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CAPITOLO I

L’AMMINISTRAZIONE E IL SUO DIRITTO

1. La nozione di pubblica amministrazione

Il termine “amministrazione”, in generale, indica la cura in concreto di interessi, ed è riferibile ad un


qualsiasi soggetto (persona giuridica, pubblica o privata), che svolge un’attività rivolta alla soddisfazione di
interessi correlati ai fini che il soggetto stesso si propone di perseguire.
Qui interessa analizzare l’amministrazione regolata da norme giuridiche e svolta per la soddisfazione
d’interessi pubblici, ovvero dell’amministrazione-attività, meglio nota come amministrazione in senso
oggettivo. Quest’ultima è collegata alla nozione di amministrazione in senso soggettivo, in quanto è
amministrativa l’attività posta in essere dalle persone giuridiche pubbliche e dagli organi che hanno
competenza alla cura degli interessi dei soggetti pubblici.
Ambedue i concetti si completano a vicenda e nessuno dei due può prescindere l’uno dall’altro.
Nel quadro tracciato dalla Costituzione, l’attività amministrativa viene esercitata anche da organi cui
istituzionalmente essa non competerebbe così come l’amministrazione in senso soggettivo esercita anche
funzioni diverse da quelle istituzionalmente proprie; da ciò deriva quindi che la nozione di amministrazione
in senso oggettivo non coincide con quella di amministrazione in senso soggettivo.
Nell’era feudale le funzioni amministrative venivano espletate soprattutto sulla base di un diritto ereditario e
gli interessi privati si intrecciavano strettamente con quelli pubblici; quanto al periodo successivo, limitando
il discorso alla formazione degli Stati modernamente intesi e in particolare alla fase storica che ha preceduto
la Rivoluzione francese, il principio della separazione dei poteri risultava ancora inattuato, seppure talora
percepibile in nuce. Successivamente alla Rivoluzione francese, il fenomeno che più importa sottolineare è
quello dell’aumento delle dimensioni dell’amministrazione, non solo a livello nazionale: si tratta di un
fenomeno strettamente legato al moltiplicarsi delle esigenze che lo Stato doveva soddisfare, le quali, a loro
volta, dipendevano dalle nuove richieste avanzate da classi sociali prima relegate ai margini della società, a
cui si riconobbe finalmente un ruolo politico. Amministrazione in senso soggettivo, dunque, equivale a dire
organizzazione amministrativa. E in materia di pubblica amministrazione, è proprio all’organizzazione che,
sul fronte del diritto positivo, la nostra Costituzione, pur senza darne alcuna definizione, dedica la sua
lacunosa disciplina.
Si tratta di stabilire se esista una definizione legislativa di amministrazione pubblica; in sostanza, non si
dovrebbe parlare di pubblica amministrazione» bensì di «pubbliche amministrazioni», in quanto il concetto
dovrebbe diversificarsi a seconda dei fini in vista dei quali esso dovrebbe essere utilizzato. Per quanto
riguarda la normativa sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui al
d.lgs. 165/2001, che per «amministrazioni pubbliche » si intendono (art. l , c. 2) «tutte le amministrazioni
dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende e
amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità
montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli istituti autonomi case popolari ecc»,
pare la nozione più ampia e attendibile.

2. La pubblica amministrazione dopo l’entrata in vigore della Costituzione, i suoi mali recenti e i
rimedi posti in atto. In particolare: il problema della riforma della pubblica amministrazione

Il numero degli enti pubblici è mutevole nel tempo: di conseguenza, l’ambito della pubblica amministrazione
tende, nei vari momenti storici, ad estendersi o a contrarsi. Inoltre, anche all’interno della stessa
amministrazione si verificano mutamenti di grande rilievo.
La riforma dell’amministrazione è pertanto questione costantemente oggetto di analisi e di preoccupazioni, il
che non è confortante quando si consideri che queste ultime hanno origine dalla necessità di rimuovere
disfunzioni ed hanno ad oggetto l’immagine di un’amministrazione avvertita come «problema da risolvere».
Innanzitutto il legislatore si è mosso nella direzione dell’attuazione di norme e principi costituzionali in
materia amministrativa: si pensi alla legge sul procedimento amministrativo (1. 241/1990) e alla legge sulle
autonomie locali (1. 142/1990, modificata con l. 265/1999, ora riunite in testo unico). Inoltre, il legislatore ha
introdotto una distinzione marcata tra indirizzo politico e gestione, che emerge con evidenza sia nel d.lgs.
165/2001, sia nella normativa sugli enti locali e dunque con riferimento all’organizzazione intesa in senso
tradizionale.

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La maggior responsabilizzazione della dirigenza si riflette altresì sulla riforma del bilancio oggi articolato a
livello statale per programmi, aggregati di risorse finanziarie destinate al perseguimento di obiettivi
strategici.
Le leggi 59/1997, 127/1997 e 191/1998 (anche note rispettivamente come «legge Bassanini uno», «legge
Bassanini-bis» e «legge Bassanini-ter») costituiscono tre esempi di riforma la cui attuazione ha determinato
rilevanti modifiche dell’attività e dell’organizzazione amministrativa. Queste leggi, e in particolare la prima,
hanno lo scopo di attuare un notevole decentramento di poteri: il legislatore ha inteso conferire molte
funzioni statali alle regioni e agli enti locali, riservando soltanto alcune e fondamentali materie allo Stato e
introducendo il principio di sussidiarietà. Alcuni tentativi di riforma e di razionalizzazione non hanno avuto
seguito; un’incisiva riforma costituzionale che ha importanti ripercussioni sull’amministrazione e sul suo
diritto è stata comunque posta in essere con la l. cost. 3/2001. Non si può altresì non citare il d.lgs. 104/2010
che ha introdotto il codice del processo amministrativo e le numerose manovre adottate per far fronte alla
crisi economico-finanziaria, spesso con ricadute sull’organizzazione e sull’attività amministrativa. Alla crisi
economica si accompagna quella delle istituzioni: una risposta al riguardo è stata la disciplina per la lotta alla
corruzione e all’illegalità (l. 190/2012). Un radicale mutamento dell’azione amministrativa dovrebbe derivare
dall’impiego dei nuovi strumenti legati allo sviluppo tecnologico (digitalizzazione, reti informatiche e così
via) e dal conseguente potenziamento del c.d. e-government nell’ambito dei rapporti con cittadini e imprese.
Il codice dell’amministrazione digitale, che prevede l’individuazione di un responsabile unico delle attività
relative alla digitalizzazione, attribuisce numerosi diritti ai cittadini, tra cui quello di usare le tecnologie nei
rapporti con l’amministrazione, di accedere agli atti per via telematica, di effettuare pagamenti in forma
digitale e di comunicare via e mail. Tra gli strumenti dell’e-government ricordiamo la posta elettronica
certificata: a differenza di un sistema di posta elettronica ordinario, la presenza di gestori di Pec, autorizzati
da un soggetto pubblico, l’Agenzia per l’Italia digitale, attribuisce garanzia certificata dell’invio e della
ricezione dei messaggi, assistiti da apposita ricevuta, nonché del riferimento temporale.
Le amministrazioni sono obbligate a dotarsi di una Pec. Pure i cittadini possono chiedere il rilascio di una
casella di posta ai sensi dell’art. 16-bis, d.l. 185/2008, conv. in l. 2/2009. Ricordiamo inoltre la firma
digitale, i documenti informatici, i siti internet, la carta di identità elettronica e la carta nazionale dei
servizi.
Le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengo mediante l’utilizzo della posta
elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta
che ne sia verificata la provenienza. Le pubbliche amministrazioni, inoltre, utilizzano per le comunicazioni
tra l’amministrazione ed i propri dipendenti la posta elettronica o altri strumenti informatici di
comunicazione.
Il d.l. 179/2012, conv. nella l. 221/2012, promuove l’agenda digitale italiana, anche come misura essenziale
per la crescita del Paese,disciplinando, tra gli altri istituti, la Pec, la cartella medica digitale e la giustizia
digitale e apportando numerose modifiche al codice dell’amministrazione digitale. Viene altresì istituita
l’agenzia per l’Italia digitale, preposta alla realizzazione dell’agenda (l. 134/2012). Di rilievo è l’istituto del
domicilio digitale: ogni cittadino può indicare alla pubblica amministrazione un proprio indirizzo di Pec,
quale suo domicilio digitale. Questo tema si lega alla trasparenza; nella home page dei siti istituzionali è
collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati,
le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
Il sistema pubblico di connettività ha la finalità di assicurare il coordinamento informativo e informatico
dei dati tra tutte le amministrazioni e promuovere l’omogeneità nella elaborazione e trasmissione dei dati
stessi, finalizzata allo scambio e diffusione delle informazioni e alla realizzazione di servizi integrati.

3. La nozione di diritto amministrativo

Il diritto amministrativo è la disciplina giuridica della pubblica amministrazione nella sua organizzazione,
nei beni e nell’attività ad essa peculiari e nei rapporti che, esercitando tale attività, si instaurano con gli altri
soggetti dell’ordinamento. Gli Stati caratterizzati dalla presenza di un corpo di regole amministrative distinte
dal diritto comune sono generalmente definiti come Stati a regime amministrativo. La rivoluzione francese
è generalmente ritenuta la svolta decisiva ai fini della nascita del diritto amministrativo in senso moderno. Se
intesa nel senso di rinvenire in quella fase storica una data precisa, individuata nell’emanazione della
Costituzione francese dell’anno VIII (1799), tale opinione non può essere condivisa: infatti, a prescindere da
quanto sopra detto in ordine alla identificazione tra legge e diritto, quella Costituzione, per quanto certamente
assai importante (basti ricordare che istituì il Consiglio di Stato), non introdusse una frattura con il passato.
In realtà, il diritto amministrativo nacque come sommatoria di più accadimenti, taluno dei quali risalente nei
secoli e con provenienze ed esperienze statali assai diverse. Se si ritiene che i filoni per così dire genetici del
diritto amministrativo siano il principio della divisione dei poteri, il principio della legalità dell’azione
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amministrativa e il riconoscimento dei diritti pubblici soggettivi, essi sono probabilmente già ravvisabili,
in primo luogo nell’ordinamento francese, nella prima metà del secolo XIX. Ciò non di meno, la Rivoluzione
francese, ispirandosi ai principi dell’Illuminismo, condusse in primo luogo all’avvento della borghesia e
all’affermazione del ruolo centrale del potere legislativo, espressione della volontà popolare, determinando la
subordinazione dell’amministrazione (potere esecutivo) alla legge.
In realtà, la qualificazione della pubblica amministrazione come potere esecutivo mal si concilia con il
riconoscimento di un ambito di attività amministrativa tendenzialmente libera, condizionata soltanto in parte
dalla legge. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 comportò il deciso riconoscimento
della posizione di quest’ultimo. La rivoluzione francese, inoltre, affermò definitivamente il principio della
divisione dei poteri. La distinzione tra amministrazione e giurisdizione configurata fece sì che
l’autoritatività dell’azione amministrativa si svincolasse dal rispetto delle forme giurisdizionali. Vero è che in
tal modo sfumavano le garanzie a favore del privato proprie del processo: il fenomeno era tuttavia in parte
compensato dall’applicazione del principio di legalità, il quale oltre a riconoscere diritti anche ai cittadini,
ostava all’arbitrio del sovrano, che in precedenza poteva emanare atti in via puntuale e concreta del tutto
svincolati dal rispetto della legge.
Il diritto amministrativo si diffuse in Europa in concomitanza con l’estensione del modello di
amministrazione napoleonica, estremamente accentrata. Questo nuovo diritto rimase sostanzialmente
immutato così nel periodo della Restaurazione come nelle esperienze liberali e borghesi successive, a
conferma della persistenza di una matrice autoritativa atta a giustificarne la sussistenza in realtà politiche
meno liberali e della continuità rispetto al passato, storiograficamente evidenziata.
Per quanto attiene più in particolare all’Italia, ove già nel 1859 si era completata la legislazione
amministrativa piemontese, dopo l’unità (nel 1865) si uniformò la legislazione relativa ai territori annessi ad
opera delle c.d. leggi di unificazione.
Dopo aver chiarito la definizione di diritto amministrativo e averne spiegata l’origine storica, occorre
individuarne i limiti. Seppure comunemente accettata, non appare giustificabile l’inclusione nel diritto
amministrativo in senso proprio dell’attività giurisdizionale posta in essere da organi soggettivamente non
appartenenti alla pubblica amministrazione. Infatti questi organi godono di un’indipendenza (art. 108 Cost.)
che è per definizione inammissibile negli organi amministrativi svolgenti esclusivamente attività
amministrativa: l’attività giurisdizionale è retta da principi e da una normativa del tutto peculiare e autonoma.
Negli Stati a regime amministrativo, l’attività della pubblica amministrazione non si esaurisce nella sola
attività di diritto pubblico. Si assiste, infatti, all’espansione dell’attività di diritto privato della pubblica
amministrazione stessa. Così l’attività amministrativa può essere esercitata dai soggetti pubblici tanto nelle
forme del diritto pubblico, quanto nelle forme del diritto privato.
L’art. l, c. l-bis, l. 241/1990, dispone che «la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente». La norma
sembra:
− consentire che l’azione amministrativa sia retta da «norme» di diritto privato e non soltanto che
l’amministrazione usi «strumenti» privatistici, come è naturale che faccia in quanto soggetto dotato
di capacità di diritto privato; nel settore del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni,
l’ente agisce utilizzando i poteri del datore di lavoro privato nei confronti dei dipendenti e, di
conseguenza, non trovano ad esempio applicazione le regole dettate dalla legge sul procedimento
amministrativo;
− individuare nel carattere dell’autoritatività la linea di demarcazione tra attività amministrativa retta dal
diritto amministrativo e attività retta dal diritto privato;
− limitare l’area dell’applicazione del diritto privato al settore degli atti non autoritativi;
− configurare il diritto privato come la «regola» dell’attività che si esplica mediante atti non autoritativi;
− riservare (a contrario) l’applicazione delle norme di diritto pubblico all’area degli atti autoritativi, in
coerenza con il principio di legalità senza alcuna intromissione del diritto privato.

La rilevanza della disposizione dipende ovviamente dall’interpretazione dell’inciso «salvo che la legge
disponga diversamente» e del concetto di autoritavità. La tesi secondo cui autoritativi sarebbero solo i
provvedimenti limitativi della sfera del privato (es. espropriazioni, ordini), ad esempio, significherebbe la
soggezione al diritto privato, senza alcun adattamento, di un ampio spettro dell’attività amministrativa; essa,
invero, non convince, atteso che si verrebbero a privare i cittadini, soprattutto se terzi rispetto alla
conclusione di un contratto, delle garanzie tipiche del diritto pubblico, anche ricavabili dal dettato
costituzionale (in primo luogo art. 97 Cost.). Al riguardo è sufficiente osservare quanto dispone il comma
1ter: «I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei
principi di cui al comma l», il quale a sua volta stabilisce che: «L’attività amministrativa persegue i fini
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determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, si imparzialità, di pubblicità e di


trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano
singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario». Dal combinato disposto di queste
norme deriva che l’attività dei privati qui considerati è soggetta ai principi del procedimento amministrativo
e a quelli di trasparenza e pubblicità. Posto dunque che quei principi e quelle garanzie sono irrinunciabili, è
presumibile che la disposizione di cui al comma l-bis venga applicata in senso più riduttivo. Essa potrebbe
cioè essere considerata come norma che non elimina la necessità di un procedimento di formazione della
volontà amministrativa che rispetti i vincoli pubblicistici; nel senso invece che in tale settore deve operare il
principio fondamentale secondo cui l’atto privato è tale proprio perché non può essere funzionalizzato al
perseguimento dell’interesse pubblico. La tesi secondo cui il comma l-bis intenda in realtà riferirsi all’uso di
«strumenti» privatistici e non già, più in generale, all’impiego di norme privatistiche, sembra la più
ragionevole.
Una seconda e opposta ipotesi interpretativa è quella che ritiene che tutti i poteri amministrativi siano
autoritativi: la norma sancirebbe l’ovvio, in quanto se l’atto non è autoritativo ciò significa che manca il
provvedimento perché non ricorre un potere ed è naturale che l’amministrazione agisca come un privato.
Disciplinata in parte dal codice civile è poi l’attività amministrativa che determina, o concorre a determinare,
la costituzione di status, di capacità, di rapporti di diritto privato, ad esempio mediante trascrizioni,
registrazioni, documentazioni (c.d. «amministrazione pubblica del diritto privato»).
Anche i rapporti tra diritto penale e diritto amministrativo si sono fatti più stretti. Negli ultimi decenni molti
reati sono stati depenalizzati per diventare illeciti amministrativi, pur essendo rimasta assolutamente
immutata la relativa fattispecie. Quella che era una norma incriminatrice, e dunque una norma penale, è oggi
una norma amministrativa.
Sono diritto amministrativo anche una parte del diritto regionale, il diritto degli enti locali, il diritto
urbanistico, il diritto pubblico della economia, il diritto sanitario, il diritto dell’energia, o magari altri settori
che possono volta a volta essere ritenuti meritevoli di particolare approfondimento.

4. La scienza del diritto amministrativo

Se il diritto che disciplina l’attività e l’organizzazione amministrativa è il diritto amministrativo, occorre


precisare che il termine è spesso impiegato altresì per indicare la scienza che si occupa di tale diritto,
comportando un’importante opera di sistemazione teorica e di approfondimento. Lo sviluppo della scienza
del diritto amministrativo ha accompagnato la creazione e/o il rafforzamento degli Stati nazionali. Gian
Domenico Romagnosi, precursore della scienza del diritto amministrativo, nel 1814 pubblicò i Principii
fondamentali del diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni. Tale opera, in cui era affermata la
necessità di fondare una autonoma scienza del diritto amministrativo in Italia, pur largamente conosciuta, non
ha avuto seguito alcuno, forse perché in anticipo sugli indirizzi dottrinali del suo tempo.
Lo sviluppo storico di amministrazione, diritto amministrativo e scienza del diritto amministrativo non è stato
né omogeneo né contestuale: ad esempio, mentre nei primi anni dell’ottocento si espandeva il diritto
amministrativo e, contemporaneamente, si formava l’apparato amministrativo moderno, l’evoluzione della
scienza del diritto amministrativo era ancora agli inizi; per contro, nel corso dei secoli precedenti, già
esisteva un apparato amministrativo, ma non un diritto amministrativo in senso proprio.
In Francia, le prime elaborazioni di una scienza di diritto amministrativo furono impostate su modelli di
diritto privato e sulla teorizzazione della giurisprudenza, sempre dominante, del Conseil d’Etat. In Germania,
la scienza del diritto amministrativo si è affern1ata soltanto successivamente, verso la metà dell’ottocento,
separandosi dallo studio dello Staatsrecht, comprendente il diritto costituzionale. Essa si inserì in quel
movimento culturale che fu denominato pandettistica, inteso ad elaborare le fonti del diritto romano a uso
moderno e a costruire l’unità sistematica del diritto, ponendo così le basi del formalismo giuridico che si
fondava proprio sull’idea che tale unità consentiva di dare forma scientifica al diritto e di creare dogmi
giuridici destinati ad essere utilizzati in modo astratto e astorico in ogni ordinamento.
Con la fine del secolo, l’Italia trovò in V.E. Orlando il propugnatore di una nuova scuola volta alla
ricostruzione del diritto pubblico attraverso il metodo giuridico, ossia alla rifondazione di una scienza
giuridica dalla quale doveva essere eliminata ogni considerazione spuria, relativa alla politica, alla sociologia
e all’economia; si ricordano inoltre anche Santi Romano, Ranelletti e Cammeo. Il metodo elaborato e seguito
dagli appartenenti alla Scuola di diritto pubblico, comunque animati dall’intento di costruire un sistema di
garanzie per il cittadino, se applicato in modo acritico comportava una sorta di chiusura nei confronti della
realtà della storia e della politica, in quanto ritenute irrazionali.
I radicali mutamenti istituzionali che si registrarono nei primi decenni del secolo avrebbero richiesto
un’evoluzione negli schemi metodologici della Scuola: l’avvento dello Stato pluriclasse, gli interessi in

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conflitto, la perduta omogeneità della classe dirigente erano fenomeni che portarono alcuni autori a ripudiare
l’impiego del modello originario.
Sotto il punto di vista metodologico si affacciarono anche nuove proposte, che recepivano la necessità di
volgere l’attenzione alla realtà e alla storia, di verificare le soluzioni nel concreto, in sintesi di abbandonare
schemi formalistici (c.d. formalismo giuridico) per dar voce alle pulsioni della società in continuo divenire e
al suo processo di democratizzazione, insofferente nei confronti di una costruzione teorica ancorata a un
modello ormai superato.
In questo quadro, ebbero influenza rilevante non tanto la concezione gradualistica dell’ordinamento
giuridico, propugnata da Kelsen e spesso del pari accusata di essere astratta e astorica, quanto soprattutto la
teoria istituzionale proposta in Italia da Santi Romano e l’indirizzo realistico. Il realismo giuridico,
caratterizzato dall’”abbandono dell’apriorismo teorico, della teoria fine a se stessa e delle sue derivazioni del
teoreticismo e del formalismo, dello spirito di geometria e delle pretese di unità ad ogni costo”, si
contrappose nettamente alla corrente del formalismo giuridico.
Quando si afferma che il metodo giuridico dominante in Italia dalla fine del secolo scorso in poi è stato
abbandonato dalla dottrina più recente, bisogna distinguere. Il diritto amministrativo ha presentato e presenta
ancor oggi un materiale legislativo sparso e disorganico, troppo spesso legato a circostanze occasionali e al
perseguimento di interessi settoriali o alla disciplina di situazioni contingenti, mentre talvolta è lacunoso o
contraddittorio nei principi. È sufficiente ricordare il procedimento amministrativo, l’atto e il provvedimento
amministrativo, la loro tipologia e i loro vizi, l’interesse legittimo, la discrezionalità e l’imparzialità
amministrativa.
Si pensi all’intervento dello Stato nell’economia; allo sviluppo tecnologico avanzato, che però mette a
repentaglio valori fondamentali quali la salute, all’accrescersi dei bisogni dovuti al benessere diffuso. La
scienza del diritto amministrativo dei nostri giorni deve confrontarsi con alcuni dati che vanno messi in
evidenza. In primo luogo non esiste soltanto il potere statale, ma sussistono anche altri poteri; essi debbono
però pur sempre rapportarsi a un ordinamento generale e, dunque, il loro studio giuridico permane
nell’ambito del diritto di un medesimo ordinamento generale. In secondo luogo, il diritto amministrativo è
sempre più spesso diritto prodotto delle fonti comunitarie. Il fenomeno è rilevantissimo ed effettivamente
mette in luce l’incapienza della formula che identifica il diritto con le norme prodotte dalle sole fonti statali,
confermando per altro verso che il diritto comune europeo è soprattutto un diritto amministrativo.
L’autoritarietà non pare però destinata a soccombere e, dunque, un diritto speciale in questo senso dovrà pur
sempre permanere, anche in presenza della norma di cui all’art. 1, c.1-bis, l.241/1990. Il diritto pubblico non
è soltanto il diritto che si occupa del fenomeno autoritativo: anche in settori quali i servizi pubblici e gli
accordi con i privati, la specificità connessa alla presenza dell’interesse pubblico non deve essere
frettolosamente obnubilata.

5. L’amministrazione europea e il diritto amministrativo dell’Unione europea

Le organizzazioni internazionali sono dotate di una propria struttura amministrativa e spesso intrattengono
relazioni con gli stati e con le amministrazioni nazionali, relazioni che possono essere rilevanti per lo studio
dei compiti delle amministrazioni nazionali stesse. Vi è una grande importanza che, sotto il profilo del diritto
amministrativo, l’Unione europea riveste rispetto alle altre organizzazioni internazionali di cui pure l’Italia
fa parte. Al fine di descrivere tale complesso di normative, si usa l’espressione diritto amministrativo
dell’Unione europea, peraltro ormai entrata a far parte del lessico «ufficiale» della dottrina.
Si possono osservare numerosissimi esempi di normativa italiana di matrice comunitaria, come quella
relativa agli aiuti di Stato, quella che ha ad oggetto la materia dei pubblici appalti e quella in tema di servizi
pubblici. Più in generale, la disciplina europea ha introdotto un nuovo modello di potere pubblico (le autorità
indipendenti), una nuova funzione (quella regolativa dei mercati) e ha accentuato la rilevanza del mercato e
della tutela dei consumatori.
Un importante passo avanti è stato compiuto con il Trattato di Nizza del 21 febbraio 2001 , ratificato
dall’Italia con l. 102/2002. Tra i protocolli allegati sono di particolare rilievo quello attinente
all’allargamento dell’Unione e i provvedimenti conseguenti. A Nizza è stata pure proclamata la Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, che riafferma diritti già riconosciuti dalla giurisprudenza
comunitaria. La Conferenza intergovernativa del 1 8 giugno 2004 a Bruxelles ha approvato un testo finale di
Costituzione europea. li relativo processo di ratifica da parte degli Stati membri ha però avuto una rilevante
battuta d’arresto a seguito del rifiuto espresso nel giugno 2005 da Francia e Olanda. Si è allora adottato il
successivo Trattato di Lisbona (dicembre 2007), che, entrato in vigore il 1° dicembre 2009: esso disegna
l’Unione come un ordinamento unitario e riconosce efficacia giuridicamente vincolante alla Carta dei diritti
fondamentali e dà impulso all’adesione dell’Unione europea nel suo complesso alla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo.
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Tornando al piano interno, si noti che un’influenza crescente con riferimento ad alcuni settori del diritto
amministrativo è destinata a produrre la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali. La Corte cost., con due decisioni in tema di occupazione acquisitiva e di
espropriazione (nn. 348 e 349/2007) si è pronunciata sulla “posizione” della Cedu: in caso di contrasto tra
una norma interna e una disposizione della Cedu, il giudice comune non può disapplicare la prima, ma deve
sottoporla a scrutinio di costituzionalità per violazione dell’art. 117, c. 1, Cost., ribadendo così il modello
dualistico.
Il diritto amministrativo comunitario (o dell’Unione) in senso proprio è soltanto quello avente ad oggetto
l’amministrazione comunitaria. Per amministrazione comunitaria si intende l’insieme degli organismi e
delle istituzioni dell’Unione europea cui è affidato il compito di svolgere attività sostanzialmente
amministrativa e di emanare atti amministrativi.
Nell’ambito del diritto comunitario, di estremo rilievo è il principio di sussidiarietà. Esso presenta in realtà
due facce. Una garantista a favore del decentramento e dei poteri locali, ai quali sono riservate le competenze
salvo che non siano in grado di assicurare la realizzazione degli obiettivi che debbono perseguire. L’altra che
viceversa può agevolare processi di accentramento a favore del livello di governo superiore, consentendo a
quest’ultimo di agire anche al di là delle competenze ad esso attribuite formalmente, ogni qual volta l’azione
comunitaria si presenti come la più efficace.
Introdotto anche nel nostro ordinamento dalla l. 59/1997 e dall’art. 3, c. 5, T.U. enti locali, per essere
costituzionalizzato con la l. cost. 3/2001, questo principio costituisce una vera e propria regola di riparto
delle competenze tra Stati membri e Unione nei settori di competenza non esclusiva dell’Unione. Più in
particolare, esso pare salvaguardare le attribuzioni degli Stati stessi consentendo alla prima di intervenire
«soltanto se e nella misura in cui» gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri e possano dunque essere meglio conseguiti a livello dell’Unione a motivo delle
dimensioni o degli effetti dell’azione stessa.
La presenza dell’amministrazione dell’Unione determina, infine, un mutamento del ruolo delle
amministrazioni nazionali, le quali sono spesso chiamate a svolgere compiti esecutivi delle decisioni adottate
dall’amministrazione comunitaria.
Alcune volte il ruolo delle amministrazioni italiane è istruttorio o preparatorio nell’ambito di procedimenti
che si svolgono in due fasi, una nazionale e l’altra comunitaria, come accade nel caso dei finanziamenti
erogati dal Fondo Sociale Europeo; nel corso di tali procedimenti all’amministrazione nazionale spettano
funzioni di controllo e compiti preparatori, quali l’inoltro di domande presentate dagli interessati. Ciò
determina una complicazione del procedimento amministrativo, nel senso che si assiste alla partecipazione
ad esso sia delle amministrazioni italiane, sia dell’amministrazione comunitaria, che emana l’atto finale
destinato a produrre effetti per i cittadini; situazione che crea altresì dubbi e incertezze in ordine al giudice
(nazionale o comunitario) al quale deve rivolgersi il privato che si ritenga leso dall’azione procedimentale.
L’analisi dei rapporti tra amministrazione nazionale e amministrazione dell’Unione consente di individuare
ulteriori problemi: in particolare deve essere chiarito che cosa si intende per esecuzione nel diritto
comunitario; occorre poi indicare a quali atti l’amministrazione comunitaria è chiamata a dare esecuzione e,
soprattutto, è necessario individuare l’organo titolare della funzione esecutiva comunitaria. In primo luogo, si
tenga presente che l’attuazione riguarda sia gli atti comunitari puntuali e concreti, sia gli atti normativi.
L’esecuzione di molte decisioni spetta alle amministrazioni nazionali, sicché, mancando una funzione
esecutiva-attuativa comunitaria, non è nemmeno possibile individuare il potere comunitario (intendendo qui
il termine come complesso organizzatorio) competente a svolgere quella funzione. Anche l’attuazione di
regolamenti e direttive spetta agli Stati membri che agiscono adottando atti legislativi e amministrativi. In
realtà si deve distinguere tra esecuzione in via diretta ed esecuzione in via indiretta, che avviene cioè
avvalendosi della collaborazione degli Stati membri.
Occorre individuare con maggior precisione che cosa si debba intendere, sotto il profilo soggettivo, per
amministrazione dell’Unione. Trattasi di un problema di non facile soluzione, giacché l’individuazione di
un potere esecutivo si scontra con la difficoltà di separare nettamente i compiti del Consiglio da quelli della
Commissione o, in altri termini, di operare una netta individuazione dei soggetti che svolgono in via
esclusiva funzioni normative e amministrative. In questo contesto assume certamente un ruolo centrale la
Commissione; si può affermare che la funzione esecutiva è esercitata dalla Commissione, essendo distribuite
le funzioni normative e amministrative tra Consiglio e Commissione.
Infine va aggiunto che il diritto sovranazionale gioca un crescente ruolo all’interno del nostro contesto
giuridico: a tacere dell’influenza rilevante della Cedu, si ricordi la vicenda del Fiscal Compact e della sua
influenza sulla modifica dell’art. 81 Cost., sia il fatto che la recente legge anticorruzione (l. 190/2012) è stata
emanata in attuazione dell’art. 6 della Convenzione dell’ONU contro la corruzione siglata il 31 ottobre 2003
e ratificata dalla l. 116/2009 e dagli artt. 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a
Strasburgo il 27 gennaio 1999.
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CAPITOLO II

ORDINAMENTO GIURIDICO E AMMINISTRAZIONE: LA DISCIPLINA COSTITUZIONALE

1. Diritto amministrativo e nozione di ordinamento giuridico

Con il termine ordinamento giuridico generale si indica l’assetto giuridico e l’insieme delle norme
giuridiche che si riferiscono ad un particolare gruppo sociale. Dal punto di vista giuridico l’attenzione si
appunta sulle organizzazioni dotate di un certo grado di stabilità, alle quali si ricollega la produzione di una
particolare categoria di norme, vincolanti e in grado di prevalere sulle altre regole di comportamento.
Ai fini dello studio del diritto amministrativo, è particolarmente feconda la concezione istituzionale del
diritto, la quale pone l’equivalenza tra ordinamento giuridico e istituzione e concepisce il diritto non già
come semplice norma o complesso di norme, bensì come organizzazione di un ente sociale. In primo luogo,
essa appare applicabile ad un diritto che, come quello amministrativo, è caratterizzato dalla disorganicità del
panorama legislativo e dalla presenza di principi non scritti che disciplinano l’azione amministrativa.
Occorre affrontare l’importante problema dell’oggetto delle norme dell’ ordinamento generale. Compito
essenziale dell’ordinamento generale, che proprio perché generale considera tutti i soggetti, è quello di
fornire soluzione ai conflitti di interessi che possono sorgere tra gli stessi, riconoscendo o attribuendo loro
possibilità d’azione. Oltre a ciò, e anzi ancor prima, l’ordinamento deve riconoscere o istituire i soggetti
dell’ordinamento stesso. In questo senso, l’ amministrazione non è altro che uno tra i molti soggetti
dell’ordinamento e si presenta sullo scenario giuridico priva di qualsiasi aprioristica posizione di supremazia.
A loro volta, alcuni tra i soggetti giuridici così riconosciuti o istituiti possono dar vita ad ordinamenti
giuridici derivati, caratterizzati da una propria formazione; è l’ordinamento generale che garantisce la
soluzione dei conflitti intersoggettivi e accorda protezione agli interessi, predisponendo in primo luogo un
soggetto, il giudice, cui attribuisce il potere di tutelare l’ordinamento attuandone le norme. Molte tra le
norme che riconoscono e limitano i soggetti dell’ordinamento sono costituite da prescrizioni costituzionali, le
quali rappresentano significativamente la formalizzazione giuridica dell’organizzazione sociale colta al
massimo livello, ossia a livello statale.

2. L’amministrazione nella Costituzione: in particolare, il “modello” di amministrazione


emergente dagli artt. 5, 95, 97 e 98

La Costituzione si occupa dell’amministrazione nella sezione II del titolo III della parte seconda. Dal quadro
normativo costituzionale emergono diversi modelli di amministrazione, nessuno dei quali può peraltro
assurgere al rango di «modello» principale.
Ai sensi dell’art. 98 Cost., l’amministrazione pare in primo luogo direttamente legata alla collettività
nazionale, al cui servizio i suoi impiegati sono posti. Vi è poi il modello espresso dall’art. 5 Cost. e
sviluppato nel titolo V della parte seconda, caratterizzato dal disegno del decentramento amministrativo e
dalla promozione delle autonomie locali, capaci di esprimere un proprio indirizzo politico-amministrativo.
Ancora diverso è lo schema presupposto dall’art. 97 Cost., che contiene una riserva di legge e mira a
sottrarre l’amministrazione, regolata dalla legge, al controllo politico del governo tipico del periodo storico
che ha preceduto l’entrata in vigore della Costituzione: un’amministrazione, dunque, indipendente dal
governo e che si legittima per la sua imparzialità ed efficienza.
L’idea di amministrazione servente del governo pare scaturire dall’art. 95 Cost., ove si dispone che il
Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile, mantiene
l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Sempre
secondo tale articolo, ciascun ministro è a capo di un settore dell’amministrazione
ed è responsabile degli atti del proprio dicastero: sembra prefigurarsi l’idea di un’amministrazione quale
organizzazione strumentale rispetto al governo.
Il governo, assieme al Parlamento, esprime un indirizzo, qualificato dall’art. 95 Cost. come indirizzo politico
e amministrativo. L’indirizzo politico può definirsi come la direzione politica dello Stato e, quindi, come
quel complesso di manifestazioni di volontà in funzione del conseguimento di un fine unico, le quali
comportano la determinazione di un impulso unitario e di coordinazione affinché i vari compiti statali si
svolgano in modo armonico, mentre l’indirizzo amministrativo, che deve comunque essere stabilito nel
rispetto dell’indirizzo politico, consiste nella prefissione di obiettivi dell’azione amministrativa.
Interessante è l’analisi dell’atteggiamento della scienza del diritto in ordine al problema dei rapporti tra
amministrazione e politica. Il tema della politica in quanto tale è stato espunto dall’orizzonte concettuale
della pubblicistica a far data dalle prolusioni di Vittorio Emanuele Orlando di fine Ottocento che diedero

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avvio alla corrente di pensiero della Scuola italiana di diritto pubblico, ritenendosi la politica elemento
contaminatore della purezza del metodo giuridico, che doveva unicamente occuparsi della disciplina posta
dal potere politico.
Il rischio del formalismo non può essere taciuto: infatti, dalla neutralità delle categorie giuridiche breve è il
passo che conduce alla cristallizzazione di un modello di Stato insensibile alle vicende politiche e sociali,
quasi a guisa di ripiego culturale a fronte del moltiplicarsi delle contraddizioni generate da quelle vicende.
Un modello ancora differente di pubblica amministrazione, che ha copertura costituzionale soltanto parziale,
è infine costituito dalle autonomie funzionali (università, istituzioni scolastiche e camere di commercio): si
tratta di soggetti ai quali non è riferibile l’autonomia di indirizzo politico, muniti di autonomia molto
accentuata e legittimati ad essere titolari di attribuzioni amministrative in deroga al meccanismo di cui all’art.
118 Cost.

3. Ancora sui modelli di amministrazione nella Costituzione. La separazione tra indirizzo politico e
attività di gestione

In nessuna prescrizione la Costituzione vuole la “sterilizzazione politica” dei funzionari pubblici, né viene
ostacolata l’appartenenza dei medesimi a forze politiche antagoniste rispetto a quelle al potere. L’art. 97
Cost., riferendosi alle attribuzioni dei funzionari, riconosce al personale burocratico anche competenze
esterne e decisionali, né le limita ai soli funzionari onorari, quali i ministri; esso rende inoltre indipendente
l’amministrazione dal governo, sottraendo parte dell’organizzazione amministrativa alle scelte dello stesso e
ponendola al riparo da radicali mutamenti organizzativi decisi dal governo, espressione della maggioranza.
Si aggiunga la recente istituzione di alcune amministrazioni (quali le autorità o amministrazioni
indipendenti) che non dipendono direttamente dall’esecutivo).
Sussiste l’esigenza che l’amministrazione sia leale verso la forza politica che detiene la maggioranza
parlamentare: l’amministrazione deve essere strumento di esecuzione delle direttive politiche impartite dal
ministro che assume la responsabilità degli atti del proprio dicastero.
Sul piano funzionale l’attività amministrativa deve essere correttamente orientata in senso
politicogovernativo e risultare totalmente svincolata dal condizionamento politico che si traduce
nell’indirizzo politico e amministrativo. La politica e l’amministrazione non sono pienamente separabili e,
anzi, sono conciliabili, fermo restando che la legittima considerazione della prima nell’ambito dell’attività
della seconda è condizionata al suo esprimersi in modo giuridicamente formalizzato. Ci si deve chiedere che
senso abbia oggi continuare a parlare di separazione tra politica e amministrazione, anche in considerazione
di fenomeni, quali l’aumento della disciplina dell’azione amministrativa a opera di regolamenti governativi,
che comportano una sempre maggior ingerenza del governo nell’amministrazione. La risposta è ovvia: è
l’ordinamento stesso che introduce una tendenziale distinzione tra i due ambiti, soprattutto in occasione della
disciplina dell’organizzazione del lavoro presso le pubbliche amministrazioni. Questa disciplina mira a
delimitare le attribuzioni della componente politica dell’amministrazione, rispetto a quelle della componente
non politica, in particolare del vertice dirigenziale, evidentemente sul presupposto che un organo non politico
possa agire in modo maggiormente imparziale ed efficiente. Il significato del d.lgs. 165/2001 non è quello di
riservare l’attività di indirizzo ai soli organi politici, bensì di identificare i contenuti dell’attività, qualificata
come “indirizzo politico-amministrativo”, sottratta ai dirigenti, ai quali un ‘attività di indirizzo comunque
spetta; occorre sempre distinguere tra indirizzo e controllo, da un lato, e attuazione e gestione, dall’altro.
L’attuale normativa sull’organizzazione pubblica pare non tanto orientata nel senso di realizzare
un’improbabile netta separazione tra politica e amministrazione, quanto caratterizzata per il suo significato
“garantista” rispetto a ciò che essa esclude: la trasformazione dell’amministrazione in mero apparato
subordinato agli organi politici. Questi ultimi, dunque, possono controllare e indirizzare la dirigenza soltanto
utilizzando gli strumenti di cui al d.lgs. 165/2001, i quali siano compatibili con il riconoscimento di poteri di
gestione autonoma alla dirigenza stessa. Si noti, tuttavia, che la legge configura (all’art. 19, d.lgs.165/2001,
relativo agli incarichi di segretario generale di ministeri e agli incarichi di direzione di strutture articolate al
loro interno in uffici dirigenziali generali), la sussistenza di uno stretto vincolo fiduciario tra organo politico
e vertice dirigenziale, tale che, ad esempio, gli incarichi cui si è fatto cenno cessano decorsi novanta giorni
dal voto sulla fiducia al nuovo esecutivo (spoils system). Un’ulteriore ipotesi è disciplinata dall’art. 6, l.
145/2002, con riferimento alle nomine degli organi di vertice e dei componenti dei consigli di
amministrazione o degli organi equiparati presso enti, società controllate o partecipate dallo Stato e agenzie:
quelle conferite dal governo o dai ministri nei sei mesi antecedenti la scadenza naturale della legislatura o nel
mese antecedente lo scioglimento anticipato delle camere, possono essere confermate, revocate, modificate o
rinnovate entro sei mesi dal voto sulla fiducia al governo. Il meccanismo dello spoils system, adottato anche
da alcuni ordinamenti regionali, aveva assunto dimensioni notevoli. La Corte costituzionale, con la sent. n.

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233/2006, ha in particolare stabilito che “la previsione di un meccanismo di valutazione tecnica della
professionalità e competenza dei nominati… non si configura… come misura costituzionalmente vincolata”,
atteso che la regola per cui le cariche affidate intuitu personae dagli organi politici cessano all’atto
dell’insediamento di nuovi organi politici mira a consentire a questi ultimi la possibilità di rinnovarle,
scegliendo soggetti idonei a garantire proprio l’efficienza e il buon andamento dell’azione amministrativa.
Specifico riflesso del problematico rapporto che corre tra politica, amministrazione e diritto amministrativo è
costituito dalla questione della distinzione tra atti amministrativi e atti politici. Gli atti del Governo
espressione del potere politico sono oggi sottratti al sindacato del giudice amministrativo in forza dell’art.7,
d.lgs. 104/2010. Questa conseguenza è il riflesso del fatto che gli atti politici si pongono al di fuori dell’area
del principio di legalità. Tale regime non contrasta con l’art. 113 Cost. soltanto perché gli atti politici, anche
quando emanati dal governo, data la loro latissima discrezionalità e il carattere libero del loro fine, non
ledono diritti soggettivi o interessi legittimi, le uniche situazioni alle quali l’ordinamento assicura tutela
giurisdizionale. L’esigenza di recuperare al giuridico il momento politico ha prodotto la sua influenza anche
nel diritto amministrativo ove, non a caso, è stata elaborata la categoria degli atti di alta amministrazione,
caratterizzati da un’amplissima discrezionalità, considerati l’anello di collegamento tra indirizzo politico e
attività amministrativa in senso stretto e soggetti alla legge e al sindacato giurisdizionale. La giurisprudenza
tende progressivamente ad ampliare i limiti della categoria: ciò è il riflesso dell’erosione della contigua
categoria degli atti politici.

4. I principi costituzionali della pubblica amministrazione: la responsabilità

Il principio di responsabilità è enunciato dall’art. 28 Cost.: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli
enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».
Il termine responsabilità, più in generale, è spesso utilizzato dalla normativa, in particolare da quella
regionale, secondo un significato differente da quello che emerge dall’art. 28 Cost., ove il costituente si
riferisce alla assoggettabilità ad una sanzione dell’autore di un illecito. Si parla infatti sovente di
«responsabile» per indicare il soggetto che deve rendere conto del complesso dell’attività di un ufficio ad
esso facente capo. In questa direzione può anche essere letta la legge sul procedimento amministrativo, la
quale ha previsto l’istituzione della figura del responsabile del procedimento, che tuttavia non può
considerarsi un’applicazione dell’art. 28 Cost.: infatti, il responsabile del procedimento soddisfa piuttosto
una esigenza di trasparenza e di identificabilità di un contraddittore all’interno dell’amministrazione
procedente che sia individua bile e contattabile dal cittadino, nel segno del superamento del principio
dell’impersonalità dell’apparato amministrativo.

4.1. Segue: il principio di legalità

Il principio di legalità esprime l’esigenza che l’amministrazione sia assoggettata alla legge, anche se esso,
nella sua accezione più lata, è applicabile non soltanto alla amministrazione, bensì a qualsivoglia potere
pubblico.
Il principio di legalità si ricollega chiaramente al l’idea della legge quale espressione della volontà generale,
che si pone alla base di tutte le manifestazioni pubbliche dell’ordinamento e, quindi, risponde all’immagine
dell’amministrazione «esecutrice» della legge. Nel nostro ordinamento giuridico convivono più concezioni
del principio di legalità.
In primo luogo, esso è considerato nei termini di non contraddittorietà dell’atto amministrativo rispetto alla
legge (preferenza della legge). Il principio di legalità può anche richiedere qualcosa di più rispetto alla non
contraddittorietà e, cioè, l’esigenza che l’azione amministrativa abbia uno specifico fondamento legislativo.
Si tratta del principio di legalità inteso nella sua accezione di conformità formale, nel senso che il rapporto
tra legge e amministrazione è impostato non solo sul divieto di quest’ultima di contraddire la legge, ma anche
sul dovere della stessa di agire nelle ipotesi ed entro i limiti fissati dalla legge che attribuisce il relativo
potere. In questa prospettiva suscita molti dubbi il riconoscimento di poteri “impliciti” in capo
all’amministrazione.
Il principio di legalità si applica ad alcuni atti amministrativi normativi, quali i regolamenti ministeriali. Per
quanto riguarda i provvedimenti amministrativi, al di là del principio di legalità inteso come conformità
formale esiste quello della conformità sostanziale. Con tale nozione si intende fare riferimento alla necessità
che l’amministrazione agisca non solo entro i limiti di legge, ma altresì in conformità della disciplina
sostanziale posta dalla legge stessa (per un’applicazione, Corte cost., n. 115/2011), la quale incide anche

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sulle modalità di esercizio dell’azione e, dunque, penetra all’interno dell’esercizio del potere. Questa
concezione si ricava dalle ipotesi in cui la Costituzione prevede una riserva di legge (artt. 13, 23, 41, 51, 52).
Pur considerando le diversità tra riserva di legge e principio di legalità, è indubbio che la riserva di legge
finisce con il confondersi con il principio di legalità inteso nel senso sostanziale. Il principio di legalità in
senso sostanziale ripropone la difficoltà di contemperare due esigenze diverse: da un lato, quella di garantire
e di tutelare i privati, che richiede una disciplina legislativa che penetri all’interno della sfera del potere
amministrativo; dall’altro, quella di lasciare spazi adeguati d’azione all’amministrazione, evitando il rischio
di una eccessiva vincolatezza della sua attività che diverrebbe incapace di adattarsi alle diverse situazioni
concrete, finendo con il danneggiare lo stesso cittadino. Va chiarito che la possibilità dell’amministrazione di
agire in assenza di disposizioni legislative sussiste solo nell’ambito dell’esercizio del potere: infatti,
l’attribuzione dei poteri che possono condizionare i diritti dei privati è sempre effettuata dalla legge. Il
rispetto di tale legge è condizione perché si possano produrre gli effetti come risultato dell’esercizio dei
poteri.
In dottrina si parla non solo di legalità ma altresì di legittimità, la quale consiste nella conformità del
provvedimento e dell’azione amministrativa a parametri anche diversi dalla legge, ancorché alla stessa pur
sempre collegati. Si tratta delle norme che organizzano la gestione degli interessi pubblici e che costituiscono
l’ordinamento dell’amministrazione: il loro rispetto assicura che gli effetti prodotti siano non precari.
Tra questi parametri sono da annoverare anche «regole non scritte»: esse sono norme che presiedono allo
svolgimento della funzione amministrativa e che sono collegate alla legge nel senso che la loro funzione è di
garantire che il potere sia esercitato nel caso concreto in conformità con lo scopo fissato dalla legge stessa. In
tal senso vengono anche in evidenza quegli aspetti della legalità costituiti sia dalla raffrontabilità dell’azione
amministrativa a parametri oggettivi, sia dalla predeterminazione di un vincolo di scopo.
In ragione del fatto che il potere si concretizza nel provvedimento, si comprende perché il principio di
legalità si risolva in quello di tipicità dei provvedimenti amministrativi: se l’amministrazione può esercitare i
soli poteri autoritativi attribuiti dalla legge, essa può emanare soltanto i provvedimenti stabiliti in modo
tassativo dalla legge stessa.
Il principio di legalità è richiamato dall’art. 1, l. 241/1990, ai sensi del quale l’attività amministrativa
persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di
pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla stessa legge 241. Per quanto riguarda di atti di
natura non autoritativa, invece, la legge stabilisce che l’amministrazione agisca secondo le norme di diritto
privato, salvo che la legge disponga diversamente.
L’art. 21-octies, l. 241/1990 dispone che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». La norma
potrebbe avere una rilevanza processuale ovvero sostanziale.
Per quanto attiene ai rapporti tra legge e attività amministrativa, occorre infine richiamare il principio del
giusto procedimento, elaborato dalla Corte costituzionale (sent. 13/1962) e avente la dignità di principio
generale dell’ordinamento: in particolare esso esprime l’esigenza che, nel caso di incisione di diritti, vi sia
una distinzione tra il disporre in astratto con legge e il provvedere in concreto con atto alla stregua della
disciplina astratta, mettendo i privati interessati in condizioni di esporre le proprie ragioni sia a tutela del
proprio interesse sia a titolo di collaborazione nell’interesse pubblico.

4.2. Il principio di imparzialità

L’art. 97 Cost. pone espressamente due principi relativi all’amministrazione: trattasi del principio di buon
andamento dell’amministrazione e del principio di imparzialità.
Dottrina e giurisprudenza hanno affermato la natura precettiva e non semplicemente programmatica della
norma costituzionale, la quale pone una riserva di legge. In virtù di una interpretazione estensiva della
locuzione «pubblici uffici» che siffatta norma contiene, dottrina e giurisprudenza hanno affermato
l’applicabilità diretta dei due principi in esame così all’organizzazione come all’attività amministrativa. Il
concetto di imparzialità esprime il dovere dell’amministrazione di non discriminare la posizione dei soggetti
coinvolti dalla sua azione nel perseguimento degli interessi affidati alla sua cura. Il principio postula altresì
un comportamento attivo volto alla realizzazione di un assetto appunto imparziale dei rapporti.
Al fine di cogliere il significato dell’imparzialità, occorre in primo luogo porre mente al fatto che
l’amministrazione deve perseguire quegli interessi pubblici che la legge determina e definisce: pertanto, in
questo senso, l’amministrazione è parziale. L’imparzialità impone innanzi tutto che l’amministrazione sia
strutturata in modo da assicurare una condizione oggettiva di aparzialità.
L’azione dell’amministrazione potrebbe essere parziale anche se posta in essere da un’organizzazione
imparziale, sicché il principio va altresì riferito all’attività.
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Strettamente connesso all’imparzialità è il principio della predeterminazione dei criteri e delle modalità cui le
amministrazioni si debbono attenere nelle scelte successive, il quale consente di verificare la rispondenza
delle scelte concrete ai criteri che l’amministrazione ha prefissato (c.d. «autolimite»). Con riferimento
all’attività, il principio di imparzialità assume quindi un significato differente da quello che riveste in ordine
all’organizzazione, ove vi è l’esigenza astratta che gli interessi siano considerati. Occorre individuare le
regole la cui osservanza garantisce la scelta imparziale in presenza di una pluralità di interessi implicati.
La parzialità ricorre quando sussiste un ingiustificato pregiudizio o una indebita interferenza di alcuni di tali
interessi; l’imparzialità, riferita all’attività di scelta concreta, si identifica invece nella «congruità» delle
valutazioni finali e delle modalità di azione prescelte: siffatta congruità deve essere definita tenendo conto
degli interessi implicati, di quelli tutelati dalla legge e degli altri elementi che possono condizionare l’azione
amministrativa.
In sintesi, proprio perché l’amministrazione è parte occorre che la sua attività sia sottoposta a un principio,
quello di imparzialità, il quale garantisca che il suo agire come parte risulti da un lato sottratto alle deviazioni
indebite, dall’altro ragionevole. Va ricordata la scelta, operata dal legislatore negli ultimi anni, di distinguere
sotto il profilo organizzativo organi politici e dirigenti, sul presupposto, parrebbe, che gli organi politici siano
meno idonei a svolgere l’ attività in modo imparziale.

4.3. Il principio del buon andamento

Il principio di buon andamento, enunciato sempre dall’art. 97, Cost., impone che l’amministrazione agisca
nel modo più adeguato e conveniente possibile. Il problema del buon andamento non deve essere confuso
con quello del dovere funzionale di buona amministrazione a carico dei pubblici dipendenti: peraltro tale
dovere non può andare al di là, al massimo, di ciò che alla diligenza di un amministratore di qualità media
può essere richiesto. Il buon andamento va invece riferito alla pubblica amministrazione nel suo complesso:
non al funzionario, ma all’ente.
La Carta di Nizza, con riferimento ai rapporti con istituzioni e organi dell’Unione, sancisce all’art. 41 anche
il «diritto ad una buona amministrazione»; la nozione configura in termini di diritto un valore che la nostra
Costituzione sembra invece considerare come legato all’interesse pubblico.

4.4. I criteri di efficacia, economicità, efficienza, imparzialità, pubblicità e trasparenza. La lotta alla
corruzione e all’illegalità

Accanto ai principi tradizionali di buon andamento e d’imparzialità, l’amministrazione deve oggi attenersi
anche ai criteri di economicità, efficacia, efficienza, pubblicità e trasparenza.
Molti di essi sono contemplati dall’art. 1, l. 241/1990, secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini
determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di
trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano
singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”. Si noti che anche i principi
comunitari “reggono” l’attività amministrativa. Il criterio di efficienza è contenuto in numerose leggi, ad
esempio art. l, d.lgs. 165/2001. L’imparzialità compare come criterio, laddove si tratta di un principio.
Il criterio di efficienza indica la necessità di misurare il “rapporto tra il risultato dell’azione organizzativa e
la quantità di risorse impiegate per ottenere quel dato risultato”: esso costituisce la “capacità di una
organizzazione complessa di raggiungere i propri obiettivi attraverso la combinazione ottimale dei fattori
produttivi”.
Il criterio di efficacia è invece collegato al “rapporto tra ciò che si è effettivamente realizzato e quanto si
sarebbe dovuto realizzare sulla base di un piano o programma”. Pertanto, efficienza ed efficacia non
coincidono: un’amministrazione che possa utilizzare pochissimi mezzi potrebbe essere efficiente ma non
efficace, così come un’attività efficace non necessariamente è efficiente. Va richiamato il d.lgs. 150/2009
sulla misurazione e sulla valutazione della performance, che presuppone la determinazione di standard e
obiettivi; sotto il versante giurisdizionale, è di rilievo l’azione collettiva (c.d. class action relativa
all’amministrazione) che mira, appunto, a ripristinare le condizioni organizzative necessarie per assicurare il
buon andamento e l’imparzialità dell’attività di enti pubblici e concessionari di servizi.
I criteri di efficienza ed efficacia e, più in generale, la nozione stessa di buon andamento, sembrano destinati
a essere rispettivamente valorizzati e rivisitati alla luce del principio costituzionale di equilibrio di bilancio:
esso, imponendo di tener conto dell’interesse prioritario al rispetto di un equilibrio economico complessivo,
vincola le amministrazioni a usare nel modo più efficiente le risorse disponibili per conseguire con efficacia
gli obiettivi pubblici.

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I criteri di pubblicità e di trasparenza (applicazioni del principio d’imparzialità, che nell’art. l, l. 241/1990
compare anche come criterio) possono essere riferiti sia all’attività sia all’organizzazione e, dunque, alla
duplice declinazione del termine amministrazione.
Il d.lgs. 33/2013 precisa che, al fine di assicurare la trasparenza degli atti amministrativi non soggetti agli
obblighi di pubblicità, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, continua a operare anche
oltre la scadenza del mandato prevista dalla disciplina vigente (ai sensi della l. 241/1990, tale Commissione
vigila affinché sia attuato il principio di piena conoscibilità dell’attività della pubblica amministrazione con il
rispetto dei limiti fissati dalla legge; redige una relazione annuale sulla trasparenza dell’attività della pubblica
amministrazione.
Alla trasparenza possono intanto essere ricondotti istituti procedimentali, quali il diritto di accesso e la
motivazione. La trasparenza, secondo l’art. 11, d.lgs. 150/2009, investe ogni aspetto dell’organizzazione;
emerge una nozione di trasparenza declinata come accessibilità totale: essa appare un istituto piegato
all’esigenza di assicurare forme diffuse di controllo sociale, onde incentivare azioni virtuose delle
amministrazioni pur in un contesto caratterizzato dall’assenza di un mercato. La legislazione valorizza gli
strumenti digitali per la disponibilità, la gestione, l’accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruizione
delle informazioni; di rilievo, in questo senso, è la Pec.
Infine, la normativa in tema di lotta all’illegalità e alla corruzione (l. 190/2012 e d. lgs. 33/2013) rappresenta
un ulteriore arricchimento della nozione. La trasparenza serve non solo a consentire l’accessibilità a
situazioni e momenti procedimentali o a garantire, mediante l’”accessibilità totale”, un controllo sociale
diffuso (a tal proposito si è stata introdotta la riforma Brunetta), ma è vista in funzione di lotta alla corruzione
e all’illegalità, sul presupposto che nell’opacità si annidino i comportamenti di maladministration. La
trasparenza (e la garanzia di un corretto flusso informativo che dall’interno si indirizza all’esterno delle
amministrazioni, a favore dei cittadini) è considerato dal legislatore come strumento essenziale per assicurare
la democrazia e per garantire il corretto funzionamento dell’amministrazione.
La trasparenza penetra anche nel regime giuridico dell’efficacia di alcune categorie di atti: ai sensi dell’art.
15, d.lgs. 33/2013, la pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento di incarichi a soggetti estranei
alla pubblica amministrazione, di collaborazione o di consulenza a soggetti esterni a qualsiasi titolo per i
quali è previsto un compenso, “è condizione per l’acquisizione di efficacia” degli incarichi medesimi; ai
sensi dell’art.26, la pubblicazione “costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti che
dispongano concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell’anno
solare al medesimo beneficiario”.
Riconducibili alla trasparenza sono anche i seguenti istituti: gli uffici di relazione con il pubblico, il
responsabile del procedimento e, più in generale, le attività d’informazione e di comunicazione delle
amministrazioni, disciplinate dalla l. 150/2000 (art. 2).
Il principio del buon andamento, e in particolare la tensione verso l’efficientismo che esso evoca, non è
sempre facilmente compatibile con l’ottica della legalità; vi è l’introduzione, a livello normativo, di istituti
legati ai valori dell’efficienza e dell’efficacia, nell’ambito tuttavia di un quadro generale ancora grandemente
condizionato dalle esigenze della legalità e, soprattutto, dalla presenza di altri istituti informati al rispetto
formale di tale principio. In questo contesto può essere inserita la già ricordata disciplina di cui all’art.
21octies, l. 241/1990, che esclude l’annullabilità del provvedimento in alcuni casi e, in particolare, allorché
esso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Parte della dottrina sostiene che
l’azione amministrativa sia orientata alla logica del risultato, il che imporrebbe la considerazione specifica
dei dati reali e dei problemi concreti su cui insiste l’azione, con la conseguenza che il mancato
raggiungimento di un risultato determinerebbe l’illegittimità dell’azione medesima.
Il diritto di accesso ai documenti amministrativi consente la “consapevole” partecipazione al procedimento
da parte del cittadino, il quale depositerà documenti e presenterà memorie e osservazioni pertinenti
all’amministrazione procedente, la quale potrà acquisire tutta una serie di informazioni con minor sforzo e
maggiore rapidità di quanto avverrebbe con il solo impiego dei normali poteri istruttori. La pubblicità e la
trasparenza, almeno secondo i caratteri che si sono venuti definendo, informano di sé soltanto
l’amministrazione, in quanto sono un riflesso diretto del suo essere “pubblica” e responsabile della cura di
interessi generali, caratteri cui consegue la teorica possibilità per ciascun cittadino di chiedere conto delle
scelte effettuate; a ciò si aggiunga che l’attività di chi opera in vista di interessi pubblici si legittima anche
per il modo mediante il quale la stessa si svolge e deve di conseguenza essere costantemente conoscibile.
Molto delicato è poi il problema del rapporto tra pubblicità/trasparenza e tutela della riservatezza.
Una tematica trasversale, che intercetta legalità, trasparenza e responsabilità, è quella della strategia volta a
contrastare il fenomeno della corruzione nelle amministrazioni. Questa strategia è caratterizzata dalla
combinazione di misure molto diverse tra loro e ha dato luogo a un’architettura normativa e organizzativa
molto complessa. Stando a Transparency Internetional, l’Italia è collocata al sessantanovesimo posto di un

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campione rappresentativo di 182 Paesi, mentre l’indice di Corruption Perception (che si sviluppa su una
scala da 0 a 10, con 10 che equivale ad assenza di corruzione) per l’Italia è fissato a 3,9, contro una media
Ocse di 6,9.
La strategia è delineata dalla l.190/2012, emanata in attuazione dell’art.6 della Convenzione dell’ONU contro
la corruzione, adottata dall’Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e ratificata dalla l. 116/2009, e dagli artt.
20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, siglata a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata dalla l.
110/2012. Essa reca disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella
pubblica amministrazione. Nel complesso la legge intercetta differenti istituti del diritto amministrativo.
La corruzione dilaga dove non c’è trasparenza e etica nei comportamenti di dipendenti e dirigenti e può
essere contrastata con misure che incrementino questi valori, nonché, in chiave preventiva, mediante azioni
amministrative e organizzative, cui si aggiungono strumenti repressivi, di controllo e un insieme di
obblighi e di divieti, senza dimenticare la “rete di protezione” nei confronti di dipendente che segnala illeciti.
Volendo raggruppare gli strumenti secondo un criterio diverso, si individua un insieme di misure di
prevenzione e di repressione calate dall’alto, che si combina con un modello di controllo diffuso esercitabile
dal basso, da parte della collettività.
a) Il nuovo art. 54-bis, d.lgs. 2001 dispone che, fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o
diffamazione, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti,
ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in
ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura
discriminatoria, diretta o indiretta;
b) Di rilievo è la disciplina sul conflitto d’interessi: il responsabile del procedimento e i titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di
conflitto, anche potenziale.
c) Va ricordata la disciplina in tema di arbitrati. Ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e
militari, agli avvocati e procuratori dello Stato e ai componenti delle commissioni tributarie è vietata
la partecipazione a collegi arbitrali o l’assunzione di incarico di arbitro unico; l’amministrazione
stabilisce inoltre l’importo massimo spettante al dirigente pubblico per l’attività arbitrale. In ordine
alla diffusa presenza di magistrati all’interno dell’amministrazione, si stabilisce che, per svolgere
incarichi presso istituzioni, organi ed enti pubblici, nazionali ed internazionali, i magistrati ordinari,
amministrativi, contabili e militari, procuratori dello Stato devono essere collocati in posizione di
fuori ruolo.
d) I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per
conto delle pubbliche amministrazioni, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione
del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati
destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.
e) Le amministrazioni pubbliche, le aziende e le società partecipate dallo Stato e dagli altri enti
pubblici, in occasione del monitoraggio posto in essere ai fini dell’art.36, d.lgs. 165/2001 (sul lavoro
flessibile), comunicano al dipartimento della funzione pubblica tutti i dati utili a rilevare le posizioni
dirigenziali attribuite a persone individuate discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza
procedure pubbliche di selezione.
f) È stabilito il divieto, per coloro che sono stati condannati per i reati come delitti dei pubblici ufficiali
contro le p.a., di far parte di commissioni per l’accesso o la selezione di pubblici impieghi; tali
soggetti, inoltre, non possono essere assegnati agli uffici preposti alla gestione delle risorse
finanziarie, all’acquisizione di beni e forniture, ecc.
g) Nel settore dei contratti pubblici è prevista l’istituzione, presso ogni prefettura, di una white list con
l’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di
infiltrazione mafiosa.
Quanto ai soggetti, un ruolo importante è svolto dal dipartimento della funzione pubblica, che, in
particolare, coordina l’attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità
nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale e predispone un piano nazionale
anticorruzione, vi è poi la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni
pubbliche, di cui all’art. 13, d.lgs. 150/2009, che opera quale autorità nazionale anticorruzione. Si tratta di
un organo collegiale composto da tre componenti nominati con decreto del Presidente della Repubblica,
previa deliberazione del consiglio dei ministri, previo parere favorevole delle commissioni parlamentari
competenti espresso a maggioranza dei due terzi dei componenti. La commissione ha numerosi compiti in
relazione alla valutazione dei dipendenti, cui si aggiungono quelli di approvare il piano nazionale
anticorruzione predisposto dal Dipartimento della funzione pubblica e di analizzare le cause e i fattori della
corruzione, individuando gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il contrasto.
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Le pubbliche amministrazioni centrali definiscono e trasmettono al dipartimento della funzione pubblica:


a) un piano di prevenzione della corruzione che fornisce una valutazione del diverso livello di
esposizione degli uffici al rischio di corruzione e indica gli interventi organizzativi volti a prevenire
il medesimo rischio;
b) procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della
pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla
corruzione, prevedendo la rotazione di dirigenti e funzionari negli stessi settori.
Negli enti locali, l’organo di indirizzo politico adotta il piano triennale di prevenzione della corruzione, su
proposta del responsabile della prevenzione della corruzione; questa figura è centrale: egli è anche, di
norma, responsabile della trasparenza, ed è individuato dall’organo di indirizzo politico (di norma tra i
dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio).
In sede centrale, la nomina è effettuata dal ministro; negli enti locali, di norma, il compito è affidato al
segretario, mentre il titolare del potere di nomina va individuato nel sindaco.
Il responsabile elabora la proposta di piano; inoltre è chiamato a vigilare sull’attuazione, sul funzionamento
e sull’osservanza del piano medesimo, nonché a proporne la modifica quando sono accertate significative
violazioni delle prescrizioni. Entro il 15 dicembre di ogni anno, il responsabile pubblica nel sito web
dell’amministrazione una relazione recante i risultati dell’attività svolta e la trasmette all’organo di indirizzo
politico dell’amministrazione.
Particolarmente rilevante è la parte della disciplina dedicata alla responsabilità di tale soggetto. In caso di
commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in
giudicato, infatti, scatta la responsabilità dirigenziale del responsabile e quella disciplinare, oltre che la
responsabilità per il danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione.
Per quanto attiene ai dipendenti, la violazione delle misure di prevenzione previste dal piano costituisce
illecito disciplinare e, in generale, ai sensi dell’art. 43, d.lgs. 33/2013, il responsabile della trasparenza
segnala all’ufficio di disciplina i casi di inadempimento o di adempimento parziale degli obblighi in materia
di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, ai fini dell’eventuale attivazione del procedimento
disciplinare.
Dal punto di vista degli strumenti, centrale è il piano triennale di prevenzione della corruzione. Esso deve:
individuare le attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio di corruzione; prevedere meccanismi di
formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione; monitorare il
rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti; monitorare i rapporti tra l’amministrazione e i
soggetti che con la stessa stipulano contratti.
Ai fini della lotta all’illegalità è considerata decisiva la trasparenza dell’attività amministrativa; essa
dovrebbe consentire un controllo diffuso da parte della cittadinanza e trasformare la corruzione in un costo
anche sociale non accettabile. La l. 190/2012 dispone che essa è assicurata mediante la pubblicazione, nei siti
web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti
amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione, nel rispetto
delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali.
Il d.lgs. 33/2013, attuativo della delega conferita al governo dalla l. 190/2012, dà sviluppo a questo impianto
legislativo, disponendo in primo luogo che la trasparenza è intesa come “accessibilità totale delle
informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire
forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche”.
La trasparenza, “nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di segreto
statistico e di protezione dei dati personali, concorre ad attuare il principio democratico e i principi
costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza
nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione. Essa è condizione di garanzia
delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, integra il diritto ad una buona
amministrazione e concorre alla realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino”. La
trasparenza diventa la condizione normale di esistenza e di azione delle amministrazioni e non è più
perseguita da norme singole, ma è l’oggetto di un approccio di sistema.
Dal punto di vista soggettivo, per “pubbliche amministrazioni” si intendono tutte le amministrazioni di cui al
d.lgs. 165/2001; alle società partecipate dalle pubbliche amministrazioni e alle società da esse controllate ai
sensi dell’art. 2359, c.c., si applicano alcune disposizioni della l. 190/2012 (ad esempio quelle sulla
pubblicazione dei siti).
Numerosi e vari sono gli istituti disciplinati dal d.lgs. 33/2013; in primo luogo si ricordano gli obblighi di
pubblicazione di dati, di cui il decreto opera un importante riordino di tali obblighi.

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Non manca la possibilità per le pubbliche amministrazioni di disporre la pubblicazione nel proprio sito
istituzionale di dati, informazioni e documenti che non hanno l’obbligo di pubblicare ai sensi del decreto o
sulla base di specifica previsione di legge o regolamento. In presenza di un vincolo normativo e nell’area
determinata dal legislatore, “tutto” va pubblicato (salvi i limiti attinenti alla riservatezza). Per pubblicazione
si intende la pubblicazione, in conformità alle specifiche e alle regole tecniche, nei siti istituzionali delle
pubbliche amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati concernenti l’organizzazione e
l’attività delle pubbliche amministrazioni, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti
direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione (art. 2). I documenti contenenti atti
oggetto di pubblicazione obbligatoria sono pubblicati tempestivamente sul sito istituzionale
dell’amministrazione; la pubblicazione deve essere assicurata per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1°
gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, comunque fino a che gli atti
pubblicati producono i loro effetti. Il d.lgs. 33/2013 si preoccupa anche della qualità dei dati, stabilendo che
le amministrazioni devono assicurare l’integrità, il costante aggiornamento, la completezza, la tempestività,
la semplicità di consultazione, la comprensibilità, l’omogeneità, la facile accessibilità, nonché la conformità
ai documenti originali in possesso dell’amministrazione, l’indicazione della loro provenienza e la
riutilizzabilità. Per altro verso, ai sensi dell’art. 4, deve essere consentito il trattamento dei dati secondo
modalità che ne consentono l’indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web; l’art. 7
aggiunge che i documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria, resi disponibili
anche a seguito dell’accesso civico, sono pubblicati in formato di tipo aperto (c.d. open data) senza ulteriori
restrizioni diverse dall’obbligo di citare la fonte e di rispettarne l’integrità.
Pure l’istituto dell’accesso civico si riferisce al perimetro delle informazioni oggetto di pubblicazione
obbligatoria e si muove nella medesima direzione della trasparenza totale; all’obbligo di informare che fa
capo all’amministrazione, corrisponde ora un diritto attivabile dal cittadino, indipendentemente dal fatto che
sussista un particolare interesse qualificato o differenziato e senza bisogno di alcuna motivazione o
giustificazione. Questo diritto è esercitabile sul mero presupposto dell’inadempimento del soggetto pubblico
dell’obbligo di pubblicare: l’art. 5, infatti, dispone che l’obbligo di pubblicare documenti, informazioni o dati
comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.
Per quanto attiene alle sanzioni, si prevede che l’inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti
dalla normativa vigente o la mancata predisposizione del programma triennale per la trasparenza e l’integrità
costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per
danno all’immagine dell’amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della
retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili.
La l. 190/2012, invece, prevede che la mancata o incompleta pubblicazione, da parte delle pubbliche
amministrazioni, delle informazioni costituisce violazione degli standard qualitativi ed economici rilevante
ai sensi della disciplina sulla c.d. class action pubblica ed è comunque valutata ai sensi della normativa sulla
responsabilità dirigenziale. In relazione alla loro gravità, il responsabile segnala i casi di inadempimento o
di adempimento parziale degli obblighi in materia di pubblicazione previsti dalla normativa vigente
all’ufficio di disciplina, ai fini dell’eventuale attivazione del procedimento disciplinare. Quanto alle misure
amministrative e ai soggetti coinvolti nell’implementazione della disciplina, è previsto che ogni
amministrazione adotti un programma triennale per la trasparenza e l’integrità, da aggiornare
annualmente e che costituisce di norma una sezione del piano del piano di prevenzione della corruzione.
All’interno di ogni amministrazione, il responsabile per la prevenzione della corruzione svolge le funzioni di
responsabile per la trasparenza. Questo soggetto esercita stabilmente un’attività di controllo
sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa
vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché
segnalando all’organo di indirizzo politico, l’Organismo indipendente di valutazione (OIV), all’Autorità
nazionale anticorruzione e, nei casi più gravi, all’ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato
adempimento degli obblighi di pubblicazione.
I dirigenti responsabili degli uffici dell’amministrazione garantiscono il tempestivo e regolare flusso delle
informazioni da pubblicare ai fini del rispetto dei termini stabiliti dalla legge. Importanti compiti sono
attribuiti agli organismi indipendenti di valutazione e alla Civit, quest’ultima chiamata a vigilare
sull’implementazione della disciplina. L’organismo indipendente di valutazione verifica la coerenza tra gli
obiettivi previsti nel programma triennale per la trasparenza e l’integrità e quelli indicati nel piano per la
performance; la Civit (che è anche Autorità nazionale anticorruzione) invece controlla l’esatto adempimento
degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, esercitando poteri ispettivi mediante
richiesta di notizie, informazioni, atti e documenti alle amministrazioni pubbliche, e ordinando l’adozione di
atti o provvedimenti richiesti dalla normativa vigente.
La trasparenza può configgere con la riservatezza; l’art. 4 individua due regole generali:

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• le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati sensibili e giudiziari la


cui conoscenza non risulti indispensabile alla finalità della trasparenza;
• per quanto attiene ai dati personali non sensibili e non giudiziari, le pubbliche amministrazioni
provvedono a rendere non intelligibili i dati personali “non pertinenti”.
I dati personali sono costituiti da qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o
associazione, identificati o identificabili mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un
numero di identificazione personale; i dati sensibili, invece, sono quelli idonei a rivelare l’origine razziale ed
etnica, le convinzioni religiose o filosofiche, le opinioni politiche nonché i dati personali idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale.
Secondo quanto dispone l’art. 4, d.lgs. 33/2013, gli obblighi di pubblicazione dei dati personali diversi dai
dati sensibili e dai dati giudiziari “comportano la possibilità di una diffusione dei dati medesimi attraverso
siti istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono l’indicizzazione e la
rintracciabilità tramite i motori di ricerca web ed il loro riutilizzo… nel rispetto dei principi sul trattamento
dei dati personali”. Restano poi fermi i limiti alla diffusione e all’accesso delle informazioni relative allo
stato di salute e alla vita sessuale.
Una particolare attenzione è dedicata alla trasparenza relativa ai dati di chi opera presso le amministrazioni,
nel segno di un depotenziamento della privacy. Inoltre, vanno considerati i dati attinenti a titolari di organi
di indirizzo politico e di uffici o incarichi di diretta collaborazione, nonché a dirigenti titolari degli organi
amministrativi; la loro pubblicazione è finalizzata alla realizzazione della trasparenza pubblica, che integra
una finalità di rilevante interesse pubblico nel rispetto della disciplina in materia di protezione dei dati
personali. Si dispone altresì che le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia
addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di
appartenenza.
Tornando alla l. 190/2012, l’attuazione di questa ha un notevole impatto su vari istituti. Dal punto di vista
dell’attività, si prevede la standardizzazione dei “meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle
decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione”; essi si sovrappongono, integrandoli, al normale fluire
dei procedimenti amministrativi; sotto il profilo della programmazione, le amministrazioni dovranno porre in
essere un notevole sforzo per elaborare i piani anticorruzione; dal punto di vista organizzativo, l’unica figura
creata all’interno delle amministrazioni è il responsabile, ma sono inevitabili interferenze con altri segmenti
organizzativi nel corso della sua attività.
In quanto alle criticità riscontrata dalla disciplina, si possono segnalare due aspetti: in primo luogo si è
sostenuto che la riforma non si occupa del livello politico della corruzione, cos’ come si è rilevato che essa
non incide sulle misure di contrasto al riciclaggio; in secondo luogo vi è il rischio di un’eccessiva
burocratizzazione, con piani che magari si limitano a raccogliere buone intenzioni. Ulteriori difficoltà
derivano dal ritardo nella predisposizione dei vari documenti e dai rapporti, non sempre semplici, tra la
disciplina sull’anticorruzione e quella sui compiti dei dirigenti di uffici dirigenziali generali.

