Oggetto giuridico della tutela penale dei delitti in esame è rimasto, in via generale, il
regolare funzionamento ed il prestigio degli enti pubblici e dei soggetti che ad essi
appartengono.
1
2. Il concetto di <<pubblico ufficiale>>
A norma dell’art. 357 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali
coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o
amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata
da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e
dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo
svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi. >>
2
b) L’estensione della qualità di pubblico ufficiale
L’art. 322 c.p. opera un’assimilazione ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni
corrispondenti, e agli incaricati di pubblico servizio negli altri casi, dei seguenti
soggetti:
Per l’art. 358 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico
servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.
Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della
pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima,
e con esclusione dello svolgimento di semplici mansione di ordine e della prestazione
di opera meramente materiale.>>
Detta l’art. 359 c.p. <<Agli effetti della legge penale, sono persone esercenti un
servizio di pubblica necessità:
3
Occorre precisare al riguardo che anche “i privati che esercitano professioni forensi
o sanitarie” di cui parla il n. 1 dell’art. possono essere p.u. allorché ne ricorrano gli
estremi, per cui:
1. è p.u. l’avvocato che autentica la firma di un cliente in calce alla procura alle liti,
poiché esercita potestà certificativa;
b) finalità, nel senso che tra il fatto e la funzione vi deve essere un nesso finalistico
(esempio: art. 318);
c) causalità, nel senso che il fatto deve verificarsi “a causa” dell’esercizio della
funzione o del servizio.
Detta l’art. 360 c.p. <<Quando la legge considera la qualità di p.u. o di incaricato di
un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento
costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità,
nel momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la
circostanza aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato.>>
In altre parole, affinché sia configurabile il reato, occorre che il fatto “si riferisca” alle
funzioni o al servizio, e cioè sia “in qualche modo” connesso con le funzioni già
esercitate dal soggetto.
4
PECULATO
Art. 314 c.p. << Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che avendo
per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di
denaro o di altra cosa mobile altrui se ne appropria, è punito con la reclusione da 4
anni a 10 anni e 6 mesi.
Si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni quando il colpevole ha agito al
solo scopo di fare un uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso
momentaneo, è stata immediatamente restituita.>>
Oggetto materiale del delitto di peculato è il denaro o altra cosa mobile. Dunque, un
bene immobile non può mai costituire l’oggetto materiale del delitto di peculato.
I beni immateriali – sia personali (vita, onore, prestigio ecc.), sia patrimoniali (opere
dell’ingegno, invenzioni industriali, ditta, insegna, marchio ecc.) – non possono,
inoltre, costituire oggetto di peculato perché non sono cose. Tuttavia, nell’ipotesi di
beni patrimoniali immateriali, può costituire oggetto di peculato il denaro o l’altra
cosa mobile che derivi dall’utilizzazione del bene immateriale.
La cosa mobile di cui l’agente pubblico si appropri, deve avere valore apprezzabile:
nel senso che la cosa abbia almeno un minimo valore o, comunque, una qualche
utilità; giacché le cose prive di valore non possono rivestire alcun interesse per il
diritto.
Il denaro o la cosa mobile, oggetto dell’appropriazione da parte dell’agente
pubblico, deve essere “altrui”. Infatti, con l’unificazione nel 1990 tra peculato e
5
malversazione a danno dei privati, integra tale delitto anche la condotta del pubblico
funzionario che si appropri di un bene che non appartenga alla P.A. bensì ad un
privato.
Per commettere il delitto di peculato l’agente pubblico, che si appropria della cosa
mobile o del denaro altrui, deve averne in precedenza il possesso o la disponibilità in
ragione del suo ufficio o servizio.
La nozione di possesso ha qui un significato più ampio di quello civilistico di cui
all’art. 1140 c.c.
Infatti, la nozione di possesso deve perciò intendersi non solo come comprensiva
della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica. Nel
senso che il soggetto deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua
competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel
maneggio o nella disponibilità del denaro o della cosa mobile e di conseguire quanto
poi oggetto di appropriazione.
Riguardo al titolo del possesso o della disponibilità della cosa da parte del pubblico
agente, il legislatore richiede che esso sia caratterizzato dalla ragione dell’ufficio o
del servizio.
Quanto alla condotta, a seguito della l. n. 86/1990, l’elemento oggettivo del delitto
di peculato comune è costituito unicamente dalla condotta di appropriazione. Con
la riforma del 1990 il legislatore ha, infatti, escluso formalmente dal testo della
disposizione la figura del c.d. “peculato per distrazione”.
Quanto al concetto di “appropriazione”, esso designa il comportamento di chi fa
propria una cosa altrui mutando il titolo del possesso. In altri termini il soggetto
compie atti incompatibili con il titolo per cui possiede la cosa, e comincia ad agire
nei confronti della medesima come se ne fosse il proprietario.
Si possono così identificare nell’appropriazione due momenti distinti:
a) espropriazione: ossia non riconoscimento o negazione dei diritti altrui;
b) impropriazione: affermazione del proprio dominio di fatto sulla cosa.
Esempi pratici:
- L’ufficiale giudiziario che si appropri delle somme a lui versate a titolo di
tributi;
- Il curatore fallimentare che si appropri di beni della società dichiarata fallita,
dei quali abbia il possesso in ragione del suo incarico;
Il delitto di peculato è punibile soltanto a titolo di dolo generico, nel senso che
l’agente pubblico deve effettivamente volere l’appropriazione del denaro o della
cosa mobile altrui, che si possiede per ragioni d’ufficio o di servizio, con la
consapevolezza che, proprio per questo, su di essa insiste un diritto altrui.
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Il delitto di peculato si consuma nel tempo e nel luogo in cui si verifica
l’appropriazione del denaro o della cosa. Si tratta dunque di un reato istantaneo.
Orbene, il peculato si consuma anche quando tale condotta non arreca, per qualsiasi
motivo, danno patrimoniale alla P.A., giacché essa è comunque lesiva dell’ulteriore
interesse tutelato che si identifica nella imparzialità, legalità e buon andamento
dell’operato dell’amministrazione. Si pensi, ad esempio, al concessionario di un
pubblico servizio che trattenga le somme incassate per conto dell’ente pubblico al
fine di soddisfare un proprio diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo,
ricorrendo quindi ad una sorta di “autoliquidazione”.
PECULATO D’USO
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Al comma 2 dell’art. 314 è prevista una pena di minore gravità, allorché il
funzionario pubblico abbia <<agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa,
e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita>>.
Si tratta del c.d. “peculato d’uso”, che deve essere considerato una figura autonoma
di illecito penale – ricalcante lo schema del furto d’uso ex art. 626 c.p. – e non già
una semplice circostanza attenuante del delitto di peculato.
La condotta tipica si differenzia da quella del peculato comune perché
l’indispensabile restituzione della cosa, da parte dell’agente pubblico, esclude che si
possa configurare qui un’autentica e definitiva appropriazione della cosa.
L’elemento oggettivo non coincide, dunque, con l’appropriazione in senso specifico
di cui al comma 1, consistendo piuttosto nel fatto di distogliere temporaneamente la
cosa dalla sua originaria destinazione, per volgerla a scopi personali.
È controverso se il peculato d’uso possa avere oggetto denaro (o comunque altre
cose fungibili o di quantità). Sembra preferibile l’opinione che esclude dall’ambito
applicativo dell’incriminazione l’uso del denaro, riconducendolo invece alla figura
prevista dal comma 1.
La restituzione della cosa deve avvenire <<immediatamente>>: e ciò vuol dire che
tra l’attività consistente nell’uso della cosa e la sua restituzione debba intercorrere
un tempo minimo; un tempo che non può essere quantificabile cronologicamente in
astratto, ma va calcolato come necessario e sufficiente in concreto per la riconsegna
medesima.
La reiterazione delle condotte di peculato d’uso determina l’integrazione di una
pluralità di reati ex art. 314, comma 2, eventualmente avvinti dal vincolo della
continuazione, ma non il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in
peculato <<ordinario>> ex art. 314, comma 1.
Quanto all’elemento soggettivo del peculato d’uso, malgrado l’apparenza creata
dall’espressione “allo scopo di”, non si tratta di una figura di reato a dolo specifico.
