità non
dovuti, al fine di perseguire determinate finalità, provenga da un pubblico ufficiale o
incaricato di un pubblico servizio, sia nel caso in cui provenga da un privato, la
condotta criminosa verrà punita, tuttavia se questa sia seguita dal mancato
accoglimento della promessa o della offerta, sarà ridotta di un terzo la pena prevista
per il reato di corruzione.
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L’istigazione disciplinata dalla norma si riferisce sia all’ipotesi di
corruzione propria sia a quella impropria di cui agli artt. 318 e 319 c.p. le quali si
differenziano a seconda che il pubblico agente riceva denaro od altra utilità, ovvero
ne accetti la promessa, per commettere, oppure omettere o ritardare un atto
contrario ai doveri d’ufficio; ovvero per compiere un atto conforme ai doveri
d’ufficio. Inoltre, la norma dell’art. 322 c.p. si riferisce anche alla distinzione delle
condotte in antecedenti o susseguenti, a seconda che la promessa o la dazione
segua o meno il compimento dell’atto, ovvero il ritardo o l’omissione dello stesso.
La riforma del 1990, inoltre, ha eliminato il riferimento alla funzione del denaro o
altra utilità come “retribuzione non dovuta”, tuttavia la dottrina ha ritenuto che vista
la rilevanza dell’idea della “proporzionalità tra le due corrispettive prestazioni del
privato o del pubblico ufficiale” che caratterizza in generale tutte le forme di
corruzione, tale requisito vada comunque accertato anche nei casi di istigazione.
Nell’art. 322 c.p. manca tuttavia, il richiamo alla fattispecie dell’art. 319 ter c.p.
relativa alla corruzione in atti giudiziari, così ci si è chiesti quale sia la disciplina
giuridica applicabile nel caso in cui la proposta di conclusione dell’accordo criminoso
abbia per oggetto un atto giudiziario.
Pertanto si sono delineati due orientamenti in dottrina: il primo ritiene che sia
possibile individuare nella norma un implicito riferimento anche a tale fattispecie
delittuosa, dato il richiamo agli art. 318 e 319 c.p., che a sua volta sono richiamati
dal 319 ter c.p.
Il secondo orientamento ritiene che dal mancato richiamo all’art. 319 ter c.p. derivi
l’impossibilità di configurare l’istigazione in caso di corruzione in atti giudiziari.

Per quanto concerne il bene giuridico tutelato dalla norma in esame, esso ricalca
sostanzialmente l’interesse protetto dalle forme di corruzione di cui agli artt. 318 e
319 c.p. trattandosi di attività dirette a conseguire i risultati tipici di questi due
delitti, con l’unica differenza dell’anticipazione della soglia della punibilità. In
particolare, in tema di corruzione impropria ex art. 318 c.p., l’orientamento
maggiormente persuasivo individua il bene giuridico protetto nell’interesse a che gli
atti d’ufficio non costituiscano oggetto di una compravendita privata. In tal modo si
vuole salvaguardare un rapporto Stato-cittadino non inquinato dall’intromissione di
interessi “privati” o “venali” del pubblico funzionario nel compimento di atti del suo
ufficio.

Le fattispecie disciplinate dal 322 c.p. sono reati di mera condotta, che si
consumano con l’offerta o la promessa, ovvero la sollecitazione dell’offerta o della
promessa.
Riconosciuto, poi, il carattere recettizio della condotta di istigazione - posto che
tanto l’offerta quanto la promessa assumono rilevanza penale solo nel momento in
cui vengono portate a conoscenza del destinatario - il delitto si consuma proprio in
40
questo momento, ossia quando l’offerta o la promessa o la sollecitazione giungano a
conoscenza dello stesso. Individuato così il momento consumativo, tecnicamente
sarebbe configurabile anche il tentativo, ad esempio nel caso in cui l’offerta o la
promessa siano contenute in una lettera spedita al destinatario ed in seguito
intercettata dalla Polizia. Tuttavia, essendo già il delitto di cui all’art. 322 un’ipotesi
tentata, ammettere il tentativo di un tentativo anticiperebbe eccessivamente la
soglia di punibilità, tanto da non trovare una razionale giustificazione né sul piano
politico-criminale né sul piano dell’offensività.

Il dolo dell’istigazione alla corruzione è specifico, in quanto la condotta di istigazione


è sempre antecedente al fatto corruttivo.

L’art. 25 del d.lgs. n. 231/2001 prevede la responsabilità amministrativa da reato


per le persone giuridiche per l’istigazione alla corruzione.

41
CORRUZIONE INTERNAZIONALE
(Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità,
corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale
internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari
delle Comunità europee e di Stati esteri)

La consapevolezza maturata a livello globale circa l’insidiosità delle condotte e la


gravità dei danni recati dalla corruzione internazionale ha mosso gli Stati alla ricerca
di soluzioni normative in grado di asseverare l’impegno di ciascun ordinamento al
rispetto di soluzioni condivise.
Un impulso deciso nella direzione dell’armonizzazione normativa volta a contrastare
la corruzione di pubblici ufficiali stranieri, è venuto, anche in Italia, con l’art. 322-bis
c.p. che rappresenta il risultato degli sforzi di adeguamento del sistema penale
nazionale alle istanze di coordinamento della tutela degli interessi UE ed extra UE.
Tale articolo è stato introdotto dalla l. n. 300/2000 il quale, al fine di ottemperare a
tali esigenze, ha autorizzato la ratifica e dato piena esecuzione a tutta una serie di
atti internazionali.

