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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.

L’ambito applicativo 1.1.

1.1. L’AMBITO APPLICATIVO

1.1.1. Premessa
A quasi vent’anni dalla sua introduzione, la disciplina della responsabilità amministra-
tiva delle società e degli enti continua ad essere al centro del dibattito istituzionale,
atteso che il catalogo dei reati che ne determinano l’insorgere è stato oggetto di un
costante e progressivo ampliamento nel corso degli anni successivi alla prima emana-
zione della norma 1.
Fino all’entrata in vigore del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il nostro ordinamento non
contemplava forme dirette di responsabilità per gli enti. Ecco perché l’adozione di
questo provvedimento può senza dubbio essere considerata una svolta storica: con
esso, infatti, il legislatore ha fornito una risposta all’esigenza di non lasciare impuniti
quei soggetti, diversi dalle persone fisiche che pur hanno compiuto materialmente
l’illecito, che traggono un interesse o un vantaggio dai reati commessi.
Per introdurre la responsabilità amministrativa degli enti si è dovuto in qualche modo
“aggirare” il principio sancito nell’art. 27 della Costituzione, secondo il quale la respon-
sabilità penale è personale, dal quale storicamente si è fatta discendere l’impossibilità di
configurare una responsabilità penale a carico di soggetti diversi dalle persone fisiche.
Un’interpretazione restrittiva di tale norma, infatti, vieta l’individuazione dell’ente quale
soggetto attivo nella commissione di un reato, dovendo la responsabilità penale neces-
sariamente afferire ad una persona fisica capace di formare autonomamente una vo-
lontà propria.
Non solo. Alla configurabilità di una responsabilità penale in capo alle persone giuridi-
che si è sempre opposta una questione di giustizia “sostanziale”, ritenendosi iniquo che
la sanzione penale irrogata nei confronti della società, colpendo il patrimonio sociale, di
fatto danneggi tutti i soci, anche quelli completamente estranei all’illecito.
Tuttavia, se l’assunto di partenza è senz’altro corretto, con il passare del tempo non si è
potuto ignorare come di fronte al mutamento dello scenario, sempre più caratterizzato
da fenomeni di criminalità economica di cui le imprese sono protagoniste indiscusse, la
non imputabilità alle stesse di taluni reati e il solo ricorso alle sanzioni civili rendessero
ormai inadeguato il sistema complessivo di prevenzione.
Nel frattempo, l’assunzione di impegni a livello internazionale da parte dello Stato ha
indotto il legislatore a conferire all’esecutivo la delega per l’emanazione di un Decreto
che, nel disciplinare la responsabilità amministrativa degli enti, ratificasse i precedenti
accordi pattizi 2.
Si è giunti cosı̀ al Decreto 231, attraverso il quale si è inteso adeguare il sistema

1
Il catalogo dei reati è aggiornato alla data del 30 luglio 2020 (ultimo provvedimento inserito: D.Lgs.
14 luglio 2020, n. 75) che ha visto l’introduzione del reato di contrabbando (art. 25-sexiesdecies, D.Lgs.
n. 231/2001).
2
Il riferimento è all’art. 11 della Legge 29 settembre 2000, n. 300, di ratifica ed esecuzione di alcune
Convenzioni internazionali relative alla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle ope-
razioni economiche internazionali, dei funzionari degli Stati membri dell’Unione Europea e della tutela

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

repressivo al nuovo scenario economico, ritenendosi che solo sanzionando i compor-


tamenti illeciti dei soggetti economici sia possibile contribuire alla creazione di un
sistema di regole a garanzia di una corretta concorrenza sui mercati.
L’introduzione di una disciplina della responsabilità delle imprese, peraltro, non risponde
esclusivamente all’esigenza di tutelare interessi comunitari, essendo volta a realizzare la più
ampia volontà di equiparare, quantomeno dal punto di vista penalistico, l’azione di singoli
soggetti a quella di organismi plurisoggettivi 3. La scelta di applicare sanzioni penali ad enti
diversi dalle persone fisiche, infatti, è indipendente dall’ordinamento giuridico dello Stato,
in quanto risponde piuttosto all’esigenza politica di porre rimedio alle conseguenze nega-
tive derivanti dalle attività illecite poste in essere da tali enti. In altre parole, si è preso atto
che il superamento del principio societas delinquere non potest costituisce una naturale
conseguenza dell’evolversi del concetto di impresa, sempre più riconosciuta quale media-
trice degli interessi di quei soggetti che a vario titolo con la stessa interagiscono.
Sulla natura giuridica della responsabilità dell’ente si è ampiamente dibattuto fin dai
primi anni successivi all’emanazione del Decreto 231, come dimostrano i cospicui
contributi della dottrina sul tema 4.
Il legislatore nel D.Lgs. n. 231/2001 l’ha definita “responsabilità amministrativa” benché
nella Relazione accompagnatoria si escluda che tale denominazione abbia anche un
valore classificatorio esplicito. Si è discusso a lungo, in dottrina e giurisprudenza, sul
punto perché il problema non è puramente teorico, ma influisce, stante le lacune
presenti nel Decreto ed i frequenti rinvii a fini di coordinamento a normativa esterna
in esso contenuti, sull’applicazione pratica della normativa e, soprattutto, sulla sua
conformità alla Costituzione ed ai principi dell’ordinamento giuridico.
Di seguito alcuni orientamenti 5.

Natura della responsabilità – primo orientamento: amministrativa


Secondo un primo orientamento la responsabilità delineata dal D.Lgs. n. 231/2001 è di
natura amministrativa perché:

(continua)
delle finanze comunitarie. Sul ruolo degli atti internazionali nell’introduzione della responsabilità
amministrativa degli enti S. Delsignore, in A.A.V.V., Enti e responsabilità da reato, a cura di A.
Cadoppi – G. Garuti – P. Veneziani, Torino, 2010, pagg. 63 ss.
3
Cosı̀ M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni: profili generali,
in Riv. soc., 2002, pag. 394.
4
Si vedano, ex multis, anche per i riferimenti bibliografici ivi richiamati, N. Abriani, “Il modello di
prevenzione dei reati nel sistema dei controlli societari”, in Diritto penale dell’economia a cura di A.
Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Torino, 2019, pp. 2778-2819; AA.VV., Modello organizza-
tivo dlgs. 231 e Organismo di Vigilanza, a cura di P. Vernero – M. Boidi – R. Frascinelli, II Ed.,
Eutekne, Torino, 2019, pag. 509; AA.VV., La responsabilità amministrativa delle società e degli enti,
commentario diretto da M. Levis e A. Perini, Zanichelli, Bologna, 2014; A. De Vivo, Profili sostanziali,
in F.M. D’Andrea – A. De Vivo – L. Martino, I modelli organizzativi ex d.lgs. 231/2001. La responsa-
bilità amministrativa delle imprese, Milano, 2006.
5
https://www.studiorebellato.it/2020/03/01/dlgs-231-2001-la-natura-della-responsabilita-amministra-
tiva-degli-enti/

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L’ambito applicativo 1.1.

• non è possibile individuare la colpevolezza, ossia l’elemento soggettivo del reato,


in un soggetto inanimato;
• non è possibile parlare di rieducazione del condannato in relazione ad un soggetto
inanimato;
• non è possibile applicare ad un soggetto inanimato sanzioni che possano ledere il
senso di umanità (che esso, in quanto inanimato, non ha);
• la disciplina della prescrizione (quinquennale) dettata dall’art. 22 del D.Lgs. n. 231/
2001 che prevede la sospensione della stessa dal momento dell’applicazione al-
l’ente delle misure cautelari e/o dalla contestazione dell’illecito da parte del Pub-
blico ministero sino alla conclusione del processo, si rifà al modello previsto dalla
Legge n. 689/1981 per gli illeciti amministrativi e non alla disciplina della prescri-
zione contenuta nel c.p. (ante c.d. Riforma Bonafede entrata in vigore nel gennaio
2000);
• la disciplina delle vicende modificative dell’ente (artt. 28-31, D.Lgs. n. 231/2001) è
di stampo civilistico con la conseguenza che la responsabilità “amministrativa” da
reato permane in capo all’ente anche in caso di trasformazione, fusione o scissione,
all’evidente scopo di evitare che la modifica formale della veste giuridica dell’ente
diventi strumento di esenzione dalla responsabilità;
• assenza nel D.Lgs. n. 231/2001 dell’istituto della sospensione condizionale della
pena, cosı̀ come accade nella Legge n. 689/1981 per gli illeciti amministrativi.

Natura della responsabilità – secondo orientamento: penale


In base ad un secondo orientamento si tratterebbe, invece, di una vera e propria
responsabilità penale perché:
• l’uso della locuzione “responsabilità amministrativa” dipende da una mera scelta
politica e non ha alcuna valenza effettiva nell’individuazione della natura della
responsabilità;
• sussiste identità fattuale tra il reato e l’illecito attribuito all’ente e, quindi, l’interesse
violato è della stessa natura (penale);
• l’accertamento della responsabilità dell’ente è affidato al giudice penale, cosı̀ come
al Pubblico ministero è affidato il compito di sostenere l’accusa in giudizio (artt. 36-
38, D.Lgs. n. 231/2001);
• la disciplina normativa è ricca di istituti tipici del diritto penale quali:
1) la punibilità del tentativo (art. 26);
2) il principio di successione delle leggi nel tempo e di retroattività della norma più
favorevole (art. 3);
3) la rilevanza extraterritoriale attribuita all’illecito dell’ente (art. 4);
4) la previsione di un sistema di misure di sicurezza che, seppure definite amministra-
tive, sono di ispirazione penale.

Natura della responsabilità – terzo orientamento: mista


Secondo un terzo orientamento la responsabilità attribuita agli enti dal D.Lgs. n. 231/
2001 configurerebbe un tertium genus di natura mista penale/amministrativa. Tale
soluzione è espressamente menzionata nella Relazione accompagnatoria del D.Lgs. a

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1.1. L’ambito applicativo

conferma che il legislatore ha preferito non affermare espressamente la natura esclusi-


vamente penale o amministrativa della responsabilità al fine di evitare problemi di
costituzionalità della normativa stessa. Tale ultimo orientamento sembra oggi prevalere
in giurisprudenza. La Suprema Corte, infatti, dopo aver inizialmente affermato la natura
amministrativa della responsabilità dell’ente, ha optato da ultimo per la teoria del ter-
tium genus nella nota sentenza “ThyssenKrupp” 6.
In definitiva, dall’impianto complessivo appare comunque chiara la volontà di far
emergere tale forma di responsabilità allorquando i comportamenti illeciti dei singoli
individui siano generati all’interno dell’ente e in qualche modo funzionali ad esso. La
relativa disciplina è finalizzata a disincentivare detti comportamenti in modo più effi-
cace di quanto possano fare le sanzioni individuali comminate al singolo soggetto,
muovendo dal principio che ad ogni forma associativa, con o senza personalità giuri-
dica, corrisponde un ben determinato centro di interessi e, conseguentemente, uno
specifico ambito di responsabilità: ove l’illecito venga commesso dalla persona fisica,
ma nell’interesse dell’ente, è dunque giusto che le conseguenze sanzionatorie del reato
ricadano su quest’ultimo.

1.1.2. I destinatari della normativa: la nozione di “ente”


Quando si parla di “ente” si intende fare riferimento al comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n.
231/2001, nel quale si circoscrive l’ambito di applicazione delle disposizioni in esso
contenute a tutti gli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche
prive di personalità giuridica.
E in effetti, proprio dalla disposizione citata sono sorte talune importanti problematiche
applicative. Se è indubbio che sono soggetti passivi le persone giuridiche private, le
società di persone, quelle di capitali e le cooperative, le associazioni non riconosciute,
nonché gli enti pubblici economici, dall’ampiezza lessicale della norma appare corretto
desumere che sia necessario, di volta in volta, valutare quale sia la natura effettiva
dell’ente, senza limitarsi al nomen iuris, essendo la discriminante non già nella tipologia
di soggetto, bensı̀ nell’attività da esso svolta.
Tale ragionamento non è applicabile allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti
pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale
(es. partiti politici e sindacati), espressamente esclusi dall’ambito applicativo del De-
creto per effetto di quanto disposto dal comma 3 dell’art. 1 7. Il legislatore, infatti,
esclude espressamente dal novero dei soggetti destinatari della disciplina sanzionatoria
lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali (Regioni, Province e Comuni), coerentemente
con l’art. 197 c.p. che li esonera da ogni responsabilità solidale con chi ha commesso il

6
Cass. pen., SS.UU., 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014), n. 38343.
7
Sull’inapplicabilità della responsabilità amministrativa agli enti pubblici non economici, G. De Simo-
ne, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la “parte generale” e la
“parte speciale” del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti
amministrativi dipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, pag. 85.