Ebbene, lo scopo di restituire immediatamente la cosa dopo l’uso momentaneo
connota l’aspetto soggettivo del reato di peculato d’uso nel senso di richiedere un
dolo intenzionale, precludendo così la configurabilità del delitto a titolo di dolo
eventuale.
Una delle questioni più controverse che concernono la figura di cui al capoverso
dell’art. 314 c.p., è sicuramente quella del c.d. <<peculato telefonico>>. Al termine
di un travagliato percorso giurisprudenziale si è giunti a ritenere sussumibile nel
peculato d’uso l’utilizzo, per fini personali, da parte del pubblico agente, del
telefono assegnatogli per le esigenze dell’ufficio. E ciò soltanto se produca un danno
apprezzabile al patrimonio della P.A. o una lesione concreta alla funzionalità
dell’ufficio.
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IMP. (!): Non è riconducibile alla figura in esame l’utilizzazione a proprio favore di
energie umane di pubblici agenti, cosicché, ad esempio, l’impiego di un autista per
fini non istituzionali ovvero l’uso nel proprio privato interesse delle prestazioni
lavorative di un dipendente dell’ente di appartenenza integra la fattispecie di abuso
d’ufficio. Infatti, il peculato, in tutte le sue forme, presuppone l’appropriarsi da parte
dell’agente di una cosa che viene destinata ad una finalità diversa da quella prevista
dalla legge, mentre non è concepibile l’appropriarsi di una persona o della sua
energia lavorativa.
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Quanto alla condotta tipica del reato, consistente nella ricezione ritenzione del
denaro o altra utilità, contempla due presupposti:
a) l’esercizio delle funzioni o del servizio da parte dell’agente pubblico;
b) il preesistente errore del soggetto passivo (il privato).
Quanto al requisito sub a, non è sufficiente che, per errore, il privato paghi a lui:
occorre che il privato paghi, ma sapendo di pagare in ragione del fatto che il
soggetto esercita una pubblica funzione o un pubblico servizio.
Per quel che concerne il requisito sub b, basti dire che l’errore altrui deve essere
spontaneo, e non deve essere ricollegato in alcun modo al comportamento
dell’agente pubblico, il quale deve limitarsi solamente a tratte profitto dell’errore in
cui versa il terzo. Diversamente, il pubblico funzionario potrebbe essere chiamato a
rispondere del delitto di induzione indebita oppure di truffa aggravata.
Le condotte alternativamente punite si sostanziano nel ricevere o nel ritenere
indebitamente, per se stessi o per un terzo, denaro o altra utilità.
<<Ricevere>> significa accettare il denaro o l’altra utilità offerta da un terzo, senza
che il pubblico agente si dia da fare per ottenere o respingere la dazione.
Il termine <<ritenere>> designa la condotta di non restituire la cosa, nel senso che
non è necessario che la cosa sia trattenuta fisicamente presso l’agente pubblico, ma
è sufficiente che questi ne abbia la disponibilità.
Per quanto concerne l’avverbio <<indebitamente>>, si tratta di un requisito di
illiceità speciale che esclude il reato quando il soggetto attivo riceve o ritiene denaro
o altra utilità che era dovuta.
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Al delitto di peculato mediante profitto dell’errore altrui è applicabile la circostanza
attenuante speciale indefinita di cui all’art. 323-bis, della particolare tenuità del
fatto.
N.B. Il delitto di peculato mediante profitto dell’errore altrui ha, col reato di truffa,
un elemento in comune: la circostanza che il possesso della cosa oggetto
dell’appropriazione sia conseguente all’errore altrui. Cagionato quest’ultimo, nel
caso di truffa, dalla condotta del reo che induca in errore; nel caso di peculato ex art.
316, da una situazione di fatto diversa dalla realtà che il reo ometta di far rilevare e
da cui tragga profitto.
L’ enunciato, colpendo la distrazione del contributo dallo scopo per il quale era
stato concesso, vale a dire punendo chi elude il vincolo di destinazione gravante
sulle somme erogate, ci rivela che l’illecito tutela in via immediata la corretta
allocazione-gestione degli incentivi pubblici; un’oggettività giuridica, questa, che
accoglie da un lato il buon andamento e dall’altro il patrimonio della P.A.
Quanto al soggetto attivo del reato, a dispetto del lessico prescelto dal legislatore
(<<chiunque estraneo alla P.A.>>), si tratta all’evidenza di reato proprio, essendo la
soggettività attiva circoscritta ai beneficiari dell’erogazione.
13
Secondo i più, l’enunciato, sanzionando la non destinazione delle somme alle finalità
predette dalla P.A., ossia evocando un’inazione, descriverebbe una condotta
omissiva. La tesi può essere sottoscritta, con la precisazione, però, che il fatto di
malversazione è omissivo in senso normativo, non già in senso strutturale-
naturalistico: integrerà perciò la condotta tipica sia chi si astiene del tutto
dall’impiegare il denaro pubblico (es. limitandosi a depositarlo su un conto
corrente), sia chi lo distrae in tutto o in parte, appropriandosene oppure
utilizzandolo per scopi diversi da quelli prestabiliti. Peraltro, il concetto di
“distrazione-sviamento, nel diritto giurisprudenziale, si è via via dilatato sino a
comprendere i casi in cui il finanziamento sia stato integralmente destinato allo
specifico scopo previsto dalla legge istitutiva del finanziamento, ma l’opera/attività
sia stata realizzata con modalità e tempistiche diverse da quelle prestabilite.
Esempio: Caio ottiene una sovvenzione dall’UE per aprire un comparto della sua
azienda in Brianza, che effettivamente realizza nei tempi stabiliti, ma visto che è
riuscito a spendere meno di quanto ricevuto, trattiene per sé il denaro pubblico
risparmiato. Bene, Caio risponderà, ex art. 316-bis, di <<danno da sviamento>>, in
quanto ha comunque sottratto una parte della sovvenzione dalla sua finalità
istituzionale.
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INDEBITA PERCEZIONE DI EROGAZIONI A
DANNO DELLO STATO
Art. 316-ter c.p. <<Salvo che il fatto costituisca reato previsto dall’art. 640-bis,
chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o
attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute,
consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui
agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o
erogati dallo stato, o da altri enti pubblici o dalle Comunità europee, è punito con la
reclusione da 6 mesi a 3 anni. *La pena è della reclusione da 1 a 4 anni se il fatto è
commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio con
abuso della sua qualità o dei suoi poteri.*
Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a € 3.999,96 si applica
soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da
€ 5.164 a € 25.822. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio
conseguito.>>
Si tratta di reato a dolo generico, consistente nella consapevolezza della falsità e/o
incompletezza del compendio documentale destinato al soggetto pubblico erogante,
e nella volontà di servirsene per ottenere un contributo che si sa essere indebito.
C’è spazio, oltre che per il dolo eventuale, anche per errori sul fatto ex art. 47 c.p.,
come nell’ipotesi in cui il privato sia convinto di possedere i requisiti per ottenere il
contributo.
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CONCUSSIONE
Art. 317 c.p. <<Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che,
abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere
indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da
6 a 12 anni.>>
L’etimo della parola <<concussione>> deriva dal latino <<concutere>>, che in origine
indicava l’azione di scuotere l’albero per farne cadere i frutti. Questa immagine
evoca anche il disvalore tipico dell’omonimo reato nella tradizione giuridica interna,
quale fatto del pubblico agente che attraverso un abuso intimidatorio di qualità o di
poteri carpisca da un privato un’utilità indebita. Rappresenta, la concussione, il più
grave dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. e trova indicazione nell’art. 317 il
quale, nel testo risultante dalla novella contenuta nella l. n. 190/2012, ulteriormente
ritoccato dalla l. n. 60/2015, punisce con la reclusione da 6 a 12 anni il <<pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei
suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo,
denaro o altra utilità.>>
Quanto alla sua struttura oggettiva, il fatto costitutivo del delitto di concussione
abbraccia, sul piano oggettivo, una pluralità di requisiti:
a) la condotta di costrizione, che deve essere realizzata dal pubblico agente
mediante un abuso della sua qualità o dei suoi poteri;
b) la coazione psichica del privato quale evento naturalistico intermedio;
c) l’evento finale rappresentato, indifferentemente, dalla promessa o dalla dazione
indebita di denaro o altra utilità ad opera della parte esterna alla P.A.;
d) il nesso di causalità tra l’abuso del pubblico agente e l’evento psichico intermedio,
nonché tra quest’ultimo e la promessa/dazione non dovuta.