L’art. 322 non si occupa di fatti di corruzione nei quali la transazione corruttiva veda
come protagonista un pubblico ufficiale dello Stato italiano, e che sia caratterizzato
per la particolarità che la condotta corruttiva si svolge, in tutto o in parte, in
territorio straniero, come nel caso in cui la tangente al pubblico ufficiale venga
pagata con l’accredito su un conto corrente aperto all’estero e con provvista
proveniente da altro conto aperto ugualmente all’estero. Queste ipotesi
appartengono alla categoria della c.d. “corruzione domestica”, e rimangono regolate
dagli artt. 318, 319, 319-ter e quater, 320 e 321 c.p., senza che il locus commissi
delicti, situato fuori dal territorio italiano, comporti la necessità di applicare norme
diverse da quelle pensate per corruzioni commesse in territorio nazionale.
L’art. 322-bis è, invece, una norma creata appositamente per quei fatti di corruzione
(e non solo) commessi da un pubblico agente straniero o internazionale,
contrassegnati dunque dalla presenza attiva di un pubblico agente non italiano, e
che per l’appunto incrimina episodi di <<peculato, concussione, induzione indebita a
dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della
Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari
delle Comunità europee e di Stati esteri>>.
Quindi, la funzione dell’art. 322-bis consiste nell’estendere l’applicazione di talune
norme incriminatrici di gravi delitti contro la P.A. a soggetti operanti in diversi
contesti internazionali.

42
Detto ciò la norma non si risolve assolutamente nella mera estensione soggettiva dei
delitti richiamati a una nuova platea di autori, ma individua una vera e propria
autonoma figura di reato contrassegnata dalla presenza di una pluralità di elementi
aggiuntivi specializzanti, e di un bene giuridico, rintracciabile nella tutela della
concorrenza e nell’efficienza dei mercati globalizzati, di fattura diversa dai
tradizionali interessi del buon andamento e dell’imparzialità della P.A.

Richiedendo che l’agente debba agire con la finalità o di procurare a sé o ad altri un


indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali o, a seguito delle
modifiche apportate dalla l. n. 116/2009, di ottenere o di mantenere un’attività
economica o finanziaria, la norma sulla corruzione internazionale configura un
doppio dolo specifico alternativo che restringe, comunque, il raggio delle condotte
punibili.

Può accadere, poi, che la condotta contestata dal 322-bis sia lecita nell’ordinamento
dal quale il corrotto trae la propria qualifica pubblicistica. Si pensi a uno Stato in cui
il pagamento rivolto a un pubblico agente sia espressamente ammesso o richiesto
all’operatore economico che “giochi fuori casa”.
Senza accordare alcuna esenzione di pena nel caso in cui le pratiche corruttive
rispondano a curiosi costumi locali, la Convenzione OCSE esclude la penale rilevanza
del vantaggio concesso al pubblico agente straniero ove questo fosse <<permesso o
richiesto da disposizioni scritte di legge o di regolamento del Paese del pubblico
ufficiale straniero, inclusa la giurisprudenza.>>

In relazione al delitto di concussione e alle fattispecie di corruzione, l’art. 25 del


d.lgs.n. 231/2001 contempla, in aggiunta alla responsabilità dei soggetti indicati dal
322-bis, anche la responsabilità amministrativa dell’ente, società o associazioni nel
cui interesse o vantaggio i delitti siano stati commessi.

43
ABUSO D’UFFICIO
Art. 323 c.p. <<Salvo che il fatto non costituisca un più grava reato, il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o
del servizio, in violazione di norma di legge o di regolamento, ovvero omettendo di
astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti , intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da 1
a 4 anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di
rilevante gravità.>>

Il reato di abuso d'ufficio è stato oggetto negli ultimi anni di due riforme legislative,


la l. n. 86/1990 e la l. n. 234/1997, che ne hanno profondamente modificato
l'assetto, "ridimensionando" l'astrattezza e la genericità della norma e ridefinendo la
fattispecie criminosa entro più delimitati confini, mentre, più recentemente, è
intervenuta la l. 190/2012 che ha inasprito il trattamento sanzionatorio prevedendo,
anziché la pena della reclusione “da sei mesi a tre anni” la più grave pena “da uno a
quattro anni”.

Il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di cui all'art. 323 c.p. è identificato


nell'imparzialità, efficienza, buon andamento e trasparenza della Pubblica
Amministrazione.

È importante, ai fini dell'individuazione della persona offesa dal reato, la distinzione


tra l'abuso produttivo di un ingiusto danno e quello produttivo di un ingiusto
vantaggio patrimoniale: solo nel primo caso la giurisprudenza dominante ritiene che
il reato sia posto anche a tutela dell'interesse del privato cittadino, che riveste la
qualità di persona offesa poiché leso nei suoi diritti costituzionalmente garantiti dal
comportamento ingiusto del pubblico ufficiale o dell'incaricato del pubblico servizio.