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reato per il pagamento di una sanzione pecuniaria, in ossequio al tradizionale principio


secondo il quale lo Stato non può pagare se stesso.
Nondimeno una novità assoluta, rappresentata dall’adozione del modello di organizza-
zione da parte di un ente locale, si è avuta nel 2012: protagonista in tal senso è stato il
Comune di Gela, che si è dotato di uno strumento di governance e di prevenzione del
rischio di commissione di reati. Un provvedimento atipico per un ente locale che, pur
non rientrando tra i soggetti coinvolti nella normativa in questione, ha deciso di darsi
delle procedure interne per meglio organizzare i propri servizi alla cittadinanza e con
l’intento di prevenire infiltrazioni criminali. Prima dell’adozione del modello da parte
del Comune di Gela, non sembravano esservi dubbi circa la disapplicazione del De-
creto 231 agli enti pubblici territoriali. Per tale motivo l’adozione volontaria e consape-
vole di un modello di organizzazione, gestione e controllo ispirato ai principi normativi
del Decreto da parte di un’amministrazione comunale mette in risalto diverse criticità.
Innanzitutto, è utile chiedersi se sia opportuno modificare il testo normativo, amplian-
done l’alveo dei soggetti destinatari, almeno per quelle categorie specifiche di reati che
sono più a rischio, anche per coloro che operano all’interno della Pubblica ammini-
strazione.
In secondo luogo, bisogna sottolineare che l’adozione di un nuovo modello di gover-
nance costringerà obbligatoriamente ad interfacciarsi e a districarsi nel già complesso
labirinto di norme e regolamenti interni che contraddistinguono le amministrazioni
comunali e che, il più delle volte, rendono lunghi e farraginosi gli iter burocratici.
Ragion per cui, se da un lato l’implementazione del modello potrebbe garantire traspa-
renza ed efficienza, dall’altro richiederà necessariamente un processo di formazione e
informazione che, almeno nella fase iniziale, comporterà una crescita dei tempi ammi-
nistrativi ed un aggravio dei costi da sostenere per l’effettivo rispetto delle procedure in
esso contenute.
Infine, un’ultima considerazione va fatta in merito all’aspetto sanzionatorio: se in linea
teorica non si ravvisano particolari problemi in merito all’applicazione di sanzioni di
natura pecuniaria ai danni di un ente pubblico, di contro risulta alquanto difficile
pensare all’applicazione di una misura interdittiva nei confronti dello stesso ente.
Oltre che per gli enti pubblici, il problema dell’applicabilità del Decreto 231 si è posto
anche in relazione alla c.d. zona d’ombra, individuata dalla Legge delega, nell’ambito
della quale rientrano tutti quegli enti che, pur avendo soggettività pubblica, non eser-
citano poteri pubblici: l’ACI, la CRI, ma anche gli Ordini e i Collegi professionali, le
aziende ospedaliere, le scuole, le università pubbliche, gli istituti di assistenza.
In merito a tali enti, la Relazione governativa al D.Lgs. n. 231/2001 si era espressa nella
direzione di una loro esclusione dall’ambito applicativo del Decreto, motivando l’al-
lontanamento dalla Legge delega con la necessità di esonerare quegli enti che, pur non
essendo provvisti di pubblici poteri, perseguono e curano interessi pubblici escludendo
finalità lucrative. E in effetti un intervento di tipo sanzionatorio nei confronti di questi
enti si ripercuote indubbiamente sulla collettività, in quanto genera disservizi e disagi 8.

8
Sul punto S. Delsignore, op. cit., pag. 85.

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Nondimeno, negli ultimi anni si è verificata una vera e propria inversione di tendenza:
nel settore sanitario, ad esempio, l’adozione dei modelli organizzativi ex D.Lgs. n. 231/
2001 viene oggi considerata ulteriore garanzia dell’organizzazione e della trasparenza
dell’operato delle Aziende sanitarie pubbliche. Si è verificata cosı̀ anche in tale settore
una certa diffusione del modello e del codice etico comportamentale, la cui osservanza
è finalizzata alla prevenzione degli eventuali illeciti.
Con riferimento alla sede dell’ente, si precisa che la persona giuridica risponde dell’il-
lecito amministrativo derivante da un reato-presupposto per il quale sussista la giuri-
sdizione nazionale, commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti
all’altrui direzione o vigilanza. Ciò a prescindere dalla sua nazionalità e dal luogo ove
essa abbia la sede legale, nonché dall’esistenza o meno, nello Stato di appartenenza, di
norme che disciplinino analoga materia, anche con riguardo alla predisposizione di
modelli organizzativi atti ad impedire la commissione di reati che siano fonte di re-
sponsabilità amministrativa per l’ente stesso 9.
Nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, in estrema sintesi, a una
società di diritto estero, insieme ad altre, era contestato l’illecito amministrativo ex
D.Lgs. n. 231/2001 in connessione a condotte corruttive ascritte ai vertici dell’azienda
consumate in Italia in relazione alla stipula a condizioni vantaggiose di alcuni contratti
con una società fallita.
Dopo la condanna nei due gradi di giudizio di merito, la società estera ricorreva,
insieme agli altri imputati, per Cassazione, lamentando anche l’erronea affermazione
della giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana ai fini dell’applicazione della norma-
tiva e delle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 231/2001. Si trattava infatti di condotte
commesse in Italia da società avente sede principale all’estero. Veniva tra l’altro evi-
denziato che nel proprio Stato di residenza non vigeva normativa analoga a quella
prevista dal D.Lgs. n. 231/2001, con la conseguenza che la società non avrebbe potuto
comunque adempiere alle procedure preventive previste (modello organizzativo, ecc.).
La Corte di Cassazione ha respinto lo specifico motivo di ricorso evidenziando, innan-
zitutto, che nel definire l’ambito applicativo il D.Lgs. n. 231/2001 non prevede alcuna
distinzione fra enti aventi sede in Italia e quelli aventi sede all’estero. Si tratta poi di una
responsabilità, seppur autonoma, comunque “derivata” dal reato e quindi la giurisdi-
zione va apprezzata rispetto al reato presupposto, a nulla rilevando che la colpa in
organizzazione, e dunque la predisposizione di modelli non adeguati, sia avvenuta
all’estero. In conclusione, secondo la Suprema Corte, la persona giuridica risponde
dell’illecito amministrativo derivante da un reato presupposto per il quale sussiste la
giurisdizione nazionale commesso dai propri legali rappresentanti o soggetti sottoposti
all’altrui direzione o vigilanza in quanto l’ente è soggetto all’obbligo di osservare la
legge italiana e, in particolare, quella penale a prescindere dalla sua nazionalità o dal
luogo ove esso abbia la propria sede legale. Ciò indipendentemente dall’esistenza o
meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la mede-

9
A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 11626
depositata il 7 aprile 2020.

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sima materia, anche con riguardo alla predisposizione ed efficace attuazione di modelli
di organizzazione e di gestione atti ad impedire la commissione di reati fonte di re-
sponsabilità amministrativa dell’ente stesso.
Da evidenziare che la responsabilità della società estera operante sul territorio italiano,
anche se priva di sede nel nostro Stato, in passato era stata affermata solo dai giudici di
merito 10.

1.1.3. Le società quotate


A decorrere dal 26 marzo 2007, il Regolamento dei Mercati di Borsa Italiana ha inserito,
tra i requisiti di governo societario per ottenere la qualifica di STAR (Segmento Titoli
con Alti Requisiti) – Mercato MTA di Borsa Italiana, l’adozione su base obbligatoria del
modello di organizzazione, gestione e controllo previsto dall’art. 6 del D.Lgs. n. 231/
2001. Tale segmento è dedicato alle medie imprese con capitalizzazione compresa tra
40 milioni e 1 miliardo di euro, che si impegnano a rispettare requisiti di eccellenza in
termini di: alta trasparenza ed alta vocazione comunicativa, alta liquidità (35% minimo
di flottante), corporate governance allineata agli standard internazionali.
In generale, l’adozione del modello non è obbligatoria ai sensi del Decreto; tuttavia
nello specifico settore e proprio per valorizzare i requisiti stringenti del segmento STAR,
il Regolamento dei Mercati di Borsa Italiana (approvato dalla CONSOB) ne sancisce
l’obbligatorietà.
Le società STAR erano tenute ad adottare tale modello entro il 31 marzo 2008 (art 2.2.3-
bis).
Le Istruzioni al Regolamento precisano (art IA.2.13.1) che per ottenere la qualifica Star
l’emittente deve presentare a Borsa Italiana una richiesta firmata dal legale rappresen-
tante alla quale deve essere allegata una dichiarazione, sottoscritta dal medesimo,
attestante l’avvenuta adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo,
con la descrizione della composizione dell’Organismo di Vigilanza o indicazione del-
l’organo equivalente.
Quindi l’attestazione riguarda, precisamente:
• l’avvenuta adozione del modello 231, vale a dire l’esistenza di un documento che
risponda alle finalità di cui agli artt. 6 e 7 del D.Lgs. n. 231/2001;
• la descrizione della composizione dell’Organismo di Vigilanza (di seguito anche:
OdV), vale a dire se monocratico o collegiale e, in entrambi in casi, a quali soggetti
sia stata affidata l’importante funzione di controllo.
Di conseguenza, nulla deve attestarsi circa:
• l’adeguatezza del modello adottato;
• la regolamentazione dell’OdV, con particolare riguardo ai suoi poteri, ai suoi com-
piti e alle tutele stabilite in suo favore.
L’emittente deve comunicare senza ritardo a Borsa Italiana ogni variazione delle infor-
mazioni che hanno costituito oggetto della documentazione da allegare alla richiesta.
Infine (art. IA.2.13.1 – Richiesta della qualifica Star), ogni anno, l’emittente deve inviare

10
Trib. Milano, sez. GIP, ordinanza 27 aprile 2004.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

a Borsa Italiana un’attestazione sull’adeguatezza e osservanza del modello organizzati-


vo da parte dell’Organismo di Vigilanza o dell’organo dirigente preposto a tale funzio-
ne. Tale ultimo adempimento appare davvero delicato in quanto si chiede all’OdV (o
all’organo dirigente che ne svolga le funzioni nelle piccole imprese ex art. 6, comma 4,
D.Lgs. n. 231/2001) di attestare l’“adeguatezza” e l’“osservanza” del modello organizza-
tivo. Si può forse comprendere un’attestazione dell’adeguatezza in astratto (idoneità)
del modello – tra l’altro non prevista al momento della richiesta di quotazione del
segmento STAR – ma appare francamente eccessivo ipotizzare l’asseverazione dell’os-
servanza (effettiva attuazione), se non in negativo, in quanto non risultano violazioni,
del modello stesso.
Con riferimento all’attribuzione delle funzioni di Organismo di Vigilanza, il Codice di
Autodisciplina delle società quotate, che raccoglie le best practices e le migliori solu-
zioni organizzative per un più compiuto adeguamento ai principi di corporate gover-
nance, ha affidato alla valutazione discrezionale delle società l’opportunità di affidare
tali mansioni al collegio sindacale “nell’ambito di una razionalizzazione delle funzioni di
controllo”. Pertanto, l’impresa ha la facoltà di optare per questa forma di organizzazione
del sistema di controllo interno ai fini del Decreto 231, tenendo sempre nella dovuta
considerazione l’obiettivo di garantire le esigenze di efficienza ed efficacia complessiva
del sistema di controllo interno. In linea generale si opta anche per una compatibilità tra
il ruolo di Internal Audit 11 e le funzioni di Organismo di Vigilanza.
Più specificamente, nell’ambito del sistema di controllo interno e di gestione dei rischi
delle società quotate, con riferimento all’OdV, il comitato per la corporate governance 12
ha rappresentato la seguente raccomandazione all’organo amministrativo: “attribuisce
all’organo di controllo o a un organismo appositamente costituito le funzioni di vigi-
lanza ex art. 6, comma 1, lett. b) del D.Lgs. n. 231/2001. Nel caso l’organismo non
coincida con l’organo di controllo, l’organo di amministrazione valuta l’opportunità di
nominare all’interno dell’organismo almeno un amministratore non esecutivo e/o un

11
Questa funzione è richiamata da: i) il D.Lgs. n. 58/1998 (TUF) che, all’art. 150, prevede la figura di
“colui che è preposto ai controlli interni”; ii) le istruzioni di vigilanza per le banche della Banca d’Italia,
pubblicate sulla G.U. n. 245 del 20 ottobre 1998; iii) i regolamenti emessi nei confronti degli interme-
diari autorizzati delle società di gestione del risparmio e delle SICAV dalla Banca d’Italia e dalla
CONSOB, che obbligano questi soggetti all’istituzione di “un’apposita funzione di Controllo Interno”
da assegnare “ad apposito responsabile svincolato da rapporti gerarchici rispetto ai responsabili dei
settori di attività sottoposti al controllo”. Anche il Codice di Autodisciplina delle società quotate fa
riferimento alla funzione di Internal Auditing.
12
Il Comitato per la Corporate Governance è stato costituito, nell’attuale configurazione, nel giugno
del 2011 ad opera delle Associazioni di impresa (ABI, ANIA, Assonime, Confindustria) e di investitori
professionali (Assogestioni), nonché di Borsa Italiana S.p.A. Il 9 dicembre 2019 il Comitato ha appro-
vato la sua ottava relazione annuale contenente il settimo rapporto sull’applicazione del Codice di
Autodisciplina. Lo stesso Comitato ha definito i contenuti del nuovo Codice di Corporate Governance,
che è stato poi approvato in via definitiva e pubblicato sul sito del Comitato il 31 gennaio 2020. Le
società che adottano il Codice lo applicano a partire dal primo esercizio che inizia successivamente al
31 dicembre 2020, informandone il mercato nella relazione sul governo societario da pubblicarsi nel
corso del 2022.