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Il delitto di concussione rientra nella categoria del reato proprio in quanto
realizzabile dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Soggetto attivo della concussione può essere anche chi esercita una pubblica
funzione soltanto di fatto, purché un titolo sussista; non, quindi, il privato
usurpatore di pubbliche funzioni, che potrà rispondere di altri reati (estorsione,
rapina etc.). Le qualifiche pubblicistiche penalmente rilevanti agli effetti dell’art. 317
includono anche i pubblici agenti extranazionali enumerati dall’art. 322-bis c.p.
Quanto ai soggetti passivi, dalla plurioffensività del reato ne discende che sono
tanto la P.A. per la condotta del suo funzionario infedele, quanto il soggetto coartato
a dare o a promettere. Quest’ultimo di norma sarà un individuo estraneo alla P.A.,
ma adoperando la legge il termine “taluno” può trattarsi anche di un altro pubblico
agente, non necessariamente di grado inferiore a colui che abusi della sua funzione.
Soggetto passivo può essere, altresì, un incapace, ma nella sola misura in cui sia in
grado di avvertire almeno in parte la pressione coercitiva.
Per poter svolgere un ruolo trainante rispetto alla prestazione indebita, l’abuso
concussorio contiene un quid più specifico, ravvisabile nella valenza intimidatoria
dell’uso distorto della qualità o dei poteri pubblicistici, che si riflette nella
consapevolezza dell’extraneus di soccombere ad un sopruso.
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Nel linguaggio comune, <<costringere>> significa coartare, forzare qualcuno, con la
forza fisica o con altro mezzo adeguato, a compiere un’azione che diversamente non
avrebbe compiuto oppure a omettere una condotta che altrimenti avrebbe tenuto.
Posto ciò, i mezzi idonei a coartare l’altrui volontà sono essenzialmente due:
a) la violenza (vis physica);
b) la minaccia (vis moralis).
La violenza consiste nell’applicazione di energia fisica volta a piegare l’altrui volontà.
Ovviamente, perché possa ricorrere il delitto in esame, la forza corporea non deve
condurre all’integrale annullamento dell’altrui capacità di autodeterminazione, ma
limitarsi a “indebolire spiritualmente il soggetto, rendendolo arrendevole alla
volontà dell’agente”. Ai fini concussivi, quindi, rileva solo la “violenza fisica
motivante”.
Non vi è dubbio, comunque, che il veicolo di gran lunga più frequente della condotta
costrittiva sia la minaccia, cioè la rappresentazione di un male futuro la cui
verificazione dipende dalla volontà dell’agente. Il criterio di distinzione rispetto alla
violenza sta nel fatto che in questa l’inflizione del male è già in atto, mentre nella
minaccia è solo in potenza, quale evento preannunciato.
Proprietà essenziale della minaccia concussiva, come in generale nell’accezione
penalistica del termine (art. 612 c.p.), è l’ingiustizia (in senso giuridico) o
antigiuridicità del male paventato, quindi la sua contrarietà al diritto.
A veicolare una minaccia in senso tecnico possono essere anche messaggi
comunicativi più sottili o impliciti, come atteggiamenti suggestivi, frasi o gesti
allusivi, richieste velate, consigli “apparentemente” amichevoli etc. Ciò che
realmente conta, in linea con il principio di offensività in concreto, è che il
comportamento del soggetto pubblico abbia assunto un inequivocabile significato
minatorio.
Esempio: il responsabile di un procedimento amministrativo lascia intendere, con
atteggiamenti allusivi, che sarebbe opportuno “oleare gli ingranaggi” per agevolare
l’adozione di un atto amministrativo spettante al privato (un permesso di costruire,
un documento necessario per presentarsi ad una gara pubblica etc.), tenendo medio
tempore chiusa la pratica nel cassetto finché il privato non si decida a soddisfare la
sua pretesa arbitraria.
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Esempio: l’agente della Polizia municipale che riesce a carpire una somma indebita
facendo temere un arresto illegittimo del tutto estraneo alla sua sfera di poteri.
Il dolo è generico e consiste nella volontà del pubblico agente di porre in essere una
costrizione connotata dall’abuso funzionale, finalizzata alla dazione o promessa che
sa non essergli dovuta.
È da escludere la rilevanza del dolo eventuale: l’agente si prefigge la prestazione del
privato, cosicché il concetto di “costrizione” implica una condotta diretta, in tutte le
sue fasi, a coartare il soggetto.
CONCUSSIONE/CORRUZIONE:
Nella concussione a innescare la relazione illecita è sempre il soggetto pubblico,
nella corruzione il privato. Per meglio spiegare, seguendo altresì il cd criterio del
danno o vantaggio, il concusso è colui che effettua la prestazione indebita per
evitare un danno ingiusto minacciato dal funzionario; il corruttore, viceversa, è chi
punta a conseguire un profitto illecito ai danni della P.A.
CONCUSSIONE/TRUFFA:
Il delitto di concussione esige una condotta prevaricatrice imperniata sulla minaccia
di danni ingiusti dipendenti dalla volontà del pubblico agente o, come più di rado
accade, sulla violenza fisica; la truffa si concretizza, invece, attraverso modalità
ingannatorie.
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CONCUSSIONE/PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI:
Nella concussione, fattore di distorsione del processo volitivo della vittima è
l’atteggiamento prevaricatore del pubblico agente; nel peculato mediante profitto
dell’errore altrui, il vizio della volontà del privato non è provocato dal pubblico
agente che si limita semplicemente ad approfittarsene.
Anche nel caso della concussione è prevista la responsabilità degli enti collettivi ex
d.lgs. n. 231/2001.
24
CORRUZIONE PER L’ESERCIZIO DELLA
FUNZIONE
(Corruzione cd. “impropria”)
Art. 318 c.p. <<Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi
poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta
la promessa, è punito con la reclusione da 3 a 8 anni.*>>
*parole così sostituite (inerenti l’aumento della pena prevista) dalla L. n.3/2019
nota come “Legge Spazzacorrotti>>
Alla luce di questa nuova formulazione ad opera della legge di Riforma n. 190/2012,
dobbiamo dire che questa innanzitutto ha provveduto a far scomparire dal dettato
normativo il concetto di “retribuzione”, eliminando espressamente ogni riferimento
allo specifico “atto dell’ufficio” e sostituendolo con “l’esercizio delle funzioni o dei
poteri”, rendendo in tal modo punibili anche quelle condotte rispetto alle quali non
si è in grado di individuare specifici e predeterminati atti dell’ufficio oggetti di
mercimonio, perché spesso concepiti e attuati soltanto in “corso d’opera”, ad
accordo avvenuto, al fine di piegare l’azione della P.A. agli interessi privati via via
coinvolti.
Ma v’è di più: per quanto riguarda il rapporto con la corruzione propria ex art. 319,
la dottrina prevalente rileva come la corruzione per l’esercizio della funzione sia
ora una fattispecie di carattere generale, con la conseguenza di ritenere la
corruzione propria una figura speciale più grave, ma residuale, che può ricorrere
25
solo qualora si sia in presenza di un preciso e individuato atto illegittimo, in quanto
contrario ai doveri d’ufficio.
Da notar bene che, quando il legislatore, per l’art. 318, stabilisce “per l’esercizio
delle sue funzioni”, si riferisce:
a) sia all’ipotesi in cui la dazione o la promessa viene effettuata dal privato in vista
del futuro compimento di un’attività da parte del pubblico ufficiale (corruzione
antecedente);
b) sia all’ipotesi in cui la dazione o la promessa è diretta a ricompensare un’attività
già compiuta (corruzione susseguente).
(Da ricordare che, almeno sul fronte concettuale, questa distinzione è stata rimossa dalla legge di Riforma, tanto per
l’art. 318 che per l’art. 319*)
Si è sempre affermato in linea generale che l’interesse protetto dalle norme in tema
di corruzione è rappresentato dal buon andamento e dall’imparzialità della P.A.,
interesse che trova peraltro specifica copertura costituzionale all’art. 97 Cost.
26
Oggetto della dazione e della promessa (e quindi delle corrispondenti condotte di
ricezione e accettazione della promessa) è individuato dal legislatore nel denaro o in
altra utilità.