4.5. I principi di azionabilità delle situazioni giuridiche dei cittadini nei confronti della pubblica
amministrazione e di sindacabilità degli atti amministrativi. Il problema della riserva di
amministrazione.

L’art. 24, c. l, Cost. stabilisce che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi
legittimi». L’art. 113 Cost. dispone che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la
tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o
amministrativa». La disciplina testé richiamata esprime l’esigenza che ogni atto della pubblica
amministrazione possa essere oggetto di sindacato da parte di un giudice e che tale sindacato attenga a
qualsiasi tipo di vizio di legittimità: si tratta del principio di azionabilità delle situazioni giuridiche dei
cittadini nei confronti dell’amministrazione e del principio di sindacabilità degli atti amministrativi.
Secondo la Corte costituzionale, la norma in esame non impedisce l’emanazione delle c.d. leggi
provvedimento (si tratta di leggi che hanno contenuto puntuale e concreto alla stessa stregua dei
provvedimenti amministrativi), purché sia rispettato il canone di ragionevolezza. L’adozione di tali leggi
determina, però, l’impossibilità per il cittadino di ottenere la tutela giurisdizionale delle proprie situazioni
giuridiche davanti al giudice amministrativo ovvero al giudice ordinario, potendo la legge provvedimento
essere sindacata soltanto dalla Corte costituzionale. Emerge il problema della riserva di amministrazione:
ci si deve cioè chiedere se esista un ambito di attività riservato alla pubblica amministrazione. Di riserva
dell’amministrazione potrebbe in primo luogo parlarsi nei confronti della funzione giurisdizionale: in questo
senso esiste un ambito

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sottratto al sindacato dei giudici, ordinari e amministrativi, costituito dal merito (in questo campo dunque, vi
è «difetto assoluto di giurisdizione»). In talune ipotesi, però, l’ordinamento dispone il superamento di tale
riserva, prevedendo che il giudice amministrativo abbia giurisdizione di merito, la quale consente di
sindacare l’ opportunità delle scelte amministrative. Peraltro, ai sensi dell’art. 34, d.lgs. 104/2010, in nessun
caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati.
L’idea di una riserva di funzione amministrativa nei confronti del legislativo sembra confliggere con tutta
una serie di principi, tra cui spicca il principio di preferenza della legge che chiaramente informa il nostro
ordinamento giuridico. La riserva di amministrazione non pare ricavabile dal principio del giusto
procedimento: esso è stato infatti qualificato dalla Corte costituzionale come principio generale
dell’ordinamento e, di conseguenza, non è ritenuto vincolante per il legislatore statale, che ben può derogarvi
e dunque limitare la sfera di operatività dell’ amministrazione.
Una legge che disponesse in via puntuale e concreta in una situazione caratterizzata dalla presenza di più
interessi di cui occorre effettuare una valutazione e una ponderazione, violerebbe il principio di imparzialità
cui il legislatore è vincolato in tema di attività amministrativa. Più in particolare, una lettura estensiva
dell’art. 97 Cost. consente di affermare che la legge deve non solo predisporre l’organizzazione
amministrativa necessaria al raggiungimento dei fini dell’imparzialità e del buon andamento, ma altresì (anzi,
si direbbe, a maggior ragione) astenersi dall’intervenire rendendo di fatto non imparziale e non congrua
l’attività di scelta effettuata in concreto in vista di interessi pubblici.
Si configura così una «riserva di ponderazione degli interessi» che postula, tra l’altro, una particolare
struttura del procedimento, nell’ambito del quale acquista rilievo essenziale l’istruttoria.
Un caso diverso di riserva a favore dell’amministrazione, relativo però all’esercizio della funzione
regolamentare, pare emergere dall’art. 117, c. 6, Cost. che riconosce la potestà regolamentare regionale in
ogni materia diversa da quelle di competenza statale e la potestà regolamentare di comuni, province e città
metropolitane «in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite».

4.6. Il principio dell’equilibrio di bilancio

La disciplina costituzionale incide in modo rilevante sulla politica pubblica economica impedendo di
finanziare con l’indebitamento la spesa pubblica; si tratta di una disciplina chiaramente influenzata dalla crisi
economica e dagli impegni assunti in sede europea dallo Stato italiano. La preoccupazione di fronteggiare la
crisi ha tra l’altro condotto a una serie di misure di più ampio raggio: un incremento della pressione fiscale e
uno sforzo di riduzione della spesa pubblica, il quale ha inevitabili ricadute sul piano amministrativo (blocco
delle assunzioni, liquidazioni di enti, blocco delle retribuzioni, spending review – l. 135/2012 – e anche
poteri di commissariamento: l. 94/2012).
Ai sensi dell’art. 81 Cost. (così come costituito dalla l. 135/2012; la nuova disciplina entrerà in vigore a
decorrere dall’esercizio finanziario relativo al 2014), lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese
del proprio bilanci, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il principio
da un lato impedisce in linea di principio il ricorso all’indebitamento, dall’altro apre la via all’attuazione di
politiche anticicliche.
Il c. 2, al riguardo, precisa che il ricorso all’indebitamento è consentito in due casi: al fine di considerare gli
effetti del ciclo economico e al verificarsi di eventi eccezionali. Per altro verso, l’art. 119 Cost. consente al
sistema autonomistico l’indebitamento per investimenti a condizione che vi sia un piano di ammortamento e
che si rispetti complessivamente il principio dell’equilibrio.
L’u.c. dell’art. 81 introduce una riserva assoluta di legge rinforzata; nel dettaglio, con legge approvata a
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge
costituzionale, sono stabiliti: il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad
assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle
pubbliche amministrazioni. L’art. 5 della l. cost. 1/2012 indica in modo dettagliato ulteriori contenuti sulla
legge stessa, che è stata adottata nella l. 243/2012. In particolare, questa legge, oltre a disciplinare l’ ufficio
parlamentare di bilancio (organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza
pubblica e per l’osservanza delle regole di bilancio), definisce gli eventi eccezionali (gravi recessioni
economiche, crisi finanziarie, calamità naturali): al verificarsi di tali eventi sono consentiti sia il ricorso
all’indebitamento sia il superamento del limite massimo degli scostamenti rispetto alle previsioni sulla base
di un piano di rientro.
Il dovere di assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito complessivo è esteso al
“complesso delle pubbliche amministrazioni” (art. 97 e l. cost. 1/2012). L’art. 3, l. 243/2012, stabilisce che
l’equilibrio di bilancio cui debbono concorrere le amministrazioni pubbliche corrisponde all’obiettivo di
medio termine (valore strutturale in base ai criteri europei che corrisponde al pareggio di bilancio calcolato in
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termini strutturali); per garantire l’equilibrio, occorre che il saldo strutturale calcolato in sede di consuntivo
soddisfi almeno una delle due condizioni:
a) essere pari all’obiettivo di medio termine oppure presentare uno scostamento inferiore allo 0,5 %;
b) assicurare il rispetto del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine, nei casi di eventi
eccezionali e di scostamenti dall’obiettivo programmatico strutturale.
Per quanto attiene alla sostenibilità del debito pubblico, nel caso in cui il rapporto debito/Pil superi il valore
del 60 %, in sede di definizione degli obiettivi occorrerà tenere conto della necessità di garantire una
riduzione dell’eccedenza del debito.
Il principio introdotto nell’art. 81 condizionerà le scelte amministrative che comportino spese, incidendo su
efficacia, efficienza e buon andamento, valorizzando la programmazione dell’attività, riducendo e
condizionando la discrezionalità. Il principio è destinato a caratterizzare in modo sempre più marcato i diritti
alla stregua di diritti finanziariamente condizionati. Al riguardo, la legge di cui all’u.c. dell’art. 81 Cost. era
chiamata a definire la facoltà dei comuni, delle province,delle città metropolitane, delle regioni e delle
province autonome di Trento e Bolzano di ricorrere all’indebitamento e le modalità attraverso cui, nelle fasi
avverse del ciclo economico o al verificarsi di eventi eccezionali, lo Stato concorre ad assicurare il
finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni
fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali. La l. 243/2012, in attuazione a questa disposizione, ha previsto
l’istituzione di un fondo straordinario. Ai sensi dell’art. 119 Cost., comuni, province, città metropolitane e
regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e
concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento
dell’Unione europea”; inoltre essi possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di
investimento. È evidente l’incidenza del principio sul sistema delle regioni e degli enti locali: il vincolo ad
assicurare l’equilibrio e quello a concorrere ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari
derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, infatti, condizionano l’autonomia dei singoli soggetti.
Infine, la l. cost. 1/2012 prevede l’istituzione presso le Camere, nel rispetto della relativa autonomia
costituzionale, di un organismo indipendente al quale vanno attribuiti compiti di analisi e verifica degli
andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio.

5. Il principio della finalizzazione dell’amministrazione pubblica agli interessi pubblici

Dall’esame dell’art. 97 Cost. già emerge il principio di finalizzazione dell’amministrazione pubblica: il


buon andamento significa congruità dell’azione in relazione all’interesse pubblico; l’imparzialità,
direttamente applicabile all’attività amministrativa, postula l’esistenza di un soggetto «parte», il quale è tale
in quanto persegue finalità collettive che l’ordinamento generale ha attribuito alla sua cura. I principi ora
richiamati devono significativamente essere rispettati anche dal legislatore allorché ponga in essere una
disciplina dell’amministrazione.
Il principio è applicabile anche all’attività di diritto privato dell’amministrazione e all’organizzazione: il fatto
che il soggetto pubblico disponga degli strumenti privatistici non contrasta con il principio della
finalizzazione dell’amministrazione nel suo complesso.

6. I principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza

Un ulteriore principio dell’ordinamento dettato con riferimento all’allocazione delle funzioni amministrative
è il principio di sussidiarietà, inteso nel senso di attribuzione di funzioni al livello superiore di governo
esercitabili soltanto nell’ipotesi in cui il livello inferiore non riesca a curare gli interessi ad esso affidati.
L’art. 5 Cost. riguarda il decentramento, figura che è riferibile in generale a tutti i poteri decisori e che
implica la necessità che tali poteri non siano tutti racchiusi e conferiti in un «centro». Allorché si fa
riferimento al decentramento amministrativo, il termine è utilizzato per indicare la dislocazione dei poteri tra
soggetti e organi diversi soprattutto diversi dallo Stato centrale e assurge a regola fondamentale
dell’organizzazione amministrativa. Il decentramento è un fenomeno organizzativo che può assumere forme
diverse: burocratico (il quale comporta soltanto il trasferimento di competenze da organi centrali a organi
periferici di uno stesso ente), o autarchico (se comporta l’affidamento, ad enti diversi dallo Stato, del compito
di soddisfare la cura di alcuni bisogni pubblici).
Il decentramento burocratico, in senso proprio implicherebbe la responsabilità esclusiva degli organi locali
nelle materie di propria competenza e l’assenza di un rapporto di rigida subordinazione con il centro. Parte
della dottrina ritiene che in molti casi la presenza di organi statali locali realizzi, o abbia realizzato, un
fenomeno di deconcentrazione nell’ambito di un’amministrazione statale che resta accentrata.

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Il decentramento autarchico può essere previsto a favore di enti locali, consentendo così che la cura di
interessi locali sia affidata a enti esponenziali di collettività locali, ovvero a favore di altri enti (c.d.
«decentramento istituzionale»).
In particolare, la l. 59/1997, art. l, c. 2, ha attribuito al governo la delega per conferire agli enti locali e alle
regioni tutte le funzioni e i compiti amministrativi «relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello
sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei
rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione dello Stato, centrali o periferici,
ovvero tramite enti o altri soggetti pubblici». La delega è stata esercitata con il d.lgs. 112/1998: a seguito di
questo processo di conferimento di compiti e funzioni a regioni ed enti locali, oggi l’amministrazione italiana
si configura dunque essenzialmente come regionale e locale. In concomitanza con siffatto processo, il
legislatore ha iniziato a richiamare il principio di sussidiarietà; in questo contesto, esso gioca un ruolo
fondamentale soprattutto nel quadro dei rapporti regioni-enti locali. Il principio di sussidiarietà può essere
inteso in senso non solo verticale (relativamente cioè alla distribuzione delle competenze tra centro e
periferia), ma anche orizzontale (nei rapporti tra poteri pubblici e organizzazioni della società). Va
osservato che l. cost. 3 /2001 ha costituzionalizzato pure il principio di sussidiarietà, declinato in senso sia
verticale, sia orizzontale. Indipendentemente dalla riconduzione della materia alla competenza legislativa di
Stato o regioni, le relative funzioni amministrative spettano in via di principio ai comuni. Si noti infine che il
principio di sussidiari età è pure richiamato dall’art. 120, u.c. Cost., che disciplina i poteri sostitutivi dello
Stato nei confronti dei governi locali e dalla l. 131/2003 che contiene disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
7. I principi costituzionali applicabili alla pubblica amministrazione: l’eguaglianza, la solidarietà,
la democrazia

All’amministrazione, come agli altri soggetti pubblici, si applicano senz’altro i principi di eguaglianza (art. 3
Cost.) e di solidarietà (art. 2: il quale fa derivare da esso il principio di buona fede o di correttezza); l’art. l
Cost. definisce l’Italia come Repubblica democratica. Se il principio democratico informa l’ordinamento
militare, esso, a maggior ragione, deve essere riferibile all’amministrazione nel suo complesso: di
conseguenza, democratica deve essere anche l’azione amministrativa, la quale, a sua volta, deve concorrere
alla realizzazione di una società più democratica, rimuovendo ad esempio gli ostacoli che impediscono la
piena eguaglianza dei cittadini. Il principio democratico indica il governo della maggioranza nel rispetto dei
diritti delle minoranze. La democrazia implica dunque la tutela dei diritti delle minoranze, nonché la
possibilità di controllare in qualche modo l’esercizio del potere politico nei vari settori. In ordine alle forze
armate, la Costituzione non mira all’instaurazione di un sistema democratico, prevedendo ad esempio
l’elezione degli ufficiali e il suffragio universale per la scelta a maggioranza delle decisioni fondamentali, ma
impone un limite invalicabile così per il legislatore come per l’autorità militare, costituito dal rispetto della
dignità della persona, posta dallo spirito democratico alla base della convivenza sociale.

8. L’amministrazione nella Costituzione come “potere dello Stato”

Il principio tradizionale della separazione (o divisione) dei poteri postulava che le tre funzioni, legislativa,
esecutiva e giudiziaria, fossero distribuite tra poteri distinti. Si deve notare come la situazione attuale sia
profondamente mutata rispetto all’epoca in cui venne elaborato il principio della separazione dei poteri.
In primo luogo, sono stati riconosciuti altri poteri accanto ai tre tradizionali. In secondo luogo, mentre la
funzione giurisdizionale è soltanto statale, quella amministrativa e quella legislativa sono distribuite tra altri
soggetti. Più in generale, poteri differenti esercitano la stessa funzione (ad esempio il governo ha potestà
normativa), ovvero collaborano all’esercizio della stessa funzione (il Presidente della Repubblica promulga
le leggi approvate dalle due Camere). Infine, accanto allo Stato, debbono essere ricordate le regioni, alle
quali la Costituzione riserva una peculiare sfera di attribuzioni. In questo contesto, per “potere” si intende il
complesso organizzatorio al quale è attribuita dall’ordinamento una peculiare frazione di autorità:
l’amministrazione, o meglio, il governo, dotato di una particolare posizione di autonomia, in quanto tale
qualificabile come potere dello Stato, si colloca accanto ad altri poteri pubblici. Tra i vari poteri pubblici
dell’ordinamento possono sorgere conflitti; il conflitto si dice “positivo” nell’ipotesi in cui autorità diverse
affermino la titolarità della medesima potestà; “negativo” se l’autorità invitata a esercitare una potestà neghi
di esserne titolare; “reale” se sia sfociato in pronunce contrastanti di autorità diverse; “virtuale” quando la
situazione di conflitto è potenziale, ossia non si è ancora verificata, ma sussiste la possibilità che ciò accada,
ad esempio in presenza della pronuncia di una sola autorità. I conflitti possono sorgere tra organi
appartenenti a diversi ordini giurisdizionali e si parla di conflitti di “giurisdizione” (ossia quando è dubbio
se una data controversia debba essere decisa dal giudice amministrativo o da quello ordinario); oppure tra
organi appartenenti allo stesso potere inteso come complesso organizzatorio e si parla allora di conflitti di
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“competenza”. La Costituzione si occupa soltanto dei conflitti di attribuzione; l’art. 134 Cost. attribuisce alla
Corte costituzionale il compito di risolvere i conflitti di attribuzione tra Stato e regioni e i conflitti tra
regioni e cioè tra enti costituzionali. Tali conflitti sono originati dall’invasione da parte di un atto statale,
della sfera di competenza assegnata dalla Costituzione o da altre norme costituzionali ad una regione. Gli atti
invasivi del potere altrui sono spesso amministrativi; la circostanza che l’atto invasivo possa essere
amministrativo e, dunque, come tale, impugnabile davanti al giudice amministrativo o conoscibile dal
giudice ordinario rende evidenti i problemi di interferenza tra giudizio ordinario o amministrativo e giudizio
costituzionale. Interessa poi individuare quali organi, nell’ambito del potere esecutivo, sono competenti a
sollevare il conflitto tra poteri e quali sono gli altri poteri con cui può sorgere il conflitto. In ordine alla prima
questione, gli organi competenti sono il Presidente del Consiglio dei ministri, il Consiglio dei ministri e,
secondo un recente orientamento, anche il ministro di grazia e giustizia. Per quanto attiene all’elencazione
dei poteri, sono qualificati tali il Presidente della Repubblica, le camere del Parlamento, la Corte
Costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il
Consiglio di Stato nell’esercizio della funzione consultiva, la Corte dei conti nell’esercizio della funzione di
controllo, la magistratura nel suo complesso. La giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto il carattere di
potere dello Stato anche al complesso dei cittadini che abbia richiesto l’indizione di referendum abrogativo
ex art. 75 Cost., estendendo così la qualifica di potere a figure esterne allo Stato soggetto. CAPITOLO III

L’ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA:
PROFILI GENERALI

1. Introduzione

Ciascun ordinamento si preoccupa, in primo luogo, di individuare i soggetti che ne fanno parte. Più in
particolare, oltre a riconoscere la soggettività e la capacità giuridica a tutte le persone fisiche, l’ordinamento
direttamente istituisce altri soggetti-persone giuridiche, ovvero le configura in astratto, rimettendo a
successive scelte puntuali l’effetto della loro costituzione in concreto; ciò vale anche per le persone
giuridiche pubbliche. Si deve poi osservare che la dottrina e la giurisprudenza riconoscono come soggetti di
diritto anche organizzazioni che non hanno la personalità giuridica, quali le associazioni non riconosciute:
per tali entità si è proposta in dottrina l’espressione «figure soggettive».

2. I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: gli enti pubblici

I soggetti di diritto pubblico costituiscono nel loro complesso l’amministrazione in senso soggettivo, che si
articola nei vari enti pubblici. Essi sono dotati di capacità giuridica e, come tali, sono idonei ad essere
titolari di poteri amministrativi: in questo senso possono essere definiti come centri di potere. Un esame
della Costituzione rivela che, accanto all’amministrazione statale, vi sono le amministrazioni regionali
nonché gli enti esponenziali delle comunità territoriali, riconosciuti dall’ordinamento generale in quanto
portatori di interessi pubblici. A sua volta, l’amministrazione statale (e il discorso vale anche per quella
regionale e locale) si articola in una serie di enti variamente collegati alla prima, ma da questa distinti in
quanto provvisti di propria personalità.
L’estensione della sfera di azione dei poteri pubblici e il passaggio da un modello di Stato liberale a quello di
Stato sociale ha determinato la necessità di avvalersi in modo crescente dell’apporto dei privati che, in
quanto chiamati a svolgere alcuni servizi di rilievo pubblicistico, vengono in qualche modo attratti
nell’ambito dell’organizzazione pubblica. In sintesi, accanto agli enti territoriali tradizionali (in primo luogo
lo Stato), si sono aggiunti enti legati a questi livelli territoriali da relazioni più o meno stringenti, anche di
natura finanziaria (perché appunto finanziati da enti territoriali); altri soggetti, questa volta spontaneamente
formatisi, svolgenti attività rilevanti per l’interesse pubblico (ordini professionali, enti sportivi e così via)
sono poi stati riconosciuti come enti dall’ordinamento.
Infine, il mutamento del ruolo dello Stato, che, da soggetto chiamato ad intervenire direttamente e in prima
persona nella società e nell’economia, tende a configurarsi sempre più come soggetto regolatore, ha
agevolato il fenomeno della creazione delle amministrazioni indipendenti e la vicenda della privatizzazione
degli enti.

3. Il problema dei caratteri dell’ente pubblico

L’art. 97 Cost. stabilisce il principio generale secondo cui «i pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge». Al riguardo, l’art. 4, l. 70/1975, afferma che «nessun nuovo ente pubblico può essere

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istituito o riconosciuto se non per legge». La norma costituzionale esprime il principio essenziale secondo cui
spetta all’ordinamento generale e alle sue fonti individuare le soggettività che operano al suo interno. Oggi
molti enti (consorzi, aziende speciali e così via) continuano comunque ad essere istituiti da altri enti pubblici
con determinazioni amministrative «sulla base di legge» e non «per legge»: pertanto, si distingue in dottrina
tra configurazione astratta e istituzione concreta dell’ente.
La complessa questione dell’individuazione degli enti pubblici è stata risolta dalla giurisprudenza utilizzando
una serie di indici «esteriori», nessuno dei quali è di per sé ritenuto sufficiente, ma che invece sono ritenuti
idonei, ove considerati nel loro complesso. Tra questi indici di pubblicità si ricordano: la costituzione
dell’ente ad opera di un soggetto pubblico; la nomina degli organi direttivi in tutto o in parte di competenza
dello Stato o di altro ente pubblico; l’esistenza di controlli o di finanziamenti pubblici; l’attribuzione di poteri
autoritativi.
La delicatezza dell’operazione qualificatoria dipende dalla già rilevata estrema detipicizzazione degli enti
pubblici, la quale genera la difficoltà di individuare un momento comune e unificante sicuramente
sintomatico del regime pubblico di un ente.
4. La definizione di ente pubblico e le conseguenze della pubblicità

L’ente pubblico è quello che, anche al di là della definizione normativa, la giurisprudenza ritiene tale
superando la rigida lettera della legge. Occorre osservare in primo luogo che, pur non disconoscendo
l’importanza degli indici esteriori rivelatori della pubblicità, sopra richiamati e impiegati dalla
giurisprudenza, essi non sembrano idonei a consentire l’individuazione dell’elemento essenziale della
pubblicità di una persona giuridica.
L’interesse è pubblico in quanto la legge, accertato che esso ha una dimensione collettiva, l’abbia imputato
ad una persona giuridica, tenuta giuridicamente a perseguirlo: di qui il riconoscimento della «pubblicità» di
quella persona giuridica.
L’ente pubblico non può disporre della propria esistenza, a differenza dei soggetti privati, che possono
decidere di «ritirarsi» e cioè di dismettere l’attività, oppure modificare l’ oggetto della stessa. Spesso non è
semplice individuare l’imputazione legislativa: si ritiene che possano soccorrere alcuni elementi rivelatori,
tra i quali è particolarmente importante l’utilizzo di denaro pubblico da parte dell’ente, anche alla luce del
principio del «coordinamento della finanza pubblica» ricavabile dall’art. 119 Cost., che giustifica tra l’altro il
controllo ad opera della Corte dei conti.
Chi agisce utilizzando risorse pubbliche per perseguire doverosamente finalità pubbliche deve, ad esempio,
rispettare non solo il principio di economicità, ma anche quello di imparzialità nel momento in cui stipula
contratti con i terzi. In ogni caso, vale il requisito essenziale di pubblicità costituito dalla rilevanza del fine
imputato, che comporta come conseguenza per l’ente l’impossibilità di disporre della propria esistenza.
Qualora venga meno la pubblicità dell’interesse perseguito, la legge può intervenire per estinguere l’ente, o
per trasformar lo in soggetto privato.
Talora l’ordinamento considera di pubblico interesse la presenza necessaria di un soggetto sul mercato,
sicché il pubblico interesse è individuato nel fatto che tale soggetto svolga, piuttosto che attività autoritative,
attività economiche, avvalendosi degli strumenti giuridici degli altri soggetti operanti nel settore: vengono
così istituiti gli enti pubblici economici, a cui non vengono riconosciuti poteri autoritativi e che, dunque,
non sono soggetti a tutti i profili di disciplina.
Non si può ritenere che lo Stato sia il solo necessario depositario della «pubblicità»: è anzi la stessa disciplina
costituzionale a confermare la natura pubblicistica di enti esponenziali di collettività stanziate sul territorio,
dotati della possibilità di determinarsi autonomamente in ordine alle proprie finalità, anche in parziale
contrasto con l’indirizzo politico statale.
Si consideri infine che l’ente pubblico è inserito nell’organizzazione amministrativa pubblica: a seguito
dell’imputazione della cura di interessi pubblici, esso entra infatti a far parte dell’amministrazione pubblica,
composta dai soggetti che necessariamente perseguono finalità pubbliche e che possono essere considerati
unitariamente, avendo il proprio vertice nel governo.
La qualificazione di un ente come pubblico è importante perché comporta conseguenze giuridiche di rilievo.
È comunque essenziale notare che la presenza di taluna di esse è spesso considerata come indice rivelatore
della pubblicità, per cui vi è una certa sovrapposizione tra presupposti e conseguenze. Queste conseguenze
sono:
a) Soltanto gli enti pubblici possono emanare provvedimenti che hanno efficacia sul piano
dell’ordinamento generale alla stessa stregua dei provvedimenti dello Stato, impugnabili davanti al
giudice amministrativo. Al fine di comprendere il significato di questa potestà occorre definire il
concetto di autonomia. L’autonomia intesa come possibilità di effettuare da sé le proprie scelte si
ravvisa, in misura certo diversa, in tutti gli enti pubblici. L’autonomia è tradizionalmente riferita alla
possibilità di porre in essere norme generali e astratte che abbiano efficacia sul piano
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dell’ordinamento generale. Da questo punto di vista, molti enti dispongono di siffatta autonomia,
detta «normativa»: si pensi agli enti territoriali, che possono emanare statuti e regolamenti. La
possibilità di agire per il conseguimento dei propri fini mediante l’esercizio di attività amministrativa
che ha la natura e gli effetti di quella della pubblica amministrazione viene comunemente ricondotta
alla nozione di autarchia. Sempre in tema di autonomia, occorre aggiungere che essa può venire
intesa in primo luogo come possibilità di determinare da sé i propri scopi. Se con tale formula ci si
riferisce all’autonomia di «indirizzo», e cioè alla possibilità di darsi obbiettivi anche diversi da
quelli statali, essa si ravvisa sicuramente negli enti territoriali, costituendone anzi una caratteristica
essenziale. In particolare dispone della potestà di indirizzo politico la regione, anche in virtù della
posizione di autonomia ad essa costituzionalmente riconosciuta. Ma gli altri enti esponenziali di
comunità (province, comuni, comunità montane) possono perseguire in modo autonomo interessi cui
l’ordinamento attribuisce rilevanza pubblica. La legge può attribuire agli enti l’autonomia
finanziaria (possibilità di decidere in ordine alle spese e di disporre di entrate autonome), quella
organizzativa (possibilità di darsi un assetto organizzativo diverso rispetto a modelli generali),
l’autonomia tributaria (possibilità di disporre di propri tributi) o quella contabile (potestà di
derogare al normale procedimento previsto per l’erogazione di spese e l’introito di entrate).
b) Soltanto agli enti pubblici è riconosciuta la potestà di autotutela; l’ordinamento attribuisce cioè agli
enti la possibilità di risolvere un conflitto attuale o potenziale di interessi e, in particolare, di
sindacare la validità dei propri atti producendo effetti incidenti su di essi a prescindere da una
verifica giurisdizionale. L’ambito di applicazione dell’autotutela è incerto. Si distingue tra autotutela
che si esprime mediante l’adozione di provvedimenti (c.d. “decisoria”: ad es. annullamento) e quella
che consiste nel compimento di operazioni (autotutela esecutiva: ad. es. demolizione di opere
abusive). La l. 241/1990 riconosce oggi carattere generale ai poteri amministrativi di revoca (art. 21
quinquies), di sospensione (art. 21-quater), di annullamento e di convalida degli atti (art. 21-nonies).
Essa chiarisce poi che il potere di imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei confronti
delle amministrazioni deve essere previsto dalla legge (c.d. esecutorietà: art. 21-ter: si esclude così
l’esistenza di un potere generale), così come il recesso unilaterale dai contratti è ammesso nei casi
previsti dalla legge o dal contratto (art. 21-sexies). L’autotutela costituisce di norma esercizio di
funzione di amministrazione attiva e, più precisamente, è finalizzata a curare lo stesso interesse
pubblico iniziale; l’autotutela medesima deve obbedire alle regole generali di siffatta funzione, in
base alle quali occorre sempre la dimostrazione dell’esistenza di un interesse pubblico attuale
all’emanazione dell’atto, ovvero all’assunzione delle misure di autotutela. Il solo presupposto che un
provvedimento sia illegittimo non è dunque sufficiente a giustificare l’esercizio dell’autotutela su
quell’atto. L’autotutela costituisce di norma esercizio di un potere discrezionale nel corso di un
procedimento che inizia d’ufficio e non ad istanza di parte. Il diritto dell’Unione europea impone
all’amministrazione di riesaminare, a seguito di richiesta di parte, una decisione definitiva per tenere
conto dell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia ad una disposizione comunitaria pertinente.
La dottrina considera manifestazioni di autotutela pure le decisioni su ricorso amministrativo, che
ineriscono invece all’amministrazione giustiziale.
c) Le persone fisiche legate da un rapporto di servizio agli enti pubblici sono assoggettate a un
particolare regime di responsabilità penale, civile e amministrativa. Il codice penale italiano prevede
i seguenti reati propri, che si caratterizzano per potere essere commessi soltanto dai funzionari
pubblici e dagli altri soggetti che svolgono funzioni pubbliche: il peculato; la concussione; la
corruzione per atti d’ufficio; la corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio; l’abuso d’ufficio;
l’utilizzazione di invenzioni o scoperte scientifiche o nuove applicazioni industriali; la rivelazione e
utilizzazione di segreti di ufficio; il rifiuto e l’omissione di atti di ufficio:
d) Gli enti pubblici sono tenuti al rispetto dei principi applicabili alla pubblica amministrazione; alcuni
loro beni sono assoggettati a un regime speciale.
e) L’attività che costituisce esercizio di poteri amministrativi è di regola retta da norme peculiari, quali
quelle contenute nella l. 24 1/1990 relativa ai procedimenti amministrativi. Anche l’attività che gli
enti svolgono utilizzando gli strumenti del diritto comune è disciplinata da regole volte ad assicurare
che la scelta del contraente sia effettuata nel rispetto dei principi di imparzialità e di economicità.
f) Ai sensi dell’art. 21-ter, l. 241/1990, ai fini dell’esecuzione delle obbligazioni aventi ad oggetto
somme di denaro si applicano le disposizioni per l’esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. Gli enti
pubblici possono dunque utilizzare procedure privilegiate per la riscossione delle entrate
patrimoniali dello Stato (r.d. 639/1910). Ai sensi dell’art. 17, d.lgs. 46/1999, la riscossione coattiva
delle entrate dello Stato e di quelle degli altri enti pubblici, anche previdenziali, si effettua mediante
ruolo (riscossione esattoriale).

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g) Nell’ipotesi in cui abbiano partecipazioni in una società per azioni, vi è una peculiare disciplina sui
relativi poteri (art. 2449 c.c.).
h) Gli enti pubblici sono soggetti a particolari rapporti o relazioni (con lo Stato, la regione o il comune,
a seconda dei casi), la cui intensità (strumentalità, dipendenza e così via) varia in ragione
dell’autonomia dell’ente.
L’autodichia consiste nella possibilità, spettante ad alcuni organi costituzionali in ragione della loro
peculiare indipendenza, di sottrarsi alla giurisdizione degli organi giurisdizionali comuni, esercitando la
funzione giustiziale relativamente alle controversie con i propri dipendenti. L’autodichia è riconosciuta alla
Camera, al Senato e alla Corte costituzionale. Un caso di autodichia è relativo all’esercizio di funzioni
giurisdizionali da parte dei consigli nazionali di alcuni ordini professionali.
Il termine autogoverno è impiegato nella dottrina italiana per indicare, in generale, la situazione che ricorre
nell’ipotesi in cui gli organi dello Stato siano designati dalla collettività di riferimento, anziché essere
nominati o cooptati da parte di autorità centrali.

5. Il problema della classificazione degli enti pubblici

Oggi si è in presenza di una pluralità di soggetti pubblici con caratteri assai differenti tra di loro.
Gli enti possono essere suddivisi in gruppi. In considerazione della finalità perseguita, si distinguono in
dottrina enti con compiti di disciplina di settori di attività, enti con compiti di promozione, enti con compiti
di produzione di beni e di servizi in forma imprenditoriale, enti con compiti di erogazione di servizi pubblici.
In base al tipo di poteri attribuiti, si possono differenziare gli enti che posseggono potestà normativa dagli
enti che fruiscono di poteri amministrativi e da quelli che fanno uso della sola capacità di diritto privato. In
ordine alla modalità con la quale viene organizzata la presenza degli interessati negli organi dell’ente si
annoverano:
a) enti a struttura istituzionale, nei quali la nomina degli amministratori è determinata da soggetti
estranei all’ente: si tratta di enti (si pensi all’Inps) che presuppongono la destinazione di un patrimonio
alla soddisfazione di un interesse; la prevalenza dell’elemento patrimoniale (e non di quello degli
associati spiega l’ampia gamma di controlli cui questi enti sono tradizionalmente sottoposti;
b) enti associativi, nei quali i soggetti facenti parte del corpo sociale sottostante, di cui sono esponenti,
determinano direttamente o a mezzo di rappresentanti eletti o delegati le decisioni fondamentali
dell’ente. In essi si verifica quindi il fenomeno dell’autoamministrazione. Questi enti sono
caratterizzati dalla presenza di un’assemblea (o organo corrispondente) avente soprattutto compiti
deliberanti (ad esempio Coni, ordini e collegi professionali, accademie di natura pubblica). In
alcuni enti, poi, detti a struttura rappresentativa, i soggetti interessati determinano la nomina della
maggioranza degli amministratori non direttamente, ma attraverso le proprie organizzazioni.
La Costituzione contempla all’art. 5 gli enti autonomi («autonomie locali») e, ai fini della sottoposizione al
controllo della Corte dei conti, all’art. 100 Cost., gli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Ai
sensi dell’art. 22, d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011, ai fini del monitoraggio della spesa pubblica, tutti gli
enti che ricevono contributi a carico del bilancio dello Stato partecipa mediante apporti, sono tenuti a
trasmettere i bilanci alle amministrazioni vigilanti e al Ministero dell’economia e delle finanze.
In ordine agli enti autonomi, la Costituzione riconosce una particolare posizione di autonomia a comuni,
province, città metropolitane e regioni: più in particolare, tali enti sono formazioni sociali entificate cui è
attribuita autonomia di indirizzo, potendo essi esprimere, come s’è visto, un indirizzo politico o
politicoamministrativo anche configgente con quello statale.
Il principio dell’autonomia nei limiti fissati dall’ordinamento è alla base altresì della disciplina costituzionale
delle università, delle istituzioni di alta cultura e delle accademie, soggetti che possono «darsi
ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33 Cost.; le università rientrano nella
categoria delle autonomie funzionali).
L’art. 8, l. 168/1989, attribuisce autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile ai sensi dell’art.
33 Cost. al Consiglio nazionale delle ricerche, all’Istituto nazionale di fisica nucleare, agli Osservatori
astronomici, astrofisici e vesuviano, nonché agli enti nazionali di ricerca a carattere non
strumentale: si profila così, nell’ambito del settore della ricerca, la categoria degli enti “a carattere non
strumentale”. L’art. 33 Cost. riconosce il diritto di darsi ordinamenti autonomi anche alle accademie: alcune
di esse hanno natura pubblica e dispongono di ampia autonomia di indirizzo; le altre fruiscono comunque
spesso di finanziamenti pubblici.
La legge ha di recente introdotto la categoria delle autonomie funzionali (art. l , d.lgs. 1 12/1998), o enti
locali funzionali (art. 3 , comma l , lett. b), l. 59/1997). Con tale espressione si indicano quegli enti ai quali
possono essere conferiti funzioni e compiti: scuole, camere di commercio, università. La l. 131/2003, nel

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conferire al Governo il potere di emanare uno o più decreti legislativi al fine di dare attuazione all’art. 117
Cost., indica, tra i criteri e i principi direttivi, quello di garantire il rispetto delle attribuzioni degli enti di
autonomia funzionale. In sintesi si tratta di enti ai quali non è riferibile l’autonomia di indirizzo politico e la
cui autonomia, anche organizzativa, è così accentuata da consentire la già ricordata attribuzione a loro favore
di poteri direttamente da parte dello Stato. Per altro verso, le autonomie sfuggono al processo di
conferimento di funzioni, verso enti territoriali, mantenendosi in capo ad esse i compiti già precedentemente
esercitati. Ciò avviene in virtù dei complessi poteri ad essi spettanti in relazione a specifici e ben individuati
settori, i cui interessi questi enti sono in grado di rappresentare e promuovere (si pensi alle camere di
commercio, industria, artigianato e agricoltura). Il d.p.r. 275/1999, inoltre, riconosce come «espressione di
autonomia funzionale» le istituzioni scolastiche, individuando le funzioni ad esse trasferite.
Un’altra categoria di enti pubblici ricavabile dal diritto positivo è costituita dagli enti pubblici economici.
Importante è la classificazione contenuta nella l. 70/1975 che, in ordine agli enti statali non economici (c.d.
parastatali) pone una regolamentazione omogenea attinente al rapporto di impiego, ai controlli, alla gestione
contabile, alla nomina degli amministratori.
Quanto agli enti a struttura associativa, essi sono presi in considerazione dalla legge al fine di sottrarli
all’estinzione pura e semplice, proprio in ragione del fatto che la formazione sociale di cui essi sono
esponenti non può cessare di esistere.
Un’ulteriore e importante categoria di enti è costituita dagli enti territoriali: comuni, province, città
metropolitane, regioni e Stato. Il territorio, dunque, consente di individuare gli enti stessi, che sono appunto
comunità territoriali, nonché le persone che vi appartengono necessariamente per il solo fatto di esservi
stanziate, ossia, proprio e soltanto per questo collegamento con il territorio (residenza). Ciò comporta una
pluralità di conseguenze. In primo luogo, l’ente è politicamente rappresentativo del gruppo stanziato sul
territorio e opera quindi tendenzialmente nell’interesse di tutto il gruppo. Le funzioni degli enti, pertanto,
sono individuabili anche e soprattutto in ragione del livello territoriale degli interessi stessi (comunale,
provinciale, regionale): da ciò consegue che l’esercizio del potere il quale non rispetti il limite territoriale
determina la nullità del relativo atto.
Infine, soltanto gli enti territoriali possono essere titolari di beni demaniali, posti al servizio di tutta la
collettività. I servizi pubblici, posti a beneficio di tutta la collettività, possono essere assunti soltanto da enti
territoriali.
Gli enti pubblici non territoriali, pur esponenziali di gruppi sociali, sono altresì accomunati in ragione del
perseguimento di interessi settoriali; a differenza degli enti territoriali, non perseguendo interessi generali
vengono detti enti monofunzionali.
La legislazione più recente ha istituito una serie di enti pubblici, denominati «agenzie», direttamente
disciplinate dalla legge istitutiva, in genere configurate come strutture serventi rispetto a un ministero. Si
possono ricordare:
a) l’agenzia per i servizi sanitari regionali (d.lgs. 266/1993), sottoposta alla vigilanza del ministero
della sanità; tale agenzia ha compiti di supporto delle attività regionali, di valutazione comparativa
dei costi e dei rendimenti dei servizi sanitari resi ai cittadini, nonché compiti di monitoraggio delle
modalità di accreditamento delle strutture pubbliche e private che erogano prestazioni sanitarie;
b) l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN), (d.lgs.
29/1993, oggi 165/2001); essa ha il compito di rappresentare l’amministrazione pubblica in sede di
contrattazione collettiva nazionale ed esercita, a livello nazionale, ogni attività relativa alle relazioni
sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e alla assistenza delle pubbliche amministrazioni
ai fini dell’uniforme applicazione dei contratti collettivi;
c) l’agenzia spaziale italiana (d.lgs. 128/2003), è un ente pubblico nazionale (dotato di personalità
giuridica di diritto pubblico, autonomia scientifica, finanziaria, patrimoniale e contabile) ed ha il
compito di promuovere, sviluppare e diffondere la ricerca scientifica e tecnologica applicata al
campo spaziale e aerospaziale;
d) l’agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA);
e) l’agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (art. 22,
d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011).
Infine, ai sensi del d.lgs. 257/2003 (normativa che dispone il riordino dell’Ente per le nuove tecnologie e
l’energia e l’ambiente), l’ENEA, qualificato di diritto pubblico, ha tra l’altro la funzione di fornire a
soggetti pubblici e privati servizi ad alto contenuto tecnologico, studi, ricerche, misure, prove e valutazioni
nei settori di competenza.

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6. Relazioni e rapporti intersoggettivi e forme associative

La difficoltà di classificare gli enti pubblici in virtù di criteri univoci genera a sua volta la difficoltà di
individuare le relazioni intercorrenti tra gli stessi e la posizione assunta dagli uni nei confronti degli altri. Al
fine di indicare la posizione reciproca tra enti la dottrina ha spesso utilizzato concetti quali la strumentalità e
la dipendenza.
Un primo tipo di relazione intersoggettiva è quello sorto dall’entificazione di apparati organizzativi già propri
di un altro ente, ovvero dalla situazione di strumentalità strutturale e organizzativa di un ente, stabilita
dalla legge, nei confronti di un altro ente, nella quale il primo viene a rivestire una posizione sotto alcuni
profili simile a quella di un organo. Questa situazione implica che l’ente «principale» disponga di una serie di
poteri di ingerenza nei confronti dell’ente subordinato.
Un secondo tipo di relazione intersoggettiva comprende enti dotati di una posizione di maggior autonomia,
che non si trovano in una situazione di strumentalità organizzativa e strutturale così marcata come
nell’ipotesi precedente: si tratta di enti che svolgono un’attività che si presenta come rilevante per un
altro ente pubblico territoriale, in particolare per lo Stato.
La dipendenza e la strumentalità hanno natura funzionale, anche se esse comportano l’assoggettamento
dell’ente a una serie di controlli e di condizionamenti dell’attività.
Sono poi individuabili enti che non si pongono in relazione di strumentalità con lo Stato o con altro ente
pubblico; nella categoria rientrano gli enti esponenziali di formazioni sociali che godono della possibilità di
determinarsi autonomamente: oltre agli enti che dispongono di un’autonomia costituzionalmente garantita,
ricordiamo gli ordini e i collegi professionali, il Coni, le accademie di scienze e arti che siano enti pubblici,
gli enti locali non territoriali e così via.
La vigilanza era tradizionalmente considerata una figura organizzatoria caratterizzata da poteri di ingerenza
costituiti in particolare dal controllo di legittimità di un soggetto sugli atti di un altro, distinguendosi in ciò
dalla tutela, che attiene ai controlli di merito. Tra vigilanza e potere di controllo vi è differenza, perché la
vigilanza si esplica anche mediante attività di amministrazione attiva. La vigilanza non è una vera e propria
relazione organizzativa, bensì un potere strumentale esercitabile anche all’interno di altre relazioni
intersoggettive, talune delle quali neppure attinenti a enti pubblici, come nel caso della vigilanza sull’attività
economica svolta da soggetti privati.
La direzione è caratterizzata da una situazione di sovraordinazione tra enti che implica il rispetto, da parte
dell’ente sovraordinato, di un ambito di autonomia dell’ente subordinato. In particolare, la direzione si
estrinseca in una serie di atti (le direttive) che determinano l’indirizzo dell’ente, lasciando allo stesso la
possibilità di scegliere le modalità attraverso le quali conseguire gli obiettivi prefissati.
Dalle relazioni stabili e continuative occorre tenere distinti i rapporti che di volta in volta possono instaurarsi
tra enti. Essi sono l’ avvalimento e la sostituzione.
L’avvalimento, contemplato dalla legge ordinaria (art. 3, c. l, lett. f) , l. 59/1997), non comporta trasferimenti
di funzioni ed è caratterizzato dall’utilizzo da parte di un ente degli uffici di altro ente; tali uffici svolgono
attività di tipo ausiliario, ad esempio preparatoria ed esecutiva. L’art. cit. stabilisce che con decreto delegato
siano individuate le modalità e le condizioni con le quali l’ amministrazione dello Stato possa avvalersi, per
la cura di interessi nazionali, di uffici regionali e locali, d’intesa con gli enti interessati o con gli organismi
rappresentativi degli stessi.
Un ulteriore rapporto è quello di sostituzione. Con tale termine si indica in generale l’istituto mediante il
quale un soggetto (sostituto) è legittimato a far valere un diritto, un obbligo o un’attribuzione che rientrano
nella sfera di competenza di un altro soggetto (sostituito), operando in nome proprio e sotto la propria
responsabilità.
Le modificazioni giuridiche che subiscono diritti, obblighi e attribuzioni incidono direttamente nella sfera del
sostituito, in capo al quale si producono gli effetti o le conseguenze dell’attività posta in essere dal sostituto
(cioè si imputano al sostituito le fattispecie giuridiche connesse all’attività del sostituto). L’ordinamento
disciplina il potere sostitutivo tra enti nei casi in cui un soggetto non ponga in essere un atto obbligatorio per
legge o non eserciti le funzioni amministrative ad esso conferite e la giurisprudenza sottolinea che il legittimo
esercizio del potere di sostituzione richiede la previa diffida. Il potere sostitutivo in caso di inerzia può essere
esercitato direttamente da un organo dell’ente sostituto, ovvero da un commissario nominato dall’ente
sostituto.
Occorre far cenno alla delega di funzioni amministrative; la riforma di cui alla l. cost. 3/200l, sostituendo
l’art. 118 Cost. , non fa più cenno a siffatta figura, costituzionalizzando invece l’istituto del «conferimento»
di funzioni amministrative ai vari livelli di governo locale sulla base dei «principi di sussidiarietà,
differenziazione e adeguatezza».

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È ora necessario analizzare alcune forme associative che danno luogo a soggetti distinti, tradizionalmente
distinte in consorzi e federazioni, che possono essere costituite tra enti.
Le federazioni di enti svolgono attività di coordinamento e di indirizzo dell’attività degli enti federati,
nonché attività di rappresentanza degli stessi. Esse non si sostituiscono tuttavia mai agli enti federati nello
svolgimento di compiti loro propri. Talune federazioni comprendono anche soggetti privati; gli enti pubblici
possono inoltre costituire federazioni di diritto privato (si pensi all’ ANCI, Associazione nazionale dei
comuni italiani, o all’Upi, Unione province italiane); infine, la federazione può talvolta essere «entificata»
dalla legge, come avviene nel caso del Coni.
I consorzi costituiscono una struttura stabile volta alla realizzazione di finalità comuni a più soggetti. Essi
agiscono nel rispetto di alcuni limiti derivanti dall’esercizio del potere direttivo e di controllo spettante ai
consorziati. I consorzi spesso realizzano o gestiscono opere o servizi di interesse comune agli enti
consorziati, i quali restano comunque di regola titolari delle opere o dei servizi. I tipi di consorzi ora
ammissibili ai sensi del T.U. enti locali, sono due: quelli istituiti per la gestione dei servizi pubblici locali e
quelli istituiti per l’esercizio di funzioni. Inoltre, gli enti pubblici possono costituire consorzi di diritto
privato, anche con la partecipazione di soggetti privati. I consorzi pubblici possono essere classificati in
entificati e non entificati, obbligatori e facoltativi; i consorzi entificati sono enti di tipo associativo. I
consorzi di sviluppo industriale hanno natura di enti pubblici economici ed hanno lo scopo di promuovere le
condizioni necessarie per la creazione e lo sviluppo di attività produttive nei settori dell’industria e dei
servizi.
Caratteri simili ai consorzi presentano gli uffici comuni che gli enti locali possono costituire mediante
convenzione; a tali uffici viene affidato l’ esercizio di funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti
all’accordo. I consorzi sono obbligatori quando un rilevante interesse pubblico ne imponga la necessaria
presenza. Alcuni consorzi, infine, sono formati anche o soltanto da soggetti privati, persone fisiche o
giuridiche: in tali casi, vi possono partecipare pure soggetti pubblici in quanto titolari di diritti patrimoniali.
Nell’ambito delle forme associative tra enti, debbono infine essere ricordate le unioni di comuni (art. 32,
T.U. enti locali).
7. La disciplina comunitaria: in particolare, gli organismi di diritto pubblico

Il termine “amministrazione comunitaria” può essere impiegato per indicare l’insieme degli organismi e
delle istituzioni dell’Unione europea cui è affidato il compito di svolgere attività sostanzialmente
amministrativa e di emanare atti amministrativi.
L’art. 51 prevede una deroga alla libertà di stabilimento quando l’attività comporti l’«esercizio anche
occasionale di pubblici poteri», mentre l’art. 45 è relativo al potere degli Stati membri di riservare ai propri
cittadini gli impieghi nella « pubblica amministrazione». L’interpretazione delle due norme operata dalla
Corte di Giustizia Ce fa riferimento al momento dell’esercizio di potestà autoritative, nel senso che la deroga
alla disciplina generale è ammessa nei casi in cui l’attività svolta o l’impiego previsto siano caratterizzati
dall’ autoritatività.
Opportuna risulta l’analisi del tipo di valutazione e di conseguente disciplina che l’ordinamento comunitario
riserva all’amministrazione degli Stati membri in vista, essenzialmente, della tutela della concorrenza e dei
mercati.
L’amministrazione pubblica condiziona il gioco della concorrenza soprattutto sotto una duplice prospettiva:
in quanto soggetto che, a mezzo di proprie imprese, presta servizi e produce beni in un regime particolare; e
in quanto operatore che detiene una quota di domanda di beni e servizi assai rilevante. Con riguardo alla
prima prospettiva, i problemi principali sono l’individuazione della nozione di impresa pubblica e la
disciplina degli aiuti e dei finanziamenti pubblici.
La direttiva CEE 80/273 della Commissione, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stati
membri e imprese pubbliche, definisce le «imprese pubbliche» come le imprese nei confronti delle quali i
pubblici poteri possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di
proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che le disciplina.
Con riguardo alla seconda prospettiva, l’amministrazione, al fine di soddisfare esigenze collettive, non
avendo mezzi e organizzazioni sufficienti, deve sovente ricercare contraenti sul mercato per affidare loro la
realizzazione di opere o per richiedere prestazioni e beni di valore economico complessivo rilevantissimo.
L’amministrazione costituisce un soggetto economico potenzialmente assai pericoloso nei confronti di una
corretta concorrenza sui mercati e del rispetto della parità degli operatori interessati. Le condizioni di
concorrenza sono allora create artificialmente in virtù dell’imposizione di una serie di regole quali la non
discriminazione, l’indizione delle gare, la trasparenza delle operazioni concorsuali e così via.
La normativa comunitaria si caratterizza in ragione del fatto che la finalità preminente pare volta a garantire
l’interesse concorrenziale dei potenziali contraenti, laddove nell’ordinamento nazionale sembra dominare
l’interesse che sia operata la scelta del miglior soggetto in vista della finalità pubblica da soddisfare.
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Il legislatore dell’Unione europea estende la disciplina pubblicistica a tutti i soggetti la cui azione e la cui
presenza siano suscettibili di pregiudicare il libero gioco della concorrenza. Altra nozione di rilievo
introdotta dal diritto dell’Unione europea è quella di organismo di diritto pubblico.
In particolare, la disciplina comunitaria in materia di appalti ricomprende tale figura tra le amministrazioni
aggiudicatrici, assoggettandola alla specifica disciplina ispirata ai principi della concorrenza. Si tratta di
organismi:
a) istituiti per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o
commerciale;
b) aventi personalità giuridica;
c) la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di
diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di questi ultimi.
Le tre condizioni hanno carattere cumulativo. Questi soggetti sono dunque individuati in base al dato
teleologico (finalità pubbliche perseguite) e all’esistenza di un particolare legame con lo Stato,
indipendentemente dalla qualificazione come pubblici nel diritto interno. La giurisprudenza ha qualificato
come organismi di diritto Pubblico Enel.it S.p.A., Poste italiane S.p.A. e la Società autostrade per l’Italia.

8. Le figure di incerta qualificazione: in particolare, le società per azioni a partecipazione pubblica,


le fondazioni. Cenni al rapporto tra potere pubblico e mercato

La comprensione del fenomeno delle società pubbliche comporta l’ analisi di molteplici e importanti profili
che sarò opportuno tenere in considerazione descrivendo i caratteri essenziali della relativa disciplina: il tema
della capacità degli enti pubblici, la questione della costituzione della società, il tema della struttura e della
tipologia societarie, la disciplina applicabile, il possibile “disturbo” alla concorrenza che la loro presenza e la
loro attività cagionano, i rapporti con il tema del buon uso delle risorse pubbliche, la questione della
competenza legislativa a regolarne costituzione e attività, i rapporti con il diritto dell’Unione europea, la
relazione con la questione dei servizi pubblici, la natura della società e i nessi con il fenomeno dell’impresa
pubblica.
Partendo da quest’ultimo profilo, la disciplina dei rapporti economici nella Carta costituzionale contempla
l’attività economica pubblica e la possibilità di situazioni di monopolio (art. 43 Cost.). La Costituzione
economica vivente oscilla tra i poli di un marcato intervento pubblico nell’economia (imprese pubbliche) e
dello Stato regolatore, la cui attività è al servizio del mercato e del suo corretto funzionamento.
Lo Stato ha continuato a condizionare il mercato attraverso strumenti quali sussidi, sovvenzioni e aiuti e,
dove ha deciso di “abbandonare” alcune imprese (privatizzandole), lo ha spesso fatto perché le imprese
medesime non erano produttive; per altro verso, la regolamentazione è talora accusata di non essere una
funzione davvero genuinamente neutra. Il sistema delle “imprese pubbliche” ha occupato un posto
importante nella storia italiana; esso ha assunto un’articolazione tripartita: aziende municipalizzate e
autonome, enti pubblici economici e partecipazioni societarie. Nei primi due casi vi è la gestione di
un’impresa da parte di un ente o di un suo organo; nella terza un’influenza pubblica su società; le tre figure
coprivano sia attività riservate al settore pubblico, sia settori aperti all’intervento dei privati. In una
prospettiva di sintesi può dunque dirsi che, ridotto l’insieme degli enti pubblici e delle aziende, soltanto le
società sono oggi chiamate a popolare l’ orizzonte che integra il “sistema” dell’impresa pubblica.
Un certo impulso all’intervento pubblico nel settore creditizio si è avuto come conseguenza della crisi
finanziaria che, partendo dagli Usa, ha colpito le economie mondiali. Il d.l. 155/2008, conv. nella l. 190/2009
ha previsto misure di ricapitalizzazione pubbliche delle banche e, cioè, l’ingresso dello Stato nel capitale
delle banche in caso di “situazione di inadeguatezza patrimoniale”, nonché forme di garanzia statale su
finanziamenti della Banca d’Italia o sulle passività bancarie. Nel 2012, le misure adottate sono state quelle
volte a tagliare le spese pubbliche e ad aumentare le entrate fiscali (decreto Salva - Italia, d.l. 201/2012, conv.
nella l. 214/2012; l’art. 8 dispone che il Ministro dell’economia e delle finanze sia autorizzato a concedere,
fino al 30 giugno 2012, la garanzia dello Stato sulle passività delle banche italiane,al fine di ripristinare e
sostenere la capacità di finanziamento a medio - lungo termine delle stesse). Sussiste una certa analogia con
la crisi ambientale: il c.d. caso Ilva ha dato luogo al d.l. 61/2013, conv. nella l. 89/2013, che prevede un
sostanziale commissariamento delle società che gestiscano almeno uno stabilimento di interesse nazionale e
la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e
della salute a causa dell’inosservanza, rilevata dalle autorità competenti, dell’autorizzazione integrata
ambientale.
Si descrivono ora i vari blocchi di normative che si occupano di società pubbliche e che debbono essere
considerati nel loro complesso onde cogliere il profilo complessivo di queste figure.

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Il primo di questi blocchi è costituito dalla disciplina codicistica che si riferisce alle società a partecipazione
pubblica; esse sono soggette a una disciplina particolare, differenziata a seconda che si tratti di società
“chiuse” o “aperte”.
Circa la disciplina della partecipazione alle società “chiuse”, l’art. 2449 c.c., prevede che, se lo Stato o gli
enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di
rischio, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero
componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale. L’art. 2449
c.c. prosegue disponendo che gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza
possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi, inoltre, hanno i diritti e gli obblighi
dei membri nominati dall’ assemblea.
Alle società aperte, che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, si applicano due insiemi di regole:
− il primo è costituito dalle disposizioni del sesto comma dell’articolo 2346, che si riferisce agli
strumenti finanziari partecipativi;
− il secondo insieme di regole prevede che il consiglio di amministrazione può altresì proporre
all’assemblea che i diritti amministrativi previsti dallo statuto a favore dello Stato o degli enti
pubblici siano rappresentati da una particolare categoria di azioni (a tal fine è necessario il consenso
dello Stato o dell’ente pubblico a favore del quale i diritti amministrativi sono previsti).
La disposizione si riferisce solo a diritti amministrativi (si pensi al potere di convocazione).
Un secondo blocco di leggi che occorre considerare è rappresentato dalle fonti che direttamente e
unilateralmente dalla legge (es. l. 112/2002 che istituisce la Patrimonio dello Stato S.p.A.) o impongono
l’obbligo di costituirle. In tali situazioni, tra l’altro, si pone il delicato problema interpretativo di coordinare
questa disciplina con il procedimento di costituzione delineato dal codice civile.
Un terzo ambito normativo, anche questo esterno al codice, è quello che impone alle società di assumere una
certa fisionomia: spesso queste norme derivano dalla “pressione” dell’Unione europea, indicando i caratteri
necessari che le società debbono assumere per garantire la compatibilità con l’ordinamento appunto
dell’Unione europea. Tra questi si ricordano:
− le società a totale partecipazione pubblica regolate da leggi speciali e affidatarie di compiti in house
senza necessità di una previa gara;
− le società miste affidatarie di servizi pubblici locali.
Numerose norme estendono alle società l’applicazione di regole “pubblicistiche”; in altri termini, la
costituzione della società non può tradursi in una “via di fuga” dal regime pubblicistico: si pensi (per le
società in house) alle norme sul patto di stabilità, sul reclutamento del personale, sul regime dell’evidenza
pubblica per gli acquisti di beni o servizi.
Si aggiungano, anche per le altre società, la necessità di rispettare: le limitazioni in tema di assunzione del
personale (art. 4, d.l. 95/2012, ai sensi del quale, fino al 31 dicembre 2015, alle società controllate da enti
pubblici si applicano le disposizioni limitative delle assunzioni previste per l’amministrazione controllante);
parte della disciplina sulla trasparenza e sulla lotta alla corruzione (art. 11, d.lgs. 33/2012); i vincoli di cui al
d.lgs. 39/2013, che limitano fortemente la possibilità di chi ha svolto o svolge incarichi presso le società di
“transitare” ai vertici delle amministrazioni e viceversa.
Ai sensi dell’art. 1, c. 1-ter, l. 241/1990, i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative
assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui alla l. 241/1990 stessa, con un livello di garanzia non
inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla legge
stessa. Vanno ricordate le disposizioni che hanno disciplinato profili differenti del regime delle società
pubbliche, ad esempio stabilendo obblighi di pubblicità, tetti ai compensi degli amministratori o limiti al
numero dei componenti del consiglio di amministrazione (un articolato regime di incompatibilità e di
inconferibilità degli incarichi è delineato dal d.lgs. 39/2013). Le finalità perseguite sono quelle della
moralizzazione e/o del contenimento della spesa pubblica (l. 122/2010, sui limiti agli interventi finanziari a
favore delle società). L’art. 4, d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012 prevede che i consigli di
amministrazione delle società strumentali controllate da enti pubblici devono essere composti da non più di
tre membri.
Si vuole analizzare la disciplina distinguendo due casi: contenimento degli spazi di gemmazione di società da
parte degli enti e riduzione dell’ambito di azione delle società comunque costituite. L’art. 3, c. 27, l.
244/2007 ha chiarito che le amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, c. 2, d.lgs. 165/2001, non sono libere
di utilizzare lo strumento societario. La disposizione, infatti, ha imposto il divieto di costituire società aventi
per oggetto “attività di produzioni di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle
proprie finalità istituzionali”, nonché di assumere o mantenere direttamente partecipazioni in tali società; qui
può scorgersi un particolare vincolo legislativo che impedisce alle amministrazioni di gemmare società che

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non siano coerenti con quegli scopi (Cons. Stato, sez. VI, n. 1574/2012), sicché la tematica deve essere anche
inquadrata alla luce del principio di legalità.
Questa norma si applica a tutte le amministrazioni. È stata poi emanata una disciplina imitatrice relativa ai
soli comuni. Si tratta dell’art. 14, c. 32, d.l. 78/2010, conv. nella l. 122/2010, che vieta ai comuni con
popolazione inferiore a 30.000 abitanti di costituire società, imponendo di liquidare o dismettere le
partecipazioni detenute in violazione di tale vincolo. Sono però escluse dall’obbligo di liquidazione o di
dismissione della partecipazione le società che:
a) abbiano, fino al 31 dicembre 2012, il bilancio in utile negli ultimi tre esercizi;
b) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale conseguenti a perdite di bilancio;
c) non abbiano subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in conseguenza delle quali il comune
sia stato gravato dall’obbligo di procedere al ripiano delle perdite medesime.
I comuni con popolazione tra i 30.000 e i 50.000 abitanti, invece, possono avere partecipazioni solo in una
società.
L’art. 13, d.l. 233/2006 (c.d. decreto Bersani), convertito con mod. nella l. 248/2006, dispone che le società a
capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e
locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività,
nonché, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare
“esclusivamente” con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore
di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre
società o enti aventi sede nel territorio nazionale. Esse poi sono a oggetto sociale esclusivo. In sostanza, la
norma mira a impedire che i soggetti che già occupano una posizione “privilegiata” sul mercato possano
operare come normali “imprenditori” al di fuori dall’ambito territoriale di riferimento; l’art. 13 non si applica
al settore dei servizi pubblici locali.
L’art. 4, d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012 (c.d. spending review), dispone che, nei confronti delle società
“controllate direttamente o indirettamente” dalle pubbliche amministrazioni che abbiano conseguito
nell’anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 %
dell’intero fatturato, si procede, alternativamente:
a) allo scioglimento della società stessa entro il 31 dicembre 2013;
b) all’alienazione, con procedure di evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute alla data di entrata
in vigore del decreto entro il 31 dicembre 2013 ed alla contestuale assegnazione del servizio per
cinque anni a decorrere dal 1° luglio 2014.
Significative sono le deroghe a questa disciplina: a parte le società quotate e le loro controllate, sono escluse
dagli obblighi di scioglimento o di alienazione quelle che svolgono “servizi di interesse generale, anche
aventi rilevanza economica” (sono salve le società che gestiscono servizi pubblici), le società finanziarie
partecipate dalle regioni, le società che svolgono compiti di centrale di committenza e le società individuate
con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri.
Alla luce del riferimento al 90 % del fatturato, sono colpite dalla disciplina imitatrice le società più “fedeli”
di cui al d.l. 223/2006 si occupava: la speranza di sopravvivenza è legata al fatto di aver avuto nel 2011
sostanziosi rapporti contrattuali sul mercato con soggetti diversi da quelli che hanno gemmato la società
medesima. L’art. 4, d.l. 95/2012 prescrive che, a decorrere dal 1° gennaio 2013 le pubbliche amministrazioni
di cui all’art. 1, d.lgs. 165/2001 possono acquisire a titolo oneroso servizi di qualsiasi tipo, anche in base a
convenzioni, da enti di diritto privato esclusivamente in base a procedure previste dalla normativa nazionale
in conformità con la disciplina comunitaria. Ai sensi del c. 7, poi, a decorrere dal 1° gennaio 2014, le
pubbliche amministrazioni, le stazioni appaltanti, gli enti aggiudicatori e i soggetti aggiudicatori di cui al
codice degli appalti, acquisiscono sul mercato “i beni e i servizi strumentali” alla propria attività mediante le
procedure concorrenziali previste dal medesimo codice.
Con riferimento alla concorrenza, molto importante è il concetto di affidamento in house, delineato dalla
giurisprudenza comunitaria. In sostanza, si esclude che la disciplina sugli appalti trovi applicazione nei casi
in cui tra amministrazione e imprese sussista un legame tale per cui il soggetto non possa ritenersi «distinto»
dal punto di vista decisionale: quando l’alterità tra ente e società evapora, la struttura «realizza la parte più
importante della propria attività con l’ente o con gli enti… che la controllano» (c.d. vincolo di prevalenza,
che va considerato secondo una logica non solo quantitativa) e l’ente pubblico esercita sulla persona
giuridica «un controllo analogo a quello da esso esercitato su propri servizi».
In queste ipotesi evapora l’alterità tra ente e affidatario e non sussistono i presupposti per il ricorso alle
procedure di scelta del contraente di cui alle direttive sugli appalti, quasi che la società si configurasse come
una sorta di «appendice» dell’ente, comunque da esso non distinto. La società in house, ai fini della
disciplina sugli appalti “a valle”, va considerata come un organismo di diritto pubblico. La figura, nata nel
settore degli appalti, è stata poi utilizzata anche in quello dei servizi pubblici, onde consentire l’affidamento

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diretto degli stessi ai privati a condizione che ne sussistessero i requisiti; l’operazione, per essere compatibile
con il diritto dell’Unione europea, richiede che il soggetto affidatario esibisca specifiche caratteristiche. Il
legislatore italiano, alla luce di questi condizionamenti, a più riprese si è occupato del tema, disciplinando
minuziosamente questa forma di affidamento e i suoi presupposti.
Cons. Stato, sez. II, parere n. 456/2007 ha negato la riconducibilità delle società miste al modello dell’in
house providing. Ciò non escluderebbe in linea di principio la compatibilità comunitaria della figura della
società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato fosse scelto con una procedura di
evidenza pubblica.
La Commissione europea 5 febbraio 2008 esclude la riconduzione della fattispecie all’in house, ritiene
comunque sufficiente un’unica gara per la scelta del socio e l’affidamento della missione. La successiva
decisione dell’ad. plen. n. 1/2008 del Consiglio di Stato, dopo aver ribadito il carattere eccezionale dell’in
house providing, aveva precisato che non è sufficiente la partecipazione totalitaria pubblica o l’impiego degli
strumenti di controllo previsti dal diritto civile. La giurisprudenza della Corte comunitaria si è allineata agli
orientamenti maturati in seno al Consiglio di Stato, preoccupato di garantire comunque uno spazio per il
modello delle società miste. La sent. della Corte di giustizia 15 ottobre 2009, causa C-196/08, infatti, ha
statuito che gli artt. 43, 49 e 86 CE non ostano all’affidamento diretto di un servizio pubblico ad una società a
capitale misto costituita specificamente a tal fine e con un oggetto sociale esclusivo, a condizione che il socio
privato sia scelto mediante procedura ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di libera concorrenza,
trasparenza e parità di trattamento imposti dal Trattato CE. La Corte, in particolare, osserva a tale ultimo
riguardo che la scelta del concessionario risulta indirettamente da quella del socio medesimo effettuata al
termine di una procedura che rispetta i principi del diritto comunitario, “cosicché non si giustificherebbe una
seconda procedura di gara ai fini della scelta del concessionario”.
La società mista nel settore dei servizi pubblici locali, dunque, è salva, anche se la compatibilità con i vincoli
comunitari impone che essa abbia una specifica struttura e che il socio privato, operativo, venga scelto con
gara.
La l. 14 settembre 2011, n. 158, dispone che l’applicazione di procedura di affidamento dei servizi a evidenza
pubblica da parte di regioni, province e comuni o dagli enti di governo locali dell’ambito o del bacino
costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi ai sensi della disciplina sul patto di stabilità. Il
c. 4 aggiunge che i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali sono
prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali, ovvero ai relativi
gestori del servizio selezionati mediante procedura ad evidenza pubblica. L’art. 4, d.l. 95/2012, conv. nella l.
135/2012, contiene una disposizione specificatamente rivolta agli affidamenti in house, che conferma la
possibilità di utilizzare questo modello; secondo quanto dispone il c. 8, a decorrere dal 1° gennaio 2014,
l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei
requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house. Si dispone
altresì che le amministrazioni predispongano appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle
società controllate: detti piani, approvati previo parere favorevole del Commissario straordinario per la
razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi, prevedono l’individuazione delle attività
connesse esclusivamente all’esercizio di funzioni amministrative di cui all’art. 118 Cost.
Un ulteriore profilo problematico è attinente alla compatibilità con i requisiti di origine europea della società
in house che assume la configurazione di uno dei “tipi” societari delineati dal nostro codice, e questo è
attinente al controllo analogo. In generale, la giurisprudenza ritiene non sufficiente il controllo che si risolve
sostanzialmente nei poteri che il diritto societario riconosce alla maggioranza dei soci. La sent. 29 novembre
2012 della Corte di giustizia, con riferimento al c.d. housing pluripartecipato, impone che ciascuna
amministrazione partecipi sia al capitale, sia agli organi direttivi; il Consiglio di Stato, ad. plen. n. 1/2008,
afferma che “la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria ma non sufficiente, servendo maggiori
strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. In particolare: a) lo statuto
della società non deve consentire che una quota del capitale sociale possa essere alienata a soggetti privati; b)
il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente pubblico
controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario
riconosce normalmente alla maggioranza sociale; c) l’impresa non deve acquisito una vocazione
commerciale che rende precario il controllo dell’ente pubblico e che risulterebbe, tra l’altro:
dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri
capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero; d) le decisioni più
importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante”. Sull’incompatibilità tra
autonomia gestoria e modello dell’in house vi è Corte cost., n. 50/2013, con riferimento al servizio idrico
integrato.
In dottrina, si è ritenuto che l’autonomia lasciata agli amministratori nell’ambito della società per azioni
sarebbe in contrasto con il controllo analogo, sicché la società in house non potrebbero avere la struttura di
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società per azioni; la Corte di giustizia, sez. III, 10 settembre 2009, aggiunge che l’in house sarebbe
addirittura incompatibile con la s.r.l., ove è ammissibile una maggiore ingerenza dei soci nella gestione.
Anche la società pubblica deve avere scopo di lucro alla luce dell’art. 4, d.l. 95/2012, conv. nella l.
135/2012: con esso risulterebbe in contrasto il modello dell’in house che persegue finalità pubbliche.
Per quanto attiene alla disciplina relativa alla dismissione delle partecipazioni azionarie nelle società in cui
sono stati trasformati gli enti privatizzati, la l. 474/1994 e succ. mod., consentiva allo Stato di mantenere
poteri speciali (golden share). La giurisprudenza comunitaria ha progressivamente limitato i poteri speciali,
considerati come ostacoli alla circolazione dei capitali. La società a partecipazione pubblica ha così acquisito
i crismi di un “modello” peculiare. In argomento vi è stato però un sostanziale mutamento. La disciplina
vigente (d.l. 21/2012, conv. nella l. 56/2012), infatti, ha sancito il passaggio dalla “ golden share” alla
“golden power”, nel senso che l’esercizio di poteri speciali non è più legato alla qualità di azionista né,
necessariamente, alle vicende di privatizzazione, riguardando tutte le società. Con d.p.c.m. possono essere
esercitati alcuni poteri speciali in caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della
difesa e della sicurezza nazionale. Nel settore dell’energia, dei trasporti, delle telecomunicazioni, poi, in
presenza di una situazione eccezionale di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla
sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti, è possibile, sempre con d.p.c.m., esprimere il veto
all’adozione di delibere relative a operazioni di modifica degli asset.
L’art. 2451 c.c. si occupa delle società di interesse nazionale estendendo ad esse la normativa di cui all’art.
2449, «compatibilmente con le disposizioni delle leggi speciali che stabiliscono per tali società una
particolare disciplina circa la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli
amministratori, dei sindaci e dei dirigenti». Tra queste società ricordiamo la Rai-Tv (l. 112/2004),
concessionaria del servizio pubblico, la quale deve ritenersi una persona giuridica privata nonostante la
partecipazione pubblica (Cass. n. 28239/2011, che qualifica la Rai come organismo di diritto pubblico). Le
fondazioni costituiscono un modello in via di diffusione nell’ambito dell’attività dell’amministrazione.
Caratterizzate dalla indisponibilità dello scopo e in Italia attratte nella disciplina del codice civile, esse, anche
per l’assenza di scopo di lucro, svolgono spesso attività in settori contigui a quelli delle amministrazioni, il
che è rilevante anche alla luce del principio della sussidiarietà orizzontale. In alcuni casi, vengono in
evidenza fondazioni considerate come soggetti privati e costituenti momento finale di percorsi di
privatizzazione di soggetti pubblici (fondazioni musicali o bancarie. Di recente alcune di quelle costituite
dagli enti, aperte alla partecipazione dei privati, hanno costituito oggetto di una disciplina speciale: si tratta
delle fondazioni di partecipazione, che, in forza dell’ingresso di soggetti partecipanti, segnano un
avvicinamento al modello associativo.
Talune, poi, sembrano rivestire un marcato carattere pubblico. Infine, è possibile che, con riferimento ai
servizi locali privi di rilevanza economica, le fondazioni vengano inserite dalle fonti regionali e locali tra le
forme di gestione.
A completamento del quadro normativo relativo alle società pubbliche, si deve ricordare che le direttive
comunitarie relative agli appalti di lavori, di servizi e forniture nei c.d. settori speciali si applicano anche alle
imprese pubbliche e ai soggetti non pubblici che operino in virtù di diritti speciali o esclusivi; in tali categorie
rientrano pure le società di capitali a prevalente partecipazione pubblica. Per quanto riguarda il campo di
applicazione soggettivo della normativa dell’Unione europea e di quella nazionale di recepimento nei restanti
settori (quelli ordinari), è centrale la nozione di amministrazioni giudicatrici: sono tali lo Stato, gli enti
locali, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni costituite da detti enti oppure organismo di diritto
pubblico.

9. Vicende degli enti pubblici

La costituzione degli enti pubblici può avvenire per legge o per atto amministrativo sulla base di una legge,
anche se in molti casi la legge si è limitata a riconoscere come enti pubblici organizzazioni nate per iniziativa
privata. Al riguardo, deve essere osservato che il legislatore non è libero di rendere pubblica qualsiasi
persona giuridica privata. Sussistono infatti limiti costituzionali che tutelano le formazioni sociali, la libertà
di associazione e altre attività private.
Paradigmatica è la vicenda relativa alla pubblicizzazione delle opere pie e degli enti morali aventi il fine di
prestare assistenza ai poveri e di procurarne l’educazione, l’istruzione, l’avviamento al lavoro e il
miglioramento morale ed economico: l’art. l della l. 6972/1890 (c.d. «legge Crispi»), che qualificava tali enti
come istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, è stato dichiarato illegittimo dalla Corte
costituzionale con sentenza additiva n. 396/1988, nella parte in cui «non prevede che le Ipab regionali e
infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora
abbiano tuttora i requisiti di un’istituzione privata».