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membro dell’organo di controllo e/o il titolare di funzioni legali o di controllo della


società, al fine di assicurare il coordinamento tra i diversi soggetti coinvolti nel sistema
di controllo interno e di gestione dei rischi” 13.
È opportuno sottolineare quanto riportato dalla Indagine nell’ambito delle società quo-
tate – 2014, giunta alla settima edizione, che si propone l’obiettivo di analizzare l’in-
formativa fornita dagli emittenti al mercato in merito agli adempimenti ai sensi del
D.Lgs. n. 231/2001 al fine di acquisire indicazioni sull’evoluzione delle pratiche più
diffuse connesse all’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo 14.
Dai risultati dell’indagine relativa all’esercizio 2013 emerge che:
• circa il 97% delle società del campione (224 società) ha dichiarato di aver adottato
un modello 231;
• tra i reati considerati rilevanti che il modello intende prevenire per gli emittenti
costituenti il campione di riferimento si è potuto osservare che quelli relativi alla
Pubblica amministrazione (circa il 91% delle società del campione), ai reati societari
(circa il 95% delle società del campione), alla salute e sicurezza sul lavoro (circa
l’87% delle società del campione) e al market abuse (circa l’83% delle società del
campione) continuano ad essere quelli più frequentemente citati nell’informativa
delle società quotate su Borsa Italiana in merito all’adozione dei propri modelli;
• viene confermata la generale tendenza all’individuazione di OdV plurisoggettivi:
circa il 93% delle società (209 società) ha individuato un OdV collegiale contro circa
il 5% (12 società) che ha nominato, invece, un OdV monocratico (le rimanenti
società non hanno fornito informazioni sulla composizione del proprio OdV). Dalle
informazioni raccolte, sono emersi, tra l’altro, anche altri interessanti elementi legati
alla continuità d’azione dell’OdV e alla sua interazione con gli organi societari.
Circa il 34% delle società (76 società) ha indicato il numero di riunioni svolte nel
corso dell’esercizio 2013 (5 in media), circa il 66% delle società (147 società) ha
informato sulla previsione di flussi informativi diretti all’organo di gestione e circa il
55% delle società (123 società) verso l’organo di controllo;
• con riferimento all’opzione prevista dalla c.d. Legge di stabilità 2012, si segnala che
dall’analisi condotta sulle 224 società quotate che dichiarano di aver adottato un
modello 231, il 7% di esse (15 società) dichiara di aver affidato le funzioni dell’Or-
ganismo di Vigilanza al collegio sindacale o organo equivalente.
Altro studio è stato effettuato dall’osservatorio permanente IR Top sul mercato AIM
Italia con riferimento al quale è emerso che 15:
• il 43% delle società quotate adotta il modello 231;
• il 58% delle società AIM Italia con un modello di controllo in atto ha istituito un
OdV che prevede al suo interno 3 componenti, il 25% invece ha nominato un
organo monocratico. Il 71% delle società AIM Italia con un OdV composto da
più di un membro ha al suo interno un componente del collegio sindacale. Sul

13
Codice di corporate governance – gennaio 2020.
14
PWC, D.Lgs. 231/2001. Indagine nell’ambito delle società quotate, 2014, www.pwc.com.
15
Lo studio è stato riportato su www.aimnews.it.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

totale delle società allineate alla normativa, circa il 70% ha approvato contestual-
mente il codice etico al fine di adeguare la propria struttura e la condotta a principi
etico-comportamentali nei rapporti con gli stakeholder, facilitando l’adozione dei
requisiti previsti dal D.Lgs. n. 231/2001.

1.1.4. I gruppi di società


Il D.Lgs. n. 231/2001, nel prevedere la responsabilità delle persone giuridiche, fa rife-
rimento ad una nozione di ente singolarmente considerato, nulla disponendo in ordine
alla disciplina dei gruppi di società. Carenza singolare, considerato lo sviluppo che il
fenomeno dei gruppi ha assunto negli ultimi tempi nella realtà economica nazionale e
internazionale.
Spetta, dunque, all’interprete ricostruire l’impianto normativo della responsabilità di una
società facente parte di un gruppo, individuandone i presupposti, i criteri d’imputazio-
ne, i limiti e le modalità applicative.
Prima, però, è opportuno effettuare una breve ricognizione della nozione di gruppo e
della relativa disciplina civilistica.
In primo luogo, si rileva come, nel nostro ordinamento, una vera e propria rilevanza
giuridica dei gruppi sia stata riconosciuta solo negli ultimi anni: è stata la Riforma del
diritto societario (D.Lgs. n. 5 e D.Lgs. n. 6 del 2003) ad introdurre dei riferimenti
normativi che disciplinassero le attività e le caratteristiche dei gruppi societari (artt.
2497-2497-septies c.c.), senza tuttavia prevedere una vera e propria definizione di
“gruppo di imprese” 16.
Nondimeno, nelle prime applicazioni giurisprudenziali del Decreto 231 si rinviene una
esaustiva definizione di gruppo: “quando l’impresa raggiunge consistenti dimensioni
aziendali essa può assumere la configurazione di una pluralità di società operanti sotto
la direzione unificante di una società capogruppo o holding. A ciascuna delle società
che compongono il gruppo può corrispondere un distinto settore di attività, una distinta
fase del processo produttivo, una diversa zona territoriale di operatività: ma le azioni di
ciascuna di queste società appartengono, in tutto o in maggioranza, ad una ulteriore
società, detta appunto società holding, alla quale spetta la direzione ed il coordinamen-
to dell’intero gruppo ed all’interno della quale i vari settori sono ricondotti ad econo-
mica unità.
La scomposizione dell’impresa in una pluralità di società può portare a separare fra
loro, facendone oggetto di separate società, le due fondamentali funzioni imprendito-
riali: l’attività di direzione da un lato e l’attività di produzione o scambio dall’altro. Si dà
cosı̀ luogo ad una società capogruppo – che si definisce in questo caso holding «pura» –
che non svolge alcuna attività di produzione o di scambio ma che si limita ad ammini-
strare le proprie partecipazioni azionarie cioè a dirigere le società del proprio gruppo
(società operanti). In altri casi invece la holding, in forza della propria partecipazione di
controllo in altre società, esercita sulle controllate «operative» una attività di direzione e

16
Si tralascia di considerare la copiosa dottrina in materia di gruppi societari, non essendo questa la
sedes materiae.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

coordinamento, ponendosi cosı̀ a capo di un gruppo di società. In questo caso la


funzione della holding è essa stessa funzione imprenditoriale corrispondente alla fun-
zione di direzione strategica e finanziaria che è presente in ogni impresa. Nelle imprese
isolate questa funzione si assomma alle funzioni operative. Nei gruppi, invece, essa si
separa dalle funzioni operative dando luogo al fenomeno per il quale l’impresa si
scompone in una pluralità di fasi separate, esercitate ciascuna da un soggetto diverso;
sicché la holding esercita, in modo mediato, la medesima attività di impresa che le
controllate esercitano in modo immediato e diretto.
L’oggetto della holding, in questo caso, non è dunque la gestione di partecipazioni
azionarie come tali, ma l’esercizio indiretto di attività d’impresa” 17.
Va evidenziato, quindi, che il gruppo non presenta una rilevanza giuridica come sog-
getto autonomo. Esso, infatti, si caratterizza essenzialmente per il collegamento econo-
mico-funzionale intercorrente tra società distinte che svolgono in maniera coordinata
l’attività imprenditoriale. Formalmente, le società del gruppo si configurano come entità
distinte e giuridicamente autonome, sia sul piano organizzativo che patrimoniale. Dal
punto di vista sostanziale, il concetto di gruppo societario presuppone un’attività di
direzione e/o di coordinamento effettuata dalla società controllante (c.d. capogruppo)
nei confronti della/e controllata/e.
Ai sensi dell’art. 2359 c.c., sono considerate controllate le società in cui:
• un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria;
• un’altra società dispone di voti sufficienti ad esercitare un’influenza dominante in
assemblea.
Può configurarsi, altresı̀, una situazione di controllo anche quando tale influenza do-
minante è esercitata attraverso “particolari vincoli contrattuali”.
Per quanto riguarda più specificamente le modalità di applicazione del Decreto 231 ai
gruppi, nel silenzio della norma si sono sviluppati alcuni orientamenti dottrinali che
forniscono differenti interpretazioni relativamente all’imputazione della responsabilità
amministrativa alle società del gruppo e, in particolare, in relazione alla posizione della
capogruppo.
Una prima teoria accoglie l’idea di un super-ente di fatto, in quanto considera il gruppo
societario come un unico e autonomo soggetto di diritto, potenzialmente in grado di
commettere illeciti dipendenti da reato. Secondo tale teoria, qualora il reato sia stato posto
in essere da uno dei soggetti indicati negli artt. 5 e 6 del D.Lgs. n. 231/2001 e costui abbia
agito nell’interesse comune dell’intero gruppo, sarà configurabile una responsabilità da
reato del gruppo medesimo e, per esso, della società capogruppo, indipendentemente
dal fatto che la stessa abbia tratto un diretto vantaggio dalla condotta illecita 18.
Una seconda teoria ravvisa, invece, una responsabilità da reato della persona giuridica
capogruppo nel caso in cui la condotta delittuosa posta da soggetti appartenenti alla/e
società controllata/e sia stata tenuta in esecuzione di direttive provenienti dagli ammi-

17
Ordinanza GIP Milano, 20 settembre 2004, Dott.ssa Secchi.
18
Trib. Milano, 14 dicembre 2004.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

nistratori della capogruppo: in tali ipotesi, tuttavia, la responsabilità della holding con-
corre con quella della società controllata, non sostituendosi a questa.
C’è chi evidenzia poi una responsabilità della capogruppo, in capo alla quale sussiste
un generico obbligo di vigilanza sull’operato della controllata, ravvisando in capo alla
holding stessa o ai suoi vertici una posizione di garanzia ex art. 40 c.p., con la conse-
guente responsabilità anche per i reati commessi dalla/e controllata/e in vista del
perseguimento di un interesse o di un vantaggio proprio. La responsabilità della con-
trollante, in tali ipotesi, deriverebbe dalla violazione degli obblighi di controllo sulle
società del gruppo e dall’omesso impedimento delle violazioni della legge penale da
parte della società controllata 19.
Tuttavia, un’estensione automatica della responsabilità in capo alla controllante per
reati commessi dalla controllata in virtù di una generica presunzione di concorso nella
condotta illecita o, addirittura, di diretta determinazione, nonché di attribuzione di un
generico obbligo di vigilanza, appare iniqua ed eccessiva. È preferibile analizzare le
singole fattispecie, valutando l’effettivo vantaggio o interesse della capogruppo, nonché
il suo grado di immedesimazione ed influenza nel determinare la condotta illecita.
Per ciò che concerne tale ultimo aspetto, la nozione di gestione e controllo richiamata
dal Decreto (art. 5, comma 1, lett. a) non deve essere identificata col semplice controllo
azionario, ma deve estrinsecarsi attraverso l’esercizio effettivo e duraturo di un potere
sulle decisioni della società controllata. L’esistenza di tale potere di fatto può essere
ravvisata, a titolo esemplificativo, se ricorrono alcune circostanze:
• sovrapposizione di ruoli apicali (es. amministratore) tra diverse società del gruppo;
• configurazione delle controllate come “divisioni specializzate” della capogruppo;
• presenza di patti parasociali relativi alla nomina di organi amministrativi e direttivi.
Al sussistere delle ipotesi suddette o di circostanze simili, sarebbe possibile ritenere che
la controllante agisca in qualità di amministratore di fatto della controllata.
Sul punto, alcuni interpreti hanno confermato tale orientamento richiamando il disposto
dell’art. 2639 c.c., in base al quale la configurabilità della figura dell’amministratore di
fatto sussiste nel caso di esercizio continuato e significativo dei poteri tipici inerenti alla
qualifica di amministratore: per integrare una simile fattispecie, dunque, non sarebbe
sufficiente una sporadica o episodica ingerenza nell’attività operativa della controllata,
che non farebbe venir meno l’autonomia gestionale di quest’ultima. Il fulcro dell’esten-
sione della responsabilità alla capogruppo dovrebbe piuttosto essere ravvisato nella
effettiva partecipazione all’illecito da parte di uno dei soggetti destinatari della norma-
tiva che operano per conto della controllante.
In tal senso si è espressa anche parte della giurisprudenza, sancendo la distinzione tra
una holding pura (finanziaria) che si limita alla gestione di partecipazioni azionarie e

19
Nei gruppi di società è da escludere, per gli inevitabili riflessi che le condizioni della società
controllata riverberano sulla società controllante, sia che i vantaggi conseguiti dalla controllata, in
conseguenza dell’attività della controllante, possano considerarsi conseguiti da un terzo, sia che
l’attività di quest’ultima possa dirsi compiuta nell’esclusivo interesse di un terzo (Trib. Milano, 20
dicembre 2004).

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

una capogruppo gestoria che si avvalga dell’attività delle controllate dal punto di vista
operativo.
Il GIP di Milano 20, infatti, ha esteso la responsabilità della controllata alla controllante
sulla base di una partecipazione attiva da parte degli amministratori di quest’ultima nella
commissione degli illeciti contestati.
Da ultimo la Corte di Cassazione, affrontando per la prima volta il tema, ha affermato che
la società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del Decreto 231, per il
reato commesso nell’ambito dell’attività di altra società del gruppo, purché nella sua
consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della holding perseguen-
do anche l’interesse di quest’ultima: insomma non è sufficiente un generico riferimento al
gruppo per affermare la responsabilità della società ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 21.
Tale sentenza, emessa nell’ambito di una complessa inchiesta che vedeva numerose
società accusate di corruzione per ottenere appalti nella sanità in Puglia, ha fatto emer-
gere importanti elementi di valutazione: più precisamente, viene per la prima volta
affermata dalla Corte di Cassazione l’idoneità della holding o delle altre società del
gruppo a rispondere ai sensi del Decreto 231 per reati commessi nell’ambito di altre
società del gruppo. Ai fini della sussistenza di detta responsabilità non è sufficiente un
generico riferimento al gruppo, ma è necessario che il soggetto che agisce per conto
delle società (es. legale rappresentante) concorra con il soggetto che commette il reato
(anche un amministratore di fatto) 22. L’interesse o il vantaggio devono, infatti, essere
presenti per tutte le società a cui la responsabilità amministrativa possa essere cosı̀
imputata; in particolare la società deve ricevere una potenziale o effettiva utilità, ancor-
ché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del
reato presupposto.
Varrà altresı̀ rilevare come la più recente giurisprudenza di merito preveda l’applicabi-
lità del Decreto 231 anche alle società straniere operanti direttamente in Italia tramite
offerta diretta di servizi, sede secondaria, associazione temporanea di imprese. Ciò
comporta la necessità di valutare la compatibilità del modello di governance adottato
dalla società straniera con la legislazione italiana: se non è conciliabile, la società
straniera risponderà nei casi e alle condizioni previste dalla normativa in esame.
Inoltre, anche nel caso in cui una società straniera operi in Italia attraverso una società
controllata italiana, la capogruppo straniera potrà essere chiamata a rispondere in virtù
dell’estensione della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti nell’ambito
del gruppo. Le società capogruppo straniere dovranno, quindi, valutare se adeguarsi
preventivamente alle condizioni previste dal Decreto 231, analizzandone le criticità
conseguenti 23.