L'abuso d'ufficio è reato proprio, appartenente alla fattispecie dei delitti contro la
P.A., in quanto può essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale, ovvero, a
seguito della novella introdotta dalla l. n. 86/1990, da un incaricato di pubblico
servizio.
Non è necessaria un'investitura formale, essendo sufficiente che il soggetto attivo
eserciti, anche di fatto, pubbliche funzioni, con l'acquiescenza o il concorso della P.A.
Così, la S.C. ha ritenuto possano essere soggetti attivi del reato di abuso d'ufficio:
-      il notaio, che riveste la qualità di pubblico ufficiale non solo nell'esercizio del suo
potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la complessa attività posta in essere,
44
disciplinata dalle norme di diritto pubblico e diretta alla formazione di atti pubblici
(Cass. n. 47178/2009);
-      il medico specialista di una struttura pubblica, il quale per conseguire un
vantaggio patrimoniale indirizzi i pazienti verso un laboratorio privato del quale lo
stesso sia socio per l'espletamento di esami che potevano anche eseguirsi presso
una struttura pubblica (Cass. n. 27936/2008);
-      il dipendente di Poste Italiane S.p.A., addetto all'accettazione della
corrispondenza che utilizzi la sua funzione per inviare indebitamente alla rete di
distribuzione pubblica la corrispondenza privata priva della richiesta affrancatura
(Cass. n. 37775/2010);
-      il magistrato che "aggirando il precetto della legge, ha concentrato gli incarichi
di consulenza nelle mani di un ristretto gruppo di soggetti i quali avevano, d'altro
canto, percepito onorari illegittimi, in violazione del limite normativamente stabilito
delle 8 vacazioni giornaliere" (Cass. n. 16895/2008).
Nel delitto in esame possono, tuttavia, concorrere anche i privati: sulla base dello
schema tradizionale del concorso di persone nel reato, una volta dimostrata la
responsabilità dell'"intraneus", e, quindi, integrata la fattispecie delittuosa, può
configurarsi il concorso nel reato del privato che sia destinatario dei benefici
conseguenti all'atto abusivo, laddove questi, tramite la sua condotta, abbia avuto un
ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato e sempre che fosse a
conoscenza della qualità dell'intraneus.

Per integrare l'elemento oggettivo del reato, la condotta deve essere compiuta


nello svolgimento delle funzioni o del servizio.
Tale "clausola" limitatrice della rilevanza penale della condotta, introdotta dal
legislatore del 1997, implica che il soggetto attivo perpetri l'abuso nella veste di
pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che non è
configurabile il delitto di cui all'art. 323 c.p. per tutti quei comportamenti posti in
essere al di fuori dell'esercizio delle mansioni d'ufficio che, anche laddove perpetrati
in violazione del dovere di correttezza, siano tenuti come soggetto privato senza
servirsi in alcun modo dell'attività funzionale svolta, non assumendo pertanto rilievo
penale.
Sicchè, mancando l'elemento dell'esercizio del potere è da escludere la
configurabilità del reato; così, nel caso di specie, la S.C. ha escluso l'abuso d'ufficio
per il parlamentare che ponga in essere condotte di c.d. "raccomandazione", poiché
quando non integrano l'uso dei poteri funzionali connessi alla qualità soggettiva
dell'agente, tali condotte non rientrano nella nozione di atto di ufficio.

La novella legislativa del 1997 ha trasformato l'abuso d'ufficio da reato di pura


condotta a reato evento: nell'attuale testo dell'art. 323 c.p., come modificato dalla l.
n. 234/1997, il delitto può dirsi integrato solo allorquando l'agente procuri a sé o
45
ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arrechi ad altri un danno
ingiusto.
La norma incriminatrice non fornisce alcuna ulteriore specificazione sulla condotta,
pretendendo soltanto che il danno o il vantaggio ingiusto siano arrecati con
violazione di norma di legge o di regolamento, ovvero con l'omessa astensione in
situazioni di conflitto di interessi.
Ne deriva che la condotta può estrinsecarsi in atti interni o esterni (decisionali,
consultivi, preparatori, ecc.), in mere attività materiali e, in generale, in qualsiasi
comportamento del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che
rappresenti un'illecita deviazione dagli scopi istituzionali della P.A.
Nel silenzio della norma penale, il delitto di abuso d'atti di ufficio può essere
integrato "anche attraverso una condotta meramente omissiva, rimanendo in tal
caso assorbito il concorrente reato di omissione d'atti d'ufficio in forza della clausola
di consunzione contenuta nell'art. 323, comma 1, c.p.

La norma incriminatrice fa discendere espressamente la configurabilità del reato dal


requisito dell'"ingiustizia" del danno o del vantaggio: entrambi devono essere
valutati come ingiusti ex se in base al diritto oggettivo che regola la materia e
secondo una valutazione rapportata alla situazione di fatto al momento della
condotta.
Secondo l'orientamento ormai unanime della giurisprudenza, pertanto, ai fini
dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio, è necessario che sussista la
c.d.  "doppia ingiustizia", riferita sia all'ingiustizia della condotta posta in essere in
violazione di legge o di regolamento o dell'obbligo di astensione, sia all'evento di
danno o di vantaggio patrimoniale non spettante in base al diritto oggettivo
regolante la materia (Cass. n. 36125/2014; n. 1733/2013; n. 27936/2008).
In altri termini, l'ingiustizia del vantaggio conseguito non può farsi discendere
dall'illegittimità della condotta, sia nel caso di violazione di legge o di regolamento
che dell'obbligo di astensione, occorrendo una duplice distinta valutazione in
proposito.

In ordine all'elemento soggettivo del reato, a seguito della novella introdotta dalla l.
n. 234/1997, occorre che l'abuso sia commesso dall'agente allo scopo di perseguire
un ingiusto vantaggio o un danno "intenzionalmente".
L'attuale formulazione della fattispecie delittuosa non delinea più, come nella
disciplina previgente, un reato di evento a dolo specifico bensì a dolo generico che,
rispetto all'evento che ne completa la struttura, assume la forma necessaria del
"dolo intenzionale".
Pertanto, l'intenzionalità richiesta oggi dalla norma incriminatrice restringe l'ambito
dell'elemento soggettivo del reato ex art. 323 c.p., rendendo penalmente
perseguibili esclusivamente le condotte poste in essere con un acclarato grado di
46
partecipazione dell'agente, il quale, per integrare il disvalore della fattispecie, deve
agire proprio allo scopo di procurare o procurarsi un ingiusto profitto patrimoniale
ovvero di arrecare un danno ingiusto (Cass. n. 4979/2010).