La nozione di utilità, anche qui a lungo dibattuta in dottrina, si estende ad ogni
vantaggio, anche di natura non patrimoniale o semplicemente morale, ivi inclusi
quelli derivanti da un comportamento di fare o di non fare che abbia valore per il
pubblico agente. Vi rientrano, pertanto, anche le prestazioni sessuali.
Da notar bene che nel concetto di utilità si fanno rientrare, almeno secondo un
orientamento dottrinale, anche situazioni riconducibili ai “regali” d’uso di modico
valore, concludendo che trattasi di condotte comunque idonee ad integrare la
fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione.
Va però ricordato che in tema di donativi d’uso si è espresso il nuovo codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, il quale, precisamente all’art. 4, prevede la
possibilità per il pubblico dipendente di accettare regali e altre utilità di modico
valore – riconducibili pertanto nei limiti delle ordinarie relazioni di cortesia -,
dovendo intendersi per tali quelle il cui valore non supera orientativamente i 150
euro.
Sul versante del momento consumativo del reato di corruzione impropria, la tesi
che è andata consolidandosi e che tuttora appare prevalente è quella secondo cui il
delitto si consuma nel momento e nel luogo che segnano il perfezionamento
dell’accordo corruttivo, a prescindere dalla dazione del denaro o dal successivo
adempimento della promessa, sicché da tale iniziale momento dovrebbe decorrere il
termine di prescrizione del reato.
In giurisprudenza, tuttavia, è stata elaborata una soluzione più diversificata,
ricostruendo la fattispecie di corruzione attraverso l’istituto della progressione
criminosa, soluzione che sembra aver trovato consacrazione nella nota sentenza
Mills delle sezioni unite. Secondo la Suprema corte il reato può ritenersi consumato
già al momento dell’accettazione della promessa, qualora a questa non segua alcuna
consegna di denaro o altra utilità; tuttavia, se alla promessa segue la consegna della
retribuzione convenuta, il momento consumativo si sposta in avanti nel tempo e le
due condotte di fatto si saldano “concorrendo sostanzialmente entrambe, in
progressione, al completamento della fattispecie criminosa in tuti i suoi aspetti”.
Ciò posto, la tesi che appare senz’altro preferibile è quella che individua il momento
consumativo del reato nel perfezionamento del pactum sceleris tra corrotto e
corruttore, tant’è che se ne fa discendere, come logico corollario, che nell’ipotesi di
un solo accordo il reato deve ritenersi unico, anche se a esso conseguano plurimi
atti posti in essere dal pubblico funzionario corrotto.
27
Occorre rammentare, peraltro, che il reato resta unico anche quando alla promessa
accettata segua poi l’effettiva retribuzione, restando comunque unica la violazione
della norma incriminatrice.
Il reato di corruzione ex art. 318 c.p. rientra anch’esso nel novero dei reati-
presupposto ex d.lgs. n. 231/2001.
28
CORRUZIONE PER UN ATTO CONTRARIO
AI DOVERI D’UFFICIO
(Corruzione cd. “propria”)
Art. 319 c.p. <<Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o
ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto
contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne
accetta la promessa, è punito con la reclusione da 6 a 10 anni.>>
La legge di Riforma del 2012 non ha modificato il delitto di cd. “corruzione propria”
che resta, quindi, ancorato alla tradizionale impostazione.
Questo rappresenta una fattispecie plurisoggettiva necessaria bilaterale, ossia un
reato imperniato su almeno due condotte illecite contrapposte ma convergenti,
entrambe indispensabili per il perfezionamento dell’illecito. È, altresì, reato proprio
e comune allo stesso tempo, perché uno degli autori deve essere un pubblico
agente ovvero uno dei soggetti indicati dall’art. 322-bis, mentre l’altro può essere
chiunque (un soggetto non qualificato ma anche un pubblico agente).
La corruzione propria, come ogni fattispecie corruttiva, è un reato contratto, il cui
elemento cardine è l’accordo tra il pubblico agente e la sua controparte “comune”
relativo ad un comportamento contra legem attivo oppure omissivo, da tenere o già
tenuto, compensato con la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità.
L’impulso “negoziale” può essere tanto del soggetto comune (corruzione attiva)
quanto del pubblico agente (corruzione passiva).
Offerta e accettazione sono a forma libera, essendo sufficiente che, in relazione alle
circostanze, risultino idonee a realizzare la funzione per la quale sono poste.
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V’è di più: basta che l’atto sia identificabile, non occorre che sia identificato. Ciò
significa che è sufficiente che l’atto sia individuabile in relazione a un
comportamento del pubblico ufficiale ben determinato nel suo contenuto, anche se
suscettibile di specificarsi in una pluralità di singoli atti non a monte prefissati o
programmati.
Secondo la giurisprudenza prevalente, l’espressione “atto d’ufficio” non è sinonimo
di atto amministrativo ma designa un’attività ossia un comportamento del pubblico
ufficiale (posto in essere nello svolgimento del suo incarico) contrario ai doveri
dell’ufficio ricoperto. Sicché, ai fini della sussistenza del reato, occorre aver riguardo
non ai singoli atti, ma alla complessiva condotta tenuta dal pubblico ufficiale in
spregio ai doveri di fedeltà, imparzialità e onestà.
Il dolo del delitto di corruzione propria è comune per entrambi gli autori del reato;
per entrambi la rappresentazione deve comprendere il carattere indebito della
retribuzione e l’illiceità della prestazione richiesta al, ovvero offerta dal, pubblico
agente; per entrambi occorre la consapevolezza e la volontà di offrire e accettare la
retribuzione indebita quale contropartita della prestazione illegittima.
Il reato di corruzione propria si perfeziona nel momento e nel luogo in cui si forma
l’accordo corruttivo. Perfezione e consumazione coincidono senz’altro nella cd.
“forma reale”. Nel caso di corruzione “verbale”, invece, secondo la giurisprudenza
delle sezioni unite il reato si consuma nel momento in cui viene corrisposta la
retribuzione.
Fintantoché l’iniziativa corruttiva resta unilaterale, la corruzione non è configurabile
nella forma tentata perché il tentativo di corruzione, sia esso attivo o passivo, è
assorbito dalla specifica ipotesi di istigazione prevista dall’art. 322 c.p.
Semmai uno spazio di configurabilità del tentativo sorge nel momento in cui le parti
hanno avviato una trattativa che non approda, tuttavia, a un vero e proprio accordo.
Il reato di corruzione ex art. 319 c.p. rientra anch’esso nel novero dei reati-
presupposto ex d.lgs. n. 231/2001.
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CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI
Art. 319-ter c.p. <<Se i fatti indicati negli artt. 318 e 319 sono commessi per favorire
o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la
pena della reclusione da 6 a 12 anni.
Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a 5
anni, la pena è della reclusione da 6 a 14 anni; se deriva l’ingiusta condanna alla
reclusione superiore a 5 anni o all’ergastolo, la pena è della reclusione da 8 a 20
anni.>>
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Ciò non toglie, naturalmente, che sullo sfondo si scorga la sagoma del più generale
interesse al buon andamento e all’imparzialità della P.A.
Quanto ai soggetti attivi, l’opinione prevalente reputa tali solo coloro i quali abbiano
il potere giuridico di compiere <<atti giudiziari>>, ossia atti la cui funzione tipica sia
quella di incidere sull’esercizio della funzione giudiziaria.
Soggetti attivi di una corruzione giudiziaria non possono essere, invece, gli incaricati
di un pubblico servizio.
L’art. 319-ter non contiene un’autonoma descrizione delle condotte incriminate;
queste vengono individuate a mezzo di rinvio agli artt. 318 e 319.
L’elemento specializzante della fattispecie (e dunque ciò che la distingue rispetto
alle forme base di corruzione) è costituito dal finalismo che deve connotare l’intera
vicenda. Perché si abbia corruzione giudiziaria, occorre infatti che le condotte
indicate negli artt. 318 e 319 siano commesse per favorire o danneggiare una parte
in un processo civile, penale, amministrativo>>.
(Discusso è se danneggiati siano anche la persona sottoposta ad indagini e la persona offesa; la dottrina prevalente
propende per la soluzione positiva.)
La specialità del reato è tutta concentrata, dunque, nei contenuti dell’elemento
finalistico, o dolo specifico, che lo caratterizza.
L'interesse tutelato dalla norma incriminatrice è costituito dalla tutela del regolare
funzionamento dell'amministrazione, sotto il profilo del buon andamento e
dell'imparzialità della P.A. La punibilità del soggetto privato indotto fa sì che l'unica
persona offesa debba essere individuata nella P.A.