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In ordine all’estinzione degli enti pubblici, deve innanzi tutto osservarsi che essa può aprire una vicenda di
tipo successorio, normalmente disciplinata direttamente dalla legge, allorché le sue attribuzioni siano
assorbite da un altro ente. L’estinzione può essere prodotta dalla legge o da un atto amministrativo basato
sulla legge.
Ai sensi dell’art. 15, d.l. 98/2011, conv. nella l. 111/2011, quando la situazione economica, finanziaria e
patrimoniale di un ente sottoposto alla vigilanza dello Stato raggiunga un livello tale da non potere assicurare
la sostenibilità e l’assolvimento delle funzioni indispensabili, l’ente è posto in liquidazione coatta
amministrativa; i relativi organi decadono ed è nominato un commissario.
Gli enti associativi possono estinguersi se vengono meno tutti gli associati, mentre è dubbio che possano
estinguersi per le altre cause previste dagli artt. 27 e 28 c.c. (raggiungimento dello scopo o insufficienza del
patrimonio). Quanto alle modificazioni degli enti pubblici, si possono ricordare il
mutamento degli scopi, le modifiche del territorio degli enti territoriali, le modificazioni delle attribuzioni e
le variazioni della consistenza patrimoniale.
Il legislatore può trasformare un ente pubblico non economico in ente pubblico economico, come è accaduto
per il Poligrafico dello Stato con la l. 154/1978 e, come è stato previsto dal d.lgs. 250/1997, per l’Ente
nazionale per l’aviazione civile (Enac).
Gli enti pubblici possono inoltre essere trasformati in persone giuridiche di diritto privato. Anche il riordino
degli enti pubblici può comportare l’estinzione degli stessi o la loro trasformazione in persone giuridiche
private. Ad esempio, la l. 70/1975 ha previsto per gli enti dipendenti dallo Stato (c.d. parastato) non
ricompresi in apposita tabella, la sottoposizione a un giudizio di valutazione, operato dal governo, destinato
ad accertare la necessità del loro mantenimento ai fini dello sviluppo economico, civile, culturale e
democratico del Paese: con riferimento all’ipotesi di mancata conferma, il legislatore ha previsto la loro
estinzione e liquidazione, ad eccezione degli enti contemplati nei commi 2 e 3 dell’art. l (enti pubblici
economici, enti locali, Ipab, enti esponenziali dei rispettivi gruppi sociali e così via), destinati però a perdere
il diritto alle contribuzioni statali o l’eventuale potestà impositiva.

10. La privatizzazione degli enti pubblici

La scelta di privatizzare gli enti pubblici è sostenuta da una pluralità di ragioni. In particolare, quando tale
vicenda comporti la trasformazione dell’ente in società per azioni, questa è in grado di reperire capitale di
rischio sul mercato ed ha una snellezza d’azione maggiore. La privatizzazione è stata introdotta anche ai fini
della riduzione dell’indebitamento finanziario (art. l, c. 6, l. 474/1994).
Le tappe fondamentali della privatizzazione possono essere riassunte nei termini seguenti. In primo luogo,
l’ente pubblico economico viene trasformato in società per azioni (privatizzazione c.d. «formale», ovvero,
«fase fredda» della privatizzazione) con capitale interamente posseduto dallo Stato; successivamente si
procede alla dismissione della quota pubblica (privatizzazione c.d. «sostanziale», o «fase calda» della
privatizzazione: ad es., quella dell’Eni o della società Autostrade).
La l. 474/1994 subordina la privatizzazione delle società in mano pubblica operanti nei settori della difesa,
trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia e altri servizi pubblici, alla creazione di organismi indipendenti
di regolazione e prevedeva che lo Stato potesse mantenere speciali poteri (golden share, oggi trasformati in
golden power). In sintesi, può osservarsi che la privatizzazione interessa soggetti che operano in tre settori
principali: nella gestione di partecipazioni azionarie (Iri, Eni); nei servizi di pubblica utilità (Enel,
telecomunicazioni, gas e così via); nel settore creditizio (istituti di credito di diritto pubblico).
Quanto alla privatizzazione degli enti che gestiscono servizi di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 14, d.l.
333/1992, conv. nella l. 359/1992, le attività attribuite all’ente prima della trasformazione in monopolio o
comportanti lo svolgimento di poteri pubblicistici, vengono affidate alla società per azioni a titolo di
concessione per la durata minima di venti anni.
L’ordinamento italiano conosce altre ipotesi di privatizzazione, caratterizzate dal fatto che gli enti vengono
trasformati in soggetti privati non aventi scopo di lucro. Una di queste è disciplinata dal d.lgs. 367/1996,
emanato sulla base dell’art. 2, commi 57-59, l. 549/1995, il quale disciplina la trasformazione obbligatoria
degli enti che operano nel settore musicale in fondazioni di diritto privato.
Il d.lgs. 509/1994 prevede la trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie
di previdenza e assistenza (casse di previdenza di categorie di professionisti quali gli avvocati, i dottori
commercialisti, i notai, i geometri, i consulenti del lavoro e così via). Con d.lgs. 419/1999, modificato dalla l.
284/2002, sono poi state emanate norme in materia di privatizzazione, fusione, trasformazione e soppressione
di enti pubblici nazionali, ridefinendo altresì i compiti della Siae. Più in particolare, tale decreto dispone che
siano adottabili misure di razionalizzazione relativamente agli enti indicati in una specifica tabella allegata
(privatizzazione, trasformazione di enti in strutture scientifiche universitarie, fusione o unificazione
strutturale di enti appartenenti allo stesso settore di attività). Gli enti privatizzati continuano a sussistere come
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enti privi di scopo di lucro e assumono la personalità giuridica di diritto privato, potendo continuare a
svolgere e gestire i compiti e le funzioni attribuiti ad essi dalla normativa vigente; il decreto disciplina poi la
revisione degli statuti (art. 13).
Un importante programma di soppressione di enti è previsto sia dall’art. 26 (intitolato “taglia-enti”), d.l.
112/2008 convertito nella l. 133/2008, sia dall’art. 2, c. 634, l. 244/2007 (che fa riferimento a riordino,
trasformazione e soppressione di soggetti statali).
Il d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012, (spending review), prevede che regioni, province e comuni
sopprimano o accorpino enti agenzie e organismi comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica che,
alla data di entrata in vigore del decreto, esercitano, anche in via strumentale, funzioni fondamentali di cui
all’art. 117, c. 2, lettera p) Cost., o funzioni amministrative spettanti a comuni, province e città metropolitane
ai sensi dell’art. 118 Cost. È altresì fatto divieto agli enti locali di istituire enti, agenzie e organismi
comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica, che esercitino una o più funzioni fondamentali e
funzioni amministrative loro conferite ai sensi dell’art. 118 Cost.

11. I principi di organizzazione degli enti pubblici

Per realizzare i propri fini, l’amministrazione ha bisogno di un insieme di strutture e di mezzi personali e
reali che è il risultato di una certa attività organizzativa la quale si deve svolgere, in primo luogo,
nell’osservanza della Costituzione.
Nell’epoca più recente si registra il tramonto del modello gerarchico (tipico di una struttura statale accentrata,
rigida e caratterizzata dallo svolgimento di compiti ripetitivi) e l’introduzione di nuovi assetti organizzativi
più flessibili, in grado di rispondere in modo più adeguato alle nuove esigenze (anche di
responsabilizzazione) e ai nuovi compiti assunti dagli enti.
Per quanto attiene all’attività di organizzazione, è stato osservato che l’art. 97 Cost. (il quale si riferisce
all’organizzazione) può essere letto come norma di ripartizione della funzione di indirizzo politico tra
governo e parlamento: poiché l’attività di organizzazione è espressione di quella di indirizzo, si desume la
sussistenza di una riserva di organizzazione in capo all’esecutivo, che può così modellare le proprie strutture
in ragione delle esigenze spesso mutevoli che si trova a dover affrontare.
La legge costituisce dunque la fonte primaria di disciplina della materia organizzativa: essa deve rispettare i
principi di imparzialità e buon andamento, ma non può comprimere del tutto gli «spazi» di organizzazione
riservati all’esecutivo.
Un riconoscimento espresso di potestà di organizzazione in capo all’amministrazione è operato dall’art. 17, c.
l , lett. d) , l. 400/1988, che prevede la figura dei regolamenti governativi disciplinanti l’organizzazione e il
funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni di legge; l’art. 13, l. 59/1997
stabilisce che l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei ministeri sono determinate con regolamento
governativo emanato ai sensi del c. 2, su proposta del ministro competente, d’intesa con il Presidente del
Consiglio dei ministri e con il ministro del tesoro.
L’art. 97 si riferisce all’amministrazione statale. Ai sensi dell’art. 117 c. 2, lett. p), Cost., spetta alla legge
dello Stato (e non della regione) la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane. Gli enti locali possono dunque “specificare le attribuzioni” (art. 6, c.
2 , T.U. enti locali) soltanto degli organi diversi da quelli di governo. Per altro verso, ai sensi dell’art. 117 c.
6, Cost., tali enti hanno «potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite».
In linea di principio si può ritenere che allo statuto spetti la fissazione delle linee organizzative di base
(organizzazione c.d. statica), mentre l’ambito di cui all’art. 117, c. 6, spettante ai regolamenti locali,
riguarderebbe l’organizzazione collegata all’esercizio di specifiche funzioni.
Accanto alle norme giuridiche di organizzazione debbono poi essere ricordati gli atti di organizzazione non
aventi carattere normativo, quali gli atti di istituzione di enti, di organi o di uffici, l’assegnazione agli organi
dei titolari, gli accordi tra più amministrazioni che disciplinano attività di interesse comune o costitutivi di
consorzi. Il potere di organizzazione è oggi espressamente disciplinato dagli artt. 2 e 5, d.lgs. 165/2001. La
riforma del rapporto di impiego presso le amministrazioni pubbliche (d. lgs. 150/2009) ha cura di escludere
l’area dell’organizzazione amministrativa degli uffici di spettanza dei dirigenti (di spettanza dei dirigenti, c.d.
micro - organizzazione) dalla contrattazione collettiva, rimettendo, dunque, le relative scelte al potere
unilaterale del datore di lavoro pubblico ed escludendo contaminazioni con il “momento sindacale”. Gli
elementi dell’organizzazione che abbiano un riflesso esterno (e cioè che possano rapportarsi con altri
soggetti) , in ogni caso, devono essere istituiti dalla legge, ovvero da atti amministrativi che abbiano diretto
fondamento in una legge che definisca in modo puntuale il potere di «organizzare».
Vanno infine ricordati gli accordi organizzativi che vengono stipulati tra più amministrazioni. La norma
che fonda il potere è costituita, in generale, dall’art. 15, l. 241/1990, ma numerose disposizioni contengono
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discipline specifiche, prevedendo in particolare che, mediante convenzioni, le amministrazioni possano


istituire strutture comuni, caratterizzate da una notevole flessibilità e duttilità in ragione delle esigenze
concrete che le amministrazioni intendono soddisfare.
Nell’ambito delle organizzazioni pubbliche vanno oggi ricomprese anche le società legate all’ente da
relazioni in house. In questo contesto i principi della disciplina sono racchiusi nella normativa statale e,
soprattutto, nella normativa comunitaria, comunque prevalente; tali principi indicano quale assetto
organizzativo deve avere la società affinché la società medesima possa giovarsi dell’affidamento diretto di
compiti.

12. L’organo

Problema essenziale delle organizzazioni è quello della riferibilità ad esse di situazioni giuridiche e di
rapporti giuridici.
In passato, per spiegare ora come le persone giuridiche potessero agire, si adottavano due soluzioni
prospettabili: ricorrere all’istituto della rappresentanza, ovvero utilizzare la figura dell’organo.
Attraverso l’organo la persona giuridica agisce e l’azione svolta dall’organo si considera posta in essere
dall’ente. Siffatto modello si è imposto nell’analisi dell’organizzazione degli enti pubblici. L’organo non è
separato dall’ente, sicché, a differenza di quanto accade nella rappresentanza, la sua azione non è svolta in
nome e per conto di altri, diventando invece direttamente attività propria dell’ente che, secondo alcuni,
risulterebbe così capace di agire.
Al riguardo va precisato che la capacità giuridica spetta comunque all’ente, che è centro di imputazioni di
effetti e fattispecie. L’organo è uno strumento di imputazione e, cioè, l’elemento dell’ente che consente di
riferire all’ente stesso atti e attività; spesso l’organo permette all’ente di rapportarsi con altri soggetti
giuridici o comunque di produrre effetti giuridici preordinati all’emanazione di atti aventi rilevanza esterna.
L’organo va identificato nella persona fisica o nel collegio in quanto e fino a quando investito della
competenza attribuita dall’ordinamento.
Posto che i poteri vengono attribuiti soltanto all’ente avente la soggettività giuridica, e che esso si avvale di
più organi, ognuno di essi esercita una quota di quei poteri, detta competenza. Da questo punto di vista
l’organo è dunque anche un centro di competenza, nel senso che il meccanismo di imputazione che corre tra
la persona fisica preposta all’organo e l’ente si attiva con riferimento a una certa sfera di competenze.
La competenza è ripartita secondo svariati criteri: per materia, per valore, per grado o per territorio.
La competenza va tenuta distinta dall’attribuzione, espressione che indica la sfera di poteri che
l’ordinamento generale conferisce ad ogni ente pubblico.

13. L’imputazione di fattispecie in capo agli enti da parte di soggetti estranei alla loro
organizzazione

In alcuni casi il fenomeno di imputazione di fattispecie all’ente avviene secondo questo meccanismo: non già
dall’organo all’ente, bensì da un distinto centro attivo di imputazione (persona fisica o persona giuridica), il
quale ha pur sempre il dovere di agire anche se è estraneo all’organizzazione amministrativa a favore della
quale l’imputazione si realizza.
Molteplici sono le ipotesi nelle quali attività pubbliche vengono esercitate da soggetti privati: si pensi alle
funzioni certificative spettanti al notaio, alla possibilità che concessionari emanino atti amministrativi o
eroghino servizi pubblici, alla potestà spettante ai cittadini di procedere all’arresto in caso di flagranza di
reato, alla possibilità di affidare a terzi la riscossione dei tributi. Il privato può agire direttamente in base alla
legge, ovvero in forza di un atto della pubblica amministrazione. Egli riceve spesso un compenso da parte
dell’ente pubblico oppure degli utenti che fruiscono della sua attività. L’attività si configura nei confronti dei
terzi come pubblicistica.
I concessionari o i gestori privati non sono soggetti pubblici: essi, infatti, nascono con una vocazione
differente rispetto a quella che connota gli enti pubblici istituiti o riconosciuti in relazione al perseguimento
di interessi pubblici.

14. Classificazione degli organi

Circa gli organi sono state prospettate varie distinzioni. Sono esterni gli organi competenti a emanare
provvedimenti o atti aventi rilevanza esterna.
Gli organi procedimentali (o organi interni) sono quelli competenti ad emanare atti aventi rilevanza
endoprocedimentale.

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Organi centrali sono quelli che estendono la propria competenza all’intero spettro dell’attività dell’ente; gli
organi periferici, viceversa, hanno competenza limitata a un particolare ambito di attività, di norma
individuato secondo un criterio geografico.
Gli organi ordinari sono previsti nel normale disegno organizzativo dell’ente; gli organi straordinari
operano in sostituzione degli organi ordinari (in genere essi sono denominati «commissari»).
Gli organi permanenti sono stabili; gli organi temporanei svolgono funzioni solo per un limitato periodo
di tempo (si pensi alle commissioni di concorso).
Gli organi attivi sono competenti a formare ed eseguire la volontà dell’amministrazione in vista del
conseguimento dei fini ad essa affidati; gli organi consultivi rendono pareri; gli organi di controllo
sindacano l’attività posta in essere dagli organi attivi. Spesso lo stesso organo svolge compiti consultivi e
attivi: i dirigenti, ad esempio, formulano proposte ed esprimono pareri, pur essendo anche gli organi cui
spetta l’ adozione di atti e provvedimenti amministrativi.
La distinzione rispecchia quella tra attività amministrativa attiva (che ha la finalità di curare gli interessi
pubblici), attività consultiva (mediante la quale vengono espressi pareri) e attività di controllo (la cui
finalità è quella di verificare l’attività amministrativa attiva alla luce di un parametro prefissato).
Gli organi rappresentativi sono quelli i cui componenti, a differenza degli organi non rappresentativi,
vengono designati o eletti dalla collettività che costituisce il sostrato dell’ente. Tipico esempio di organo
rappresentativo è il sindaco; organo non rappresentativo è invece, ad esempio, il prefetto. Vi sono poi organi
con legale rappresentanza; l’organo dotato di legale rappresentanza è in realtà un particolare tipo di organo
esterno e, cioè, quello che esprime la volontà dell’ente nei rapporti contrattuali con i terzi e che, avendo la
capacità processuale, conferisce la procura alle liti per agire o resistere in giudizio.
Alcuni organi, per espressa volontà di legge, sono dotati di personalità giuridica (e sono pertanto detti organi
con personalità giuridica od organi-enti), profilandosi come titolari di poteri e come strumenti di
imputazione di fattispecie ad altro ente: è tradizionalmente considerato tale l’Istat, alla dipendenza della
presidenza del Consiglio dei ministri, con compiti relativi alle indagini statistiche interessanti le
amministrazioni statali.
Sono organi monocratici quelli il cui titolare è una sola persona fisica. Negli organi collegiali si ha la
contitolarità di più persone fisiche considerate nel loro insieme. L’esercizio delle competenze dell’organo
collegiale avviene mediante deliberazione, la cui adozione segue questo procedimento: convocazione del
collegio, presentazione di proposte sui punti all’ordine del giorno, discussione, votazione. Per capire il
funzionamento degli organi collegiali, occorre distinguere tra quorum strutturale e quorum funzionale. Il
primo indica il numero di membri che debbono essere presenti affinché il collegio sia legittimamente
costituito (nei c.d. collegi perfetti la legge, ovvero la natura dei poteri esercitati impongono la presenza di
tutti i componenti). Il quorum funzionale indica il numero di membri presenti che debbono esprimersi
favorevolmente sulla proposta affinché questa si trasformi in deliberazione. Nei c.d. collegi perfetti non è
ammessa l’astensione; negli altri casi l’astenuto è considerato talora come assente, più spesso come votante.
La deliberazione si perfeziona con la proclamazione fatta dal presidente: le sedute vengono documentate
attraverso processi verbali redatti dal segretario e servono ad esternare la deliberazione adottata. Il principio
della collegialità della commissione di gara può essere derogato soltanto quando si tratti di svolgere attività
che non comportino valutazioni.

15. Relazioni interorganiche. I modelli teorici: la gerarchia, la direzione e il coordinamento

Tra gli organi di una persona giuridica pubblica possono instaurarsi relazioni disciplinate dal diritto, le quali
hanno carattere di stabilità e riflettono la posizione reciproca di essi nell’ambito della organizzazione.
La gerarchia esprime la relazione di sovraordinazione-subordinazione tra organi diversi. La gerarchia si è
sviluppata nell’ambito dell’amministrazione militare, ove in un primo tempo esprimeva la supremazia di un
funzionario nei confronti del subordinato. Nella gerarchia in senso proprio non sussiste una vera e propria
separazione di competenza tra gli organi interessati dalla relazione. I poteri caratteristici della relazione
gerarchica sono:
a) potere di ordine (che consente di vincolare l’organo subordinato a un certo comportamento nello
svolgimento della propria attività), di direttiva (mediante la quale si indicano fini e obbiettivi da
raggiungere) e di sorveglianza sull’attività degli organi subordinati, i quali possono essere sottoposti
a ispezioni e inchieste; ·
b) potere di decidere i ricorsi gerarchici proposti avverso gli atti dell’organo subordinato;
c) potere di annullare d’ufficio e di revocare gli atti emanati dall’organo subordinato;
d) potere di risolvere i conflitti che insorgano tra organi subordinati;
e) poteri in capo all’organo superiore di avocazione e sostituzione.

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Tipico della relazione gerarchica è il potere di emanare ordini relativamente alle funzioni e mansioni
dell’inferiore gerarchico: tale atto esclude possibilità di scelta in capo all’organo subordinato, facendo
sorgere il dovere di eseguirlo, salvo che l’ordine stesso contrasti con la legge penale. Se il dipendente ritenga
l’ordine palesemente illegittimo, deve farne rimostranza al superiore, dichiarandone le ragioni, ma è poi
obbligato ad eseguirlo se l’ordine viene rinnovato per iscritto.
Altro tipo di relazione interorganica è la direzione, caratterizzata dal fatto che, pur essendoci due organi posti
in posizione di diseguaglianza, sussiste una più o meno ampia sfera di autonomia in capo a quello
subordinato. L’organo sovraordinato ha in particolare il potere di indicare gli scopi da perseguire. Nella
direzione, l’organo sovraordinato ha il potere di indirizzo, il potere di emanare direttive e quello di
controllare l’attività amministrativa in considerazione degli obbiettivi da conseguire. Rispetto alla gerarchia,
il potere ordinatorio è sostituito da quello di emanare direttive; per altro verso, il controllo, che nella
gerarchia riguarda essenzialmente gli atti, si svolge in via successiva e investe l’attività.
In dottrina si individua, quale ulteriore relazione interorganica, il coordinamento, riferendolo a organi in
situazione di equiordinazione preposti ad attività che, pur dovendo restare distinte, sono destinate ad essere
ordinate secondo un disegno unitario. Contenuto di tale relazione sarebbe il potere, spettante a un
«coordinatore», di impartire disposizioni idonee a tale scopo e di vigilare sulla loro attuazione e osservanza.
Finalizzati al coordinamento sarebbero alcuni organi (ad esempio i comitati interministeriali), mentre altri
organi si servono a fini di coordinamento degli atti di concerto, degli accordi, degli atti di indirizzo e così
via. Il coordinamento si configura altresì come il risultato dell’esercizio di poteri che attengono ad altre
relazioni (ordini, direttive, istruzioni). Il coordinamento pare acquisire autonoma rilevanza nelle relazioni di
vera equiordinazione, allorché sia necessario attribuire a un organo, appunto di coordinamento, poteri di
contatto, informazione e armonizzazione dell’azione di più soggetti che operano sullo stesso piano. Tali
compiti possono essere riconosciuti a un organo ad hoc, oppure a uno degli organi interessati al
coordinamento.
Va aggiunto che, recentemente, l’esigenza di coordinamento tra l’azione di più soggetti pubblici è soprattutto
soddisfatta attraverso l’utilizzo della conferenza di servizi, in grado tra l’altro di comportare anche una
deroga al regime ordinario delle competenze.
15.1. Segue: il controllo

Un’ultima importante relazione interorganica è costituita dal controllo, che costituisce nel diritto
amministrativo un’autonoma funzione svolta da organi peculiari. Un’attività di controllo viene svolta
nell’ambito delle relazioni di sovraordinazione-sottoordinazione: l’organo gerarchicamente superiore, ad
esempio, controlla l’attività del subordinato. Il controllo, che è sempre doveroso (nel senso che l’organo
chiamato a svolgerlo non può rifiutarsi di esercitarlo), accessorio rispetto a un’attività principale e svolto
nelle forme previste dalla legge, si conclude con la formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sulla
base del quale viene adottata una misura.
Il controllo può anche essere esercitato da organi di un ente nei confronti di organi di altro ente: in tal senso,
si distingue tra controlli interni o esterni (di norma interno è ad esempio il controllo ispettivo).
Il controllo sugli organi degli enti territoriali è riservato allo Stato in quanto «espressione di un potere
politico di sovranità che non può non rimanere di pertinenza dello Stato» (Corte cost., n. 164/1972) ed è
previsto, per quanto riguarda le regioni, dall’art. 126 Cost., e dagli artt. 141 e ss., T.U. enti locali in ordine
agli enti territoriali diversi dalla regione.
Il controllo può essere condotto alla luce di criteri di volta in volta differenti e avere oggetti assai diversi tra
di loro: organi, atti normativi (regolamenti), atti amministrativi di organi individuali e collegiali, contratti di
diritto privato, attività. Particolarmente rilevante è il controllo sull’attività volto a verificare il
raggiungimento dei risultati (gestione).
Le misure che possono essere adottate a seguito del giudizio che costituisce la prima fase del controllo sono
di vario tipo: repressive (annullamento dell’atto), impeditive (le quali ostano a che l’atto produca efficacia:
rifiuti di approvazione o di visti), sostitutive (controllo sostitutivo).
Nel controllo sugli organi la misura è la sostituzione all’organo ordinario nel compimento di alcuni atti. In
altri casi la misura è lo scioglimento dell’organo (collegiale). Nell’ambito dei controlli sugli atti, infine, si
distingue tra controlli preventivi (essi possono avere effetti deresponsabilizzanti rispetto
all’amministrazione) e successivi (i quali si svolgono quando l’atto ha già prodotto i suoi effetti). Esempi di
controlli preventivi erano quelli esercitati nei confronti degli atti delle regioni (da un organo statale) e degli
enti locali (da un organo regionale). In una via di mezzo tra controlli preventivi e controlli successivi si
collocano i controlli mediante riesame, i quali procrastinano l’efficacia dell’atto all’esito di una nuova
deliberazione dell’autorità decidente.
La vigente legge ordinaria è dunque compatibile con la Costituzione (che ha eliminato i controlli esterni sugli
atti di regioni e enti locali) ove disciplini i controlli esterni della Corte dei conti, i controlli di ragioneria e i
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controlli interni relativamente ai soggetti pubblici statali; i restanti controlli paiono invece devoluti alla
legislazione regionale.

15.2. In particolare: il controllo di ragioneria nell’amministrazione statale e il controllo della Corte


dei conti

Il d.lgs. 123/2011 disciplina il controllo di regolarità amministrativa e contabile su tutti gli atti statali di
spesa; esso è svolto dal sistema delle ragionerie e, cioè, dagli uffici centrali del bilancio operanti presso le
amministrazioni centrali e, in periferia, dalle ragionerie territoriali dello Stato. Esso disciplina anche alcune
categorie di atti che non possono sottrarsi a controllo (ad es. i provvedimenti di assunzione del personale, gli
atti soggetti a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti e i decreti di approvazione dei
contratti); la disciplina non si applica alle regioni e alle province autonome di Trento e Bolzano, agli enti
locali e agli enti del Servizio sanitario nazionale.
Il controllo si svolge in via preventiva o successiva; circa il controllo preventivo, gli atti di spesa,
contestualmente alla loro adozione, sono inviati all’ufficio di controllo che effettua la registrazione
contabile delle somme relative agli atti di spesa, con conseguente effetto di rendere indisponibili ad altri fini
le somme ad essa riferite fino al momento del pagamento.
Accanto al profilo contabile vi è quello, che incide sull’efficacia dell’atto, del controllo di legittimità, con
riferimento alla normativa vigente: entro trenta giorni dal ricevimento, l’ufficio provvede all’opposizione del
visto di regolarità amministrativa e contabile; trascorso il termine senza che l’ufficio di controllo abbia
formulato osservazioni o richiesto ulteriori documentazioni, l’atto è efficace e viene restituito munito di
visto. In presenza di osservazioni o richiesta di chiarimenti, i termini sono interrotti fino alla ricezione dei
chiarimenti, e, avvenuto ciò, il dirigente responsabile comunica, entro trenta giorni, se intende modificare o
ritirare il provvedimento. Egli, tuttavia, sotto la propria responsabilità, può disporre entro trenta giorni di dare
ulteriore corso al provvedimento.
Lo stesso d.lgs. 23/2011 disciplina il controllo successivo di taluni atti (rendiconti amministrativi e conti
giudiziali): gli uffici provvedono al discarico di quelli ritenuti regolari. Una disciplina specifica, volta ad
agevolare il pagamento dei debiti delle amministrazioni, riguarda gli atti di pagamento emessi a titolo di
corrispettivo nelle transazioni commerciali: essi devono pervenire all’ufficio di controllo almeno 15 giorni
prima della data di scadenza del termine di pagamento.
Controllo successivo esterno e costituzionalmente garantito è quello esercitato dalla Corte dei conti
attraverso il meccanismo della registrazione e dell’apposizione del visto. A differenza dei controlli interni,
quello esterno della Corte non costituisce esercizio di funzione amministrativa, sicché i relativi atti non sono
impugnabili.
La Corte dei conti svolge anche altre importanti funzioni di controllo, definite dall’art. 3, l 20/1994, il quale
demanda a tale organo il rilevante compito di identificare alcune categorie di atti assoggettate a controllo.
Nell’esercizio dei suoi poteri di controllo, la Corte può «richiedere alle amministrazioni pubbliche e agli altri
organi di controllo interno qualsiasi atto o notizia e può effettuare e disporre ispezioni e accertamenti diretti»
(art. 3, comma 8).
Vi è una tendenza a ridurre i controlli solamente formali e di accentuare quelli gestionali (incentrati sul
raggiungimento del risultato) e finanziari. In sintesi, il quadro dei controlli spettanti a tale organo contempla:
a) un controllo preventivo;
b) un controllo preventivo sugli atti che il presidente del Consiglio dei ministri richieda di sottoporre
temporaneamente a controllo;
c) un controllo successivo sui titoli di spesa relativi al costo del personale (art. 60, d.lgs. 165/2001), sui
contratti e i relativi atti di esecuzione, in materia di sistemi informativi automatizzati, stipulati dalle
amministrazioni statali (1. 39/1993) e sugli atti di liquidazione dei trattamenti di quiescenza dei
pubblici dipendenti (art. 66, l. 312/1980);
d) un controllo successivo sugli atti «di notevole rilievo finanziario individuati per categorie e
amministrazioni statali» che le sezioni unite stabiliscano di sottoporre a controllo per un periodo
determinato;
e) un controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria,
esercitato da una speciale sezione della Corte (1. 259/1958 e art. 3, c. 7, l. 20/1994). La Corte è
tenuta a riferire al Parlamento i risultati del controllo eseguito e può formulare, ove accerti
irregolarità nella gestione di un ente i suoi rilievi al Ministro per il tesoro e al Ministro competente;
f) un controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni
pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria. Il d.lgs.

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419/1999 estende il controllo successivo anche sulla gestione degli enti di diritto privato risultanti
dalla privatizzazione prevista da tale fonte, limitatamente all’esercizio di funzioni e servizi pubblici;
g) di grande rilievo sono i controlli esterni e sulle gestioni finanziarie degli enti territoriali operati
dalla Corte dei conti ai sensi del d.l. 174/2012, conv. nella l. 213/2012. Un controllo sulla gestione
degli enti locali effettuato dalla sezione delle autonomie si conclude con un referto al Parlamento. La
centralità del ruolo della Corte, che ormai si profila quale soggetto garante degli equilibri di finanza
pubblica, è riconosciuta dalla l. 213/2012, finalizzato al rafforzamento del coordinamento della
finanza pubblica e alla garanzia del rispetto dei vincoli che derivano dall’appartenenza all’Ue. Tale
disciplina amplia il controllo su regioni ed enti locali, estendendo al di là dello Stato il raggio
d’azione della Corte e rafforzando il raccordo con i controlli interni;
g1) per quanto attiene alle regioni, in primo luogo, si introduce un meccanismo di referto periodico: ogni sei
mesi le sezioni regionali di controllo trasmettono ai consigli regionali una relazione sulla tipologia
delle coperture finanziarie adottate nelle leggi regionali approvate nel semestre precedente e sulle
tecniche di quantificazione degli oneri;
g2) in secondo luogo, sono rafforzati i controlli finanziari: le sezioni regionali della Corte dei conti
esaminano i bilanci preventivi e i rendiconti consuntivi delle regioni e degli enti che compongono
il Servizio sanitario nazionale. Il controllo è finalizzato alla verifica del rispetto degli obiettivi
annuali posti dal patto di stabilità interno, della sostenibilità dell’indebitamento e dell’assenza di
irregolarità suscettibili di pregiudicare gli equilibri economico-finanziari degli enti. Per quanto
attiene alle misure che possono essere attuate, qualora le sezioni regionali accertino comportamenti
difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto,
adottano una specifica pronuncia e vigilano sull’adozione da parte dell’ente locale delle necessarie
misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni posti in caso di mancato rispetto delle regole
del patto di stabilità interno. L’accertamento di squilibri economico-finanziari, della mancata
copertura di spese o della violazione di norme finalizzate a garantire la regolarità della gestione
finanziaria comporta per le amministrazioni interessate l’obbligo di adottare, entro sessanta giorni
dalla comunicazione del deposito della pronuncia di accertamento, i provvedimenti idonei a
rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio; tali provvedimenti sono trasmessi
alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che li verificano nel termine di trenta giorni
dal ricevimento; qualora la regione non provveda alla trasmissione dei suddetti provvedimenti o la
verifica dia esito negativo, è preclusa l’attuazione dei programmi di spesa per i quali è stata
accertata la mancata copertura o l’insussistenza della relativa sostenibilità finanziaria;
g3) analoga disciplina è dettata con riferimento agli enti locali (art. 148-bis, Tuel, come mod. dal d.l.
174/2012 che disciplina il controllo sui bilanci preventivi di tali enti);
g4) viene poi introdotto il giudizio di parifica del rendiconto generale per le regioni da parte delle
sezioni regionali: questo giudizio si interpone tra l’attività di rendicontazione e la legge che approva
il conto;
g5) il presidente della regione è obbligato a trasmettere ogni dodici mesi alla sezione regionale di
controllo della Corte dei conti una relazione sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e
sull’adeguatezza del sistema dei controlli interni;
g6) per quanto attiene agli enti locali, la disciplina prevede un articolato meccanismo di controllo
esterno (art. 148-bis, Tuel, come mod. dal d.l. 174/2012), attivato sulla base di referti trasmessi
semestralmente dagli enti di dimensioni più rilevanti. Più nel dettaglio, l’art. 148 prevede che le
sezioni regionali della Corte dei conti verificano la legittimità e la regolarità delle gestioni, nonché il
funzionamento dei controlli interni ai fini del rispetto delle regole contabili e dell’equilibrio di
bilancio di ciascun ente locale; a tal fine, il sindaco trasmette semestralmente alla sezione regionale
di controllo della Corte dei conti un referto sulla regolarità della gestione e sull’efficacia e
sull’adeguatezza del sistema dei controlli interni adottato, sulla base di linee guida deliberate dalla
sezione delle autonomie della Corte dei conti; in caso di rilevata assenza o di inadeguatezza degli
strumenti e delle metodologie di controllo interno, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti
irrogano agli amministratori responsabili la condanna ad una sanzione pecuniaria;
g7) a garanzia del corretto uso delle risorse pubbliche trasferite ai gruppi consiliari regionali, si
prevede che ciascun gruppo approvi un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo linee
guida deliberate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province
autonome di Trento e Bolzano. Il rendiconto evidenzia le risorse trasferite al gruppo del consiglio

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regionale nonché le misure adottate per consentire la tracciabilità dei pagamenti effettuati (le norme
trovano applicazione dall’esercizio 2013: Corte conti, sez. autonome, del. n. 15/2013);
g8) un importante ruolo della Corte è riconosciuto per quanto attiene all’accertamento della situazione di
dissesto degli enti locali;
g9) un altro strumento molto incisivo è quello previsto dalla l. 149/2011 (come mod. dal d.l. 174/2012)
ed è legato al fatto che le regioni sono tenute a redigere una relazione di fine legislatura, sottoscritta
dal Presidente della Giunta regionale non oltre il novantesimo giorno antecedente la data di
scadenza della legislatura. Per quanto attiene alla Corte dei conti, si prevede che la relazione sia
trasmessa, entro dieci giorni dalla sottoscrizione, alla sezione regionale di controllo della Corte dei
conti che, entro trenta giorni dal ricevimento, esprime le proprie valutazioni al Presidente della
Giunta regionale; la relazione di fine legislatura contiene la descrizione dettagliata delle principali
attività normative e amministrative svolte durante la legislatura, con specifico riferimento al sistema
ed esiti dei controlli interni e agli eventuali rilievi della Corte dei conti.
È da ricordare che la l. cost. 1/2012 prevede l’istituzione presso le Camere di un organismo indipendente al
quale vanno attribuiti compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione
dell’osservanza delle regole di bilancio (Ufficio parlamentare di bilancio). La Corte dei conti esercita pure
una funzione di vigilanza sulla riscossione delle pubbliche entrate e sulla regolarità della gestione degli
agenti dello Stato; essa poi, nell’esercizio di una funzione giurisdizionale, pronuncia il giudizio di
parificazione sul rendiconto generale dello Stato (consistente nella certificazione di parità tra i conti della
Corte medesima e quelli forniti dall’amministrazione del tesoro), accompagnato da specifica relazione (la
parifica è estesa anche alle regioni).
La disciplina del controllo preventivo risulta dalla combinazione della l. 20/1994 e del t.u. Corte conti. I
provvedimenti soggetti a controllo preventivo divengono efficaci nelle ipotesi in cui il competente ufficio di
controllo non abbia rimesso l’esame dell’atto alla sezione di controllo entro trenta giorni dal ricevimento
dell’atto; ovvero ancora se la sezione di controllo non abbia dichiarato l’illegittimità dell’atto entro trenta
giorni dalla data di deferimento del provvedimento o se, entro lo stesso termine, non abbia adottato ordinanza
istruttoria. Ai sensi dell’art. 27, l. 340/2000, l’atto trasmesso alla Corte conti diviene in ogni caso esecutivo
trascorsi sessanta giorni dalla sua ricezione senza che sia intervenuta una pronuncia della sezione di
controllo.
Per quanto attiene all’esito negativo del controllo in via preventiva (ossia mancata registrazione), oggi è da
ritenere che il rifiuto debba essere esternato, atteso che, in caso contrario, il silenzio equivarrebbe ad assenso
e, dunque, a controllo positivo.
In ordine agli atti assoggettati al controllo successivo della Corte dei conti, si discute in dottrina e in
giurisprudenza circa le conseguenze dell’esito negativo del controllo: secondo un orientamento si avrebbe un
implicito annullamento dell’atto controllato, secondo un’altra tesi vi sarebbe l’obbligo per l’amministrazione
di prendere atto della pronuncia di illegittimità e, dunque, di non dare corso all’esecuzione dell’atto, ovvero
di annullare l’atto stesso.

15.3. L’evoluzione normativa in tema di controlli. Dai controlli interni alla valutazione del
personale e delle strutture

Il sistema italiano è stato per lungo tempo caratterizzato dalla prevalenza dei controlli preventivi di
legittimità sui singoli atti, che impedivano di cogliere e valutare nella sua complessità l’attività
amministrativa, costituita dagli atti nel loro insieme.
Il d.lgs. 286/1999 ha introdotto quattro tipologie di controlli interni, solo in parte superati in forza del d.lgs.
150/2009 (Riforma Brunetta); essi hanno aperto la via all’attuale assetto del sistema. Di queste quattro
tipologie (controllo di regolarità amministrativa e contabile; controllo di gestione; valutazione della
dirigenza; valutazione e controllo strategico), quella relativa alla valutazione della dirigenza è stata
abrogata e riformulata nel nuovo d.lgs. 150/2009, e aveva ad oggetto «le prestazioni dei dirigenti, nonché i
comportamenti relativi allo sviluppo delle risorse professionali, umane e organizzative ad essi assegnate»
(art. 5), tenendo particolarmente conto dei risultati dell’attività e della gestione. Il controllo di gestione
rimane invece disciplinato dal d.lgs. 286/1999. Il controllo strategico è richiamato dalla disciplina del 2009
e svolto da apposito organismo indipendente di valutazione. Il controllo di regolarità, per altro verso, in
ragione della sua autonomia funzionale, pare sottrarsi alla sostituzione operata dalla c.d. Riforma Brunetta.
Infine, negli enti locali vige una specifica disciplina che prevede, negli enti di maggiori dimensioni,
addirittura sei tipologie di controlli interni. In definitiva, anche dopo la Riforma Brunetta, permane il sistema
di controlli interni previsto dal d.lgs. 286/1999, pur se la tipologia del controllo strategico confluisce nel

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nuovo soggetto dell’Organismo indipendente di valutazione delle performance previsto dall’art. 14 del d.lgs.
150/2009, mentre le altre tipologie sono oggetto di una disciplina specifica (controllo di regolarità e
valutazione della dirigenza).
Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è volto a garantire la legittimità, la regolarità e la
correttezza dell’azione amministrativa (esso è ora riconducibile al d.lgs. 123/2011); il controllo di gestione si
articola nelle seguenti fasi: rilevazione degli obiettivi, rilevazione dei dati relativi ai costi e dei risultati,
valutazione dei dati in relazione agli obiettivi prefissati.
Il profilo caratterizzante dei controlli di gestione, della valutazione dei dirigenti e della valutazione e
controllo strategico, era costituito dalla marcata funzione di supporto all’attività di indirizzo (art. l) e
dirigenziale (art. 4, c. 2) e dall’incisiva valenza conformativa della successiva azione amministrativa, ad
esempio attuando i rimedi, anche suggeriti dalle strutture di controllo. Deve poi essere aggiunto che
procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi sono previste anche in relazione all’attività
di erogazione dei servizi pubblici.
Da un punto di vista organizzativo, nel quadro del d.lgs. 150/2009 si assiste alla creazione di un network di
soggetti (gli organismi indipendenti di valutazione della performance, presenti presso tutte le
amministrazione), che fa capo a una commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle
amministrazioni pubbliche. Questo network è a supporto dell’amministrazione decidente, pur se i
procedimenti di valutazione della performance sono finalizzati non solo a correggere l’azione gestionale e di
indirizzo durante il suo farsi, ma anche a migliorare nel suo complesso la qualità e l’efficienza
dell’amministrazione, nonché a premiare il merito e a motivare i dipendenti.
16. I rapporti tra gli organi e l’utilizzo, da parte di un ente, degli organi di un altro ente

Dalle relazioni interorganiche devono essere tenuti distinti i rapporti che, di volta in volta, possono correre tra
organi diversi; taluni di questi rapporti comportano una modificazione dell’ordine delle competenze, così
come fissato dall’ordinamento in generale.
Nella avocazione un organo esercita i compiti, spettanti ad altro organo in ordine a singoli affari, per motivi
di interesse pubblico e indipendentemente dall’inadempimento dell’organo istituzionalmente competente. La
sostituzione ha invece come presupposto l’inerzia dell’organo sostituito nell’emanazione di un atto cui è
tenuto per legge e consiste nell’adozione, previa diffida, da parte di un organo sostituto degli atti di
competenza di un altro organo. L’organo sostituto è di norma un commissario. Dalla sostituzione
nell’emanazione di atti di competenza di un altro organo, deve essere distinta la sostituzione di organi
dell’ente, fenomeno definito come gestione sostitutiva coattiva e caratterizzato dallo scioglimento
dell’organo o degli organi dell’ente e dalla nomina di altri soggetti (spesso denominati commissari), quali
organi straordinari che gestiscano l’ente per un periodo limitato di tempo.
In taluni casi, la sostituzione è collegata al controllo: si parla allora di controllo sostitutivo.
La delegazione è la figura in forza della quale un organo investito in via primaria della competenza di una
data materia consente unilateralmente, mediante atto formale, a un altro organo di esercitare la stessa
competenza. In ossequio al principio di legalità e all’art. 97 Cost., la delegazione richiede una espressa
previsione legislativa, la quale contempli la possibilità che un organo eserciti una competenza in luogo di
quello al quale la stessa è attribuita stabilmente. La delegazione fa sorgere un rapporto nell’ambito del quale
il delegante mantiene poteri, specificati normalmente nell’atto di delegazione, di direttiva, di vigilanza, di
revisione e di avocazione. L’organo delegatario è investito del potere di agire in nome proprio, anche se per
conto e nell’interesse del delegante, sicché la responsabilità per gli illeciti eventualmente commessi rimane in
capo al delegatario stesso.
Dalla delegazione va distinta la delega di firma, che non comporta alcun spostamento di competenza:
quest’ultima spetta infatti sempre all’organo delegante, mentre il delegato ha soltanto il compito di
sottoscrivere l’atto; l’atto sarà dunque imputabile al delegante, così come in capo ad esso sorge l’eventuale
responsabilità nei confronti dei terzi.
L’organo di una persona giuridica può anche essere organo di altra persona giuridica: ad esempio, il sindaco,
organo del comune, in qualità di ufficiale di governo è pure organo dello Stato e, dunque, realizza una
vicenda di imputazione in capo allo Stato dell’attività da esso posta in essere.

17. Gli uffici e il rapporto di servizio

All’interno degli enti e accanto agli organi esistono gli uffici, nuclei elementari dell’organizzazione che
possono essere definiti a contrario rispetto agli organi; anzi, anche gli organi sono uffici dal punto di vista
strutturale: infatti, essi sono uffici funzionalmente caratterizzati dalla circostanza che costituiscono strumenti
di imputazione di fattispecie a favore dell’ente, ma, sotto il profilo dell’organizzazione, vengono in evidenza

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come qualsiasi altro ufficio. Gli uffici sono costituiti da un insieme di mezzi materiali (locali, risorse,
attrezzature e così via) e personali e sono chiamati a svolgere uno specifico degli uffici compito (esso può
essere di volta in volta una prestazione materiale, meccanica e così via) che concorre al raggiungimento di un
certo obbiettivo.
Tra gli uffici ricordiamo in particolare quello per le relazioni con il pubblico (urp), che ha l’importante
compito di curare l’informazione dell’utenza e di garantire i diritti di partecipazione dei cittadini (art. 11,
d.lgs. 165/2001), anche mediante l’uso di tecnologie informatiche.
All’interno dell’ufficio si distingue la figura del preposto, il quale, se in situazione di primarietà, è il
titolare; l’ufficio, il cui titolare sia temporaneamente assente o impedito, viene affidato al supplente, mentre
si ha la reggenza nell’ipotesi di mancanza di titolare: tale soggetto dirige il lavoro dell’ufficio che si svolge
nell’ufficio stesso e ne è responsabile.
Gli addetti e i titolari che prestano il proprio servizio presso l’ente sono legati alla persona giuridica da un
particolare rapporto giuridico (rapporto di servizio) che ha come contenuto il dovere di agire prestando una
particolare attività, denominato dovere di ufficio, al quale si contrappone una serie di diritti. Il dovere di
ufficio ha ad oggetto comportamenti che il dipendente deve tenere sia nei confronti della pubblica
amministrazione, sia nei confronti dei cittadini; particolarmente importante, ai fini dell’individuazione dei
doveri dei dipendenti, è il codice di comportamento, la cui violazione, alla luce delle novità introdotte dalla
normativa volta a contrastare la corruzione, dà luogo a responsabilità disciplinare (art. 54, d.lgs. 165/2001).
In generale, l’ordinamento richiede ad alcuni dipendenti l’adempimento di doveri più gravosi rispetto a quelli
riferibili ai cittadini. I soggetti legati da rapporto di servizio all’amministrazione sono di norma dipendenti.
Ricorre in questi casi il «rapporto di servizio di impiego»: tali soggetti svolgono il proprio lavoro a titolo
professionale, in modo esclusivo e permanente. Il rapporto di servizio tuttavia può anche essere coattivo,
ovvero non professionale e, cioè onorario o, infine, instaurato in via di fatto. Il contenuto del rapporto di
servizio varia a seconda che il soggetto sia funzionario onorario o pubblico impiegato: nel primo caso tale
contenuto è ridotto, in quanto a fronte del diritto all’ufficio vi è il diritto a un trattamento economico a titolo
di indennità, ma non vi è il diritto alla carriera; nella seconda ipotesi, esso è più articolato e deriva dalle
norme di legge e da quelle contrattuali. Il rapporto di servizio lega all’ente tutti i soggettipersone fisiche che
fanno parte dell’organizzazione e si distingue dunque nettamente dal rapporto organico, perché
quest’ultimo corre soltanto tra il titolare dell’organo e l’ente e viene in evidenza ai fini dell’imputazione delle
fattispecie.
Talora il rapporto organico si costituisce in via di mero fatto e, cioè, in assenza di atto di investitura. In
particolare, allorché le funzioni esercitate «di fatto» siano essenziali e in differibili, si ritiene che il
meccanismo di imputazione proprio dell’organo possa ugualmente funzionare pur in assenza di un atto di
investitura. In queste ipotesi anche il rapporto di servizio si instaura in via di fatto e l’organo di fatto viene
definito funzionario di fatto.
Una volta instaurato, il rapporto di servizio a titolo professionale è caratterizzato da vicende (aspettative,
congedi, comandi) e può anche estinguersi (fisiologicamente per scadenza del termine): tali vicende sono
disciplinate dalla normativa che ha ad oggetto il rapporto di dipendenza presso le pubbliche amministrazioni
e dalla contrattazione collettiva.
Sulla scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 208/1992, la l. 444/1994 ha previsto in linea generale
il divieto di prorogatio, ridimensionando tale istituto: essa stabilisce infatti che gli organi siano prorogati di
quarantacinque giorni, decorrenti dalla scadenza del termine di durata previsto per ciascuno; scaduto tale
termine, gli organi amministrativi decadono e gli atti adottati dagli organi decaduti sono nulli, così come
sono nulli gli atti emanati nel periodo di proroga che non siano di ordinaria amministrazione o urgenti o
indifferibili. La l. 444/1994 aggiunge che i titolari della competenza alla ricostituzione sono responsabili dei
danni cagionati a seguito della intervenuta decadenza.

18. La disciplina attuale del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche

La c.d. «privatizzazione» del rapporto di impiego presso le amministrazioni, preceduta da una serie di
riforme parziali, è stata operata dal d.lgs. 29/1993, con il quale si intendeva accentuare il ruolo della
contrattazione collettiva e individuale, avvicinandosi al mondo del lavoro privato. Il contenuto del decreto
del 1993, poi, è stato innovato nel 1998, e la disciplina complessiva è confluita nel d.lgs. 165/2001. Il
contesto normativo è nuovamente mutato in forza del d.lgs. 150/2009, attuativo della delega di cui alla l.
15/2009, in nome del merito e della performance, che ha tra introdotto importanti norme in materia di
controlli.
Gli assi portanti della riforma, accanto ai temi del merito e della performance, consistono in una forte
“rilegificazione” di parte della materia, nell’accentuazione del ruolo del dirigente, anche in qualità di datore
di lavoro, nella limitazione di quello del sindacato, nella centralizzazione della contrattazione collettiva e, più
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in generale, nella limitazione dell’area di incidenza della contrattazione stessa. Vi è inoltre il diffuso ricorso a
strumenti tipici del diritto amministrativo: procedimenti, formazione di graduatorie, introduzione di istituti
ispirati alla trasparenza (rafforzati dal d.lgs. 33/2013) e all’imparzialità, standardizzazione dell’azione. Di
rilievo è il tema della standardizzazione dell’azione. Il rispetto degli standard e degli obiettivi a essi legati è
oggetto della valutazione delle performance; per altro verso, la colpevole violazione del dovere dirigenziale
di vigilanza sul rispetto degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione, apre la via alla
decurtazione della retribuzione di risultato del dirigente (art. 21); infine, la violazione degli standard è uno
dei presupposti per poter esercitare l’azione per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di
servizi pubblici di cui al d.lgs. 198/2009.
L’art. 5, l. 135/2012, stabilisce che, nelle more dei rinnovi contrattuali, la performance dei dirigenti, ai fini
dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance individuale basato su criteri di
selettività e riconoscimento del merito, è valutata dalle amministrazioni in relazione:
a) al raggiungimento degli obiettivi individuali e relativi all’unità organizzativa di diretta
responsabilità, nonché al contributo assicurato alla performance complessiva dell’amministrazione;
b) ai comportamenti organizzativi posti in essere e alla capacità di valutazione differenziata dei propri
collaboratori, tenuto conto delle diverse performance degli stessi.
La misurazione e valutazione della performance individuale del personale è invece effettuata dal dirigente in
relazione:
a) al raggiungimento di specifici obiettivi di gruppo o individuali;
b) al contributo assicurato alla performance dell’unità organizzativa di appartenenza e ai
comportamenti organizzativi dimostrati.
Ciascuna amministrazione monitora annualmente, con il supporto dell’Organizzazione indipendente di
valutazione, l’impatto della valutazione in termini di miglioramento della performance e sviluppo del
personale.
Il d.lgs. 150/2009, all’art. 74, individua norme espressione di potestà legislativa statale (il titolo di
legittimazione è costituito da “ordinamento civile” e “determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni”) e, in quanto diretta attuazione dell’art. 97 Cost., principi generali. Tra le prime ricordiamo
quelle contenute negli articoli che disciplinano i contratti collettivi, la partecipazione sindacale, i poteri del
datore di lavoro, il trattamento economico, le sanzioni disciplinari e la trasparenza della performance.
Esprimono invece “principi” le norme su misurazione, valutazione e incentivazione delle performance, sui
meccanismi premiali, sulle progressioni verticali di carriera, sull’assegnazione d’incarichi e responsabilità.
Analizziamo i principali aspetti della disciplina del lavoro presso le amministrazioni:
a) i rapporti di lavoro sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile «fatte salve le diverse
disposizioni contenute nel presente decreto» (art. 2, c. 2, d.lgs. 165/2001) e dalla contrattazione sia
sul piano individuale, sia su quello collettivo. È questo il significato dell’originaria privatizzazione.
Oggi si stabilisce che eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano
discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi solo qualora ciò sia
espressamente previsto dalla legge. Mediante questa presunzione di inderogabilità (e la conseguente
rilegificazione della materia), viene così capovolta la precedente impostazione, volta a garantire il
territorio della negoziazione dalle ingerenze della legge. Compito specifico della contrattazione
collettiva nazionale è quello di determinare i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto
di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. In particolare, essa si occupa di definire
il trattamento economico (art. 45);
b) la contrattazione collettiva si svolge a vari livelli (nazionale e integrativa,: quest’ultima prevede un
complesso meccanismo per controllare la spesa e assicurare la trasparenza a questo livello). La
struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli, la durata di quelli di primo e di secondo livello
sono regolati dai contratti nazionali, i quali vincolano la contrattazione integrativa. Un altro
importante compito della contrattazione nazionale è quello di disciplinare le modalità di utilizzo
delle risorse destinate a premiare il merito e a migliorare le performance. Nella contrattazione
collettiva nazionale la parte pubblica è legalmente rappresentata da un’apposita Agenzia per la
rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran), che agisce in forza di
“indirizzi” fissati a monte della trattativa da appositi comitati di settore o, per gli altri enti, dal
governo, che opera come comitato di settore per le amministrazioni. La trattativa prende avvio dopo
che la legge ha individuato l’ammontare delle risorse destinate al rinnovo e giunge all’ipotesi di
accordo, che deve essere inviata al governo e ai comitati di settore ai fini dell’espressione di un
parere; successivamente, l’Aran trasmette alla Corti dei conti il documento di quantificazione dei
costi ai fini della certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione e di bilancio;

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c) due questioni essenziali sono le determinazioni organizzative attinenti agli uffici e le misure
inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro. Esse sono assunte dagli organi preposti alla gestione
con «la capacità e i poteri del privato datore di lavoro» (art. 5); da un lato, parlando di capacità e di
poteri del datore di lavoro privato, si conferma l’avvicinamento al mondo del “lavoro privato”;
dall’altro, si evince che il datore di lavoro pubblico è peculiare in quanto ha due componenti, una
politica e l’altra manageriale. Rientrano nell’esercizio esclusivo dei poteri dirigenziali le misure
inerenti la gestione delle risorse umane nel rispetto del principio di pari opportunità, nonché la
direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici;
d) le organizzazioni sindacali, al di fuori delle materie economiche,debbono essere «consultate» o
informate senza che sia richiesto il loro consenso: art. 6, d.lgs. 165/200l, in tema di organizzazione;
e) il d.lgs. 150/2009 (anche se attualmente è applicabile la l. 135/2012) si preoccupa di fissare alcune
regole circa la materia del trattamento economico accessorio: una quota prevalente del trattamento
accessorio deve essere destinato al trattamento economico collegato alla performance individuale. Il
trattamento viene distribuito non più a pioggia, ma, secondo un meccanismo di distribuzione
“forzosa”, in base a tre fasce di merito, e soltanto a seguito di procedure di valutazione e che sfocia
nella formazione di una graduatoria ad opera di un organismo indipendente;
f) restano assoggettati alla disciplina pubblicistica gli organi, gli uffici, i principi fondamentali
dell’organizzazione, i procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e quelli di avviamento, i ruoli
(che contengono l’elenco dei dipendenti in servizio presso l’amministrazione, distinti in ragione della
qualifica e dei profili), le incompatibilità (d.lgs. 39/2013, che disciplina dettagliatamente i casi di
“inconferibilità e incompatibilità” degli incarichi presso le pubbliche amministrazioni), le
responsabilità (art. 2, c. l, lett. c, l. 421/1992), a eccezione delle sanzioni e degli illeciti disciplinari e
la determinazione delle dotazioni organiche, di competenza dell’organo di vertice
dell’amministrazione. La dotazione organica indica il numero complessivo dei dipendenti e il loro
inquadramento. Per quanto attiene alle amministrazioni dello Stato, ai sensi dell’art. 6, d.lgs.
165/2001 , la consistenza della dotazione organica va determinata sulla base della programmazione
del fabbisogno del personale effettuata con scadenza triennale, previe verifica degli effettivi
fabbisogni e consultazione delle organizzazioni sindacali. Il d.lgs. 1 65/2001 disciplina poi il
passaggio diretto del personale su domanda, richiedendo anche il parere dei dirigenti responsabili dei
servizi e degli uffici cui il personale è o sarà assegnato, l’esistenza di un posto vacante, nonché la
corrispondenza di qualifica (art. 30). Accanto alla mobilità volontaria su domanda è poi prevista la
mobilità collettiva per esubero (art. 33). La spending review ha interessato anche la materia delle
dotazioni organiche; ai sensi del d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012, gli uffici dirigenziali e le
dotazioni organiche delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, delle
agenzie, degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca, sono ridotti in misura consistente.
Lo stesso d.l. 95/2012 definisce rigidi limiti o blocchi delle assunzioni; in generale, poi, per quanto
attiene agli enti locali, in caso di mancato rispetto del patto di stabilità, vi è il divieto di assumere
personale a qualsiasi titolo;
g) il reclutamento del personale avviene tramite concorso pubblico (art. 2 , c. l , lett. g, l. 15/2009),
procedimento che parte con la pubblicazione di un bando e si conclude con la formazione e
l’approvazione di una graduatoria, cui segue la stipula del contratto individuale. È pure previsto il
reclutamento mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per le qualifiche e i
profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo (art. 35, d.lgs. 165/2001);
un’ulteriore eccezione riguarda la quota d’obbligo riservata alle categorie protette. Quanto al tipo di
contratto, l’art. 36 prevede che le forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del
personale siano utilizzabili solo per esigenze temporanee ed eccezionali. La regola è dunque il
contratto a tempo indeterminato. L’art. 52, d.lgs. 165/200 1 dispone che dipendenti pubblici, con
esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, conservatori e istituti
assimilati, sono inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali, le quali raggruppano più profili
professionali. All’interno delle categorie o aree, vi è poi una suddivisione in fasce, differenziate sotto
il profilo economico. Accanto al profilo dell’accesso occorre considerare quello della progressione
di carriera, sia all’interno della stessa area (orizzontale), sia tra aree (verticale). Il d.lgs. 150/2009
chiarisce che le progressioni di carriera debbono essere ispirate al principio di selettività e di
concorsualità, ribadito dall’art. 52, d.lgs. 1 65/2001, ai sensi del quale le progressioni orizzontali
all’interno della stessa area avvengono secondo principi di selettività, in funzione delle qualità
culturali e professionali, dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce
di merito. Le progressioni verticali fra aree diverse, invece, avvengono tramite concorso pubblico
aperto agli esterni, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale
interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti
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comunque non superiore al 50 % di quelli messi a concorso. Va aggiunto che la Corte cost. (sent. n.
390/2004) si è occupata del blocco delle assunzioni (per limitare la spesa pubblica anche in vista del
rispetto del Patto di stabilità interno), riconoscendo, ai sensi dell’art. 117, c. 3, Cost., la sussistenza
del potere statale di imporre agli enti regionali e locali vincoli alle politiche di bilancio, ma
precisando che la legge statale può unicamente fissare principi e criteri. Il principio del pubblico
concorso può essere derogato soltanto in casi specifici e determinati (ad esempio allorché sussistano
precedenti esperienze maturate in seno all’amministrazione: Corte cost., n. 336/1990);
h) tutti i dipendenti pubblici sono sottoposti a valutazione; è stata definita una complicata architettura
che le amministrazioni debbono adottare per operare una valutazione che, oggi, riguarda non solo gli
individui (con l’intento di motivarli e incentivarli), ma anche l’organizzazione nel suo complesso, le
unità organizzative o le aree di responsabilità. L’importanza della misurazione e valutazione della
performance è confermata dal fatto che il rispetto della relativa disciplina è “condizione necessaria
per l’erogazione di premi legati al merito ed alla performance”. Dal punto di vista organizzativo,
vengono disciplinati i seguenti soggetti:
− la Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni
pubbliche (Civit). La commissione ha il compito di indirizzare, coordinare e sovrintendere
all’esercizio indipendente delle funzioni di valutazione, di garantire la trasparenza dei
sistemi di valutazione, di assicurare la comparabilità e la visibilità degli indici di andamento
gestionale, informando annualmente il ministro per l’attuazione del programma di Governo
sull’attività svolta. La l. 190/2012 ha poi identificato la Civit come Autorità nazionale
anticorruzione; la disciplina sul rapporto di lavoro deve essere coordinata con quella sulla
lotta alla corruzione e all’illegalità e, in particolare, con le norme volte a valorizzare la
trasparenza. Ad esempio, ai sensi dell’art. 44, d.lgs. 33/2013, spetta agli organismi
indipendenti di valutazione verificare la coerenza del piano della performance con il
programma triennale per la trasparenza e l’integrità, che costituisce una sezione del
piano di prevenzione anticorruzione.
− Organismi indipendenti di valutazione della performance. Si tratta di una figura
organizzatoria (che le amministrazioni possono istituire singolarmente o in forma associata)
monocratica ovvero collegiale; l’organismo sostituisce i servizi di controllo interno. Esso, in
sintesi, è il “signore” dei controlli in sede locale, spettando a esso la misurazione e la
valutazione della performance di ciascuna struttura amministrativa nel suo complesso e, più
in generale, il monitoraggio del funzionamento del sistema di valutazione. A questa prima
funzione, di garanzia del sistema di valutazione, si affianca quella di correzione delle attività
di gestione e d’indirizzo (comunica tempestivamente le criticità riscontrate ai competenti
organi interni di governo e amministrazione). In terzo luogo, evidenzia le criticità anche
nella prospettiva della repressione. Infine, pure la validazione finale della relazione sulla
performance spetta all’organismo. Esso deve garantire la correttezza non solo dei processi di
misurazione e valutazione, ma anche dell’utilizzo dei premi; a tale organismo, spetta in
particolare anche il potere di formazione delle graduatorie di merito e di proporre all’organo
di indirizzo politico-amministrativo la valutazione annuale dei dirigenti di vertice e
l’attribuzione ai dirigenti medesimi dei premi. Centrale in questo contesto è il ruolo della
politica. L’organo d’indirizzo politico-amministrativo, infatti, emana le direttive generali
contenenti gli indirizzi strategici e verifica il conseguimento effettivo degli obiettivi
strategici; definisce alcuni importati documenti (il programma triennale per la trasparenza e
l’integrità nonché il piano della performance e la relazione sulla performance). La finalità
della valutazione è quella di migliorare la qualità dei servizi, nonché la crescita delle
competenze professionali, attraverso la valorizzazione del merito e l’erogazione dei premi
per i risultati perseguiti dai singoli e dalle unità organizzative. Quale strumento essenziale al
servizio del nuovo disegno, viene disciplinato il ciclo di gestione della performance: esso
include le fasi della programmazione, dell’allocazione delle risorse, del monitoraggio, della
finale misurazione e valutazione della performance fino ad abbracciare la gestione del
sistema premiante e la rendicontazione dei risultati. All’inizio e alla fine del ciclo di
performance si collocano due atti (piano e relazione) adottati dagli organi di indirizzo
politico in collaborazione con i vertici dirigenziali. A conclusione del ciclo si pongono la
rendicontazione e la comunicazione, dirette ai cittadini. Più nello specifico, le
amministrazioni sono chiamate a redigere:
• annualmente (entro il 31 gennaio) un piano triennale della performance che
individua gli indirizzi e gli obiettivi strategici ed operativi e definisce, con

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riferimento agli obiettivi finali ed intermedi e alle risorse, gli indicatori per la
misurazione e la valutazione della performance dell’amministrazione, nonché gli
obiettivi assegnati al personale dirigenziale ed i relativi indicatori;
• una relazione sulla performance (entro il 30 giugno), che evidenzia, a consuntivo,
con riferimento all’anno precedente, i risultati organizzativi e individuali raggiunti
rispetto ai singoli obiettivi programmati ed alle risorse, con rilevazione degli
eventuali scostamenti, e il bilancio di genere realizzato; la relazione è vali data
dall’organismo indipendente;
• a monte della relazione si colloca il sistema di misurazione e valutazione della
performance che, nel rispetto delle direttive adottate dalla commissione, individua:
le fasi, i tempi, le modalità, i soggetti e le responsabilità del processo di misurazione
e valutazione della performance; le procedure di conciliazione relative
all’applicazione del sistema di misurazione e valutazione della performance. È
essenziale il valore della trasparenza, utile non sono per migliorare l’efficacia dei
servizi, ma centrale anche ai fini della lotta alla corruzione e all’illegalità;
• un programma triennale per la trasparenza e l’integrità, da aggiornare
annualmente, che indica le iniziative previste per garantire un adeguato livello di
trasparenza, anche sulla base delle linee guida elaborate dalla Commissione, nonché
la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità e l’art. 10, d.lgs. 33/2013, secondo
cui gli obiettivi indicati nel programma sono formulati in collegamento con la
programmazione strategica e operativa dell’amministrazione.
In sostanza, la valutazione delle strutture spetta all’organismo, mentre il personale non dirigenziale è
valutato dai dirigenti (art. 17 , d.lgs. 165/2001). Sulla base dei risultati delle procedure di
valutazione, l’organismo predispone una griglia che distribuisca il personale (anche non dirigenziale)
nelle tre fasce.
L’oggetto della valutazione è così individuato: l’attuazione delle politiche attivate sulla
soddisfazione finale dei bisogni della collettività; l’attuazione di piani e programmi; la rilevazione
del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi anche attraverso modalità
interattive; la modernizzazione e il miglioramento qualitativo dell’organizzazione e delle competenze
professionali e la capacità di attuazione di piani e programmi; lo sviluppo qualitativo e quantitativo
delle relazioni con i cittadini, i soggetti interessati, gli utenti e i destinatari dei servizi; l’efficienza
nell’impiego delle risorse; la qualità e la quantità delle prestazioni e dei servizi erogati; il
raggiungimento degli obiettivi di promozione delle pari opportunità. La misurazione e la valutazione
della performance individuale dei dirigenti e del personale responsabile di unità organizzative in
posizione di autonomia e responsabilità è collegata: agli indicatori di performance relativi all’ambito
organizzativo di diretta responsabilità; al raggiungimento di specifici obiettivi individuali; alla
qualità del contributo assicurato alla performance generale della struttura, alle competenze
professionali e manageriali dimostrate; alla capacità di valutazione dei propri collaboratori;
i) i dipendenti sono assoggettati a una particolare responsabilità amministrativa, penale e contabile; vi è
poi la responsabilità disciplinare, regolata dall’art. 55, d.lgs. 165/2001; in particolare, l’art.
55quater tipizza le infrazioni più gravi, che possono dar luogo “comunque” a licenziamento (ad
esempio: falsa attestazione della presenza in servizio, reiterazione di gravi condotte aggressive o
moleste o minacciose o ingiuriose, gravi condanne penali). La norma si occupa poi dei “fannulloni”,
stabilendo che il licenziamento può essere disposto in caso di valutazione d’insufficiente rendimento,
dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione, riferibile a un arco
temporale non inferiore al biennio. Per quanto attiene alla competenza, va notato che la titolarità del
potere disciplinare spetta al dirigente soltanto con riferimento alle infrazioni punite con sanzioni di
minore entità, mentre per quelle cui si riferiscono sanzioni superiori alla sospensione dal servizio con
privazione della retribuzione fino a undici giorni, sussiste la competenza di uno specifico ufficio. Il
legislatore delegato si preoccupa di arginare le condotte che possano ostacolare l’esercizio del
potere disciplinare. Il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione
o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni
sull’insussistenza dell’illecito irragionevoli o manifestamente infondate, comporta l’applicazione ai
dirigenti di una sanzione disciplinare (sospensione dal servizio con privazione della retribuzione,
fino ad un massimo di tre mesi in relazione alle infrazioni sanzionabili con il licenziamento, e la
mancata attribuzione della retribuzione di risultato). La violazione dei doveri contenuti nel codice di
comportamento è fonte di responsabilità disciplinare ed è rilevante ai fini della responsabilità civile,
amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di
doveri, obblighi, leggi o regolamenti, mentre violazioni gravi o reiterate del codice comportano
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l’applicazione della sanzione del licenziamento disciplinare. Ulteriori responsabilità disciplinari


possono sorgere dal mancato ricorso alle convenzioni Consip per l’acquisto di beni (d.l. 95/2012,
conv. nella l. 135/2012), nel caso di mancato adempimento degli obblighi di pubblicazione ex art.
43, d.lgs. 33/2013, mentre la l. 190/2012 introduce altre ipotesi di responsabilità disciplinare relative
al responsabile della prevenzione della corruzione e ai dipendenti che violino le misure di
prevenzione previste dal piano per la prevenzione della corruzione.
Il legislatore delegato esclude la possibilità di istituire procedure d’impugnazione dei provvedimenti
disciplinari, lasciando unicamente salva la facoltà di disciplinare mediante i contratti collettivi
procedure di conciliazione non obbligatoria, da instaurarsi e concludersi entro un termine non
superiore a trenta giorni dalla contestazione dell’addebito e comunque prima dell’irrogazione della
sanzione. L’art. 55-quinquies disciplina la materia della malattia del dipendente, prevedendo
responsabilità disciplinari (fino al licenziamento: art. 55-quater, c. l , lett. a) nel caso di falsa
attestazione di malattia o di alterazione dei documenti, nonché responsabilità penali e obblighi di
risarcimento per i danni (anche all’immagine) cagionati all’amministrazione (per il medico
compiacente si prevede la radiazione dell’albo), mentre l’art. 55-septies si occupa del controllo delle
assenze;
j) Sotto il profilo giurisdizionale sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro,
tutte le controversie riguardanti il rapporto di lavoro dei dipendenti, con l’eccezione di quelle dei
dipendenti sottratti alla privatizzazione e delle controversie in materia di procedure concorsuali di
assunzione, indipendentemente dalla loro natura. La giurisdizione del giudice amministrativo
ricomprendeva in passato anche le controversie riguardanti le procedure finalizzate alla progressione
in carriera dei dipendenti interni e, cioè, a consentire l’accesso del personale già assunto a un’area
superiore. A seguito della riforma del 2009, il legislatore delegato considera quelle procedure come
“concorsi pubblici”. Tali fattispecie vanno dunque ricondotte nella giurisdizione del giudice
amministrativo.

19. La dirigenza e i suoi rapporti con gli organi politici

Ai dirigenti sono stati attribuiti poteri autonomi di gestione, con il compito di organizzare il lavoro, gli uffici
e le risorse umane (tale organo, dunque, è il datore di lavoro) e finanziarie, nonché di attuare le politiche
delineate dagli organi di indirizzo politico-amministrativo, rispondendo del conseguimento dei risultati. Il
dirigente, è anche interlocutore privilegiato della componente politica; questa doppia anima emerge
continuamente nella disciplina e crea anche qualche frizione.
Nonostante la riforma del 2009 abbia tra le sue finalità anche quella di ampliare e rafforzare l’autonomia dei
dirigenti, importanti disposizioni hanno il significato di “ costringere” tali organi a svolgere le proprie
funzioni datoriali.
La dirigenza statale si articola in due fasce del ruolo dei dirigenti istituito presso ogni amministrazione, nel
cui ambito sono definite apposite sezioni in modo da garantire la eventuale specificità tecnica.
L’accesso alla qualifica di dirigente (seconda fascia) nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici non
economici avviene mediante due distinte modalità: concorso per esami indetto dalle singole amministrazioni
ovvero corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica
amministrazione (art. 28, d.lgs. 165/2001). I vincitori di concorso, anteriormente al conferimento del primo
incarico dirigenziale, frequentano un ciclo di attività formative organizzato dalla Scuola superiore della
pubblica amministrazione. Norme particolari sono dettate per la dirigenza scolastica e sanitaria (art. 7, d.p.r.
70/2013).
Ai sensi dell’art. 23, i dirigenti della seconda fascia transitano nella prima qualora abbiano ricoperto
incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti per un periodo di almeno cinque anni senza
essere incorsi nelle misure previste dall’art. 21, d.lgs. 165/2001 per la responsabilità dirigenziale. L’art.
28bis, d.lgs. 165/2001, peraltro, introduce un canale alternativo (a quello basato sull’anzianità) e diretto per
l’accesso alla prima fascia dirigenziale, oltre tutto senza coinvolgere la Scuola superiore della pubblica
amministrazione.
Un canale diverso è costituito dagli incarichi diretti senza previo concorso pubblico. L’art. 19, c. 6, d.lgs.
165/2001, prevede la possibilità di conferimento di incarichi con contratto a tempo determinato entro il limite
del 10 e dell’8 per cento dei dirigenti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, o
che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale o scientifica, o che
provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, della magistratura e dei ruoli degli avvocati
e procuratori dello Stato.
Tornando alla dirigenza, va detto che il rapporto di lavoro si fonda su un contratto. La fase determinativa del
rapporto di servizio va tenuta distinta dal momento della preposizione all’organo mediante «incarico della
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funzione». L’incarico è retto dal principio della temporaneità, che deve essere integrato con l’istituto dello
spoils system. Per il conferimento dell’incarico si tiene conto delle attitudini e delle capacità professionali del
singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa
valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione
eventualmente maturate all’estero (art. 19, d.lgs. 165/2001). La contrattazione collettiva introduce lo
strumento dell’incarico a termine, in particolare relativamente all’area delle posizioni organizzative, anche
per il personale non dirigenziale (art. 25, d.lgs. 150/2009).
La legge scandisce il procedimento di conferimento: l’amministrazione rende conoscibili, anche mediante
pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti di funzione che si
rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta; acquisisce le disponibilità dei dirigenti
interessati e le valuta. Ai sensi dell’art. 1, c. 39, l. 190/2012, le amministrazioni comunicano al Dipartimento
della funzione pubblica, per il tramite degli organismi indipendenti di valutazione, tutti i dati utili a rilevare
le posizioni dirigenziali attribuite a persone, anche esterne alle pubbliche amministrazioni, individuate
discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione; la materia è stata
interessata dalla disciplina di cui al d.lgs. 39/2013 sull’inconferibilità e l’incompatibilità degli incarichi:
spetta al responsabile del piano anticorruzione vigilare sul rispetto delle norme, anche segnalando i casi di
violazione all’autorità nazionale anticorruzione, all’Agcm e alla Corte dei conti; a un livello diverso, pure
l’autorità nazionale anticorruzione ha il compito di vigilare sull’osservanza della disciplina e può sospendere
la procedura di conferimento dell’incarico con un proprio provvedimento che contiene osservazioni o rilievi
sull’atto dello stesso conferimento, nonché segnalare il caso alla Corte dei conti per l’accertamento di
eventuali responsabilità amministrative. Gli atti di conferimento adottati in violazione della disciplina di cui
al d.lgs. 39/2013 sono nulli, mentre ricade sui componenti degli organi che abbiano conferito tali incarichi la
responsabilità per le conseguenze economiche degli atti adottati; essi inoltre non possono per tre mesi
conferire altri incarichi. All’atto de conferimento, l’interessato presenta una dichiarazione sull’insussistenza
delle cause di inconferibilità e, nel corso dell’incarico, dovrà annualmente presentare analoga dichiarazione.
La dichiarazione è condizione per l’acquisto dell’efficacia dell’incarico e la dichiarazione mendace
comporta l’inconferibilità di qualsivoglia incarico per un periodo di cinque anni. Ai sensi della l. 190/2012, il
dipartimento della funzione pubblica definisce criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori
particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi
nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni. Secondo Cass., n. 5659/2004, l’atto manterrebbe
indole privatistica, sicché al conferimento non si applicano le norme sul procedimento amministrativo; l’art.
5, d.lgs. 165/200l, riconosce il carattere privatistico dei poteri con riferimento al solo datore di lavoro, organo
preposto alla gestione.
Nel provvedimento unilaterale di conferimento dell’incarico è contenuta la definizione dell’oggetto, degli
obiettivi e della durata dell’incarico, correlata agli obiettivi e comunque compresa tra i tre e i cinque anni
(art. 19, d.lgs. 165/2001). Ampio spazio è riconosciuto a tale provvedimento, conseguentemente
comprimendo quello del contratto individuale che a esso “accede” (art. 19, d.lgs. 165/2001): a tale contratto
spetta unicamente la definizione del trattamento economico.
L’incarico di funzione dirigenziale di livello generale è conferito con decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta del ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli dirigenziali o, in misura
non superiore al 70%, ad altri dirigenti dei medesimi ruoli, ovvero con contratto a tempo determinato, a
persone in possesso di specifiche qualità professionali.
La retribuzione del personale con qualifica di dirigente è determinata dai contratti collettivi, prevedendo che
il trattamento economico accessorio sia correlato alle funzioni attribuite, alle connesse responsabilità e ai
risultati conseguiti. li trattamento accessorio collegato ai risultati deve costituire almeno il 30 per cento della
retribuzione complessiva dei dirigenti: a questi fini, essi, al pari di tutti gli altri dipendenti, sono sottoposti al
regime, già analizzato al par. precedente, della distribuzione forzosa in base alle tre fasce di merito.
Al fine di completare il discorso su temporaneità e stabilità degli incarichi, occorre ricordare che quelli di
segretario generale, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di
livello equivalente cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo (art. 19, d.lgs. 165/2001:
spoils system).
Per quanto riguarda gli incarichi di vertice, dei consigli di amministrazione o degli organi equiparati presso
enti, società controllate o partecipate dallo Stato e agenzie, nonché le nomine di rappresentanti governativi in
ogni organismo a qualsiasi livello, l’art. 6, l. 145/2002 dispone che le nomine possono essere confermate,
revocate, modificate o rinnovate entro sei mesi dal voto sulla fiducia al
governo. La Corte costituzionale ha chiarito che l’istituto può trovare applicazione soltanto con riferimento
agli incarichi dirigenziali apicali. All’interno della dirigenza colta nel suo complesso, di conseguenza, si
configura un regime speciale per i “dirigenti apicali”, che fungono da cerniera tra burocrazia e politica.