20
Trib. Milano, 20 settembre 2004.
21
Cass. pen., Sez. V, n. 24583/2011 (udienza del 17 novembre 2010, deposito del 20 giugno 2011).
22
Nel caso in commento i soggetti che agivano per conto delle società prosciolte (i legali rappresen-
tanti) erano stati assolti e non poteva quindi verificarsi il requisito del concorso con il soggetto che
aveva commesso il reato, nella specie l’amministratore di fatto.
23
Si pensi, per esempio, alla necessità di istituire un organo di vigilanza presso la capogruppo estera e
di coordinarlo con quello della società italiana.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

Oltre al problema della responsabilità della capogruppo, nell’applicazione del Decreto


231 ai gruppi bisogna affrontare due interrogativi relativi a problematiche di ordine
pratico:
1) ci si chiede, innanzitutto, se è possibile predisporre un c.d. modello di gruppo;
2) c’è da chiarire se è necessario nominare tanti Organismi di Vigilanza (OdV) quante
sono le società del gruppo.
Su tali interrogativi, Confindustria si è espressa chiaramente 24.
Innanzitutto, ciascuna società del gruppo, in quanto singolarmente destinataria dei
precetti del Decreto 231, è chiamata a svolgere autonomamente l’attività di predispo-
sizione e revisione del proprio modello organizzativo. Tale attività potrà essere con-
dotta anche in base a indicazioni e modalità attuative previste da parte della holding in
funzione dell’assetto organizzativo e operativo di gruppo. Peraltro, ciò non dovrà de-
terminare una limitazione di autonomia da parte delle società controllate nell’adozione
del modello.
L’adozione da parte di ogni società del gruppo di un proprio autonomo modello de-
termina due fondamentali conseguenze:
• consente di elaborare un modello realmente calibrato sulla realtà organizzativa
della singola impresa. Infatti, solo quest’ultima può realizzare la puntuale ed effi-
cace ricognizione e gestione dei rischi di reato, necessaria affinché al modello sia
riconosciuta l’efficacia esimente di cui all’art. 6 del Decreto 231;
• conferma l’autonomia della singola unità operativa del gruppo e, perciò, ridimen-
siona il rischio di una risalita della responsabilità in capo alla controllante.
Nella realtà, tuttavia, si verifica spesso che la capogruppo adotta il proprio modello
organizzativo, strutturato in funzione della specifica realtà aziendale, della mappatura
delle proprie attività a rischio di commissione dei reati e successivamente, sulle base
delle linee guida tracciate dalla controllante, ciascuna società del gruppo costruisce ed
adotta un modello non sufficientemente customizzato, che dunque non sempre rispon-
de alla finalità per la quale viene adottato. Questo modo di operare può essere condi-
viso solo in relazione ad aspetti generali ed oggettivamente condivisibili, come ad
esempio il “codice etico”, che esprime regole di condotta univoche che devono essere
fatte proprie da ciascuna azienda e applicate a prescindere dalla struttura societaria o
dal settore di appartenenza.
Nel caso di codici etici di gruppo, potrebbe essere necessario integrare, da parte di
ciascuna società ed entro la propria regolamentazione interna (ad es. attraverso adden-
da o protocolli), i valori e i principi espressamente correlati all’ambito di specifica
operatività e all’effettiva esposizione ai rischi-reato contemplati dal Decreto 231.
Inoltre, è opportuno che ogni società del gruppo nomini un proprio Organismo di
Vigilanza, distinto anche nella scelta dei singoli componenti. Non è infatti raccomanda-

24
Confindustria, Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai
sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, 7 marzo 2002 (aggiornate al marzo 2014),
www.confindustria.it.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

bile l’identificazione, nell’ambito del Gruppo, di Organismi di Vigilanza composti dai


medesimi soggetti.
Solo un Organismo di Vigilanza costituito nell’ambito del singolo ente può infatti dirsi
“organismo dell’ente, dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo” (art. 6, comma
1, lett. b), Decreto 231).
Se, al contrario, la vigilanza fosse esercitata da un organismo unico costituito presso la
controllante, si rischierebbe di fondare una posizione di garanzia di fonte negoziale in
capo ai vertici della holding. Soprattutto se all’unico Organismo di Vigilanza fossero
attribuiti incisivi poteri di controllo sull’attività anche delle società del gruppo, in un
eventuale successivo giudizio si potrebbe agevolmente sostenere l’omesso intervento
dei vertici della holding, nonostante la consapevolezza delle lacune organizzative della
controllata e dell’inclinazione criminosa presente al suo interno 25.
Per evitare una risalita alla responsabilità della controllante per i reati commessi nella
controllata, è anche opportuno evitare che i medesimi soggetti rivestano ruoli apicali
presso più società del gruppo (c.d. interlocking directorates). Infatti, il cumulo di cari-
che sociali potrebbe avvalorare la tesi del concorso dei vertici di più società del gruppo
nella commissione del reato presupposto.
Al fine di razionalizzare i costi dell’intero gruppo, tuttavia, sembra opportuno optare per
una composizione collegiale dell’OdV della capogruppo e monocratica per le control-
late, facendo leva su una stretta attività di coordinamento tra i diversi organismi.
Infatti, lo scambio periodico di informazioni reciproche permette di avere una visione
globale dei rischi e delle carenze nel gruppo, consentendo ai singoli organismi di
intervenire in modo unitario ed evitando cosı̀ di creare “spazi grigi” in cui, per man-
canza di chiarezza sugli ambiti di competenza, possano annidarsi rischi concreti. Può
essere senz’altro utile la programmazione di incontri periodici in cui si prevede di
approfondire temi di comune interesse, predisponendo piani congiunti di intervento.
L’attività di coordinamento tra organismi di vigilanza, se mal gestita, potrebbe costituire
un rischio concreto di migrazione di responsabilità tra gli enti. Potrebbe, infatti, essere
rilevata dall’Organismo di Vigilanza di una delle società una criticità rilevante ai fini del
Decreto che, venendo comunicata agli altri organismi, comporterebbe un inevitabile
coinvolgimento di questi e delle rispettive società di appartenenza.
Un altro aspetto interessante da considerare è la collaborazione tra Organismo di Vigi-
lanza e funzione Internal Audit di gruppo, ove esistente. Il più delle volte, infatti,
l’Audit è una struttura della capogruppo e in virtù di un contratto di service fornisce
la sua attività di controllo anche alle altre società. Riguardo a ciò, come evidenziato
anche dalle citate Linee Guida di Confindustria, può essere utile prevedere con appo-
sito contratto la possibilità di avvalersi della funzione medesima per effettuare dei
controlli specifici, di volta in volta individuati 26.
Infine, è doveroso effettuare una precisazione in merito all’eventuale estensione delle

25
Sull’argomento si veda anche il Capitolo 5.
26
Cfr. F. Assumma, “La responsabilità amministrativa degli enti nei gruppi di impresa: problemi e
prospettive. delle società e degli enti,” in Rivista 231, 3/2011, pagg. 7 ss.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

sanzioni comminate alla capogruppo nei confronti delle altre società appartenenti al
gruppo.
Nel caso di gruppi societari, qualora il provvedimento giurisdizionale che dispone
l’applicazione di una misura cautelare ex art. 45 del Decreto individui come destinataria
della stessa la sola società capogruppo, non è configurabile un’estensione generica e
diretta della misura adottata anche alle altre società del gruppo, essendo la responsa-
bilità amministrativa correlata all’inidoneità dei sistemi di organizzazione e vigilanza
adottati dalla specifica società i cui vertici o dipendenti hanno commesso il reato e,
quindi, a presupposti oggettivi riferibili ad una particolare realtà aziendale 27.
Le motivazioni a sostegno di questo principio sono da riscontrare nel fatto che agli
illeciti amministrativi degli enti ex Decreto 231 si applicano le medesime garanzie
costituzionali previste per l’imputato persona fisica e cioè:
• il principio di personalità della responsabilità (art. 27 Cost.), in virtù del quale le
diverse società di un gruppo sono soggetti giuridicamente distinti da cui scaturi-
scono differenti centri d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive;
• il diritto di difesa (art. 24 Cost.), dal quale consegue che l’estensione di una misura
interdittiva a società controllata/e finirebbe per colpire soggetti che sono rimasti
estranei al procedimento che ha visto coinvolta la capogruppo e che, quindi, non
hanno avuto modo di difendersi adeguatamente in esso.
Inoltre, quella prevista dal Decreto 231 non è una forma di responsabilità oggettiva:
l’ente risponde sempre per fatto proprio, vale a dire per non aver adottato misure
organizzative e di controllo idonee a prevenire reati della specie di quello che si è
verificato. A ciò si aggiunga che sia dal Decreto 231 (art. 14, comma 1 e art. 30, comma
3) che dalla Relazione illustrativa, è desumibile l’intenzione del legislatore di ricollegare
la responsabilità – e la determinazione della sanzione – all’attività effettivamente svolta
dall’ente in cui si è verificato l’illecito. Sul piano interpretativo, quindi, non è possibile
configurare un’estensione automatica della responsabilità (e dell’ambito di applicazione
delle misure cautelari adottate) al di fuori del singolo contesto aziendale volta per volta
individuato.
Pertanto, la responsabilità delle altre società del gruppo potrà ipotizzarsi solo qualora
sia dimostrato che i rispettivi soggetti in posizione apicale o dipendenti hanno contri-
buito alla commissione del reato in concorso con quelli della capogruppo e sempre che
la singola società controllata non abbia adottato modelli organizzativi idonei ai sensi
dell’art. 6 del Decreto 231.

1.1.5. Le società a partecipazione pubblica


Tra i soggetti privati, destinatari in maniera pacifica del D.Lgs. n. 231/2001, e gli enti
pubblici territoriali e quelli che perseguono finalità pubbliche (che in base all’art. 1 non
rientrano nel perimetro applicativo della norma), che invece ne sono esonerati, esistono
delle figure ibride dotate al contempo di tratti privatistici e pubblicistici, la cui colloca-

27
Consiglio di Stato, Sez. III, parere 11 gennaio 2005.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

zione in una delle due categorie soggettive presenta aspetti problematici, con conse-
guenti difficoltà interpretative per l’applicazione del Decreto.
È il caso, ad esempio, delle società partecipate (controllate o “meramente partecipate”
secondo le successive definizioni dell’art. 2 del D.Lgs. n. 175/2016) 28 da soggetti pub-
blici e/o costituite per la gestione di servizi pubblici, riguardo alle quali, nella fase
iniziale di applicazione del Decreto, in assenza di un riferimento normativo organico
non è emerso un orientamento univoco e si sono confrontate due posizioni distinte.
Quella “privatistica” sosteneva che l’assenza di una specifica disciplina implicasse la
mera applicazione della norma civilistica, mentre un diverso approccio propendeva per
una valutazione tipologica, che suggeriva una valutazione del singolo caso, che può far
propendere per l’applicazione del Codice civile o della disciplina civilistica 29.
L’orientamento preferibile 30 riteneva che le società miste dovessero essere comunque
assoggettate alla responsabilità da reato, osservando che, “poiché il fine di profitto è
tutt’altro che escluso, nello schema in questione sembrano potersi ravvisare tutti gli
estremi del classico modello societario delineato nell’art. 2247 c.c., dimodoché dovreb-
be trovare applicazione l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001”; tuttavia, tenuto conto del
fatto che alcuni indicatori (la procedura di ricerca dei soci che caratterizza la fase
genetica di costituzione; la qualificazione degli amministratori; l’assoggettamento alla
giurisdizione sia del giudice ordinario sia di quello amministrativo, le peculiarità dei
processi di procurement) discostano sensibilmente le società miste dal modello privati-
stico puro, si è ritenuto che esse potessero essere ricondotte al “distinto schema degli
enti pubblici economici, che abbiamo visto costituire l’unica categoria di soggetti pub-
blici riconosciuta espressamente nella normativa in esame come potenziale responsa-
bile per i reati commessi” 31.
Considerazioni simili possono essere attualmente svolte anche alla luce del nuovo Testo
Unico in materia di società a partecipazione pubblica (di seguito anche “TUSP”), ad