Deve invece escludersi che possa parlarsi di reato plurioffensivo (in tal senso, v. da
ultimo, Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 1228). Invero, la possibilità di configurare
anche in relazione all’art. 319-quater c.p. quale oggetto di tutela la libertà di
autodeterminazione della vittima si pone in termini di assoluta incompatibilità con la
previsione della sua punibilità. Anche, infatti, a voler estendere l’induzione in
relazione a quelle ipotesi in cui la libertà del privato pur se non compressa è, al più,
limitata, appare un controsenso affermare da una parte che oggetto di tutela è la
34
autodeterminazione del privato e, dall’altra, prevedere la punibilità di quest’ultimo
nel caso in cui aderisca alle richieste del pubblico agente.
Soggetto attivo può essere, oltre che il pubblico ufficiale, anche l'incaricato di un
pubblico servizio. Come ovvio, la specifica qualifica soggettiva deve essere presente
al momento del compimento del fatto di reato, non potendo parlare di induzione
indebita nel caso in cui il fatto sia stato commesso prima che il soggetto abbia
rivestito detta qualifica o in un momento successivo alla cessazione.
Il reato può essere commesso dal soggetto che possiede la qualifica non solo
personalmente ma anche attraverso l'intermediazione di un soggetto privato, ma in
questo caso è necessario che la vittima abbia la piena consapevolezza che il denaro
o l'altra utilità sia voluta effettivamente dal funzionario pubblico attraverso
l'intermediazione del soggetto terzo.
Da ciò ne deriva la necessità che il pubblico funzionario sia concretamente ed
effettivamente individuato, anche se non nominativamente, posto che è a costui che
deve essere riferito lo stato di soggezione e di coartazione che si è venuto a
determinare anche per effetto dell'intermediario.
I reati di concussione o di induzione indebita sono configurabili anche se il
destinatario della pressione abusiva sia un altro pubblico ufficiale, ma, in tali casi,
l'effetto coartante o induttivo sulla libertà di autodeterminazione deve essere
apprezzato con particolare prudenza, in considerazione dell'elevato grado di
resistenza che ci si aspetta dal soggetto che riveste la qualifica pubblicistica, il quale,
secondo la fisiologica dinamica dello specifico rapporto intersoggettivo, deve
rendere recessiva la forza intimidatrice o persuasiva di cui è oggetto (Cass. pen., Sez.
VI, 10 marzo 2015, n. 22526).
Come già accennato, il soggetto passivo del reato è da rinvenire esclusivamente
nella P.A., lesa nella sua imparzialità e nel suo buon funzionamento dalla condotta
delittuosa, con esclusione di qualsivoglia lesione meritevole di tutela in capo al
privato destinatario della condotta di induzione.
La punibilità del reato è subordinata alla clausola di riserva relativa a che il fatto non
costituisca più grave reato, il che sembra fare riferimento alla corruzione propria
punita con una sanzione più grave; analoga clausola di riserva non è, invece,
contemplata nel comma 2 dell'art. 319-quater, che prevede la punibilità del
soggetto indotto, con la conseguenza che costui continuerà a rispondere del reato
anche quando il pubblico funzionario sia chiamato a rispondere del reato di cui
all'art. 319 c.p.
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Come ha affermato importante giurisprudenza, sussiste continuità normativa fra la
concussione per induzione di cui al previgente art. 317 ed il nuovo reato di induzione
indebita a dare o promettere utilità di cui all'art. 319-quater, introdotto dalla l. n.
190 del 2012, considerato che la pur prevista punibilità, in quest'ultimo, del soggetto
indotto non ha mutato la struttura dell'abuso induttivo, fermo restando, per i fatti
pregressi, l'applicazione del più favorevole trattamento sanzionatorio di cui alla
nuova norma (Cass. pen., Sez. Un., 24 ottobre 2013, n. 12228).
DISTINZIONE TRUFFA/INDUZIONE:
E' pacifica la configurazione del tentativo, che si realizza quando il pubblico agente
compie atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre il privato a dare o
promettere, qualora ciò non sia seguito né dalla promessa o dalla dazione.
Le condotte del soggetto pubblico che induce e del privato indotto si perfezionano
autonomamente ed in tempi diversi, sicché il reato si configura in forma tentata nel
caso in cui l'evento non si verifichi per la resistenza opposta dal privato alle illecite
pressioni del pubblico agente.
Con la l. n.190/2012 pure l’induzione indebita è entrata a far parte del catalogo dei
reati la cui commissione può far sorgere la responsabilità dell’ente ex. d.lgs. n.
231/2001.
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ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE
Art. 322 c.p. <<Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti ad un
pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle sue
funzioni o dei suoi poteri, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia
accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’art. 318, ridotta di un terzo.
Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di
un pubblico servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio, ovvero a fare
un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa
non sia accettata, alla pena stabilita nell’art 319, ridotta di un terzo.
La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un
pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per
l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
La pena di cui al secondo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un
pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità da
parte di un privato per le finalità indicate dall’art. 319. >>
Nel nostro ordinamento vige un principio generale espresso dall’art. 115, comma 3,
c.p. in base al quale si esclude la punibilità della condotta di istigazione a
commettere un reato “se la istigazione è stata accolta ma il reato non è stato
commesso”. La ratio della norma è quella di sancire l’irrilevanza penale dei soli
propositi criminosi in aderenza al principio, cardine nel sistema penale, di necessaria
offensività, che trova il suo referente normativo negli articoli 25 e 27 della
Costituzione. In base a tale principio il reato può essere considerato tale solo
qualora integri una effettiva offesa in termini di lesione o messa in pericolo del
bene-interesse protetto, pertanto la mera sollecitazione “sterile” a commettere un
reato non integra il “minimum” di offesa penalmente rilevante.
Tuttavia il legislatore ha derogato a tale principio, individuando alcune ipotesi in cui
la condotta di sollecitazione integra un vero e proprio reato. Si tratta di fattispecie
tipiche che anticipano la soglia della punibilità e perseguono, come fatti illeciti
consumati, condotte meramente prodromiche alla realizzazione di un reato.
Tra tali fattispecie vi è l’art. 322 c.p., relativo alla istigazione alla corruzione,
modificato dalla l. n. 86 del 1990: attualmente la norma contempla entrambe le
ipotesi di corruzione, quella attiva e quella passiva.
Pertanto sia nel caso in cui l’offerta o la promessa di denaro o di altra utilità non
dovuti, al fine di perseguire determinate finalità, provenga da un pubblico ufficiale o
incaricato di un pubblico servizio, sia nel caso in cui provenga da un privato, la
condotta criminosa verrà punita, tuttavia se questa sia seguita dal mancato
accoglimento della promessa o della offerta, sarà ridotta di un terzo la pena prevista
per il reato di corruzione.
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L’istigazione disciplinata dalla norma si riferisce sia all’ipotesi di
corruzione propria sia a quella impropria di cui agli artt. 318 e 319 c.p. le quali si
differenziano a seconda che il pubblico agente riceva denaro od altra utilità, ovvero
ne accetti la promessa, per commettere, oppure omettere o ritardare un atto
contrario ai doveri d’ufficio; ovvero per compiere un atto conforme ai doveri
d’ufficio. Inoltre, la norma dell’art. 322 c.p. si riferisce anche alla distinzione delle
condotte in antecedenti o susseguenti, a seconda che la promessa o la dazione
segua o meno il compimento dell’atto, ovvero il ritardo o l’omissione dello stesso.
La riforma del 1990, inoltre, ha eliminato il riferimento alla funzione del denaro o
altra utilità come “retribuzione non dovuta”, tuttavia la dottrina ha ritenuto che vista
la rilevanza dell’idea della “proporzionalità tra le due corrispettive prestazioni del
privato o del pubblico ufficiale” che caratterizza in generale tutte le forme di
corruzione, tale requisito vada comunque accertato anche nei casi di istigazione.
Nell’art. 322 c.p. manca tuttavia, il richiamo alla fattispecie dell’art. 319 ter c.p.
relativa alla corruzione in atti giudiziari, così ci si è chiesti quale sia la disciplina
giuridica applicabile nel caso in cui la proposta di conclusione dell’accordo criminoso
abbia per oggetto un atto giudiziario.