Il reato, a seguito della novella della l. n. 190/2012 che ha introdotto un


aggravamento della pena, prima prevista nei limiti edittali di sei mesi e tre anni, è
punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Al secondo comma dell'art 323 c.p. è previsto, infine, che "la pena è aumentata nei
casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità".
Si tratta di una circostanza aggravante speciale ad effetto comune, la cui
applicazione va valutata, in base a determinati parametri, laddove il danno o
l'ingiusto vantaggio siano di una rilevante gravità. 

47
RIVELAZIONE E UTILIZZAZIONE DI ATTI
D’UFFICIO
Art. 326 c.p. <<Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio,
che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della
sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola
in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a 1 anno.
Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare
a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie
d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da 2 a 5 anni.
Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non
patrimoniale o di cagionare ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di
cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a 2
anni.>>

L’art. 326 è posto in funzione della tutela penalistica del cd “segreto d’ufficio” sul
presupposto dell’esistenza di interessi di natura pubblicistica a che determinate
informazioni non vengano divulgate.
Il bene giuridico protetto dalla norma è infatti comunemente individuato, tanto in
dottrina quanto in giurisprudenza, nell’esigenza di tutela del buon andamento e nel
buon funzionamento della P.A.

Quanto ai soggetti attivi, per espressa previsione normativa, destinatario dei divieti
di cui al suddetto art. è il pubblico ufficiale e l’incaricato di un pubblico servizio. È
opportuno sottolineare che la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato
è commesso, non esclude l’esistenza della fattispecie criminosa.
La norma in commento non considera, invece, quali soggetti attivi, gli esercenti un
servizio di pubblica necessità che dunque, al più, potrebbero essere chiamati a
rispondere degli artt. 622 e 621 c.p.

Quanto all’oggetto materiale del reato, tutte le ipotesi criminose ivi contenute
considerano tale <<le notizie d’ufficio che devono rimanere segrete>>. Ciò significa
che, perché le condotte di rivelazione, agevolazione o utilizzazione di notizie segrete
assumano rilevanza ai sensi dell’art. 326, è necessario non solo che siano
oggettivamente afferenti all’ufficio dell’agente, ma che siano state poste in essere
con la consapevolezza di violare i doveri relativi alle funzioni o al servizio svolto
sfruttando la propria posizione privilegiata.

48
Anche nelle ipotesi in cui le notizie siano state apprese con abuso di qualità è
necessario, affinché possa trovare applicazione il 326, che le informazioni siano
oggettivamente pertinenti con l’ufficio o col servizio dell’agente.

Quanto alla condotta, l’art. 326 prevede e sanziona ben quattro ipotesi di condotte:

1) la rivelazione ovvero l’agevolazione alla conoscenza di notizie destinate a


rimanere segrete da parte di soggetti non autorizzati a conoscerle (comma 1);
2) l’agevolazione colposa delle medesime informazioni (comma 2);
3) l’illegittima utilizzazione delle notizie d’ufficio che debbano restare segrete al fine
di procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale (comma 3, prima parte);
4) l’utilizzazione di informazioni della stessa natura di quelle dei commi precedenti,
ma in questo caso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non
patrimoniale ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto (comma 3, ultima
parte).

Ora, la rivelazione consiste nel render noto un certo atto o fatto della P.A. destinato
a rimanere segreto (e pertanto conoscibile solo dai soggetti legittimati) mediante
qualsivoglia modalità, rectius forma, e dunque oralmente, per iscritto, mediante
gestualità o persino con allusione che risulti idonea allo scopo. Si esclude, invece,
che la condotta tipica possa consistere in un’omissione.
L’agevolazione delle conoscenza consiste in qualsivoglia condotta, anche omissiva,
in grado di facilitare l’apprensione della notizia segreta da parte del soggetto non
legittimato. L’agevolazione può essere non solo dolosa ma anche colposa: ad
esempio, A lascia di proposito aperta la cassaforte ove è custodito un documento
segreto sapendo che B non mancherà di approfittarne (dolo); C lascia distrattamente
alla libera vista un atto riservato che viene fotocopiato da D (colpa).

Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si concorda nel ritenere che il soggetto


passivo dei reati in questione sia esclusivamente la P.A. in quanto unica titolare del
bene giuridico protetto dalla norma.
Merita, tuttavia, attenzione la tesi secondo la quale anche il privato è da considerarsi
“parte offesa” allorquando si trovi nella condizione di vantare un autonomo
interesse al mantenimento del vincolo della segretezza e alla non utilizzazione della
notizia.

In relazione alle ipotesi di cui al comma 1 è richiesto il dolo generico, che consiste
nella coscienza e volontà di rivelare o agevolare la conoscenza della notizia,
destinata, invece, a rimanere segreta.
Soltanto per la condotta di agevolazione di cui al comma 2 si estende la punibilità
anche alle ipotesi colpose.
49
Per l’utilizzazione di cui al comma 3 è richiesto, invece, un dolo specifico, vale a dire
l’intenzionalità di procurare a sé o altri un ingiusto profitto patrimoniale o non
patrimoniale ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto.

Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’extraneus non legittimato
apprende la notizia che invece sarebbe dovuta rimanere segreta o in cui si concreta
il fatto che ne agevola la conoscenza. I delitti di cui al comma 3, invece, si
consumano nel luogo e nel momento in cui il soggetto pubblico si avvale della
notizia obiettivamente segreta.