28
D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, “Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica”.
29
In passato, soprattutto in relazione alla disciplina dei servizi pubblici, in particolare quelli locali, si
era diffusa una distinzione, legata al tipo di attività effettuata dalla società a partecipazione pubblica,
tra società strumentali e società che esercitano attività di impresa: le prime operano a vantaggio
dell’ente proprietario svolgendo la propria attività in forma privatistica, mentre le seconde esercitano
attività di impresa operando in regime di concorrenza, pur sempre a vantaggio della collettività. Sul
punto si veda F. Vignoli, “Questioni controverse in materia di società pubbliche: le risposte del T.U. n.
175/2016”, in Rivista 231, 1/2018, pagg. 135 ss.
30
Cfr. G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, pag. 124.
31
In tal senso deponeva decisivamente, inoltre, il consolidato orientamento della giurisprudenza
civile (Cass., SS.UU., 26 agosto 1998, n. 8454, C.E.D. Cass., n. 518370; SS.UU., 26 febbraio 1999, n.
101, ivi, n. 523649; SS.UU., 9 maggio 2000, n. 300, ivi, n. 536266), ferma nel ritenere che le società per
azioni costituite, a norma dell’art. 22, comma 3, della Legge n. 142/1990, dai Comuni e dalle Province
per la gestione di pubblici servizi (previa costruzione o acquisizione delle opere e delle infrastrutture
necessarie) operano, nell’esercizio della propria autonomia negoziale, come soggetto di diritto privato
del tutto privo di collegamento con l’ente pubblico nei cui confronti esse abbiano assunto l’obbligo di
gestire il servizio, poiché, da un lato, il rapporto tra l’ente territoriale e la società non è riconducibile né
all’istituto della concessione di pubblico servizio né a quello della concessione per la costruzione di

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

esempio in relazione alle peculiarità di quelle c.d. in house, le quali sono caratterizzate
dall’assoggettamento al controllo analogo 32 di una o più Amministrazioni, come evi-
denziato dalla definizione contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. o). Tali soggetti, inoltre,
devono rispettare ulteriori requisiti imposti dalla norma, tra cui, ad esempio, quelli
relativi alle attività che possono essere previste dall’oggetto sociale (art. 4, comma 4),
al rispetto del principio della c.d. dedizione prevalente in relazione all’attività stessa da
svolgere nei confronti dei soci 33 (art. 16, comma 3), e cosı̀ via.
Per ciò che concerne l’applicabilità del D.Lgs. n. 231/2001 a questo tipo di società,
sempre facendo riferimento al D.Lgs. n. 175/2016, giova sottolineare come la sua
impostazione di fondo si basi sulla considerazione che tali soggetti giuridici non rap-
presentino, in realtà, un nuovo modello o un nuovo tipo societario rispetto a quelli
contemplati dalla disciplina civilistica. Un simile approccio è confermato dall’art. 1,
comma 3 della norma, sulla scorta del quale si prevede espressamente che tutto quanto
non è esaminato nel Testo Unico sia assoggettato alle norme sulle società presenti nel
Codice civile e alle norme generali di diritto privato.
Ad ogni modo, nel corso del tempo, importanti indicazioni sono state fornite anche da
alcuni interventi giurisprudenziali, che hanno trattato il tema della natura giuridica delle
società partecipate, offrendo spunti significativi in relazione alla attrazione all’interno
del perimetro applicativo del D.Lgs. n. 231/2001.
Si segnala, al riguardo, che la Suprema Corte 34 ha stabilito in maniera chiara che le società
partecipate da capitale pubblico sono sottoposte alla normativa in questione qualora
svolgano attività economica. Infatti, anche nel caso di società per azioni a capitale pub-
blico, si è in ogni caso in presenza di un soggetto che in realtà svolge la propria attività

(continua)
opere pubbliche, dall’altro, non è consentito all’ente locale di incidere unilateralmente sullo svolgi-
mento del rapporto stesso e sull’attività della società mediante l’esercizio di poteri autoritativi e
discrezionali.
32
Si tratta di una forma di controllo strutturale analogo a quello che l’amministrazione esercita sui
servizi, sulle attività e sul personale gestite in maniera diretta. Deve, inoltre, sussistere un’influenza
determinante da parte dell’ente di riferimento, ovviamente sulle scelte strategiche e sulle decisioni
maggiormente rilevanti.
33
In base alla norma, “Gli statuti delle società [...] devono prevedere che oltre l’ottanta per cento del
loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti
pubblici soci”. Successivamente, il c.d. correttivo appalti (D.Lgs. n. 100/2017), attraverso l’introduzione
del comma 3-bis dell’art. 16, D.Lgs. n. 175/2016, in relazione al fatturato che eccede il limite sopra
richiamato, stabilisce che “la produzione ulteriore [...] può essere rivolta anche a finalità diverse, [...]
solo a condizione che la stessa permetta di conseguire economie di scala o altri recuperi di efficienza
sul complesso dell’attività principale della società”.
34
Cass. pen., 21 luglio 2010, n. 28699. In particolare, il GIP aveva disposto, per il reato di truffa, il
sequestro preventivo di euro 2,76 milioni circa sul bilancio di due S.p.A., l’una attiva attraverso una
struttura ospedaliera specializzata, l’altra partecipante alla prima: ma il Tribunale del riesame aveva
annullato la misura nei confronti della prima, sul presupposto dell’inapplicabilità del citato Decreto,
essendo la stessa un ente pubblico operante in forma di spa mista, partecipata al 51% da risorse
pubbliche e per il 49% da capitale privato.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

iure privatorum e secondo principi di economicità, allo scopo di raggiungere l’equilibrio


economico-finanziario della gestione e produrre utili di esercizio (in base a quanto previ-
sto dall’art. 2247 c.c.), a prescindere dalla loro distribuzione e dalla loro destinazione.
Di conseguenza, la qualità di società partecipata non è un elemento di per sé solo
sufficiente all’esonero dalla disciplina 231, dovendo altresı̀ concorrere la condizione che
l’ente medesimo non svolga attività economica. Ne deriva che la società “mista” coinvolta
nella vicenda giudiziaria all’esame della Suprema Corte deve essere ricompresa tra gli enti
sottoposti alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 231/2001 e non può essere riconducibile, per il
solo fatto che svolge l’attività in un ambito rientrante tra i valori tutelati dalla costituzione –
quale quello del diritto alla salute – agli “enti che svolgono funzioni di rilievo costituzio-
nale”, esclusi dal campo di applicazione del Decreto. In caso contrario, ove dovesse
ritenersi sufficiente a garantire l’esonero dalla normativa il mero coinvolgimento, nelle
attività degli enti, di valori costituzionali, si verificherebbe un sostanziale svuotamento
della disciplina, dal momento che ne risulterebbero esclusi un numero illimitato di enti 35.
Tale orientamento è stato successivamente confermato dalla stessa Cassazione pena-
le 36, la quale ha affermato che la società per azioni costituita per svolgere, secondo
criteri di economicità, le funzioni in materia di raccolta e smaltimento dei rifiuti alla
stessa trasferite da enti pubblici territoriali, è soggetta alla normativa in materia di
responsabilità da reato degli enti.
Proprio sulla scorta della precedente sentenza, la Cassazione penale ha ribadito che la
finalità dell’esenzione è quella di “escludere dall’applicazione di misure cautelari ed
interdittive previste dal Decreto 231 enti non solo pubblici, ma che svolgano funzioni
non economiche, istituzionalmente rilevanti sotto il profilo dell’assetto costituzionale
dello Stato amministrazione”.
Mentre, nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte con la sentenza n. 234/2011, la
società per azioni costituita da enti territoriali per l’espletamento del servizio di smalti-
mento dei rifiuti, rivestendo una forma giuridica di diritto privato improntata a criteri di
economicità, non può essere esclusa dalla disciplina della responsabilità amministrativa
degli enti, ancorché la stessa svolga un’attività – gestione del ciclo dei rifiuti – con
ricadute indirette su beni costituzionalmente garantiti.
Tali orientamenti, come meglio specificato nel prosieguo, sono stati confermati anche
dall’ANAC, laddove le Linee Guida adottate con Determinazione n. 8/2015 37 muovono

35
Si pensi a tutti gli enti che operano per la tutela dell’ambiente e della salute, oppure nei settori
dell’informazione, dell’istruzione, della ricerca, ecc. A tale proposito, secondo la citata Cassazione del
2010, supporre che basti la mera rilevanza costituzionale di uno dei valori in qualche modo coinvolti
nella funzione e nell’attività dell’ente sarebbe “opzione interpretativa che condurrebbe all’aberrante
conclusione di escludere dalla portata applicativa della disciplina un numero illimitato di enti operanti
non solo nel settore sanitario, ma anche in tutti quei settori in cui vengono ad essere coinvolti, seppure
indirettamente, valori costituzionali primari ed inderogabili”.
36
Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2011, n. 234.
37
ANAC, Linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corruzione e
trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle Pub-
bliche amministrazioni e degli enti pubblici economici, Determinazione n. 8 del 17 giugno 2015.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

dal presupposto fondamentale che le amministrazioni controllanti debbano garantire


l’adozione del modello di organizzazione e gestione previsto dal D.Lgs. n. 231/2001 da
parte delle società controllate, ritenendole quindi implicitamente attratte all’interno del
perimetro applicativo della norma. Con la Determinazione n. 1134/2017 38, d’altra parte,
l’Autorità ha evidenziato come, anche per i soggetti in cui la partecipazione pubblica
non sia di controllo, per evitare fenomeni di corruzione e mala gestio, “siano le Pub-
bliche amministrazioni partecipanti a dover promuovere l’adozione del modello 231”.
Un simile approccio deve essere adottato anche in relazione a fondazioni, associazioni
ed enti privati di cui all’art. 2-bis, comma 3 39, del D.Lgs. n. 33/2013 40.

1.1.6. Gli istituti di credito


Per quanto riguarda i destinatari della normativa, argomento che merita una trattazione
specifica è certamente quello dell’applicazione del Decreto 231 al mondo degli istituti di
credito.
La responsabilità amministrativa delle banche costituisce senza dubbio una fattispecie
peculiare, soprattutto a causa dell’assoggettamento degli istituti di credito ad una disci-
plina a sé stante 41 e alla vigilanza da parte della Banca d’Italia.
Proprio in base alle caratteristiche e alla delicatezza della funzione svolta dagli istituti di
credito, l’Autorità di vigilanza ha stabilito un sistema integrato di controlli che permea
l’intera attività aziendale e coinvolge soggetti diversi. Per ciò che concerne tale ambito,
infatti, la Banca d’Italia 42 evidenzia la necessità di “accertare l’efficacia di tutte le strut-
ture e funzioni coinvolte nel sistema dei controlli e l’adeguato coordinamento delle
medesime, promuovendo gli interventi correttivi delle carenze e delle irregolarità rile-
vate”.
Di conseguenza, oltre ai sindaci (orientati sempre più verso un controllo sulla gestione
piuttosto che meramente contabile) e alle società di revisione (che per le banche
quotate rivestono un ruolo particolarmente significativo), si richiamano, in particolare,
le funzioni aziendali di controllo di secondo livello (ad es. controllo dei rischi, funzione
di conformità alle norme, funzione antiriciclaggio) e terzo livello (internal audit).

38
ANAC, Nuove linee guida per l’attuazione della normativa in materia di prevenzione della corru-
zione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati dalle
Pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici, Determinazione n. 1134 dell’8 novembre
2017.
39
“Alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica,
con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di
produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pub-
blici”.
40
D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle Pubbliche amministra-
zioni”.
41
Testo Unico Bancario (di seguito, anche “TUB”), D.Lgs. 1˚ settembre 1993, n. 385.
42
BANCA D’ITALIA, Disposizioni di vigilanza per le banche, circolare n. 285 del 17 dicembre 2013,
11˚ aggiornamento.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

Appare chiaro, dunque, come all’interno di ogni banca sia già operativo un insieme di
regole, di procedure e di strutture organizzative volte ad assicurare il perseguimento
della efficacia e dell’efficienza dei processi aziendali, la salvaguardia del valore delle
attività e la protezione dalle perdite, l’affidabilità e l’integrità delle informazioni contabili
e gestionali, la conformità delle operazioni con la legge, con la normativa di vigilanza
nonché con le politiche, i piani, i regolamenti e le procedure interne.
Tale fattispecie rende le banche soggetti già intrinsecamente predisposti all’attuazione
delle procedure e dei protocolli di prevenzione stabiliti dal Decreto, l’elaborazione dei
quali, più che come un’operazione da effettuare ex novo, si configurerà come una
integrazione di adempimenti e meccanismi preventivi in “ottica 231”. In ogni caso,
pur in presenza di un sistema di controlli già ben strutturato, corre l’obbligo di sotto-
lineare come l’estensione del catalogo dei reati previsti dal Decreto (vedi infra) abbia
fatto sı̀ che gli istituti di credito diventassero soggetti particolarmente a rischio in rela-
zione alla responsabilità sancita dalla norma in questione.
Come sopra accennato, una delle principali peculiarità dell’applicazione della respon-
sabilità amministrativa alle banche consiste nella sua interazione con altre leggi e di-
sposizioni che governano l’attività operativa di tali soggetti. In aggiunta, ad esempio, ai
reati contro la Pubblica amministrazione o ai reati societari, per il mondo bancario è
opportuno rilevare la stretta interrelazione del D.Lgs. n. 231/2001 con il D.Lgs. 21
novembre 2007, n. 231 43, che ha introdotto l’art. 25-octies e ha esteso, dunque, all’alveo
del Decreto 231 in commento, le fattispecie criminose legate alla ricettazione, riciclag-
gio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita 44.
Oltre che in correlazione con la normativa antiriciclaggio, la disciplina 231 in ambito
bancario deve essere interpretata anche alla luce del citato TUB. In particolare, è
importante sottolineare come il Testo Unico Bancario rimandi il rilascio dell’autorizza-
zione allo svolgimento dell’attività bancaria alla Banca d’Italia, la quale esercita la
vigilanza informativa (artt. 51-52), regolamentare (art. 53) e ispettiva (art. 54). Palazzo