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In generale, la giurisprudenza ha escluso spazi per l’istituto del libero recesso sanzionato con il semplice
risarcimento se illegittimo, figura tipica del rapporto di lavoro dirigenziale disciplinato dalla contrattazione
nel settore privato, ritenendo invece applicabile la tutela reintegratoria. Gli incarichi dirigenziali possono
essere revocati esclusivamente nei casi e con le modalità di cui alla disciplina sulla responsabilità
dirigenziale. Le amministrazioni che, alla scadenza di un incarico di livello dirigenziale, non intendono
confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di
valore economico inferiore (art. 9, c. 32, d.l. 78/2010, conv. nella l. 122/2010). L’art. 1, c. 18, d.l. 138/2011,
conv. nella l. 148/2011, con riferimento alla fase che precede la scadenza dell’incarico, introduce il passaggio
ad altro incarico senza alcuna motivazione relativa alla performance del dirigente.
Propria dei dirigenti è la responsabilità dirigenziale, aggiuntiva rispetto alle altre forme di responsabilità
che gravano sui dipendenti pubblici. Tornando a quella dirigenziale, essa sorge allorché non siano stati
raggiunti gli obiettivi (accertati attraverso la procedura di valutazione delle performance) o in caso di
inosservanza delle direttive imputabile al dirigente (art. 21, d.lgs. 165/2001). Tale responsabilità si collega
all’attività complessiva dell’ufficio cui egli è preposto (non a caso, con riferimento alle due fattispecie
tipizzate dal legislatore e sopra richiamate non si richiede la colpa). Lo stesso art. 21, peraltro, aggiunge
un’altra ipotesi di responsabilità dirigenziale, cui già s’è fatto cenno, che (sentito il comitato dei garanti, in
relazione alla gravità della violazione) può dar luogo alla misura tipizzata della decurtazione di una quota
fino all’ottanta per cento della retribuzione di risultato a carico del dirigente nei confronti del quale sia stata
accertata, , la “colpevole violazione” del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai
propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione.
Per quanto attiene al modello generale di responsabilità dirigenziale, la sanzione è l’impossibilità del rinnovo
dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione, previa contestazione e
nel rispetto del principio del contraddittorio, può revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione
ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. Non necessariamente
tutti i dirigenti hanno la titolarità di uffici dirigenziali: allorché a essi non sia affidata tale titolarità, i dirigenti
svolgono funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento
(essi dovrebbero però essere eliminati: art. 2, d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012). Soltanto nell’ipotesi in
cui siano preposti a uffici dirigenziali, essi possono esercitare i poteri previsti dall’art. 4, d.lgs. 165/2001
(adottare provvedimenti, curare la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa) e, dunque, sono organi.
Negli altri casi essi sono preposti a meri uffici. Caratteristica precipua della dirigenza è comunque quella di
svolgere specifici incarichi, anche nei casi in cui il dirigente non sia preposto a uffici dirigenziali.
La disciplina espressamente volta a definire i rapporti tra organi politici e dirigenti di uffici dirigenziali
generali stabilisce che gli organi di governo esercitino le funzioni di indirizzo politico-amministrativo,
definendo gli obiettivi e i programmi da attuare, adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali
funzioni e verificando la rispondenza dei risultati dell’attività svolta (art. 4, d.lgs. 165/2001), mentre i
dirigenti adottano i provvedimenti amministrativi e curano la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.
Ai sensi dell’art. 14, c. l, d.lgs. 165/2001, il ministro definisce obiettivi, priorità, piani e programmi da attuare
ed emana le conseguenti direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione; la norma prevede
che in caso di inerzia o ritardo il ministro possa fissare un termine per provvedere e abbia il potere di
nominare un commissario ad acta). L’eliminazione del potere di decidere i ricorsi gerarchici, nonché dei
poteri di revoca, riforma, avocazione e diretta sostituzione sono sicuri sintomi del superamento della
gerarchia; si consideri che l’art. 72, c. 2 , d.lgs. 165/2001, ha abrogato espressamente il capo I, titolo I, d.p.r.
748/1972, il quale tra l’altro conteneva le norme che prevedevano i poteri ministeriali di annullamento, di
revoca e di riforma degli atti dei dirigenti, nonché il potere ministeriale di delega.
Importanti poteri spettano infine all’organo di indirizzo politico con riferimento ai temi della valutazione e
del controllo (art. 15, d.lgs. 150/2009): esso emana le direttive generali contenenti gli indirizzi strategici,
definisce in collaborazione con i vertici dell’amministrazione il piano e la relazione della performance,
verifica il conseguimento effettivo degli obiettivi strategici. Tra organi di governo e dirigenti si parla di sfere
di competenza separate e differenti: pare assai significativo al riguardo che il ministro non possa, neppure in
caso di inerzia, sostituirsi al dirigente, ma debba procedere
alla nomina di un commissario. Gli unici momenti di «prevalenza» degli organi di governo sono costituiti dai
poteri, spettanti all’organo politico, di annullamento e di conferimento dell’incarico di direzione degli uffici
di livello dirigenziale generale, nonché, ora, per i dirigenti di cui all’art. 19, c. 3, quello di non rinnovare
l’incarico decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al governo (art. 6, l. 145/2002).
I dirigenti preposti agli uffici dirigenziali generali, nei confronti dei dirigenti, definiscono gli obiettivi e
attribuiscono le risorse, «dirigono, coordinano e controllano l’attività dei dirigenti e dei responsabili dei
procedimenti» [art. 16, c. l , lett. b) e e)], «anche con potere sostitutivo in caso di inerzia» (lett. e) e
«decidono sui ricorsi gerarchici contro gli atti e i provvedimenti amministrativi non definitivi dei dirigenti»
(lett. i); infine, dagli artt. 17, c. l , lett. c) e 17, c. 3 , d.lgs. 165/2001, emerge che il dirigente preposto
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all’ufficio di più elevato livello può delegare compiti ai dirigenti ed è «sovraordinato» al dirigente preposto
all’ufficio inferiore.
L’art. 17, d.lgs. 165/2001 prevede poteri di direzione, coordinamento e controllo in capo al dirigente in
relazione all’attività degli uffici che da lui dipendono e di quella dei responsabili dei procedimenti
amministrativi, «anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia»; per altro verso, il dirigente effettua la
valutazione del personale assegnato ai propri uffici, nel rispetto del principio del merito, ai fini della
progressione economica e tra le aree, nonché della corresponsione di indennità e premi incentivanti.
L’art. 17-bis, d.lgs. 165/2001 (introdotto dalla l. 145/2002) prevede l’area della vicedirigenza, la cui
istituzione è rimessa alla contrattazione collettiva di comparto. La vicedirigenza è disciplinata
esclusivamente ad opera e nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale del comparto di riferimento.
La normativa favorisce inoltre la mobilità tra settore pubblico e privato (art. 23-bis).
Importante è il tema delle consulenze affidate a soggetti esterni rispetto alle amministrazioni, strumento di
cui spesso i dirigenti e gli amministratori si sono avvalsi ai sensi dell’art. 7, d.lgs. 165/2001 e, per gli enti
locali, dell’art. 110, d.lgs. 267/2000. L’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze
attribuite all’amministrazione e a obiettivi e progetti specifici e determinati; l’amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; la
prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; occorre preventivamente determinare
durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione (art. 7).

20. I soggetti di diritto nel diritto amministrativo: le formazioni sociali e gli ordinamenti autonomi

Un ruolo importante rivestono i soggetti di diritto costituiti dalle organizzazioni sociali. Molte di queste
formazioni sono costituite da aggregazioni di individui che perseguono interessi, non caratterizzati dal fine di
lucro, in parte coincidenti con quelli affidati alla cura di soggetti pubblici.
In generale, il fenomeno delle organizzazioni non lucrative ha conosciuto una fortissima espansione negli
ultimi decenni, tanto da introdurre la definizione di «terzo settore», il quale è peraltro composto, accanto
alle organizzazioni no profit, anche da organizzazioni di volontariato, associazioni e cooperative. Rientrano
ad esempio in questo ambito moltissime associazioni quali le comunità terapeutiche, le istituzioni pro-loco, le
organizzazioni impegnate nei settori della ricerca, dello sport, dell’istruzione, della beneficenza e così via. Va
ancora aggiunto che il campo di azione di numerose di queste organizzazioni è in linea di massima quello dei
c.d. servizi sociali, in relazione ai quali la Costituzione, pur garantendo la libera iniziativa non economica dei
privati, impone la presenza pubblicistica, anche per garantire che gli utenti possano ricevere prestazioni a
«prezzi sostenibili» e con «modalità ideologicamente neutrali».
La normativa di settore prevede che le organizzazioni che perseguono finalità di interesse generale possano
ricevere finanziamenti pubblici e siano talora sottoposte a forme di controllo o vigilanza, ovvero ad un
regime fiscale favorevole. La l. 11 agosto 1991, n. 266 ha poi disciplinato le organizzazioni di volontariato,
stabilendo una serie di requisiti che debbono essere posseduti dalle associazioni che intendono usufruire di
alcune agevolazioni subordinatamente all’iscrizione negli appositi registri regionali e, dunque,
all’espletamento di un controllo pubblicistico; essa ammette altresì che le associazioni possano stipulare
convenzioni con soggetti pubblici per lo svolgimento di servizi. Le organizzazioni non lucrative hanno una
importante funzione di rilevazione dei bisogni. Quanto al loro ambito di azione, in giurisprudenza si è
escluso che le associazioni di volontariato di cui alla l. 266/1991 possano partecipare in regime di
concorrenza a pubbliche gare. Le associazioni oggetto di disciplina devono svolgere attività di utilità sociale
«senza fine di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati» (no profìt). Il d.lgs. 460/1997,
sul riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di
utilità sociale, prevede l’istituzione presso il ministero dell’economia e delle finanze di un’anagrafe unica
delle ONLUS.
Altre formazioni danno luogo ad organizzazioni i cui rapporti con l’ordinamento statale sono assai più
complessi, posto che esse, caratterizzate da una normazione propria, possono essere configurate come
ordinamenti autonomi. La questione attiene da un lato agli ordinamenti delle confessioni religiose e,
dall’altro, all’ordinamento sportivo.
In ordine alle confessioni religiose, l’art. 8 Cost. stabilisce che le confessioni religiose diverse da quella
cattolica (la Chiesa cattolica, ai sensi dell’art. 7 Cost. è considerata ordine sovrano e indipendente) possono
organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
L’ordinamento sportivo, in via di principio, non è invece considerato al riparo dall’ingerenza della disciplina
statale, perché privo di garanzia costituzionale. Il problema che maggiormente interessa il diritto
amministrativo è quello della qualificazione come pubblici, secondo l’ordinamento generale italiano, di
alcuni soggetti che contestualmente sono soggetti degli ordinamenti separati. Il Coni (Comitato olimpico

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nazionale italiano), ente esponenziale dell’ordinamento sportivo è, ad esempio, secondo il diritto italiano, un
ente pubblico.

21. I mezzi. In particolare i beni pubblici. Nozione e classificazione codicistica

Al fine di svolgere i propri compiti, le amministrazioni pubbliche devono utilizzare non solo risorse umane,
ma anche mezzi materiali. In particolare, esse necessitano di mezzi finanziari per il proprio funzionamento e
per lo svolgimento delle attività cui sono tenute. Lo svolgimento dei compiti amministrativi, inoltre, implica
molto spesso l’impiego di beni.
Tra i beni che appartengono agli enti pubblici rivestono una particolare importanza i c.d. «beni pubblici», i
quali sono assoggettati ad una normativa differente rispetto a quella che si applica agli altri beni per ciò che
riguarda i profili dell’uso, della circolazione e della tutela. Accanto a questi beni, sussistono anche beni
appartenenti a enti pubblici soggetti alla normativa di carattere generale sulla proprietà privata, fatte salve
alcune disposizioni in tema di contabilità pubblica (art. 828, c. l, c.c.). Questi ultimi costituiscono, nel loro
complesso, il patrimonio disponibile degli enti pubblici (patrimonio mobiliare e patrimonio fondiario ed
edilizio), così chiamato per distinguerlo dal patrimonio indisponibile (quest’ultimo va ricondotto ai beni
pubblici). Anche il denaro fa parte del patrimonio disponibile e può ad esempio essere sottoposto ad
esecuzione forzata da parte dei creditori.
In linea di principio i beni patrimoniali disponibili possono essere oggetto di contratti di alienazione
(contratti attivi: ai sensi dell’art. 3, r.d. 2440/1923, essi vengono stipulati mediante asta pubblica, salvo che
per circostanze e ragioni particolari non sia opportuno far ricorso alla licitazione), di acquisto ( contratti
passivi, preceduti da gara mediante pubblico incanto o mediante licitazione privata) e così via. Il complesso
dei «beni pubblici» appartiene alle pubbliche amministrazioni a titolo di proprietà pubblica.
La titolarità della proprietà dei beni pubblici appartenenti agli enti pubblici trova la sua fonte innanzitutto
nella legge. Così alcuni beni appartengono a enti territoriali: si tratta di taluni beni del demanio naturale
(marittimo e idrico) e del patrimonio indisponibile (miniere), nonché di altri beni quali i beni di interesse
artistico, storico o archeologico esistenti o ritrovati nel sottosuolo, i relitti marittimi e di aeromobili e così
via. Ma questa titolarità può derivare anche da:
a) fatti acquisitivi: acquisto della proprietà di beni mediante l’occupazione, l’invenzione, l’accessione,
la specificazione, l’unione, l’usucapione, la successione;
b) atti di diritto comune (contratti, testamento, donazione, pagamenti, provvedimenti giudiziari di
esecuzione);
c) fatti basati sul diritto internazionale (confisca e requisizione bellica, indennità di guerra,
successione ad altro Stato) o basati sul diritto pubblico interno (successione tra enti);
d) atti pubblicistici che comportano l’ablazione di diritti reali su beni di altri soggetti (confisca,
espropriazione, requisizione in proprietà o in uso e così via).
22. Il regime giuridico dei beni demaniali

La peculiare disciplina che si applica ai beni pubblici è contenuta essenzialmente negli art. 822e ss. e nel r.d.
lgs. 2240/1923 e nel r.d. 827/1924( regolamento di contabilità generale dello Stato).
I beni demaniali sono tassativamente indicati dalla legge e comprendono i beni demaniali necessari e i beni
demaniali accidentali. I beni del demanio necessario sono costituiti a loro volta dal demanio marittimo,
idrico e militare. Ai sensi dell’art. 822 c.c. e 28 codice nav. fanno parte del demanio marittimo: il lido del
mare , le spiagge, i porti. Il demanio idrico è costituito dai fiumi, torrenti, laghi, ghiacciai e altre acque
pubbliche. Il demanio militare comprende le opere destinate alla difesa nazionale (art. 822, c. 1, c.c.):
fortezze, piazzeforti, linee fortificate, opere destinate al servizio delle comunicazioni militari (strade,
ferrovie, stazioni radio). Il demanio necessario è costituito esclusivamente da beni immobili caratterizzati
dalla scarsa reperibilità.
Accanto ai beni del demanio necessario, la legge contempla i beni del demanio accidentale , composto da
strade, autostrade, aerodromi, acquedotti, raccolte di musei, ecc. I beni del demanio accidentale possono
appartenere a chiunque (strade private), ma sono tali qualora appartengano ad un ente pubblico territoriale. Il
codice civile ricomprende tra i beni del demanio accidentale anche le strade ferrate alcune delle quali (quelle
appartenenti alle Ferrovie dello Stato), tuttavia sono state sdemanializzate (l. 210/1985). Le strade sono oggi
disciplinate dal codice della strada approvato con d.p.r. 285/1992. La rete è gestita da Anas S.p.A., che ha
anche compiti realizzativi. L’art. 36, d.l.98/2011, conv. nella l. 111/2011, ha istituito presso il ministero delle
infrastrutture e dei trasporti l’Agenzia per le infrastrutture stradali e autostradali. Non rientrano nel demanio
stradale le strade vicinali (strade private) e le strade militari di uso pubblico sulle quali le autorità militari
consentano il pubblico transito. Per quanto attiene agli aeroporti, occorre ricordare che, in Italia, l’attività

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aeroportuale civile è stata tradizionalmente svolta dalla mano pubblica, riservando peraltro la possibilità
dell’affidamento della gestione a enti pubblici ovvero a società a totale partecipazione pubblica.
L’art. 824, c. 2, c.c. assoggetta allo stesso regime dei beni demaniali accidentali i cimiteri e i mercati
comunali. Tali beni rientrano nel demanio comunale (demanio “specifico”) soltanto se appartengono ai
comuni.
I beni demaniali sono caratterizzati, dal punto di vista soggettivo, dall’appartenenza a enti territoriali: essi
sono direttamente preordinati alla soddisfazione di interessi imputati alla collettività stanziata sul territorio e
rappresentata dagli enti territoriali. La categoria dei beni demaniali comprende beni assai diversi tra loro. A
tacere delle differenze collegate al profilo soggettivo (esiste un demanio statale, un demanio regionale, un
demanio provinciale e uno comunale), occorre distinguere i beni demaniali naturali rispetto a quelli del
demanio artificiale, costruiti appunto dall’uomo. Alcuni di essi preesistono rispetto alle determinazioni
dell’amministrazione, mentre altri sono pubblici in quanto destinati ad una funzione pubblica
dall’amministrazione. Infine alcuni beni sono riservati necessariamente allo Stato o alla regione mentre altri
possono appartenere anche ai privati o a enti non territoriali. In ogni caso tutti i beni demaniali sono
assoggettati alla disciplina posta dall’art. 823 c.c.: essi sono inalienabili e non possono formare oggetto di
diritti a favore dei terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. Tale prescrizione
implica che i diritti dei terzi sui beni demaniali possano essere costituiti soltanto secondo le modalità
tassativamente previste da specifiche leggi.
A causa della sancita incommerciabilità dei beni demaniali, sono nulli di diritto gli eventuali atti dispositivi
di essi posti in essere dalla p.a.: i beni hanno infatti un vincolo reale che rende impossibile l’oggetto ai fini
dell’art. 1418 c.c. Va esclusa la espropriabilità dei beni demaniali, al fine ad esempio di soddisfare le pretese
creditorie di terzi. Va esclusa in modo assoluto la trasferibilità dei beni del demanio necessario i quali sono
beni “riservati”: tutti gli altri soggetti dell’ordinamento sono privi della legittimazione in ordine alla titolarità
di diritti di proprietà aventi ad oggetto tali beni.
L’art. 823 c.c. afferma che “spetta all’amministrazione la tutela dei beni che fanno parte del demanio
pubblico”. Essa ha facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa
della proprietà e del possesso. L’amministrazione dispone di poteri di autotutela: ciò significa che anziché
utilizzare gli ordinari rimedi giurisdizionali che l’ordinamento prevede a tutela della proprietà, essa può
direttamente procedere a tutelare i propri beni in via amministrativa, irrogando sanzioni ed esercitando poteri
di polizia demaniale.
I beni del demanio naturale acquistano la demanialità per il solo fatto di possedere i requisiti previsti dalla
legge. I beni “artificiali” diventano invece demaniali nel momento in cui rientrano in uno dei tipi fissati dalla
legge e cioè nel momento in cui l’opera sia realizzata purché siano di proprietà dell’ente territoriale. La
cessazione della qualità del bene demaniale deriva, oltreché dalla distruzione del bene, dal fatto della perdita
dei requisiti di bene demaniale e dalla cessazione della destinazione. Vi può essere l’intervento legislativo
che “sdemanializza” alcuni beni.
La cessazione dei requisiti di bene demaniale è spesso attestata da uno specifico atto amministrativo.
Nell’ipotesi di beni riservati tale sdemanializzazione ha soltanto finalità dichiarative anche se alcune norme
prevedono apparenti deroghe a tale principio: il bene non è più pubblico perché ha perduto i caratteri di bene
pubblico e non già perché l’amministrazione ha modificato il suo regime con un atto amministrativo. La
sdemanializzazione che comporta la cessazione del diritto di uso del bene spettante a terzi e l’estinzione
delle eventuali limitazioni derivanti dalla natura demaniale del bene stesso.

23. Il regime giuridico dei beni del patrimonio indisponibile. Il federalismo demaniale.
L’amministrazione dei beni pubblici

I beni del patrimonio indisponibile sono indicati dall’art. 826 c.c., commi 2 e 3 e dall’art. 830, c. 2 , c.c. Ai
sensi dell’art. 830 c.c. i beni degli enti pubblici non territoriali destinati a un pubblico servizio sono
assoggettati alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili. I beni del patrimonio indisponibile, da un
punto di vista generale, possono pertanto appartenere a qualsiasi ente pubblico e comprendono beni immobili
e mobili.
In ordine ai beni del patrimonio indisponibile occorre ancora osservare:
a) le cave e le torbiere, le acque termali e minerali e le foreste sono state trasferite al patrimonio
indisponibile della regione dal d.p.r. 616/1977. In particolare, le cave e le torbiere possono essere
sottratte, senza corrispettivo, alla disponibilità dei proprietari e avocate alla regione soltanto nei casi
di mancato o insufficiente sfruttamento, venendo così assoggettate alla disciplina delle miniere;
b) le miniere erano riservate allo Stato, restando invece riservate alla regione le acque termali e
minerali;

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c) le cose mobili di interesse storico, paletnologico, paleontologico, artistico, appartenenti a


qualsiasi ente pubblico, sono assoggettate alla disciplina dei beni patrimoniali indisponibili salvo che
siano costituite in raccolte di musei, di pinacoteche, di archivi e di biblioteche: in quest’ultimo caso
si tratta di beni del demanio accidentale. I beni di interesse storico-artistico possono anche
appartenere ai privati;
d) i beni costituenti la dotazione della presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli
aeromobili militari e le navi da guerra: anche taluni di questi beni sono interessati dal c.d.
federalismo demaniale.

Quanto all’acquisto e alla perdita dei caratteri di bene pubblico, si può rinviare alle osservazioni svolte in
ordine ai beni demaniali, distinguendo a seconda che si tratti di beni che sono pubblici in virtù del solo fatto
di possedere i caratteri indicati dall’ordinamento, ovvero che sia richiesto un atto
di destinazione pubblica. La disciplina posta dal codice non risulta del tutto coerente, anche alla luce della
disciplina di settore. Occorre ad esempio considerare che:
a) alcuni beni demaniali sono riservati necessariamente a taluni enti pubblici territoriali (demanio
necessario), mentre altri possono appartenere anche a privati o a enti non territoriali;
b) analoghe considerazioni valgono per i beni del patrimonio in disponibile: alcuni sono riservati a enti
pubblici, sicché nessun altro soggetto dell’ordinamento è legittimato ad acquistarli (miniere, acque
minerali e termali e cave e torbiere sottratte al proprietario); altri beni, invece, sono patrimoniali
indisponibili per il solo fatto di appartenere a un ente pubblico particolare (come le foreste regionali);
c) alcuni beni del patrimonio indisponibile sono in commerciabili in via assoluta in quanto trattasi di
beni riservati (ad esempio le miniere); gli altri invece sono incommerciabili e sottratti alla garanzia
patrimoniale dei creditori soltanto in costanza di destinazione pubblica;
d) altri beni ancora sono soggetti a un regime di inalienabilità, salvo permesso amministrativo: è il caso
dei beni forestali, la cui alienazione è soggetta ad approvazione.

Il quadro descritto è destinato a essere profondamente inciso in ragione dell’attuazione del c.d. federalismo
demaniale, ai sensi del d.lgs. 85/2010, emanato esercitando la delega contenuta nella l. 42/2009; ciò
dovrebbe determinare una decisa riduzione sia dell’ampiezza del demanio statale, sia del numero dei beni
pubblici nel loro complesso, nel senso che i beni trasferiti andranno tendenzialmente a far parte del
patrimonio disponibile. La sua ispirazione di fondo è quella di attribuire i beni al livello territoriale più
vicino ai beni, nella prospettiva della sussidiarietà, in un quadro in cui i beni medesimi debbono essere
oggetto di valorizzazione. L’obiettivo, cioè, è quello di sottrarre i beni allo Stato affinché vengano meglio
“valorizzati” dagli enti destinatari.
Un altro perno della riforma consiste nel fatto che l’attuazione del federalismo demaniale non dovrà
comportare spese aggiuntive per lo Stato: è prevista, infatti, una riduzione dei trasferimenti statali agli enti
cui verranno attribuiti “ a titolo non oneroso” gli immobili statali. La realizzazione del disegno individuato
dal decreto, infatti, dovrebbe comportare il passaggio di molti immobili statali del demanio e del patrimonio
indisponibile, di valore talora assai consistente, al patrimonio degli enti territoriali non statali (comuni,
province, città metropolitane, regioni): si va dagli alvei dei fiumi alle spiagge, dagli edifici storici alle
caserme, dalle miniere alle aree e ai fabbricati di proprietà dello Stato. Alcuni importanti beni saranno, però,
esclusi dal trasferimento e, dunque, rimarranno nella sfera giuridica dello Stato. Sostanzialmente in
ossequio al principio di sussidiarietà, si tratta dei seguenti beni: quelli del demanio marittimo direttamente
utilizzati dalle amministrazioni statali; porti e aeroporti di rilevanza economica nazionale e internazionale;
reti di interesse statale; strade ferrate in uso di proprietà dello Stato; parchi nazionali e riserve naturali statali;
giacimenti petroliferi e di gas; siti di stoccaggio di gas naturale, dotazioni di Quirinale, Corte costituzionale,
Camere e organi di rilevanza costituzionale; fiumi sovraregionali, laghi sovraregionali per i quali non
intervenga un’intesa tra le regioni interessate.
I beni ceduti finiranno nel patrimonio disponibile degli enti destinatari e possono essere alienati solo previa
valorizzazione attraverso le procedure per l’adozione delle varianti allo strumento urbanistico. Anche in tal
caso, però, sussistono importanti eccezioni; i beni appartenenti al demanio marittimo, idrico e
aeroportuale, infatti, restano assoggettati al regime, appunto demaniale, stabilito dal codice civile. Per altro
verso, ove ne ricorrano i presupposti, il d.p.c.m. di attribuzione di beni demaniali diversi da quelli
appartenenti al demanio marittimo, idrico e aeroportuale, può disporre motivatamente il mantenimento dei
beni stessi nel demanio o l’inclusione nel patrimonio indisponibile.
Sono due i canali attraverso i quali si realizzerà l’attribuzione. Alcuni beni del demanio saranno trasferiti
dallo Stato a due categorie di enti territoriali (regioni e province) con d.p.c.m. entro 180 giorni secondo il
seguente principio: alle regioni verranno trasferiti il demanio marittimo e i beni del demanio idrico (tranne
le eccezioni già esaminate); alle province, tuttavia, verranno attribuiti i laghi chiusi e le miniere. Altri
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decreti avranno il compito di individuare (ecco il secondo canale) gli immobili statali da assegnare e gli enti
destinatari, i quali dovranno fame richiesta motivata all’agenzia del demanio entro il termine perentorio di 60
giorni dalla pubblicazione dei decreti.
Qualora un bene non sia attribuito a un ente territoriale di un determinato livello di governo, lo Stato procede,
sulla base delle domande avanzate, all’attribuzione del medesimo bene a un ente territoriale di un diverso
livello di governo. A conclusione del procedimento, apposito decreto, adottato su proposta del ministero
dell’economia e delle finanza, attribuisce i beni agli enti. Il trasferimento dovrà tener conto di eventuali
accordi già siglati tra enti locali e amministrazioni pubbliche. Il procedimento di attribuzione dei beni viene
riattivato con cadenza biennale.
Un regime particolare è delineato per i beni culturali. Essi sono esclusi dal trasferimento quelli “vincolati”
con provvedimento che ne dichiara l’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico; per i beni
culturali statali ultracinquantennali, poi, è previsto un procedimento di verifica dell’interesse culturale che
deve svolgersi in 120 giorni (art. 12, d.lgs. 42/2004).
La gestione dei beni immobili statali assegnati ad un particolare servizio può poi essere affidata
gratuitamente al ministero al quale il servizio si riferisce (si tratta però di una gestione temporanea, sicché,
alla scadenza, la gestione passa automaticamente al ministero dell’economia e finanze).
I beni demaniali di pertinenza dello Stato sono descritti nell’inventario realizzato a cura del ministero
dell’economia e delle finanze e degli altri ministeri al cui servizio i beni sono adibiti in base ai registri di tali
amministrazioni. I beni immobili patrimoniali sono descritti a cura degli uffici decentrati del ministero
dell’economia e delle finanze in registri di consistenza, ove vanno registrate le modificazioni nel valore o
nella consistenza dei beni. I beni mobili statali sono inventariati dai singoli ministeri che li hanno in consegna
e affidati ad agenti responsabili. I beni mobili non più idonei all’uso loro assegnato sono dichiarati fuori uso
e scaricati dal relativo inventario, potendo essere ceduti ove non vengano destinati a diversa utilizzazione. In
ordine alla valutazione, i beni mobili si iscrivono negli inventari per il loro prezzo d’acquisto, mentre i beni
immobili sono valutati in
base al costo, all’estimo o all’imponibile. La gestione patrimoniale dello Stato si inserisce nel rapporto tra
parlamento e governo.
A far data dalla istituzione dell’Agenzia del demanio, l’amministrazione dei beni immobili dello Stato è ad
essa attribuita, «con il compito di razionalizzarne e valorizzarne l’impiego, di sviluppare il sistema
informativo sui beni del demanio e del patrimonio, utilizzando in ogni caso, nella valutazione dei beni a fini
conoscitivi e operativi, criteri di mercato, di gestire con criteri imprenditoriali i programmi di vendita, di
provvista, anche mediante l’acquisizione sul mercato, di utilizzo e di manutenzione ordinaria e straordinaria
di tali immobili». L’Agenzia assume anche le decisioni di spesa relative alla manutenzione degli immobili
statali (art. 12, d.l. 98/2011, conv. nella l. 111/2011). All’Agenzia spetta tra l’altro il compito di individuare i
beni del patrimonio immobiliare pubblico (distinguendo tra beni demaniali e beni facenti parte del
patrimonio indisponibile e disponibile) con decreti aventi effetto dichiarativo della pubblici proprietà (1.
410/2001).
La privatizzazione dei beni appartenenti ad enti pubblici è generalmente finalizzata a soddisfare esigenze
di carattere finanziario e di risanamento del debito pubblico. Più in generale, i beni pubblici sono sempre più
spesso usati non già per soddisfare specifici interessi pubblici, ma per produrre entrate, come confermato
anche dalla istituzione e dai compiti dell’Agenzia del demanio.
Tre sono le modalità di dismissione del patrimonio dello Stato. In primo luogo, il ministro dell’economia e
delle finanze è autorizzato a sottoscrivere quote di fondi immobiliari istituiti ai sensi della l. 86/1994,
mediante apporto di beni immobili e di diritti reali su immobili appartenenti al patrimonio dello Stato. I fondi
sono gestiti da una o più società di gestione che procedono all’offerta al pubblico delle quote derivate
dall’istituzione del fondo. Il portafoglio dei fondi, in sostanza, viene finanziato attraverso la collocazione di
quote sul mercato: gli investitori, invece, sono remunerati dai proventi derivanti dalla gestione dei fondi. Lo
strumento dei fondi immobiliari è stato di recente previsto nel quadro delle manovre anti-crisi in una
prospettiva di valorizzazione del patrimonio immobiliare: la disciplina più recente (art. 33, d.l. 98/2011)
condiziona l’efficacia dell’apporto ai fondi promossi da regioni, province, comuni all’espletamento delle
procedure di valorizzazione e di regolarizzazione. In secondo luogo, i beni immobili appartenenti allo Stato
non conferiti nei fondi immobiliari, individuati dal ministro dell’economia e delle finanze, possono essere
alienati in deroga alle norme di contabilità di Stato. L’art. 12, l. 127/1997 favorisce la possibilità che comuni
e province procedano alle alienazioni del patrimonio immobiliare, derogando alla disciplina attinente
all’alienazione degli immobili dello Stato (si rimette dunque all’ente locale il compito di definire con
regolamento i criteri per l’alienazione).
Accanto al modello del conferimento ai fondi e dell’alienazione vi è quello della cartolarizzazione. La l.
410/2001 ha previsto che il ministro dell’economia e delle finanze possa costituire o a promuovere la
costituzione, anche attraverso soggetti terzi, di più società a responsabilità limitata con capitale iniziale di
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10.000 euro, aventi ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei
proventi (mediante l’emissione di titoli o l’assunzione di finanziamenti: si tratta delle c.d. Scip, Società
cartolarizzazione immobili pubblici) derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e
degli altri enti pubblici. In sostanza, a queste società-veicolo sono ceduti gli immobili, che sono acquistati
con l’unico fine di rivenderli; esse pagano un prezzo iniziale all’ente e ottengono un finanziamento attraverso
prestiti obbligazionari o l’emissione di titoli; i finanziatori versano una somma iniziale e, man mano che gli
immobili vengono venduti, viene ad essi restituito il prezzo maggiorato da interessi. I beni pubblici, in tal
caso, sono dunque destinati a passare in mano ai privati. Un canale alternativo prevedeva compiti di
valorizzazione e di alienazione in capo al Patrimonio dello Stato S.p.A.
Il d.l. 112/2008, conv. nella l. 133/2008, al fine di procedere a riordino, gestione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare di regioni, province, comuni ed altri enti locali,prevede che tali enti individuino i
singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, predisponendo un piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari, allegato al bilancio di previsione. Anche il d.lgs. 85/2010, sul federalismo
demaniale, accentua il profilo della valorizzazione funzionale, che però può essere declinata anche come
valorizzazione economico-finanziaria mediante alienazione.
Quanto alle forme di valorizzazione, ai sensi dell’art. 33, d.l. 98/2011, conv. nella l. 111/2011 (tale fonte ha
portato allo scioglimento di Patrimonio dello Stato S.p.A.), con decreto del ministro dell’economia e finanze
è costituita una Società di gestione del risparmio (SGR) avente capitale sociale pari a 2 milioni di euro per
l’anno 2012, per l’istituzione di uno o più fondi d’investimento che partecipino ai fondi d’investimento
immobiliari chiusi promossi da regioni, province, al fine di valorizzare o dismettere il proprio patrimonio
immobiliare disponibile. Il capitale è detenuto interamente dal ministero. Anche tali fondi necessitano di una
società di gestione, individuata con procedura a evidenza pubblica. L’apporto deve avvenire sulla base di
progetti di utilizzo o di valorizzazione; si procede poi alla regolarizzazione edilizia ed urbanistica degli
immobili conferiti. L’art. 33-bis della stessa legge prevede programmi di valorizzazione, trasformazione,
gestione e alienazione del patrimonio pubblico, disciplinando nel dettaglio la relativa procedura. A questi
fini, il ministero dell’economia e delle finanze promuove iniziative idonee per la costituzione di società,
consorzi o fondi immobiliari. L’art. 6, l. 183/2011 ha autorizzato il ministero dell’economia e delle finanze a
conferire o a trasferire beni immobili dello Stato ad uno o più fondi comuni d’investimento immobiliari o a
una o più società di gestione del risparmio. Le quote o le azioni sono destinate a essere collocate sul mercato
e i proventi netti derivanti dalle cessioni sono finalizzati alla riduzione del debito pubblico. Sulla
valorizzazione del patrimonio, l’art. 33-bis e ss., d.l. 351/2001, conv. nella l. 410/2001, secondo cui il
Presidente della giunta regionale, d’intesa con la provincia e i comuni interessati, promuove la formazione di
“programmi unitari di valorizzazione territoriale” per il riutilizzo funzionale e la rigenerazione degli
immobili di proprietà della regione stessa, della provincia, dei comuni e di ogni soggetto pubblico
proprietario, detentore o gestore di immobili pubblici.
Negli enti locali si sta diffondendo una differente ipotesi di «esternalizzazione» dei servizi, realizzato
mediante global service, caratterizzato dall’ affidamento della manutenzione e della gestione del patrimonio
immobiliare a soggetti esterni. Un fenomeno ancora diverso è quello della privatizzazione dei beni che segue
la privatizzazione del soggetto originariamente titolare. Si è notato in dottrina che i beni così privatizzati, pur
non potendo più essere qualificati come pubblici nel senso tradizionale del termine, sono assoggettati ad un
regime (assai simile a quello proprio dei beni pubblici) che si preoccupa di garantirne la destinazione e
l’asservimento alla soddisfazione di interessi pubblici. La presenza di un regime speciale (simile a quello
proprio del patrimonio indisponibile) accade con riferimento alle reti (stradali, autostradali, ma anche di
telecomunicazioni) gestite da privati. La qualificazione come beni oggettivamente pubblici consentirebbe ad
esempio di applicare la disciplina sugli appalti pubblici anche per la attività di manutenzione; le reti, in ogni
caso, costituiscono un decisivo fattore di condizionamento della concorrenza tra gli operatori che devono
avvalersi di essa per prestare servizi sul mercato e per questo la normativa tende a garantire che siano
“aperte” e accessibili.

24. Diritti demaniali su cose altrui, diritti d’uso pubblico e usi civici

Accanto al diritto di proprietà demaniale sui beni pubblici, l’ordinamento prevede l’esistenza di altri diritti
reali soggetti al medesimo regime giuridico, accomunati alla proprietà nel concetto di «appartenenza»; si
tratta dei diritti spettanti agli enti territoriali sui beni altrui. Quanto ai diritti demaniali su beni altrui, si
pensi al diritto di servitù gravante su fondo privato al fine della realizzazione di un acquedotto pubblico,
ovvero alla servitù di via alzaia, la quale grava sui fondi laterali ai corsi d’ acqua navigabili imponendo di
lasciare libera una fascia di terreno al fine di consentire lo spostamento dei barconi.

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In ordine ai diritti gravanti su beni privati «costituiti per il conseguimento di fini di pubblico interesse
corrispondenti a quelli a cui servono i beni demaniali», va chiarito che essi non spettano a favore di tali
ultimi beni, bensì a favore delle collettività, sicché ogni membro di questa può chiederne tutela. Tipici
esempi di diritti d’uso pubblico gravanti su beni privati sono quelli di visita dei beni privati di interesse
storico e quelli che attengono alle strade private (strade vicinali), ai vicoli e agli spiazzi aperti al pubblico
traffico. Rispetto ai diritti d’uso pubblico presentano profili di analogia gli usi civici: entrambe le categorie
sono beni collettivi, perché appartengono a collettività di abitanti; gli usi civici, tuttavia, sono assoggettati ad
una particolare disciplina e possono gravare anche su beni pubblici. Si tratta infatti di diritti di godimento e
d’uso e anche di proprietà spettanti alla collettività su terreni di proprietà di comuni o di terzi e che hanno ad
oggetto, di volta in volta, il pascolo, la pesca, la caccia, la raccolta della legna, dei funghi e così via. Essi
spettano ai membri delle collettività che ne fruiscono uti cives e non all’ente rappresentativo della collettività
(comune): la collettività si identifica nella frazione, nella collettività comunale o nelle collettività
infracomunali (associazioni agrarie). La presenza di usi civici e di diritti d’uso pubblico comporta, per il
proprietario del fondo gravato, l’obbligo di sopportare che membri della collettività godano dei suoi beni.

25. L’uso dei beni pubblici

Per una prima categoria di beni la distanza rispetto alla proprietà privata è meno marcata, atteso che ne è
consentito essenzialmente l’uso diretto e riservato al proprietario pubblico che lo impiega per lo svolgimento
dei propri compiti, garantito con norme che addirittura sanzionano penalmente l’uso del bene da parte di altri.
In molti altri casi, il bene è in grado di soddisfare anche altre esigenze: si realizza così l’ uso promiscuo. Si
pensi alle strade militari che, accanto all’interesse della difesa, sono in grado di soddisfare l’interesse
generale della pubblica circolazione.
All’estremo opposto rispetto all’uso diretto si collocano le situazioni in generale cui interessi diversi da quelli
che fanno capo al titolare del diritto dominicale possono e debbono ottenere soddisfazione mediante l’uso del
bene. Ciò avviene mediante il riconoscimento dell’uso generale di quei beni pubblici che assolvono la loro
funzione a servizio della collettività (demanio idrico, stradale, beni di interesse storico e così via). In alcuni
casi esso è subordinato al pagamento di una somma, come accade nell’ipotesi di pedaggio autostradale. Vi
sono, infine, situazioni in cui i soggetti privati non si limitano ad entrare in rapporto diretto con il bene: il
bene è infatti posto al servizio di singoli soggetti (uso particolare). È questo il caso delle riserve di pesca,
delle concessioni di bene pubblico, delle concessioni di derivazione di acque pubbliche, della situazione del
frontista rispetto alla strada pubblica.
Molto spesso l’amministrazione gestisce beni “a capacità limitata” il cui uso è essenziale per gli imprenditori
che intendano offrire servizi sul mercato, sicché, anche richiamando la c.d. essential facility doctrine,
dovrebbe essere preferito un sistema di competizione pubblico e trasparente per selezionare i privati che
possono aver accesso a tale posizione. Il problema si può estendere alle reti.
Mentre l’uso diretto consente di scorgere essenzialmente le situazioni di doverosità dell’ente proprietario,
l’uso generale attuato in modo impersonale dai consociati concreta la titolarità di «diritti civici», costituiti da
interessi semplici, aventi ad oggetto il dovere di destinare il bene a quell’uso.
L’uso particolare concreta un rapporto pubblicistico tra ente e privato. In ordine alla concessione la legge
prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133, d.lgs. 104/2010), salvo il caso delle
concessioni in materia di acque. La scelta del concessionario dovrebbe avvenire tramite procedure
concorsuali (Cons. Stato, sez. V, nn. 3250 e 2151/2011, ove vengono richiamati i principi comunitari di
concorrenza e di libertà di stabilimento).
Occorre in ultimo accennare ad un ulteriore e sempre più rilevante uso diretto dei beni degli enti pubblici,
costituito dal conferimento dei beni stessi come capitale di dotazione nelle aziende speciali ovvero in
società per aziende azioni (art. 118, T.U. enti locali): il bene dell’amministrazione proprietaria diventa in
queste ipotesi elemento del ciclo produttivo posto in essere da miste altro soggetto giuridico pubblico.

26. I beni privati di interesse pubblico: in particolare, i beni culturali appartenenti ai privati

La dottrina individua una categoria più ampia di beni, comprensiva di beni appartenenti a soggetti pubblici e
di beni in proprietà di privati: essa è costituita dai beni di interesse pubblico. In una classificazione del
regime dei beni, si possono collocare al primo posto i beni pubblici, poi i beni privati di interesse pubblico, le
limitazioni alla proprietà privata e i vincoli alla proprietà privata.
La quasi totalità dei beni, soprattutto immobili, è sottoposta a regime amministrativo, nel senso che l’uso
degli stessi e le facoltà dei proprietari sono spesso regolati da norme che attribuiscono compiti alle
amministrazioni. Paradigmatico è il caso dei beni culturali di proprietà privata. Si pensi alle opere d’arte
di particolare valore, ovvero ai beni di interesse storico e archeologico che appartengono ad un privato. Si è
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proposto in dottrina di configurare il bene culturale come bene immateriale di proprietà pubblica inerente a
una o più cose e distinto dal bene patrimoniale privato di cui quelle stesse cose costituiscono il supporto
materiale. Dalla qualificazione del bene come culturale, deriva la presenza di due regimi: quello proprio della
titolarità formale del bene, e quello pubblicistico, connesso all’inerenza a pubblici interessi del bene stesso.
La categoria del bene culturale è stata positivamente riconosciuta dall’art. 148, d.lgs. 1 12/1998 e oggi dal
d.lgs. 42/2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio). L’art. 55 , d.lgs. 42/2004, prevede per i beni
culturali che facciano parte del demanio culturale e che non rientrino nel campo di applicazione dell’art. 54,
non già la regola dell’inalienabilità, bensì quella dell’alienabilità, previo rilascio dell’autorizzazione
ministeriale.

CAPITOLO IV

L’ORGANIZZAZIONE DEGLI ENTI PUBBLICI

1. Cenni all’organizzazione statale: quadro generale

Lo Stato-amministrazione può essere qualificato come ente pubblico, dovendosi riconoscere ad esso la
qualità di persona giuridica in forza di espressi riferimenti normativi. Resta il rilevante problema del carattere
unitario della sua personalità. L’amministrazione statale è infatti estremamente disaggregata ed ha perso
l’originaria compattezza.
L’indubbia frammentazione dell’amministrazione statale e, in particolare, la distinzione in ministeri che
fanno capo a vertici differenti, impongono di adottare una soluzione più articolata, nel senso che occorre
ammettere che, sotto certi profili, la unicità della personalità statale non sussiste.
L’attribuzione dei poteri può avvenire soltanto a favore delle organizzazioni che abbiano l’idoneità ad essere
centri di riferimento di rapporti giuridici attivi e passivi, anche senza possedere la personalità giuridica.
Questo consente di spiegare perché in via di principio non sia precluso ai singoli ministeri di stare in giudizio
autonomamente: si tratta infatti di un riflesso della titolarità di autonomi rapporti sostanziali.

2. In particolare: il governo e i ministeri

Quanto all’analisi degli apparati amministrativi dello Stato, occorre precisare che, al vertice
dell’organizzazione statale è collocato il governo, formato dal Presidente del Consiglio dei ministri, dal
Consiglio dei ministri e dai ministri (art. 92 Cost.). Ai sensi dell’art. 5, c. 2, l. 400/1988, il Presidente del
Consiglio dei ministri ha, tra gli altri, i seguenti compiti: «indirizza ai ministri le direttive politiche e
amministrative in attuazione delle deliberazioni del Consiglio dei ministri, nonché quelle connesse alla
propria responsabilità di direzione della politica generale del governo»; «coordina e promuove l’attività dei
ministri in ordine agli atti che riguardano la politica generale del governo», «adotta le direttive per assicurare
l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza degli uffici pubblici». La presidenza del Consiglio ha una
struttura organizzativa propria alla quale fanno capo vari dipartimenti e uffici.
Il d.lgs. 303/1999 è intervenuto per disciplinare l’ordinamento, l’organizzazione e le funzioni di tale struttura,
della quale si avvale il Presidente del Consiglio dei ministri per l’esercizio delle funzioni di impulso,
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indirizzo e coordinamento attribuitegli dalla Costituzione e dalle leggi. In particolare il Presidente si avvale
della presidenza per l’esercizio in forma integrata delle funzioni attinenti ai rapporti del governo con il
parlamento, con le istituzioni europee, con il sistema delle autonomie e con le confessioni religiose;
responsabile del funzionamento del segretariato generale e della gestione delle risorse umane e strumentali
della presidenza è il segretario generale.
Le funzioni del Consiglio dei ministri sono indicate dall’art. 2 , l. 400/1988: accanto a quella di indirizzo
politico e a quella normativa, possiamo ricordare i poteri di indirizzo e coordinamento, nonché i poteri di
annullamento di ufficio di atti amministrativi. I ministri sono gli organi politici di vertice dei vari dicasteri.
Tali organi sono importanti sotto il profilo amministrativo: l’amministrazione statale è infatti ripartita sulla
base dei ministeri; essi sono sia organi costituzionali sia vertici dell’amministrazione. All’interno dei vari
ministeri sono presenti organi consultivi.
Per l’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, il ministro si avvale di uffici di diretta
collaborazione, «aventi esclusive competenze di supporto e di raccordo con l’amministrazione» (art. 14, c. 2,
d.lgs. 165/2001: uffici di alta amministrazione), istituiti e disciplinati con regolamento adottato ai sensi
dell’art. 17, c. 4-bis, l. 400/1988.
Con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, possono
inoltre essere nominati ministri senza portafoglio, i quali, pur essendo membri del governo, non sono
titolari di dicasteri e, dunque, né di un apparato organizzativo di uffici, né, dal punto di vista contabile, della
gestione di uno stato di previsione della spesa (si pensi al ministro per le pari opportunità). Il ministro può
essere coadiuvato da uno o più sottosegretari nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su
proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il ministro che il sottosegretario
coadiuverà, sentito il Consiglio dei ministri. Essi esercitano le funzioni loro delegate con decreto
ministeriale. Il loro numero non è fissato dalla legge. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei
ministri è il segretario del Consiglio dei ministri.
Ai sensi dell’art. 10, l. 400/1988, come modificato dalla l. 81/2001, a non più di dieci sottosegretari può
essere conferito il titolo di vice ministro, se ad essi sono conferite dal ministro competente deleghe relative
all’intera area di competenza di una o più strutture dipartimentali, ovvero di più direzioni generali. Il numero,
le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri sono determinati dalla legge (art. 95, c. 3, Cost.).
I ministeri svolgono, per mezzo della propria organizzazione, nonché per mezzo delle agenzie, le funzioni di
spettanza statale. Con riferimento ad alcuni dei ministeri prefigurati dal d.lgs. 300/1999 (ad eccezione cioè
del ministero degli affari esteri, del ministero dello sviluppo economico, del ministero della difesa, del
ministero delle comunicazioni e del ministero dell’ambiente e della tutela del territorio), si introduce il
modello di organizzazione caratterizzato dalla presenza, accanto alla figura del ministro, di strutture
dipartimentali cui sono attribuiti «compiti finali concernenti grandi aree di materie omogenee e i relativi
compiti strumentali», compresi quelli di indirizzo e coordinamento delle unità di gestione, quelli di
organizzazione e quelli di gestione delle risorse strumentali, finanziarie e umane (art. 5). Nell’ambito di tale
modello organizzativo scompare la figura del segretario generale, i cui compiti sono distribuiti tra i capi dei
dipartimenti. Negli altri ministeri, invece, la figura del segretario generale può sopravvivere, operando alle
dirette dipendenze del ministro: assicura il coordinamento dell’azione amministrativa; provvede all’istruttoria
per l’elaborazione degli indirizzi e dei programmi di competenza del ministro; coordina gli uffici e le attività
del ministero; vigila sulla loro efficienza e rendimento e ne riferisce periodicamente al ministro.
In questi ministeri la struttura di primo livello è poi costituita dalle direzioni generali. Le direzioni sono
prive di responsabilità complessiva e comportano una certa frammentazione strutturale che, tra l’altro,
giustifica la presenza del segretario generale in funzione del mantenimento dell’unità funzionale dell’azione
amministrativa.
Le agenzie sono strutture che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale
attualmente esercitate da ministeri ed enti pubblici: la previsione della loro istituzione vuole rafforzare il
ruolo di governo del ministero, svuotato da compiti di amministrazione attiva. Il decreto istituisce alcune
agenzie fiscali (agenzia delle dogane, agenzia del demanio); altre sono: l’agenzia industrie difesa; l’ agenzia
per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (ora trasformata in istituto superiore per la protezione e
la ricerca ambientale: d.l. 112/2008, conv. nella l. 133/2008); l’agenzia dei trasporti terrestri e delle
infrastrutture; l’agenzia di protezione civile. Le agenzie operano al servizio delle amministrazioni pubbliche,
comprese quelle regionali e locali. Esse hanno autonomia nei limiti stabiliti dalla legge, sono sottoposte al
controllo della Corte dei conti e ai poteri di indirizzo e vigilanza del ministro, devono essere organizzate in
modo da rispondere alle esigenze di speditezza, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa e si
giovano di un finanziamento annuale a carico dello stato di previsione del ministero; a capo della agenzia è
posto un direttore generale, il cui incarico viene conferito in conformità alle disposizioni dettate per il
conferimento dell’incarico di capo del dipartimento. L’agenzia può stipulare contratti con le amministrazioni
per le prestazioni di collaborazione, consulenza, assistenza, servizio, supporto e promozione (art.9, c.4).
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3. Le strutture di raccordo tra i vari ministeri

I ministeri non operano in modo completamente separato. In primo luogo, il coordinamento dell’attività dei
vari ministeri è assicurato dall’azione politica del Consiglio dei ministri, dal Presidente del
Consiglio dei ministri e dai comitati dei ministri. Di rilievo sono poi il consiglio di gabinetto, organo
collegiale ristretto costituito dal Presidente del Consiglio e dai ministri da lui designati sentito il Consiglio
dei ministri, avente il compito di coadiuvarlo nello svolgimento delle funzioni sopra indicate, anche in vista
del lavoro svolto in seno al Consiglio dei ministri. Altri organi collegiali sono i comitati interministeriali
che possono essere formati anche da soggetti che non siano ministri, in particolare da esperti e da
rappresentanti delle amministrazioni.
Il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) è ormai il comitato
interministeriale più importante. Esso è presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri ed è composto da
ministri. Il Cipe è competente in via generale «su questioni di rilevante valenza economico-finanziaria che
necessitino di un coordinamento a livello territoriale o settoriale»; altre importanti funzioni riguardano le
infrastrutture strategiche e la programmazione delle risorse finanziarie. Di rilievo è anche il Cicr (Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio), il quale si occupa di politica creditizia, esercitando poteri di
direttiva nei confronti del Tesoro e della Banca d’Italia e il Cis (Comitato interministeriale per le
informazioni) che si occupa di politica della sicurezza.
Gli uffici centrali del bilancio (ex ragionerie centrali), presenti in ogni ministero con portafoglio, sono
dipendenti dal dipartimento della Ragioneria generale dello Stato del ministero dell’economia e delle
finanze.
Il quadro organizzativo è completato a livello periferico dalle ragionerie provinciali, che si occupano delle
amministrazioni statali decentrate e che sono raggruppate in dieci circoscrizioni territoriali. Tali uffici, che
dipendono organicamente e funzionalmente dal dipartimento della Ragioneria generale (1. 246/2002),
svolgono altresì compiti di tenuta delle scritture contabili, di programmazione dell’attività finanziaria,
nonché di monitoraggio e di valutazione tecnica dei costi e degli oneri dell’attività.
Il servizio nazionale di statistica (art. 24, l. 400/1988, d.lgs. 322/1989) si articola in una serie di uffici
presenti presso ciascun ministero e ciascuna azienda collegati funzionalmente all’Istat (Istituto centrale di
statistica). Organizzata in un unico complesso, ma svolgente attività a favore di tutta l’organizzazione statale
è l’avvocatura dello Stato, composta da legali che forniscono consulenza alle amministrazioni statali e
provvedono alla loro difesa in giudizio; al suo vertice vi è l’Avvocato generale dello Stato, avente sede in
Roma e nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei
ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Accanto all’Avvocatura generale esistono inoltre
venticinque sedi periferiche (avvocature distrettuali) presso ciascuna sede di Corte d’appello. Occorre poi
ricordare poi l’Agenzia per l’Italia digitale, che ha in particolare il compito di fornire alle amministrazioni
il supporto conoscitivo essenziale per l’attività amministrativa, esercitando altresì funzioni di indirizzo e di
controllo delle scelte di automazione da esse effettuate, di promozione in vista dell’attivazione di «progetti
intersettoriali e di infrastruttura informatica e telematica e di regolamentazione della facoltà di affidamento a
terzi per lo sviluppo informatico» (d.l. 179/2012, conv. nella l. 221/2012, che ha soppresso la DigitPa).
Importanti compiti sono ad esso attribuiti dal d.lgs. 42/2005, che, in particolare, stabilisce che spetta
all’Agenzia curare la progettazione, la realizzazione, la gestione e l’evoluzione del sistema pubblico di
connettività per le pubbliche amministrazioni (che ha la finalità di assicurare il coordinamento informativo e
informatico dei dati tra tutte le amministrazioni e promuovere l’omogeneità nella elaborazione e trasmissione
dei dati stessi, finalizzata allo scambio e diffusione delle informazioni e alla realizzazione di servizi integrati)
, potendo altresì stipulare con più fornitori a livello nazionale uno o più contratti-quadro con cui i prestatori si
impegnano a contrarre con le singole amministrazioni alle condizioni ivi stabilite.
Il servizio di tesoreria dello Stato è costituito dall’insieme di operazioni e atti attraverso i quali il denaro
acquisito dallo Stato viene raccolto, conservato e impiegato: si tratta in particolare delle operazioni di
acquisizione di entrate e di effettuazione di spese di bilancio. L’art. 6, d.lgs. 430/1997 stabilisce che il
servizio di tesoreria centrale dello Stato sia affidato sulla base di apposita convenzione alla Banca d’Italia. Il
sistema di tesoreria unica, istituito con l. 720/1984, consiste nell’obbligo per tutti gli enti del settore
pubblico, pur dotati di un proprio tesoriere, di mantenere le proprie disponibilità liquide in contabilità
speciali presso le sezioni di tesoreria dello Stato, sottraendole al sistema bancario e cioè ai tesorieri dei
singoli enti, costituiti appunto di norma da istituti di credito). In tal modo si limita la formazione di giacenze
al di fuori della tesoreria statale, altresì in parte finanziando il fabbisogno statale. Gli enti locali, in sostanza,
possono gestire fuori dalla tesoreria dello Stato tutte le entrate c.c. proprie, realizzando interessi attivi più
elevati. L’art. 35, d.l. 1/2012, conv. nella l. 27/2012, ha sospeso questo sistema fino al 31 dicembre 2014,
sicché ora è applicabile il regime di cui alla l. 720.

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4. Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e il Cnel

All’unità dell’azione dello Stato è preordinata l’attività di altri organi, caratterizzati dalla peculiare
collocazione loro riservata nell’ambito del nostro ordinamento, dall’indipendenza di cui godono, nonché
dalla circostanza che essi non svolgono funzioni di amministrazione attiva, bensì funzioni strumentali
(consultive, di controllo, di proposta) rispetto all’attività degli organi costituzionali. Essi sono costituiti dal
Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti e dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro.
Il Consiglio di Stato è l’organo di consulenza giuridico-amministrativa di Stato e di tutela della giustizia
nell’amministrazione (art. 100, c. l, Cost.), ed è un autonomo potere dello Stato che può rendere pareri anche
alle regioni (Cons. Stato, ad. gen., n. 30/1980). Le sezioni consultive del Consiglio di Stato sono tre (I, II e
III), cui si aggiunge quella istituita dall’art. 17, c. 28, l. 127/1997, per l’esame degli schemi di atti normativi
in ordine ai quali il parere è prescritto per legge o è comunque richiesto dall’amministrazione; l’adunanza
generale, composta da tutti i magistrati, ha pure funzioni consultive.
La Corte dei conti, oltre ad esercitare funzioni di controllo (art. 100 Cost.), dispone altresì di funzioni
giurisdizionali ed esercita altre funzioni non citate nella Costituzione. Vengono in rilievo le funzioni
consultive, principalmente con riferimento ai disegni di legge governativi che modificano la legge sulla
contabilità dello Stato (art. 88, r.d. 2440/1923) e alle proposte di legge riguardanti l’ordinamento e le
funzioni della Corte (d.lgs. 273/1939). La disciplina più recente (art. 7, l. 131/2003) ha inciso sulla funzione
consultiva in materia di contabilità pubblica (con una serie di deliberazioni ha posto indirizzi e criteri
generali per l’esercizio dell’attività consultiva); vi sono altresì le funzioni certificative in materia di
contrattazione collettiva (la Corte verifica l’”attendibilità” dei costi quantificati e la loro compatibilità con gli
strumenti di programmazione e bilancio). Un’ulteriore funzione è quella referente (art. 100 Cost.), dato che la
Corte “riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito”. La Corte è potere dello Stato
quando svolge attività di controllo preventivo e successivo sulla gestione e, al contempo, appartiene al potere
giurisdizionale nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. La Corte cost. (sent. n. 335/1995) ha escluso la
legittimazione delle sezioni di controllo della Corte dei conti a sollevare questioni di costituzionalità in sede
di riscontro successivo di gestione, mentre l’ha ammessa con riferimento alle leggi che la Corte medesima
deve applicare nell’esercizio della sua funzione di controllo preventivo con decreti governativi.
L’indipendenza della Corte dei conti in quanto istituto e dei componenti di fronte al governo è oggi
richiamata dall’art. 100 Cost., mentre l’art. 108, c. 2, prevede che la legge assicuri l’indipendenza dei giudici
delle giurisdizioni speciali. Sotto il profilo organizzatorio, la sua indipendenza è accentuata dalla presenza di
un organo di autogoverno della Corte stessa, costituito dal Consiglio di presidenza, istituito con l. 117/1988
(mod. dal d.lgs. 62/2006 e dalla l. 15/2009). La separatezza dell’esecutivo risulta in parte pregiudicata dal
fatto che la nomina di una limitata quota dei poteri di consigliere spetta al governo, così come a esso spetta la
nomina degli uffici superiori. La figura del presidente aggiunto è stata introdotta dall’art. 6-bis, d.l. 354/2003,
conv. nella l. 45/2004. Per l’esercizio delle sue funzioni amministrative, nella sede centrale di Roma la Corte
dei conti è composta da cinque sezioni di controllo (una per gli atti del governo e dell’amministrazione
centrale, una per il controllo successivo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, una sezione delle
autonomie, che si occupa dell’andamento della finanza di regioni ed enti locali, una per gli enti cui lo Stato
contribuisca in via ordinaria, una sezione affari comunitari e internazionali). In ogni regione esistono inoltre
sezioni regionali di controllo che hanno riassorbito le competenze delle preesistenti delegazioni e dei collegi
regionali. A seguito della introduzione del sistema dei controlli interni, il decreto istitutivo di tale sistema
impone l’adeguamento dell’organizzazione delle strutture di controllo della Corte dei conti, stabilendo che il
numero, la composizione e la sede degli organi della stessa Corte adibiti a compiti di controllo preventivo su
atti o successivo su pubbliche gestioni e degli organi di supporto siano determinati dalla Corte stessa,
nell’esercizio dei poteri di autonomia finanziaria, organizzativa e contabile ad essa conferiti dall’art. 4, l.
20/1994.
Un ruolo di nomofilachia è stato assegnato alla sezione delle autonomie dal d.l. 174/2012, conv. nella l.
213/2013: in presenza di interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per l’attività di controllo o
consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, tale sezione emana una
delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano.
L’art. 100 Cost. contempla, quali soggetti con cui l’Istituzione entra in relazione, oltre alla Corte, anche il
Governo, e soprattutto, il Parlamento. Dopo che la sent. della Corte cost., n. 29/1995 ha sancito la
trasformazione della Corte da Istituzione che si occupa principalmente dello Stato a “Corte dei conti
pubblici”, nell’attuale contesto normativo la Corte deve assicurare la sostenibilità finanziaria del
regionalismo e il rispetto del patto di stabilità a tutti i livelli; ciò avviene soprattutto in forza dei controlli sui
bilanci e dei documenti finanziari che, originariamente previsti per quello dello Stato, si sono estesi a quelli
degli enti locali e alle regioni (d.l. 174/2012, conv. nella l.213/2012). Il raccordo con la tutela degli interessi
collettivi trova conferma nella disciplina di cui all’art. 2, c. 2, d.lgs. 39/2012, secondo cui le amministrazioni
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pubblicano, unitamente agli atti cui si riferiscono, tutti i rilievi ancorché recepiti della Corte dei conti,
riguardanti l’organizzazione e l’attività dell’amministrazione o di singoli uffici.
Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), previsto dall’art. 99 Cost. come organo ausiliario
del governo, a differenza degli altri due organi di cui sopra, non è inserito, neppure dal punto di vista
strutturale e organico, nell’apparato amministrativo. Esso è composto da un presidente e 64 membri e svolge
compiti di consulenza tecnica (rendendo pareri facoltativi) e di sollecitazione nelle materie dell’economia e
del lavoro dell’attività del parlamento (attraverso l’iniziativa legislativa), del governo e delle regioni.

5. Le aziende autonome e gli istituti pubblici

Le aziende autonome o amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo sono amministrazioni


caratterizzate dal fatto di essere incardinate presso un ministero e di avere ciò nonostante una propria
organizzazione, separata da quella ministeriale. Le amministrazioni autonome svolgono in genere attività
prevalentemente tecnica, amministrano in modo autonomo le relative entrate, dispongono di capacità
contrattuale e sono titolari di rapporti giuridici, pur non avendo un proprio patrimonio (il patrimonio è infatti
dello Stato). Peraltro, poiché la loro attività consiste spesso nella produzione di beni o di prestazione di
servizi, molte di esse, ritenendosi preferibile l’adozione del regime imprenditoriale, sono state trasformate in
enti pubblici economici o in società per azioni.
Il bilancio e il rendiconto dell’azienda sono allegati al bilancio dello Stato. Alcune aziende sono assoggettate
al controllo della Corte dei conti e sono difese in giudizio dall’avvocatura dello Stato.
Diverse aziende autonome sono state soppresse, alcune delle quali sono state sostituite: l’Amministrazione
autonoma dei monopoli di Stato (oggi Ente tabacchi italiani), l’Azienda di Stato per le foreste demaniali,
l’Azienda di Stato per i servizi telefonici (oggi Telecom S.p.A.), l’Azienda per gli interventi sul mercato
agricolo (oggi Agea, Agenzia per le erogazioni in Agricoltura).
Il termine di azienda non è impiegato dalla legislazione con riferimento soltanto a quelle statali: a livello
locale, in passato, un notevole ruolo hanno avuto le aziende nel settore dei servizi pubblici; a livello
regionale sono aziende le Aziende sanitarie locali (ASL), enti delle regioni Si tratta in ogni caso di soggetti
aventi personalità giuridica.
Gli istituti pubblici sono organismi facenti parte di un ente e creati per la produzione e la prestazione di beni
e servizi a terzi. Gli esempi tradizionalmente riportati sono quelli degli istituti di istruzione, delle unità
sanitarie locali e delle aziende di trasporto e di fornitura dei servizi. Si deve però osservare che hanno
personalità giuridica sia le aziende speciali (T.U. enti locali), sia le unità sanitarie locali, oggi definite
aziende.

6. Le amministrazioni indipendenti

L’esperienza legislativa più recente è caratterizzata dall’introduzione di modelli di amministrazione


assai differenziati rispetto a quelli tradizionali: le amministrazioni indipendenti.
L’introduzione di molte di queste amministrazioni segna un diverso modello di intervento sul mercato da
parte del potere pubblico: non più la presenza diretta di imprese pubbliche, ma l’assunzione di un ruolo di
controllo e di regolazione che corrisponde allo slogan «meno Stato, più mercato».
Come autorità indipendenti vengono generalmente ricordati: la Banca d’Italia; la Consob; l’Istituto per la
vigilanza sulle assicurazioni (Ivass: d.l. 95/2012, conv. nella l. 13572012); l’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni; l’Autorità garante della concorrenza e del mercato; l’Autorità per la vigilanza sui lavori
pubblici; l’Autorità per l’energia elettrica e il gas; l’Autorità di regolazione dei trasporti(d.l. 214/2011, conv.
nella l. 214/2011). In dottrina si discute se la Banca d’Italia, a cui partecipano istituti di credito di diritto
pubblico, sia da includere tra le autorità indipendenti. La Banca, qualificabile come ente pubblico a struttura
associativa, è istituto di emissione e svolge le funzioni di vigilanza sulle aziende di credito e di governo del
settore valutario e monetario. Il suo organo di vertice è costituito dal Governatore: esso è nominato (e
revocato) con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e
parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia. Il mandato ha la durata di sei anni ed è rinnovabile una
sola volta. La Banca dispone di notevole autonomia di azione organizzativa, finanziaria e contabile. Essa, dal
punto di vista formale, è soggetta alla vigilanza del ministero dell’economia, sicché, sotto questo profilo, si
differenzia dalle altre autorità indipendenti che non fanno capo ad alcun ministero. Oggi un ruolo centrale
nella determinazione della politica monetaria riveste la Banca centrale europea, le cui istruzioni sono

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eseguite dal Sistema europeo delle banche centrali, nel quale sono integrate tutte le banche centrali nazionali
dei paesi membri.
Le Autorità dispongono per lo più di autonomia organizzativa e funzionale; sono titolari di poteri
provvedimentali, in particolare sanzionatori (Consob, Ivass a Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) e
talora regolamentari (Ivass); sono soggette al controllo della Corte dei conti. Le Autorità di regolazione
dispongono di poteri ulteriori.
I vertici delle autorità diverse da quelle operanti nei settori delle telecomunicazioni, dell’elettricità e del gas
sono generalmente nominati o designati dai presidenti delle camere, ovvero (è il caso del Garante per la
tutela della privacy) eletti per metà dalla camera e per metà dal senato. Norme volte a ridurre i costi di
funzionamento delle autorità sono state dettate dall’art. 23, d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011 (in
particolare è stata prevista la riduzione del numero dei componenti dei consigli deliberativi).
L’elemento veramente caratterizzante delle autorità consiste nel fatto che esse sono indipendenti dal potere
politico del governo pur dovendo, di norma, trasmettere relazioni a questo, oltre che al Parlamento, in ordine
all’attività svolta. Di conseguenza, le autorità non sono tenute ad adeguarsi all’indirizzo politico espresso
dalla maggioranza e adottano decisioni simili a quelle degli organi giurisdizionali. L’indifferenza rispetto agli
interessi in gioco ha suggerito di qualificarne la posizione come «neutrale». L’indipendenza, poi, soprattutto
per le Autorità che agiscono su peculiari mercati, deve anche essere riferita agli interessi imprenditoriali.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni «opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio
e di valutazione», e il suo presidente è nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del
Presidente del Consiglio dei ministri d’intesa con il ministro delle comunicazioni; l’Ivass è sottoposta a
poteri di direzione esercitati dal ministro delle attività produttive sulla base degli indirizzi fissati dal Cipe.
Sotto il profilo strutturale, i membri della Consob e il presidente dell’Ivass sono legati all’esecutivo in
quanto la loro nomina è rispettivamente effettuata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri,
previa deliberazione del Consiglio dei ministri, e con decreto del Presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro delle attività produttive.
L’indipendenza di cui le amministrazioni indipendenti godono nei confronti dell’esecutivo vale a
differenziarle notevolmente dagli altri enti pubblici, i quali, sotto profili diversi, sono comunque rapportati
allo Stato e riconducibili al modello di cui all’art. 95 Cost.: le amministrazioni indipendenti rispondono
invece alla logica di dislocare al di fuori della sfera di influenza politica settori amministrativi ritenuti
particolarmente delicati.
Accanto al tema dell’indipendenza, altri due nodi teorici e pratici molto delicati che interessano le autorità
sono costituiti dalla profondità del sindacato sulla discrezionalità tecnica da esse esercitato e dal rispetto del
principio di legalità, in ragione della presenza di poteri impliciti.
Numerose tra le Autorità indipendenti sono state istituite in relazione a particolari mercati aperti alla
concorrenza e a garanzia di libertà costituzionali; in queste ipotesi esse (spesso definite “Autorità di
regolazione”) sono in via di principio chiamate a verificare, anche esercitando poteri giustiziali, la
compatibilità del comportamento degli operatori economici, pubblici o privati, con tali libertà e con le regole
della concorrenza e, eventualmente, a tutelare gli utenti.
In tema di liberalizzazione come apertura del mercato, occorre effettuare un’analisi, volta anche a
comprendere altri istituti (Scia, servizi pubblici):
• altro è liberalizzare un settore nel senso di rimettere completamente alla dinamica del mercato la cura
di interessi rilevanti, sul presupposto che non occorra alcun diretto intervento pubblico;
• altro ancora è intervenire per ridurre limiti e vincoli là dove gli ostacoli da rimuovere sono giuridici
(farmacie o taxi), nel senso che misure sostanzialmente protezionistiche impediscono l’accesso di
nuovi operatori sul mercato;
• altro, poi, è liberalizzare un ambito là dove si richiedono interventi amministrativi che ne
accompagnano l’apertura (ad esempio ove esiste un monopolio naturale e in talune ipotesi di servizi
pubblici: art. 15, d.l. 1/2012, conv. nella l. 27/2012, sulla separazione proprietaria in tema di gas).
Nel primo caso il potere pubblico si ritrae dalla definizione di un’offerta di mercato: ciò non significa che le
attività siano così del tutto immuni da condizionamenti e controlli pubblicistici. Nel secondo caso, occorre
procedere all’abbattimento di barriere giuridiche e regimi amministrativi, nonché al “disboscamento” di
norme previste in funzione di protezione degli operatori già esistenti invece che di cura di interessi superiori
e sensibili. Nel terzo caso, l’ordinamento ritiene che una «liberalizzazione» pura e semplice di particolari
mercati, sicuramente rispondente all’esigenza di una maggior concorrenzialità, lascerebbe irrisolto il
problema di salvaguardare esigenze in senso lato collettive. La liberalizzazione, di conseguenza, non si
risolve in una mera apertura alla concorrenza di alcuni settori e nel semplice superamento delle posizioni
monopolistiche (che passa anche attraverso la privatizzazione dei soggetti pubblici). Essa comporta pure la
separazione tra regolazione e gestione e, sovente, una regolazione, e cioè la creazione artificiale di regole di

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comportamento suscettibili di garantire che la competizione avvenga ad armi pari e di evitare il pericolo che
la ricerca del profitto conduca alla formazione di posizioni restrittive della concorrenza o comunque frustri
finalità sociali e collettive. In sostanza, la regolazione ha una funzione pro concorrenziale e/o mira a evitare
la formazione di esternalità con riferimento alle attività degli operatori.
Le Autorità sono dunque preposte a vigilare alcuni settori sensibili del mercato: ciò consente di qualificarle
come soggetti aventi funzione di regolazione di settore, rispetto alle quali l’indipendenza organizzativa
sarebbe soltanto strumentale (si pensi all’Autorità per l’energia elettrica e il gas). Esse hanno il precipuo
compito di regolare e controllare ciascuna un settore sensibile, proteggendo in particolare gli interessi degli
utenti e disponendo di poteri di segnalazione, di fissazione di standard, criteri e parametri di riferimento,
nonché poteri in tema di decisione dei reclami, di fissazione delle tariffe e così via.
Un’ulteriore figura, non istituita a livello di organizzazione statale ma che, pur occupandosi di questioni assai
diverse da quelle che impegnano le autorità e non disponendo di poteri decisori, presenta alcuni profili di
analogia con esse è quella del difensore civico. L’art. 2, c. 186, lett. a), l. 191/2010 (c.d. finanziaria per il
2010), prevede la soppressione della figura del difensore civico comunale e l’attribuzione delle sue funzioni
al difensore civico provinciale. In ogni caso, esso è nato come soggetto chiamato ad atteggiarsi a snodo
flessibile e informale di collegamento tra cittadini e poteri pubblici, in grado di assicurare una maggiore
trasparenza dell’organizzazione amministrativa, capace di offrire ulteriori occasioni di giustificabilità della
sua azione e di consentire forme di partecipazione, forse atipiche, ma comunque aggiuntive rispetto a quelle
tradizionali. Al difensore civico spetta poi il compito di riesaminare, su istanza dell’interessato, le richieste di
accesso in caso di rifiuto o di differimento La legge attribuisce a tale organo una pluralità di funzioni che
vanno dalla tutela dei cittadini alla difesa della legalità, dalla ricerca della trasparenza all’azione finalizzata al
miglioramento del rapporto cittadini-amministrazione e alla responsabilizzazione dei soggetti pubblici; in
ogni caso trattasi di poteri non incisivi come quelli di altri organi: il difensore non può infatti annullare o
riformare atti, imporre misure sanzionatorie conseguenti al controllo o emanare provvedimenti decisori.