50
RIFIUTO E OMISSIONE DI ATTI D’UFFICIO
Art. 328 c.p. <<Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che
indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza
ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio che entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è
punito con la reclusione sino ad 1 anno o con la multa fino a 1.032 euro.
Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di 30 giorni decorre
dalla ricezione della richiesta stessa.>>

L’art. 328, nella formulazione introdotta con la riforma del 1990 (l. n. 86/1990),
prevede due autonome fattispecie incriminatrici:
a) con la prima, per la quale è prevista una pena più grave, è sanzionato il fatto del
pubblico ufficiale o incaricato di pubblica sicurezza che rifiuta indebitamente un atto
che, per ragioni specifiche, indicate dalla norma, deve essere compiuto senza
ritardo;
b) con la seconda fattispecie è incriminata la condotta consistente nel non compiere,
entro 30 giorni dalla richiesta di chi abbia interesse, l’atto dovuto, senza rispondere
per esporre le ragioni del ritardo.
Pertanto, il legislatore ha previsto, su due diversi piani di disvalore, da un lato, una
condotta incentrata sul rifiuto di un’attività “qualificata” e, dall’altro, e in via
sussidiaria, l’omissione di un atto “sollecitato” da chi abbia interesse al suo
compimento>>.

Il bene tutelato dalla norma in esame è individuato nel normale funzionamento


della P.A. non in senso statico bensì dinamico. Più specificatamente, citando una
nota sentenza delle Sezioni Unite del maggio 1985, la tutela penale del 328 non
riguarda solo la P.A. nel momento statico della sua organizzazione ma anche quello
dinamico del compimento dell’atto, cioè della sua attività.

Quanto alla fattispecie prevista dal comma 2, appare pacifica la natura


plurioffensiva. Invero l’assunto, condiviso da dottrina e giurisprudenza, discende
dalla stessa struttura della norma la quale, nel prevedere un atto di impulso da parte
del privato che ha interesse all’emanazione dell’atto amministrativo, individua un
diverso e ulteriore centro di interessi da tutelare. La tutela di questo centro di
interessi altro non è che il buon andamento della P.A. nella visione dinamica pocanzi
51
prospettata e, quindi, il perseguimento dell’interesse pubblico, che in tal caso
coincide con quello del privato (che pertanto è tutelato, se vogliamo, in via
“mediata”).
Ad analoghe conclusioni pare doversi giungere con riguardo alla fattispecie di cui al
comma 1.
Va tuttavia ricordato che entrambe le fattispecie sono comunque perseguibili
d’ufficio, ragione per la quale, quand’anche si volesse accogliere la tesi della natura
monoffensiva del reato, il privato che si ritiene leso da un comportamento del
pubblico ufficiale, pur non titolare del potere di presentare querela, potrebbe
sempre dare impulso al procedimento penale presentando denuncia.

Quanto al soggetto attivo, le fattispecie in esame costituiscono esempi di reati


propri, dal momento che è espressamente previsto che possono essere compiuti
solo dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio.
Come puntualmente è stato osservato, per individuare l’agente pubblico
destinatario del comando è necessario fare riferimento all’art. 5 sul procedimento
amministrativo (l. n. 124/1990). L’individuazione del soggetto attivo, infatti,
dipenderà necessariamente dalla precisa competenza a compiere l’atto dell’ufficio
richiesto.

Fondamentale per la determinazione del soggetto attivo è quindi l’individuazione


dell’atto dovuto.
Tale atto, infatti, sarà integrato dall’atto amministrativo che conclude l’iter
amministrativo e che ha rilevanza esterna perché è proprio con tale atto che
l’amministrazione persegue direttamente la finalità. Ne consegue che resteranno
escluse dall’area della punibilità, conformemente alla ratio della norma, quelle
condotte omissive relative ad atti interni dell’ufficio che comunque non precludano
l’adozione dell’atto finale, ma saranno invece rilevanti quelle afferenti il
compimento di atti necessari all’adozione dell’atto finale o che comunque ricadano
sull’esito finale. Esempio pratico: un atto collegiale il quale, per poter essere
adottato, necessita del dovere imposto da norme amministrative in capo a tutti i
membri del collegio, di esprimere la propria volontà. Qualora l’atto amministrativo
non venga adottato per il rifiuto opposto dal singolo componente, anche se atto
meramente interno, rileverà ai fini dell’integrazione del reato in quanto impedirà
l’adozione della delibera collegiale.
Il reato in oggetto sarà ipotizzabile anche con riguardo all’atto discrezionale nella
misura in cui lo stesso sia dovuto. Esempio pratico: l’autorità sanitaria che, investita
del problema di un’epidemia in corso tra il bestiame, rifiuti di decidere, come
disposto dall’art. 265 del t.u.l.p.s., se ordinarne o meno l’abbattimento. In tal caso la
discrezionalità investe il contenuto ma non anche l’adozione di una decisione. Vi
sarà quindi certamente rifiuto di atti d’ufficio nel caso in cui l’autorità considerata,
52
che deve decidere se procedere o meno all’abbattimento del bestiame, non adotti
alcuna decisone.

Quanto alla condotta punibile nell’attuale formulazione, come già considerato, l’art.
328 distingue, rispettivamente nei commi 1 e 2, la condotta di rifiuto di un atto
qualificato che deve essere compiuto senza ritardo da quella di omissione di un
atto d’ufficio. Nel comma 2, inoltre, introduce anche l’elemento della richiesta
scritta e del termine di 30 giorni dalla medesima, scaduto il quale diviene
penalmente rilevante l’inerzia del pubblico ufficiale, o incaricato di un pubblico
servizio, salvo che lo stesso non risponda per esporre le ragioni del ritardo.

Analizzando punto per punto:

Per quanto attiene al rifiuto, la Suprema Corte ha avuto modo di specificare che la
condotta di rifiuto prevista dal 238 si verifica non solo a fronte di una richiesta o di
un rodine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del
compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la
valenza di rifiuto dell’atto medesimo.
Esempio pratico: la Cassazione ha ritenuto integrato il reato de quo nei riguardi del
responsabile dell’ufficio tecnico di un comune che ha rifiutato di predisporre senza
ritardo misure idonee ad eliminare il pericolo esistente in una strada comunale che
presentava anomalie trasversali del manto stradale dovute alla presenza pericolosa
di radici di alberi (il cui stato di abbandono e degrado era stato oggetto di numerose
segnalazioni da parte della Polizia municipale nonché dei privati) né tantomeno
aveva avuto l’accortezza di segnalarne la presenza agli utenti predisponendo la
collocazione di un’apposita segnaletica.
Alcun problema interpretativo circa il rifiuto implicito, unanimemente riconosciuto
come integrante la condotta criminosa sul presupposto che lo stesso sia del tutto
equiparabile a un rifiuto espresso tutte le volte che il pubblico ufficiale sia
consapevole del proprio dovere di agire e rimanga inerte.