43
Attuazione della Direttiva n. 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finan-
ziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché
della Direttiva n. 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione.
44
Ai fini del D.Lgs. n. 231/2007 (ma non ai fini della responsabilità amministrativa degli enti), le
seguenti condotte, poste in essere intenzionalmente, integrano i presupposti del “riciclaggio” (art. 2):
- la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo a conoscenza che essi provengono da
un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività, allo scopo di occultare o dissimulare
l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle
conseguenze giuridiche delle proprie azioni;
- l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, provenienza, ubicazione, disposizione, movi-
mento, proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi, effettuati essendo a conoscenza che tali beni
provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività;
- l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni essendo a conoscenza, al momento della loro
ricezione, che tali beni provengono da un’attività criminosa o da una partecipazione a tale attività;
- la partecipazione ad uno degli atti di cui alle lettere precedenti, l’associazione per commettere tale
atto, il tentativo di perpetrarlo, il fatto di aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o il fatto
di agevolarne l’esecuzione.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

Koch, inoltre, sovrintende le crisi dell’impresa bancaria: ad esso compete, infatti, lo


scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e di controllo delle banche
quando risultano gravi violazioni di disposizioni legislative, regolamentari o statutarie o
gravi irregolarità nell’amministrazione, oppure sono previste gravi perdite del patrimo-
nio ovvero quando lo scioglimento è richiesto con istanza motivata dagli organi ammi-
nistrativi ovvero dall’assemblea straordinaria (art. 70, comma 1).
Un altro fattore che ha influenzato in maniera molto incisiva i rapporti tra responsabilità
da reato degli enti e normativa bancaria è costituito senza dubbio dalla Direttiva n.
2001/24/CE in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi. Infatti, la norma
attuativa della Direttiva (D.Lgs. n. 194/2004, art. 8) ha introdotto all’interno del TUB
un’intera sezione rubricata “Responsabilità per illecito amministrativo dipendente da
reato”. In particolare, l’art. 97-bis del TUB, istituendo una disciplina speciale per le
banche, rende il tentativo di omogeneizzare la disciplina del testo unico con quella
del D.Lgs. n. 231/2001 piuttosto difficoltoso e sovente contraddittorio 45. La nuova
disposizione modifica e, in alcuni casi, deroga alle prescrizioni del Decreto 231, so-
prattutto in merito all’applicazione delle sanzioni e delle misure cautelari: mentre queste
ultime non sono applicabili alle banche, le sanzioni interdittive non sono eseguite dal
giudice, bensı̀ dalla Banca d’Italia. Di conseguenza, appare chiaro come tra le due
discipline concorrenti – TUB e Decreto 231 – quest’ultima disciplina, in relazione ad
alcune fattispecie, sia stata “piegata” all’impostazione normativa della prima 46.
La fase esecutiva della comminazione della sanzione, dunque, è interamente devoluta
alla Banca d’Italia; tale fattispecie secondo parte della dottrina porta come conseguenza
l’“affievolirsi del controllo giurisdizionale” 47, mentre altra parte ritiene che la norma

45
L’art. 97-bis del TUB recita: “1. Il Pubblico ministero che iscrive, ai sensi dell’art. 55 del D.Lgs. 8
giugno 2001, n. 231, nel registro delle notizie di reato un illecito amministrativo a carico di una banca
ne dà comunicazione alla Banca d’Italia e, con riguardo ai servizi di investimento, anche alla CONSOB.
Nel corso del procedimento, ove il Pubblico ministero ne faccia richiesta, vengono sentite la Banca
d’Italia e, per i profili di competenza, anche la CONSOB, le quali hanno, in ogni caso, facoltà di
presentare relazioni scritte. 2. In ogni grado del giudizio di merito, prima della sentenza, il giudice
dispone, anche d’ufficio, l’acquisizione dalla Banca d’Italia e dalla CONSOB, per i profili di specifica
competenza, di aggiornate informazioni sulla situazione della banca, con particolare riguardo alla
struttura organizzativa e di controllo. 3. La sentenza irrevocabile che irroga nei confronti di una banca
le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, lett. a) e b), del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231,
decorsi i termini per la conversione delle sanzioni medesime, è trasmessa per l’esecuzione dall’Auto-
rità giudiziaria alla Banca d’Italia. A tale fine la Banca d’Italia può proporre o adottare gli atti previsti
dal titolo IV, avendo presenti le caratteristiche della sanzione irrogata e le preminenti finalità di
salvaguardia della stabilità e di tutela dei diritti dei depositanti e della clientela. 4. Le sanzioni inter-
dittive indicate nell’art. 9, comma 2, lett. a) e b), del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non possono essere
applicate in via cautelare alle banche. Alle medesime non si applica, altresı̀, l’art. 15 del D.Lgs. 8
giugno 2001, n. 231”.
46
Sul punto si veda G. Losappio, “Le banche e la responsabilità da reato degli enti”, in Rivista 231, 3/
2011, pagg. 147 ss.
47
A. Bernasconi, “Processo agli enti e regole speciali per banche, intermediari finanziari ed imprese di
assicurazione”, in Rivista 231, 1/2009, pag. 36.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

attribuisca alla Banca centrale a tutti gli effetti i poteri di giudice dell’esecuzione, senza
conseguenze sull’incisività e l’efficacia deterrente delle sanzioni 48: nel caso di sentenza
che commini sanzioni ex art. 9, comma 2, lett. a) e b) del D.Lgs. n. 231/2001 (interdi-
zione dall’esercizio dell’attività e sospensione o revoca delle autorizzazioni), il dispo-
sitivo viene trasmesso per l’esecuzione alla Banca d’Italia.
Oltre che in merito all’esecuzione delle sanzioni, le prescrizioni del TUB presentano
profili di contraddittorietà anche in relazione ad altre disposizioni del Decreto 231, tra
cui soprattutto quelle relative al commissario giudiziale: l’art. 15, in virtù del quale il
giudice può disporre la prosecuzione dell’attività da parte di un commissario giudiziale,
ricorrendo i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva e nel caso in cui
l’interruzione dell’attività rischi di provocare un grave pregiudizio alla collettività ovvero
sensibili ripercussioni sui livelli occupazionali dell’ente, deve essere confrontato con il
citato art. 70, comma 1 e con l’art. 80 del TUB: in base a tali norme, anche in queste
circostanze è la Banca d’Italia che può proporre al Ministero dell’Economia l’instaura-
zione dell’amministrazione straordinaria o la liquidazione coatta amministrativa delle
banche.
Per ciò che concerne il rapporto tra istituti di credito e disciplina del Decreto 231, in
alcuni casi la giurisprudenza è stata molto incisiva, fornendo altresı̀ spunti interessanti in
relazione ai reati che potrebbero integrare la responsabilità prevista dalla norma e, di
conseguenza, ai presidi da realizzare per mitigare i rischi di commissione di illeciti. In
particolare, con la sentenza n. 13976 del 19 dicembre 2012, per il reato di truffa posta in
essere ai danni del Comune di Milano nel ruolo di arrengers per la sottoscrizione di
alcuni titoli derivati, quattro banche sono state assoggettate alla responsabilità ammini-
strativa ex D.Lgs. n. 231/2001.
In relazione ai delitti di falsità nel bilancio, di manipolazione del mercato e ostacolo alle
funzioni di vigilanza della Banca d’Italia, la sentenza del GUP di Milano del 3 novembre
2010, oltre a comminare rilevanti sanzioni all’ente, ha altresı̀ specificato che la “colpa di
organizzazione” non rappresenta un concetto indeterminato, in quanto la disciplina
emanata sia dall’organismo vigilante che dal legislatore nazionale, oltre ai riferimenti
regolamentari e di soft law, rendono evidente la cornice all’interno della quale si colloca
l’onere per le società di dotarsi di una struttura organizzativa adeguata e di adottare
modelli organizzativi ex D.Lgs. n. 231/2001 49.

48
Tra i fautori di tale tesi, si veda M. Arena, La prevenzione dei reati in ambito bancario, www.rea-
tisocietari.it, 2005. Altri autori non rilevano una contraddizione in una simile fattispecie: al contrario,
sarebbe persino paradossale una disciplina diversa che, in nome della tutela delle funzioni di vigi-
lanza, in presenza di un procedimento penale, neutralizzasse i “poteri” della Banca d’Italia, anche
quelli più incisivi rispetto agli strumenti che i codici attribuiscono alla magistratura, impedendo alla
pubblica autorità di vigilanza del settore di operare a tutela dei risparmiatori e del risparmio; si veda,
ex multis, G. De Francesco, Interessi collettivi e tutela penale. «Funzioni» e programmi di disciplina
dell’attuale complessità sociale, in E. Dolcini – C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio
Marinucci, vol. I, Milano, 2006.
49
Sul punto, la sentenza conclude scrivendo che: “In tale contesto normativo si rivela, pertanto, fallace
l’asserto secondo il quale il contenuto dei modelli organizzativi sarebbe indeterminato, in quanto il

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

In definitiva, alla luce di quanto finora analizzato, è pacifico ritenere che l’applica-
zione agli istituti di credito della normativa inerente alla responsabilità amministrativa
degli enti presenta non pochi profili di criticità e ambiguità: il particolare settore di
attività, gli ulteriori obblighi di trasparenza, l’attività di vigilanza e di controllo da parte
della Banca d’Italia fanno permanere diversi dubbi, soprattutto per quanto attiene
l’effettiva attuazione di alcuni aspetti del Decreto 231 (irrogazione delle sanzioni
interdittive, nomina del commissario giudiziale, ecc.). In ogni caso, pur essendo le
banche già assoggettate a stringenti verifiche e obbligate a dotarsi di strumenti di
prevenzione dei rischi già nello svolgimento dell’ordinaria attività operativa, non
può ritenersi plausibile, ai fini dell’esenzione dalla responsabilità, una totale sovrap-
posizione tra tali meccanismi di controllo e gli specifici protocolli citati dalla norma
(vedi infra), che dovranno quindi completare il sistema di controllo interno già esi-
stente in un’ottica di compliance integrata.

1.1.7. Gli operatori socio-sanitari


L’applicazione del Decreto 231 agli operatori del settore socio-sanitario costituisce
un’altra fattispecie di grande interesse: l’argomento è particolarmente sensibile se si
pensa che gli operatori di tale settore presentano come tipologia di bene la salute,
valore costituzionalmente tutelato, con un ammontare di spesa molto rilevante per le
casse dello Stato.
Le perplessità relative all’attrazione nell’ambito applicativo del D.Lgs. n. 231/2001
derivavano, in passato, da due elementi fondamentali: in primo luogo, molte strutture
del settore socio-sanitario sono in realtà semi-pubbliche, in quanto partecipate a
vario titolo da parte di enti pubblici; inoltre, come sopra accennato, gli operatori in
questione svolgono funzioni costituzionalmente garantite, vale a dire prestazioni
sanitarie volte a tutelare l’inalienabile e insopprimibile diritto alla salute. In relazione
alla prima problematica, la citata sentenza della Corte di Cassazione n. 26899/2010,
riguardante giustappunto una struttura ospedaliera a parziale partecipazione pubbli-
ca, ha fugato ogni dubbio in merito alla possibile applicazione del Decreto a società
che gestiscono simili servizi, anche se il loro capitale è detenuto da soggetti di natura
pubblicistica.
A proposito del tipo di prestazioni e di servizi erogati da tali soggetti, bisogna rilevare
come la pronuncia in questione stabilisca la possibilità di estensione della responsabilità
ex Decreto 231 attraverso la distinzione tra valori di rango costituzionale (tale è la
salute) e lo svolgimento di funzioni di rilievo costituzionale, previsto come causa di
esclusione soggettiva della responsabilità amministrativa dell’ente dall’art. 1, comma 3,

(continua)
legislatore agli artt. 6 e 7 del D.lgs. 231/01 delinea un contenuto tipico degli stessi e ciascun ente può
mutuare le prescrizioni organizzative di dettaglio dall’insieme della disciplina primaria e sub-primaria
di settore, dagli atti di autoregolamentazione vigenti e dalle linee guida emanate dalle associazioni di
settore”.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

del D.Lgs. n. 231/2001 50. Le principali argomentazioni interpretative adottate dalla