7. Gli enti parastatali e gli enti pubblici economici

Si è detto che l’organizzazione statale è completata dalla presenza di enti strumentali rispetto ad essa. In
primo luogo, vengono in evidenza gli enti parastatali: il termine è usato per definire gli enti disciplinati
dalla l. 70/1975. Detta legge si applica a tutti gli enti con esclusione di quelli espressamente indicati e li
raggruppa in sette categorie in base al settore di attività: gli enti che gestiscono forme obbligatorie di
previdenza e assistenza; gli enti di assistenza generica; gli enti di promozione economica; gli enti preposti a
settori di pubblico interesse; gli enti preposti ad attività sportive, turistiche e del tempo libero; gli enti
scientifici di ricerca e di sperimentazione; gli enti culturali e di promozione turistica. La legge prevede altresì
la soppressione o la fusione degli enti (c.d. enti inutili) non compresi in apposito elenco adottato con decreto
del Presidente della Repubblica, ove sono inclusi gli enti «necessari ai fini dello sviluppo economico, civile,
culturale e democratico del Paese» (art. 3). Con la l. 88/1989 è stata disciplinata in modo particolare la
struttura di Inps e Inail, estendendo a tali istituti l’applicazione dei criteri di economicità e di
imprenditorialità, mentre con d.lgs. 479/1994 è stato previsto il riordino degli enti di previdenza e di
assistenza (art. 21, d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011). Ricompreso tra gli enti parastatali è anche il Coni,
soggetto che si pone al vertice dell’ordinamento sportivo pubblicistico italiano, e che svolge compiti di
potenziamento dello sport nazionale e di sorveglianza e di tutela delle organizzazioni sportive, in particolare
delle federazioni sportive nazionali: queste svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni del
Comitato olimpico internazionale (CIO) e del Coni anche in considerazione della valenza pubblicistica di
specifici aspetti di tale attività (art. 15, c. l, d.lgs. 242/1999; il decreto è stato modificato dal d.lgs. 15/2004).
Esse non perseguono scopi di lucro e hanno natura di associazioni con personalità giuridica di diritto privato.
Un’altra categoria di enti strumentali è quella degli enti pubblici economici, in ordine ai quali si discute se
siano applicabili almeno alcuni tratti della disciplina propria degli enti pubblici. Gli enti pubblici economici
sono titolari di impresa e agiscono con gli strumenti di diritto comune. La tendenza legislativa più recente è
quella di operarne la trasformazione in società per azioni, strumento ritenuto più adatto ai fini della gestione
dell’impresa. Le società per azioni a partecipazione statale rivestono una posizione simile e strumentale
rispetto allo Stato a quella tradizionalmente occupata dagli enti pubblici economici. Natura di ente pubblico
economico hanno l’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac: d.lgs. 250/1997), le ASL, l’agenzia del
demanio, i Consorzi di sviluppo industriale e quelli tra comuni per la gestione di servizi pubblici. All’interno
degli enti economici, si distinguono quelli che svolgono direttamente attività produttiva di beni e servizi da
quelli che detengono partecipazioni azionarie in società a capitale pubblico (enti di gestione delle
partecipazioni azionarie: ad esempio Iri ed Eni).
Poiché gli enti pubblici economici operano con gli strumenti di diritto comune, si contesta la riferibilità ad
essi dell’autarchia; l’ordinamento riconosceva ad alcuni enti pubblici il potere di emanare provvedimenti
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amministrativi (nel caso dell’Enel, ciò avveniva con riferimento alla concessione delle attività di produzione,
trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica nei confronti delle imprese private).
Gli ordini e collegi professionali sono enti pubblici associativi, ad appartenenza necessaria, esponenziali
della categoria di professionisti che realizzano l’autogoverno della categoria stessa. Essi raggruppano gli
individui che svolgono peculiari attività professionali: si pensi ai consigli dell’ordine degli avvocati, ai
consigli dell’ordine dei dottori commercialisti, ai collegi dei geometri e così via; questi enti sono disciplinati
da leggi specifiche e svolgono la funzione di tenuta degli albi in cui sono iscritti i professionisti, di disciplina,
di determinazione delle tariffe e degli onorari relativi alle prestazioni professionali. Alcuni ordini poi
esercitano una funzione materialmente giurisdizionale.
Le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura sono enti di diritto pubblico che svolgono
funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese (l. 580/1993). Si tratta di enti ad appartenenza
necessaria di tipo associativo a competenza territorialmente delimitata (esse operano a
base provinciale), che raggruppano i commercianti, gli industriali, gli agricoltori e gli artigiani. Tra i compiti
più importanti affidati a questi enti possono ricordarsi la cura degli interessi delle categorie rappresentate, la
tenuta del registro delle imprese, la formazione di mercuriali e listini prezzi, l’amministrazione delle borse
valori. Di rilievo sono le funzioni di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese, nonché
quelle di promozione della formazione di commissioni arbitrali e conciliative per la soluzione delle
controversie tra imprenditori e tra questi e i consumatori.
L’art. 1, c. 4, lett. d), l. 59/1997, esclude il conferimento a regioni, province e comuni dei compiti esercitati
localmente in regime di autonomia funzionale dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura,
configurate come autonomie funzionali. Ai sensi dell’art. 2, c. 2-bis, l. 59/1997, le camere di commercio
esercitano pure funzioni regolamentari. La vigilanza sull’attività delle camere di commercio prevista dalla l.
580/1993 è svolta dal ministero delle attività produttive, il quale presenta ogni anno al parlamento una
relazione generale sulla loro attività, redatta sulla base delle relazioni trasmesse dalle regioni; il controllo
sugli organi camerali, compreso lo scioglimento dei consigli camerali, è ora svolto dalle regioni, alle quali è
garantita la presenza di loro rappresentanti nel collegio dei revisori dei conti.

8. L’amministrazione statale periferica

L’amministrazione dello Stato è presente non solo al centro, ma anche sul territorio nazionale secondo il
modello del decentramento burocratico, il quale ha dato luogo all’amministrazione statale periferica: sul
territorio nazionale convivono dunque l’amministrazione statale periferica, quella regionale e degli enti
locali. Ai sensi dell’art. 9, l. 265/1999, quando ragioni di economicità e di efficienza lo richiedono, gli uffici
periferici dell’amministrazione dello Stato possono essere situati nel capoluogo di provincia o in altro
comune della provincia. Alcuni ministeri (ad esempio commercio estero, università) difettano di
un’organizzazione periferica.
Al vertice di ogni ufficio periferico è presente un dipendente del ministero, mentre la difesa in giudizio e le
funzioni consultive spettano alle avvocature distrettuali dello Stato, aventi sede in ogni capoluogo in cui
opera una Corte d’appello. Il controllo sulla spesa è esercitato dalle ragionerie provinciali dello Stato
incardinate presso il ministero dell’economia e delle finanze, che svolgono nei confronti degli organi
decentrati dell’amministrazione statale le funzioni attribuite a livello centrale agli uffici centrali del bilancio
presenti presso ogni ministero.
Il servizio di tesoreria provinciale è affidato, con apposita convenzione, alla Banca d’Italia, che lo esercita
tramite le proprie sedi e succursali presenti in ogni capoluogo di provincia.
Le ripartizioni periferiche sono svariate: vi è peraltro un organo periferico che, storicamente, ha assunto un
ruolo prevalente nell’ambito provinciale, anche perché non tutte le strutture ministeriali hanno
un’organizzazione periferica: si tratta del prefetto, organo del ministero dell’interno, preposto all’ufficio
territoriale del governo, chiamato sia a rappresentare il potere esecutivo nella provincia, sia, più in generale, a
svolgere la funzione di tramite tra centro e periferia, soprattutto in forza dei compiti di controllo sugli enti
locali ad esso in passato attribuiti. Esso ha importanti compiti in tema di ordine pubblico e di sicurezza
pubblica nella provincia, di elezioni politiche e amministrative, di esercizio del diritto di sciopero nei
pubblici servizi; inoltre spetta a tale organo il riconoscimento delle persone giuridiche private. Il d.lgs.
300/1999, ha istituito la conferenza provinciale permanente dei responsabili degli uffici statali,
presieduta dal prefetto e composta dai responsabili degli uffici decentrati delle amministrazioni statali. Il
prefetto, tra l’altro, può richiedere ai responsabili delle strutture amministrative periferiche dello Stato
l’adozione di provvedimenti volti ad evitare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla cittadinanza
anche ai fini del rispetto della leale collaborazione con le autonomie territoriali.
L’art. 11, d.lgs. 300/1999, come modificato dal d.lgs. 29/2004, ha trasformato le prefetture in
Prefettureuffici territoriali del governo (c. l) a cui sono preposti i prefetti. Tali uffici assicurano l’esercizio
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coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato e garantiscono la leale cooperazione
dei medesimi con gli enti locali. Il d.p.r. n. 180/2006 (regolamento di attuazione) disciplina anche i poteri di
intervento sostitutivo del prefetto nei confronti degli uffici statali periferici, nonché i comitati provinciali
permanenti e le conferenze permanenti regionali che coadiuvano il prefetto nel capoluogo di regione. Il d.l.
95/2012, conv. nella l. 135/2012, dispone che la Prefettura assicura, nel rispetto dell’autonomia funzionale e
operativa degli altri uffici periferici delle amministrazioni statali, le funzioni di rappresentanza unitaria dello
Stato sul territorio.
In ordine al problema del rapporto, a livello regionale, tra le funzioni amministrative statali e quelle regionali,
deve essere ricordato che la Costituzione ne affidava il coordinamento al Commissario del governo nella
regione (art. 124, ora abrogato dalla l. cost. 3/2001). La figura del Commissario è scomparsa nelle regioni a
statuto ordinario (mentre permane in quelle a statuto speciale, in Sicilia con denominazione diversa) in forza
della riforma costituzionale e della l. 131/2003.

9. L’organizzazione amministrativa territoriale non statale: la disciplina costituzionale e le recenti


riforme

La recente riforma del titolo V della parte II della Costituzione operata dalla l. cost. 3/2001, nel quadro di una
modifica assai incisiva dei poteri locali, ha interessato in modo determinante la fisionomia delle regioni.
Occorre premettere che molte tra le disposizioni statali già esaminate (ad esempio in tema di pubblico
impiego e di controlli) o che saranno nel prosieguo richiamate (procedimento, contratti) attengono a materie
che parrebbero rientrare nella potestà legislativa regionale (concorrente o residuale).
In relazione alle funzioni amministrative, occorre sottolineare che l’art. 118 Cost. ammette una doppia
lettura: quella secondo cui i comuni sono «titolari» di tutte le funzioni amministrative, secondo il modello dei
«poteri originari», e quella in forza della quale le funzioni e i poteri sono ad essi conferiti da regioni e Stato
(«poteri derivati»). Vi è un’opinione importante secondo cui occorre una legge per distribuire le funzioni,
negando così che la Costituzione sia immediatamente applicativa e abbia direttamente operato conferimenti
di funzioni, esprimendo l’art. 118 al più un indirizzo per il legislatore.
Accanto alle funzioni proprie (le quali identificano l’ente nella sua qualità di soggetto esponenziale di una
comunità) vi sono le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, che vanno
identificate con la legge statale, che danno sostanza all’autonomia e alla missione che l’ente è chiamato a
svolgere in seno all’ordinamento.
L’art. 118 Cost. afferma che la distribuzione delle funzioni tra gli enti territoriali deve avvenire «sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza».
Alcune funzioni sono escluse dal processo di distribuzione verso l’alto: si tratta delle funzioni fondamentali
degli enti locali. Si è al cospetto di uno strumento mediante il quale lo Stato può sottrarre alcuni ambiti al
processo di conferimento: ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. p), Cost., la loro disciplina è riferita unicamente alla
legge di Stato. L’indicazione delle funzioni fondamentali dei comuni è contenuta nell’art. 19, d.l. 95/2012,
conv. nella l. 135/2012.
Le regioni, che hanno tra l’altro un diritto a partecipare alla formazione degli atti normativi comunitari (art.
117, c. 5, Cost.; art. 5, l. 11/2005 e art. 5 , l. 131/2003), dispongono di potestà legislative e amministrative.
L’art. 117 Cost. prevede la potestà legislativa regionale c.d. concorrente relativamente ad alcune materie e
stabilisce che alle regioni spetta la «potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato».
Le regioni, ai sensi dell’art. 118 Cost., esercitano altresì funzioni amministrative conferite ad esse «per
assicurarne l’esercizio unitario» «sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»: si
tratterà presumibilmente delle funzioni di indirizzo, di programmazione e di controllo. Esse dovranno
comunque essere individuate dalle leggi statali e regionali.
Quanto ai limiti che le regioni incontrano nell’esercizio delle funzioni amministrative, va osservato che, fin
dalle prime leggi che ne hanno attuato il trasferimento alle regioni, è stato configurato un potere governativo
di indirizzo e coordinamento, «attinente ad esigenze di carattere unitario» (art. 3, c. l, l. 382/1975). L’art.
118, c. 3, Cost. prevede oggi che la legge statale disciplini «forme di coordinamento tra Stato e regioni »
nelle materie dell’immigrazione e dell’«ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia
amministrativa locale», nonché «forme di intesa e coordinamento» nella materia dei beni culturali.
Occorre affrontare il tema degli «altri enti locali». Questa categoria era contemplata nell’originaria
formulazione enti locali della norma, mentre oggi il termine è usato nel dettato costituzionale soltanto
nell’art. 123, per indicare i «governi locali» diversi dalle regioni. Un deciso impulso al perfezionamento del
sistema regionale fu rappresentato dalla l. 59/1997, contenente delega al governo per il conferimento di
funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la

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semplificazione amministrativa. In particolare questa legge diede attuazione al titolo V, come allora vigente,
della Costituzione, che imponeva l’attribuzione alle regioni delle funzioni loro spettanti, nel segno di un
significativo rafforzamento delle autonomie territoriali. Si attende il completamento del disegno “federalista”
delineato dalla l. 42/2009, legge delega che ha originato numerosi decreti legislativi: il n. 85/2010 sul
federalismo demaniale, il n. 68/2011 sull’autonomia tributaria di regioni e province e sui costi standard del
sistema sanitario, il n. 149/2011, relativo ai meccanismi sanzionatori e premiali per regioni, province e
comuni. La l. 59/1997 si ispira al principio di sussidiarietà: l’art. l, c. 2, stabilisce che sono conferite alle
regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla
promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi
localizzabili nei rispettivi territori; nell’art. 2 il principio di sussidiarietà è indicato espressamente tra i
principi e i criteri direttivi vincolanti per il governo nella disciplina da esso posta mediante decreto delegato.
In attuazione della l. 59/1997 è stato emanato il d.lgs. 1 12/1998, che ha proceduto ad operare il conferimento
di funzioni e compiti. Le materie interessate dal conferimento sono: sviluppo economico e attività produttive,
territorio, ambiente e infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità, polizia amministrativa regionale e
locale. Pur stabilendo che restano ferme le disposizioni in materia di poteri sostitutivi poste dalla legislazione
vigente, l’art. 5, d.lgs. 112/1998, prevede un potere sostitutivo in relazione alle funzioni e ai compiti spettanti
alle regioni e agli enti locali «in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi
derivanti dall’appartenenza all’Unione europea o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali»; l’art.
cit. non distingue tra funzioni e compiti attribuiti alle regioni e quelli spettanti agli enti locali e, soprattutto,
supera il limite del riferimento alle sole funzioni delegate, nel senso che ammette l’esercizio del potere
sostitutivo anche in caso di inattività nell’esercizio di funzioni attribuite alla regione. In particolare, il
Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente, assegna all’ente inadempiente un
congruo termine per provvedere, decorso inutilmente il quale, il Consiglio dei ministri, sentito il soggetto
inadempiente, nomina un commissario che provvede in via sostitutiva. Ulteriori poteri sostitutivi sono
stabiliti dall’art. 7, c. l0 e 11, in relazione alla mancata adozione degli atti con cui il soggetto conferente deve
provvedere al trasferimento delle risorse necessarie per l’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti. Il
nuovo testo dell’art. 120 Cost. disciplina il potere sostitutivo del governo nei confronti degli «organi delle
regioni, delle città metropolitane, delle province e dei comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati
internazionali o della normativa comunitaria oppure di grave pericolo per l’incolumità e la sicurezza
pubblica…». Ai sensi dell’u.c., la legge «definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano
esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione». Le disposizioni
attuative sono state poste dall’art. 8, l. 131/2003, che introduce i seguenti principi: i provvedimenti sostitutivi
devono essere proporzionati alle finalità perseguite, all’ente interessato deve essere assegnato un congruo
termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari, decorso inutilmente il quale il governo adotta i
provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario. La normativa ordinaria
prevede che il decentramento avvenga anche da parte delle regioni e a favore di province, comuni e altri
enti locali. L’art. 4, c. l, l. 59/1997, infatti, stabilisce che la regione conferisca a tali ultimi enti «tutte le
funzioni che non richiedono l’unitario esercizio a livello regionale». In materia di poteri sostitutivi, Corte
cost., n. 43/2004 ha stabilito che l’art. 120 non preclude, in via di principio, la possibilità che la legge
regionale, intervenendo in materie di propria competenza, e nel disciplinare l’esercizio di funzioni
amministrative di competenza dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo a organi regionali, per
il compimento di atti o di attività obbligatorie, nel caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente
competente, al fine di salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o
dall’inadempimento medesimi. La riforma «Bassanini» si occupa anche dei poteri di indirizzo, di
coordinamento e di direttiva. Dall’esame delle linee essenziali della riforma posta in essere sulla base della
l. 59/1997, emerge un modello nel quale la regione e gli enti territoriali non solo vedono rafforzato il proprio
ruolo rappresentativo degli interessi delle collettività di riferimento e sono posti in grado di potere al meglio
curare tali interessi, ma si configurano anche come attributari di tutte le funzioni il cui esercizio produce
effetti nel relativo ambito locale.
10. I rapporti con lo Stato e l’autonomia contabile della regione

Al fine di cogliere in modo sufficientemente chiaro il ruolo delle regioni occorre far cenno ai
condizionamenti che le stesse possono incontrare nel corso della loro attività; la loro analisi mostra la
tendenza a privilegiare lo strumento dell’intesa nei rapporti con lo Stato. Al riguardo la Corte costituzionale
ha individuato, quale principio generale al quale dovrebbero essere improntati i rapporti tra Stato e regione,
quello della leale cooperazione, ribadito anche dall’art. 4, c. 3, lettera d), l. 59/1997, il quale implica che i
poteri siano esercitati in base ad accordi e intese. Esso è ora costituzionalizzato dall’art. 120 Cost. ed è stato
ripreso dalla l. 131/2003.

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Sempre nella prospettiva dei rapporti tra Stato e regione, sul piano organizzativo si deve ricordare che la l.
131/2003 ha previsto la figura del Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle
autonomie; va poi richiamata l’istituzione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, la
regione e le province autonome, «con compiti di informazione, consultazione e raccordo, in relazione agli
indirizzi di politica generale suscettibili di incidere nelle materie di competenza regionale» (art. 12, l.
400/1988). Con d.p.c.m. 2 luglio 1996 è stata inoltre istituita la Conferenza Stato-città-autonomie locali;
essa ha compiti «di coordinamento nei rapporti tra lo Stato e le autonomie locali, e di studio, informazione e
confronto sulle problematiche connesse agli indirizzi di politica generale che possono incidere sulle funzioni
proprie dei comuni e province e quelle delegate ai medesimi enti dallo Stato».
Al fine di completare il discorso relativo alla posizione di autonomia di cui godono le regioni, occorre far
cenno al problema del potere di annullamento governativo degli atti amministrativi regionali, al sistema di
controlli statali delineato dall’ordinamento in ordine agli atti e agli organi regionali, nonché all’autonomia
finanziaria delle regioni. In ordine al primo aspetto, deve essere ricordato che, a garanzia dell’ autonomia
costituzionalmente riconosciuta alle regioni, il potere di annullamento da parte del governo non è esercitabile
nei confronti degli atti amministrativi regionali: la Corte costituzionale, infatti, ha dichiarato incostituzionale
l’art. 2 , c. 3 , lett. p), l. 400/1988 che attribuiva al Consiglio dei ministri siffatto potere nei confronti delle
regioni. Per quanto attiene ai controlli, ai sensi dell’art. 125 Cost. gli atti amministrativi delle regioni erano
soggetti al controllo di legittimità esercitato da un organo dello Stato. La legislazione ordinaria (d.lgs.
40/1993, modificato con d.lgs. 479/1993) li aveva profondamente ridimensionati. Si ricorda che, ai sensi
dell’art. 3, c. 4, l. 20/1994, il controllo sulla gestione del bilancio e del patrimonio esercitato dalla Corte
dei Conti anche nei confronti delle amministrazioni regionali «concerne il perseguimento degli obiettivi
stabiliti dalle leggi di principio e di programma».
Per quanto attiene al controllo sugli organi, l’art. 126 Cost., come sostituito dalla l. cost. 1/1999, prevede la
possibilità che il consiglio regionale venga sciolto e il presidente della giunta rimosso con decreto del
Presidente della Repubblica, sentita una commissione di deputati e senatori costituita per le questioni
regionali, quando abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge; lo scioglimento
e la rimozione possono altresì essere disposti per ragioni di sicurezza nazionale. In ordine ai rapporti
finanziari tra Stato e regione, va notato che, ai sensi dell’art. 119 Cost., le regioni, così come comuni,
province e città metropolitane, hanno autonomia finanziaria «di entrata e di spesa». Esse «stabiliscono e
applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali
riferibile al loro territorio».
Il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario è materia di legislazione concorrente (art.
117, c. 3, Cost.), sicché spetta allo Stato fissare i principi fondamentali.
Per quanto attiene al ruolo dello Stato, di sua competenza esclusiva è la disciplina della materia
“armonizzazione dei bilanci pubblici”; l’art. 119 prevede l’istituzione di un fondo perequativo «per i territori
con minore capacità fiscale per abitante» e la destinazione da parte dello Stato di risorse aggiuntive nonché
l’effettuazione di interventi speciali in favore di determinate regioni o enti locali per promuovere lo sviluppo
economico, la coesione e la solidarietà sociale. Le regioni e gli enti locali possono ricorrere all’indebitamento
solo per finanziare spese di investimento.
L’art. 119 Cost. ha trovato una prima attuazione in forza della l. 42/2009, che delega il Governo a emanare
provvedimenti normativi applicativi della disciplina costituzionale, “assicurando autonomia di entrata e di
spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni e garantendo i principi di
solidarietà e di coesione sociale”. La delega è stata esercitata con il d.lgs. n. 168/2011 sull’autonomia
tributaria di regioni e province e sui costi standard del sistema sanitario; il decreto individua le fonti di
finanziamento per le regioni, chiarendo che esse sono senza vincolo di destinazione. In particolare, esso
prevede che verrà rideterminata l’addizionale regionale all’Irpef: tale addizionale può essere maggiorata a
certe condizioni dalle regioni, alle quali spetta altresì una compartecipazione al gettito Iva. Una specifica
disciplina è dettata con riferimento alle spese relative ai livelli essenziali delle prestazioni e, in particolare,
alla determinazione dei costi standard nel settore sanitario. In caso di trasferimento di funzioni dallo Stato,
debbono essere assicurate le modalità di copertura finanziaria.
Dal principio di autonomia finanziaria deriva che la regione ha un bilancio autonomo rispetto a quello statale.
Il d.lgs. 76/2000 adegua il sistema contabile delle regioni a quello dello Stato (l. 196/2009). Il d.lgs.
118/2011, individuando un periodo di sperimentazione biennale, prevede che le regioni (e gli enti locali)
adottino il sistema della contabilità finanziaria e quello economico-patrimoniale. Le obbligazioni e le somme
in entrata si dovranno registrare nelle strutture contabili impuntandole all’esercizio in cui vanno a scadere; la
regione, inoltre, dispone di un proprio patrimonio. Il d.lgs. 149/2011, infine, sul piano politico impone alle
regioni la predisposizione di una relazione di fine legislatura, contenente la descrizione dettagliata delle

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principali attività normative e amministrative svolte durante la legislatura, con specifico riferimento agli esiti
dei controlli, agli eventuali rilievi Corte dei conti e alla situazione economica e finanziarie. Il decreto
contiene inoltre la disciplina della situazione di grave dissesto finanziario, che può portare allo scioglimento
del Consiglio e alla rimozione del Presidente, nonché alla decadenza automatica e all’interdizione dei
funzionari regionali e dei revisori dei conti; vengono stabilite le conseguenze del mancato rispetto del patto
di stabilità e meccanismi premiali per gli enti virtuosi.

11. L’organizzazione regionale

Per quanto attiene all’organizzazione regionale si rileva che:


• il consiglio regionale esercita le potestà legislative e le altre funzioni ad esso conferite dalla
Costituzione e dalle leggi;
• la giunta regionale è l’organo esecutivo, esercita potestà regolamentare e dispone anche di poteri di
impulso e di iniziativa legislativa;
• il presidente della giunta regionale rappresenta la regione; dirige la politica della giunta e ne è
responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative
delegate dallo Stato alla regione, conformandosi alle istruzioni del governo della Repubblica (art.
121 Cost.).
Ai sensi dell’art. 123 Cost. la forma di governo di ciascuna regione è determinata dallo statuto. Il presidente
della giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e
diretto; il presidente eletto nomina e revoca i componenti della giunta.
Le esigenze di stabilizzazione finanziaria hanno inciso anche sull’organizzazione regionale; l’art. 14, d.l.
138/2011, conv. nella l. 138/2011, dispone che le regioni debbono adeguare i rispettivi ordinamenti ai
seguenti parametri:
a) numero massimo dei consiglieri regionali uguali o inferiore a 20 per le regioni con popolazione
fino a un milione di abitanti; a 30 fino a due milioni di abitanti; a 40 fino a quattro milioni di abitanti;
a 50 fino a sei milioni di abitanti; a 70 fino a otto milioni di abitanti; a 80 per le regioni con
popolazione superiore a otto milioni di abitanti;
b) numero massimo degli assessori regionali pari o inferiore a un quinto del numero dei componenti
del consiglio regionale.
In caso di mancato adeguamento a questa disciplina, i trasferimenti erariali a favore della regione
inadempiente sono ridotti per un importo corrispondente alla metà delle somme da essa destinate per
l’esercizio 2013 al trattamento economico complessivo spettante ai membri del consiglio regionale e ai
membri della giunta regionale. Sempre nell’ipotesi di mancato adeguamento, previa fissazione di un termine
per provvedere, si può giungere fino allo scioglimento del Consiglio regionale per grave violazione di legge.
Corte cost., n. 198/2012, ha ritenuto immuni da interventi legislativi statali solo gli statuti delle regioni a
statuto speciale. Sul piano della legislazione ordinaria, l’art. 4, T. U. enti locali, consente alla regione di
organizzare l’esercizio delle funzioni amministrative a livello locale attraverso i comuni e le province. Atteso
che la regione dispone pure di funzioni amministrative, esiste anche un apparato amministrativo regionale,
che si distingue in centrale e periferico.
Per la cura degli interessi ad essa affidata, la regione può avvalersi anche di enti pubblici dipendenti, che si
caratterizzano anche e soprattutto come uffici regionali entificati, ai quali residua in linea di massima una
ridotta autonomia.
Tra i soggetti di diritto pubblico operanti nell’ambito dell’organizzazione regionale, particolarmente
importanti sono le aziende sanitarie locali, aventi il compito di assicurare livelli di assistenza sanitaria
uniforme nel proprio ambito territoriale e che il d.lgs. 517/1993, qualifica come aziende dotate di personalità
giuridica pubblica e di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica.
Si aggiunga che le regioni possono assumere partecipazioni in società finanziarie regionali il cui oggetto
rientri nelle materie regionali. L’art. 16, l. 127/1997, infine, prevede la presenza di difensori civici regionali.

12. La posizione e l’organizzazione degli enti locali

I comuni e le province e le città metropolitane rappresentano ulteriori livelli di autonomia riconosciuti


espressamente dalla Costituzione. Denominati «enti locali» (art. 123 Cost.), essi sono, al pari delle regioni,
assieme alla quale formano la categoria dei «governi locali» (art. 120 Cost.), «enti autonomi con propri
statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione» (art. 114 Cost.). Ai sensi dell’art. 5
Cost., la Repubblica «riconosce e promuove» le autonomie locali.

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La disciplina della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle «funzioni fondamentali» spetta alla
legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, c. 2, lett. p), Cost.), evitando così che la regione possa intervenire
con legge comprimendone l’autonomia. Il sistema locale in linea di massima si fonda sui principi della
tipicità degli enti territoriali e dell’uniforme disciplina di province e comuni. L’art. 114 Cost. riconosce una
peculiare posizione a Roma, definita capitale della Repubblica, la disciplina del cui ordinamento è affidata a
legge dello Stato (d.lgs. 156/2010).
La l. 142/1990 ha segnato un momento decisivo dell’evoluzione della normativa relativa alle autonomie
locali: essa non solo ha riconosciuto potestà statutaria a comuni e province, aprendo la via per una
differenziazione, nell’ambito di principi generali unitari, tra le varie realtà territoriali, ma ha inteso porre una
disciplina generale, sottraendola al rischio di deroghe particolari. In relazione al ruolo delle regioni nel
sistema delle autonomie, va osservato che la presenza della regione non comporta un offuscamento dell’ente
locale, al quale, anzi, la regione è dalla Costituzione impegnata a delegare funzioni. Il T.U. enti locali
stabilisce inoltre i principi di cooperazione (dei comuni e della provincia tra loro e con la regione)all’art. 4 e
della programmazione economico-sociale e territoriale all’art. 5. Questa norma prevede che comuni e
province concorrano alla determinazione dei piani e dei programmi dello Stato e delle regioni e demanda alla
legge regionale il compito di stabilire «forme e modi della partecipazione degli enti locali alla formazione dei
piani e programmi regionali e degli altri provvedimenti della regione».
La l. 131/2003 conferisce al governo il potere di emanare uno o più decreti legislativi al fine di dare
attuazione all’art. 117 Cost., indicando, tra i criteri e i principi direttivi, quello della revisione delle
disposizioni legislative sugli enti locali, limitatamente alle norme che contrastano con il sistema
costituzionale degli enti locali definito da l. cost. 3/2001.
Uno snodo essenziale del percorso di rafforzamento dell’autonomia degli enti locali è rappresentato dalla
disciplina sul c.d. federalismo. Molto rilevanti, infine, sono le decisioni assunte dal legislatore nel periodo
2010-2012 in vista del contenimento della spesa pubblica: per quanto attiene alle province, il d.l. 201/2011,
conv. nella l. 214/2011 ne aveva ridisegnato completamente la fisionomia, mentre il d.l. 138/2011, conv.
nella l. 148/2011 aveva razionalizzato le funzioni dei comuni più piccoli. Il d.l. 95/2012, conv. nella l.
135/2012, oltre ad incidere sulle funzioni dei comuni più piccoli, aveva delineato un percorso di soppressione
e di razionalizzazione delle province, stabilendo anche un regime transitorio che poi non è giunto a
conclusione.

13. Le funzioni e l’organizzazione del comune

Il comune gestisce alcuni servizi di competenza statale; mentre la titolarità delle funzioni spetta allo Stato,
l’esercizio delle stesse demandato al sindaco, quale ufficiale del governo. Il sindaco si presenta, in queste
occasioni, come organo dello Stato. La l. 131/2003 indica, tra i criteri e i principi direttivi, quello di
mantenere ferme le disposizioni relative alla vigilanza sui servizi di competenza statale attribuiti al sindaco
quale ufficiale di governo. Di rilievo sono i poteri di cui all’art. 54, c. 4, T.U., che consentiva al sindaco di
adottare provvedimenti, anche contingibili e urgenti, “al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”. Corte cost., n. 115/2011, comunque, ha
dichiarato incostituzionale la norma nella parte in cui consente al sindaco di emanare ordinanze praticamente
senza limiti, salvo quello finalistico; la Consulta ha infatti individuato una violazione sia dell’art. 97 Cost.,
sia del principio di legalità sostanziale, chiarendo che il decreto ministeriale non è in grado di soddisfare la
riserva di legge. Al sindaco resta comunque soltanto la facoltà di adottare ordinanze contingibili e urgenti.
Ai sensi dell’art. 118 Cost., ai comuni sono attribuite tutte le «funzioni amministrative»; il c. 2 specifica che
comuni, province e città metropolitane «sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite
con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Esistono poi le funzioni «fondamentali»,
stabilite con legge statale e che gli enti debbono obbligatoriamente svolgere. Per i comuni, la loro indicazione
è effettuata dal d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012.
Secondo quanto dispone il c. 6 dell’art. 117 Cost., comuni, province e città metropolitane hanno inoltre
«potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite».
Per quanto attiene alla vigente legislazione ordinaria, l’art. 3 T.U., definisce il comune come «l’ente locale
che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo». L’art. 13 attribuisce al
comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale
precipuamente nei settori organici dei servizi sociali, dell’assetto e dell’utilizzo del territorio e dello sviluppo
economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale.
Nel 2011 sono intervenute numerose riforme per i piccoli comuni, con l’intento anche di ridurre la spesa
pubblica. La disciplina attuale (d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012) prevede che i comuni con popolazione
fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane,
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esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni


fondamentali. Spetta alla regione individuare la dimensione territoriale ottimale e omogenea per area
geografica per lo svolgimento, in forma obbligatoriamente associata, da parte dei comuni delle funzioni
fondamentali, secondo i principi di efficacia, economicità, di efficienza e di riduzione delle spese. Si prevede
altresì che, ove il comune non rispetti la tempistica indicata per l’esercizio associato obbligatorio delle
funzioni, il Prefetto assegni un periodo per adempiere e si provveda con poteri sostitutivi, anche mediante la
nomina di un commissario ad acta. Ai sensi dell’art. 16, d.l. 138/2011, conv. nella l. 148/2011, i comuni con
popolazione fino a 1.000 abitanti, invece, in alternativa a quanto previsto dall’art. 14, d.l. 78/2010 e conv.
nella l. 122/2010 e a condizione di non pregiudicarne l’applicazione, possono esercitare in forma associata
tutte le funzioni e i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un’unione
di comuni, istituita in modo che la complessiva popolazione residente nei rispettivi territori sia di norma
superiore a 5.000 abitanti. L’esercizio in forma associata può essere assicurato anche mediante una o più
convenzioni, che hanno durata almeno triennale.
Sono affidate all’unione (speciale), per conto dei comuni associati, la programmazione economicofinanziaria
e la gestione contabile, la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei comuni associati nonché
quella patrimoniale.
Gli organi del comune sono consiglio, il presidente e la giunta. Il consiglio è composto da tutti i sindaci dei
comuni che sono membri dell’unione nonché, in prima applicazione, da due consiglieri comunali per
ciascuno di essi. Per i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, organi di governo sono il sindaco,
il consiglio e la giunta (art. 36, T.U. enti locali): in seno alle autonomie esistono tuttavia altri organi: si pensi
al direttore generale, ai dirigenti, ai revisori dei conti. Gli organi di governo durano in carica cinque anni
(art. 51, T.U.). Il sindaco è l’organo responsabile dell’amministrazione del comune. Esso rappresenta l’ente,
provincia convoca e presiede la giunta e sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e
all’esecuzione degli atti. Tale organo sovrintende all’espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite
o delegate al comune e alla provincia. Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio, il sindaco e il
presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del
comune e della provincia presso enti, aziende e istituzioni.
Il consiglio comunale è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo. Esso ha competenza
limitatamente ad alcuni atti fondamentali indicati dalla legge. Tra questi vi sono gli statuti, i regolamenti, i
piani territoriali e urbanistici, i piani particolareggiati e di recupero, l’assunzione dei pubblici servizi, gli
indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a
tutela, gli acquisti e le alienazioni immobiliari. Il sindaco, sentita la giunta, nel termine fissato dallo statuto
presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti che intende realizzare; spetta
allo statuto disciplinare i modi di partecipazione del consiglio alla definizione, all’adeguamento e alla
verifica periodica delle linee programmatiche.
La giunta comunale, nei comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, è l’organo a competenza
residuale: essa, formata dagli assessori, collabora con il sindaco o con il presidente della provincia nell’
amministrazione del comune o della provincia, attua gli indirizzi generali del consiglio e svolge attività
propositiva e di impulso nei confronti del consiglio. Il sindaco e il presidente della provincia nominano i
componenti della giunta, tra cui un vicesindaco e un vicepresidente, e ne danno comunicazione al consiglio
nella prima seduta successiva alla elezione.
Le delibere diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla loro pubblicazione (art. 134 T.u.e.l.). Ai sensi
dell’art. 90, T.U., alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori possono essere costituiti,
ove previsti dal regolamento degli uffici e dei servizi, «uffici di supporto» per l’esercizio delle funzioni di
indirizzo e di controllo.
A decorrere dal primo rinnovo di ciascun consiglio comunale successivo alla l. 148/2011, per i comuni con
popolazione superiore a 5.000 e fino a 10.000 abitanti, il consiglio comunale è composto, oltre che dal
sindaco, da dieci consiglieri e il numero massimo degli assessori è stabilito in quattro.
Il sindaco è eletto a suffragio universale e diretto dai cittadini. Nei comuni con popolazione sino a 15.000
abitanti, l’elezione dei consiglieri comunali si effettua con il sistema maggioritario; il sindaco viene eletto
contestualmente e la sua candidatura è collegata a una lista di candidati alla carica di consigliere; è eletto
sindaco il candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti. Nei comuni con popolazione superiore a
15.000 abitanti è previsto un sistema proporzionale con un premio di maggioranza.
La disciplina della dirigenza degli enti locali è posta dal T.U., il cui art. 111 stabilisce che gli enti medesimi
adeguino lo statuto e i regolamenti ai principi enunciati al riguardo da esso e dal d.lgs. 29/93 e succ. modif.
(oggi d.lgs. 165/2001).
I dirigenti, i quali svolgono la propria attività sulla base di incarichi a tempo determinato, sono responsabili,
in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa e dell’efficienza della gestione ed hanno
tutti i compiti di attuazione degli obiettivi e dei programmi definiti con atti di indirizzo adottati dall’organo
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politico: ad essi spetta in particolare l’adozione dei provvedimenti «in attuazione degli obiettivi», nonché la
direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettate dagli statuti e dai regolamenti. I
dirigenti, sulla base dello statuto e del regolamento, possono esercitare funzioni delegate dal sindaco.
L’art. 108, letto in combinato disposto con l’art. 2, l. 191/2009, ammette che il sindaco nei comuni con
popolazione superiore a 100.000 abitanti, previa deliberazione della giunta comunale o provinciale, possano
nominare un direttore generale, al di fuori della dotazione organica e con contratto a
tempo determinato. Egli può essere revocato dal sindaco, previa deliberazione della giunta. La durata del suo
incarico non può eccedere quella del mandato del sindaco; più in particolare, il direttore provvede ad attuare
gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal sindaco
e sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo obiettivi ottimali di efficacia e di efficienza.
Al vertice della struttura burocratica dell’ente locale era tradizionalmente collocato il segretario, organo alle
dipendenze dello Stato e nominato dall’amministrazione degli interni. Cessato automaticamente dall’incarico
con la cessazione del mandato del sindaco, il nuovo sindaco può riconfermare il segretario, ovvero
nominarne uno nuovo non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dal suo insediamento. Il
segretario «svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti
degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai
regolamenti» (art. 97 T.U.). Tale organo inoltre partecipa, con funzioni consultive, referenti e di assistenza
alle riunioni del consiglio e della giunta e ne cura la verbalizzazione; può rogare tutti i contratti nei quali
l’ente è parte e autenticare scritture private e atti unilaterali nell’interesse dell’ente.

13.1. Le funzioni e l’organizzazione della provincia

L’art. 3, T.U., definisce la provincia come ente intermedio tra comune e regione, che rappresenta la propria
comunità, ne cura gli interessi e ne coordina lo sviluppo. La provincia assume particolare rilievo anche nel
settore ambientale, nonché in tema di promozione e coordinamento di attività.
La situazione delle province è mutata a causa del d.l. 95/2012, conv. nella l. 135/2012, che aveva previsto un
ambizioso programma di soppressione e accorpamento, poi non realizzato. Dal combinato disposto del d.l. e
della l. 228/2012, si applica un regime provvisorio; rimangono di competenza delle province soltanto le
seguenti funzioni: pianificazione territoriale provinciale di coordinamento nonché tutela e valorizzazione
dell’ambiente; costruzione, classificazione e gestione di strade provinciali e regolazione della circolazione
stradale a esse inerente; programmazione provinciale della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica
relativa alle scuole secondarie di secondo grado. Quanto agli organi, in attesa del riordino e dell’adozione
della legge elettorale provinciale, il presidente, la giunta e il consiglio restano in carica fino alla naturale
scadenza dei mandati, ma è stato previsto il commissariamento delle province chiamate a rinnovare gli
organismi istituzionali in scadenza dopo il novembre 2012: art. 1, c. 115, l. 228/2012.
14. I controlli sugli atti e sugli organi di comuni e province

Ricordando che alcuni controlli esterni sono oggi esercitati dalla Corte dei conti, occorre immediatamente
osservare che, in forza dell’abrogazione dell’art. 130 Cost. ad opera della l. cost. 3/2001, i controlli necessari
sugli atti degli enti locali sono stati eliminati, come confermato anche da alcune leggi regionali. In origine, il
controllo sugli atti veniva svolto dal Co.re.co. (organo regionale) e dal difensore civico, ove istituito e veniva
distinto in necessario, facoltativo ed eventuale.
Ai sensi dell’art. 136 T.U., qualora i comuni e le province, sebbene invitati a provvedere entro un congruo
termine, ritardino od omettano di compiere atti obbligatori per legge, si provvede a mezzo di commissario
ad acta nominato a livello regionale. Il T. U. art. 138 annovera tra i controlli l’annullamento straordinario
governativo di cui alla l. 400/88.
I controlli interni degli enti locali sono disciplinati dall’art. 147 T.U., come modificato dal d.l. 174/2012,
conv. nella l. 213/2012. Sei sono le tipologie di controllo interno.
La prima tipologia di controllo interno è il controllo di regolarità amministrativa e contabile. Ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla giunta e al consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere del responsabile del servizio interessato e del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile. Per quanto attiene ai soggetti e alla procedura di controllo, la normativa prevede due fasi, la prima
delle quali contempla una doppia verifica. Nella fase preventiva il controllo è effettuato in sede di rilascio del
parere di regolarità tecnica a opera di ogni responsabile del servizio competente; il controllo contabile,
invece, è effettuato dal responsabile del servizio finanziario; per quanto attiene alla fase successiva, il
controllo di regolarità amministrativa è assicurato secondo principi generali di revisione aziendale e modalità
definite nell’ambito dell’autonomia organizzativa dell’ente, sotto la direzione del segretario. Le risultanze del
controllo sono trasmesse periodicamente ai responsabili dei servizi.

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Viene poi in rilievo il controllo sugli equilibri finanziari, svolto sotto la direzione e il coordinamento del
responsabile del servizio finanziario mediante la vigilanza dell’organo di revisione. Tale controllo è svolto
nel rispetto delle disposizioni dell’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, e delle norme che
regolano il concorso degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.
Una diversa tipologia di è quella del controllo strategico. La normativa prevede che l’ente locale con
popolazione superiore a 100.000 abitanti in fase di prima applicazione, a 50.000 abitanti per il 2014 e a
15.000 abitanti a decorrere dal 2015, definisce metodologie di controllo strategico finalizzate alla rilevazione
dei risultati conseguiti rispetto agli obiettivi predefiniti, degli aspetti economico-finanziari connessi ai
risultati ottenuti, dei tempi di realizzazione rispetto alle previsioni; l’unità preposta al controllo strategico è
posta sotto la direzione del direttore generale o del segretario comunale. Essa elabora rapporti periodici, da
sottoporre all’organo esecutivo e al consiglio per la successiva predisposizione di deliberazioni consiliari di
ricognizione dei programmi.
Il controllo di gestione ha ad oggetto l’intera attività ed è disciplinato dall’art. 196, T.U., ed è volto a
ottimizzare il rapporto tra obiettivi e azioni realizzate, nonché tra risorse impiegate e risultati. Esso si articola
almeno in tre fasi: predisposizione di un piano dettagliato di obiettivi; rilevazione dei dati relativi ai costi e ai
proventi nonché rilevazione dei risultati raggiunti; valutazione dei dati predetti in rapporto al piano degli
obiettivi al fine di verificare il loro stato di attuazione e di misurare l’efficacia, l’efficienza ed il grado di
economicità dell’azione intrapresa.
Vi sono poi i controlli sulle società partecipate non quotate, definiti dall’ente locale secondo la propria
autonomia organizzativa. Essi sono esercitati dalle strutture proprie dell’ente locale, che ne sono responsabili.
Questo controllo riguarda solo enti locali con popolazione superiore a 100.000 abitanti in fase di prima
applicazione, a 50.000 abitanti per il 2014 e a 15.000 abitanti a decorrere dal 2015.
Viene infine in evidenza il controllo della qualità dei servizi erogati, sia direttamente, sia mediante
organismi gestionali esterni, con l’impiego di metodologie dirette a misurare la soddisfazione degli utenti
esterni e interni dell’ente. La disciplina sul controllo sugli organi, in quanto espressione del momento di
unitarietà proprio dell’ordinamento complessivo, spetta allo Stato.
La normativa ora vigente attribuisce il potere di scioglimento dei consigli comunali e provinciali in capo al
Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’interno.
Le cause di scioglimento, relative a situazioni di grave deviazione funzionale dell’organo, sono:
a) il compimento di atti contrari alla Costituzione, gravi e persistenti violazioni di legge e gravi motivi
di ordine pubblico;
b) l’impossibilità di assicurare il normale funzionamento degli organi e dei servizi per dimissioni,
impedimento permanente,rimozione, decadenza, decesso del sindaco o del presidente della
provincia;
c) la mancata approvazione del bilancio nei termini;
d) la mancata adozione degli strumenti urbanistici da parte degli enti locali con popolazione superiore
ai mille abitanti;
e) dissesto.

15. I rapporti finanziari e la contabilità nei comuni e nelle province

Per quanto attiene ai rapporti finanziari, si deve ricordare che l’art. 54, l. 142/1990, ha riconosciuto al
comune e alla provincia autonomia finanziaria e potestà impositiva autonoma che può essere in parte da essi
disciplinata con propri regolamenti. Il sistema di finanza locale disegnato da tale norma è in sintesi costituito
da una finanza trasferita e da una finanza autonoma.
La possibilità per gli enti locali di istituire tributi propri trova un ulteriore limite nell’art. 23 Cost., nel senso
che è richiesta comunque una legge che disciplini il tributo. Accanto ai tributi locali, l’art. 119 Cost.
contempla la compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al territorio degli enti e l’istituzione di
un ente perequativo con legge statale: l’insieme di questi tributi e di queste entrate dovrebbe garantire il
finanziamento integrale delle funzioni pubbliche assegnate agli enti. Il c. 5 prevede infine un’ulteriore
tipologia di trasferimenti da parte dello Stato: risorse aggiuntive e interventi speciali per rimuovere fattori
di disuguaglianza, favorire l’esercizio dei diritti della persona e per provvedere a scopi diversi dal normale
esercizio delle funzioni.
In attuazione della legge delega n. 42/2009 è stato emanato il d.lgs. 23/2011 sulla fiscalità dei comuni; la
riforma ha istituito numerose forme di compartecipazione al gettito di imposte statali e disciplinato i tributi
propri autonomi che gli enti possono istituire e aumentare con atto amministrativo. Abolita l’Ici, ora vi è
l’Imu (a partire dal 2014, che sostituisce Ici, Irpef e addizionali locali gravanti su immobili non locati; i
comuni hanno la facoltà di modificare l’aliquota: l. 241/2011) e una secondaria facoltativa ( Ims, sempre a

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partire dal 2014, che sostituisce altri tributi minori relativi all’occupazione di beni demaniali o del patrimonio
indisponibile), nonché la facoltà di introdurre un’imposta di soggiorno e un’imposta di scopo per la
realizzazione di opere pubbliche. La nuova disciplina incide anche sul fondo sperimentale e istituisce il
tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani
e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento e dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.
Per quanto attiene alle province, l’autonomia di entrata, fino a oggi, è garantita dagli artt. 16 e ss., d.lgs.
68/2011: vengono in particolare disciplinati i tributi propri connessi alla circolazione su gomma, la
soppressione di trasferimenti statali e regionali e, all’art. 20, ulteriori tributi propri.
Le operazioni di riscossione e di pagamento, di custodia e amministrazione dei titoli (servizio di tesoreria)
vengono di norma affidate a istituti di credito sulla base di procedure ad evidenza pubblica stabilite dal
regolamento di contabilità pubblica (nel 2013 è stata prorogata la possibilità dei comuni di avvalersi di
Equitalia per l’attività di accertamento, liquidazione e riscossione delle entrate, tributarie o patrimoniali). Il
SIOPE (Sistema Informativo delle Operazioni degli Enti pubblici), entrato in vigore nel 2006, è un
sistema di rilevazione telematica di tutte le operazioni di incasso e di pagamento effettuate dalla tesoreria
statale e dalle tesorerie degli enti pubblici, classificate secondo una codifica uniforme su tutto il territorio
nazionale e per tipologia di enti; la gestione dei dati è affidata alla Banca d’Italia.
Sotto il profilo contabile, deve essere ricordato il d.lgs. 118/2011 che ha posto i principi contabili applicabili
agli enti locali e il d.lgs. 77/1995, che ha modificato il T.U. enti locali.
Tale decreto prevede l’obbligatorietà, per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, del piano
esecutivo di gestione (esso, deliberato dalla giunta, indica gli obiettivi da perseguire, affidandoli ai
responsabili dei servizi, unitamente alle dotazioni e alle risorse necessarie) e un nuovo sistema di contabilità
analitica ai fini del controllo di gestione (art. 196), consentendo comunque all’ente di adottare il sistema di
contabilità che ritiene più idoneo al fine della predisposizione del rendiconto (art. 232); istituisce presso il
ministero dell’interno un osservatorio sulla finanza e contabilità degli enti locali, con compiti
promozionali e propositivi. Il decreto contiene pure la disciplina della situazione di dissesto con riferimento
al caso in cui il comune o la provincia non possa garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi
indispensabili, ovvero esistano nei confronti dell’ente crediti liquidi ed esigibili cui non sia stato fatto
validamente fronte con le modalità fissate (art. 193) e non si possa validamente far fronte mediante le
procedure di ripiano del disavanzo ovvero di riconoscimento dei debiti fuori bilancio (artt. 193, 194 e 244). Il
d.lgs. 504/1992 ha infine previsto l’istituzione della Commissione per la finanza e gli organici degli enti
locali, organo statale presieduto dal sottosegretario di Stato al ministero dell’interno con delega per
l’amministrazione civile. Ad essa, oltre al controllo centrale sulle dotazioni organiche, sulle loro
modificazioni e sui provvedimenti di assunzione degli enti dissestati o strutturalmente deficitari, spetta anche
l’esercizio di poteri consultivi in ordine ad alcune fasi del procedimento di dissesto. L’art. 234 T.U.,
stabilisce poi che la revisione economico-finanziaria sia affidata ad un collegio dei revisori dei conti. Questo
collegio è composto da tre membri eletti dai consigli, scegliendoli tra soggetti iscritti nel ruolo dei revisori
ufficiali dei conti, nell’albo dei dottori commercialisti e nell’albo dei ragionieri. I componenti durano in
carica tre anni, non sono revocabili, salvo inadempienza, e sono rieleggibili per una sola volta. Esso svolge:
attività di collaborazione con l’organo consiliare secondo le disposizioni dello statuto e del regolamento;
rende pareri in materia di programmazione economico-finanziaria; modalità di gestione dei servizi e proposte
di costituzione o di partecipazione ad organismi esterni; vigilanza sulla regolarità contabile, finanziaria ed
economica della gestione relativamente all’acquisizione delle entrate, delle spese, all’attività contrattuale,
all’amministrazione dei beni.
Va infine ricordato che l’art. 28, l. 448/1998 (da ultima l. 228/2012) estende il patto di stabilità, assunto dal
governo in sede comunitaria al fine di rispettare gli impegni europei, non solo alle regioni, ma anche a
province e a comuni con popolazione superiore a 1000 abitanti: tali enti, il cui bilancio deve contenere un
apposito prospetto, debbono dunque ridurre il disavanzo annuo e il rapporto tra l’ammontare del debito e il
PIL. Il mancato rispetto del patto è oggetto di monitoraggio da parte del ministero dell’economia e delle
finanze e comporta sanzioni che vanno dalla riduzione dei trasferimenti erariali per l’anno successivo a limiti
agli impegni di spesa, dal divieto di provvedere ad assunzioni a tagli delle indennità e, per le regioni,
l’adozione di un piano di stabilizzazione.
Un ruolo essenziale nel controllo del rispetto del patto è svolto dalla Corte dei conti. Sul piano politico,
infine, si ricorda il dovere di province e comuni a predisporre una relazione di fine mandato, contenente la
descrizione dettagliata delle principali attività normative e amministrative svolte durante la legislatura.

16. Gli istituti di partecipazione negli enti locali

L’art. 8 T. U. disciplina gli istituti di partecipazione, specificando che i comuni valorizzano le libere forme
associative e promuovono gli organismi di partecipazione all’amministrazione locale; il medesimo articolo
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riconosce il potere per gli interessati di partecipare al procedimento amministrativo relativo all’adozione di
atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive e prevede forme di consultazione della popolazione e
procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a
promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi, nonché la possibilità che lo statuto
disciplini il referendum, anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini. La consultazione è volta ad
acquisire l’orientamento non vincolante dell’elettorato in relazione ad alcuni problemi di interesse generale,
ma soltanto istanze e proposte fanno sorgere l’obbligo di procedere. Tra gli istituti di partecipazione sono poi
ricompresi:
• l’azione popolare (ogni elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al
comune); va incidentalmente ricordato che si distingue tra azioni popolari d tipo correttivo, che sono
quelle dirette a far valere situazioni di illegittimità provocate dalla stessa amministrazione e azioni
popolari di tipo suppletivo, le quali sono consentite a tutela degli interessi dell’amministrazione in
caso di sua inerzia;
• il diritto di accesso agli atti amministrativi (eccetto quelli riservati per espressa indicazione di legge
o per effetto di una temporanea e motivata dichiarazione del sindaco o del presidente della provincia
che ne vieti l’esibizione);
• il diritto di accesso alle informazioni di cui è in possesso l’amministrazione, alle strutture e ai servizi
degli enti, alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni.

17. Territorio e forme associative

Il territorio è elemento costitutivo del comune, considerato ente a fini generali; la regione con propria legge,
sentite le popolazioni interessate, istituisce nuovi comuni e può modificare le loro circoscrizioni e la loro
denominazione (art. 133 Cost.). L’art. 33 , T.U. , stabilisce che le regioni predispongano, coordinandolo con i
comuni nelle apposite sedi concertative, un programma di individuazione degli ambiti per la gestione
associata sovracomunale di funzioni e servizi, realizzato anche attraverso le unioni. La potestà delle regioni
di procedere alla fusione di comuni è espressamente contemplata dai commi l e 2 , art. 15 T.U.
Lo statuto comunale può a sua volta contemplare l’istituzione di municipi (art. 16) nei territori interessati dal
processo di istituzione di nuovi comuni a seguito di fusione decisa dalla regione: lo statuto e il regolamento
ne disciplinano organizzazione e funzioni, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale
diretto.
La legge contempla poi le unioni di comuni, enti locali costituiti da due o più comuni, finalizzato
all’esercizio associato di funzioni e servizi; ogni comune può far parte di una sola unione di comuni. Le
unioni di comuni possono stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli comuni. Gli organi
dell’unione (presidente, giunta e consiglio) sono formati da amministratori in carica dei comuni associati e a
essi non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni e indennità o emolumenti in qualsiasi forma percepiti.
Il presidente è scelto tra i sindaci dei comuni associati e la giunta tra i componenti dell’esecutivo dei comuni
associati. L’unione ha autonomia statutaria e potestà regolamentare e a essa si applicano i principi previsti
per l’ordinamento dei comuni. All’unione sono conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e
strumentali necessarie all’esercizio delle funzioni loro attribuite. L’atto costitutivo e lo statuto dell’unione
sono approvati dai consigli dei comuni partecipanti con le procedure e con la maggioranza richieste per le
modifiche statutarie.
In una prospettiva di sintesi, con riferimento al loro grado di stabilità, le forme associative previste dal T.U.
possono essere ordinate come segue: accordi di programma, per la definizione e l’attuazione di opere e di
interventi (art. 34); convenzioni, al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati (art.
30); uffici comuni, istituiti mediante convenzione, ai quali affidare l’esercizio delle funzioni pubbliche;
delega (ad un solo ente dell’esercizio delle funzioni); consorzi (soggetti distinti dagli enti che li
costituiscono per la gestione associata di uno o più servizi e per l’esercizio di funzioni); esercizio associato
di funzioni e servizi; unioni di comuni.
Ancora in ordine al tema del decentramento, accanto ai municipi, occorre ricordare che l’ordinamento
prevede l’ articolazione del territorio comunale in circoscrizioni (art. 17). La l. 42/2010 non solo impone di
sopprimere il difensore civico, ma anche di eliminare le circoscrizioni di decentramento comunale e i
consorzi di funzioni fra gli enti locali.
Un cenno ad ulteriori articolazioni territoriali è presente nell’art. 54, c. 7 , T.U., il quale si riferisce a frazioni
e quartieri. Esso consente al sindaco, ove non sussistano organi di decentramento comunale, di delegare ad
un consigliere comunale l’esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri o nelle frazioni. Il
T.U. si riferisce anche alle borgate, disponendo che la loro denominazione (e quella delle frazioni) spetta ai
comuni.

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18. Città metropolitane e comunità montane

L’art. 114 Cost. qualifica le città metropolitane come enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla Costituzione. Secondo quanto dispone l’art. 18, d.l. 95/2012, conv. nella l.
135/2012, le province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e
Reggio Calabria sono soppresse, con contestuale istituzione delle relative città metropolitane a partire dal
2014. Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia contestualmente soppressa.
Alla città metropolitana sono attribuite, oltre alle funzioni fondamentali delle province, le seguenti funzioni
fondamentali:
1) pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;
2) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi
pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;
3) mobilità e viabilità;
4) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.
Sono organi della città metropolitana il consiglio metropolitano ed il sindaco metropolitano. Lo statuto
della città metropolitana può stabilire che il sindaco metropolitano:
a) sia di diritto il sindaco del comune capoluogo;
b) sia eletto secondo le modalità stabilite per l’elezione del presidente della provincia;
c) sia eletto a suffragio universale e diretto.
Lo statuto metropolitano, poi:
a) regola l’organizzazione interna e le modalità di funzionamento degli organi e di assunzione delle
decisioni;
b) regola le forme di indirizzo e di coordinamento dell’azione complessiva di governo nel territorio
metropolitano;
c) disciplina i rapporti fra comuni facenti parte della città metropolitana e le modalità di organizzazione
e di esercizio delle funzioni metropolitane.

Un altro soggetto di cui è difficile definire il ruolo futuro (che dipenderà dalla sorte delle province) è la
comunità montana, «proiezione» dei comuni che ad essa fanno capo, e che pare destinata a essere
trasformata nell’Unione di comuni montani.
CAPITOLO V

SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE E LORO VICENDE

1. Premessa. Qualità giuridiche (status) capacità e situazioni giuridiche

Una delle funzioni essenziali dell’ordinamento giuridico è quella di risolvere conflitti di interessi
intersoggettivi. Gli interessi sono aspirazioni dei soggetti verso i beni ritenuti idonei a soddisfare bisogni: la
limitatezza dei beni rende assai probabile l’insorgere di conflitti tra i soggetti, che il diritto si incarica di
comporre. Poiché tali conflitti sorgono tra soggetti diversi dell’ordinamento, esso, al fine di operarne la
risoluzione, deve preliminarmente riconoscere i soggetti come tali. Vi è una prima definizione del concetto di
«situazione giuridica soggettiva», ossia la concreta situazione cioè in cui è collocato un soggetto
dall’ordinamento con riferimento al bene che costituisce oggetto dell’interesse. Le situazioni sono svariate:
diritto soggettivo, interesse legittimo, potere, obbligo e dovere. Il loro riconoscimento viene effettuato dalle
norme dell’ordinamento stesso. Si noti che, nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti, potrebbero
esserci situazioni giuridiche riconosciute e protette da uno di essi e non da quello generale: è il caso delle
situazioni la cui tutela, in forza del d.l. 230/2003, conv. nella l. 280/2003, è assicurata all’interno
dell’ordinamento sportivo attraverso la giustizia sportiva, senza possibilità per i titolari di adire il giudice
dell’ordinamento generale, sul presupposto che esse non abbiano dignità di diritti o interessi legittimi.
I «modi di essere giuridicamente definiti di una persona, di una cosa, di un rapporto giuridico, di cui
l’ordinamento giuridico faccia altrettanti presupposti per l’applicabilità di disposizioni generali o particolari
alla persona, alla cosa, al rapporto» si definiscono qualità giuridiche; esse sono i concreti modi di essere
giuridici di un soggetto in ordine a interessi protetti dall’ordinamento. La totalità delle stesse e dei rapporti
imputabili al soggetti ne definiscono la soggettività e formano la sua sfera giuridica, la quale è riconducibile
a unità proprio attraverso il riferimento al suo titolare.
Il termine di status è utilizzato in ordine al soggetto che si trovi in una particolare posizione complessiva in
seno all’ordinamento (es. status di cittadino, di impiegato pubblico). Gli status sono le qualità attinenti alla
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persona che globalmente derivano dalla sua appartenenza necessaria o volontaria ad un gruppo e
rappresentano il presupposto per l’ applicazione al soggetto di una serie di norme, le quali vengono così a
costituire nei confronti di tutti i soggetti che posseggono lo status una situazione giuridica uniforme e
omogenea. La riferibilità effettiva di situazioni giuridiche ad un soggetto presuppone l’idoneità di questo ad
esserne titolare; tale idoneità è la capacità giuridica riconosciuta dall’ordinamento ai propri soggetti;
soltanto in presenza di essa vengono dunque conferite dall’ordinamento stesso le situazioni giuridiche. La
capacità giuridica può essere relativa anche soltanto a talune situazioni giuridiche: la precisazione è
importante posto che l’amministrazione ha una capacità giuridica in ordine ai poteri di diritto comune meno
estesa di quella delle persone fisiche, non comprendendo ad esempio l’idoneità ad essere titolari di situazioni
strettamente collegate alla natura propria dell’individuo. Numerose disposizioni escludono la possibilità per
alcuni enti di compiere talune attività di diritto comune: le amministrazioni non possono ad esempio stipulare
contratti aleatori al di fuori dei giochi gestiti in regime di privativa e dei contratti di assicurazione; la Cassa
depositi e prestiti S.p.A. non può concedere mutui a soggetti non operanti per fini di interesse pubblico e così
via. Dalla capacità giuridica si distingue la capacità di agire, che consiste nell’idoneità a gestire le vicende
delle situazioni giuridiche di cui il soggetto è titolare e che si acquista con il compimento del diciottesimo
anno d’età, salvo che la legge non stabilisca un’età diversa (art. 2 c.c.). In linea di principio, capacità
giuridica e capacità di agire non sorgono contemporaneamente in quanto, per le persone fisiche, la seconda si
acquista con il raggiungimento della maggiore età, e, comunque, possono non sussistere contestualmente in
capo allo stesso soggetto. La capacità di agire, che concerne categorie astratte di situazioni giuridiche,
differisce poi dalla legittimazione ad agire, la quale si riferisce invece a situazioni specifiche e concrete,
effettivamente sussistenti, e a singoli rapporti. Essa consiste dunque in una specifica posizione del soggetto
rispetto agli interessi.

2. Potere, diritto soggettivo, dovere e obbligo

Al fine di fornire la definizione delle situazioni giuridiche è necessario distinguere tra le situazioni che
sussistono nell’ambito di concreti rapporti giuridici, costituendone uno dei termini, e le altre che si
collocano all’esterno di essi. Particolarmente importante è il potere, potenzialità astratta di tenere un certo
comportamento ed espressione della capacità del soggetto, e perciò da esso inseparabile. Tra i poteri
rientrano il potere di disposizione di un bene e quello di agire in giudizio, che è generale e trascende i singoli
casi in cui il soggetto esercita l’azione giudiziaria. Nel diritto amministrativo occorre poi ricordare che, oltre
ai poteri amministrativi, molte amministrazioni dispongono del potere normativa; esistono pure poteri
esercitabili dai soggetti privati nelle varie occasioni in cui essi si rapportano ad una pubblica amministrazione
(ad es. diritto di accesso ai documenti amministrativi e il potere di presentare istanze). La possibilità astratta
di tenere un certo comportamento produttivo di effetti giuridici si concretizza mediante atti giuridici, i più
importanti dei quali sono i provvedimenti, che presentano i caratteri di tipicità dei relativi poteri.
Nel diritto amministrativo una particolare rilevanza hanno i poteri che il soggetto pubblico è in grado di
esercitare prescindendo dalla volontà del privato e, dunque, producendo unilateralmente una vicenda
giuridica relativa alla sfera giuridica dello stesso.
Le vicende giuridiche sono normalmente rappresentate dalla costituzione, estinzione o modificazione di
situazioni giuridiche. Il potere è attribuito dall’ordinamento generale a seguito di un giudizio di prevalenza
dell’interesse affidato alla cura dell’ amministrazione nei confronti degli interessi dei privati. Tali interessi
sono così resi disponibili per l’ amministrazione, la quale, esercitando il potere, ne condiziona il
soddisfacimento, in particolare nel senso che esso può non verificarsi pure nei casi in cui l’ amministrazione
agisca legittimamente.
Allorché la legge attribuisca al titolare la possibilità di realizzare il proprio interesse indipendentemente dalla
soddisfazione dell’interesse pubblico curato dall’amministrazione, si profila la situazione giuridica di
vantaggio costituita dal diritto soggettivo; il diritto soggettivo può dunque essere definito come la situazione
giuridica di immunità dal potere.
Potere e diritto sono termini inconciliabili: ove sussista potere non esiste diritto soggettivo e ove il privato sia
titolare di un diritto non può affermarsi l’esistenza di un potere amministrativo.
Gli interessi considerati prevalenti si qualificano pubblici perché affidati dalla legge alla cura di soggetti
pubblici e costituiscono la ragione della attribuzione del potere.
Poiché il potere amministrativo comporta una incisione della sfera dei privati, esso deve essere tipico e cioè
predeterminato dalla legge in ossequio al principio di legalità che esprime la garanzia delle situazioni dei
privati stessi. La legge deve individuare tutti gli elementi del potere (in particolare il soggetto al quale esso è
attribuito, l’oggetto, il contenuto, la forma con cui dovrà essere esercitato e l’interesse da perseguire), onde
evitare che vi siano rischi di autoattribuzione di poteri da parte dell’amministrazione, il che significherebbe
prevalenza non consentita di un soggetto, sia pure pubblico, dell’ordinamento nei confronti di un altro. Le
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norme che riconoscono interessi pubblici «vincenti» su quelli privati, sono norme di relazione,
caratterizzate cioè dal fatto di risolvere conflitti intersoggettivi di interessi.
Oltre alle situazioni di vantaggio che esorbitano dai singoli rapporti obbligo vi sono altresì situazioni
sfavorevoli non racchiuse in rapporti concreti. Queste situazioni sono riconducibili alla figura del dovere,
vincolo giuridico a tenere un dato comportamento positivo (fare) o negativo (non fare): anche
l’amministrazione è soggetta ai doveri propri di tutti i soggetti dell’ordinamento; in particolare essa deve
osservare il dovere di buona fede e correttezza, nonché quello di rispettare i diritti altrui. Allorché la
necessità di tenere un comportamento sia correlata al diritto altrui, si versa nella situazione di obbligo, che è
appunto il vincolo del comportamento del soggetto in vista di uno specifico interesse di chi è il titolare della
situazione di vantaggio: si pensi al diritto di credito, connesso all’obbligazione del debitore.
L’amministrazione può essere soggetta ad obblighi, ad esempio perché ha istituito un rapporto contrattuale,
perché ha commesso un illecito, ovvero in forza di una legge o di un atto amministrativo.

3. L’interesse legittimo

Occorre ora focalizzare l’ attenzione sui rapporti tra amministrazione e soggetti privati. L’ordinamento
generale riconosce prevalenza agli interessi che possono entrare in conflitto tra di loro attribuendo di volta in
volta diritti, ovvero poteri amministrativi, i quali ultimi consentono di produrre vicende giuridiche in ordine a
situazioni dei terzi. Nei confronti dell’esercizio del potere, il privato si trova in uno stato di soggezione. Per
capire il concetto si pensi all’ipotesi di un privato che partecipa a un concorso di pubblico impiego e a un
privato espropriato; tra queste ipotesi corre una differenza: nella prima (concorso) il privato pretende
qualcosa dall’amministrazione, sicché la soddisfazione della propria aspirazione passa attraverso il
comportamento attivo dell’amministrazione (interesse pretensivo); laddove nell’altra (espropriazione) il
soggetto privato si oppone all’esercizio di un potere che potrebbe cagionare una vicenda giuridica
svantaggiosa, onde egli vedrà soddisfatta la
propria pretesa in quanto l’amministrazione non eserciti il potere (interesse oppositivo). Quindi è chiaro che
il privato non ha un diritto soggettivo in quanto la sua aspirazione al bene finale della vita non è tutelata in
via assoluta dall’ordinamento, non è cioè protetta da una norma di relazione.
Esistono interessi di soggetti dell’ordinamento da questo tutelati che non trovano nell’ordinamento
medesimo alcuna garanzia di realizzazione dell’interesse finale, perché necessariamente collegati con
l’esercizio del potere amministrativo. Questa apparente antinomia rende assai controversa e sfuggente la
figura dell’interesse legittimo, situazione soggettiva di vantaggio ribadita ora dalla Costituzione, che la
menzione addirittura in tre norme: l’art. 24, ove essa è accostata al diritto soggettivo, garantendone la tutela
giurisdizionale, l’art. l03, nell’ambito del quale è contemplata quale oggetto principale della giurisdizione
amministrativa, l’art. 113, ove si precisa che la sua tutela è sempre ammessa contro gli atti
dell’amministrazione.
Nel diritto italiano l’interesse legittimo è accostato al diritto soggettivo, sicuro indice, almeno del carattere
omogeneo delle due situazioni. Ma se tale carattere va individuato nella presenza di un medesimo interesse al
bene, la differenza va ricercata nel diverso tipo di “garanzia” e di “protezione” accordato dall’ordinamento.
Al riguardo, una tesi prevalente sottolinea che la situazione di cui il cittadino è titolare è di vantaggio
sostanziale, protetta non soltanto in modo strumentale come conseguenza della legittimità dell’operato
dell’amministrazione, in quanto pone in primo piano il conseguimento del bene che ha di mira colui che si
rapporta con il potere.
L’interesse legittimo, in definitiva, può definirsi una situazione soggettiva di vantaggio a progressivo
rafforzamento. Nella prima fase, esso garantisce la mediazione dell’amministrazione in forza di poteri tipici,
il cui esercizio è sindacabile dal giudice. Nell’ambito della seconda fase, invece, rileva il profilo della
legittimità dell’azione, limite di soddisfazione dell’aspirazione del soggetto.
Per quanto attiene ai poteri riconosciuti al titolare dell’interesse legittimo, si possono ricordare, in primo
luogo, i tradizionali poteri di reazione: il loro esercizio si concretizza nei ricorsi amministrativi e nei ricorsi
giurisdizionali, volti ad ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo.
Si aggiungono inoltre i poteri di partecipare al procedimento amministrativo: i documenti e le
osservazioni che rappresentano il punto di vista del cittadino devono essere presi in considerazione
dall’amministrazione procedente. n titolare può così stimolare l’azione amministrativa, instaurando un
dialogo che si conclude con l’emanazione del provvedimento.
Tra i poteri che sono collegati alla titolarità di un interesse legittimo vi è infine quello di accedere ai
documenti della pubblica amministrazione: l’art. 22 della l. 241/1990 ammette, infatti, siffatta possibilità per
i portatori di interessi giuridicamente rilevanti.
Spesso si fa cenno all’esistenza di una peculiare categoria, quella degli interessi procedimentali, che
avrebbero la caratteristica di attenere a «fatti procedimentali». In dottrina è stato obbiettato che si tratterebbe
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in realtà di facoltà che attengono all’interesse legittimo. L’interesse legittimo, in ogni caso, sorge quando la
soddisfazione del suo interesse dipende dall’esercizio di un potere; d’altro canto occorre una norma che tuteli
la situazione del privato in modo non generico e, dunque, non è sufficiente una disposizione che
semplicemente assicuri la partecipazione ad un procedimento.
L’interesse procedimentale è spesso sfornito di tutela effettiva, non potendosi ricorrere al giudice per la sua
violazione, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di titolarità di interesse legittimo.

4. Interessi diffusi e interessi collettivi

Tradizionalmente si afferma che l’interesse legittimo è un interesse personale, differenziato rispetto ad altri
interessi e qualificato da una norma. Tali elementi sono strettamente collegati: l’interesse è qualificato
perché preso in considerazione da una norma che lo protegge, anche in modo non diretto, e, in quanto tale,
risulta differenziato rispetto alla pluralità degli interessi che fanno capo ai consociati. Il problema della
differenziazione e qualificazione degli interessi emerge con riferimento agli interessi diffusi e agli interessi
collettivi (c.d. interessi superindividuali) e, più in generale, riflette la modificazione del tipo di relazione
che si instaura tra amministrazione e consociati e che sempre più spesso trascende i limiti di un rapporto
strettamente individuale. I primi si caratterizzano sotto un duplice profilo: dal punto di vista soggettivo
appartengono ad una pluralità di soggetti; dal punto di vista oggettivo attengono a beni non suscettibili di
fruizione differenziata. Gli interessi collettivi, viceversa, sono gli interessi che fanno capo ad un gruppo
organizzato, onde il carattere della personalità e della differenziazione, necessario per qualificarli come
legittimi.
Il legislatore è intervenuto per attribuire una legittimazione ex lege a talune organizzazioni rappresentative di
interessi superindividuali. Per quanto attiene alle associazioni a tutela del consumatore e degli utenti, infatti,
il d.lgs. 206/2005 riconosce la legittimazione ad agire a tutela degli “interessi collettivi” a quelle iscritte in un
apposito elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, istituito
presso il ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato. Ai sensi dell’art. 4, l. 180/2011 (c.d.
Statuto delle imprese), inoltre, le associazioni di categoria maggiormente rappresentate a livello nazionale,
regionale e provinciale sono legittimate ad impugnare gli atti amministrativi lesivi degli interessi diffusi.
Anche in tema di ambiente vi è la legittimazione delle associazioni ad impugnare gli atti illegittimi attinenti
al danno ambientale.
Il riconoscimento della possibilità di partecipare al procedimento amministrativo per i soggetti portatori di
questi interessi è inoltre generalizzato: l’art. 9, l. 241/1990 consente infatti ai «portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o comitati» di intervenire nel procedimento; delle associazioni si è occupata la l.
383/2000, recante «disciplina delle associazioni di promozione sociale».