Le ragioni di giustizia di cui al comma 1 sono quelle che ineriscono qualunque


provvedimento o ordine autorizzato da una norma giuridica avente la finalità di
rendere più agevole l’attività del giudice, del P.M. o degli ufficiali di P.G.
La sicurezza pubblica riguarda le funzioni di polizia dirette a mantenere la sicurezza
e l’incolumità dei cittadini.
L’ordine pubblico concerne la tutela della tranquillità pubblica e della pace sociale.
Infine, le ragioni di igiene e sanità riguardano indistintamente la sanità pubblica e
quella privata.

53
Il reato in esame è infine integrato (esclusivamente) quando l’atto in questione
debba essere compiuto senza ritardo. Si sostiene che, dovendo trattarsi di un atto
indifferibile, è necessario che sia la legge a prescrivere che lo stesso debba compiersi
senza ritardo.

Per la configurabilità del reato in esame è richiesto il dolo, ossia l’agente deve
rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius. Da ciò discende che
l’agente dovrà in primis essere consapevole dell’esistenza di un dovere di agire a suo
carico e che, in mancanza di tale consapevolezza, ricorrerà l’ipotesi di cui all’art. 47,
comma 3, c.p. in punto di errore su legge extra penale che abbia determinato un
errore sul fatto.

Passando all’analisi del comma 2, questo si apre con una cd “clausola di chiusura”,
ossia <<fuori dai casi previsti dal comma 1>>. Ciò significa che l’incriminazione in
commento diviene operativa solo a condizione che la condotta del pubblico agente
non sia già sussumibile nella fattispecie di cui al comma 1.
Essa prevede la necessità di una richiesta scritta (e di una legittimazione ad
avanzarla) con un termine rigidamente fissato in 30 giorni dalla ricezione della
richiesta e la possibilità per il pubblico agente di esporre le ragioni del suo ritardo.
Essa ruota dunque sulla successione di una serie di passaggi prestabiliti.

54
INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO
PUBBLICO O DI PUBBLICA NECESSITA’
Art. 331 c.p. <<Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità,
interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende,
in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da 6 mesi a 1
anno e con la multa non inferiore a euro 516.
I capi, promotori e organizzatori sono punibili con la reclusione da 3 a 7 anni e con la
multa non inferiore a euro 3.098.>>

Secondo l’impostazione prevalente, l’oggetto della tutela penale dell’art. 331 è


costituito dall’interesse al normale funzionamento della P.A. e, in particolare, alla
continuità ed alla regolarità dell’esercizio dei pubblici servizi e dei servizi di pubblica
necessità, nell’interesse della collettività.
Non va trascurata, tuttavia, l’opinione di chi ha inteso estendere la tutela anche ai
diritti fondamentali e costituzionalmente tutelati della persona in quanto suscettibili
di subire un pregiudizio dal disfunzionamento del servizio pubblico.

Quanto ai soggetti attivi, la chiara connotazione di reato proprio dell’art. 331 fa sì


che soggetti attivi possano individuarsi solo in coloro che esercitino imprese di
servizi pubblici o di pubblica necessità e, quindi, siano imprenditori per la cui
nozione è necessario rimettersi all’art. 2082 del c.c. secondo cui <<è imprenditore
chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o servizi>>. Ne scaturisce che i soggetti non
organizzati in forma d’impresa, oppure che, pur operando in forma di impresa, non
abbiano la qualifica di “imprenditore” nel senso appena richiamato, non possono
rivestire la qualità di soggetti attivi del delitto in esame.
Va preliminarmente chiarito, poi, che la norma incriminatrice è diretta a reprimere
la cd serrata degli imprenditori di servizi pubblici o di pubblica necessità, e non certo
il diritto di sciopero garantito dall’art. 40 Cost.

La condotta di interruzione dell’esercizio del servizio pubblico o di pubblica necessità


o di sospensione del lavoro negli stabilimenti, uffici o aziende dell’impresa, affi9nchè
integri il reato in esame, deve determinare il turbamento della regolarità del
servizio, e non soltanto la regolarità del lavoro, atteso che oggetto della tutela
penale è il servizio pubblico e il servizio di pubblica necessità.
In quanto reato di danno, infatti, l’art. 331 richiede per la sua consumazione che
tale pregiudizio sia effettivo con concreto pregiudizio della continuità o regolarità
55
del servizio pubblico o di pubblica necessità, e non si limiti, quindi, ad un semplice
pericolo della sua verificazione.

Il delitto in esame è punito a titolo di dolo generico, costituito dalla coscienza e


volontà dell’interruzione del servizio o della sospensione del lavoro, con la
consapevolezza della conseguente turbativa arrecata alla collettività.
È ammissibile altresì, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la configurabilità
del dolo eventuale. In tal senso, sarà sufficiente che il soggetto si renda conto,
accettandone il relativo rischio, che la sua condotta potrà pregiudicare, nei termini
sin ora indicati, le prestazioni dovute, così da determinare, anche in via di mera
possibilità, l’interruzione o il turbamento del pubblico servizio o del servizio di
pubblica necessità.