Suprema Corte evidenziano che:
• gli enti dotati di funzione costituzionale sono solo quelli “(almeno) menzionati nella
Carta Costituzionale”;
• dal tenore letterale dell’art. 1 del Decreto si evince come la sola natura pubblicistica
dell’ente sia condizione necessaria, ma non sufficiente, per godere dell’esonero
dalla disciplina in questione in quanto l’elemento discriminante risiede nel mancato
svolgimento di un’attività economica da parte dell’ente; affinché un soggetto non
ricada all’interno del perimetro della normativa 231, dunque, è necessario che
concorra tale ulteriore condizione.
L’elemento ostativo all’applicazione del Decreto derivante dalla erogazione di un ser-
vizio mirato allo svolgimento di funzioni costituzionalmente rilevanti è stato superato
dalla Cassazione attraverso la menzionata sentenza. Tale orientamento può e deve
essere interpretato, a fortiori, alla luce dell’art. 15 della norma, in base al quale la
gestione da parte dell’ente di un servizio pubblico non esclude l’applicazione della
disciplina in esame; qualora l’interruzione del servizio possa determinare un grave
pregiudizio alla collettività, la prosecuzione dell’attività sarà affidata ad un Commissario
nominato dal Giudice (vedi infra). Simili interpretazioni portano a ritenere che sia
proprio la presenza di un interesse pubblico nel settore interessato ad imporre che
l’attività sia tutelata e riportata in un ambito di legalità, se del caso anche con l’appli-
cazione delle misure cautelari di cui all’art. 45.
La modifica che ha interessato il settore in oggetto, con la trasformazione delle Unità
Sanitarie in Aziende Sanitarie, rappresenta un’ulteriore testimonianza dell’assoggetta-
mento degli enti di gestione a principi di economicità, efficacia ed efficienza 51, ren-
dendo irrilevante, nella diatriba sull’applicabilità della responsabilità da reato, l’accerta-
mento della presenza della forma societaria e l’analisi della composizione della com-
pagine sociale. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocano anche parte del diritto e della
giurisprudenza comunitaria, la quale ultima ha sancito che “l’attività sanitaria, anche
quella interamente finanziata con fondi pubblici e per la quale il paziente non deve
alcun corrispettivo” costituisce attività economica 52.
Il Decreto del Ministero della Salute n. 70/2015 introduce l’applicazione del D.Lgs. n.
231/2001 per le strutture sanitarie private che intendono accreditarsi. Per ricevere l’au-
torizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria, le strutture devono presentare una do-
manda che risponda ai requisiti minimi definiti dalla normativa nazionale e ai requisiti
ulteriori definiti dalle Regioni. La domanda deve essere presentata alla Regione, utiliz-
zando l’apposita modulistica definita a livello regionale, e deve specificare le presta-

50
Si veda L.G. Insigna – P. Pisani, “Il modello esimente per l’ente operante nel settore socio sanitario”,
in Rivista 231, 3/2011, pagg. 135 ss.
51
In tal senso la natura di aziende, per esse già prevista dal D.Lgs. n. 502/1992, è stata ulteriormente
rafforzata dal D.Lgs. n. 229/1999 con la previsione di un’autonomia imprenditoriale, dovendo l’attività
svolta essere informata per legge a “criteri di efficacia, efficienza ed economicità” (cfr. R. De Matteis,
Responsabilità e servizi sanitari, Padova, 2007, pag. 62).
52
Si veda CGE, 10 maggio 2001, sentenza n. 203.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

zioni sanitarie che si intendono erogare. Il D.Lgs. n. 51/1993 ha integrato la normativa


riguardante il riordino della disciplina in materia sanitaria (D.Lgs. n. 502/1992) renden-
do obbligatorio il processo di accreditamento per le strutture autorizzate che vogliano
operare nell’ambito del SSN/SSR. Per ricevere l’accreditamento le Strutture devono
rispettare i requisiti minimi imposti dalle Regioni competenti. Il Decreto del Ministero
della Salute n. 70/2015 sancisce all’art. 1, comma 5, lett. b) che come requisito fonda-
mentale per l’accreditamento sia ricompresa l’applicazione delle norme di cui D.Lgs. n.
231/2001.
Appurata la indefettibile e inderogabile attrazione delle strutture socio-sanitarie all’alveo
della normativa, è opportuno evidenziare come tali soggetti siano enti particolarmente a
rischio in ottica 231, in quanto l’intrinseca natura della loro attività può coinvolgerli nella
commissione di un’ampia varietà di reati tra quelli previsti dalla norma (vedi infra). Di
conseguenza, la presenza di un modello di organizzazione, gestione e controllo appare
indispensabile. A tale riguardo, è assolutamente imprescindibile sottolineare la non
sovrapponibilità dei protocolli previsti dal Decreto con il rispetto di certificazioni, nor-
me tecniche e standard di vario tipo 53: sebbene nell’attività di normazione tecnica –
specie quella rispondente agli elementi che soddisfano la produzione ISO in materia di
sistemi di gestione – siano ravvisabili alcuni profili generali aventi indubbie analogie con
i modelli specificamente rispondenti ad una finalità preventiva, le certificazioni otte-
nute in ordine al rispetto di norme tecniche di altri settori non possono mai considerarsi
esaustive degli oneri dipendenti dal D.Lgs. n. 231/2001, in quanto tali certificazioni e le
relative norme tecniche in molti casi perseguono obiettivi differenti (quali la customer
satisfaction, l’efficienza produttiva, ecc.) che non implicano affatto, per se stessi, la
prevenzione di reati.
Tra i processi specifici a rischio 231 che caratterizzano l’attività delle organizzazioni
(pubbliche e private) attive nel settore sanitario si evidenziano:
• la gestione del trattamento dei dati personali;
• la gestione e il trattamento dei rifiuti e scarti prodotti;
• i processi di reclutamento del personale;
• i processi di acquisizione di materiale di consumo per laboratorio;
• la gestione dei rapporti con le aziende farmaceutiche;
• la manutenzione delle apparecchiature elettromedicali;
• la farmaceutica territoriale e il coinvolgimento dei medici di base nel processo di
valutazione dei consumi sanitari del territorio;
• la gestione delle liste d’attesa per l’accesso alle prestazioni sanitarie;
• la gestione dei flussi informativi sanitari e amministrativi da e verso la Pubblica
amministrazione;
• la gestione del piano sicurezza sul lavoro.
Nello specifico, secondo il report “Corruzione e sprechi in Sanità” di RiSSC e Transpa-

53
Si pensi, ad esempio, alle certificazioni ISO, agli adempimenti previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 e cosı̀
via.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

rency International Italia, possono essere individuate 5 macro-aree di rischio di seguito


rappresentate:

NOMINE
• Ingerenza politica;
• Revolving doors;
• Conflitto di interessi;
• Spoil system.

FARMACEUTICA
• Aumento artificioso dei prezzi;
• Brevetti;
• Comparaggio;
• Falsa ricerca scientifica;
• Prescrizioni fasulle/non necessarie;
• Rimborsi fasulli.

PROCUREMENT
• Gare non necessarie;
• Procedure non corrette;
• Gare orientate a cartelli;
• Infiltrazione crimine organizzato;
• False attestazioni di forniture.

NEGLIGENZA
• Scorrimento liste d’attesa;
• Dirottamento verso sanità privata;
• False dichiarazioni/omessi versamenti (Intramoenia).

SANITÀ PRIVATA
• Mancato controllo requisiti;
• Ostacoli all’ingresso e basso turnover;
• Prestazioni inutili;
• Truffe ai danni del SSN.
Alcune Regioni stanno promuovendo interventi normativi nell’ambito dei quali ai mo-
delli 231 sono attribuite nuove funzioni e in cui l’adozione del modello diventa un
requisito obbligatorio per avere rapporti con la Pubblica amministrazione o essere
accreditati per l’erogazione di servizi di pubblico interesse. In questa nuova ottica il
modello 231, in quanto modello organizzativo e di gestione, diventa uno strumento di
autocontrollo che aumenta l’affidabilità del fornitore privato e una sorta di garanzia di
efficienza delle attività erogate con il finanziamento di fondi pubblici. Fino ad oggi i
provvedimenti più rilevanti in materia sono stati adottati dalla Regione Lombardia, la
quale attraverso l’Allegato 1 del D.G.R. n. 2569/2014 prevede l’obbligo di adozione del
Modello nell’ambito del processo di accreditamento, al punto 3.2.4. “Gestione, valuta-

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

zione e miglioramento della qualità, regolamenti interni”, lettera f) “Adozione del mo-
dello organizzativo e del codice etico ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001”.

1.1.8. Il Terzo Settore


Mentre in relazione ad alcuni dei soggetti sopra menzionati (banche, strutture sanitarie,
società partecipate), l’attrazione all’ambito della disciplina sulla responsabilità ammini-
strativa delle imprese non è scevra da perplessità, nessun dubbio invece riguarda le
realtà del mondo no-profit (il c.d. Terzo Settore). I soggetti in questione, infatti, operano
nella quasi totalità dei casi utilizzando la veste giuridica delle associazioni, le quali in
base al tenore letterale della norma sono senza dubbio tra i soggetti destinatari della
disciplina in oggetto 54.
Tuttavia, a dispetto della chiarezza dell’art. 1 del Decreto, il dibattito dottrinale ha
portato a dubitare che alcuni operatori (es.: ONLUS, ONG, ecc.) potessero essere
assoggettati alla responsabilità da reato, visto il rilievo e la delicatezza di alcuni servizi
offerti, adducendo a sostegno di tale interpretazione le medesime argomentazioni
menzionate in relazione agli operatori socio-sanitari e alle società partecipate, nonché
l’assenza del fine di lucro e la carenza del necessario carattere imprenditoriale dell’atti-
vità svolta 55.
In ogni caso, oltre al dato letterale, i dubbi sull’inclusione di tali soggetti nell’ambito
applicativo 231 dovrebbero essere fugati sulla base di considerazioni relative all’attività
di alcuni di essi: si pensi alle fondazioni, che in alcuni casi detengono enormi valori
immobiliari e mobiliari (si pensi ai consistenti pacchetti azionari di società quotate), o
anche, più semplicemente, alle associazioni sportive dilettantistiche, che in molti casi
diventano strumento di frodi fiscali, truffe e malversazioni. Soprattutto in relazioni a tali
soggetti, già da qualche tempo le interpretazioni prevalenti propendono senza dubbio
per la loro attrazione nel perimetro di applicazione della norma 56.
Da simili ragionamenti ben si comprende come anche gli operatori del mondo no-profit
debbano essere ritenuti in ogni caso soggetti a rischio 231, considerate, in alcuni casi, le
rilevanti conseguenze anche sociali potenzialmente derivanti dalla commissione di un
illecito.
Anche in questa circostanza, come nelle fattispecie in precedenza analizzate, la giuri-
sprudenza ha svolto un ruolo fondamentale: eliminando ogni perplessità al riguardo, ad
esempio attraverso la sentenza del 22 marzo 2011 il giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale di Milano, pronunciandosi su richiesta delle parti ex art. 63 del D.Lgs. n. 231/
2001, ha condannato un’associazione volontaria di pubblica assistenza (A.N.P.A.) per il

54
L’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 231/2001 annovera infatti tra i soggetti coinvolti nella responsabilità
amministrativa dipendente da reato le “società e associazioni anche prive di personalità giuridica”.
55
Sul punto si veda O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in G. Lattanzi (a
cura di), Reati e responsabilità degli enti, Milano, Giuffrè, 2010, pag. 35.
56
Per un’ampia rassegna della dottrina e della letteratura sul tema, si veda F. D’arcangelo, “Le fonda-
zioni e le associazioni”, in M. Levis e A. Perini (a cura di), Commentario al d.lgs. 231/2001, Bologna,
2014, pagg. 48 ss.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

delitto di truffa ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.), previsto tra i reati
presupposto dall’art. 24, comma 1, del Decreto 231. Nel caso di specie, la ONLUS in
questione è stata condannata per le condotte fraudolente attraverso le quali simulava
nei confronti dei terzi la propria natura solidaristica e volontaristica (senza fini di lucro)
per ottenere sussidi e contributi a titolo gratuito, nonché per assicurarsi contratti e
convenzioni con enti e istituzioni pubbliche, anche in mancanza dei requisiti necessari.
Risulta allora evidente come l’associazione condannata dal Tribunale milanese, pur
agendo sotto la veste giuridica di un ente no profit, in realtà svolgesse attività sostan-
zialmente imprenditoriale nel settore sanitario perseguendo, anche e soprattutto in
maniera illecita, ben precisi interessi economici. In via preliminare, il giudice adito ha
contestato ai rappresentanti della ONLUS, anche in concorso, una serie di reati che
hanno portato al patteggiamento della pena in sede di udienza preliminare. Successi-
vamente, in base all’art. 63 del Decreto, in presenza di giudizio definitivo in capo agli
imputati (i legali rappresentanti dell’ente), il giudice per l’udienza preliminare, in osse-
quio alle disposizioni di cui all’art. 9 (sanzioni amministrative) e all’art. 19 (confisca) del
medesimo Decreto, ha applicato la sanzione pecuniaria di euro 26.000 all’ente non
commerciale, disponendo altresı̀ la confisca delle giacenze bancarie e di tutti gli auto-
mezzi già oggetto del sequestro preventivo disposto dal GIP nel 2010, ritenendo, dun-
que, corretta l’applicazione delle sanzioni e delle misure interdittive previste dal D.Lgs.
n. 231/2001 57.
Ad ogni modo, la norma in esame, in relazione agli enti in oggetto, andrebbe inter-
pretata anche alla luce di recenti interventi legislativi, primo fra tutti, il D.Lgs. n. 117/
2017 58, che ha attuato una revisione e un riordino organico nell’ambito del Terzo
Settore in ottemperanza alla delega del Governo contenuta nella Legge n. 106/2016.
In particolare, l’art. 4 della norma, al comma 1, individua in maniera puntuale i soggetti
che possono essere definiti Enti del Terzo Settore (di seguito anche “ETS”), vale a dire:
• organizzazioni di volontariato;
• associazioni di promozione sociale;
• enti filantropici;
• imprese sociali, incluse le cooperative sociali;
• reti associative;
• società di mutuo soccorso;
• associazioni, riconosciute o non riconosciute;
• fondazioni;
• altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento,
senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo

57
CNDCEC, “Il modello 231/2001 per gli enti non profit: una soluzione per la gestione dei rischi”,
ottobre 2012, pag. 16.
58
D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117, “Codice del Terzo Settore, a norma dell’art. 1, comma 2, lettera b), della
Legge 6 giugno 2016, n. 106”. Sull’argomento, C. Manacorda, “La riforma del terzo settore e dell’im-
presa sociale: presenze del d.lgs. 231/2001 e aspetti problematici di applicazione”, in Rivista 231, 1/
2018, pagg. 123 ss.; e, con riferimento alla Legge delega, P. Ghini, Terzo settore: trasparenza e
responsabilità. Quadro aggiornato della disciplina, ivi, 4/2016, pagg. 153 ss.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale


in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel Registro Unico
Nazionale del Terzo Settore.
I commi 2 e 3 dell’art. 4 contribuiscono in maniera ancor più puntuale alla definizione di
Enti del Terzo Settore, precisando che non appartengono a tali soggetti: le amministra-
zioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni
professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di
lavoro, nonché gli enti diretti o controllati da questi, ad esclusione di quelli operanti nel
settore della protezione civile.
Le attività che gli ETS devono svolgere sono dettagliate all’art. 5, il quale stabilisce che
tali soggetti “esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse
generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche
e di utilità sociale”, che possono afferire a diversi settori e ad ambiti molto ampi ed
eterogenei 59, con la possibilità di raggiungere livelli molto significativi in termini di
dimensioni, complessità organizzativa e cosı̀ via.