5. Il problema dell’esistenza di altre situazioni giuridiche soggettive

Una vicenda apparentemente contraddittoria attiene alla situazione del proprietario che sia soggetto
all’esercizio del potere di espropriazione in quanto esiste il potere, non ricorre il diritto; tuttavia il privato è
qui innegabilmente titolare di un diritto (di proprietà). Al fine di superare l’apparente antinomia cui si è fatto
cenno soccorre il principio di «relatività» delle situazioni giuridiche soggettive: lo stesso rapporto di un
soggetto con un bene può presentarsi «a seconda dei casi e dei momenti e perfino a seconda del genere di
protezione che il soggetto faccia valere, ora come un diritto soggettivo, ora come un interesse protetto solo in
modo riflesso». Di conseguenza il diritto di proprietà si configura come diritto in quanto non venga in
considerazione un potere dell’amministrazione di disporre dell’interesse del privato.
Non si può dunque parlare di degradazione o affievolimento del diritto, fenomeno che si riferirebbe alla
vicenda di un diritto il quale, venendo a confliggere con un potere, si trasformerebbe in interesse legittimo.
L’interesse legittimo non nasce dalla trasformazione di un diritto, ma è situazione distinta, pur potendo
riferirsi al medesimo interesse finale (es. un fondo) su cui si innesta un diritto; ove venga eliminato mediante
annullamento il risultato dell’esercizio del potere, la situazione si atteggia nuovamente a diritto anche nei
confronti dell’amministrazione. Secondo parte della giurisprudenza sussisterebbero ipotesi di diritti «non
degradabili»: la formula è utilizzata per esprimere la loro non assoggettabilità ad un potere amministrativo.
L’interesse del privato risulterebbe sempre vincente: in questi termini, in tema di ambiente salubre, si sono
espresse le sezioni unite della Cassazione con due sentenze del 1979 (nn. 1463 e 5172). La sentenza n.
1463/1979 ha distinto i beni collettivi in divisibili, per i quali l’interesse dei singoli alla loro tutela resta
assorbito nell’interesse indifferenziato, dai beni divisibili, che consentono la fruizione diretta da parte dei
singoli aventi un particolare legame con il territorio. La sentenza n. 5172/1979 ha affermato che la protezione
accordata all’ ambiente sano è la stessa che assiste i diritti fondamentali e vale anche nei confronti del potere-
dovere della pubblica amministrazione di provvedere alla salute in quanto interesse generale.
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L’amministrazione sarebbe dunque priva di poteri, sia pure in vista di motivi di interesse pubblico, e il diritto
soggettivo sarebbe tutelabile anche nei confronti del soggetto pubblico.
Non sussistono situazioni intermedie tra diritto soggettivo e interesse legittimo: inconsistente è la figura del
diritto affievolito (che ricorrerebbe nell’ipotesi in cui un diritto sorga da un provvedimento, ad esempio una
concessione, sicché sarebbe destinato ad essere eliminato a seguito della revoca dell’atto). Essa infatti
coincide completamente con quella di interesse legittimo.
La dottrina parla talora di diritto in attesa di espansione per indicare la situazione in cui l’esercizio di un
diritto dipenda dal comportamento dell’amministrazione, che consentirebbe appunto l’espansione dello
stesso. Va esclusa dal novero delle situazioni giuridiche la facoltà, che è la possibilità di tenere un certo
comportamento materiale: essa costituisce, infatti, una delle forme di estrinsecazione del diritto e non
produce modificazioni giuridiche.
Controversa è l’autonomia concettuale della figura dell’aspettativa e, cioè, della situazione in cui versa un
soggetto nelle more del completamento della fattispecie costitutiva di una situazione di vantaggio (diritto,
potere). Essa, non essendo tutelata in via assoluta, non è un diritto. In alcuni casi l’ordinamento protegge la
possibilità del soggetto privato di conseguire un diritto (c.d. chance): più in particolare, la legge accorda
talora la tutela risarcitoria nelle ipotesi di lesione di questa possibilità ad opera di una pubblica
amministrazione.

5.1. Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento comunitario

Le situazioni giuridiche protette dall’ordinamento dell’Unione europea in capo ai cittadini della stessa
consistono essenzialmente in poteri: sono tali infatti le c.d. libertà che trascendono i limiti di concreti
rapporti giuridici, preesistendo alla loro costituzione. In particolare vengono in rilievo le disposizioni sui
servizi pubblici e quelle sulla libera circolazione delle persone e dei capitali, sulla libertà di stabilimento,
sulla libera prestazione dei servizi, sulla libertà di concorrenza, sulla libertà di circolazione dei beni.
Il principio della libera circolazione delle persone implica l’abolizione delle discriminazioni tra i lavoratori
degli Stati membri fondate sulla nazionalità. Per quanto attiene al diritto amministrativo giova ricordare che
una deroga alla libertà di circolazione è ammessa per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità
pubblica. La libertà di stabilimento (artt. 49 e ss. Trattato Ue) comporta l’accesso alle attività non salariate
e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese alle medesime condizioni fissate
dall’ordinamento del paese di stabilimento per i propri cittadini. Dato il carattere permanente che implica, la
libertà di stabilimento si differenzia dalla libera prestazione di servizi, disciplinata dagli artt. 56 e ss. del
Trattato Ue. Il servizio è definito come ogni prestazione fornita dietro remunerazione da un cittadino di uno
Stato membro stabilito in uno Stato membro a favore di una persona stabilita in uno Stato diverso (ma
appartenente all’Unione), ed è tutelato dagli articoli citati.
Di rilievo à la disciplina di cui al d.lgs. 59/2010 che, nel segno della liberalizzazione delle attività
economiche, dà attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi sul mercato interno.
Un’ulteriore e assai rilevante libertà garantita dal diritto comunitario è la libertà di concorrenza, la quale
può essere lesa a seguito della presenza di poteri amministrativi che condizionino oltre una certa misura
l’attività delle imprese. La tutela del principio della concorrenza osta alle discipline interne le quali
attribuiscano poteri amministrativi il cui esercizio potrebbe determinare effetti protezionistici,
discriminazioni e limitazioni del principio della concorsualità tra le imprese. Il problema del rispetto del
principio di concorrenza o dell’esistenza di effetti distorsivi sul mercato, è particolarmente delicato in tema di
servizi pubblici, allorché questi vengano affidati ex lege in regime di concessione ad un soggetto
predeterminato, ovvero nei casi in cui il rapporto abbia una durata eccessiva, tale comunque da escludere la
possibilità per altri imprenditori di «entrare nel mercato».
Di particolare importanza è anche la libertà di circolazione dei beni di cui agli artt. 34 e ss. del Trattato Ue:
in particolare le misure amministrative che comportino indebite restrizioni delle importazioni e delle
esportazioni confliggono con la disciplina comunitaria.
Il diritto dell’Unione europea, nonché quello nazionale che ad esso si ispira, imponendo alcuni obblighi di
servizio pubblico ai gestori nelle ipotesi in cui occorra soddisfare determinati criteri di continuità, regolarità
e capacità cui il privato non si atterrebbe ove seguisse soltanto il proprio interesse economico, consente di
individuare altresì i correlativi diritti dei cittadini alle prestazioni che ne costituiscono oggetto.

6. Le modalità di produzione degli effetti giuridici

L’ordinamento determina direttamente o consente le vicende giuridiche relative a rapporti giuridici e


situazioni giuridiche soggettive secondo modalità differenti. Il discorso attiene in particolare ai diritti
soggettivi: la capacità e i poteri, infatti, sono strettamente legati alla soggettività e sono acquistati a titolo
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originario, pur se l’esistenza o esercizio di un potere può essere subordinato al ricorrere di una particolare
condizione. Le vicende possono essere prodotte dall’ordinamento al verificarsi di alcuni fatti (si pensi alla
nascita o alla morte) o al compimento di alcuni atti (ad esempio l’intimazione di pagamento o l’iscrizione in
certi albi: trattasi dei c.d. meri atti) che hanno la funzione di semplici presupposti per la produzione
dell’effetto. Questa modalità di dinamica giuridica può essere riassunta richiamando lo schema normafatto-
effetto, nel senso che la norma disciplina direttamente il fatto e vi collega la produzione di effetti.
L’ordinamento attribuisce, definendo una serie di condizioni, ad un soggetto (privato o pubblico) il potere di
produrre vicende giuridiche e riconosce l’efficacia dell’atto da questo posto in essere.
Qui, a differenza di prima, sussiste lo schema norma-potere-effetto: l’effetto non risale immediatamente alla
legge, ma vi è l’intermediazione di un soggetto che pone in essere un atto, espressione di una scelta,
mediante il quale si regolamenta il fatto e si produce la vicenda giuridica. Si pensi all’effetto di trasferimento
della proprietà di un bene che deriva dalla stipulazione di un contratto, il quale è appunto la conclusione dello
svolgimento dell’autonomia contrattuale delle parti. Tale effetto è riconosciuto e protetto dall’ordinamento
giuridico in quanto siano osservati i limiti posti all’esercizio dell’ autonomia (ad es.: sussistenza di un
accordo, rispetto delle disposizioni sulla forma, sull’oggetto e sulla causa). L’atto che costituisce espressione
di autonomia è il «negozio». Valutando siffatto meccanismo di dinamica giuridica dal punto di vista della
legge, si può dire che questa rimane generale, nel senso che non si riferisce ad un rapporto giuridico
peculiare, bensì a tutti quelli che presentano certe caratteristiche.
Ove il tipo di dinamica sia quello che si incentra sullo schema norma-fatto-effetto, l’amministrazione può
essere «coinvolta» sia perché pone in essere un fatto (ad es. comportamento illecito), sia perché emana un
mero atto al quale l’ordinamento direttamente collega la produzione di effetti.
Nei casi in cui la dinamica giuridica sia invece inquadrabile nello schema norma-potere-effetto,
l’amministrazione pone in essere atti espressione di autonomia. Tali atti producono effetti giuridici in
relazione ad un particolare rapporto giuridico, a seguito dell’esercizio di un potere conferito in via generale e
astratta dalla legge. Ciò significa che l’ordinamento rimette alla scelta del soggetto pubblico la produzione e
la regolamentazione dell’effetto. In quei casi, infatti, viene attribuito un potere che è appunto la possibilità di
produrre effetti riconosciuti dall’ordinamento, mediante provvedimenti amministrativi.
L’esercizio di alcuni poteri amministrativi produce effetti preclusivi. Lo svolgimento dei poteri
dell’amministrazione è un importante oggetto di studio del diritto amministrativo e di disciplina normativa:
l’emanazione del provvedimento finale è infatti preceduto da una serie di atti e di operazioni che acquisisce
rilevanza giuridica e che confluisce nel procedimento.
In ordine alla dinamica norma-potere-effetto, deve essere osservato che la Corte cost., con sent. n. 13/1962 ha
riconosciuto il principio del giusto procedimento, il quale richiede che per la realizzazione dell’ effetto sia
previamente attribuito all’amministrazione un potere il cui esercizio produce la vicenda giuridica. La
dinamica norma-potere-effetto comporta il riconoscimento in capo al destinatario dell’esercizio del potere
amministrativo di un interesse legittimo. Attribuire un siffatto potere, dal cui esercizio scaturirà l’effetto
finale, significa che decidere di rendere disponibile per l’amministrazione il bene della vita cui aspira il
privato, ossia subordinarne la soddisfazione all’azione amministrativa.

7. I poteri amministrativi: i poteri autorizzatori

Gli elementi dei principali poteri amministrativi sono trasfusi nei provvedimenti finali che ne costituiscono
esercizio e di cui la legge definisce i tipi. I principali poteri amministrativi sono costituiti da: poteri
autorizzatoti, poteri concessori, poteri ablatori, poteri sanzionatori, poteri di ordinanza, poteri di
programmazione e di pianificazione, poteri di imposizione di vincoli e poteri di controllo.
Il potere autorizzatorio ha l’effetto di rimuovere i limiti posti dalla legge all’esercizio di una preesistente
situazione di vantaggio; sotto il profilo funzionale, il suo svolgimento comporta la previa verifica della
compatibilità di tale esercizio con un interesse pubblico. L’uso del potere produce l’effetto giuridico di
modificare una situazione soggettiva preesistente, consentendone l’esplicazione (se potere) o l’esercizio (se
diritto) in una direzione in precedenza preclusa, ma non di costituire nuovi diritti. Attraverso l’esercizio del
potere autorizzatorio, l’amministrazione esprime il proprio consenso preventivo all’attività progettata dal
richiedente (un importante esempio di provvedimento permissivo è rappresentato dal permesso di
costruire). L’autorizzazione non si limita in genere a consentire l’esercizio di una situazione di vantaggio
preesistente (potere o diritto): sempre più spesso l’ordinamento tende a rendere servente l’interesse privato
rispetto a quello pubblico, conformando l’azione dell’autorizzato in vista del conseguimento di tale ultimo
interesse. L’autorizzazione spesso addirittura instaura una relazione tra soggetto pubblico e soggetto privato
caratterizzata dalla presenza di poteri di controllo e di vigilanza in capo all’amministrazione; nei limiti in cui
ricorra il modello caratterizzato dall’ assenza della «garanzia pubblicistica del risultato» finale, il
provvedimento ha natura autorizzatoria e si distingue dalla concessione. Ove si accetti il criterio dell’assenza
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della «garanzia del risultato», non sussistono particolari ostacoli al riconoscimento della natura autorizzatoria
pure di quei provvedimenti permissivi che siano previsti nelle situazioni in cui esiste una barriera all’accesso
di peculiari mercati o un loro contingentamento.
L’introduzione di un regime autorizzatorio è caratterizzata dal previo riconoscimento di una sfera soggettiva
di vantaggio, al quale si accompagna la previsione in via generale e astratta di limitazioni che eventualmente
l’amministrazione rimuove in via puntuale e concreta esercitando il relativo potere. L’ordinamento prevede
oggi un esempio di autorizzazione plurima per così dire riepilogativa di una serie di atti di consenso: ove il
procedimento dello sportello unico delle attività produttive si concluda con provvedimento espresso
costituente titolo unico per la realizzazione dell’intervento, esso «riassume» i vari atti di assenso richiesti
dalla legge. Secondo l’art. d.l. 7/2007, conv. in l. 40/2007, ai fini dell’avvio dell’attività d’impresa,
l’interessato presenta all’ufficio del registro delle imprese, per via telematica o su supporto informatico, una
comunicazione unica che vale quale assolvimento di tutti gli adempimenti amministrativi previsti per
l’iscrizione al registro delle imprese e ha effetto, sussistendo i presupposti di legge, ai fini previdenziali,
assistenziali, fiscali individuati con decreto. Nell’ordinamento è pure presente l’autorizzazione integrata
ambientale, la quale sostituisce a tutti gli effetti ogni visto, parere o autorizzazione in materia ambientale.
Le abilitazioni sono atti il cui rilascio è subordinato all’accertamento dell’idoneità tecnica di soggetti a
svolgere una certa attività. L’efficacia abilitante è ad esempio collegata dalla legge al superamento di un
esame e all’iscrizione ad un albo.
L’omologazione è rilasciata dall’autorità a seguito dell’accertamento della sussistenza in una cosa, di norma
destinata ad essere prodotta in serie, di tutte le caratteristiche fissate dall’ordinamento a fini di tutela
preventiva (prodotti pericolosi) o per esigenze di uniformità dei modelli.
Il nullaosta è un atto endoprocedimentale necessario, emanato da un’amministrazione diversa da quella
procedente, con cui si dichiara che, in relazione ad un particolare interesse, non sussistono ostacoli
all’adozione del provvedimento finale. Il nullaosta attiene ai rapporti tra diverse amministrazioni, e il suo
diniego costituisce fatto impeditivo della conclusione del procedimento.
La dispensa è il provvedimento espressione del potere che l’ordinamento, pur vietando o imponendo in
generale un certo comportamento, attribuisce all’amministrazione consentendole in alcuni casi di derogare
all’ osservanza del relativo divieto o obbligo. Allorché la deroga ad un divieto generale avvenga in base allo
schema norma-fatto-effetto si parla di esenzione.
L’approvazione è il provvedimento permissivo, avente ad oggetto non già un comportamento, bensì un atto
rilasciato, a seguito di una valutazione di opportunità e convenienza dell’atto stesso. L’approvazione opera
dunque come condizione di efficacia dell’atto ed è ad esso successiva. Nell’ambito dei procedimenti di
controllo è talora impiegata la figura dell’approvazione condizionata (annullamento con indicazione dei
correttivi necessari per conseguire l’approvazione). Essa è legittima ove non si risolva in una inammissibile
sostituzione della sfera di scelta dell’organo attivo. La licenza, figura che oggi la legge tende a sostituire con
l’autorizzazione, era definita come il provvedimento che permette lo svolgimento di un’attività previa
valutazione della sua corrispondenza ad interessi pubblici.
Tutti i provvedimenti analizzati (salvo la dispensa), possono essere ricondotti nell’ambito del potere
autorizzatorio come sopra definito.
La legge 241/1990 utilizza la nozione di «atti di consenso» per indicare tali atti nel loro complesso (art. 14, c.
4); essi possono venire sostituiti dai meccanismi della segnalazione di inizio di attività (art. 19), ovvero,
trattandosi di provvedimenti emanati a conclusione di procedimenti ad istanza di parte, possono risultare
assoggettati alla disciplina del silenzio assenso (art. 20). Le autorizzazioni espresse, ove non sostituite dalla
segnalazione di inizio attività, possono essere rilasciate attraverso il meccanismo del silenzio assenso, che è
divenuto la regola per i procedimenti ad istanza di parte.
In tema di liberalizzazione va richiamata la disciplina di cui al d.lgs. 59/2010 (attuazione della direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi sul mercato interno) che, pur non riguardando la generalità dei regimi
autorizzatori, incide comunque su uno spettro assai ampio degli stessi; il d.lgs. 59/2010 riguarda “qualunque
attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione,
diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale”.
Una peculiare disciplina è poi posta per l’iscrizione ad albi, elenchi o registri in relazione alle attività
professionali regolamentate (stabilendo che, inutilmente decorsi due mesi dalla domanda che va presentata
direttamente all’ordine o al collegio, si forma il silenzio assenso).
Per quanto concerne più specificamente i regimi autorizzatori, tradizionalmente molto diffusi nel settore delle
attività commerciali, si stabilisce che, fatte salve le disposizioni istitutive e relative a ordini, collegi e albi
professionali, essi possono essere istituiti o mantenuti solo se giustificati da motivi imperativi d’interesse
generale, nel rispetto dei principi di non discriminazione, di proporzionalità, nonché delle disposizioni
introdotte dal decreto. Sono motivi imperativi di interesse generale: ragioni di pubblico interesse, tra i quali

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l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica, l’incolumità pubblica, la sanità pubblica, la sicurezza stradale, la
lotta al frode, la tutela dell’ambiente incluso l’ambiente urbano o la salute degli animali.
L’autorizzazione si configura come regime eccezionale rispetto alla libera prestazione (essa, ad esempio,
permane per l’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande).
Il numero dei titoli autorizza tori per l’accesso e l’esercizio di un’attività di servizi può essere limitato solo
se sussiste un motivo imperativo di interesse generale o per ragioni correlate alla scarsità delle risorse
naturali o delle capacità tecniche disponibili.
Di liberalizzazioni si è poi occupato il legislatore nel quadro delle manovre assunte, a fronte della crisi, per
la crescita e lo sviluppo dell’economia del Paese, sul presupposto che maggior concorrenza possa giovare a
mercato, utenti, consumatori e, in generale, all’economia nel suo complesso. In questo solco si collocano il
d.l. 138/2011, conv. nella l. 148/2011, il d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011, il d.l. 1/2012, conv. nella l.
27/2012; in essi si intrecciano i profili della liberalizzazione, della deregolamentazione (mediante il ricorso
a regolamenti governativi) e della semplificazione (in forza di figure quali la Scia). Il d.l. 138/2011 e succ.
mod. e integrazioni opera sul versante delle professioni e delle attività economiche. Per ciò che attiene alle
attività economiche, l’art. 3 dispone che, in attesa della revisione dell’art. 41 della Cost., comuni, province,
regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui
l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge nei soli casi di: vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e degli obblighi
internazionali; contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana e contrasto con l’utilità sociale.
La norma, elevata a “principio fondamentale per lo sviluppo economico” e attuativa della piena tutela della
concorrenza tra le imprese, dovrebbe comportare innanzitutto la liberalizzazione di tutto ciò che non è
espressamente vietato; essa è stata però dichiarata incostituzionale da Corte cost., n. 200/2012, che ne ha
sottolineato la portata incerta e indefinibile e le ricadute sul piano delle competenze legislative regionali.
Nella parte in cui accenna alle restrizione (cc. 6 e ss.), la norma configura alcuni regimi autorizzatori che
limitino l’ingresso a specifici mercati e quelli basati sulla valutazione pubblica del bisogno appunto come
“restrizioni”: in quanto tali, essi sono destinati a essere automaticamente eliminati entro quattro mesi. Le
disposizioni relative all’introduzione di restrizioni all’accesso e all’esercizio delle attività economiche
devono essere oggetto di interpretazione restrittiva. Il successivo d.l. 201/2011, conv. nella l. 214/2011,
ribadisce che la disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di
organizzazione e di svolgimento.
L’art. 34, d.l. 201/2011, abroga molte delle medesime restrizioni contemplate nel testo precedente (ad
esempio: divieto di esercizio di un’attività economica al di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione a
esercitarla solo all’interno di una determinata area; l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni
delle sedi deputate all’esercizio di un’attività economica; l’obbligo di fornitura di specifici servizi
complementari all’attività svolta; ecc). Una specifica disposizione si riferisce al regime amministrativo:
esso deve essere giustificato sulla base dell’esistenza di un interesse generale, costituzionalmente rilevante e
compatibile con l’ordinamento dell’Unione europea, nel rispetto del principio di proporzionalità; ove sia
stabilita la necessità di alcuni requisiti per l’esercizio di attività economiche, la loro comunicazione
all’amministrazione competente deve poter essere data sempre tramite autocertificazione e l’attività può
subito iniziare, salvo il successivo controllo amministrativo. Il d.l. 1/2012, conv. nella l. 27/2012, all’art. 1
introduce un meccanismo di abrogazione basato sull’emanazione di regolamenti governativi da adottare entro
il 31 dicembre 2012, per di individuare “le attività per le quali permane l’atto preventivo di assenso
dell’amministrazione, e disciplinare i requisiti per l’esercizio delle attività economiche, nonché i termini e le
modalità per l’esercizio dei poteri di controllo dell’amministrazione, individuando le disposizioni di legge e
regolamentari dello Stato che vengono abrogate a decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti
stessi”. L’art. 1, più nel dettaglio, dispone che, in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica
sancito dall’art. 41 Cost. e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea, sono
abrogate le seguenti disposizioni: le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta
o preventivi, atti di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica
non giustificati da un interesse generale; le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche
non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e
programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente
contenuto economico. Si ribadisce poi che le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni
all’accesso e all’esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso
tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale,
alla stregua dei principi costituzionali per i quali l’iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di
piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti.

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I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni si adeguano a questi principi entro il 31 dicembre
2012, fermi restando i poteri sostitutivi dello Stato ai sensi dell’art. 120 Cost. A decorrere dall’anno 2013, il
predetto adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi enti ai fini
dell’applicazione della disciplina sul patto di stabilità.
In sintesi, si ha la sovrapposizione di regole diverse:
a) il principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò
che non è espressamente vietato dalla legge, con conseguente applicazione degli istituti della Scia
e dell’autocertificazione con controlli successivi (d.l. 138/2011); allo scadere del termine le
disposizioni incompatibili sono soppresse;
b) l’abrogazione immediata di molte restrizioni e la definizione di un regime minimo per le
autorizzazioni (d.l. 201/2011);
c) l’affermazione, molto enfatica, dell’abrogazione di tutte le norme limitative (d.l. 1/2012) e il vincolo
a operare interpretazioni restrittive delle disposizioni limitative.
Nelle aree liberalizzate, saranno ampliati gli spazi di utilizzo di due istituti che non condizionano l’inizio
dell’attività e spostano in un momento successivo l’intervento pubblicistico: la Scia e l’autocertificazione;
ove sia stabilita la necessità di alcuni requisiti per l’esercizio di attività economiche, la loro comunicazione
all’amministrazione competente deve poter essere data sempre tramite autocertificazione e l’attività può
subito iniziare, salvo il successivo controllo amministrativo.
Specifiche norme sono state dettate in tema di commercio, farmacie e servizio di trasporto con l’istituzione di
un’apposita autorità di regolazione dei trasporti (art. 37, d.l. 201/2012, conv. nella l. 214/2012; per quanto
attiene ai taxi, comuni e regioni provvedono ad adeguare il servizio dei taxi nel rispetto di una serie di criteri
stabiliti dalla legge), settori in cui lo sforzo di liberalizzazione è stato accompagnato da tensioni e polemiche.
Un ulteriore settore di intervento attiene all’accesso alle professioni regolamentate: ai sensi dell’art. 3, d.l.
138/2011, fermo restando l’esame di Stato, gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio
dell’attività risponda senza accezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti
su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità
di scelta degli utenti nell’ambito dell’ampia informazione relativamente ai servizi offerti. Gli ordinamenti
professionali dovranno, inoltre, essere riformati con d.p.r. per recepire i principi fissati dalla legge (ad es.
l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza
di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista).

8. I poteri concessori

Tra i poteri il cui esercizio determina effetti favorevoli per i privati, talora accompagnati dalla imposizione di
doveri, accanto a quelli autorizzatori sono di rilievo i poteri concessori. L’esercizio di tali poteri produce
l’effetto di attribuire al destinatario medesimo status e situazioni giuridiche (diritti) che esulavano dalla sua
sfera giuridica in quanto precedentemente egli non ne era titolare. Per altro verso, al concessionario è spesso
attribuita una posizione di “privilegio” rispetto agli altri soggetti. A differenza di ciò che accade
nell’autorizzazione, l’ordinamento non attribuisce originariamente al privato la titolarità di alcune situazioni
giuridiche, ma conferisce all’amministrazione il potere di costituirle o trasferirle in capo al privato stesso.
Esistono molteplici esempi di concessioni: la concessione di uso di beni, la concessione di esercizio di servizi
pubblici, la concessione della cittadinanza, la concessione del sistema di riscossione, la concessione di
costruzione e gestione di opere pubbliche. In ordine alle concessioni di beni e di pubblici servizi, accanto al
provvedimento con il quale si esercita il potere concessorio amministrativo, si può spesso individuare una
convenzione bilaterale di diritto privato (che, unitamente alla concessione, dà luogo alla figura della
concessione-contratto), finalizzata a dar assetto ai rapporti patrimoniali tra concessionario e concedente. La
concessione è detta traslativa quando il diritto preesiste in capo all’amministrazione, sicché esso è
«trasmesso» al privato (es.: concessione di servizi pubblici), che risulta così privilegiata rispetto ad altri
consociati, mentre è costitutiva nei casi in cui il diritto attribuito è totalmente nuovo, nel senso che
l’amministrazione non poteva averne la titolarità (sarebbe tale la concessione di cittadinanza o di
onorificenze).
Per quanto riguarda la concessione di opere pubbliche, la legislazione mira ad equipararle all’appalto o a
limitare la discrezionalità di cui gode l’amministrazione chiamata a rilasciarle, al fine di evitare che
l’amministrazione possa svincolarsi dalle regole poste a tutela della concorrenza. Non a caso, la recente
legislazione definisce tali concessioni come «contratti».
La natura contrattuale della concessione, in passato, era stata affermata da parte della dottrina anche in ordine
alla concessione di servizi pubblici, figura che ricorre allorché l’ordinamento intenda garantire ai privati
alcune prestazioni e attività e consenta all’amministrazione di affidarne lo svolgimento a soggetti privati

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appunto mediante un provvedimento concessorio. Questo tipo di concessione è stato eliminato in relazione ai
servizi pubblici locali a rilevanza economica; talora assume importanza essenziale nell’economia del
rapporto la convenzione bilaterale stipulata tra amministrazione e concessionario, nel senso che l’esercizio
del potere concessorio non si concretizzerebbe in un provvedimento autonomo. In tal modo la concessione
sembra essere relegata in una posizione secondaria, potendo addirittura risultare sostituita dal contratto; con
riferimento alle concessioni di beni, la disposizione di essi deve avvenire mediante atti di natura
pubblicistica.
In sintesi, i caratteri essenziali della concessione traslativa possono riassumersi nell’attribuzione di una
posizione di vantaggio/privilegio ad un soggetto terzo sulla base di un accordo e nella “sostituzione” del
concessionario nello svolgimento di un compito dell’amministrazione, assumendosene il rischio.
Un profilo che concorre alla crisi teorica della concessione scaturisce dal riconoscimento dell’effetto
costitutivo dell’autorizzazione: seguendo questa opinione è infatti più difficile individuare la linea distintiva
tra i due provvedimenti. Altro «momento di crisi» della concessione (in particolare di quella di servizi) è il
portato dell’osservazione secondo cui non sempre essa attiene ad attività riservate all’amministrazione: in
questo contesto riesce più ardua l’individuazione di un conseguente effetto accrescitivo (la concessione non
sarebbe caratterizzata dalla produzione di vicende traslative di funzioni). Il provvedimento assumerebbe al
più un carattere organizzatorio e servirebbe a conferire ai privati la titolarità di uffici. Si è osservato in
dottrina che soltanto a monte della concessione di servizi sussiste l’assunzione della garanzia del risultato e,
cioè, l’assunzione del dovere di garantire il servizio pubblico, sicché la concessione trasferisce al privato
questo dovere, che non sussiste nei casi di autorizzazione.
Il settore delle concessioni, secondo parte della dottrina, sarebbe quello in ordine al quale potrebbe operare il
disposto di cui all’art. l, c. l-bis, l. 241/1990, ai sensi del quale «la pubblica amministrazione, nell’adozione
di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga
diversamente», aprendo la via alla sostituzione dello strumento pubblicistico con negozi privatistici.
In relazione ai servizi pubblici gestiti dalla pubblica amministrazione e rivolti ai singoli utenti che ne
facciano richiesta, la dottrina tradizionale aveva individuato, quale atto che attribuisce al singolo il diritto alla
«prestazione» e, quindi, al godimento del servizio stesso, l’ammissione (si pensi all’ammissione al servizio
scolastico o ai servizi sanitari). Tale atto instaurerebbe dunque un rapporto di natura amministrativa tra ente e
utente. Secondo altri l’ammissione sarebbe l’atto che consente al singolo di far parte di una certa
organizzazione o categoria professionale al fine di renderlo partecipe di determinati diritti, servizi o vantaggi.
Tale atto attribuirebbe dunque uno status.
In tema di concessione va infine ricordato che secondo la dottrina, nella concessione di beni, atteso il
carattere non personale del rapporto, il concessionario può disporre del proprio diritto, salvo diversa
disposizione di legge o dell’atto di concessione.
Nel novero dei provvedimenti concessori rientrano pure le sovvenzioni, caratterizzate dal fatto che esse
attribuiscono al destinatario vantaggi economici: la categoria è oggi disciplinata dall’art. 12, l. 241/1990. In
generale, le sovvenzioni riguardano lo svolgimento di attività imprenditoriali, i contributi attengono ad
attività culturali o sportive, mentre i sussidi sono attribuzioni rientranti nella beneficenza generale. A
garanzia dell’imparzialità e della trasparenza la l. 241/1990 prevede all’art. 12 che, nelle forme prescritte dai
rispettivi ordinamenti, vengano predeterminati e pubblicati «criteri e modalità cui le amministrazioni devono
attenersi». Ai sensi dell’art. 26, d.lgs. 33/2013, la pubblicazione “costituisce condizione legale di efficacia
dei provvedimenti che dispongano concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro
nel corso dell’anno solare al medesimo beneficiario”.
Infine va chiarito che non ha natura concessoria la concessione edilizia. Corte cost., n. 5/1980 ha infatti
negato il carattere costitutivo della concessione edilizia, affermando l’ inerenza del diritto di edificare alla
proprietà e la conseguente illegittimità della disciplina dell’indennità di espropriazione prevista dalla l.
865/1971. Il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (d.p.r. 380/2001)
prevede l’eliminazione della figura della concessione, significativamente sostituendola con quella del
«permesso di costruire».

9. I poteri ablatori

I poteri ablatori incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario. Essi hanno segno opposto
rispetto a quelli concessori, nel senso che impongono obblighi, ovvero sottraggono situazioni favorevoli in
precedenza pertinenti al privato, attribuendole di norma, ma non necessariamente, all’amministrazione
(ablatori reali). A fronte dell’esercizio di tali poteri il destinatario si presenta come titolare di interessi
legittimi oppositivi. L’effetto ablatorio può incidere su diritti reali, diritti personali o su obblighi a rilevanza
patrimoniale.

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L’espropriazione è il provvedimento che ha l’effetto di costituire un diritto di proprietà o altro diritto reale
in capo ad un soggetto (detto espropriante), previa estinzione del diritto in capo ad altro soggetto
(espropriato) al fine di consentire la realizzazione di un’opera pubblica o per altri motivi di pubblico interesse
e dietro versamento di un indennizzo ai sensi dell’art. 42, c. 3, Cost. La disciplina dell’espropriazione per
pubblica utilità è contenuta nel testo unico di cui al d.p.r. 8 giugno 2001, n.327. Il legislatore, con la l.
244/2007, ha modificato la disciplina posta dal d.lgs. 327/2001 stabilendo che, nel caso di esproprio di
un’area edificabile, l’indennità è determinata nella misura pari al valore venale del bene. Quando
l’espropriazione è finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, l’indennità è ridotta del 25
per cento; nei casi in cui è stato concluso l’accordo di cessione, o quando esso non è stato concluso per fatto
non imputabile all’espropriato, l’indennità è aumentata del 10 per cento. L’esercizio del potere di esproprio
concernente i beni sottoposti a vincolo quinquennale ai fini dell’esproprio in conseguenza dell’approvazione
di un piano urbanistico generale, si articola nella previa dichiarazione di pubblica utilità delle opere e nella
successiva espropriazione. Esso è disciplinato dal cit. T.U. sulle espropriazioni per pubblica utilità. La legge
prevede anche la possibilità di procedere all’occupazione temporanea di alcuni beni.
Le requisizioni sono provvedimenti mediante i quali l’amministrazione dispone della proprietà o, comunque,
utilizza un bene di un privato per soddisfare un interesse pubblico. L’ordinamento conosce alcuni esempi di
requisizioni in proprietà, che riguardano soltanto cose mobili e possono essere disposte, generalmente per
esigenze militari, dietro corresponsione di un’indennità. La requisizione in proprietà ha effetti irreversibili.
La requisizione in uso è un provvedimento che ha come presupposto l’urgente necessità: essa riguarda beni
sia mobili sia immobili e comporta la possibilità di poter utilizzare il bene per il tempo necessario e pagando
un’indennità. I caratteri dell’urgenza, della temporaneità (le requisizioni durano finché dura la situazione di
urgenza che le ha originate) e dell’indennità, presenti nella stessa fattispecie, differenziano la requisizione in
uso sia dall’espropriazione, sia dalle ordinanze di necessità e urgenza, che non danno via all’indennizzo.
La confisca è un provvedimento ablatorio a carattere non già espropriativo, bensì sanzionatorio ed è la
misura conseguente alla commissione di un illecito amministrativo: si pensi all’ipotesi di confisca
dell’immobile realizzato abusivamente. Taluni esempi sono ricavabili dalla disciplina antimafia, ove si
prevede anche la fattispecie della “destinazione simbolica” dei beni sequestrati.
Il sequestro è il provvedimento ablatorio di natura cautelare: esso mira in genere a salvaguardare la
collettività dai rischi derivanti dalla pericolosità del bene (si pensi ai sequestri di sostanze alimentari o di
medicinali avariati).
Gli ordini hanno in particolare l’effetto di imporre un comportamento al destinatario. Essi si distinguono in
comandi (ordini di fare: si pensi all’ordine di demolire il manufatto abusivo) e divieti (ordini di non fare: è
tale il divieto di circolazione stradale), nonché in generali e particolari (questi ultimi rivolti ad un singolo
soggetto).
Dagli ordini si distinguono le direttive, che rispetto agli ordini presentano una minore vincolatività;
dall’ordine (il quale crea l’obbligo), inoltre, va tenuta distinta anche la diffida, che consiste nel formale
avvertimento ad osservare un obbligo che trova il proprio fondamento in altro provvedimento o nella legge.
Esistono poi poteri ablatori caratterizzati dal fatto che impongono obblighi a rilevanza patrimoniale e,
dunque, hanno come effetto la costituzione autoritativa di rapporti obbligatori: si pensi ai provvedimenti
prezzi e, più in generale, a tutti i casi di prestazioni imposte.

10. I poteri sanzionatori

Un’ulteriore categoria di poteri il cui esercizio produce effetti sfavorevoli in capo al destinatario è costituita
dalle sanzioni. Per sanzione per lo più si intende la conseguenza sfavorevole di un illecito applicata
coattivamente dallo Stato o da altro ente pubblico, mentre per illecito la violazione di un precetto compiuta
da un soggetto: la sanzione costituisce dunque la misura retributiva nei confronti del trasgressore o,
comunque, del responsabile. Si crea così un rapporto diretto tra questo e la sanzione, nel senso che la
sanzione incide su di lui in modo immediato e, dunque, ha natura e funzione eminentemente afflittiva. Si
stabilisce dunque che:
a) che la sanzione ha carattere eminentemente afflittivo;
b) che essa è la conseguenza di un comportamento antigiuridico di un soggetto, di cui è diretta e
immediata conseguenza, e ne discendono alcuni corollari che così possono sintetizzarsi:
a) non è sanzione la misura, di carattere preventivo e cautelare, che non presuppone
l’accertamento della violazione della legge, a meno che non sia fondata sull’accertato
pericolo della violazione stessa da parte del soggetto;

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b) non è sanzione la dichiarazione di nullità o la rimozione dell’atto invalido, perché la reazione


dell’ordinamento opera qui soltanto nei confronti dell’atto, mentre il soggetto rimane
estraneo alla diretta considerazione normativa;
c) non è sanzione la reintegrazione, in qualsiasi forma, dello stato di cose antecedente alla
trasgressione, da cui esula qualsiasi finalità afflittiva.

Si tratta ora di vedere, nel quadro generale delle sanzioni, quale possa considerarsi, accanto alle sanzioni
penali e civili, sanzione amministrativa. Le sanzioni amministrative non hanno un contenuto loro peculiare,
ma si possono individuare in modo soltanto residuale, quali misure afflittive non consistenti in sanzioni
penali o in sanzioni civili. Inoltre, esse possono coinvolgere solo beni che la Costituzione non assoggetta ad
una riserva di giurisdizione. Si può dunque definire sanzione amministrativa la misura afflittiva non
consistente in una pena criminale o in una sanzione civile, irrogata nell’esercizio di potestà
amministrative come conseguenza di un comportamento assunto da un soggetto in violazione di una norma o
di un provvedimento amministrativo o, comunque, irrogata al responsabile cui l’illecito sia imputato.
I principi generali della sanzione amministrativa vanno ricercati nella legislazione ordinaria, costituita dalla l.
689/1981, nella quale sono contenuti principi di tipo garantistico modellati, almeno parzialmente, su quelli
penalistici. Essi operano sul piano delle fonti (principio di legalità), sul piano della successione delle leggi
nel tempo (principio di irretroattività), sul piano della interpretazione (principio del divieto di analogia) .
La sanzione amministrativa è il risultato dell’esercizio di un potere amministrativo. I principi di tipicità e di
nominatività dei poteri e dei provvedimenti trovano corrispondenza nella tassatività delle misure
sanzionatorie che, almeno in una fase iniziale, l’elaborazione in materia di pene amministrati
ve ha potuto mutuare dall’esperienza penalistica. Il procedimento prende avvio di norma dall’accertamento e
contestazione della violazione, prevede la possibilità per l’interessato di difendersi e si conclude con
l’irrogazione della sanzione. L’efficacia dei provvedimenti sanzionatori è subordinata alla loro
comunicazione al destinatario (art. 21-bis, l. 241/1990).
La l. cost. 3/2001 di riforma del titolo V della parte II della Costituzione non elenca le sanzioni tra le materie
riservate allo Stato o alla potestà legislativa concorrente; la potestà sanzionatoria può essere ricompresa nelle
varie materie elencate dall’art. 117 Cost., nuova formulazione (tutela dell’ambiente, ordine pubblico, tutela
della concorrenza, ordinamento della comunicazione e così via) o affidate per esclusione alle regioni (Corte
cost. n. 361/2003).
Una distinzione essenziale che va tracciata è quella tra cosiddette sanzioni ripristinatorie, che colpiscono la
res e mirano a reintegrare l’interesse pubblico leso, e sanzioni afflittive, le quali si rivolgono direttamente
all’autore dell’illecito. Soltanto queste ultime hanno la finalità di punire il colpevole, mentre le prime mirano
a porre rimedio alla lesione di un interesse pubblico. Si distingue ulteriormente, all’interno di quelle
afflittive, tra sanzioni pecuniarie e sanzioni interdittive: queste ultime incidono sull’attività del soggetto
colpito. Posizione a parte occupano le sanzioni disciplinari, le quali si riferiscono ai soggetti che si trovano
in un peculiare rapporto con l’amministrazione.
Tale rapporto può scaturire dall’appartenenza a comunità stabili come le scuole, ovvero a comunità
occasionati, quali gli ospedali, oppure ancora a corpi organizzati come i collegi professionali e i corpi
militari.
Le sanzioni disciplinari incidono talora sul patrimonio, talora sull’esplicazione dell’attività; di conseguenza il
loro carattere comune deve essere ricercato altrove ed è costituito dal fatto che conseguono alla violazione di
prescrizioni relative ad uno status.
La legge contempla poi un peculiare gruppo di sanzioni amministrative, le sanzioni accessorie: ad es., l’art.
20, l. 689/1981, prevede alcune misure interdittive, originariamente penali, consistenti nella privazione o
nella sospensione di facoltà o diritti derivanti da provvedimenti della pubblica amministrazione.
Sotto il profilo della tutela, la giurisprudenza ha generalmente adottato il principio secondo il quale
sussisterebbe la giurisdizione ordinaria con riferimento alle misure afflittive, laddove le controversie relative
alle misure ripristinatorie sarebbero devolute alla giurisdizione amministrativa.
La violazione del precetto, presupposto la cui sussistenza apre la via all’emanazione del provvedimento
sanzionatorio, dà luogo all’illecito amministrativo, per il quale la legge n. 689/1981 prevede una riserva di
legge. In altri termini la integrazione dell’illecito costituisce il presupposto per l’adozione della sanzione: la
sua descrizione, con la rilevante eccezione del potere disciplinare relativo al rapporto di lavoro presso
pubbliche amministrazioni, è sottratta in via di principio alle fonti secondarie, o comunque diverse dalla
legge, e ciò per evidenti ragioni di garanzia a favore dei privati. Per quanto attiene all’elemento
psicologico, si richiede il dolo o la colpa (la giurisprudenza afferma che spetta al trasgressore la
dimostrazione dell’assenza della colpa: Cass., n. 1 6608/2003). Va infine ricordato che l’ordinamento ha
previsto alcune ipotesi di sanzioni pecuniarie inflitte a persone giuridiche, riconosciute dunque direttamente
responsabili.
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11. I poteri di ordinanza, i poteri di programmazione e di pianificazione, i poteri di imposizione dei


vincoli, i poteri di controllo.

Il potere di ordinanza, esercitabile nelle situazioni di necessità e urgenza, è caratterizzato dal fatto che la
legge non predetermina in modo compiuto il contenuto della statuizione in cui il potere può concretarsi. Il
potere di ordinanza, il cui esercizio dà luogo alla emanazione delle ordinanze di necessità e urgenza, pare
dunque non rispettare il principio di tipicità dei poteri amministrativi che impone la previa individuazione
degli elementi essenziali dei poteri a garanzia dei destinatari degli stessi. D’altro canto le ordinanze in esame
sono previste proprio per far fronte a situazioni che non possono essere risolte rispettando il normale ordine
delle competenze e i normali poteri. Nelle materie non coperte da riserva di legge si riconosce in dottrina che
l’ordinanza possa addirittura derogare temporaneamente alla legislazione preesistente. Tra gli esempi più
rilevanti di ordinanza ricordiamo le ordinanze contingibili e urgenti del sindaco (art. 54, T.U. enti locali
Corte cost., n. 115/2011), le ordinanze dell’autorità di pubblica sicurezza (art. 216, r.d. 773/1931), quelle
adottate ai sensi della l. 225/1992 (istituzione del servizio nazionale della protezione civile) e le ordinanze
che possono essere adottate nelle situazioni di emergenze sanitarie o di igiene pubblica.
Le ordinanze vanno distinte dai provvedimenti d’urgenza, atti tipici e nominati suscettibili di essere
emanati sul presupposto dell’urgenza, ma che, tuttavia, sono di contenuto predeterminato dal legislatore (es:
requisizione in uso). Di rilievo è l’ordinanza che il Ministro dell’ambiente e del territorio può emanare per
ingiungere a coloro che siano risultati responsabili di illecito ambientale il ripristino ambientale a titolo di
risarcimento in forma specifica (art. 313, d.lgs. 152/2006), ovvero di una somma a titolo di risarcimento per
equivalente pecuniario.
Rilevanti poi sono i poteri di pianificazione e i poteri di programmazione. La programmazione (cui è
riconducibile anche la pianificazione) indica il complesso di atti mediante i quali l’amministrazione, previa
valutazione di una situazione nella sua globalità, individua le misure coordinate per intervenire in un dato
settore. Di solito i piani hanno natura normativa e/o di atti a contenuto generale, sicché non costituiscono
esercizio di poteri aventi una autonoma fisionomia. Ai sensi dell’art. 39, d.lgs. 33/2013, la pubblicazione
degli estremi degli atti di governo del territorio è condizione per l’acquisto di efficacia. Vi è una notevole
pluralità dei piani, previsti dalla legge per la tutela di svariati interessi pubblici. In particolare, si hanno
pianificazioni urbanistiche in senso proprio (che mirano a contemperare i vari interessi pubblici e privati
relativi all’uso del territorio, stabilendo le compatibilità territoriali) e territoriali (attinenti a interessi
differenziati, che prevalgono rispetto ad altri interessi: si pensi a paesaggio, ambiente, difesa del suolo ecc.).
Questa pluralità genera il problema dell’individuazione di criteri per la soluzione di eventuali contrasti. Il
piano, infatti, serve ad ordinare nel tempo e nello spazio lo svolgimento di attività e, di norma, concerne l’uso
del territorio. Se un unico territorio è destinato ad ospitare più piani, predisposti da amministrazioni diverse e
per fini anche differenti, possono venire poste indicazioni contrastanti. I modelli di soluzione enucleabili
sono assai numerosi: gerarchia dei piani (ad esempio un piano regionale potrebbe condizionare un piano
provinciale), criterio della competenza (i vari piani dovrebbero occuparsi di problemi differenti, evitando
così qualsiasi contrasto), gerarchia degli interessi.
Al fine di conservare alcuni beni immobili che presentano peculiari caratteristiche storiche, ambientali,
urbanistiche e così via, la legge attribuisce all’amministrazione il potere di sottoporre gli stessi a vincolo
amministrativo, che, di norma, è imposto mediante piano. A seguito di tale vincolo si produce una riduzione
delle facoltà spettanti ai proprietari: in genere si tratta dell’imposizione di obblighi di fare (conservare i beni,
realizzare interventi) o di non fare (modificare o alterare l’immobile). Il vincolo può essere assoluto, se
impedisce di utilizzare il bene, o relativo.
Si ricorda la nozione di controllo (come attività strumentale di «verifica» di un comportamento alla stregua di
un dato parametro preordinata all’adozione di una «misura»), con riferimento alle relazioni interorganiche e
intersoggettive; un potere analogo ricorre anche nei rapporti dell’amministrazione con i privati: in particolare
si hanno esempi di atti che vengono rilasciati a seguito dell’esito positivo di un controllo sull’attività da essi
svolta.
La tendenza alla liberalizzazione implica anche un ripensamento dei controlli. La disciplina in argomento,
tuttavia, è spesso disorganica e frammentata e si lega alla questione delle ispezioni. A livello europeo deve
essere ricordata la raccomandazione 2001/331/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 aprile 2001,
che stabilisce i criteri minimi per le ispezioni ambientali, mentre, sul piano interno, l’art. 25, d.lgs. 33/2013,
dispone che le pubbliche amministrazioni pubblichino sul proprio sito istituzionale
(www.impresainungiorno.it) l’elenco delle tipologie di controllo a cui sono assoggettate le imprese in ragione
della dimensione e del settore di attività, indicando per ciascuna di esse i criteri e le relative modalità di
svolgimento, nonché l’elenco degli obblighi e degli adempimenti oggetto delle attività di controllo che le
imprese sono tenute a rispettare per ottemperare alle disposizioni normative.

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Molto rilevante è la disciplina posta dall’art. 11, l. 180/2011 (“Statuto delle imprese”), ai sensi del quale le
certificazioni relative a prodotti, processi e impianti rilasciate alle imprese dagli enti di normalizzazione a ciò
autorizzati e da società professionali o da professionisti abilitati sono addirittura sostitutive della verifica da
parte della pubblica amministrazione e delle autorità competenti, fatti salvi i profili penali.

12. I poteri strumentali e i poteri dichiarativi. Le dichiarazioni sostitutive

L’amministrazione, in occasione dell’esercizio di potere, pone in essere atti che sono non già
provvedimentali, bensì strumentali ad altri poteri (pareri, proposte, atti di controllo, accertamenti, detti anche
atti dichiarativi). L’effetto giuridico prodotto dall’esercizio di un potere può consistere nell’effetto
dichiarativo, che non modifica la situazione giuridica preesistente, bensì dà «luogo a semplici svolgimenti
interni di situazioni giuridiche preesistenti». Vi sono casi in cui tale effetto inerisce allo svolgimento di un
procedimento: si pensi all’accertamento della sussistenza di un presupposto la cui esistenza è necessaria per
potere provvedere. In altri ipotesi, tale qualificazione non è strumentale all’emanazione di un provvedimento.
La circostanza che l’accertamento non modifichi il fatto o il rapporto da cui scaturisce l’effetto sul piano
dell’ordinamento generale, fa sì che il giudice (ordinario) possa accertare il fatto stesso, superando la
qualificazione dell’amministrazione. In tal caso non sussiste infatti un potere amministrativo
provvedimentale, sicché la situazione del privato interessato a tale attività dell’amministrazione rimane di
diritto soggettivo se originariamente era di questo tipo. L’efficacia dichiarativa incide su di una situazione
giuridica preesistente rafforzandola, specificandone il contenuto o affievolendola impedendo così la
realizzazione della situazione in una certa direzione: è il caso della cancellazione di alcuni beni dagli elenchi
di beni pubblici. Taluni atti dichiarativi hanno invece la funzione di attribuire certezza legale ad un dato
(fatto, atto, stato, qualità o rapporto), precludendo ai consociati di assumere che il dato sia diverso da come è
raffigurato nell’atto; questi atti, detti di «certazione», dunque, producono certezze che valgono erga omnes.
Essi sono tipici e nominati e corrispondono ad un’importante funzione pubblica dell’amministrazione nella
moderna società. Le conoscenze acquisite dall’amministrazione sono spesso conservate e ordinate in appositi
registri, albi, liste, elenchi, casellari e così via. La certezza può poi essere «messa in circolazione» mediante
certificati, i quali sono atti con cui appunto si riproduce una certezza. Il certificato è quindi il documento
«tipico» (ossia previsto espressamente dalla legge) rilasciato da un’amministrazione avente funzione di
ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o
registri pubblici o comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche (art. l, d.p.r. 445/2000; si
parla spesso di certificazioni, ossia le dichiarazioni di scienza esternate mediante certificato).
La registrazione non è un certificato, in quanto in essa è prevalente la funzione di acquisire conoscenze
rispetto a quella di esternare, propria del certificato.
Il certificato ha normalmente i caratteri dell’atto pubblico, essendo rilasciato da un pubblico ufficiale
autorizzato a darvi pubblica fede, e fa piena prova, fino a querela di falso, tanto in sede amministrativa
quanto in sede giurisdizionale; le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati,
qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Dalle certazioni e dai certificati
occorre distinguere gli attestati (es. attestati di benemerenza), che sono atti amministrativi sempre tipici, ma
insuscettibili di creare la medesima certezza legale creata dalle certazioni e che, a differenza dei certificati,
non mettono in circolazione una certezza creata da un atto di certazione. Ancora differenti sono le
attestazioni atipiche (attestati di frequenza a corsi, attestati di svolgimento di attività di studio e ricerca,
ecc.), che sul piano dell’ordinamento generale creano, al più, una presunzione, e gli atti di notorietà, che
sono atti formati, su richiesta di un soggetto, da un pubblico ufficiale (es. notaio, sindaco), in base alle
dichiarazioni simultanee rese in sua presenza e sotto giuramento da alcuni testimoni (non meno di due): da
questi atti risulta che la notizia di determinati fatti è diventata di pubblico dominio. Negli ultimi anni si è fatta
sempre più presente la possibilità di consentire al privato di potere provare, nei suoi rapporti con
l’amministrazione, determinati fatti, stati e qualità a prescindere dall’esibizione dei relativi certificati. Nei
confronti dell’amministrazione si può utilizzare unicamente l’istituto giuridico della dichiarazione
sostitutiva, che è un atto del privato capace di sostituire una certificazione pubblica producendone lo stesso
effetto giuridico. La mancata accettazione della dichiarazione sostitutiva costituisce violazione dei doveri
d’ufficio (art. 74, T.U.). La legge attribuisce alla pubblica amministrazione il compito di controllare la
veridicità delle dichiarazioni sostitutive, che avviene mediante raffronto tra il contenuto delle stesse e quello
degli atti di certazione. Vi sono due tipi di dichiarazioni sostitutive. La dichiarazione sostitutiva di
certificazione (art. l , T.U. in materia di documentazione amministrativa) è il documento, sottoscritto
dall’interessato, in sostituzione dei certificati (ad es. data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato
civile e di famiglia, ecc.). Il T.U. prevede altresì che il cittadino possa rendere al funzionario competente
dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, ossia atti con cui il privato comprova, nel proprio interesse
e a titolo definitivo, tutti gli stati, fatti e qualità personali non compresi in pubblici registri, albi ed elenchi,
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nonché stati, fatti e qualità personali relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza. Ai sensi
dell’art. 57, d.lgs. 82/2005, le pubbliche amministrazioni provvedono a definire e a rendere disponibili anche
per via telematica l’elenco della documentazione richiesta per i singoli procedimenti, i moduli e i formulari
validi ad ogni effetto di legge, anche ai fini delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e delle
dichiarazioni sostitutive di notorietà. Le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà da produrre a organi
dell’amministrazione o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza
del dipendente addetto: in tal caso è sufficiente la sottoscrizione, non richiedendosi l’autenticazione. Per
quanto attiene alle dichiarazioni sostitutive di certificazioni, secondo la circolare del ministero dell’interno n.
11/1997, le loro sottoscrizioni «non devono più essere autenticate, indipendentemente dalle modalità di
presentazione».
L’art. 71, T.U. specifica che il controllo sulle dichiarazioni sostitutive (di certificazione e di atto di notorietà)
debba avvenire, anche a campione, e in tutti i casi in cui «sorgano fondati dubbi» sulla loro veridicità. Esso è
effettuato secondo due modalità: consultando direttamente gli archivi dell’amministrazione certificante,
ovvero richiedendo alla medesima conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le
risultanze dei registri. In caso di irregolarità od omissioni rilevabili d’ufficio, non costituenti falsità, il
funzionario competente a ricevere la documentazione dà notizia all’interessato, il quale è tenuto alla
regolarizzazione e al completamento della dichiarazione (art. 71). La mancata risposta alle richieste di
controllo entro trenta giorni costituisce violazione dei doveri d’ufficio (art. 72, T. U. in materia di
documentazione amministrativa). In caso di non veridicità del contenuto delle dichiarazioni, oltre alle
sanzioni penali, la legge prevede che il dichiarante decada dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera (art. 75).
La recente normativa ha previsto che le dichiarazioni sostitutive possono essere utilizzate anche nei rapporti
tra privati che vi consentano (art. 2, T.U.): in tal caso l’amministrazione competente per il rilascio della
relativa certificazione, previa definizione di appositi accordi, è tenuta a fornire, su richiesta del privato
corredata dal consenso del dichiarante, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le
risultanze dei dati custoditi. Un ruolo diverso dei privati con riferimento al tema della produzione della
certezza può essere individuato in ordine alle certificazioni private molto diffuse in svariati settori e che, in
vista del rafforzamento dell’affidamento pubblico, attengono alla conformità di prodotti o di metodi di
produzione a norme e standard tecnici (certificati di bilancio; certificato di qualità Iso, International
Organization for Standardization, certificazioni nel settore degli appalti, certificazioni ambientali, nel settore
turistico e agroalimentare). In alcuni casi si tratta di certificazioni prodotte da imprese non controllate da
soggetti pubblici, ma accreditate da organismi privati (in Italia, per l’Iso la competenza è del Sincert,
associazione non profit); in altre ipotesi, i certificatori debbono essere accreditati o autorizzati da organismi
pubblici (ad esempio Dop e Igp: identificazione geografica protetta; reg. 2081/1992/CEE); infine, vi sono
casi in cui le certificazioni sono emanate da organismi pubblici (Ecolabel: regolamento 1980/2000/Ce) o da
privati accreditati, ma nell’ambito di un procedimento di stampo pubblicistico (Emas: eco-management and
audit scheme; regolamento 761/2001/CEE).

13. I poteri relativi ad atti amministrativi generali

L’amministrazione può determinare effetti giuridici in relazione a tutti i rapporti che abbiano le medesime
caratteristiche. I relativi atti amministrativi sono detti generali, in quanto sono in grado di produrre effetti
nei confronti di una generalità di soggetti, titolari di quei rapporti, pur se risultano privi di forza precettiva.
Tali atti sono ricollegabili allo schema norma-potere-effetto: la legge non produce direttamente l’effetto in
quanto attribuisce il relativo potere all’amministrazione.
La riconduzione di un atto nella categoria degli atti amministrativi generali riveste una certa importanza
giacché essi sono sottratti alla disciplina della partecipazione procedimentale e del diritto di accesso di cui
alla l. 241/1990 (v. artt. 13 e 24); inoltre, gli atti amministrativi generali, come quelli normativi, non
necessitano di motivazione. La circostanza che gli atti amministrativi generali costituiscano esercizio di un
potere amministrativo consente di giustificare la loro derogabilità per il caso singolo da parte
dell’amministrazione, fatto salvo l’obbligo di motivare: la deroga è infatti esercizio del medesimo potere che
si è concretizzato nell’atto generale.
Natura amministrativa hanno le ipotesi rientranti in una particolare categoria di atti amministrativi generali,
costituita dalle autorizzazioni generali, conosciute dalla normativa sulla liberalizzazione dei servizi, dal
d.lgs. 196/2003 in materia di autorizzazioni rilasciate dal Garante per la protezione dei dati personali per
intere categorie di titolari o di trattamenti (art. 40) e dalla disciplina in tema di inquinamento atmosferico
(d.lgs. 152/2006).

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14. Cenni ad alcune tra le più rilevanti vicende giuridiche il cui studio interessa il diritto
amministrativo: il decorso del tempo e la rinuncia

Talvolta il presupposto per la produzione dell’effetto è un atto giuridico (mero atto): tuttavia l’effetto dipende
direttamente dalla legge e non dall’atto, che è la semplice condizione perché si producano le conseguenze
interamente da essa regolate. Alcuni altri fatti, atti e negozi assumono peculiare interesse per il diritto
amministrativo. Tra i fatti va menzionato il decorso del tempo: esso produce la nascita o la modificazione di
una serie di diritti ed è alla base degli istituti della prescrizione e della decadenza. Il potere, in quanto
attributo della soggettività, non è trasmissibile; esso non è neppure prescrittibile a seguito del decorso del
tempo. Il potere, infatti, trascende i singoli rapporti: la circostanza che esso non sia esercitato in un singolo
caso e in un singolo rapporto può determinare la decadenza limitatamente al caso o al rapporto considerati,
ma non impedisce che lo stesso potere possa essere esercitato in altri casi o in altri rapporti. Il diritto
soggettivo è soggetto a prescrizione, ove non esercitato per un certo periodo di tempo (si pensi al diritto di
percepire lo stipendio, che si prescrive in cinque anni).
Una questione particolarmente delicata si profila in ordine alla prescrizione nella materia delle sanzioni
amministrative. La giurisprudenza si è talora occupata del problema in tema di abusi edilizi, ribadendo che
il potere sanzionato rio dell’ amministrazione non è soggetto a termini di prescrizione o di decadenza, ma
imponendo ad essa l’obbligo di motivazione in ordine alla scelta di procedere comunque all’esercizio del
potere, che deve essere giustificato sulla base della prevalenza del pubblico interesse alla repressione.
Il tempo, unitamente all’esercizio di un diritto, è alla base dell’istituto dell’usucapione dei diritti reali, ma per
quanto attiene al diritto amministrativo occorre ricordare che non è ammesso l’acquisto per usucapione di
diritti su beni demaniali.
Tra gli atti che producono vicende estintive di diritti si annovera poi la rinuncia, negozio avente più
propriamente effetto abdicativo cui può seguire un effetto traslativo (accrescimento della sfera altrui) o
estintivo (se la situazione abdicata non entra nella sfera di altro soggetto: si pensi alla rinunzia ad una
sovvenzione).
Il potere, intrasmissibile e imprescrittibile, non può essere oggetto di un atto di rinunzia. Sono invece
normalmente rinunciabili i diritti soggettivi (come ad esempio il diritto all’indennizzo nel caso di
espropriazione o il diritto ad una onorificenza). Non sono rinunziabili le situazioni che ineriscono a interessi
diversi da quelli del loro titolare (è ad esempio irrinunciabile l’ufficio di tutore) e i diritti di libertà, in quanto
trattasi, in senso proprio, di poteri.
In tema di crediti dei dipendenti aventi causa nel rapporto di lavoro, si ricordi che l’amministrazione non può
rinunciare alla prescrizione e alla relativa eccezione. Circa la possibilità di rinunciare agli interessi
legittimi, si deve osservare che, avendo ad oggetto tali interessi la pretesa alla legittimità dell’azione svolta
dalla pubblica amministrazione nell’esercizio di un potere, il loro titolare non può disporne, in quanto non
può disporre del potere correlato, il quale produce effetti nei confronti dei destinatari direttamente individuati
dalla legge. In altri termini, l’interesse legittimo segue il potere e il suo esercizio. L’interesse può invece
trasferirsi congiuntamente al rapporto sostanziale che corre con l’amministrazione. Ammissibile è invece la
rinuncia allo strumento di reazione processuale (e cioè all’esercizio del potere di azione nel caso concreto),
così come possibile è la rinuncia al bene finale della vita o la disposizione dello stesso (si pensi alla vendita
del terreno in ordine al quale si è richiesto il permesso di costruire).

15. Segue: fatti, atti e negozi costitutivi di obblighi

Particolarmente rilevanti nel diritto amministrativo sono inoltre fatti, atti e negozi costitutivi di obblighi in
capo a soggetti pubblici: trattasi del contratto, del fatto illecito, della legge e delle altre fonti di cui all’art.
1173 c.c.

16. L’esercizio del potere: norme di azione, discrezionalità e merito

Allorché sia attribuito un potere, l’ordinamento sceglie di rimettere alla successiva scelta autonoma
dell’amministrazione la produzione di vicende giuridiche in ordine a situazioni soggettive dei privati.
L’amministrazione deve in concreto agire in vista del perseguimento dell’interesse che costituisce la ragione
dell’attribuzione del potere. Le norme che disciplinano l’azione amministrativa non partecipano dei caratteri
delle norme di relazione, delle norme cioè che risolvono conflitti intersoggettivi
sul piano dell’ordinamento generale. Tale conflitto, che è sfociato nell’attribuzione di un potere e quindi nella
definizione degli assetti intersoggettivi, già è stato risolto: ora si tratta di disciplinare le modalità attraverso le
quali il potere deve essere esercitato. Le norme chiamate a questo compito sono definite norme d’azione;

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possono provenire non solo dalla legge, ma dall’amministrazione stessa, la quale dispone di potere
normativo. La predeterminazione delle modalità di azione (che ad esempio avviene stabilendo i tempi del
procedimento, il dovere di acquisire pareri o valutazioni tecniche e così via), riduce gli spazi di scelta
dell’amministrazione: l’azione risulta cioè in tutto o in parte «vincolata». Nei limiti in cui residuino11 questi
«spazi di scelta», si avrà azione discrezionale.
La discrezionalità amministrativa è dunque lo spazio di scelta che residua allorché la normativa di azione
non predetermini in modo completo tutti i comportamenti dell’amministrazione.
Questo tipo di discrezionalità, c.d. «pura», va distinta dalla c.d. discrezionalità tecnica, che è la possibilità di
scelta che spetta alla amministrazione allorché sia chiamata a qualificare fatti suscettibili di varia valutazione,
e si riduce ad un’attività di giudizio a contenuto scientifico. Molto spesso, tra i presupposti fissati dalla legge
per l’esercizio del potere amministrativo vi sono fatti complessi che non possono essere giudicati
semplicemente come esistenti o inesistenti (quelli che tollerano un giudizio di tal genere sono i fatti
semplici) e che, dunque, non sono suscettibili di un mero accertamento che non lasci spazio a valutazioni. La
discrezionalità pura non deve essere rapportata all’atto, né al potere, mentre all’atto, concretizzazione del
potere, non può riferirsi una discrezionalità già esercitata: essa attiene al farsi dell’atto amministrativo, e cioè
alla funzione. Quando coesistono discrezionalità pura e discrezionalità tecnica si parla di discrezionalità
mista. Le regole che presiedono allo svolgimento della discrezionalità si evincono per così dire a contrario,
in occasione della rilevazione della loro violazione che dà luogo al vizio di eccesso di potere e si riassumono
nel principio di logicità-congruità: ciò significa che la scelta deve risultare logica e congrua tenendo conto
dell’interesse pubblico perseguito, degli interessi secondari coinvolti e della misura del sacrificio ad essi
arrecato. L’essenza della discrezionalità risiede nella «ponderazione» comparativa dei vari interessi
secondari in ordine all’interesse pubblico al fine di assumere la determinazione concreta. Le scelte
discrezionali dell’amministrazione debbono tenere in considerazione la variabile ambientale. L’art. 3-quater,
d.lgs. 152/2006 prescrive che l’attività della pubblica amministrazione debba essere finalizzata a consentire
la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell’ambito della scelta
comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell’ambiente e
del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione. Lo sviluppo sostenibile mira a
garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non comprometta la qualità della vita e
le possibilità delle generazioni future. L’insieme delle soluzioni ipotizzabili come compatibili con il principio
di congruità in un caso determinato definisce il merito amministrativo, normalmente sottratto al sindacato
del giudice amministrativo e attribuito alla scelta esclusiva dell’amministrazione, la quale, tra la pluralità di
scelte così individuate, preferirà quella ritenuta più opportuna.

17. Le fonti del diritto (in particolare quelle legislative) attinenti alle situazioni giuridiche

Le fonti giuridiche sono i fatti e gli atti produttivi di norme giuridiche. L’individuazione delle fonti del diritto
amministrativo dipende dalla nozione di diritto amministrativo alla quale si ritenga di accedere. In ogni caso,
solo una parte delle fonti che disciplinano l’attività e l’organizzazione dell’amministrazione può identificarsi
con le fonti che attribuiscono e riconoscono gli enti pubblici e le loro situazioni giuridiche (norme di
relazione). Infatti, il diritto amministrativo disciplina in massima parte una materia diversa da questa: diversa
nel senso che, pur presupponendo il riconoscimento dei soggetti del diritto e l’attribuzione delle situazioni
soggettive (in particolare dei poteri) alle amministrazioni, riguarda le modalità di azione e di organizzazione
amministrativa (norme di azione).
Il riconoscimento dei soggetti dell’ordinamento e la soluzione dei conflitti intersoggettivi che li riguardano
deve avvenire da parte di una fonte dell’ordinamento giuridico generale: essi spettano dunque essenzialmente
alla Costituzione, alla legge e agli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi).
Si ricorda il principio di legalità, che impone la definizione legislativa del potere amministrativo nei suoi
elementi essenziali; si spiega così perché sia preferibile la tesi che considera la legalità come «conformità»,
giacché l’opinione che ritiene sufficiente la «compatibilità» comporterebbe il riconoscimento di un potere, in
via di principio illimitato, alla pubblica amministrazione, non conferito dall’ordinamento. Le situazioni
giuridiche, essendo le posizioni in cui l’ordinamento generale pone i soggetti portatori di interessi, possono
sorgere unicamente sulla base di norme giuridiche di quell’ordinamento. Ciò garantisce che tali norme (le
quali, per il fatto che delimitano le posizioni giuridiche di soggetti in relazione con quelle altrui, sono dette di
«relazione») siano prodotte da una fonte (atto o fatto) superiore alle parti in conflitto, ovvero da una fonte ad
essa equiparata.
Anche norme non facenti parte dell’ordinamento generale, ma di quello amministrativo, quali i regolamenti
amministrativi, talora concorrono a definire i limiti delle situazioni soggettive e delle soggettività e in
particolare dei poteri amministrativi e, più in generale, l’assetto delle relazioni intersoggettive.

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Tornando al problema dell’individuazione delle norme di relazione, occorre aggiungere che anche nella
Costituzione possono essere individuate norme direttamente attributive di poteri e diritti. Molte norme
qualificano come «diritti» interessi particolarmente importanti, come ad esempio quello al lavoro, ovvero alla
salute.

18. Cenni ad alcuni riflessi della distinzione tra norme di relazione e norme di azione sui problemi
della difformità del fatto dal paradigma normativa e del riparto di giurisdizione

Le norme di relazione proteggono in particolare i diritti soggettivi. Si può dunque dire che alla violazione di
una norma di relazione consegue la lesione di un diritto soggettivo. Poiché il giudice che tutela i diritti
soggettivi è il giudice ordinario, come affermato dalla Costituzione, la stessa situazione può essere descritta
affermando che il giudice ordinario sindaca la violazione delle norme di relazione. Il rispetto delle norme di
relazione è condizione per la produzione di effetti.
L’atto amministrativo emanato in assenza di potere è dunque da qualificare come nullo ed è, di norma,
sindacabile dal giudice ordinario. Posto che esso è emanato in una situazione in cui manca il potere, si può
aggiungere che il giudice ordinario ha giurisdizione nei casi in cui l’amministrazione abbia agito in carenza
di potere, ponendo in essere un atto nullo e, cioè, non produttivo di effetti. L’art. 133, d.lgs. 104/2010
contempla le ipotesi di atto nullo adottato in violazione o elusione del giudicato, devolvendoli alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; secondo Cass., sez. un., n. 12110/2013, spetta alla
giurisdizione del giudice ordinario la cognizione di una controversia originata dalla contestazione dell’atto
con cui l’amministrazione abbia d’ufficio vagliato la nullità di propri precedenti provvedimenti al fine di non
dar corso ai relativi effetti: tale atto di accertamento della nullità, infatti, non avrebbe carattere autoritativo e,
per altro verso, non sussiste una norma espressa che, come nel caso del giudicato, riconosce la giurisdizione
del giudice amministrativo.
Poiché l’azione amministrativa è legittimamente svolta quando sia posta in essere nel rispetto di esse, e
poiché l’interesse legittimo è la pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa, si può concludere che
l’interesse legittimo è anche la pretesa all’osservanza delle norme di azione. Sotto il profilo processuale la
tutela dell’interesse legittimo è affidata al giudice amministrativo, che ha una giurisdizione “generale di
legittimità”: atteso che l’interesse legittimo è leso dall’inosservanza di una norma di azione, è possibile
asserire che il giudice amministrativo sindaca la violazione delle norme di azione. Ove siano rispettate le
norme di relazione che attribuiscono il potere, l’atto finale non è nullo, proprio perché sussiste per esso la
giuridica possibilità di produrre effetti. Gli effetti così prodotti sono tuttavia precari, nel senso che
l’ordinamento non può tollerare che siano equiparati in tutto a quelli che scaturiscono da un’azione legittima.
L’atto è cioè emanato in una situazione in cui il potere sussiste, ma è stato esercitato in modo non corretto: si
può allora concludere che la giurisdizione del giudice amministrativo si individua in base al canone del
cattivo esercizio del potere amministrativo. Il giudice che accerti la violazione delle norme di azione dovrà
eliminare sia l’atto, sia i suoi effetti, emanando una decisione di annullamento. Il regime dell’atto posto in
essere in violazione di norme di azione è dunque l’annullabilità. L’atto illegittimo può essere annullato in
via di autotutela anche dalla stessa amministrazione che lo ha emanato, la quale ha altresì normalmente il
potere di convalidarlo (art. 21-nonies, l. 241/1990). L’atto illegittimo, inoltre, può essere disapplicato dal
giudice ordinario, annullato dall’amministrazione in sede di decisione di ricorso amministrativo, ovvero in
sede di controllo. Le norme di azione, quanto alla provenienza soggettiva, sono prodotte sia dalle fonti
secondarie, sia dalle fonti primarie che si connotino, sotto il profilo oggettivo, per il fatto di essere poste in
vista della cura di interessi pubblici e di non definire rapporti intersoggettivi. Tra queste fonti vanno
annoverate anche le leggi regionali, le quali hanno disciplinato soltanto l’azione dell’amministrazione,
mentre non hanno potuto occuparsi dei rapporti civili e della materia processuale.

19. Le norme prodotte dalle fonti comunitarie

I trattati comunitari e le fonti di provenienza comunitaria agiscono come strumenti di armonizzazione,


seppure parziale, del diritto amministrativo dei vari paesi membri. Tra tali fonti spiccano i regolamenti
comunitari, atti di portata generale, obbligatori e direttamente applicabili nei rapporti c.d. «verticali» tra
pubblici poteri e cittadini, e le direttive comunitarie, vincolanti per lo Stato membro in ordine al risultato da
raggiungere. In entrambi i casi, organi comunitari, non facenti parte dell’ordinamento dello Stato italiano,
producono norme in esso direttamente applicabili. Secondo la Corte costituzionale, il regolamento
comunitario deve essere applicato dal giudice interno anche disapplicando la legge nazionale incompatibile
(Corte cost., n. 170/1984), sicché la norma regolamentare comunitaria finisce per costituire parametro di
legittimità dell’atto amministrativo.

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L’applicazione della norma comunitaria e la disapplicazione di quella nazionale è dunque il meccanismo


processuale mediante il quale si esprime la prevalenza della normativa comunitaria.
Il potere-dovere di disapplicazione riguarda anche il giudice amministrativo, il quale è chiamato sempre più
spesso ad esercitarlo, attese le dimensioni della produzione normativa comunitaria e la pervasività della
stessa. Corte cost. n. 389/1989 ha affermato la valenza dell’istituto della disapplicazione pure in relazione
alle statuizioni contenute nelle sentenze emanate dalla Corte di giustizia, nonché alle direttive comunitarie
che contengano norme precise e incondizionate (c.d. direttive self executing). Si è individuata la categoria
delle direttive immediatamente applicabili dalle nostre amministrazioni (la cui efficacia è però solo
verticale, nel senso che si produce unicamente nei confronti dello Stato, mentre i cittadini non possono farle
valere nei rapporti con altri cittadini). Le altre direttive, invece, sono vincolanti soltanto a seguito della loro
attuazione nel nostro ordinamento.
Il dovere di disapplicare la normativa italiana configgente con quella comunitaria è stato riconosciuto in capo
alla pubblica amministrazione (Corte giustizia CE, 22 luglio 1989, causa 103/88 e Corte cost., n. 389/1989) e
all’autorità antitrust (Corte giustizia CE, 9 settembre 2003, causa C-198/01).
Laddove le fonti non attribuiscano poteri o diritti, esse debbono essere ascritte alla categoria delle norme di
azione, con tutte le conseguenze del caso (sindacabilità da parte del giudice amministrativo dell’atto da esse
difforme e annullabilità dello stesso). Il regime dell’atto amministrativo conforme ad una fonte interna
disapplicabile perché in contrasto con la disciplina comunitaria sarà di nullità se la norma interna è attributiva
del potere, mentre sarà di mera annullabilità nelle ipotesi in cui la norma nazionale sia una semplice norma di
azione.
La giurisprudenza comunitaria si è altresì occupata del regime del provvedimento puntuale e concreto
contrastante con disposizioni comunitarie direttamente applicabili, statuendo che esso deve essere
disapplicato dal giudice, ancorché divenuto inoppugnabile.
La giurisprudenza nazionale ritiene infine che l’atto che contrasti con direttive comunitarie non ancora attuate
sia viziato per eccesso di potere.