Pertanto si sono delineati due orientamenti in dottrina: il primo ritiene che sia
possibile individuare nella norma un implicito riferimento anche a tale fattispecie
delittuosa, dato il richiamo agli art. 318 e 319 c.p., che a sua volta sono richiamati
dal 319 ter c.p.
Il secondo orientamento ritiene che dal mancato richiamo all’art. 319 ter c.p. derivi
l’impossibilità di configurare l’istigazione in caso di corruzione in atti giudiziari.
Per quanto concerne il bene giuridico tutelato dalla norma in esame, esso ricalca
sostanzialmente l’interesse protetto dalle forme di corruzione di cui agli artt. 318 e
319 c.p. trattandosi di attività dirette a conseguire i risultati tipici di questi due
delitti, con l’unica differenza dell’anticipazione della soglia della punibilità. In
particolare, in tema di corruzione impropria ex art. 318 c.p., l’orientamento
maggiormente persuasivo individua il bene giuridico protetto nell’interesse a che gli
atti d’ufficio non costituiscano oggetto di una compravendita privata. In tal modo si
vuole salvaguardare un rapporto Stato-cittadino non inquinato dall’intromissione di
interessi “privati” o “venali” del pubblico funzionario nel compimento di atti del suo
ufficio.
Le fattispecie disciplinate dal 322 c.p. sono reati di mera condotta, che si
consumano con l’offerta o la promessa, ovvero la sollecitazione dell’offerta o della
promessa.
Riconosciuto, poi, il carattere recettizio della condotta di istigazione - posto che
tanto l’offerta quanto la promessa assumono rilevanza penale solo nel momento in
cui vengono portate a conoscenza del destinatario - il delitto si consuma proprio in
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questo momento, ossia quando l’offerta o la promessa o la sollecitazione giungano a
conoscenza dello stesso. Individuato così il momento consumativo, tecnicamente
sarebbe configurabile anche il tentativo, ad esempio nel caso in cui l’offerta o la
promessa siano contenute in una lettera spedita al destinatario ed in seguito
intercettata dalla Polizia. Tuttavia, essendo già il delitto di cui all’art. 322 un’ipotesi
tentata, ammettere il tentativo di un tentativo anticiperebbe eccessivamente la
soglia di punibilità, tanto da non trovare una razionale giustificazione né sul piano
politico-criminale né sul piano dell’offensività.
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CORRUZIONE INTERNAZIONALE
(Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità,
corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale
internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari
delle Comunità europee e di Stati esteri)
L’art. 322 non si occupa di fatti di corruzione nei quali la transazione corruttiva veda
come protagonista un pubblico ufficiale dello Stato italiano, e che sia caratterizzato
per la particolarità che la condotta corruttiva si svolge, in tutto o in parte, in
territorio straniero, come nel caso in cui la tangente al pubblico ufficiale venga
pagata con l’accredito su un conto corrente aperto all’estero e con provvista
proveniente da altro conto aperto ugualmente all’estero. Queste ipotesi
appartengono alla categoria della c.d. “corruzione domestica”, e rimangono regolate
dagli artt. 318, 319, 319-ter e quater, 320 e 321 c.p., senza che il locus commissi
delicti, situato fuori dal territorio italiano, comporti la necessità di applicare norme
diverse da quelle pensate per corruzioni commesse in territorio nazionale.
L’art. 322-bis è, invece, una norma creata appositamente per quei fatti di corruzione
(e non solo) commessi da un pubblico agente straniero o internazionale,
contrassegnati dunque dalla presenza attiva di un pubblico agente non italiano, e
che per l’appunto incrimina episodi di <<peculato, concussione, induzione indebita a
dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della
Corte penale internazionale o degli organi delle Comunità europee e di funzionari
delle Comunità europee e di Stati esteri>>.
Quindi, la funzione dell’art. 322-bis consiste nell’estendere l’applicazione di talune
norme incriminatrici di gravi delitti contro la P.A. a soggetti operanti in diversi
contesti internazionali.
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Detto ciò la norma non si risolve assolutamente nella mera estensione soggettiva dei
delitti richiamati a una nuova platea di autori, ma individua una vera e propria
autonoma figura di reato contrassegnata dalla presenza di una pluralità di elementi
aggiuntivi specializzanti, e di un bene giuridico, rintracciabile nella tutela della
concorrenza e nell’efficienza dei mercati globalizzati, di fattura diversa dai
tradizionali interessi del buon andamento e dell’imparzialità della P.A.
Può accadere, poi, che la condotta contestata dal 322-bis sia lecita nell’ordinamento
dal quale il corrotto trae la propria qualifica pubblicistica. Si pensi a uno Stato in cui
il pagamento rivolto a un pubblico agente sia espressamente ammesso o richiesto
all’operatore economico che “giochi fuori casa”.
Senza accordare alcuna esenzione di pena nel caso in cui le pratiche corruttive
rispondano a curiosi costumi locali, la Convenzione OCSE esclude la penale rilevanza
del vantaggio concesso al pubblico agente straniero ove questo fosse <<permesso o
richiesto da disposizioni scritte di legge o di regolamento del Paese del pubblico
ufficiale straniero, inclusa la giurisprudenza.>>
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ABUSO D’UFFICIO
Art. 323 c.p. <<Salvo che il fatto non costituisca un più grava reato, il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o
del servizio, in violazione di norma di legge o di regolamento, ovvero omettendo di
astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti , intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da 1
a 4 anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di
rilevante gravità.>>
L'abuso d'ufficio è reato proprio, appartenente alla fattispecie dei delitti contro la
P.A., in quanto può essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale, ovvero, a
seguito della novella introdotta dalla l. n. 86/1990, da un incaricato di pubblico
servizio.
Non è necessaria un'investitura formale, essendo sufficiente che il soggetto attivo
eserciti, anche di fatto, pubbliche funzioni, con l'acquiescenza o il concorso della P.A.
Così, la S.C. ha ritenuto possano essere soggetti attivi del reato di abuso d'ufficio:
- il notaio, che riveste la qualità di pubblico ufficiale non solo nell'esercizio del suo
potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la complessa attività posta in essere,
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disciplinata dalle norme di diritto pubblico e diretta alla formazione di atti pubblici
(Cass. n. 47178/2009);
- il medico specialista di una struttura pubblica, il quale per conseguire un
vantaggio patrimoniale indirizzi i pazienti verso un laboratorio privato del quale lo
stesso sia socio per l'espletamento di esami che potevano anche eseguirsi presso
una struttura pubblica (Cass. n. 27936/2008);
- il dipendente di Poste Italiane S.p.A., addetto all'accettazione della
corrispondenza che utilizzi la sua funzione per inviare indebitamente alla rete di
distribuzione pubblica la corrispondenza privata priva della richiesta affrancatura
(Cass. n. 37775/2010);
- il magistrato che "aggirando il precetto della legge, ha concentrato gli incarichi
di consulenza nelle mani di un ristretto gruppo di soggetti i quali avevano, d'altro
canto, percepito onorari illegittimi, in violazione del limite normativamente stabilito
delle 8 vacazioni giornaliere" (Cass. n. 16895/2008).
Nel delitto in esame possono, tuttavia, concorrere anche i privati: sulla base dello
schema tradizionale del concorso di persone nel reato, una volta dimostrata la
responsabilità dell'"intraneus", e, quindi, integrata la fattispecie delittuosa, può
configurarsi il concorso nel reato del privato che sia destinatario dei benefici
conseguenti all'atto abusivo, laddove questi, tramite la sua condotta, abbia avuto un
ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato e sempre che fosse a
conoscenza della qualità dell'intraneus.
In ordine all'elemento soggettivo del reato, a seguito della novella introdotta dalla l.
n. 234/1997, occorre che l'abuso sia commesso dall'agente allo scopo di perseguire
un ingiusto vantaggio o un danno "intenzionalmente".
L'attuale formulazione della fattispecie delittuosa non delinea più, come nella
disciplina previgente, un reato di evento a dolo specifico bensì a dolo generico che,
rispetto all'evento che ne completa la struttura, assume la forma necessaria del
"dolo intenzionale".
Pertanto, l'intenzionalità richiesta oggi dalla norma incriminatrice restringe l'ambito
dell'elemento soggettivo del reato ex art. 323 c.p., rendendo penalmente
perseguibili esclusivamente le condotte poste in essere con un acclarato grado di
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partecipazione dell'agente, il quale, per integrare il disvalore della fattispecie, deve
agire proprio allo scopo di procurare o procurarsi un ingiusto profitto patrimoniale
ovvero di arrecare un danno ingiusto (Cass. n. 4979/2010).