La verificazione dell’evento, ossia il turbamento del servizio a seguito delle condotte


descritte dalla norma incriminatrice, segna il tempus in cui si verifica la
consumazione del reato. Va poi evidenziato che l’interruzione del servizio o la
sospensione del lavoro costituiscono ipotesi alternative di previsione in una sola
condotta criminosa, per cui, in presenza di entrambe le condotte, si avrà un solo
reato e non più reati.

La posizione che ammette la configurabilità del tentativo sia nei casi di interruzione
che di sospensione è senz’altro preferibile, in quanto l’imprenditore ben può porre
in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco all’interruzione del lavoro senza
che la cessazione di questo avvenga (ad esempio, per rifiuto delle maestranze), o
senza che l’evento del turbamento del servizio si verifichi per cause indipendenti
dalla volontà del soggetto agente (come nel caso in cui lo stesso servizio venga
assicurato da altro imprenditore, anche con mezzi straordinari).

L’art. 331 al comma 2 prevede, poi, un aumento di pena per i capi, i promotori e gli
organizzatori dell’interruzione del servizio o della sospensione del lavoro, ossia per
coloro che assumano un ruolo significativo sotto il profilo dell’iniziativa, della
direzione o del comando.

56
CONFISCA
Art. 322-ter c.p. <<Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta
delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei
delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati
nell'articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne
costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al
reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la
disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo  o profitto.
Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell'articolo 444 del
codice di procedura penale, per il delitto previsto dall'articolo 321, anche se
commesso ai sensi dell'articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la
confisca dei beni che costituiscono il profitto salvo che appartengano a persone
estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il
reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e,
comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al
pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati
nell'articolo 322-bis, secondo comma.
Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con sentenza di condanna,
determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto
costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto corrispondente al profitto
o al prezzo del reato.>>

Con la l. n. 300/2000 il legislatore è intervenuto per adeguare lo statuto penale dei


reati commessi dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di un pubblico servizio alle
nuove esigenze di tutela imposte dalla Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione
dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali.
Questo intervento, inserito nel più ampio disegno di potenziamento delle misure
patrimoniali come strumento di contrasto alla criminalità economica, meglio
conosciuta come “criminalità di profitto”, ha portato all’introduzione all’interno del
nostro codice dell’art. 322-ter, quindi alla previsione di due speciali ipotesi di
confisca obbligatoria.
L’art. 322-ter, infatti, rubricato “Confisca” e inserito nel Libro II, Titolo II, Capo I c.p.
inerente ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., introduce due speciali ipotesi di
confisca obbligatoria:

a) una prima, nel caso vi sia una sentenza di condanna o di applicazione della pena
su richiesta delle parti per i delitti previsti dagli artt. 314-320 c.p., anche se
commessi dai pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio comunitari o di stati
57
membri dell’UE o da soggetti privati che agiscono nei confronti di funzionari di altri
stati esteri o di organizzazioni pubbliche internazionali;
b) una seconda, sempre di natura speciale, prevista per il delitto di cui all’art. 321
c.p., anche se commesso ai sensi dell’art. 322-bis, comma 2.

La norma in esame dispone, nei suddetti casi, che <<è sempre ordinata la confisca
dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a
persona estranea al reato>>; tuttavia, qualora non sia possibile tale forma di
confisca, la disposizione richiede che si proceda <<alla confisca di beni di cui il reo ha
la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto>>.

Definita come una sorta di “espropriazione” da parte dello Stato di beni che
costituiscono il prezzo o il profitto del reato, la confisca in esame, come tutte le cd.
“confische speciali”, ha natura obbligatoria e può essere disposta sia nella sua
forma tradizionale sia in quella per equivalente.

La ricostruzione del catalogo dei beni passibili di confisca si fonda essenzialmente su


pronunce giurisprudenziali.
In merito alla tipologia dei suddetti beni, il legislatore il più delle volte non si
esprime in termini precisi e lascia piuttosto all’interprete il compito di individuarli.
Indubbia è la possibilità di confiscare somme di denaro e qualunque bene di valore a
esse equivalente; ammesso altresì la possibilità di confisca di quote sociali, in quanto
esse idealmente hanno ad oggetto non una frazione ideale del patrimonio sociale
ma la percentuale degli utili di ogni esercizio.

58
TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE
Come è noto, la l. n. 190/2012 (riforma Severino) aveva introdotto, all’art. 346 bis
c.p., il delitto di traffico di influenze illecite, recentemente riformato dalla l. n. 3 del
9 gennaio 2019 in tema di “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica
amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di
trasparenza dei partiti e movimenti politici”, in vigore dal 31.1.2019.

Estesa la portata della clausola di riserva:

Il delitto punito dall’art. 346 bis c.p. non è solo più figura sussidiaria rispetto ad un
concorso di persone nei delitti di corruzione propria (art. 319 c.p.) e di corruzione in
atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), ma anche rispetto ad un concorso nei delitti di
corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e di corruzione comunitaria
ed internazionale (art. 322-bis c.p.). La scelta è coerente con l’estensione della
“causa” della dazione o della promessa del denaro o dell’altra utilità.

Assorbimento del millantato credito (il cui art. 346 è stato abrogato dalla l.
n.3/2019):

Nella sua formulazione originaria, la condotta tipica si realizzava solo tramite lo


sfruttamento di relazioni esistenti con il pubblico ufficiale o con un incaricato di
pubblico servizio, in ciò differenziandosi nettamente dalla condotta di cui all’art. 346
c.p., integrata dalla millanteria di un credito presso un pubblico ufficiale o un
pubblico impiegato. Con la riforma del 2019, che ha abrogato l’art. 346 c.p., i fatti
fino ad allora qualificabili come millantato credito possono essere sussunti sotto il
nuovo art. 346-bis c.p. Infatti, la condotta punita non consiste solo più nello
sfruttamento di relazioni esistenti, ma anche nella vanteria di relazioni
«asserite» con un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o, ancora, con
uno dei soggetti elencati all’art. 322-bis c.p. I fatti sussumibili fino all’entrata in
vigore della novella sotto l’art. 346 c.p. non perdono, quindi, rilevanza penale e
possono essere puniti come traffico di influenze illecite, dando luogo ad una
successione di leggi penali nel tempo.