20. Le fonti soggettivamente amministrative: considerazioni generali

L’attenzione va ora riposta sulle fonti che sono atti soggettivamente amministrativi. Si tratta dei regolamenti,
che sono emanati da organi amministrativi titolari del potere normativo, consistente nella possibilità di
emanare norme generali e astratte. Esercitando il potere normativo, l’amministrazione può dettare parte della
disciplina che essa stessa dovrà applicare nell’esercizio dei propri poteri amministrativi. Deve essere
osservato come, talora, i regolamenti (in particolare quelli espressione delle autonomie locali, come quelli di
polizia locale o in materia edilizia), invece di stabilire norme d’azione relativamente all’attività futura
dell’amministrazione, incidano direttamente sulla situazione giuridica dei privati riconducibili al loro campo
soggettivo di applicazione.
L’attività normativa dell’amministrazione è soggetta non solo al principio di preferenza della legge, ma
anche a quello di legalità, il quale impone che ogni manifestazione di attività normativa trovi il proprio
fondamento in una legge generale, che indichi l’organo competente e le materie in ordine alle quali esso può
esercitarla.
Ardua è l’individuazione dei caratteri degli atti normativi soggettivamente amministrativi, tali da distinguerli
da altri atti amministrativi. In particolare, la categoria degli atti amministrativi generali spesso non è
facilmente differenziabile da quella degli atti normativi, i quali sarebbero caratterizzati dall’astrattezza, inteso
il termine come indefinita ripetibilità dei precetti.
Cons. Stato, ad. plen., n. 9/2012, ha valorizzato il requisito dell’indeterminabilità dei destinatari, rilevando
che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori, mentre l’atto
amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori, in
quanto è destinato a regolare non una serie indeterminata di casi, ma una vicenda determinata, esaurita la
quale vengono meno anche i suoi effetti. Altri hanno individuato un criterio formale di distinzione tra atti
normativi e atti amministrativi generali: solo i primi sono sottoposti ad un particolare iter procedimentale,
ovvero, per quanto riguarda i regolamenti emanati dal Presidente della Repubblica, essi sono caratterizzati da
una peculiare formula che essi debbono recare (d.p.r. 1092/1985).
Qualora ricorra lo schema norma-potere-effetto, atti amministrativi generali e atti normativi presentano le
seguenti differenze:
• solo questi ultimi sono astratti, intendendo per astrattezza il carattere derivante dalla necessità di un
ulteriore esercizio di poteri ai fini della produzione dell’effetto;
• solo gli atti normativi sono espressione di un potere diverso da quello amministrativo, nel senso che,
ponendo norme di azione, essi non costituiscono esercizio di azione dell’amministrazione, ma ne
disciplinano il futuro svolgimento.
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Permangono dubbi in ordine ai piani regolatori generali, atti che secondo parte della giurisprudenza e della
dottrina avrebbero natura mista (essi possiederebbero natura normativa in ordine alle statuizioni contenute
nelle c.d. «norme di attuazione», mentre sarebbero atti generali quanto alle indicazioni attinenti alle
localizzazioni e zonizzazioni).

21. I regolamenti amministrativi

Sotto il profilo del soggetto e dell’organo da cui provengono, i regolamenti si distinguono in regolamenti
governativi, regolamenti ministeriali e regolamenti degli enti pubblici.
La disciplina dei regolamenti governativi è oggi fissata dalla l. 400/1988; per la loro emanazione la legge
richiede la deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato, e sono emanati
con decreto del Presidente della Repubblica e sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei conti.
L’art. 17, l. 400/1988 prevede diversi tipi di regolamenti governativi:
a) i regolamenti esecutivi rappresentano le fonti governative mediante le quali sono poste norme di
dettaglio rispetto alla legge o al decreto legislativo da eseguire;
b) i regolamenti attuativi e integrativi rispetto a leggi che pongono norme di principio, possono
essere adottati al di fuori delle materie riservate alla competenza regionale. Mentre i regolamenti
esecutivi si limitano a specificare la legge, quelli ora in esame possono sviluppare i principi posti
dalla legge, introducendo elementi di integrazione;
c) i regolamenti indipendenti sono emanati per disciplinare le materie in cui ancora manchi la
disciplina da parte di leggi o atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque
riservate alla legge;
d) i regolamenti che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni
pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge. Dal punto di vista dei caratteri di tali
regolamenti, quelli di organizzazione possono assumere i tratti sia dei regolamenti di esecuzione, sia
di quelli integrativi e attuativi;
e) l’art. 17, c. 2, l. 400/1988, disciplina i regolamenti di delegificazione (il termine delegificazione
indica l’attribuzione al potere regolamentare del compito di disciplinare materie anche in deroga alla
disciplina posta dalla legge) o «autorizzati», i quali possono essere adottati solo a seguito di una
specifica previsione di legge; l’effetto abrogante è da riferire alla legge che autorizza l’emanazione e
non al regolamento stesso: la volontà abrogativa risiede cioè nelle norme di legge, ma lo spiegarsi
del relativo effetto è rinviato al momento dell’intervento dell’atto regolamentare.
I regolamenti di delegificazione e, soprattutto, quelli di organizzazione introdotti dall’art. 13, l. 59/1997 (che
vale a configurare una sorta di stabile riserva di regolamento) rappresentano oggi atti di importanza
essenziale nel quadro delle fonti.
La legge contempla poi regolamenti ministeriali, nonché regolamenti interministeriali, allorché siano
adottati con decreti interministeriali in quanto attinenti a materie di competenza di più ministri. L’art. 17,
commi 3 e 4, l. 400/1988, prevede che i regolamenti ministeriali, i quali debbono autoqualificarsi come tali e
non possono dettare norme contrarie ai regolamenti governativi, debbano trovare il fondamento in una legge
che espressamente conferisca il relativo potere al ministro ed essere attinenti alle «materie di competenza del
ministro».
Circa lo spazio riservato alla potestà regolamentare regionale, va ribadito che, ai sensi dell’art. 117, Cost., «
la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salvo delega alle regioni»,
mentre, in forza del c. 6, essa spetta alle regioni in ogni altra materia. Si delinea dunque una competenza
generale e residuale in capo alla Regione. La Corte cost. (sent. n. 313/2003) ha chiarito che la scelta circa la
titolarità del potere regolamentare (in capo alla giunta o al consiglio) non può che spettare allo statuto
regionale.

22. Le altre fonti secondarie, in particolare: statuti e regolamenti degli enti locali. I testi unici e le
funzioni normative delle autorità indipendenti

L’autonomia normativa è riconosciuta non solo a Stato e regioni, ma anche ad altri enti pubblici. Essa si
estrinseca mediante l’emanazione di statuti e regolamenti.
L’autonomia statutaria e regolamentare degli enti locali è stata espressamente riconosciuta dalla l. 142/1990 e
succ. mod. (ora T.U. enti locali), secondo un modello nel quale alla legge spetta dettare le linee fondamentali
dell’organizzazione dell’ente, lasciando alle scelte autonome la possibilità di arricchire e integrare tale
disegno. Dal punto di vista della collocazione nel quadro delle fonti, il rapporto dello statuto con la legge
impone di utilizzare la nozione di competenza. Si tratta infatti di un atto espressione di autonomia

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costituzionalmente riconosciuta, che deve unicamente osservare i principi fissati dalla Costituzione, senza
che vi sia spazio per una diretta ingerenza della legge statale o regionale negli ambiti non espressamente
assoggettati a disciplina legislativa. La riforma introdotta da l. cost. 3/2001 sancisce che comuni, province e
città metropolitane sono enti autonomi «con propri statuti, secondo i principi fissati dalla Costituzione». Si
tratta dunque del riconoscimento costituzionale di una riserva di normazione, posta al riparo dalle ingerenza
sia della legge statale (così attenuandosi il principio della preferenza della legge), sia delle leggi regionali e
dei regolamenti governativi. Norme attuative della disciplina costituzionale sono ora poste dalla l. 131/2003,
che tra l’altro dispone che il potere normativo è esercitato anche dalle unioni di comuni e dalle comunità
montane e isolane. Ai sensi dell’art. 4, l. 131/2003, in particolare, lo statuto stabilisce i principi di
organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle
minoranze e le forme di partecipazione popolare.
Secondo quanto dispone attualmente il T. U. enti locali, lo statuto è deliberato dal consiglio con il voto
favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. L’art. 117, c. 6, Cost. dispone che comuni, province e città
metropolitane hanno «potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite». L’art. 4, l. 131/2003 ribadisce che l’organizzazione degli enti locali è
disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie. Corte cost. n. 246/2006 ha chiarito l’assetto
tra legge regionale e regolamenti ex art. 117, c. 6: solo gli enti medesimi possono adottare i regolamenti in
esame, restando escluso qualsiasi potere sostitutivo o suppletivo delle fonti regionali. Il T. U. enti locali
attualmente in vigore prevede svariate materie che debbono essere disciplinate con regolamento: ricordiamo
ad esempio l’accesso ai documenti, l’individuazione dei responsabili del procedimento, l’organizzazione
delle circoscrizioni, i poteri, l’organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori delle commissioni costituite
in seno al consiglio.
Non sono fonti del diritto le circolari, gli atti che pongono le c.d. norme interne e la prassi.
I testi unici raccolgono in un unico corpo le norme che disciplinano una certa materia; questi testi unici
«compilativi» (o «spontanei»), ispirati a permettere la conoscibilità della normativa, sono da inquadrare tra
le mere fonti di cognizione che non modificano le fonti raccolte. Di rilievo è la disciplina di cui all’art. 17bis,
l. 400/1988, ai sensi del quale il Governo provvede a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge
regolanti materie e settori omogenei, anche operando il coordinamento formale del testo delle disposizioni
medesime. n testo unico è deliberato dal Consiglio dei ministri, previo parere del Consiglio di Stato, ed è
emanato con decreto del Presidente della Repubblica. Esistono testi unici delegati in virtù di una delega
legislativa ex art. 76 Cost., anche se la figura che sempre più spesso ricorre è costituita dal testo unico
autorizzato, avente cioè a proprio fondamento una legge che genericamente autorizza il governo a formare il
testo unico.
L’art. 20, l. 59/1997, e succ. mod., prevede l’emanazione ogni anno di una legge per la semplificazione e il
riassetto normativa, che contempla altresì il ricorso a decreti legislativi, cui possono affiancarsi, per le
materie di competenza statale, regolamenti governativi, per il «riassetto» normativo e la codificazione.
Accanto ai codici e ai testi unici compilativi debbono essere ancora menzionati i regolamenti governativi (art.
17, c. 4-ter, l. 400/1988) con cui si provvede al riordino periodico delle norme regolamentari vigenti, alla
ricognizione di quelle implicitamente abrogate e alla espressa abrogazione di quelle che sono obsolete, che
hanno esaurito la loro funzione o che sono prive di effettivo contenuto normativa.
Infine, la legge riconosce potestà normativa ad alcune autorità indipendenti: la possibilità che le autorità
indipendenti emanino atti normativi, ad esclusione dei regolamenti delegati, è stata ammessa da Cons. Stato,
sez. VI, n. 668/1996. Non sono in genere considerate fonti del diritto i bandi di concorso (qualificate come
atti amministrativi generali).
CAPITOLO VI

IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

1. Introduzione

Il provvedimento è l’atto amministrativo che, in quanto efficace sul piano dell’ordinamento generale,
produce vicende giuridiche in ordine alle situazioni giuridiche di soggetti terzi. L’emanazione del
provvedimento finale è di norma preceduta da un insieme di atti, fatti e attività, tutti fra di loro connessi in
quanto concorrono nel loro complesso, all’emanazione del provvedimento stesso. Tali atti, fatti ed attività
confluiscono nel procedimento amministrativo, che è stato definito come “forma della funzione”; il
passaggio dall’attribuzione del potere alla concreta produzione dell’effetto finale è contraddistinto da una
serie coordinata di attività e di atti “endoprocedimentali” che costituisce la funzione. Essa fa in qualche
modo da tramite tra una situazione statica (potere) e un’altra situazione statica (l’effetto prodotto dall’atto).

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Il procedimento trova la sua ragione d’essere in una serie di esigenze e di caratteristiche peculiari del diritto
pubblico o specificamente avvertite in quest’ambito, tra le quali si ricordano:
a) la necessità di dare evidenza alle modalità di scelta effettuate dall’amministrazione in vista
dell’interesse pubblico;
b) l’importanza di enucleare i vari passaggi che conducono alla determinazione conclusiva ai fini del
sindacato operato dal giudice amministrativo;
c) l’esistenza di norme giuridiche (norme di azione);
d) si aggiunge che, poiché la funzione costituisce esercizio del potere discrezionale, il procedimento
deve essere strutturato in modo da consentire che la scelta discrezionale possa proficuamente
avvenire.
La più recente normativa pare voler configurare il procedimento come modulo nel cui interno far confluire
l’esercizio di più poteri provvedimentali, in particolare autorizzativi e concessori, tra di loro connessi in
quanto riferiti ad una medesima attività del privato.

2. L’esperienza italiana: la legge del 7 agosto 1990, n. 241 e il suo ambito di applicazione

La l. 241/1990, n. 241, reca “nuove norme in materia di procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai
documenti amministrativi”. La legge italiana non contiene una disciplina completa ed esaustiva del
procedimento, ma si limita a specificare alcuni principi e a disciplinare gli istituti più importanti.
Un primo importante problema è quello di delimitare l’ambito di applicazione della legge. Secondo l’art. 29,
le disposizioni della “legge si applicano alle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali”. È chiara
l’influenza della recente riforma del titolo V della parte II della Cost. (l. cost. 3/2001) che sembra aprire la
via allo sviluppo della disciplina regionale sul procedimento. Il c.2 stabilisce che le regioni e gli enti locali,
nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla l. 241 nel rispetto del sistema
costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa. La norma, dopo aver
precisato al c.1 che la legge si applica altresì alle società con totale o prevalente capitale pubblico
limitatamente all’esercizio delle funzioni amministrative, chiarisce che gli articoli relativi alle conseguenze
del ritardo nella conclusione del procedimento, agli accordi, alla tutela in materia di accesso, nonché a
efficacia, invalidità, revoca e recesso del provvedimento si applicano a tutte le amministrazioni pubbliche. Il
c.2-bis stabilisce che attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art.117, lettera m), Cost.
(materia di competenza statale) le disposizioni concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di
garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo
entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa e quelle relative alla
durata massima dei procedimenti. Ai sensi del c.2-ter, attengono altresì ai livelli essenziali delle prestazioni
le disposizioni concernenti la segnalazione di inizio attività e il silenzio assenso. Ai sensi del c.2-quater, nel
disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, regioni ed enti locali possono prevedere livelli
ulteriori di tutela. Infine, ai sensi del c.2-quinquies, le regioni a statuto speciale e le province autonome di
Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione alle disposizioni dell’art. 29, secondo i rispettivi statuti e
le relative norme di attuazione.
Circa l’ambito oggettivo di applicazione della legge, l’attività amministrativa si caratterizza per il profilo
funzionale, per essere cioè diretta alla cura dell’interesse pubblico. Pertanto la legge sul procedimento si
applica altresì all’attività contrattuale della pubblica amministrazione; infatti pur se l’atto finale è un negozio
di diritto comune il formarsi della volontà della pubblica amministrazione è sempre un’attività orientata
all’interesse pubblico e come tale, procedimentalizzata: relativamente ad essa devono trovare applicazione le
norne della l. 241/90 purché compatibili.

3. I principi enunciati dalla legge 241/1990

L’art. 1, c.1, l. 241/90, afferma che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta
da criteri di economicità, di efficacia, di pubblicità e trasparenza secondo le modalità previste dalla l. 241/90
e dalle disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento dell’Unione
europea.
L’azione è economica quando il conseguimento degli obiettivi avvenga con il minor impiego possibile di
mezzi personali, finanziari e procedimentali. L’economicità si traduce nell’esigenza di non aggravamento
del procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria;
all’interno del procedimento si trovano atti previsti dalla legge e atti che l’amministrazione ritiene opportuno
e utile adottare (i pareri facoltativi). Il non aggravamento può essere riferito anche ai privati.

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L’efficacia è il rapporto tra obiettivi prefissati e obiettivi conseguiti ed esprime la necessità che
l’amministrazione, oltre al rispetto formale della legge, miri anche e soprattutto al perseguimento nel miglior
modo possibile delle finalità ad esse affidate.
La pubblicità è un carattere che costituisce conseguenza diretta della natura pubblica dell’amministrazione,
il cui modo d’essere da un lato implica la necessaria preordinazione della sua attività alla soddisfazione degli
interessi pubblici e dall’altro richiede la trasparenza dell’amministrazione stessa e della sua azione agli
occhi del pubblico (e quindi è strettamente legata all’imparzialità).
Applicazione concreta dei criteri di imparzialità, di pubblicità e trasparenza è costituita dal diritto d’accesso
ai documenti amministrativi, e si rapportano alla pubblicità anche gli istituti della partecipazione al
procedimento amministrativo e della motivazione del provvedimento, le misure per rendere conoscibili la
determinazione delle unità organizzative responsabili dell’istruttoria, di ogni altro adempimento procedurale
e del provvedimento finale, la pubblicazione dei criteri che dovranno essere seguiti nel rilascio di
concessioni, sovvenzioni, contributi, sussidi e aiuti finanziari. La Corte costituzionale ha ricondotto la
comunicazione di avvio del procedimento alla pubblicità, ritenuta un “principio del patrimonio costituzionale
comune dei Paesi europei”: la decisione è importante perché individua un fondamento ultranazionale al
principio in esame; più in generale, fortissimo impulso alla trasparenza è derivato dall’approvazione del
d.lgs. 33/2013, che impone la pubblicazione di un’ampia categoria di atti e informazioni.
L’art. 1 non richiama il concetto di efficienza (rapporto tra mezzi impiegati e obiettivi perseguiti), ma esso
compare nell’art. 3-bis, là dove si afferma che per conseguire appunto un’efficienza maggiore, le
amministrazioni incentivano l’uso della telematica. È importante ricordare che le amministrazioni pubbliche
e i gestori o esercenti di pubblici servizi comunicano con il cittadino che ne sia in possesso esclusivamente
tramite il domicilio digitale dalla stesso dichiaratorio (per altro verso, le istanze possono essere inviate anche
per via telematica).
Assai importante è il richiamo ai principi del diritto dell’Unione europea, elaborati dalla Corte di giustizia, ed
in parte consacrati nella Carta dei diritti dell’Unione Europea.
Un ulteriore principio enucleabile dalla l. 241/90 è quello che potrebbe definirsi dell’azione in via
provvedimentale: ai sensi dell’art. 2 l’amministrazione deve infatti concludere il procedimento “mediante
l’adozione di un provvedimento espresso”.

4. Le fasi del procedimento

Il procedimento deve seguire un particolare ordine nella successione degli atti e delle operazioni che lo
compongono.
a) Nel procedimento sono presenti atti che assolvono ad una funzione preparatoria rispetto
all’emanazione del provvedimento finale, confluendo nella c.d. fase preparatoria.
b) Segue la fase decisoria, in cui viene emanato l’atto o gli atti con efficacia costitutiva , nel senso che
da essi sgorga l’effetto finale sul piano dell’ordinamento generale (denominato “efficacia”).
c) Il procedimento si chiude con gli atti che confluiscono nella fase integrativa dell’efficacia, che è
eventuale, in quanto in alcuni casi la legge non la prevede con la conseguenza che il provvedimento
produrrà comunque la sua efficacia dopo la fase decisoria.
Già nella fase preparatoria vengono poste in essere scelte che possono condizionare la decisione finale,
sicché, da questo punto di vista, il procedimento si configura come un continuum che non tollera suddivisioni
artificiose (un ruolo importante ha in questa prospettiva il responsabile del procedimento).
In ogni caso, la legge formalizza alcuni dei passaggi endoprocedimentali: l’art. 11, l. 241/90, prevede che gli
accordi che l’amministrazione conclude con i privati siano preceduti da una “determinazione dell’organo che
sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”; l’art. 10-bis, nel caso di procedimenti ad istanza di
parte, impone di comunicare agli istanti “i motivi che ostano all’accoglimento della domanda”; l’art. 6 dà
rilievo alle risultanze dell’istruttoria; per l’art. 14-ter, la conferenza di servizi si conclude con una
determinazione motivata dell’amministrazione procedente cui segue il provvedimento finale.
Tra i due estremi del procedimento (l’iniziativa da un lato e l’emanazione del provvedimento finale
dall’altro), trovano posto i c.d. atti endoprocedimentali, che sono destinati a produrre effetti rilevanti
nell’ambito del procedimento stesso: essi sono costitutivi dell’effetto endoprocedimentale che l’ordinamento
amministrativo ad essi collega. Questi atti non soltanto generano l’impulso alla progressione del
procedimento, ma contribuiscono altresì a condizionare in vario modo la scelta discrezionale finale, ovvero la
produzione dell’effetto sul piano dell’ordinamento generale.
Mentre è palese che gli atti endoprocedimentali facciano parte del procedimento amministrativo, questa
appartenenza è da sempre dubbia per quanto riguarda gli atti di controllo, che sono atti successivi al
provvedimento e ne condizionano l’efficacia senza essere costitutivi dell’effetto: infatti l’efficacia va
collegata al solo provvedimento.
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La conoscenza delle fasi in cui si articola il procedimento è importante giacché l’ illegittimità di uno degli
atti del procedimento determina in via derivata l’illegittimità del provvedimento finale. Pure la mancata
adozione dell’atto dovuto e l’alterazione dell’ordine procedurale danno luogo ad una illegittimità , la quale si
riflette sul provvedimento finale che sarà a sua volta illegittimo.
Non è poi da escludere che un atto endoprocedimentale possa produrre di per sé effetti esterni e che, se lesivo
di situazioni giuridiche soggettive, possa essere impugnato: è questa la ragione per cui la giurisprudenza
ritiene talora immediatamente impugnabili alcuni di questi atti.
Sempre con riferimento agli atti interni del procedimento si deve osservare come spesso la loro emanazione
sia preceduta da uno specifico procedimento, sicché nell’alveo di uno stesso procedimento possono
innescarsi anche più subprocedimenti, i quali costituiscono le serie di fasi preordinate alla emanazione di un
atto che fa parte del procedimento principale.

5. Rapporti tra procedimenti amministrativi

Tra più procedimenti amministrativi possono sussistere molteplici rapporti. Talora il rapporto deriva dal fatto
che alcuni procedimenti costituiscono una fase di un procedimento principale, definiti subprocedimenti. Essi
non sono procedimenti autonomi, nel senso che, essendo preordinati all’emanazione di un atto che costituisce
uno degli elementi della serie che conduce all’emanazione di un provvedimento, non sono autonomamente
lesivi e capaci di produrre un effetto sul piano dell’ordinamento generale: l’invalidità che dovesse verificarsi
in seno al subprocedimento si riflette sul procedimento principale e quindi sull’atto finale. I procedimenti si
dicono invece connessi allorché l’atto conclusivo di un autonomo procedimento , impugnabile in quanto tale
ex se, condiziona l’esercizio del potere che si svolge nel corso di un altro procedimento (connessione
funzionale).
La connessione più importante è costituita dalla presupposizione: al fine di esercitare legittimamente un
potere, occorre la sussistenza di un certo atto che funge da presupposto di un altro procedimento in quanto
crea una qualità in un bene, cosa o persona che costituisce l’oggetto anche del successivo provvedere. Quali
esempi di rapporto di presupposizione si ricorda la dichiarazione di pubblica utilità rispetto all’emanazione
del decreto di esproprio e la determinazione di copertura di un posto rispetto al procedimento che si apre con
il bando. Per “presupposto” si intende una circostanza che deve sussistere affinché il potere sia
legittimamente esercitato.
In altri casi l’assenza di un provvedimento, ovvero la conclusione con un atto di diniego di un procedimento,
impedisce la legittima conclusione di altro procedimento. Vi sono altresì ipotesi in cui la presenza di un atto,
conclusivo di procedimento, osta all’emanazione di un certo provvedimento.
Va richiamata la situazione in cui, per svolgere una certa attività, il privato deve ottenere distinti
provvedimenti non connessi sotto il profilo giuridico, ma tutti attinenti al medesimo bene della vita; in tali
ipotesi il nesso tra i vari procedimenti è di consecuzione, nel senso che i vari procedimenti corrono in
parallelo.
6. L’iniziativa del procedimento amministrativo

Il procedimento si apre con l’iniziativa, che può essere ad istanza di parte ovvero d’ufficio (art. 2, l.
241/90).
L’iniziativa ad istanza è caratterizzata dal fatto che il dovere di procedere sorge a seguito dell’atto di impulso
proveniente da un soggetto privato oppure da un soggetto pubblico diverso dall’amministrazione cui è
attribuito il potere , o da un organo differente da quello competente a provvedere.
In caso di formazione del silenzio inadempimento il privato può nuovamente riproporre l’istanza. L’art. 31,
d.lgs. 104/2010 (ricorso avverso il silenzio), dispone che “è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio
del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”.
Negli ultimi due casi l’istanza consiste in un atto amministrativo: si deve parlare di richiesta o di proposta.
Quest’ultima è l’atto di iniziativa, avente anche contenuto valutativo, con cui si suggerisce l’esplicazione di
una certa attività. Essa può essere vincolante o non vincolante. Se vincolante, la proposta comporta il dovere
dell’amministrazione procedente di conformarsi alla stessa e di far proprio il contenuto dell’atto proposto.
Ove si tratti di proposta non vincolante, si ritiene sussistente la possibilità dell’amministrazione di valutare
l’opportunità di esercitare il potere o di non seguirla.
La richiesta è l’atto d’iniziativa, consistente in una manifestazione di volontà, mediante il quale un’autorità
sollecita ad un altro soggetto pubblico l’emanazione di un determinato provvedimento amministrativo. Dalla
richiesta si distingue la designazione la quale consiste nella indicazione di uno o più nominativi all’autorità
competente a provvedere ad una nomina.
L’istanza proviene dal solo cittadino ed è espressione della sua autonomia privata.

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La richiesta e la proposta conseguono all’esplicazione di un potere pubblico e mirano alla cura di interessi
pubblici, mentre l’istanza è posta in essere in funzione di interessi particolari.
Ai sensi dell’art. 41 d.lgs. 82/2005 le amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le
tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nei casi e nei modi previsti dalla normativa vigente.
Esse raccolgono in un fascicolo informatico tutti i dati e i documenti, consultabile da altre amministrazioni.
Ogni atto e documento può essere trasmesso alle amministrazioni con l’uso delle tecnologie
dell’informazione della comunicazione se formato ed inviato nel rispetto della vigente normativa. Più in
generale, le amministrazioni devono pubblicare tutti i dati relativi al procedimento indicati dall’art. 35, d.lgs.
33/2013.
Tutte le ipotesi di atti di iniziativa sopra richiamate ad eccezione della proposta non vincolante sono
comunque caratterizzate dal fatto che sorge, quale effetto endoprocedimentale, il dovere per
l’amministrazione di procedere.
Ai sensi dell’art. 39, T.U. in materia di documentazione amministrativa, è fatto divieto alle pubbliche
amministrazioni di richiedere l’autenticazione della sottoscrizione delle domande per la partecipazione a
selezioni per l’assunzione nelle pubbliche amministrazioni, nonché ad esami per il conseguimento di
abilitazioni, diplomi o titoli culturali. Sempre ai sensi dell’art. 39, T.U. in materia di documentazione
amministrativa, si stabilisce che tutte le istanze e le dichiarazioni da presentare alla pubblica
amministrazione, o ai gestori o esercenti di pubblici servizi possono essere inviate anche per fax e via
telematica. Per quanto attiene ai documenti, quelli da chiunque trasmessi ad una pubblica amministrazione
tramite fax, o con altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertare la fonte di provenienza,
soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del
documento originale.
Di frequente le istanze hanno anche un contenuto rappresentativo di interessi svolgendo una funzione
anticipatrice di quella che la legge affida alle memorie e osservazioni che possono essere prodotte nel corso
dell’istruttoria; talora la legge prevede l’onere in capo al richiedente di allegare atti o documenti volti ad
attestare il ricorrere di determinati requisiti, consentendo così di agevolare l’accertamento di fatti e la verifica
dei requisiti. A fronte dell’istanza l’amministrazione deve dar corso al procedimento, ma può anche rilevarne
l’erroneità o la incompletezza; in tale ipotesi, prima di rigettare l’istanza essa deve procedere alla richiesta
della rettifica.
Il dovere di procedere sorge non solo nei casi in cui la legge “tipizzi” l’istanza, ma altresì nelle fattispecie
nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’adozione di un provvedimento .
Un particolare dovere di provvedere su sollecitazione degli interessati, cui corrisponde la possibilità per il
privato di azionare il rito avverso il silenzio, è disciplinato dall’art. 19, l. 241/1990 con riferimento alla
segnalazione certificata di inizio attività.
In caso contrario l’atto del privato non si configura come istanza in senso proprio bensì come mera denuncia,
mediante la quale si rappresenta una data situazione di fatto all’amministrazione, chiedendo l’adozione di
provvedimenti e/o di misure senza tuttavia che l’ordinamento riconosca in capo a quel privato un interesse
protetto.
Dal combinato disposto di una serie di articoli della l. 241/1990 emerge una sorta di “statuto” dei
procedimenti ad istanza di parte. In particolare ad essi si applicano la disciplina dell’indennizzo da ritardo,
l’art. 10-bis che impone di comunicare agli istanti i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e l’art. 20
che prevede l’eventualità della indizione della conferenza di servizi, e la possibilità di definizione del
procedimento mediante silenzio-assenso, purché non ricorrano i casi di esclusione.
L’iniziativa d’ufficio è prevista dall’ordinamento nelle ipotesi in cui il tipo di interessi pubblici affidati alla
cura di un’amministrazione, ovvero il continuo e corretto esercizio del potere-dovere attribuito al soggetto
pubblico, esiga che questi si attivi automaticamente al ricorrere di alcuni presupposti, indipendentemente
dalla sollecitazione proveniente da soggetti esterni. Le segnalazioni debbono normalmente essere soggette ad
una verifica la quale in ogni caso attiene alla sufficienza del fatto rappresentato ai fini dell’attivazione del
procedimento.

7. Il dovere di concludere il procedimento

L’individuazione del momento in cui il procedimento ha inizio è importante giacché soltanto con riferimento
ad esso è possibile stabilire il termine entro il quale il procedimento stesso deve essere concluso. L’art. 2
della l. 241/90 stabilisce che tale termine decorre dall’inizio di ufficio del procedimento o dal ricevimento
della domanda se il procedimento è a iniziativa di parte.
Nel caso in cui il procedimento inizi a richiesta o su proposta di un soggetto pubblico, il termine decorre dalla
data di ricevimento della richiesta o della proposta, purché, nel caso di richiesta, essa sia completa e regolare.

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Ove la domanda debba essere corredata da documentazione il termine comincia a decorrere dal momento in
cui essa risulta completa.
L’art. 2, c.2, l. 241/1990, afferma che entro il termine stabilito il procedimento deve essere concluso. In senso
proprio il procedimento si conclude con l’emanazione dell’ultimo atto della serie procedimentale , che non
necessariamente coincide con il provvedimento (come atti di controllo o accettazione dell’interessato, che
seguono l’emanazione del provvedimento).
Nel c.1 dell’art. 2 l. 241/1990, il legislatore chiarisce che la pubblica amministrazione ha il dovere di
concludere il procedimento “mediante l’adozione di un provvedimento espresso”: di conseguenza il termine
si intende rispettato quando l’amministrazione, entro trenta giorni, emani il provvedimento finale.
Le pubbliche amministrazioni, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza della domanda, concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma
semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto
risolutivo. Questa disposizione, introdotta nella l. 190/2012 (c.d. anticorruzione) è destinata a ridurre lo
spettro dei casi in cui occorre adottare un provvedimento espresso di diniego “pieno” e non semplificato. Il
provvedimento è certamente impugnabile, e tendenzialmente soggetto al regime del provvedimento classico,
salvo il profilo di specialità individuato dalla norma, che si riferisce alla motivazione.
In ogni caso, con riferimento ai procedimenti ad istanza di parte, l’art. 20 ammette la possibilità che il
procedimento sia definito mediante silenzio-assenso. Ciò significa che all’inerzia è collegata la produzione
degli effetti corrispondenti a quelli del provvedimento richiesto dalla parte. Il silenzio-assenso può essere
impedito emanando un provvedimento di diniego. Da tale disciplina si ricava che l’amministrazione ha il
dovere di provvedere in modo espresso soltanto ove intenda rifiutare il provvedimento richiesto dal privato,
potendo altrimenti restare inerte.
Posto che l’art. 20 prevede un ulteriore strumento per evitare il formarsi del silenzio (indizione di una
conferenza di servizi) può osservarsi che l’amministrazione ha il dovere di attivarsi qualora ritenga che la
situazione che si realizzerebbe a seguito della formazione del silenzio-assenso risulti in contrasto con
l’interesse pubblico.
L’art. 20 introduce un’importante serie di eccezioni a questa regola delimitando il vero ambito in ordine al
quale l’amministrazione deve agire con provvedimento espresso. La norma richiama gli atti e i procedimenti
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza,
l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute.
In tali ipotesi, a fronte dell’inutile decorso del termine senza che l’amministrazione abbia emanato il
provvedimento, si forma il c.d. silenzio inadempimento, che non produce effetti equipollenti a quelli di un
provvedimento. Il cittadino ha a disposizione una vasta serie di rimedi. Vi è lo specifico strumento del
ricorso avverso il silenzio, preordinato ad ottenere comunque un provvedimento espresso. Anche se
l’amministrazione non decade dal potere di agire, il ritardo può causare una responsabilità civile: ai sensi
dell’art. 2-bis, l.241/1990 le pubbliche amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività
amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato dall’inosservanza dolosa o colposa
del termine di conclusione del procedimento (c.d. danno da ritardo).
L’art. 2, l. 241/1990, disciplina importanti poteri sostitutivi, delineando un meccanismo, che può sfociare in
una sorta di avocazione o in un commissariamento, attivabile su istanza di parte e gestito dalla dirigenza.
L’organo di governo individua il soggetto cui attribuire il potere sostitutivo in caso d’inerzia. Viene pure
prevista una misura suppletiva: nell’ipotesi di omessa individuazione, il potere sostitutivo si considera
attribuito al dirigente generale o, in mancanza, al dirigente preposto d’ufficio o in mancanza al funzionario di
più alto livello presente nell’amministrazione, e il meccanismo è attivato su sollecitazione di parte.
La disciplina di cui all’art. 28, d.l. 69/2013, conv. nella l. 98/2013 ha introdotto l’istituto dell’indennizzo da
mero ritardo, stabilendo tra l’altro che nella comunicazione d’avvio del procedimento e nelle informazioni
sul procedimento pubblicate sui siti internet è fatta menzione del diritto all’indennizzo, delle modalità e dei
termini per conseguirlo e sono inoltre indicati il soggetto cui è attribuito il potere sostitutivo e i termini a
questo assegnati per la conclusione del procedimento.
La norma dispone che la pubblica amministrazione precedente o, in caso di procedimenti in cui intervengono
più amministrazioni, quella responsabile del ritardo, in caso di inosservanza del termine di conclusione del
procedimento amministrativo corrispondono all’interessato, a titolo di indennizzo per il mero ritardo, una
somma pari a 30 euro per ogni giorno di ritardo con decorrenza dalla data di scadenza del termine del
procedimento, comunque complessivamente non superiore a 2000 euro. La disciplina si applica soltanto ai
procedimenti iniziati a istanza di parte, con esclusione delle ipotesi di silenzio qualificato e dei concorsi
pubblici. Dal punto di vista procedurale, l’istante è tenuto ad azionare previamente il potere sostitutivo nel
termine perentorio di venti giorni dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Per quanto attiene alla tutela, nel caso in cui anche il titolare del potere sostitutivo non emani il
provvedimento nel termine di cui all’art 2, c.9-ter, l. 241/1990, o non liquidi l’indennizzo maturato fino alla
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data della medesima liquidazione, l’istante può proporre ricorso avverso il silenzio oppure, ricorrendone i
presupposti, chiedere un provvedimento ingiuntivo.
Circa le conseguenze in capo al dipendente, la pronuncia di condanna a carico dell’amministrazione è
comunicata alla Corte dei conti al fine del controllo di gestione sulla pubblica amministrazione, al
Procuratore regionale della Corte dei conti per le valutazioni di competenza, nonché al titolare dell’azione
disciplinare verso i dipendenti pubblici interessati dal procedimento amministrativo. Il d.l. 69/2013 stabilisce
che il diritto a ottenere un indennizzo per il mero ritardo matura “alle condizioni e con le modalità stabilite
dalla legge” o, sulla base della legge, da un regolamento emanato ai sensi dell’art. 17, c.2, l. 400/1988; la
nuova disciplina dell’indennizzo da ritardo si applica ai procedimenti amministrativi relativi all’avvio e
all’esercizio dell’attività di impresa iniziati successivamente a tale data e che gli oneri derivanti dal nuovo
meccanismo restano a carico degli stanziamenti ordinari di bilancio di ciascuna amministrazione interessata.
L’art. 2, c.9, l. 241/1990, stabilisce che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce
elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e
amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente. A ciò si aggiunga che l’ordinamento
prevede altresì la responsabilità civile a carico dell’agente: ai sensi dell’art. 25, d.p.r. 3/1957, il privato può
chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’omissione o al ritardo nel compimento di atti o di
operazioni cui l’impiegato sia tenuto per legge o per regolamento. A tal fine l’interessato, quando siano
trascorsi sessanta giorni dalla data di presentazione dell’istanza, deve notificare una diffida
all’amministrazione e all’impiegato, a mezzo di ufficiale giudiziario; decorsi inutilmente trenta giorni dalla
diffida, egli può proporre l’azione volta a ottenere il risarcimento.
Il ritardo nella conclusione dei procedimenti è considerato rilevante anche ai fini della lotta alla corruzione: la
l. 190/2012, infatti, dispone che le amministrazioni provvedono al monitoraggio periodico del rispetto dei
tempi procedimentali attraverso la tempestiva eliminazione delle anomalie.
L’art. 328 c.p. stabilisce, inoltre, che il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio , il quale,
entro trenta giorni dalla richiesta redatta in forma scritta da chi vi abbia interesse, non compie l’atto del suo
ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino a un anno o co la
multa fino a 1032 euro. Al primo comma, la norma in questione sanziona anche il rifiuto quando esso attenga
ad un atto identificato in relazione ad una delle finalità specificate dalla norma stessa ; si tratta delle ipotesi in
cui l’atto relativo alla cura degli interessi particolarmente importanti , deve essere compiuto su semplice
richiesta di un terzo o su iniziativa del funzionario.
La disciplina è destinata comunque a mutare: la l. 190/2012 contiene una delega al Governo per adottare un
decreto legislativo per la disciplina organica degli illeciti e relative sanzioni disciplinari correlati al
superamento dei termini di definizione dei procedimenti amministrativi. Il termine di trenta giorni coincide
con quello che risulta fissato dalla l. 241/1990, ma la disciplina si completa con altre sei regole:
a) per le amministrazioni statali può essere diversamente disposto con uno o più decreti del Presidente
del Consiglio dei ministri; per quanto riguarda gli enti pubblici nazionali, essi stabiliscono i termini
entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza;
b) il termine stabilito con decreto o dagli enti non può essere superiore a novanta giorni;
c) ove sussistano casi particolari (legati alla natura degli interessi o alla complessità del procedimento)
questo termine massimo è elevato a centottanta giorni;
d) vi è l’eccezione costituita dai procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli
riguardanti l’immigrazione;
e) una norma specifica riguarda le “autorità di garanzia e di vigilanza”: esse disciplinano in conformità
ai propri ordinamenti i termini relativi ai procedimenti di loro competenza, senza spazi di intervento
per il Governo;
f) per i procedimenti di verifica o concernenti beni culturali e paesaggistici, nonché per quelli in
materia ambientale, restano fermi i termini stabiliti dalla normativa speciale (art. 7, c.4, l. 69/2009).
I termini possono essere interrotti o sospesi. In ordine alla prima eventualità, l’art. 10-bis stabilisce che,
prima della formale adozione di un provvedimento negativo, l’amministrazione comunica tempestivamente
agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda: questa comunicazione interrompe i termini
che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di presentazione delle osservazioni o, in mancanza, dalla
scadenza del termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione attribuito agli istanti per presentare
per iscritto le loro osservazioni.
Con riferimento alla sospensione l’art. 2, c.7 dispone che i termini possono essere sospesi, per una volta sola
e per un periodo non superiore a trenta giorni, per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative
a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non
direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni.

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In relazione al problema del tempo, si ricorda che nell’ordinamento italiano vige il principio secondo cui
tempus regit actum: ogni atto deve essere disciplinato dalla normativa vigente al momento in cui esso è posto
in essere. La legittimità di pareri o istanze deve essere accertata avendo riguardo alle prescrizioni in vigore al
momento in cui gli stessi sono stati rispettivamente resi o presentati, anche se successivamente la disciplina è
mutata. Il principio vale anche per il provvedimento finale sicché, nell’ipotesi in cui la sua emanazione
richieda, ai sensi della normativa sopravvenuta, l’esistenza di atti endoprocedimentali non previsti dalla legge
precedente e non sussistenti, l’amministrazione dovrà rifiutarsi di emanarlo. Al momento dell’emanazione
del provvedimento debbono dunque sussistere tutti gli atti previsti dalla normativa vigente : nel silenzio della
legge, ciò non impedisce la salvezza degli atti endoprocedimentali già emanati , anche se è mutata la
disciplina purché la fase in cui essi si collocano non sia totalmente incompatibile con la nuova normativa.

8. Il responsabile del procedimento

La l. 241/90 disciplina la figura del responsabile del procedimento, soggetto che svolge importanti compiti
sia in relazione alla fase di avvio dell’azione amministrativa, sia, più in generale, allo svolgimento del
procedimento nel suo complesso. L’art. 4 l. 241/90 stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute a
determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza, l’ unità organizzativa
responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del
provvedimento finale.
Adempiuto l’obbligo di determinare le singole unità organizzative competenti, seguirà l’individuazione,
all’interno di ciascuna unità organizzativa, del responsabile del procedimento, persona fisica che agirà in
concreto.
Ai sensi dell’art. 5 l. 241/90 il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altri
addetti all’unità organizzativa la responsabilità dell’istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo
procedimento, nonché, eventualmente, dell’adozione del provvedimento finale. Il c.2 prevede inoltre che,
fino a quando non venga effettuata l’assegnazione , è considerato responsabile del singolo procedimento il
funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma dell’art. 4.
Quanto alle funzioni del responsabile emerge il profilo di guida del procedimento, di coordinatore
dell’istruttoria e di organo di impulso. Il responsabile rappresenta l’essenziale punto di riferimento sia per
i privati, sia per l’amministrazione procedente e per gli organi di altre amministrazioni coinvolte dal soggetto
procedente. La presenza di un responsabile chiamato a dialogare con i soggetti coinvolti dal procedimento
dovrebbe consentire di superare il tradizionale limite dell’impersonalità degli uffici. I compiti del
responsabile sono indicati nell’art. 6, l. 241/1990. Il responsabile valuta le condizioni di ammissibilità, i
requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l’emanazione del provvedimento. Trattasi
in parte di attività preliminare rispetto all’esame del merito della domanda, e in parte, di delibazione in
ordine alla sussistenza di requisiti condizionanti la scelta finale.
Il responsabile svolge funzioni più propriamente istruttorie, sia ponendole direttamente in essere, sia
dirigendo questa fase procedimentale: accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti necessari,
acquisisce i documenti già in possesso dell’amministrazione procedente o di altra amministrazione e adotta
ogni misura per l’adeguato sollecito svolgimento dell’istruttoria. Il responsabile può anche chiedere il rilascio
di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee e incomplete. Questo istituto
(regolarizzazione delle domande dei privati e della documentazione prodotta) è molto importante:
l’amministrazione può ammettere il cittadino a correggere gli errori materiali in cui sia incorso nella
redazione di istanze o domande, nonché a completare la documentazione incompleta o non conforme alla
normativa.
Egli ha anche compiti di impulso del procedimento : propone l’indizione o avendone la competenza, indice le
conferenze di servizi, le quali hanno un rilievo istruttorio. Ove non abbia la competenza ad emanare l’atto
finale, egli trasmette gli atti all’organo competente per l’adozione; altrimenti emana egli stesso tale
provvedimento. Va aggiunto che, ai sensi dell’art. 10-bis, la comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento prima della formale adozione di un provvedimento negativo va effettuata dal responsabile
del procedimento o dall’autorità competente.
L’art. 6 lett. e) specifica che “l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale, ove diverso dal
responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal
responsabile del procedimento, se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”. È evidente
come il responsabile del procedimento sia il soggetto dell’amministrazione che istaura il dialogo con i
soggetti interessati al procedimento mediante la comunicazione dell’avvio del procedimento, lo prosegue
nella fase della partecipazione e anche dopo l’emanazione del provvedimento finale, mediante la
comunicazione, la pubblicazione e le notificazioni previste dall’ordinamento.

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Uno dei problemi di maggiore portata è generato dall’art. 4 c.1, l. 241/90, il quale dispone che le pubbliche
amministrazioni devono individuare, per ciascun tipo di procedimento, le unità organizzative responsabili
dell’istruttoria, “nonché dell’adozione del provvedimento finale”. Occorre osservare che un conto è
l’individuazione delle unità organizzative responsabili dell’istruttoria, altro è determinare l’organo
competente ad adottare il provvedimento: la competenza ad emanare l’atto finale è eteronomamente prevista
in modo vincolante dalla legge cui spetta stabilire gli organi aventi rilevanza esterna.
Atteso che la normativa individua l’organo competente ad emanare il provvedimento amministrativo,
parrebbe potersi ritenere che l’amministrazione debba necessariamente attribuire allo stesso anche la
responsabilità del relativo procedimento. E’ stata però sostenuta la possibilità che unità responsabili siano
anche quelle non competenti ad emanare l’atto.
L’opinione secondo cui l’unità organizzativa responsabile coincide con il settore competente ad adottare il
provvedimento finale ha tuttavia il pregio di consentire comunque di individuare l’unità responsabile per
ciascun tipo di procedimento, anche in caso di inerzia dell’amministrazione.
Si deve allora concludere che il responsabile del tipo di procedimento coincide con l’organo competente ad
emanare l’atto nei casi di mancata individuazione dell’unità organizzativa da parte dell’amministrazione ,
mentre, allorché essa si attivi , possa anche indicare unità responsabili del tipo di procedimento diverse da
quelle competenti , senza che siffatta indicazione incida sulle competenze esterne degli organi. Diverso
problema su cui occorre riflettere è quello se vi sia necessaria coincidenza tra responsabile del singolo
procedimento e organo competente ad emanare il provvedimento finale. La risposta deve essere negativa:
l’art. 6, c. 1 lett. e) l. 241/1990 dispone che il responsabile del procedimento identificato ai sensi dell’art. 5
adotti il provvedimento finale soltanto ove ne abbia la competenza .
La coincidenza tra responsabile del procedimento e dirigente dell’unità organizzativa, organo al quale la
recente legislazione attribuisce la competenza ad emanare atti amministrativi aventi effetti esterni , è spesso
peraltro prevista dalle fonti che hanno data attuazione alla l. 241/1990. L’organo competente alla decisione
finale è quello più adatto ad operare la selezione di fatti, di interessi e di elementi rilevanti che già nel corso
dell’istruttoria deve essere effettuata , posto che le relative scelte sono destinate a condizionare la
determinazione finale. Il riconoscimento di una tale discrezionalità non conduce però necessariamente ad
affermare la coincidenza tra responsabile dell’istruttoria e organo competente ad adottare il provvedimento
finale. Il riconoscimento di una tale discrezionalità non conduce però ad affermare la coincidenza tra
responsabile dell’istruttoria e organo competente ad adottare il provvedimento finale: quest’ultimo potrebbe
ben riesaminare la completezza dell’attività istruttoria e le scelte in quella fase operate, rinviando la decisione
finale in caso di valutazione negativa e richiedendo un’ulteriore attività conoscitiva.
La soluzione accolta apre la via alla configurazione di un nuovo tipo di relazione interorganica atteso che il
responsabile è pur sempre un soggetto inserito in un’organizzazione amministrativa e come tale, destinatario
di poteri di direttiva dei superiori in particolare del dirigente che gli ha affidato il procedimento e che è il
soggetto competente ad emanare l’atto finale. Lo svolgimento della funzione del responsabile impone e
implica invece una certa autonomia soprattutto nei confronti dell’organo competente ad emanare l’atto.
Accanto al problema dell’autonomia di cui deve godere il responsabile nei confronti dei propri superiori, va
ricordata la questione dei rapporti tra responsabili e soggetti competenti ad emanare atti del procedimento: il
primo non necessariamente è competente ad emanare gli atti endoprocedimentali, ma, con riferimento a essi
e agli organi competenti ad emanarli, egli deve svolgere funzioni d’impulso, stimolo e informazione. Questa
attività di supervisione, conduzione e sollecitazione condiziona l’attività degli organi interessati, facendo
sorgere di volta in volta rapporti che, pur no essendo così pregnanti come quelli che si incardinano nella
direzione, partecipano di alcuni caratteri di tale situazione. La responsabilità civile, penale e disciplinare del
responsabile del procedimento rimane soggetta alle regole vigenti, anche se gli impulsi e le sollecitazioni,
conseguenti alle funzioni di vigilanza, denuncia e segnalazione affidati al responsabile possono comunque
essere presi in considerazione ai fini della valutazione della legittimazione o liceità del comportamento
tenuto dallo stesso responsabile. D’altro canto, il responsabile potrebbe commettere il reato previsto dall’art.
328 c.p. allorché rimanga inerte alla promozione del procedimento e nel compimento degli atti che la legge
affida alla sua competenza.
In questo quadro si inserisce la disposizione secondo cui l’organo competente per l’adozione del
provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze
dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel
provvedimento finale.

9. La comunicazione dell’avvio del procedimento

L’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale
è destinato a produrre effetti diretti, a quelli che per legge debbono intervenirvi, nonché ai soggetti, diversi
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dai diretti destinatari che siano individuati o facilmente individuabili qualora dal provvedimento possa
derivare un pregiudizio (art. 7, l. 241/1990).
I destinatari dell’atto sono i soggetti nella cui sfera giuridica è destinata a prodursi la vicenda giuridica
(tipica) determinata dall’esercizio del potere; si tratta dunque di titolari di interessi legittimi oppositivi o
pretensivi. I soggetti che per legge devono intervenire sono in linea di massima enti pubblici. Maggiori
problemi sorgono in relazione alla categoria dei “soggetti individuati o facilmente individuabili” ai quali
potrebbe derivare un pregiudizio dal provvedimento.
Si tratta di quei soggetti che sarebbero legittimati ad impugnare il provvedimento favorevole (c.d.
controinteressati sostanziali) nei confronti del destinatario in quanto pregiudicati, e portatori di un interesse
legittimo, dal provvedimento stesso.
La comunicazione dell’avvio è un compito del responsabile del procedimento; essa deve essere fatta
mediante comunicazione personale (notifica, comunicazione a mezzo messo comunale o ufficiale
giudiziario); può essere effettuata secondo modalità differenti stabilite di volta in volta dall’amministrazione,
quando per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente
gravosa (art. 8, c.3, l. 241/90).
La comunicazione deve contenere i seguenti elementi: l’amministrazione competente, l’oggetto del
procedimento, l’ufficio e la persona del responsabile del procedimento, la data entro la quale deve
concludersi il procedimento e i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione, nei procedimenti ad
iniziativa di parte, la data di presentazione della relativa istanza, l’ufficio in cui si può prendere visione degli
atti.
Ai sensi dell’art. 41, d.lgs. 82/2005 l’amministrazione all’atto della comunicazione d’avvio “comunica agli
interessati le modalità per esercitare in via telematica i diritti di cui all’art. 10, l. 241/1990. L’istituto della
comunicazione è strettamente collegato alla partecipazione al procedimento, nel senso che consente agli
interessati di essere posti a conoscenza della pendenza di un procedimento nel quale possono intervenire
rappresentando il proprio punto di vista. Non mancano però altre finalità: nella comunicazione, ad esempio,
deve essere menzionato anche il diritto all’indennizzo, nonché le modalità e i termini per conseguirlo. L’art.
13 l. 241/1990 esclude che le disposizioni del capo IV si applichino nei confronti dell’attività della pubblica
amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione nonché ai procedimenti tributari.
L’art. 7 c.1, l. 241/1990 precisa che l’avvio in esame deve essere comunicato quando non sussistano ragioni
di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento. Tali ragioni devono essere
evidenziate dall’amministrazione con adeguata motivazione. L’art. 7, c.2, l. 241/1990 si occupa dei
provvedimenti cautelari e consente all’amministrazione la loro adozione “anche prima dell’effettuazione
della comunicazione dell’avvio del procedimento”. La legge si riferisce ai provvedimenti cautelari sicché si
ritiene che l’amministrazione possa adottare anche atti che anticipano gli effetti finali del provvedimento. In
questi casi l’amministrazione può soltanto differire nel tempo la comunicazione comunque richiesta.
Per quanto riguarda i provvedimenti cautelari, essi sono posti a garanzia della futura determinazione
contenuta nel provvedimento finale di cui anticipano il contenuto, assicurando che la sua adozione non risulti
inutile: si pensi all’inibizione o alla sospensione di azioni o comportamenti che potrebbero frustrare
l’effettività di una decisione finale.
L’ordinamento prevede limitati e tassativi provvedimenti che possono essere emanati a fini cautelari, quali le
misure di salvaguardia, gli ordini di immediata sospensione dei lavori nel caso di inosservanza di norme e
prescrizioni urbanistiche, gli atti di cui all’art. 150, d.lgs. 42/2004, che, in tema di beni paesaggistici e
ambientali, prevede poteri di inibizione o di sospensione dei lavori.
Le misure cautelari sono normalmente adottate in via d’urgenza; un tratto distintivo potrebbe essere
rinvenuto nel fatto che nei provvedimenti cautelari, caratterizzati dalla temporaneità degli effetti, l’esclusione
della possibilità per i privati di conoscere la pendenza del procedimento è strumentale non solo a ragioni
d’urgenza ma altresì all’esigenza di non ostacolare o compromettere l’azione amministrativa.
La dottrina ha posto in luce l’esistenza di altri procedimenti (c.d. riservati) in ordine ai quali non dovrebbe
essere ammessa la partecipazione , alla quale è preordinata la comunicazione dell’avvio del procedimento. In
questi casi la comunicazione dell’avvio del procedimento e la partecipazione potrebbero frustrare gli interessi
curati dall’amministrazione ovvero la riservatezza dei terzi.
L’art. 24, l. 241/1990, esclude il diritto d’accesso con riferimento ad alcune categorie di atti corrispondenti a
specifici interessi pubblici; l’unico indice normativo che sembra giustificare la sussistenza di procedimenti
riservati parrebbe rinvenirsi nella disciplina sull’accesso, la quale conferma il principio secondo cui
l’apertura del procedimento può incontrare un limite nell’esigenza di curare interessi ritenuti particolarmente
meritevoli di tutela dall’ordinamento.

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La giurisprudenza ha spesso interpretato in senso restrittivo la norma che configura l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento: essa ha escluso la sussistenza dell’obbligo nelle ipotesi di attività vincolata,
ovvero, più in generale, ritenendo che per certi procedimenti non sia utile o rilevante il contraddittorio.
L’omissione della comunicazione di avvio del procedimento configura un’ipotesi di illegittimità che può
essere fatta valere soltanto dal soggetto “nel cui interesse la comunicazione è prevista”(art. 8, c.4, l.
241/1990). Il legislatore vuole in sostanza evitare che l’atto finale venga caducato, con la conseguenza di
aprire la via alla ripetizione del procedimento su iniziativa di chi faccia valere un vizio che abbia
pregiudicato la situazione di altro soggetto.
In caso di omissione della comunicazione può oggi trovare applicazione l’art. 21-octies, c.2, ai sensi del
quale “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio
del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In sostanza, la norma dequota la rilevanza del
vizio di omessa comunicazione quando la partecipazione sarebbe stata inutile e ciò indipendentemente dal
fatto che si tratti di un procedimento in cui l’amministrazione dispone di poteri vincolanti o discrezionali.

10. L’istruttoria procedimentale

L’istruttoria è la fase del procedimento funzionalmente volta all’accertamento dei fatti e dei presupposti del
provvedimento ed alla acquisizione e valutazione degli interessi implicati dall’esercizio del potere. Essa è
condotta dal responsabile del procedimento: l’art. 6, l. 241/1990 configura tra gli obblighi di tale soggetto
quello di curare “l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria”. La decisione amministrativa finale deve
essere preceduta da adeguata conoscenza della realtà esterna la quale avviene appunto attraverso l’istruttoria.
La circostanza è confermata dall’art. 3 che afferma il dovere di motivare la scelta provvedimentale in
relazione alle risultanze dell’attività istruttoria. L’art. 6 dispone che l’organo competente per l’adozione del
provvedimento finale, ove diverso dal responsabile, del procedimento non può discostarsi dalle risultanze
dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel
provvedimento finale. Si è visto che l’istruttoria del procedimento amministrativo serve per acquisire
interessi e verificare fatti; tra le due nozioni esiste una stretta correlazione, nel senso che il fatto implica e
consente di evidenziare interessi e, per contro, l’interesse e la verifica della sua esistenza possono richiedere
l’accertamento di una situazione di fatto.
L’attività conoscitiva in senso proprio, volta ad acquisire la conoscenza della realtà di fatto, si svolge
mediante una serie di operazioni i cui risultati vengono attestati da dichiarazioni di scienza, acquisite al
procedimento. I dati di fatto rilevanti possono essere individuati dall’amministrazione oppure rappresentati
dai terzi attraverso lo strumento della partecipazione. Essi sono poi attestati da documenti, certificazioni o
dichiarazioni presentati o esibiti all’amministrazione o da questa direttamente formati. Gli interessi vengono
introdotti nel procedimento attraverso l’iniziativa dell’amministrazione procedente, l’acquisizione delle
determinazioni di altri soggetti pubblici , la indizione della conferenza di servizi e la partecipazione
procedimentale.

10.1. L’oggetto dell’attività istruttoria

Nel nostro ordinamento amministrativo vige il principio inquisitorio in forza del quale l’amministrazione
non è vincolata dalle allegazioni dei fatti contenute nelle istanze e nelle richieste ad essa rivolte. La
sussistenza del principio inquisitorio pone il problema dell’oggetto dell’attività istruttoria e dunque
dell’individuazione della porzione in realtà nei confronti della quale l’amministrazione deve rivolgere la
propria attenzione ai fini di provvedere legittimamente.
Al fine di risolvere il problema dei limiti dell’attività conoscitiva occorre osservare che il legislatore
individua le situazioni di fatto che costituiscono i presupposti dell’agire attraverso modalità diverse: talora
definendo con precisione i fatti stessi in altre ipotesi utilizzando categorie più generiche o indicando il solo
interesse pubblico.
Quando la norma identifica esattamente la situazione di fatto o la categoria dei fatti rilevanti,
l’amministrazione dovrà accertare ricorrendo all’esercizio dell’attività conoscitiva, la corrispondenza tra
situazione di fatto e indicazione normativa. Qualora la norma indichi esclusivamente l’interesse pubblico che
dovrà essere soddisfatto l’istruttoria dovrà rivolgersi alla individuazione di una realtà di fatto che appaia
idonea a configurare l’esistenza dell’interesse pubblico stesso.
In ordine allo spettro degli interessi che debbono essere acquisiti l’ordinamento può effettuare una scelta che
preclude la valutazione e la comparazione di interessi attraverso l’attribuzione di un potere vincolato.
Allorché assegni all’amministrazione un potere discrezionale si osserva che non esistono regole precise cui la

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pubblica amministrazione deve attenersi e a cui possa fare riferimento, in quanto lo spettro degli interessi da
considerare dipende dalle concrete situazioni .
L’attività di selezione e di evidenziazione dei fatti e degli interessi non è priva di limiti e in quanto tale deve
essere adeguatamente motivata. Essa deve in primo luogo rispettare il principio di non aggravamento del
procedimento. Al fine di circoscrivere l’ambito della porzione di realtà e dello spettro degli interessi che
l’amministrazione ha il dovere di acquisire, è inoltre importante il riferimento al criterio della pertinenza
all’oggetto del procedimento.

10.2. Le modalità di acquisizione degli interessi e la conferenza di servizi c.d. “istruttoria”

Gli interessi rilevanti, quelli cioè che l’amministrazione deve considerare in sede di scelta finale
ponderandoli con quello principale fissato per legge, sono acquisiti al procedimento sia attraverso l’iniziativa
dell’amministrazione procedente sia a seguito dell’iniziativa dei soggetti titolari degli interessi stessi. Per
quanto attiene agli interessi affidati alla cura di amministrazioni pubbliche talvolta essi devono essere
necessariamente acquisiti perché così dispone la legge. Le vie per la loro rappresentazione nel corso del
procedimento sono essenzialmente tre.
L’amministrazione procedente può richiedere all’amministrazione cui è imputato l’interesse pubblico da
acquisire di esprimere la propria determinazione; ovvero può indire una conferenza di servizi per l’esame
contestuale dei vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento ai sensi dell’art. 14 l. 241/1990; oppure
l’amministrazione portatrice dell’interesse pubblico secondario può partecipare al procedimento ai sensi
dell’art. 9, l. 241/90 che consente di intervenire nel corso del procedimento anche ai soggetti portatori di
interessi pubblici.
Per quel che riguarda la conferenza dei servizi, in sede istruttoria, ai sensi dell’art. 14, è possibile acquisire
gli interessi pubblici rilevanti in un’unica soluzione, prevedendo che “qualora sia opportuno effettuare un
esame contestuale di vari interessi pubblici coinvolti nel procedimento amministrativo, l’amministrazione
procedente indice di regola una conferenza di servizi”.
Alla conferenza possono partecipare anche alcuni soggetti privati: si tratta di soggetti specificamente
“interessati”, quali, ad esempio, coloro che hanno proposto il progetto dedotto in giudizio. La conferenza è
indetta dal responsabile del procedimento (art. 6, l. 241/1990) e consiste in una riunione di persone fisiche in
rappresentanza delle rispettive amministrazioni, ciascuna delle quali esprime il punto di vista
dell’amministrazione rappresentata che confluisce poi in una determinazione conclusiva. Quest’ultima
sostituisce l’insieme delle manifestazioni dei vari interessi pubblici coinvolti che le amministrazioni
potrebbero introdurre utilizzando lo strumento della partecipazione di cui agli artt. 7 e ss. l. 241/1990 .
Le tre possibilità sopra indicate di acquisizione degli interessi pubblici coinvolti dal procedimento in itinere
non sono perfettamente equivalenti quanto al tipo di interessi che consentono di introdurre nel corso del
procedimento.
Mediante la partecipazione possono essere rappresentati interessi da parte di soggetti pubblici soltanto nel
caso in cui dal procedimento possa derivare loro un pregiudizio, laddove la conferenza di servizi può essere
indetta per esaminare gli interessi pubblici “coinvolti”, senza specificazioni ulteriori e pertanto anche nel
caso in cui dal provvedimento finale possa derivare un indiretto beneficio.

10.3. La partecipazione procedimentale

Uno degli strumenti più importanti previsti dalla l. 241/1990 per introdurre interessi pubblici e privati nel
procedimento è costituito dalla partecipazione. Il principio trova sostegno e forza anche in fonti
sovranazionali, in particolare nell’art. 6 Cedu.
Ai sensi degli artt. 7 e 9, l. 241/1990 sono legittimati all’intervento nel procedimento i soggetti nei confronti
dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti , i soggetti che per legge debbono
intervenire nel procedimento e i soggetti che possono subire un pregiudizio dal provvedimento, purché
individuati o facilmente individuabili. Possono inoltre intervenire nel procedimento i portatori di interessi
pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati cui possa derivare
un pregiudizio dal provvedimento (art. 9, l. 241/1990).
La differenza principale tra le categorie indicate rispettivamente dall’art. 7 e dall’art. 9 riguarda in primo
luogo la modalità con cui i soggetti acquisiscono la conoscenza della pendenza del procedimento nel quale
intervenire: quelli di cui all’art. 7 mediante comunicazione dell’avvio del procedimento; quelli di cui all’art.
9 attraverso vie differenti. Per altro verso, mentre i soggetti di cui all’art. 7 sono titolari di un interesse
legittimo (qualificato e differenziato), quelli contemplati dall’art. 9 hanno un interesse differenziato ma non
qualificato.

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La differenziazione si lega alla necessità che sussista un pregiudizio. L’art. 7 prevede un dovere
dell’amministrazione (di comunicare l’avvio del procedimento), il quale non può comportare un eccessivo
aggravio per l’amministrazione stessa, mentre la partecipazione disciplinata all’art. 9 è indipendente dal
ricevimento dell’avviso del procedimento. Gli statuti degli enti locali possono ampliare la cerchia dei
soggetti titolari del potere di partecipazione: l’art. 8 T.U. enti locali, stabilisce infatti che nel procedimento
relativo all’adozione di atti che incidono su situazioni giuridiche soggettive devono essere previste forme di
partecipazione degli interessati secondo modalità stabilite dallo statuto. La disciplina degli enti locali prevede
numerosi strumenti ed istituti di partecipazione ulteriori: consultazioni, istanze, petizioni, proposte,
referendum, azioni popolari, diritto di accesso e di informazioni dei cittadini.
Nell’analisi del tema della partecipazione, la dottrina ha spesso utilizzato la nozione di parti del
procedimento; si sono così individuate parti necessarie (art. 7) e parti eventuali (art. 9). In ordine alla
distinzione tra queste due parti, occorre sottolineare che i soggetti intervenienti possono tutti alla stessa
stregua concorrere alla formazione della miglior decisione finale. Il grado di rilevanza del loro rapporto
dipende, infatti, dal materiale istruttorio che sono in grado di rappresentare nel procedimento. Unica vera
parte necessaria è l’amministrazione, o meglio, l’amministrazione procedente: per quanto attiene agli altri
soggetti pubblici che debbono per legge partecipare al procedimento, molto spesso la legge prevede gli
strumenti per superare la loro inerzia.

10.4. L’ambito di applicazione della disciplina sulla partecipazione procedimentale

Ai sensi dell’art. 13, l. 241/1990 le norme contenute nel capo sulla partecipazione al procedimento
amministrativo non si applicano ai procedimenti volti all’emanazione di atti normativi, amministrativi
generali, di pianificazione e di programmazione, nonché a quelli tributari.
La ratio di tale scelta era stata individuata dal Consiglio di Stato nell’esigenza di sottrarre “atti di vasta
portata e di applicazione generalizzata” all’ingerenza costituita dalla partecipazione di molteplici soggetti.
Alcuni tra i procedimenti contemplati dall’art. 13 riguardano scelte in grado di coinvolgere interessi diffusi e
interessi collettivi, la cui introduzione nel procedimento è esplicitamente prevista dall’art. 9, l. 241/1990. In
ordine agli atti amministrativi generali, i quali si rivolgono ad una pluralità indistinta di soggetti non
individuabili a priori, si può osservare che essi non sembrano in grado di ledere e pregiudicare qualcuno in
particolare o comunque non comportano la ponderazione di interessi che si appuntino su soggetti peculiari.
La partecipazione non serve soltanto per poter difendere i propri interessi: essa assolve anche all’importante
funzione di arricchire il quadro di elementi di cui dispone il soggetto pubblico al momento della decisione.
L’unica categoria di procedimenti in relazione ai quali l’esclusione della partecipazione non pare creare
particolari problemi e riserve è costituita da quelli preordinati all’emanazione di atti normativi. In questo
ambito sussiste, una pluralità formale e sostanziale di fonti che non ammette una regolamentazione generale
e unitaria, anche perché molte di esse risultano già soggette a leggi particolareggiate ed esaustive.

10.5. Aspetti strutturali e funzionali della partecipazione

La partecipazione al procedimento consiste nel diritto di prendere visione dei relativi atti e nella
presentazione di memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha il dovere di valutare ove siano
pertinenti all’oggetto del procedimento (art. 10 l. 241/90). Si tratta dunque di una partecipazione
documentale anche se non è escluso che norme secondarie possano introdurre forme di istruttorie pubblica
orale.
Per la categoria di soggetti indicati all’art. 7, l. 241/90 la comunicazione di avvio del procedimento è atto
strumentale e necessario per garantire la partecipazione; in secondo luogo, una migliore conoscenza dello
stato del procedimento è consentita dall’esercizio del diritto di prendere visione degli atti del procedimento
stesso. Si è osservato come non sarebbe possibile operare una ricostruzione unitaria del fenomeno della
partecipazione, la quale in taluni casi avrebbe una funzione di difesa del privato, mentre in altri sarebbe uno
strumento di collaborazione. Considerando che la funzione del procedimento è quella di consentire la
migliore cura dell’interesse pubblico, si deve ritenere che anche la partecipazione sia strumentale alla più
congrua decisione finale in vista dell’interesse pubblico: essa ha cioè funzione collaborativa.
Un diverso discorso richiede l’istituto della presentazione delle comunicazioni che l’art. 10-bis prevede con
riferimento ai procedimenti ad istanza di parte allorché l’amministrazione abbia comunicato i motivi
ostativi all’accoglimento dell’istanza: esso è infatti espressione del principio del giusto procedimento, ed
è preordinato ad instaurare un contraddittorio con l’istante che tenta di “convincere” l’amministrazione a
mutare segno al provvedimento finale. La norma stabilisce infatti che nei procedimenti ad istanza di parte il
responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento
negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il
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termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per
iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. L’atto ha valenza endoprocedimentale e
non appare impugnabile in via autonoma; dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data
ragione nella motivazione del provvedimento finale.
I fatti rappresentati dagli intervenienti non possono in linea di principio essere accertati acriticamente:
l’autore della rappresentazione potrebbe avere maliziosamente alterato la realtà, che è rappresentata
attraverso la valutazione oggettiva dell’interveniente. Ogni rappresentazione implica una selezione dei fatti,
con la conseguenza che l’amministrazione può essere chiamata ad estendere l’ambito oggettivo della realtà
indagata per ricercare i fatti implicati nella rappresentazione.
Mediante la partecipazione è dato introdurre anche ipotesi di soluzione le quali vanno ad arricchire il quadro
delle possibilità all’interno del quale l’amministrazione opererà la scelta finale. L’eventualità è confermata
dalla lettura dell’art. 11, l. 241/90 il quale, disciplinando gli accordi tra amministrazione e privati, specifica
che la conclusione di tali atti può avvenire “ in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma
dell’art. 10”.