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RIVELAZIONE E UTILIZZAZIONE DI ATTI
D’UFFICIO
Art. 326 c.p. <<Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio,
che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della
sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola
in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a 1 anno.
Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare
a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie
d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da 2 a 5 anni.
Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non
patrimoniale o di cagionare ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di
cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a 2
anni.>>
L’art. 326 è posto in funzione della tutela penalistica del cd “segreto d’ufficio” sul
presupposto dell’esistenza di interessi di natura pubblicistica a che determinate
informazioni non vengano divulgate.
Il bene giuridico protetto dalla norma è infatti comunemente individuato, tanto in
dottrina quanto in giurisprudenza, nell’esigenza di tutela del buon andamento e nel
buon funzionamento della P.A.
Quanto ai soggetti attivi, per espressa previsione normativa, destinatario dei divieti
di cui al suddetto art. è il pubblico ufficiale e l’incaricato di un pubblico servizio. È
opportuno sottolineare che la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato
è commesso, non esclude l’esistenza della fattispecie criminosa.
La norma in commento non considera, invece, quali soggetti attivi, gli esercenti un
servizio di pubblica necessità che dunque, al più, potrebbero essere chiamati a
rispondere degli artt. 622 e 621 c.p.
Quanto all’oggetto materiale del reato, tutte le ipotesi criminose ivi contenute
considerano tale <<le notizie d’ufficio che devono rimanere segrete>>. Ciò significa
che, perché le condotte di rivelazione, agevolazione o utilizzazione di notizie segrete
assumano rilevanza ai sensi dell’art. 326, è necessario non solo che siano
oggettivamente afferenti all’ufficio dell’agente, ma che siano state poste in essere
con la consapevolezza di violare i doveri relativi alle funzioni o al servizio svolto
sfruttando la propria posizione privilegiata.
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Anche nelle ipotesi in cui le notizie siano state apprese con abuso di qualità è
necessario, affinché possa trovare applicazione il 326, che le informazioni siano
oggettivamente pertinenti con l’ufficio o col servizio dell’agente.
Quanto alla condotta, l’art. 326 prevede e sanziona ben quattro ipotesi di condotte:
Ora, la rivelazione consiste nel render noto un certo atto o fatto della P.A. destinato
a rimanere segreto (e pertanto conoscibile solo dai soggetti legittimati) mediante
qualsivoglia modalità, rectius forma, e dunque oralmente, per iscritto, mediante
gestualità o persino con allusione che risulti idonea allo scopo. Si esclude, invece,
che la condotta tipica possa consistere in un’omissione.
L’agevolazione delle conoscenza consiste in qualsivoglia condotta, anche omissiva,
in grado di facilitare l’apprensione della notizia segreta da parte del soggetto non
legittimato. L’agevolazione può essere non solo dolosa ma anche colposa: ad
esempio, A lascia di proposito aperta la cassaforte ove è custodito un documento
segreto sapendo che B non mancherà di approfittarne (dolo); C lascia distrattamente
alla libera vista un atto riservato che viene fotocopiato da D (colpa).
In relazione alle ipotesi di cui al comma 1 è richiesto il dolo generico, che consiste
nella coscienza e volontà di rivelare o agevolare la conoscenza della notizia,
destinata, invece, a rimanere segreta.
Soltanto per la condotta di agevolazione di cui al comma 2 si estende la punibilità
anche alle ipotesi colpose.
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Per l’utilizzazione di cui al comma 3 è richiesto, invece, un dolo specifico, vale a dire
l’intenzionalità di procurare a sé o altri un ingiusto profitto patrimoniale o non
patrimoniale ovvero di cagionare ad altri un danno ingiusto.
Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui l’extraneus non legittimato
apprende la notizia che invece sarebbe dovuta rimanere segreta o in cui si concreta
il fatto che ne agevola la conoscenza. I delitti di cui al comma 3, invece, si
consumano nel luogo e nel momento in cui il soggetto pubblico si avvale della
notizia obiettivamente segreta.
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RIFIUTO E OMISSIONE DI ATTI D’UFFICIO
Art. 328 c.p. <<Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che
indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o sicurezza
pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza
ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio che entro 30 giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non
compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è
punito con la reclusione sino ad 1 anno o con la multa fino a 1.032 euro.
Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di 30 giorni decorre
dalla ricezione della richiesta stessa.>>
L’art. 328, nella formulazione introdotta con la riforma del 1990 (l. n. 86/1990),
prevede due autonome fattispecie incriminatrici:
a) con la prima, per la quale è prevista una pena più grave, è sanzionato il fatto del
pubblico ufficiale o incaricato di pubblica sicurezza che rifiuta indebitamente un atto
che, per ragioni specifiche, indicate dalla norma, deve essere compiuto senza
ritardo;
b) con la seconda fattispecie è incriminata la condotta consistente nel non compiere,
entro 30 giorni dalla richiesta di chi abbia interesse, l’atto dovuto, senza rispondere
per esporre le ragioni del ritardo.
Pertanto, il legislatore ha previsto, su due diversi piani di disvalore, da un lato, una
condotta incentrata sul rifiuto di un’attività “qualificata” e, dall’altro, e in via
sussidiaria, l’omissione di un atto “sollecitato” da chi abbia interesse al suo
compimento>>.
Quanto alla condotta punibile nell’attuale formulazione, come già considerato, l’art.
328 distingue, rispettivamente nei commi 1 e 2, la condotta di rifiuto di un atto
qualificato che deve essere compiuto senza ritardo da quella di omissione di un
atto d’ufficio. Nel comma 2, inoltre, introduce anche l’elemento della richiesta
scritta e del termine di 30 giorni dalla medesima, scaduto il quale diviene
penalmente rilevante l’inerzia del pubblico ufficiale, o incaricato di un pubblico
servizio, salvo che lo stesso non risponda per esporre le ragioni del ritardo.
Per quanto attiene al rifiuto, la Suprema Corte ha avuto modo di specificare che la
condotta di rifiuto prevista dal 238 si verifica non solo a fronte di una richiesta o di
un rodine, ma anche quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva del
compimento dell’atto, in modo tale che l’inerzia del pubblico ufficiale assuma la
valenza di rifiuto dell’atto medesimo.
Esempio pratico: la Cassazione ha ritenuto integrato il reato de quo nei riguardi del
responsabile dell’ufficio tecnico di un comune che ha rifiutato di predisporre senza
ritardo misure idonee ad eliminare il pericolo esistente in una strada comunale che
presentava anomalie trasversali del manto stradale dovute alla presenza pericolosa
di radici di alberi (il cui stato di abbandono e degrado era stato oggetto di numerose
segnalazioni da parte della Polizia municipale nonché dei privati) né tantomeno
aveva avuto l’accortezza di segnalarne la presenza agli utenti predisponendo la
collocazione di un’apposita segnaletica.
Alcun problema interpretativo circa il rifiuto implicito, unanimemente riconosciuto
come integrante la condotta criminosa sul presupposto che lo stesso sia del tutto
equiparabile a un rifiuto espresso tutte le volte che il pubblico ufficiale sia
consapevole del proprio dovere di agire e rimanga inerte.
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Il reato in esame è infine integrato (esclusivamente) quando l’atto in questione
debba essere compiuto senza ritardo. Si sostiene che, dovendo trattarsi di un atto
indifferibile, è necessario che sia la legge a prescrivere che lo stesso debba compiersi
senza ritardo.
Per la configurabilità del reato in esame è richiesto il dolo, ossia l’agente deve
rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius. Da ciò discende che
l’agente dovrà in primis essere consapevole dell’esistenza di un dovere di agire a suo
carico e che, in mancanza di tale consapevolezza, ricorrerà l’ipotesi di cui all’art. 47,
comma 3, c.p. in punto di errore su legge extra penale che abbia determinato un
errore sul fatto.
Passando all’analisi del comma 2, questo si apre con una cd “clausola di chiusura”,
ossia <<fuori dai casi previsti dal comma 1>>. Ciò significa che l’incriminazione in
commento diviene operativa solo a condizione che la condotta del pubblico agente
non sia già sussumibile nella fattispecie di cui al comma 1.