59
In particolare, “si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari
che ne disciplinano l’esercizio, le attività aventi ad oggetto: a) interventi e servizi sociali ai sensi
dell’art. 1, commi 1 e 2, della Legge 8 novembre 2000, n. 328, e successive modificazioni, e interventi,
servizi e prestazioni di cui alla Legge 5 febbraio 1992, n. 104, e alla Legge 22 giugno 2016, n. 112, e
successive modificazioni; b) interventi e prestazioni sanitarie; c) prestazioni socio-sanitarie di cui al
Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 febbraio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 129 del 6 giugno 2001, e successive modificazioni; d) educazione, istruzione e formazione profes-
sionale, ai sensi della Legge 28 marzo 2003, n. 53, e successive modificazioni, nonché le attività
culturali di interesse sociale con finalità educativa; e) interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia
e al miglioramento delle condizioni dell’ambiente e all’utilizzazione accorta e razionale delle risorse
naturali, con esclusione dell’attività, esercitata abitualmente, di raccolta e riciclaggio dei rifiuti urbani,
speciali e pericolosi, nonché alla tutela degli animali e prevenzione del randagismo, ai sensi della
Legge 14 agosto 1991, n. 281; f) interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del
paesaggio, ai sensi del Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni; g)
formazione universitaria e post-universitaria; h) ricerca scientifica di particolare interesse sociale; i)
organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività,
anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività
di interesse generale di cui al presente articolo; j) radiodiffusione sonora a carattere comunitario, ai
sensi dell’art. 16, comma 5, della Legge 6 agosto 1990, n. 223, e successive modificazioni; k) orga-
nizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso; l) formazione extra-
scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica e al successo scolastico e formativo,
alla prevenzione del bullismo e al contrasto della povertà educativa; m) servizi strumentali ad Enti del
Terzo Settore resi da enti composti in misura non inferiore al settanta per cento da Enti del Terzo
Settore; n) cooperazione allo sviluppo, ai sensi della Legge 11 agosto 2014, n. 125, e successive
modificazioni; o) attività commerciali, produttive, di educazione e informazione, di promozione, di
rappresentanza, di concessione in licenza di marchi di certificazione, svolte nell’ambito o a favore di
filiere del commercio equo e solidale, da intendersi come un rapporto commerciale con un produttore
operante in un’area economica svantaggiata, situata, di norma, in un Paese in via di sviluppo, sulla

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

Una delle principali novità del nuovo impianto normativo è l’istituzione del Registro
Unico Nazionale del Terzo Settore (art. 45), al quale sono tenuti a iscriversi i soggetti
che beneficiano di finanziamenti pubblici, di fondi privati raccolti attraverso pubbliche
sottoscrizioni o di fondi europei, che esercitano attività in convenzione con enti pub-
blici, o che intendono avvalersi delle agevolazioni fiscali concesse in base alla norma
(artt. da 79 a 86).
L’iscrizione e la permanenza all’interno del Registro implicano il rispetto di una serie di
requisiti e di alcuni adempimenti in termini di trasparenza e informazione 60.
Nell’ambito della Riforma del Terzo Settore, è stata elaborata un’autonoma e specifica
disciplina per le imprese sociali, ad opera del D.Lgs. n. 112/2017, che ne ha definito le
caratteristiche, le agevolazioni fiscali a favore di eventuali investitori, la modalità di
distribuzione degli utili, e cosı̀ via.
In base all’art. 1, comma 1 della norma, possono acquisire la qualifica di impresa
sociale “tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del
codice civile, che [...] esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di
interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più
ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro

(continua)
base di un accordo di lunga durata finalizzato a promuovere l’accesso del produttore al mercato e che
preveda il pagamento di un prezzo equo, misure di sviluppo in favore del produttore e l’obbligo del
produttore di garantire condizioni di lavoro sicure, nel rispetto delle normative nazionali ed interna-
zionali, in modo da permettere ai lavoratori di condurre un’esistenza libera e dignitosa, e di rispettare i
diritti sindacali, nonché di impegnarsi per il contrasto del lavoro infantile; p) servizi finalizzati all’in-
serimento o al reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori e delle persone di cui all’art. 2,
comma 4, del Decreto legislativo recante revisione della disciplina in materia di impresa sociale, di cui
all’art. 1, comma 2, lettera c), della Legge 6 giugno 2016, n. 106; q) alloggio sociale, ai sensi del
Decreto del Ministero delle infrastrutture del 22 aprile 2008, e successive modificazioni, nonché ogni
altra attività di carattere residenziale temporaneo diretta a soddisfare bisogni sociali, sanitari, culturali,
formativi o lavorativi; r) accoglienza umanitaria ed integrazione sociale dei migranti; s) agricoltura
sociale, ai sensi dell’art. 2 della Legge 18 agosto 2015, n. 141, e successive modificazioni; t) organiz-
zazione e gestione di attività sportive dilettantistiche; u) beneficenza, sostegno a distanza, cessione
gratuita di alimenti o prodotti di cui alla Legge 19 agosto 2016, n. 166, e successive modificazioni, o
erogazione di denaro, beni o servizi a sostegno di persone svantaggiate o di attività di interesse
generale a norma del presente articolo; v) promozione della cultura della legalità, della pace tra i
popoli, della nonviolenza e della difesa non armata; w) promozione e tutela dei diritti umani, civili,
sociali e politici, nonché dei diritti dei consumatori e degli utenti delle attività di interesse generale di
cui al presente articolo, promozione delle pari opportunità e delle iniziative di aiuto reciproco, incluse
le banche dei tempi di cui all’art. 27 della Legge 8 marzo 2000, n. 53, e i gruppi di acquisto solidale di
cui all’art. 1, comma 266 della Legge 24 dicembre 2007, n. 244; x) cura di procedure di adozione
internazionale ai sensi della Legge 4 maggio 1983, n. 184; y) protezione civile ai sensi della Legge 24
febbraio 1992, n. 225, e successive modificazioni; z) riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di
beni confiscati alla criminalità organizzata”.
60
Si pensi, ad esempio, all’obbligo, per gli Enti del Terzo Settore con entrate superiori a 1 milione di
euro di depositare, presso il Registro, il bilancio sociale.

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1. Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo
1.1. L’ambito applicativo

attività” 61. Il comma 2, d’altro canto, stabilisce che “non possono acquisire la qualifica
di impresa sociale le società costituite da un unico socio persona fisica, le ammini-
strazioni pubbliche [...] e gli enti i cui atti costitutivi limitino, anche indirettamente,
l’erogazione dei beni e dei servizi in favore dei soli soci o associati”.
Per ciò che concerne l’assenza di scopo di lucro, l’art. 3 precisa che tale requisito è
rispettato quando l’impresa destina eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento
dell’attività prevista dallo statuto o all’incremento del patrimonio, senza procedere alla
distribuzione, diretta o indiretta, di tali utili o avanzi di gestione 62.
La Riforma complessiva del Terzo Settore ha avuto un impatto molto significativo anche
in relazione alla disciplina 231, atteso che la stessa Legge delega, all’art. 4, comma 1, lett.
g), tra i principi e i criteri direttivi a cui devono ispirarsi i decreti delegati, elenca la
necessità di “disciplinare gli obblighi di controllo interno, di rendicontazione, di traspa-
renza e d’informazione nei confronti degli associati, dei lavoratori e dei terzi, differen-
ziati anche in ragione della dimensione economica dell’attività svolta e dell’impiego di
risorse pubbliche, tenendo conto di quanto previsto dal decreto legislativo 8 giugno
2001, n. 231, nonché prevedere il relativo regime sanzionatorio”. Un ulteriore riferi-

61
Le cooperative sociali e i loro consorzi, di cui alla Legge 8 novembre 1991, n. 381, acquisiscono di
diritto la qualifica di imprese sociali.
62
A tale proposito, in base al disposto del comma 2 dell’art. 3, si considera in ogni caso distribuzione
indiretta di utili:
“a) la corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi
individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competen-
ze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e
condizioni;
b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del
quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui
all’art. 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla
necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse gene-
rale di cui all’art. 2, comma 1, lettere b), g) o h);
c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi dalle
banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, in misura superiore a due punti rispetto al limite
massimo previsto per la distribuzione di dividendi dal comma 3, lettera a);
d) l’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al
loro valore normale;
e) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, a soci,
associati o partecipanti, ai fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, a coloro
che a qualsiasi titolo operino per l’organizzazione o ne facciano parte, ai soggetti che effettuano
erogazioni liberali a favore dell’organizzazione, ai loro parenti entro il terzo grado ed ai loro affini
entro il secondo grado, nonché alle società da questi direttamente o indirettamente controllate o
collegate, esclusivamente in ragione della loro qualità, salvo che tali cessioni o prestazioni non
costituiscano l’oggetto dell’attività di interesse generale di cui all’art. 2;
f) la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di
interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di quattro punti al tasso annuo
di riferimento. Il predetto limite può essere aggiornato con decreto del Ministro del lavoro e delle
politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze”.

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Il D.Lgs. n. 231/2001: l’impianto normativo 1.
L’ambito applicativo 1.1.

mento è presente all’art. 6, comma 1, lett. g), laddove nello specifico ambito dell’im-
presa sociale, il legislatore ha inserito tra i principi da seguire la necessità di prevedere
“la nomina, in base a principi di terzietà, fin dall’atto costitutivo, di uno o più sindaci allo
scopo di monitorare e vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto da parte
dell’impresa sociale, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione, anche con
riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e sull’ade-
guatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile”.
Tali riferimenti sono stati recepiti nei decreti delegati, ad esempio nel Codice del Terzo
Settore, laddove all’art. 30, comma 6, si stabilisce che l’organo di controllo 63 di asso-
ciazioni e fondazioni debba vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto e sul
rispetto dei principi di corretta amministrazione, anche con riferimento alle disposizioni
del D.Lgs. n. 231/2001, qualora applicabili, nonché sull’adeguatezza dell’assetto orga-
nizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento.
Una prescrizione simile si rinviene, per ciò che concerne l’impresa sociale, all’art. 10,
comma 2 del D.Lgs. n. 112/2017, in relazione all’organo di controllo e ai suoi obblighi,
in ottemperanza a quanto indicato dalla Legge delega.
Ad ogni modo, le nuove norme relative al Terzo Settore sembrano ulteriormente fugare
anche eventuali dubbi interpretativi sorti in sede di prima applicazione del D.Lgs. n.
231/2001, come in precedenza evidenziato, ad esempio in relazione alle fondazioni.
Poiché i decreti delegati non effettuano distinzioni tra fondazioni e associazioni (rico-
nosciute e non), appare pacifico ipotizzare l’applicazione del Decreto alle fondazioni: di
conseguenza, l’inciso presente sia nel D.Lgs. n. 112/2017 che nel D.Lgs. n. 117/2017
(“qualora applicabili”) appare più una clausola di stile che una vera e propria riserva
relativa ad alcuni specifici soggetti, in realtà neanche completamente aderente allo
spirito e al dettato della Legge delega, che potrebbe essere oggetto di modifica in futuri
interventi normativi 64.
Alla luce di quanto brevemente osservato non appare in dubbio che anche gli enti
senza fini di lucro, e in particolare gli ETS intenzionati alla registrazione all’interno del
Registro previsto dal nuovo Codice, siano soggetti coinvolti nella disciplina del Decreto
231 e, di conseguenza, tenuti all’adozione del relativo modello organizzativo al fine di
evitare le eventuali sanzioni previste dalla norma.
In tale direzione, peraltro, si era già mossa l’Autorità Nazionale Anticorruzione che, fin
dal 2016, ha previsto un vero e proprio obbligo di adozione del modello 231 per gli enti
del terzo settore affidatari di servizi sociali 65.

63
Mentre per le fondazioni la nomina dell’organo di controllo, anche monocratico, è obbligatoria, per
le associazioni l’obbligo in questione scatta laddove siano superati per due esercizi consecutivi due dei
seguenti limiti: a) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: euro 110.000; b) ricavi, rendite, proventi,
entrate comunque denominate: euro 220.000; c) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 5
unità. L’obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non vengono superati.
64
Sul punto, si veda, C. Manacorda, La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale: presenze del
d.lgs. 231/2001 e aspetti problematici di applicazione, cit.
65
ANAC, Linee guida per l’affidamento di servizi a enti del terzo settore e alle cooperative sociali,

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