L’oggetto della dazione o della promessa e la sua causa:

Il traffico di influenze illecite si consuma oggi con la dazione o la promessa di denaro


o di altra utilità, laddove nella versione originaria della fattispecie si prevedeva la
dazione o la promessa di denaro o di altro vantaggio patrimoniale: anche sotto
questo profilo, la L. n. 3/2019 comporta un’estensione del precetto, posto che, dal
59
31.1.2019, l’utilità può anche prescindere da un suo valore patrimoniale (ad es. la
prestazione sessuale).

Il denaro o l’altra utilità sono oggi, nel reato base, il prezzo della mediazione illecita
verso il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti di cui
all’art. 322-bis c.p. ovvero la remunerazione per l’esercizio, da parte di uno di
questi, delle sue funzioni o dei poteri. Si osservi come, nella versione dell’art. 346-
bis c.p. antecedente alla riforma, ove il denaro o (l’allora) vantaggio patrimoniale
fosse corrisposto o promesso come remunerazione del soggetto pubblico, la dazione
o la promessa era relazionata esclusivamente al compimento di un atto contrario ai
doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio. Alla luce di ciò, è
evidente che la riforma ha portato ad un’ulteriore e rilevante estensione della
punibilità rispetto alle possibili finalità della mediazione. Infatti, ove il denaro sia
dato o promesso per remunerare il soggetto pubblico, non è più essenziale che tale
remunerazione sia relazionata al compimento, da parte di questi, di un atto
contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Questa ipotesi è oggi una fattispecie aggravata, ai sensi dell’art. 346-bis, 4° co., c.p.
congiuntamente al caso, già previsto dalla L. n. 190/2012, in cui «i fatti sono
commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie».

La punibilità di chi dà o promette il denaro o l’altra utilità:

L’art. 346 bis c.p. prevede la punibilità, oltre che del mediatore (1° co.), del soggetto
che promette o dà il denaro o l’utilità (2° co.), il quale è soggetto alla pena
indipendentemente dal fatto che la relazione tra il mediatore e il pubblico ufficiale
esista o meno. La riforma dell’art. 346 bis c.p. comporta, pertanto, una nuova
incriminazione rispetto a chi dà o promette il denaro o l’altra utilità a fronte di una
relazione vantata e asserita, ma inesistente. Questi, vittima di un comportamento
decettivo, non era, infatti, punibile sotto l’art. 346 abrogato, mentre, con l’entrata in
vigore della L. n. 3/2019, lo diviene ai sensi dell’art. 346 bis, 2° co.

Le circostanze:

Nella disciplina delle aggravanti (speciali, ad effetto comune), il 3° co. dell’art. 346
bis c.p. prevede che il mediatore sia punito più gravemente se riveste la qualifica di
p.u. o di incaricato di pubblico servizio (3° co.); il 4° co., come già si è detto, prevede
un aumento di pena, da applicarsi anche ai fini del 2° co., nel caso in cui i fatti siano
commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o in relazione al compimento
di una corruzione propria. Il 5° co. prevede, invece, un’attenuante speciale ad effetto
comune quando il fatto sia di particolare tenuità.

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Il trattamento sanzionatorio:

a) Pena principale

Sotto il profilo della pena, la nuova disciplina è più severa rispetto a quella


introdotta nel 2012. Infatti il reato base, prima punito da 1 a 3 anni, è oggi punito da
1 anno a 4 anni e 6 mesi.

Ciononostante, rispetto al “vecchio” millantato credito, oggi assorbito dal nuovo art.
346-bis c.p., la disciplina della pena è più favorevole al reo e, pertanto, applicabile
retroattivamente ex art. 2, 4° co.; infatti, le pene previste dall’art. 346 bis c.p. (anche
dopo la riforma del 2019 che pure le ha inasprite) sono più contenute rispetto a
quelle precedentemente previste dall’art. 346 c.p. (da 1 anno a 5 anni ex 1° co. e da
2 a 6 anni ex 2° co., oltre alla pena pecuniaria).

La disciplina della pena decisa con la riforma solleva complessivamente alcune


perplessità; ad esempio non si intende perché, a fronte di scelte di maggior rigore (si
pensi all’aumento delle pene previste per la corruzione impropria), affievolire la
pena per fatti che presentano analoga struttura del millantato credito, già punito
fino a 5 anni; ancora, si noti come il trattamento sanzionatorio di cui all’art. 346 bis
c.p. non consenta né la misura in carcere (art. 280, 2° co., c.p.p.) né le intercettazioni
(art. 266, 1° co., lett. b).

b) Pene accessorie

A tutti i soggetti punibili ex art. 346-bis c.p. sono applicate le pene accessorie di cui
all’art. 317 bis c.p. che, a seguito della stessa L. n. 3/2019 comprende oggi, quale
reato presupposto per cui vi è stata condanna, anche il traffico di influenze illecite
(senza distinguere tra ipotesi di cui al 1° e al 2° co., come, invece, avviene all’art. 317
bis, 1° co., c.p. per il delitto di cui all’art. 319-quater c.p.). Ciò comporta che, superati
i 2 anni di reclusione, scatta automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici e l’incapacità a contrarre con la p.a., a meno che non ricorra l’attenuante di cui
all’art. 323 bis, 1° co., c.p.

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