Essa prevede la necessità di una richiesta scritta (e di una legittimazione ad
avanzarla) con un termine rigidamente fissato in 30 giorni dalla ricezione della
richiesta e la possibilità per il pubblico agente di esporre le ragioni del suo ritardo.
Essa ruota dunque sulla successione di una serie di passaggi prestabiliti.
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INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO
PUBBLICO O DI PUBBLICA NECESSITA’
Art. 331 c.p. <<Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità,
interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende,
in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da 6 mesi a 1
anno e con la multa non inferiore a euro 516.
I capi, promotori e organizzatori sono punibili con la reclusione da 3 a 7 anni e con la
multa non inferiore a euro 3.098.>>
La posizione che ammette la configurabilità del tentativo sia nei casi di interruzione
che di sospensione è senz’altro preferibile, in quanto l’imprenditore ben può porre
in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco all’interruzione del lavoro senza
che la cessazione di questo avvenga (ad esempio, per rifiuto delle maestranze), o
senza che l’evento del turbamento del servizio si verifichi per cause indipendenti
dalla volontà del soggetto agente (come nel caso in cui lo stesso servizio venga
assicurato da altro imprenditore, anche con mezzi straordinari).
L’art. 331 al comma 2 prevede, poi, un aumento di pena per i capi, i promotori e gli
organizzatori dell’interruzione del servizio o della sospensione del lavoro, ossia per
coloro che assumano un ruolo significativo sotto il profilo dell’iniziativa, della
direzione o del comando.
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CONFISCA
Art. 322-ter c.p. <<Nel caso di condanna, o di applicazione della pena su richiesta
delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei
delitti previsti dagli articoli da 314 a 320, anche se commessi dai soggetti indicati
nell'articolo 322-bis, primo comma, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne
costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al
reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la
disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.
Nel caso di condanna, o di applicazione della pena a norma dell'articolo 444 del
codice di procedura penale, per il delitto previsto dall'articolo 321, anche se
commesso ai sensi dell'articolo 322-bis, secondo comma, è sempre ordinata la
confisca dei beni che costituiscono il profitto salvo che appartengano a persone
estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il
reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e,
comunque, non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse al
pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio o agli altri soggetti indicati
nell'articolo 322-bis, secondo comma.
Nei casi di cui ai commi primo e secondo, il giudice, con sentenza di condanna,
determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto
costituenti il profitto o il prezzo del reato ovvero in quanto corrispondente al profitto
o al prezzo del reato.>>
a) una prima, nel caso vi sia una sentenza di condanna o di applicazione della pena
su richiesta delle parti per i delitti previsti dagli artt. 314-320 c.p., anche se
commessi dai pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio comunitari o di stati
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membri dell’UE o da soggetti privati che agiscono nei confronti di funzionari di altri
stati esteri o di organizzazioni pubbliche internazionali;
b) una seconda, sempre di natura speciale, prevista per il delitto di cui all’art. 321
c.p., anche se commesso ai sensi dell’art. 322-bis, comma 2.
La norma in esame dispone, nei suddetti casi, che <<è sempre ordinata la confisca
dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a
persona estranea al reato>>; tuttavia, qualora non sia possibile tale forma di
confisca, la disposizione richiede che si proceda <<alla confisca di beni di cui il reo ha
la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto>>.
Definita come una sorta di “espropriazione” da parte dello Stato di beni che
costituiscono il prezzo o il profitto del reato, la confisca in esame, come tutte le cd.
“confische speciali”, ha natura obbligatoria e può essere disposta sia nella sua
forma tradizionale sia in quella per equivalente.
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TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE
Come è noto, la l. n. 190/2012 (riforma Severino) aveva introdotto, all’art. 346 bis
c.p., il delitto di traffico di influenze illecite, recentemente riformato dalla l. n. 3 del
9 gennaio 2019 in tema di “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica
amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di
trasparenza dei partiti e movimenti politici”, in vigore dal 31.1.2019.
Il delitto punito dall’art. 346 bis c.p. non è solo più figura sussidiaria rispetto ad un
concorso di persone nei delitti di corruzione propria (art. 319 c.p.) e di corruzione in
atti giudiziari (art. 319 ter c.p.), ma anche rispetto ad un concorso nei delitti di
corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e di corruzione comunitaria
ed internazionale (art. 322-bis c.p.). La scelta è coerente con l’estensione della
“causa” della dazione o della promessa del denaro o dell’altra utilità.
Assorbimento del millantato credito (il cui art. 346 è stato abrogato dalla l.
n.3/2019):
Il denaro o l’altra utilità sono oggi, nel reato base, il prezzo della mediazione illecita
verso il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o uno dei soggetti di cui
all’art. 322-bis c.p. ovvero la remunerazione per l’esercizio, da parte di uno di
questi, delle sue funzioni o dei poteri. Si osservi come, nella versione dell’art. 346-
bis c.p. antecedente alla riforma, ove il denaro o (l’allora) vantaggio patrimoniale
fosse corrisposto o promesso come remunerazione del soggetto pubblico, la dazione
o la promessa era relazionata esclusivamente al compimento di un atto contrario ai
doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto dell’ufficio. Alla luce di ciò, è
evidente che la riforma ha portato ad un’ulteriore e rilevante estensione della
punibilità rispetto alle possibili finalità della mediazione. Infatti, ove il denaro sia
dato o promesso per remunerare il soggetto pubblico, non è più essenziale che tale
remunerazione sia relazionata al compimento, da parte di questi, di un atto
contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
Questa ipotesi è oggi una fattispecie aggravata, ai sensi dell’art. 346-bis, 4° co., c.p.
congiuntamente al caso, già previsto dalla L. n. 190/2012, in cui «i fatti sono
commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie».
L’art. 346 bis c.p. prevede la punibilità, oltre che del mediatore (1° co.), del soggetto
che promette o dà il denaro o l’utilità (2° co.), il quale è soggetto alla pena
indipendentemente dal fatto che la relazione tra il mediatore e il pubblico ufficiale
esista o meno. La riforma dell’art. 346 bis c.p. comporta, pertanto, una nuova
incriminazione rispetto a chi dà o promette il denaro o l’altra utilità a fronte di una
relazione vantata e asserita, ma inesistente. Questi, vittima di un comportamento
decettivo, non era, infatti, punibile sotto l’art. 346 abrogato, mentre, con l’entrata in
vigore della L. n. 3/2019, lo diviene ai sensi dell’art. 346 bis, 2° co.
Le circostanze:
Nella disciplina delle aggravanti (speciali, ad effetto comune), il 3° co. dell’art. 346
bis c.p. prevede che il mediatore sia punito più gravemente se riveste la qualifica di
p.u. o di incaricato di pubblico servizio (3° co.); il 4° co., come già si è detto, prevede
un aumento di pena, da applicarsi anche ai fini del 2° co., nel caso in cui i fatti siano
commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie o in relazione al compimento
di una corruzione propria. Il 5° co. prevede, invece, un’attenuante speciale ad effetto
comune quando il fatto sia di particolare tenuità.
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Il trattamento sanzionatorio:
a) Pena principale
Ciononostante, rispetto al “vecchio” millantato credito, oggi assorbito dal nuovo art.
346-bis c.p., la disciplina della pena è più favorevole al reo e, pertanto, applicabile
retroattivamente ex art. 2, 4° co.; infatti, le pene previste dall’art. 346 bis c.p. (anche
dopo la riforma del 2019 che pure le ha inasprite) sono più contenute rispetto a
quelle precedentemente previste dall’art. 346 c.p. (da 1 anno a 5 anni ex 1° co. e da
2 a 6 anni ex 2° co., oltre alla pena pecuniaria).
b) Pene accessorie
A tutti i soggetti punibili ex art. 346-bis c.p. sono applicate le pene accessorie di cui
all’art. 317 bis c.p. che, a seguito della stessa L. n. 3/2019 comprende oggi, quale
reato presupposto per cui vi è stata condanna, anche il traffico di influenze illecite
(senza distinguere tra ipotesi di cui al 1° e al 2° co., come, invece, avviene all’art. 317
bis, 1° co., c.p. per il delitto di cui all’art. 319-quater c.p.). Ciò comporta che, superati
i 2 anni di reclusione, scatta automaticamente l’interdizione perpetua dai pubblici
uffici e l’incapacità a contrarre con la p.a., a meno che non ricorra l’attenuante di cui
all’art. 323 bis, 1° co., c.p.
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