10.6. Partecipazione al procedimento, interessi procedimentali e loro tutela

Gli interessi procedimentali sono quegli interessi, strumentali ad altre posizioni soggettive, che attengono a
fatti procedimentali e che investono comportamenti dell‘amministrazione e soltanto indirettamente beni della
vita. Gli interrogativi più immediati che scaturiscono dall’analisi di questa presenza del privato al cospetto
del potere amministrativo sono relativi alla modalità di tutela degli interessi procedimentali sia nel corso del
procedimento, sia al termine dello stesso, in quanto la loro lesione si traduca nell’illegittimità del
provvedimento finale.
Per quanto riguarda l’omissione della comunicazione, l’art. 8 u.c., l. 241/1990 prevede che la stessa possa
essere fatta valere dal solo soggetto nel cui interesse la comunicazione è posta, rendendo evidente la tendenza
alla limitazione delle conseguenze sulla legittimità dell’atto finale della lesione di interessi procedimentali.
Non si può però ritenere privo di conseguenze il comportamento dell’amministrazione lesivo di interessi
procedimentali a meno di privare di qualsiasi efficacia l’istituto della partecipazione e gli altri istituti
procedimentali disciplinati dalla legge.
In ogni caso la legge si è mossa nel senso della limitazione dell’incidenza della violazione delle norme
procedimentali, stabilendo all’art. 21-octies che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese
che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

10.7. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi

La partecipazione offre la possibilità ai soggetti legittimati di presentare memorie scritte e documenti nonché
di prendere visione degli atti del procedimento (art. 10). L’accesso ai documenti amministrativi è dunque una
delle facoltà che si riassumono nell’istituto partecipativo.
L’accesso ha anche una sua autonomia rispetto al procedimento nel senso che il relativo potere può essere
esercitato pure a procedimento concluso e dunque non necessariamente è preordinato alla conoscenza dei
documenti amministrativi, in via strumentale rispetto alla partecipazione. Si tratta di un istituto che si collega
non solo alla trasparenza procedimentale, bensì anche al principio di trasparenza inteso in senso lato. Dal
punto di vista soggettivo, un ulteriore ampliamento a “chiunque” della legittimazione ad accedere è stata
realizzata dal d.lgs. 33/2013, che disciplina l’accesso civico relativamente ad alcune categorie di atti e
subordinatamente alla mancata pubblicazione degli stessi.
In ogni caso, si può parlare di accesso endoprocedimentale, esercitato all’interno del procedimento, e di
accesso esoprocedimentale, relativo agli atti di un procedimento concluso.
Il diritto d’accesso è autonomo pure rispetto all’azione che il soggetto potrebbe esperire davanti ad un giudice
per contestare la legittimità dell’azione amministrativa, come dimostra il fatto che la richiesta di accesso non
sospende i termini per agire.
Per quanto riguarda l’accesso collegato alla partecipazione, i soggetti legittimati ad esercitare il diritto
d’accesso sono tutti quelli che abbiano titolo a partecipare al procedimento. In tal senso le situazioni
giuridiche legittimanti all’accesso ai fini partecipativi non sono soltanto gli interessi legittimi ma anche i
meri interessi procedimentali. Negli altri casi l’art. 22 l. 241/90 indica quali soggetti legittimati “tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto,
concreto e attuale , corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al
quale è chiesto l’accesso”. Ai sensi dell’art. 24 non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un
controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni. Altro è la situazione di base e cioè la
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situazione legittimante l’accesso, altro è la qualificazione del c.d. “diritto” di accesso che può essere
esercitato in quanto si sia appunto titolari della situazione legittimante. La natura della pretesa a prendere
visione dei documenti e ad estrarre copia (definizione del diritto d’accesso) non va confusa con la situazione
sottostante che deve sussistere affinché quella pretesa possa essere esercitata.
Secondo Ad. Plen. n. 7/2012, comunque, onde evitare che l’istituto si traduca in una forma di azione
popolare, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente per esercitare
il diritto d’accesso, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento, sicché occorre avere riguardo
al documento cui si intende accedere, per verificarne l’incidenza, anche potenziale, sull’interesse di cui il
soggetto è portatore.
L’art. 10, T.U. enti locali, si occupa dell’accesso ai documenti degli enti locali, e prevede l’obbligo per gli
enti locali di dettare norme regolamentari per assicurare ai cittadini l’informazione sullo stato degli atti e
delle procedure e sull’ordine di esame delle domande , progetti e provvedimenti che li riguardino. Il d.lgs.
195/2005 stabilisce che le autorità pubbliche sono tenute a rendere disponibili le informazioni relative
all’ambiente “a chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”; il d.lgs.
42/2004 si occupa invece dell’accesso ai documenti conservati negli archivi di Stato e in quelli storici degli
enti pubblici.
Il diritto d’accesso si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e
speciali, degli enti pubblici e dei gestori dei pubblici servizi, nonché dei privati limitatamente alla loro
attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea. Il diritto d’accesso nei
confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell’ambito dei rispettivi ordinamenti.
Sotto il profilo oggettivo il diritto d’accesso riguarda i documenti amministrativi di cui all’art. 22 l. 241/90
fornisce una definizione assai ampia : è considerata tale “ ogni rappresentazione grafica,
fotocinematografica , elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non
relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di
pubblico interesse , indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale”. Non solo atti scritti su supporto cartaceo, né soltanto i provvedimenti finali, né unicamente gli
atti amministrativi.
La richiesta di accesso, rivolta all’amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente,
deve essere motivata , indicare gli estremi del documento ovvero gli elementi che ne consentono
l’individuazione e far constatare l’identità del richiedente. Essa dovrà poi giustificare la necessarietà del dato
quando la sua conoscenza sia strumentale alla difesa dei propri interessi giuridici o la sua indispensabilità nel
caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari. Il diritto è esercitabile fino a quando la pubblica
amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi ai quali si chiede di accedere. Di rilievo
è la possibilità di esercitare, ex art. 52, d.lgs. 82/2005, l’accesso telematico. La norma (valorizzata dall’art.
1, c.30, l. 190/2012) dispone che le amministrazioni, nel rispetto della disciplina del diritto di accesso ai
documenti amministrativi, hanno l’obbligo di rendere accessibili in ogni momento agli interessati, tramite
strumenti di identificazione informatica, le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti
amministrativi che li riguardano.
Qualora in base alla natura del documento richiesto non risulti l’esistenza di controinteressati, il diritto di
accesso può essere esercitato in via informale mediante richiesta, anche verbale, all’ufficio
dell’amministrazione. Ove si riscontri l’esistenza di controinteressati, l’amministrazione invita l’interessato a
presentare richiesta d’accesso formale.
A seguito della domanda di accesso l’amministrazione può: invitare il richiedente a presentare istanza
formale, rifiutare l’accesso, differirlo o limitare la sua portata , accogliere l’istanza. Si osservi che mentre il
rifiuto , il differimento e la limitazione all’accesso debbono essere motivati, la legge non stabilisce nulla in
ordine all’accoglimento. Con riferimento all’ipotesi in cui l’amministrazione non si pronunci sulla richiesta
di accesso l’art. 25, c.4, l. 241/1990 dispone che trascorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta questa si
intende respinta.
In caso di accoglimento il diritto di accesso si esercita mediante esame gratuito ed estrazione di copia del
documento. L’esame è effettuato dal richiedente o da persona da lui incaricata con l’eventuale
accompagnamento di altra persona di cui vanno specificate le generalità. L’esame dei documenti avviene
presso l’ufficio indicato nell’atto di accoglimento della richiesta.
Non tutti i documenti sono suscettibili di essere conosciuti dai cittadini. L’art. 24, l. 241/1990 prevede che il
diritto non possa essere esercitato nei casi di documenti coperti da segreto di Stato, di segreto o di divieto di
divulgazione espressamente previsti dall’ordinamento; nei procedimenti tributari; nei confronti dell’attività
della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione; nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi
contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi. Spetta comunque alle singole pubbliche
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amministrazioni individuare le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro
disponibilità sottratti all’accesso. L’art. 24, c.6 rinvia ad un regolamento governativo di delegificazione per
l’individuazione dei casi di esclusione dell’accesso per esigenze di tutela della sicurezza, della difesa
nazionale, della politica monetaria e valutaria, dell’ordine pubblico; quando i documenti riguardano la
contrattazione collettiva nazionale di lavoro, oppure la vita privata o la riservatezza di persone fisiche e
giuridiche.
La l. 241/1990 distingue tra interessati (soggetti privati che abbiano un interesse diretto concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso) e controinteressati (soggetti che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro
diritto alla riservatezza). Con il termine “riservatezza” si indica quel complesso di dati, notizie e fatti che
riguardano la sfera privata della persona e la sua intimità.
Nella direzione dell’aumento della trasparenza si muove la disciplina dettata dalla normativa anticorruzione.
Il d.lgs. 33/2013, emanato in attuazione di una delega conferita dalla l. 190, introduce nel nostro ordinamento
il c.d. accesso civico. La richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla
legittimazione soggettiva del richiedente, che non deve essere motivata; essa è gratuita e va presentata al
responsabile della trasparenza, che si pronuncia sulla stessa. L’amministrazione, entro trenta giorni,
procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell’informazione o del dato richiesto e lo trasmette
contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l’avvenuta pubblicazione, indicando il
collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può
ricorrere al titolare del potere sostitutivo di cui all’art. 2, c.9-bis, l. 241/1990 che, verificata la sussistenza
dell’obbligo di pubblicazione, è obbligato ad adempiere ai doveri testé indicati. La richiesta di accesso civico
comporta, da parte del responsabile della trasparenza, l’obbligo di segnalazione all’ufficio di disciplina, ai
fini dell’eventuale attivazione del procedimento disciplinare e al vertice politico dell’amministrazione,
all’OIV (Organismi Indipendenti di Valutazione) ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità. È
sempre possibile infine la via della tutela giurisdizionale utilizzando il rimedio del ricorso in tema di accesso.
Pure con riferimento all’accesso civico si propone il tema dei limiti connessi alla riservatezza.
La l. 241/1990 rinvia alla disciplina del d.lgs. 196/2003, c.d. “codice in materia di protezione dei dati
personali”, che ha riorganizzato e innovato la normativa in materia di tutela dei dati personali. Ai sensi
dell’art. 7 del codice della privacy, l’interessato ha il diritto di ottenere dai soggetti pubblici la conferma del
fatto che essi detengano dati personali che lo riguardano, così come ha il diritto di ottenere l’indicazione della
provenienza dei dati personali trattati dall’ente pubblico e le finalità e modalità di trattamento. Il codice
assicura all’interessato modalità di comunicazione di tute le informazioni che lo riguardano detenute da un
ente pubblico che ne consentano la piena e agevole acquisizione. Una volta conosciuti i dati personali
detenuti da un ente pubblico, l’interessato ha diritto di ottenerne l’aggiornamento, la rettifica, la
cancellazione, così come ha il diritto di opporsi (per motivi legittimi) al trattamento dei dati che lo
riguardano. Gli artt. 9 e 10 del codice disciplinano le modalità di esercizio di questa tipologia del diritto
d’accesso.
Il diritto d’accesso diretto a ottenere la comunicazione in forma intellegibile dei propri dati personali non può
invece essere utilizzato allorché l’esibizione documentale comporti anche la conoscenza di dati personali dei
soggetti terzi rispetto al richiedente. L’art. 10, c.5, del codice della privacy esclude che questo accesso possa
riguardare dati personali relativi a terzi, “salvo che la scomposizione dei dati trattati o la privazione di alcuni
elementi renda incomprensibili i dati personali relativi all’interessato”. L’art. 19, c.3 del codice afferma che
la comunicazione e la diffusione di dati personali da parte di amministrazioni a soggetti pubblici o privati
“sono ammesse unicamente quando sono previste da una norma di legge o di regolamento”.
La disciplina dell’accesso è nuovamente costituita dalla l. 241/1990. L’art. 59 del codice della privacy precisa
che “i presupposti, le modalità, i limiti per l’esercizio del diritto d’accesso ai documenti amministrativi
contenenti i dati personali e la relativa tutela giurisdizionale restano disciplinati dalla l. 241/1990, e
successive modificazioni e dalle altre disposizioni di legge in materia, nonché dai relativi documenti di
attuazione anche per ciò che concerne i tipi di dati sensibili e giudiziari e le operazioni di trattamento
eseguibili in esecuzione di una richiesta di accesso” e considera di “rilevante interesse pubblico” le attività
finalizzate all’applicazione di tale disciplina.
Per quanto riguarda il rapporto tra diritto d’accesso e tutela della riservatezza, il problema sorge perché le
amministrazioni che debbono rispondere ad una istanza d’accesso si trovano normalmente a dover prendere
in considerazione le esigenze di tutela dei terzi. La legge non prevede espressamente alcuna partecipazione
del controinteressato al procedimento che si instaura al momento della presentazione dell’istanza di accesso.
In ogni caso è molto importante la disciplina posta dalla l. 241/1990, posto che, quando l’accesso ai
documenti la cui conoscenza potrebbe configgere con le esigenze della riservatezza di dati personali di
soggetti terzi, il codice della privacy fa espressamente rinvio ai principi e alle regole contenuti in tale legge

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(art. 59), che in sostanza richiede all’amministrazione di effettuare una ponderazione di interessi contrapposti
trasparenza e riservatezza).
La l. 241/90 dispone al riguardo che deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici,
spettando dunque all’amministrazione la relativa valutazione. Va ricordato che l’art. 24 rinvia ad un
regolamento governativo per la individuazione tra gli altri, dei documenti sottratti all’accesso in quanto
riguardanti la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, intese e
associazioni…”.
L’art. 24, c.7, l. 241/1990 prevede poi che, in caso di documenti contenenti dati sensibili (idonei a rivelare
l’origine razziale, etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, nonché
lo stato di salute, politico o sindacale) e giudiziari (ad esempio imputato o indagato), l’accesso è consentito
nei limiti in cui sia strettamente indispensabile.
L’art. 59, codice della privacy, rinvia alla l. 241/1990 anche per ciò che riguarda l’accesso a documenti
contenenti dati sensibili e giudiziari: l’amministrazione, cui è rimesso il giudizio sull’indispensabilità, deve
dunque in tal caso applicare l’art. 24, c.7, l. 241/1990. Ove poi si tratti di dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale l’accesso è consentito soltanto nei termini previsti dall’art. 60 del d.lgs. 196/2003
(art. 24, c.7): il trattamento dei c.d. dati “supersensibili” è dunque consentito se la situazione giuridicamente
rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno
pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà
fondamentale e inviolabile.
Alla luce della disciplina emergente dalla l. 241/1990 e dal codice della privacy, si è sostenuta l’esistenza di
vari tipi di accesso ai documenti/informazioni amministrativi: a) l’accesso esoprocedimentale volto alla
conoscenza dei soli dati personali del richiedente; b) l’accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di
dati personali di soggetti terzi rispetto all’istante; c) l’accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di
dati sensibili e giudiziari; d) l’accesso esoprocedimentale volto alla conoscenza di dati supersensibili; e)
l’accesso endoprocedimentale.
La disciplina del diritto d’accesso è contemplata dalla previsione di particolari forme di tutela. Il d.lgs.
104/2010 assegna al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, la tutela giurisdizionale
contro le determinazioni concernenti il diritto d’accesso e nei casi di rifiuto. La legge prevede un processo
abbreviato e l’art. 116, d.lgs. 104/2010, dispone che l’azione può essere proposta anche in pendenza di un
ricorso.
L’art. 25, c.4, l. 241/1990, con specifico riferimento ai casi di rifiuto, espresso o tacito, e di differimento,
consente altresì al richiedente di chiedere di riesaminare la determinazione negativa nel termine di trenta
giorni al difensore civico (se agisce contro enti locali o regionali) o, se agisce contro le amministrazioni
statali, alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi di cui all’art. 27. Scaduto
infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Ove invece tali organi ritengano illegittimo il
diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all’autorità disponente e, ove questa
non emani il “provvedimento confermativo motivato” entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione, l’accesso è consentito. L’inerzia mantenuta sulla sollecitazione del difensore o della Cada ha
dunque il significato di assenso. Nell’ipotesi in cui si sia rivolto al difensore civico o alla Cada, il richiedente
potrà adire il giudice amministrativo entro trenta giorni dal ricevimento dell’esito dell’istanza. La legge vuole
dunque favorire l’impiego di questo strumento di tutela non giurisdizionale assicurando il privato che il suo
impiego non preclude l’azione dinanzi al giudice amministrativo.
Il codice della privacy affida invece la tutela del diritto d’accesso volto ad ottenere la comunicazione in
forma intelligibile dei propri dati personali al Garante del trattamento dei dati personali o al giudice
ordinario.(art. 145 del codice). Il Giudice ordinario dispone di pieni poteri di cognizione e di condanna ,
anche al risarcimento del danno.
La l. 241/1990 istituisce presso la presidenza del Consiglio una Commissione per l’accesso ai documenti,
nominata con d.p.r., su proposta del Presidente del Consiglio di ministri, sentito il Consiglio dei ministri e
presieduta dal sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio.
La Commissione vigila affinché venga attuato il principio di piena conoscibilità dell’azione amministrativa,
redige una relazione annuale sulla trasparenza dell’amministrazione e propone al Governo le modificazioni
normative necessarie per realizzare la garanzia del diritto d’accesso.

10.8. Procedimento, atti dichiarativi e valutazioni

Affinché i fatti diventino rilevanti nel procedimento, essi debbono essere accertati dall’amministrazione
procedente o da altra amministrazione.

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L’amministrazione pone in tal caso in essere atti dichiarativi, costituiti da dichiarazioni di scienza che
conseguono a un procedimento costituito da un insieme di atti ed operazioni .
Si ricordano gli accertamenti, che sono dichiarazioni relative a fatti semplici meramente constatati. Taluni
atti dichiarativi hanno la funzione di attribuire certezze legali che valgono erga omnes (si tratta di atti di
certazione); in altri casi il riconoscimento formale di un certo modo di essere di una situazione ha rilievo ai
fini dell’esercizio di un potere amministrativo.
Pure le valutazioni tecniche vengono poste in essere a seguito di un’attività volta ad intraprendere la
sussistenza del fatto. Esse, a differenza degli accertamenti, riguardano fatti complessi, e occorre operare una
valutazione complessa, che, non implicando la considerazione dell’interesse pubblico, esula dalla
“discrezionalità pura”. Tale valutazione è frutto di una “discrezionalità tecnica”.
Con riferimento al tema del procedimento vengono in primo luogo in evidenza gli atti di accertamento della
sussistenza dei fatti che costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento. Gli atti in
questione costituiscono esercizio di poteri strumentali che riguardano fatti costituenti i presupposti
dell’azione pubblica. Tali atti producono soltanto effetti endoprocedimentali che attengono cioè al procedere
dell’azione verso la sua conclusione. Poiché gli atti dichiarativi non modificano la situazione preesistente, la
posizione giuridica del privato interessato dal comportamento complessivo della pubblica amministrazione
non muta: atteso che tali atti costituiscono un momento di un procedimento che sfocia in un provvedimento il
cittadino sarà titolare di un interesse legittimo. Al fine di operare la qualificazione di un fatto complesso,
talora non è sufficiente porre in essere una semplice attività di apprendimento e una consequenziale
dichiarazione di scienza, ma è richiesta un’attività di valutazione e cioè, la formulazione di un giudizio
estimativo, frutto di esercizio di discrezionalità tecnica.
L’art. 17, l. 241/1990 si riferisce alle valutazioni tecniche, occupandosi del caso in cui esse siano richieste a
enti o organi appositi e questi non provvedano entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta o in quello
previsto specificamente dalla legge. In queste ipotesi la legge prevede che il responsabile del procedimento
deve chiedere le suddette valutazioni ad altri organi dell’amministrazione pubblica o ad altri enti pubblici che
siano dotati di qualificazione e capacità tecniche equipollenti, ovvero ad istituti universitari. Tale disciplina
non si applica in caso di valutazioni che debbono essere prodotte da amministrazioni proposte alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale e della salute dei cittadini. La legge riconosce questi interessi pubblici
come assolutamente rilevanti, sicché non si può prescindere dalla valutazione espressa dai soggetti proposti
alla loro tutela. L’art. 17, c.3, l. 241/1990 si occupa anche del caso in cui l’ente o l’organo adito abbia
rappresentato esigenze istruttorie all’amministrazione procedente; il termine può essere interrotto una sola
volta e la valutazione deve essere prodotta entro quindici giorni dalla ricezione degli elementi istruttori da
parte dell’amministrazione interessata.
La scelta consacrata nell’art. 17, l. 241/1990, è chiara nell’imporre di procedere in ogni caso alla valutazione
tecnica, senza introdurre meccanismi che conducano comunque alla conclusione del procedimento.
Nell’ipotesi delle valutazioni, l’amministrazione procedente non ha di norma la competenza e, dunque, la
possibilità di sostituire il giudizio espresso dall’organo o ufficio tecnico.
Nell’ambito della dinamica giuridica norma-potere-effetto si configura una sorta di riserva di valutazione
tecnica in capo ad alcuni organi ed enti: la valutazione non è sostituibile o superabile né dalla parte privata,
né dall’amministrazione decidente. Assai delicato è il tema della “resistenza” di tale riserva nei confronti del
giudice eventualmente chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento finale che si basi su quella
valutazione.
La riserva dovrebbe esistere solo quando sia espressamente prevista da una legge o da un regolamento; un
problema di limite al sindacato si pone soltanto quando si tratti di verificare un fatto che sia suscettibile di
varia valutazione e risulti opinabile come tale.
Alcune pronunce più recenti, talora richiamando il principio del giusto processo sancito a livello
costituzionale e comuni e quello del giusto procedimento amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, n.
1330/2012), ammettono però che il giudice possa spingersi anche oltre la pura verifica formale dell’attività
valutativa compiuta dall’amministrazione alla luce di generici criteri di esperienza, potendosi avvalere
eventualmente anche di regole e di conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica
applicata dall’amministrazione.
Contro la sussistenza della riserva di valutazione tecnica si è spesso indirizzata la critica della dottrina, la
quale ha sottolineato come il carattere opinabile di un giudizio non sia ragione sufficiente per configurare un
potere generale riservato in capo all’amministrazione, il quale confligge altresì con il principio di legalità.
L’art. 2, l. 241/1990 conferma la sussistenza della riserva, là dove esclude che, per i procedimenti cui è
riferibile l’art. 17, possano trovare applicazione i meccanismi di semplificazione volti a limitare la possibilità
di sospensione.

10.9. Le attività istruttorie dirette all’accertamento dei fatti


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L’istruttoria è governata dal responsabile del procedimento che è chiamato ad accertare i fatti, compiendo gli
atti all’uopo necessari (art. 6, l. 241/1990). Molto spesso il responsabile utilizza uffici o servizi tecnici di
altre amministrazioni. Controversa è la soluzione al problema della natura dei poteri istruttori: si tratta cioè
di comprendere se essi siano necessariamente implicati dalla titolarità del potere di provvedere ovvero
richiedano una norma di legge che li attribuisca in modo separato. In tema vige infatti sempre il principio di
tipicità e nominatività dei poteri amministrativi. Di conseguenza, i poteri il cui esercizio potrebbe
comportare un’incisione nella sfera giuridica del terzo debbono essere espressamente conferiti dalla legge.
Per acquisire la conoscenza della realtà e degli interessi l’amministrazione si avvale di numerosi strumenti.
Alcuni atti istruttori sono previsti come obbligatori dalla legge, altri sono posti indipendentemente
dall’attribuzione di specifici poteri da parte dell’ordinamento. Il soggetto pubblico ha così la facoltà di
disporre la rinnovazione o il completamento di un’istruttoria non soddisfacente o lacunosa.
Il principio inquisitorio è applicabile anche alla scelta dei mezzi istruttori che l’amministrazione può
utilizzare per acquisire la conoscenza di fatti rilevanti ai fini della determinazione finale. L’ampia possibilità
di decisione in ordine alla natura e all’estensione dei mezzi istruttori incontra il limite costituito dal principio
di non aggravamento del procedimento.
I fatti semplici sono spesso rappresentati nel procedimento mediante le seguenti attività delle parti:
- esibizione di documenti di identità o di riconoscimento in corso di validità;
- acquisizione diretta di documenti: l’amministrazione e i gestori di pubblici servizi sono tenuti ad
acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive, nonché tutti i dati e
documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni, previa indicazione, da parte
dell’interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti.
Si richiama l’art. 18 della l. 241/90 il quale prevede il dovere di acquisizione d’ufficio dei documenti
attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi, necessari per l’istruttoria del procedimento, quando sono
in possesso dell’amministrazione procedente, ovvero sono detenuti da altre pubbliche amministrazioni.
La realizzazione di una rete informatica unitaria per tutte le amministrazioni, che è destinata a migrare
verso il sistema pubblico di connettività, è una delle condizioni essenziali per l’applicazione dell’art.
18 e per il superamento dell’onere del cittadino di presentare dichiarazioni sostitutive di certificazioni e
certificati; è assai importante la cultura della condivisione. Di recente, il tema si è arricchito di
ulteriori implicazioni alla luce del problema dell’Open source: si tratta dei programmi software a
codice sorgente aperto, che dunque consentono ai clienti anche di copiare, di adattare e di modificare il
programma;
- Produzione di documenti o di autocertificazioni; in luogo degli originali di atti o documenti possono
essere validamente prodotte le copie autentiche ai sensi dell’art. 18 T.U. in materia di documentazione
amministrativa. La distinzione tra dichiarazioni sostitutive di certificati e autocertificazioni sta nel
fatto che le prime, sostituendo appunto un certificato, riguardano dati contenuti in pubblici registri,
mentre le seconde attengono a situazioni non consacrate in atti di certazione. Tra i procedimenti volti
ad accertare i fatti possono ricordarsi le inchieste e le ispezioni, le quali hanno normalmente ad oggetto
accadimenti e comportamenti ovvero ancora beni di pertinenza di soggetti terzi. Tali operazioni sono
destinate a raccogliere informazioni e dati di fatto necessari per provvedere e danno luogo ad atti di
accertamento, i quali sono acquisiti all’istruttoria del procedimento.

L’inchiesta amministrativa è un istituto che mira ad una acquisizione di scienza relativa ad un evento
straordinario che non può essere conosciuto ricorrendo alla normale attività ispettiva e si conclude di norma
con una relazione. L’inchiesta viene svolta da un organo istituito ad hoc, di solito collegiale, il quale dovrà
porre in essere l’attività conoscitiva in ordine ad un particolare oggetto entro un certo termine. Occorre
dunque l’emanazione di un provvedimento che disponga l’inchiesta e attribuisca l’incarico. L’inchiesta è
normalmente servente nei confronti di un procedimento principale. Il potere d’inchiesta può avere finalità
meramente conoscitive o non avere carattere strumentale rispetto ad un particolare procedimento.
L’ispezione è un insieme di atti, di operazioni o di procedimenti mirati ad acquisizioni di scienza che ha ad
oggetto situazioni o comportamenti e che avviene in luogo esterno rispetto alla sede dell’amministrazione.
Strutturalmente l’ispezione consiste in un atto che l’amministrazione rivolge all’organo o all’ufficio
competente, e non istituito ad hoc, che dovrà compiere l’ispezione stessa e che attribuisce dunque la
legittimazione all’organo o all’ufficio a procedere all’ispezione nel caso concreto. L’atto ha però come vero
destinatario il soggetto terzo che è sottoposto all’ispezione. Segue una serie di operazioni volte ad acquisire
la conoscenza dei fatti. Il procedimento si chiude solitamente con una relazione, un rapporto o un verbale.

10.10.La fase consultiva

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Una volta acquisiti tutti gli interessi coinvolti nella scelta finale e verificati i fatti rilevanti, l’amministrazione
deve procedere ad una valutazione di siffatto materiale istruttorio.
In alcune ipotesi questa valutazione viene effettuata mediante atti emanati da appositi uffici o organi che
confluiscono in un ulteriore momento della fase istruttoria, costituita dal subprocedimento consultivo. Si
tratta di uffici ed organi, di norma collegiali, distinti rispetto a quelli che svolgono attività di amministrazione
attiva e dotati di particolari preparazione e competenza tecnica. Gli atti mediante i quali viene esercitata
questa forma di attività, detta appunto consultiva, ed aventi un contenuto di giudizio, sono i pareri.
I pareri si distinguono in :
- pareri obbligatori, se la loro acquisizione è prescritta dalla legge; l’obbligatorietà non attiene al fatto
che l’organo consultivo sia tenuto a rendere il parere: ciò accade in ogni caso.
- pareri facoltativi: essi non sono previsti dalla legge; l’amministrazione può di propria iniziativa
richiederli purché ciò non comporti un ingiustificato aggravamento del procedimento;
- pareri conformi: si tratta di pareri che lasciano all’amministrazione attiva la possibilità di decidere se
provvedere o meno; se essa provvede, non può disattenderli;
- pareri semivincolanti: tali pareri possono essere disattesi soltanto mediante l’adozione del
provvedimento da parte di un organo diverso da quello che di norma dovrebbe emanarlo,
impegnandone la responsabilità amministrativa o politica.
- pareri vincolanti: si tratta di pareri obbligatori che non possono essere disattesi dall’amministrazione,
salvo che non li ritenga illegittimi.
Il riferimento alla funzione consultiva, quale elemento essenziale del parere, consente di risolvere altresì il
problema della possibilità di sanare successivamente un provvedimento emanato senza che sia stato richiesto
un parere obbligatorio. Il subprocedimento consultivo inizia con la richiesta di parere, la quale consiste nella
formulazione di un quesito, prosegue con lo studio del problema, con la discussione, con la determinazione,
con la redazione e si conclude con la comunicazione all’autorità richiedente. Ciò spiega perché
l’amministrazione procedente debba adeguatamente motivare nel caso in cui decida di disattendere il parere:
l’art. 3, l. 241/1990, offre espresso fondamento a tale dovere, affermando che l’atto deve essere motivato in
relazione alle risultanze dell’istruttoria.
Il procedimento consultivo è disciplinato espressamente dall’art. 16, l. 241/1990 e successive modificazioni,
cui tra l’altro fa rinvio l’art. 139 T.U. enti locali. Il parere obbligatorio deve essere reso entro venti giorni.
Nell’ipotesi di pareri facoltativi gli organi sono tenuti a dare immediata comunicazione alle amministrazioni
richiedenti del termine entro il quale il parere sarà reso, comunque non superiore a venti giorni dal
ricevimento della richiesta. Decorso il termine previsto senza che sia stato comunicato il parere e senza che
l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie è in facoltà dell’amministrazione richiedente di
procedere indipendentemente dall’acquisizione del parere. La ratio della scelta legislativa di consentire
comunque la prosecuzione del procedimento anche in mancanza del parere pare potersi rinvenire nel
principio di non aggravamento del procedimento, anche perché volta ad impedire il superamento dei
termini fissati per la conclusione del procedimento. Questa normativa non si applica però nei casi in cui il
parere debba essere reso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della
salute dei cittadini. Non sempre è facile distinguere tra pareri, valutazioni tecniche e nulla osta. Dal punto di
vista teorico la differenza è netta: il parere è espressione della funzione consultiva e comporta di norma un
consiglio in ordine agli interessi che l’amministrazione procedente deve tutelare, tenuto conto della
situazione di fatto così come accertata nell’istruttoria; le valutazioni tecniche attengono invece ad uno o più
presupposti dell’agire che debbono essere appunto valutati nel corso dell’istruttoria; il nullaosta è un atto di
amministrazione attiva che viene emanato in vista di un interesse differente da quello curato
dall’amministrazione procedente.

11. La fase decisoria: rinvio

Completata l’istruttoria il procedimento è maturo per addivenire all’emanazione del provvedimento. Il


procedimento può anche concludersi con atti differenti, ovvero addirittura con un mero fatto (silenzio).
Quando l’amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque
denominati di altre amministrazioni pubbliche, il procedimento deve seguire regole ben precise:
l’amministrazione deve richiedere tali atti e, ove non li ottenga entro trenta giorni dalla ricezione, da parte
dell’amministrazione competente, della relativa richiesta , deve obbligatoriamente indire una conferenza di
servizi decisoria.

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12. La fase integrativa dell’efficacia

La produzione dell’efficacia del provvedimento conclusivo del procedimento è spesso subordinata al


compimento di determinate operazioni, al verificarsi di certi fatti o all’emanazione di ulteriori atti. Solo a
quel punto si perfeziona la fattispecie nel senso che risultano integrate tutte le circostanze che l’ordinamento
ha previsto non già per l’esistenza del provvedimento, bensì affinché possa prodursi l’effetto sul piano
dell’ordinamento generale.
Il provvedimento può dunque essere perfetto, cioè completo di tutti gli elementi prescritti per la sua
esistenza, ma non ancora efficace.
Ai sensi dell’art. 21-quater i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che
sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo. L’efficacia del provvedimento
amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso
organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è
esplicitamente indicato nell’atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché
ridotto per sopravvenute esigenze.
L’efficacia va distinta dall’esecutorietà, attitudine dell’atto ad essere portato ad esecuzione
dall’amministrazione. Cosa diversa dall’efficacia dell’atto è la sua validità, che dipende dalla conformità al
paradigma normativo dell’atto e dell’attività amministrativa posta in essere al fine della sua adozione. Un
atto può dunque essere illegittimo, cioè invalido, ma efficace, ovvero legittimo ma ancora inefficace. Le
operazioni di partecipazione condizionano l’efficacia degli atti recettizi, ossia quegli atti che diventano
efficaci soltanto al momento in cui pervengono nella sfera di conoscibilità del destinatario; sono qualificati
come recettizi gli atti normativi. La legge, ai sensi dell’art. 21 bis l. 241/1990, attribuisce natura recettizia ai
provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati.
- Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati può contenere una motivata clausola di
immediata efficacia e ciò a prescindere per definizione dalla conoscenza che ne abbiano i privati;
- questa regola non vale però per i provvedimenti a carattere sanzionatorio, sicché per essi il principio
della comunicazione ai fini dell’efficacia non può essere derogato;
- I provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere cautelare e urgente sono
immediatamente efficaci.

La disciplina di cui alla l. 241/1990 va integrata con quella posta dal d.lgs. 33/2013 sulla trasparenza, che
condiziona l’acquisto dell’efficacia di alcune categorie di atti alla pubblicazione. In particolare, ai sensi
dell’art. 15, d.lgs. 33/2013, la pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento di incarichi a soggetti
estranei alla pubblica amministrazione, di collaborazione o di consulenza a soggetti esterni a qualsiasi titolo
per i quali è previsto un compenso, “è condizione per l’acquisizione di efficacia” degli incarichi medesimi,
mentre, ai sensi dell’art. 26, la pubblicazione “costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti
che dispongano concessioni e attribuzioni di importo complessivo superiore a mille euro nel corso dell’anno
solare al medesimo beneficiario”.
Le misure di partecipazione che condizionano l’efficacia del provvedimento sono elementi costitutivi
dell’effetto e della relativa fattispecie : l’effetto non si produce finché esse non si siano completate , ma
decorre dal momento in cui la situazione di conoscibilità è avvenuta e non già da quello in cui il
provvedimento è stato emanato.
Si parla di controllo sull’atto come fase procedimentale, ricordando che se l’efficacia dell’atto risulta
sospesa in attesa dell’esito del controllo, si versa nell’ipotesi di controllo preventivo. Il controllo può
svolgersi successivamente alla produzione degli effetti da parte dell’atto controllato: in tal caso si parla di
controllo successivo, il quale non impedisce l’efficacia del provvedimento dal momento della sua
emanazione e funge da condizione risolutiva ove a seguito di esso venga pronunciato l’annullamento.
Occorre ricordare altre misure di partecipazione, le quali sono costituite dai comportamenti finalizzati a
portare atti giuridici nella sfera di conoscibilità del destinatario. I mezzi più comuni di partecipazione sono:
la pubblicazione, la pubblicità, la comunicazione individuale, la convocazione. Talune di queste
operazioni sono effettuate secondo procedure formali e ad opera di particolari soggetti: le notificazioni,
caratterizzate dalla presenza di un soggetto terzo, l’agente notificatore, il quale documenta il ricevimento
dell’atto. Le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalle leggi e dai regolamenti , con
riferimento a tutti gli atti per i quali debbano essere disposte, siano essi recettizi o non recettizi, sono curate
dal responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 23, d.lgs. 33/2013, le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei mesi gli
elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare
riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di autorizzazione o concessione

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L’art. 3, c.4, l. 241/1990, stabilisce l’obbligo per l’amministrazione di indicare in ogni atto notificato al
destinatario “il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere”.

13. La semplificazione procedimentale

La l. 127/1997 reca misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di
decisione e di controllo, mentre la l. 59/1997 contiene la delega al governo per il conferimento di funzioni e
compiti alle regioni e agli enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa. Più di recente la semplificazione è stata intesa anche e soprattutto come una leva per lo
sviluppo nei periodi di crisi, con l’intento di ridurre gli oneri amministrativi per cittadini e impresa (d.l.
5/2012, conv. nella l. 35/2012).
Sotto il profilo organizzativo, la l. 80/2006 prevede l’istituzione di un comitato interministeriale per
l’indirizzo e la qualità strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolazione e di una
unità per la semplificazione e qualità della regolazione. Il compito di attuare il disegno di semplificazione
procedimentale è affidato ai decreti legislativi e alle fonti regolamentari di delegificazioni ex art. 17, c.2, l.
400/1988, evidenziando una certa tendenza a riconoscere alla fonte soggettivamente amministrativa buona
parte della disciplina dell’azione posta in essere dall’amministrazione. L’art. 20, l. 59/1997 consente di
affermare che la semplificazione comporta la riduzione delle fasi procedimentali, l’adeguamento alle nuove
tecnologie informatiche, la riduzione dei termini nonché l’accorpamento e la regolamentazione uniforme dei
procedimenti che attengono alla stessa attività. La l. 241/1990, agli artt. 14 e ss., definisce come istituti di
semplificazione la conferenza di servizi, gli accordi tra amministrazioni, la prefissione di termini e di
meccanismi procedurali per consentire di ottenere in termine certi pareri o valutazioni tecniche,
l’autocertificazione, la liberalizzazione di attività private e il silenzio assenso.

FINO A QUI PER PARZIALE

CAPITOLO VII

LA CONCLUSIONE DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO:


IL PROVVEDIMENTO E GLI ACCORDI AMMINISTRATIVI

1. Gli atti determinativi del contenuto del provvedimento, l’atto complesso, il concerto e l’intesa

L’amministrazione conclude il procedimento emanando una decisione; questo termine è oggi usato dal
legislatore con riferimento a tutti i provvedimenti, anche perché tutti i procedimenti devono consentire la
partecipazione e il contraddittorio con gli interessati.

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La fase decisoria può essere costituita da una serie di atti, da un atto proveniente da un unico organo, da un
fatto, ovvero da un accordo. Allorché la fase decisoria consista nell’emanazione di atti (monocratici) o
deliberazioni (collegiali) preliminari determinativi del contenuto del provvedimento finale, si assiste
all’adozione, da parte di un organo, di un atto che, per produrre effetti, deve essere esternato ad opera di un
altro organo. L’atto del primo organo è quindi determinativo del contenuto del provvedimento finale, ma non
costitutivo degli effetti.
Un altro modello è quello della decisione su proposta: si tratta di un atto di impulso procedimentale,
necessario perché il provvedimento finale possa essere emanato e indicativo del contenuto dello stesso.
L’organo (spesso collegiale) al quale la proposta è rivolta ha sempre il potere di rifiutare l’adozione dell’atto
finale, ma non può modificare il contenuto della proposta.
In dottrina viene poi ricordato il modello dell’atto complesso; in questa ipotesi, le manifestazioni di volontà,
di pari dignità, tutte attinenti alla fase decisoria e convergenti verso un unico fine, si fondono in un medesimo
atto. L’interdipendenza tra le parti dell’atto complesso comporta che sia sufficiente l’illegittimità di una di
esse per determinarne l’annullabilità. Poiché tale atto è imputabile alle amministrazioni partecipanti, esso
deve essere impugnato nei loro confronti.
Nell’atto complesso ineguale invece, l’ineguaglianza tra le parti giustifica la possibilità per una di esse di
modificare unilateralmente il contenuto dell’atto: la modifica introdotta impedisce la concordanza dei
contenuti e il convergere delle volontà verso un ambito omogeneo che caratterizzano l’atto complesso. L’atto
complesso in senso proprio comprende gli accordi tra le amministrazioni. Simili a quello appena descritto
sono i modelli del concerto e dell’intesa.
Il concerto è un istituto che si riscontra di norma nelle relazioni tra organi dello stesso ente: l’autorità
concertante elabora uno schema di provvedimento e lo trasmette all’autorità concertata, che si trova in
posizione di parità rispetto alla prima, fatto salvo il fatto che solo l’autorità concertante ha il potere
d’iniziativa. Il consenso dell’autorità concertate condiziona l’emanazione del provvedimento: tale consenso è
espresso con atto che, a differenza del modello dell’atto complesso, non si fonde con quello
dell’amministrazione procedente, che è l’unica ad adottare l’atto finale.
L’intesa viene di norma raggiunta tra enti differenti (ad esempio tra Stato e regione) ai quali tutti si imputa
l’effetto. Analogamente a quanto accade per il concerto, un’amministrazione deve chiedere l’intesa ad altra
autorità, il cui consenso condiziona l’atto finale. Esistono numerosi altri casi in cui la legge dà evidenza a
momenti endoprocedimentali che sono intimamente collegati con la decisione finale, influenzandola quanto
meno sotto il profilo del dovere di motivazione.
L’art. 11, l. 241/1990, prevede che gli accordi che l’amministrazione conclude con i privati siano preceduti
da una “determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”, al fine di
giustificare l’adozione dell’accordo medesimo. L’art. 10-bis, nel caso di procedimenti ad istanza di parte,
impone di comunicare agli istanti i “motivi che ostano all’accoglimento della domanda”; tale
comunicazione mira a sollecitare gli istanti medesimi affinché presentino osservazioni, del cui eventuale
mancato accoglimento occorre dare ragione della motivazione del provvedimento finale, se di rifiuto. L’art. 6
stabilisce che l’organo che emana il provvedimento fonale, se diverso dal responsabile del procedimento, non
può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria se non indicandone le motivazioni nel provvedimento
finale.

2. La conferenza di servizi c.d. “decisoria”

La legge, pur ritenendo necessario il consenso di più amministrazioni ai fini della definizione del
procedimento, ammette oggi che gli atti determinativi o condizionanti il contenuto della decisione finale
possano essere sostituiti dalla determinazione assunta in seno alla conferenza di servizi.
Il modello di conferenza di servizi introdotto dall’art. 14, c.2, l. 241/1990, differisce dalla conferenza
istruttoria anche se la disciplina è in alcune parti identica: si tratta della c.d. conferenza decisoria; il
legislatore la circoscrive ai casi in cui sia necessario acquisire “intese, concerti, nullaosta o assensi comunque
denominati di altre amministrazioni pubbliche” e ricorrano due evenienze:
- avendo formalmente richiesto questi atti, l’amministrazione non li ottenga entro trenta giorni dalla
ricezione, da parte dell’amministrazione competente, della relativa richiesta; in questo caso l’indizione
è obbligatoria;
- nello stesso termine sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate, ovvero nei
casi in cui sia consentito all’amministrazione procedente di provvedere direttamente in assenza delle
determinazioni delle amministrazioni competenti: l’indizione è facoltativa.
La legge fissa non solo il termine di indizione della conferenza, ma anche quello della convocazione della
medesima.

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Diversa e più ampia è la formula impiegata dal successivo art. 14-ter, ai sensi del quale la determinazione
finale della conferenza “sostituisce, a tutti gli effetti ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di
assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a
partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza”. La conferenza può essere altresì impiegata per
acquisire atti di consenso cui sia subordinata l’attività del privato; è incerto se la conferenza sostituisca i
pareri non contemplati nell’art. 14, l. 241/1990. L’opinione negativa si basa sul fatto che i pareri sono
espressione della funzione consultiva e sono preparatori rispetto alle determinazioni e, dunque, non possono
partecipare di quell’effetto sostitutivo previsto solo per esse.
La conferenza dei servizi (sia quella istruttoria che decisoria: in entrambi i casi l’indizione spetta al
responsabile del procedimento), tende ad un accordo tra amministrazioni. La conferenza non dà luogo ad un
organo collegiale, atteso che ogni rappresentante delle amministrazioni “vi partecipa nell’esercizio delle
funzioni amministrative dell’ente di competenza” e gli effetti sono imputati alle singole amministrazioni e
non già alla conferenza (Corte cost., n. 179/2012), mancando il conferimento ad essa di una competenza
unitaria; la sua struttura è inoltre variabile, a differenza di ciò che accade per gli organi collegiali.
Ai sensi dell’art. 14-ter, l. 241/1990, anche in caso di dissenso espresso da un soggetto convocato alla
conferenza, l’amministrazione procedente adotta una determinazione conclusiva di procedimento finale. La
conferenza tende all’accordo soltanto in prima battuta, ma consente di giungere alla determinazione finale
pur in sua assenza, anche in contrasto con gli avvisi espressi dai rappresentanti degli enti competenti in via
ordinaria. Analoga disciplina si applica nel caso di inutile decorso del termine per l’adozione della decisione
conclusiva. Si realizza in tal modo una indubbia alterazione dell’ordine delle competenze, nell’ambito di
un istituto configurato come obbligatorio qualora l’amministrazione non ottenga entro un certo termine gli
atti formalmente richiesti.
Per quanto riguarda la conferenza c.d. “istruttoria”, la determinazione conclusiva sostituisce manifestazioni
di interesse con cui le amministrazioni rappresentano il proprio punto di vista. La determinazione conclusiva
della conferenza decisoria, invece, può sostituire ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto
d’assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, o comunque invitate a
partecipare ma risultate assenti, alla predetta conferenza.
La conferenza decisoria (indetta quando, avendo formalmente richiesto gli atti d’assenso, l’amministrazione
non li abbia ottenuti entro trenta giorni dall’inizio del procedimento, ovvero abbia riscontrato un dissenso di
una o più amministrazioni interpellate) può essere definita interna. L’analisi della disciplina relativa
all’indizione consente di osservare che:
- nei procedimenti non routinari (cioè caratterizzati dalla necessità di risolvere problemi complessi) è
probabile che le amministrazioni coinvolte non riescano ad emanare entro trenta giorni gli atti
richiesti, sicché la conferenza finisce per diventare la modalità ordinaria di esercizio del potere per i
procedimenti complessi; negli altri casi, invece, l’attività si svolgerà in modo tradizionale;
- in caso di dissenso sulla richiesta, l’indizione è facoltativa perché l’amministrazione procedente ben
potrebbe condividere le ragioni del dissenso, manifestate dall’amministrazione dissenziente e di
conseguenza valutare inopportuno il ricorso a questa modalità di decisione.
La legge (art. 14, c.4, l. 241/1990) disciplina altresì un modello di conferenza di servizi decisoria esterna, la
quale, anche su richiesta dell’interessato, può essere convocata dall’amministrazione competente per
l’adozione del provvedimento finale “quando l’attività del privato sia subordinata ad atti di consenso,
comunque denominati, di competenza di più amministrazioni pubbliche”. Ricorrendo a tale figura, è dunque
possibile acquisire atti esterni rispetto al singolo procedimento.
Assai rilevante è poi la facoltà conferita al privato di richiedere l’indizione della conferenza, consentendogli
così di assumere un’importante iniziativa per “indurre” le amministrazioni ad esercitare in un'unica soluzione
i differenti poteri permissivi. Ai sensi dell’art. 20, l’indizione della conferenza di servizi preclude la
formazione del silenzio-assenso; si aggiunge inoltre che la conferenza cui fa cenno l’art. 20 (“preclusiva”
del silenzio-assenso) non costituisce un modello ulteriore. La legge infatti dispone che entro trenta giorni
dalla presentazione dell’istanza, l’amministrazione può indire una conferenza di servizi “ai sensi del capo
IV”. La conferenza “esterna” risponde ad esigenze di raccordo tra diversi episodi di esercizio di poteri
provvedimentali e di semplificazione a favore del cittadino.
La conferenza poi può essere convocata per l’esame contestuale d’interessi coinvolti in più procedimenti
connessi, riguardanti medesimi attività o risultati (art. 14, c.3, l. 241/1990); in tal caso, su richiesta di una
qualsiasi delle amministrazioni coinvolte, essa è indetta “dall’amministrazione o, previa informale intesa, da
una delle amministrazioni che curano l’interesse pubblico prevalente”. L’indizione può essere richiesta da
qualsiasi altra amministrazione. La legge prevede ulteriori ipotesi di conferenza: quella che può essere
convocata dal concedente in caso di affidamento di concessione di lavori pubblici (art. 14, c.5) e quella
relativa a istanze o progetti preliminari.

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L’art. 14-ter disciplina il procedimento della conferenza di servizi prevedendo regole che mirano a garantire
la celere e positiva conclusione del subprocedimento, caratterizzato anche della presenza di una vera e
propria fase istruttoria. In particolare, esso stabilisce che:
- previo accordo tra le amministrazioni coinvolte, la conferenza dei servizi è convocata e svolta
avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e le modalità stabiliti dalle
medesime amministrazioni (art. 14, c.5-bis);
- la prima riunione della conferenza dei servizi è convocata entro quindici giorni, ovvero, in caso di
particolare complessità dell’istruttoria entro trenta giorni dalla data di indizione;
- la conferenza assume le determinazioni relative alla organizzazione dei propri lavori a maggioranza
dei presenti e può svolgersi in via telematica;
- la convocazione alla prima riunione deve pervenire, anche per via telematica o informatica, almeno
cinque giorni prima della relativa data;
- le amministrazioni stabiliscono il termine per l’adozione della decisione conclusiva, rispettando la
regola secondo cui i lavori non possono superare i novanta giorni;
- ogni amministrazione partecipa ad essa con un unico rappresentate, legittimato dall’organo
competente ad esprimere in modo vincolante la volontà su tutte le decisioni di competenza della
stessa; ciò presuppone che la convocazione indichi esattamente l’oggetto della determinazione;
- in sede di conferenza possono essere richiesti per una sola volta ai componenti della istanza o ai
progettisti chiarimenti o ulteriore documentazione, che debbono essere forniti entro trenta giorni.
La legge introduce meccanismi volti a garantire la conclusione del procedimento, anche ammettendo la
possibilità di apportare modificazioni al progetto iniziale sulla base delle indicazioni fornite in conferenza, e
a superare l’inerzia di soggetti pubblici coinvolti. Una volta convocata la conferenza decisoria interna, si
considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia “espresso definitivamente
la volontà dell’amministrazione rappresentata” (art. 14-ter, c.7: superamento della presenza non
collaborativa).
Ai sensi del c.6-bis, la determinazione finale della conferenza sostituisce, a tutti gli effetti, ogni
autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle
amministrazioni partecipanti a comunque invitati a partecipare ma risultate assenti: si verifica così un’ipotesi
di assenza-assenso.
La stessa disciplina si applica anche per quanto attiene all’inerzia o, meglio, al mancato rispetto del
termine stabilito per la conclusione dei lavori e al caso del dissenso. In sostanza, l’amministrazione
procedente non adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento sulla base del mero
criterio della maggioranza, ma deve tener “conto delle posizioni prevalenti espresse” in conferenza e,
dunque, della loro qualità.
Circa gli effetti della conferenza, si ribadisce ancora che la determinazione motivata conclusiva “sostituisce a
tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di
competenza delle amministrazioni partecipanti o comunque invitate a partecipare ma risultate assenti alla
predetta conferenza” (art. 14-ter, c.6-bis).
Il c.3 dell’art.14-quater introduce poi una disciplina derogatoria a questi meccanismi di semplificazione,
evidentemente fondata sull’esigenza di rispettare l’autonomia costituzionalmente garantita ad alcuni enti, con
riferimento ai casi di motivato dissenso espresso, appunto, da una regione o da una provincia autonoma in
una delle materie di propria competenza, ai fini del raggiungimento dell’intesa, entro trenta giorni dalla data
di rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei Ministri. In tale ipotesi, viene indetta una
riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la partecipazione della regione o della provincia
autonoma, degli enti locali e delle amministrazioni interessate, attraverso un unico rappresentante legittimato
ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’amministrazione sulle decisioni di competenza. In tale
riunione i partecipanti devono formulare le specifiche indicazioni necessarie all’individuazione di una
soluzione condivisa; se l’intesa non è raggiunta nel termine di ulteriore trenta giorni, è indetta una seconda
riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con le stesse modalità della prima; ove non sia
comunque raggiunta l’intesa, in un ulteriore termine di trenta giorni, le trattative sono finalizzate a risolvere e
comunque a individuare i punti di dissenso. Se all’esito delle predette trattative l’intesa non è raggiunta, la
deliberazione del Consiglio dei Ministri può essere comunque adottata con la partecipazione dei Presidenti
delle regioni o delle province autonome interessate.
Un meccanismo analogo si applica nel caso di dissenso manifestato da amministrazioni preposta alla tutela
ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico e della pubblica incolumità.
Una disciplina peculiare è infine dettata con riferimento al caso in cui sia prevista la valutazione di impatto
ambientale (v.i.a.), procedura volta a verificare in via preventiva la compatibilità ambientale di alcune opere
e di alcuni progetti. La v.i.a. deve essere acquisita dalla conferenza di servizi la quale, ancorché già indetta,

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deve attendere l’adozione del provvedimento di v.i.a; il termine resta sospeso, per un massimo di novanta
giorni, fino all’acquisizione della pronuncia della compatibilità ambientale: ove la v.i.a. non intervenne nel
termine fissato per l’adozione del relativo provvedimento, l’amministrazione competente si esprime in sede
di conferenza.
In alcuni casi, le conferenze di servizi sono trasformate in momenti obbligatori del procedimento.

3. Silenzio significativo, silenzio-inadempimento, silenzio-rigetto e silenzio devolutivo

Il silenzio è l’inerzia dell’amministrazione. Il nostro ordinamento conosce varie forme di silenzio:


silenziorigetto, silenzio significativo, silenzio-inadempimento, silenzio-devolutivo. La regola da applicare,
salvo disposizione contraria quando l’amministrazione rimane inerte, è quella del silenzio-assenso, che è una
delle tipologie del silenzio significativo.
La figura del silenzio è nata nell’ambito della giustizia amministrativa per ovviare all’inerzia
dell’amministrazione a seguito del ricorso presentato dal privato. In particolare ci si preoccupò di prevedere
rimedi nelle ipotesi di inerzia dell’amministrazione a fronte di una istanza volta ad ottenere non già una
decisione su ricorso, bensì il rilascio di un provvedimento favorevole. In un primo tempo la giurisprudenza,
applicando in via analogica l’art. 25, t.u. 3/1957 (relativo alla responsabilità dei dipendenti) ha ritenuto che
tale silenzio, denominato inadempimento, si formasse nel modo seguente: istanza del privato; inutile decorso
di sessanta giorni; notifica della diffida a provvedere; ulteriore decorso di trenta giorni. A questo punto il
privato poteva impugnare il silenzio nei termini di decadenza (sessanta giorni). Il legislatore è oggi
intervenuto disciplinando uno specifico ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, il quale sembra
riferibile all’ipotesi di silenzio inadempimento.
Nell’ipotesi di silenzio-significativo, l’ordinamento collega al decorso del termine la produzione di un effetto
equipollente all’emanazione di un provvedimento favorevole (silenzio-assenso) o di diniego (silenzio-
diniego) a seguito di istanza del privato titolare di un interesse pretensivo. È questa l’ipotesi di silenzio che
maggiormente interessa l’analisi della fase decisoria del procedimento, atteso che l’ordinamento collega
all’inerzia un determinato valore provvedimentale.
Pochi sono i casi di silenzio-diniego che vanno espressamente previsti dalla legge: un es. è costituito dalla
fattispecie disciplinata dall’art. 53, c.10, d.lgs. 165/2001, ai sensi del quale l’autorizzazione richiesta da
dipendenti pubblici all’amministrazione di appartenenza ai fini dello svolgimento di incarichi retribuiti si
intende definitivamente negata quando, a seguito della presentazione della richiesta che non attenga a
“incarichi da conferirsi da amministrazioni pubbliche”, sia inutilmente decorso il termine di trenta giorni per
provvedere. Un’altra ipotesi è quella prevista dall’art. 25, l. 241/1990, in materia di accesso ai documenti
amministrativi.
Più rilevante è il campo di applicazione del silenzio-assenso, che, a seguito della modifica introdotta dal d.l.
35/2005, convertito in l. 80/2005, costituisce oggi la regola nel nostro ordinamento per i procedimenti ad
istanza di parte, pur se temperata da una serie di importanti eccezioni.
Il presupposto del silenzio-assenso è quello secondo cui la legge effettua una preliminare valutazione astratta
della compatibilità dell’attività privata con l’interesse pubblico. L’art. 20, l. 241/1990 dispone che, fatta salva
l’applicazione dell’art. 19 (che attiene alla segnalazione di inizio attività), nei procedimenti a istanza di
parte per il rilascio dei provvedimenti amministrativi il silenzio dell’amministrazione competente equivale a
provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima
amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2, il provvedimento di diniego,
ovvero non procede ai sensi del c.2 (ossia non indice una conferenza di servizi). Il campo d’applicazione
dell’istituto in pratica coincide con i procedimenti ad istanza di parte. Il c.4 tipizza una serie di eccezioni
in ordine alle quali il silenzio non può valere come assenso ma va qualificato come silenzio-inadempimento:
la deroga opera con riferimento ai casi di procedimenti “riguardanti” il patrimonio culturale e paesaggistico,
l’ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la
pubblica incolumità, i casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti
amministrativi formali, i casi in cui la legge qualifica il silenzio dell’amministrazione come rigetto
dell’istanza. Il criterio di perimetrazione del campo di applicazione della dichiarazione di inizio attività è
fondato non solo sulle materie, ma anche sui caratteri degli atti sostituiti. In conclusione, è questa l’area in
cui potrebbe operare il silenzio assenso.
Al fine di evitare la formazione del silenzio, l’amministrazione competente può operare in tre modi, due
dei quali sono previsti dall’art. 20:
a) può provvedere espressamente, atteso che rimane fermo il principio di cui all’art. 2 in forza del
quale l’amministrazione ha il potere/dovere di provvedere con atto espresso;
b) ai sensi dell’art. 20, c.1, poi, può comunicare all’interessato il provvedimento di diniego nel termine
di cui all’art. 2 (in assenza di diversa determinazione esso è di trenta giorni);
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c) l’amministrazione, infine, può adire, entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, una
conferenza di servizi ai sensi del capo IV, anche tenendo conto delle situazioni giuridiche dei
controinteressati.
Successivamente alla formazione del silenzio, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in
via di autotutela, che è considerato un potere discrezionale, ai sensi degli art. 21- quinquies (revoca) e
21nonies (annullamento d’ufficio e convalida). Il richiamo a questi poteri sembra confermare l’opinione
secondo cui, a seguito del silenzio-assenso, l’amministrazione non potrà più provvedere tardivamente in
modo espresso.
In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni il dichiarante è punito con la sanzione di cui all’art.
483 c.p. In ogni caso, la dichiarazione mendace o falsa impedisce la formazione del silenzio. Restano ferme
le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di
pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti, anche se è stato dato inizio all’attività ai sensi dell’art.
19 e 20. Si ribadisce che in virtù dell’art. 20, l. 241/1990, il silenzio è equiparato al provvedimento
favorevole. La circostanza che l’amministrazione disponga di un potere amministrativo, ancorché non lo
eserciti emanando un provvedimento, ha come conseguenza che il privato, autorizzato a svolgere una certa
attività a seguito del formarsi del silenzio, trova il titolo legittimante dell’attività stessa non già direttamente
nella legge, bensì negli effetti collegati al silenzio.
Il silenzio-inadempimento o silenzio rifiuto è un mero fatto. Il suo campo d’applicazione si ricava dalla
lettura dell’art. 2 in combinato disposto con l’art. 20. Siffatto ambito è quello in cui operano le eccezioni al
silenzio-assenso e concerne le ipotesi in cui l’amministrazione, sulla quale grava il dovere giuridico di agire
emanando un atto amministrativo a seguito dell’istanza, ometta di provvedere a conclusione di “procedimenti
riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la difesa nazionale”, nei casi in cui la
normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali.
Si tratta di ipotesi molto rilevanti, che attengono in gran parte a interessi critici: il silenzio-inadempimento
continua ad essere un istituto centrale nel diritto amministrativo, e analogo discorso può essere esteso al
profilo della sua tutela giurisdizionale. La disciplina dell’istituto si ricava dall’art. 2, l. 241/1990: trascorso il
termine fissato per la conclusione del procedimento, il silenzio può ritenersi formato. A partire da tale
momento, senza necessità di ulteriore diffida, decorre il termine per proporre ricorso giurisdizionale, volto ad
ottenere una pronuncia con cui il giudice ordina all’amministrazione di provvedere di norma entro un termine
non superiore a trenta giorni, potendosi spingere a conoscere della fondatezza dell’istanza.
Il ricorso può essere proposto fintanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla
scadenza dei termini per provvedere. Sembrano ammessi provvedimenti tardivi, anche perché non c’è stato
alcun esercizio del potere salvi ovviamente i profili di eventuale responsabilità dell’amministrazione.
Il silenzio-rigetto si forma nei casi in cui l’amministrazione, alla quale sia stato indirizzato un ricorso
amministrativo, rimanga inerte. Oggi la disciplina è stabilita dal d.p.r. 1199/1971, che dispone che il ricorso
si ritiene respinto decorsi novanta giorni dalla presentazione del ricorso gerarchico.
Una tipologia differente di silenzio (silenzio devolutivo) è quella disciplinata dagli artt. 16 e 17, l. 241/1990:
l’inutile decorso del termine consente al soggetto pubblico procedente di completare il procedimento pur in
assenza di un parere obbligatorio (art. 16), ovvero di rivolgersi ad un’altra amministrazione al fine di ottenere
una valutazione tecnica non resa dall’amministrazione alla quale è stata inizialmente richiesta (art. 17).

4. La segnalazione certificata di inizio attività

L’istituto della dichiarazione di inizio attività (d.i.a.) era disciplinato dall’art. 19, l. 241/90, nella sua
versione iniziale, e faceva riferimento alla denuncia.
Con tale dichiarazione veniva ad essere eliminata l’intermediazione di un potere amministrativo in ordine
all’esplicazione di un’attività privata , con la conseguenza che lo svolgimento di siffatta autorità trovava il
proprio diretto titolo di legittimazione nella legge , chiamata a fissare direttamente il regime , onde essa può
essere definita in senso proprio come “liberalizzata”. A differenza del silenzio-assenso, la dichiarazione di
inizio attività non costituiva una forma di conclusione del procedimento amministrativo, appunto mancante ,
in assenza di un potere abilitativo.
Oggi invece l’art. 19, conv. nella l. 122/2010, introducendo poteri qualificati come di autotutela ha delineato
un regime analogo a quello che si avrebbe ove il potere autorizzatorio fosse stato mantenuto , anche se
rimane ferma la natura privata della “dichiarazione”. Si ribadisce che la fonte sopra citata ha rinominato
l’istituto “segnalazione certificata di inizio attività”, chiarendo che tale espressione e l’acronimo “Scia”
sostituiscono rispettivamente quelle di “Dichiarazione di inizio attività” e “Dia”.
La norma prevede un meccanismo di “sostituzione” con una “segnalazione” di un ampio spettro di
provvedimenti: si tratta di ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla
osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l’esercizio di
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attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’ accertamento
dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale e non sia previsto alcun
limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti
stessi. La segnalazione va corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dell’atto di notorietà
(ecco spiegato il termine “certificata”) per quanto riguarda tutti gli stati, le qualità personali e i fatti previsti
nel d.p.r. 445/2000, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati, ovvero dalle dichiarazioni di
conformità da parte delle Agenzie delle imprese.
Pure con riferimento alla Scia sono previste eccezioni (art. 19, c.1). Si tratta dei casi in cui sussistano vincoli
ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale,
alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia e
delle finanze. La disciplina di cui all’art. 19, l. 241/1990 non si applica alle attività economiche a prevalente
carattere finanziario.
In ogni modo, in luogo della necessità di ottenere un provvedimento di consenso che abbia i caratteri indicati
dal c.1, il privato può limitarsi a presentare una segnalazione, iniziando immediatamente l’attività. Questo
è l’unico onere del privato, che non deve più avanzare una domanda, ma deve porre in essere un’attività
informativa cui è subordinato l’esercizio del diritto.
Il ruolo dell’amministrazione sembra mutare rispetto a quello rivestito nei procedimenti autorizzatori: essa
non esercita infatti il tradizionale e preventivo potere permissivo, ma è chiamata a svolgere una funzione di
controllo successivo, ossia in un momento in cui l’attività comunque già si svolge lecitamente.
L’amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti, nel termine di
sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione, “adotta motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, salvo che, ove ciò sia possibile, l’interessato
provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro un termine fissato
dall’amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni”.
L’amministrazione dunque dispone di un potere d’ufficio di verifica e di controllo che si esercita a seguito
della presentazione della segnalazione di inizio attività. Il potere di verifica può sfociare nell’invito a
conformare l’attività, ovvero nel divieto di prosecuzione dell’attività cui segue la rimozione dei suoi effetti.
In ogni caso i poteri incidono sull’attività.
La prospettiva di una effettiva liberalizzazione dell’attività del privato, pur affermata dalla legge, risulta in
parte frustrata, in ragione della previsione di un potere di autotutela che l’amministrazione può esercitare
investendo la Scia, ai sensi dell’art. 21-quinquies e 21-nonies. L’autotutela è tradizionalmente configurata
come un provvedimento di secondo grado, che incide sugli atti amministrativi. Qui invece ricorre solo un atto
del privato, che viene equiparato in qualche misura ad un provvedimento, trascurandosi il fatto che il
cittadino che effettua la segnalazione non esercita certo un potere pubblico né ha di mira la cura di un
interesse pubblico.
Si può ammettere che il potere di autotutela investe l’assetto di interessi consolidatosi dopo i sessanta giorni,
anche perché il c.3, nel disciplinare l’esercizio, non fissa termini; nel segno del rafforzamento della stabilità
della posizione del privato, il c.4 stabilisce che, decorso il termine di sessanta giorni per l’adozione dei
provvedimenti di divieto o di ordine, all’amministrazione è consentito intervenire, ma solo in presenza del
pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale.
Sempre ai sensi del c.3, in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o
mendaci, l’amministrazione può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti in esame.
Neo casi di Scia in materia edilizia, il termine di sessanta giorni entro cui l’amministrazione può intervenire è
ridotto a trenta giorni e restano ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia,
alle responsabilità e alle sanzioni previste dal d.p.r. 380/2001 e dalle leggi regionali (Corte cost., n.
188/2012).
Il diritto dell’Unione europea, trasfuso sul piano interno dal d.lgs. 59/2010 e, successivamente, la normativa
volta a fronteggiare la situazione di crisi economica, mirano a ridurre le barriere all’accesso ai mercati e,
dunque, i regimi autorizzatori. La Scia è consentita, quale strumento ordinario, proprio perché non costituisce
una barriera preventiva e, anzi, è stata disciplinata come segnalazione a efficacia immediata appunto per
ridurre l’impatto dell’istituto, in ossequio al principio del minimo mezzo. Ad. plen. n. 15/2011 e la nuova
formulazione dell’art. 19 hanno respinto la tesi del provvedimento a formazione tacita (silenzio assenso),
confermando invece che sussiste un mero atto privato non direttamente impugnabile.
Occorre in conclusione ritornare sulla disciplina di cui al d.lgs. 59/2010 (relativa ai servizi sul mercato
interno) e su quella posta dalle varie manovre anti crisi negli anni 2011 e 2012. Nel suo complesso, questa
normativa, accanto al principio generale per cui l’attività è libera, introduce un regime caratterizzato da
vincoli pubblicistici; rispetto al passato, in luogo di autorizzazioni o di elenchi e registri, viene largamente

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utilizzato il meccanismo della segnalazione di attività di cui all’art. 19, l. 241/1990; la segnalazione, poi, si
atteggia a istituto ordinario dell’attività liberalizzata.

5. L’atto amministrativo e il provvedimento amministrativo: osservazioni generali

Tradizionalmente l’atto amministrativo è definito come qualsiasi manifestazione di volontà, giudizio o


conoscenza proveniente da una pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa.
Nell’ambito degli atti amministrativi riveste però peculiare importanza il provvedimento, atto con cui si
chiude il procedimento amministrativo.
Il provvedimento è emanato dall’organo competente; ove esso sia collegiale si parla frequentemente di atto
collegiale il quale, partecipa degli stessi caratteri del provvedimento emanato da organo monocratico e se ne
differenzia, sostanzialmente, soltanto perché è preceduto da un procedimento più complesso, in cui gli
interessi rilevanti sono rappresentati non già attraverso la partecipazione al procedimento, ma introdotti dai
componenti il collegio all’atto della decisione.
Soltanto il provvedimento, risultato dall’esercizio del potere amministrativo attribuito all’amministrazione, è
dotato di effetti sul piano dell’ordinamento generale. Anche gli atti non provvedimentali hanno un proprio
effetto giuridico: tuttavia esso si esaurisce in un ambito giuridico differente, proprio perché essi non sono
suscettibili di incidere su situazioni giuridiche di terzi, riconosciute dall’ordinamento protette in primo luogo
nei confronti dell’amministrazione. Tali atti hanno funzione strumentale e accessoria rispetto ai
provvedimenti.
Va altresì aggiunto che la pubblica amministrazione pone in essere dei comportamenti giuridicamente
rilevanti che non sono atti amministrativi in senso proprio, atteso che in essi non si ravvisano manifestazioni,
dichiarazioni o pronunce di volontà, di desiderio e di rappresentazione: si tratta in particolare di operazioni
materiali e misure di partecipazione volte a portare atti nella sfera di conoscibilità dei terzi.
Posto che il provvedimento ripete i medesimi caratteri del potere, esso è tipico e nominato.
Oltre agli effetti prodotti dal provvedimento, si può aggiungere che sono ipotizzabili anche differenti
classificazioni, fondate ad esempio sulla platea dei destinatari (provvedimenti puntuali o atti generali, o
ancora, atti plurimi). Una categoria particolare è quella dei provvedimenti costitutivi di rapporti tra privati:
si pensi a quelli tariffari e agli atti costitutivi di servitù di elettrodotto.
Per quanto riguarda l’interpretazione del provvedimento, si ha che esso è composto da una intestazione,
nella quale è indicata l’autorità emanante, da un preambolo, in cui sono enunciate le circostanze di fatto e
quelle di diritto, delineando così il quadro normativo e fattuale nel cui contesto l’atto è emanato, dalla
motivazione, la quale indica le ragioni giuridiche e i presupposti di fatto del provvedere, e dal dispositivo, il
quale rappresenta la parte precettiva del provvedimento e contiene la concreta statuizione posta in essere
dall’amministrazione. Il provvedimento è poi datato e sottoscritto, indicando anche il luogo della sua
emanazione.
Si applicano comunque agli atti amministrativi alcune tra le norme poste dal codice civile, per
l’interpretazione del contratto: l’art. 1362 (in ordine alla rilevanza dell’intenzione del soggetto e al
comportamento complessivo), l’art. 1363 (in base al quale le clausole si interpretano una per mezzo delle
altre), l’art. 1364 (l’atto non si riferisce che agli oggetti suoi propri) e l’art. 1367 (secondo il quale le
disposizioni devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto).
Non è ammissibile l’interpretazione autentica vincolante per i terzi da parte dell’amministrazione autrice
dell’atto.

6. Provvedimento amministrativo e incisione sulle situazioni soggettive

Componente fondamentale del provvedimento è la volontà intesa come volontà provvedimentale. La legge
assegna il provvedimento ad una figura soggettiva ai fini dell’imputazione formale dello stesso; di regola tale
imputazione è fatta dalla legge ad una persona giuridica (ente pubblico) diversa dalla persona fisica dal cui
comportamento innegabilmente il provvedimento è prodotto.
Il provvedimento è un atto di disposizione in ordine all’interesse pubblico che l’amministrazione deve
perseguire e che si correla con l’incisione di altrui situazioni soggettive. Questa caratteristica è spesso
considerata essenziale del provvedimento amministrativo e avrebbe come più importante manifestazione la
sua estinzione a prescindere dalla volontà del destinatario.
L’autoritatività è una connotazione del potere rivolto alla cura degli interessi pubblici e preordinato alla
produzione di effetti giuridici in capo ai terzi, ed è propria di ogni provvedimento amministrativo con cui tale
potere si esercita , indipendentemente dalla natura favorevole o sfavorevole degli effetti: così intesa essa

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ricorre pure nelle ipotesi in cui la produzione dell’effetto sia subordinata ad un consenso del destinatario
dell’atto.

7. Unilateralità, tipicità e nominatività del potere

Il provvedimento è sempre caratterizzato dal perseguimento unilaterale di interessi pubblici e dalla


produzione unilaterale di vicende giuridiche sul piano dell’ordinamento generale in ordine a situazioni
giuridiche dei privati.
La possibilità per l’amministrazione di produrre in un caso puntuale e concreto una vicenda giuridica
presuppone che il legislatore abbia ritenuto prevalente l’interesse pubblico rispetto a quello privato,
attribuendo il potere all’amministrazione, descrivendo gli elementi in cui esso si articola, destinati a
trasfondersi nel provvedimento e individuando il tipo di effetto prodotto sulla situazione giuridica del
destinatario dell’atto.
La tipicità del provvedimento, diretta espressione del principio di legalità, pare in primo luogo correlata agli
effetti di modificazione delle situazioni giuridiche soggettive di terzi. La pubblica amministrazione, per
conseguire gli effetti tipici, può inoltre ricorrere soltanto agli schemi individuati in generale dalla legge. È
questo il c.d. principio di nominatività, il quale sembra dover essere riferito al provvedimento e al potere.
La distinzione tra nominatività e tipicità non è stata approfondita dalla dottrina e spesso i due termini
vengono utilizzati come sinonimi; d’altro canto il tipo di effetto è legato strettamente al profilo funzionale del
potere e dell’atto, e cioè alla prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, richiedendo la
predefinizione dei limiti mediante la quale detta prevalenza si manifesta; la stessa distinzione si percepisce
con maggior chiarezza ove si pensi alle ordinanze di necessità e urgenza, atti nominati, ma i cui effetti non
sono compiutamente definiti dalla legge.
L’ordinamento generale appresta in ogni caso due tipi di limiti a garanzia dei privati: da un lato la
predefinizione dei tipi di vicende giuridiche che possono essere prodotte dall’amministrazione (tipicità),
dall’altro la predeterminazione degli elementi del potere che possa essere esercitato per conseguire quegli
effetti (nominatività). Per gli atti amministrativi non provvedimentali si propone la questione
dell’individuazione di caratteri comuni a quelli che presenta il provvedimento; essi presentano talora un certo
tasso di atipicità.
Oggi l’art. 1, c.1-bis, l. 241/1990, dispone che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura
non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. La
norma ha suscitato molte riflessioni in dottrina, alcune delle quali favorevoli a considerare come atti non
autoritativi quelli che, essendo ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sono in grado di produrre
effetti soltanto subordinatamente al consenso del destinatario. A contrario, sarebbero veri provvedimenti
autoritativi soltanto quelli limitativi della sfera giuridica dei privati. Gli atti non autoritativi, in conclusione,
sono quelli che non costituiscono espressione di un potere amministrativo in quanto l’ordinamento ha
conformato in senso privatistico un certo ambito di rapporti che vede coinvolte le pubbliche amministrazioni,
come accade nel settore del rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazioni.

8. Gli elementi essenziali del provvedimento e le clausole accessorie

Ai sensi dell’art. 21-septies, l. 241/1990, è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali: si tratta di quegli elementi la cui assenza impedisce al provvedimento di venire in vita o, meglio,
di quegli elementi che costituiscono i limiti del potere attribuito all’amministrazione di cui il provvedimento
è espressione. Ove l’amministrazione non rispetti la norma attributiva del potere nella parte in cui ne
individua un limite , il potere stesso non può ritenersi esistente in capo ad essa e il provvedimento è emanato
in condizioni di carenza di potere. Difettando il potere, manca la possibilità di produrre l’effetto e la vicenda
giuridica non si verifica.
Gli elementi essenziali del provvedimento sono: il soggetto, il contenuto dispositivo, l’oggetto, la finalità e
la forma.
Il potere è conferito ad un soggetto pubblico dotato di personalità giuridica. La violazione della norma
relativa ai limiti soggettivi del potere determina la nullità del provvedimento. In alcune ipotesi, anche gli atti
emanati da soggetti privati esercenti una pubblica funzione sono amministrativi. Lo svolgimento da parte di
un’autorità di una potestà spettante ad altro ente dà luogo ad un atto che non produce effetti: parte della
dottrina parla di straripamento di potere o di incompetenza assoluta; l’art.21-septies esprime il medesimo
concetto impiegando un’altra locuzione, là dove afferma che è nullo l’atto viziato da difetto assoluto di
attribuzione.
Il potere consiste nella possibilità di produrre una determinata vicenda giuridica: è questo il contenuto
dispositivo del potere. La dottrina distingue tra contenuto necessario (consistente nella vicenda giuridica
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tipizzata dalla legge), contenuto accidentale e contenuto implicito o naturale del provvedimento. L’insieme
delle disposizioni, dette anche clausole accessorie, costituisce il contenuto eventuale o accidentale dell’atto.
La possibilità che il provvedimento contenga tali disposizioni dipende dall’esistenza di discrezionalità.
Sono opponibili ai provvedimenti le condizioni, sempre che l’amministrazione disponga di discrezionalità: è
possibile subordinare la produzione (condizione sospensiva) o la cessazione dell’effetto (condizione
risolutiva) al verificarsi di un avvenimento futuro e incerto.
In ordine al termine va notato che spesso la limitazione temporale dell’efficacia di un atto deriva
direttamente dalla legge, ed in questo caso non si può parlare di contenuto accidentale, e per quanto riguarda
il modo, l’opinione negativa in ordine alla sua apponibilità ai provvedimenti si giustifica in quanto esso è
proprio dei soli atti di liberalità.
Il contenuto implicito o naturale del provvedimento è costituito dalle disposizioni operanti in virtù della
legge, pur se non richiamate nel provvedimento. Un’altra questione è quella del contenuto negativo del
provvedimento: a seguito dell’istanza del privato volta a ottenere un certo provvedimento favorevole,
l’amministrazione, ritenendo di non poter accogliere tale domanda, emana un provvedimento con il quale
esercita il potere, ma in negativo, rifutando cioè il rilascio dell’atto; anche se il contenuto del provvedimento
di rifiuto è nel senso di non produrre l’effetto tipico, esso pregiudica comunque l’aspettativa del destinatario.
L’oggetto, il termine passivo della vicenda che verrà a prodursi a seguito dell’azione amministrativa, deve
essere lecito, possibile, determinato o determinabile, e può essere o il bene, la situazione giuridica o l’attività
destinati a subire gli effetti giuridici prodotti dal provvedimento.
Il potere e il corrispondente provvedimento sono infine caratterizzati dalla preordinazione alla cura
dell’interesse pubblico che è risultato vincente nel giudizio di bilanciamento tra valori diversi, risolto dalla
norma di relazione (finalità o causa del potere).
La legge attributiva del potere può inoltre prevedere che l’atto debba rivestire una certa forma a pena di
nullità; di norma la forma è scritta, anche se non mancano esempi di esternazioni dell’atto in forma orale o
comunque non scritte (come le segnalazioni manuali dei vigili). In materia si afferma il principio della libertà
delle forme: l’osservazione attiene ai casi in cui la legge non prescriva una forma di esternazione, qualunque
essa sia.
Il provvedimento può talora risultare per implicito da un altro provvedimento o da un comportamento; in
simili casi l’atto viene pur sempre esteriorizzato anche se soltanto in forma indiretta, e tanto basta per
differenziare l’atto implicito rispetto alle ipotesi in cui si ha una manifestazione tacita di volontà (silenzio),
ove manca del tutto un comportamento passivo.
L’atto per il quale sia richiesta una forma scritta non può legittimamente desumersi da un comportamento, né
da altro atto, laddove il primo debba avere espressamente un certo contenuto.
L’art.3, l. 39/1993, stabilisce che gli atti amministrativi vengano di norma predisposti tramite sistemi
informativi automatizzati: si tratta del c.d. atto amministrativo informatico. La disciplina del documento
informatico è contenuta nell’art. 22 e ss. del d.lgs. 82/05 (codice dell’amministrazione digitale). Il
documento informatico, la registrazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici
“sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge” se conformi alle disposizioni del codice
dell’amministrazione digitale. Qualora sottoscritto con firma avanzata, digitale o qualificata, il documento
informatico fa inoltre piena prova, fino a querela di falso, della provenienza della dichiarazione da chi l’ha
sottoscritto (art.21).
Per la formazione, gestione e sottoscrizione di documenti informatici aventi rilevanza esclusivamente
interna, ciascuna amministrazione può adottare nella propria autonomia organizzativa, regole diverse da
quelle stabilite in generale dal codice (art.34). La legge prevede due tipologie di firme: la firma elettronica,
che attribuisce al documento la validità dell’atto autografo, la firma elettronica avanzata, la firma
elettronica qualificata e la firma digitale (d.p.m. 22 febbraio 2013), che è un particolare tipo di firma
elettronica avanzata; essa è basata su un sistema di chiavi crittografiche ed è il risultato di una procedura
informatica che consente al sottoscrittore e al destinatario, rispettivamente, di rendere manifesta e di
verificare la provenienza e l’integrità del documento informatico o di un insieme di documenti informatici.
Essa viene certificata da appositi certificatori.
L’interessato è titolare di una coppia di chiavi crittografiche asimmetriche il cui impiego consente di rendere
manifeste e di verificare provenienza e integrità del documento. La chiave, costituita da codici informatici, è
dunque l’elemento che consente di criptare un documento. Nel caso di coppie asimmetriche, per la cifratura e
decifratura dei documenti sono necessarie due chiavi diverse tra loro: una prima chiave è privata perché è
destinata ad essere conosciuta ed utilizzata soltanto dal soggetto titolare; l’altra è pubblica in quanto destinata
ad essere divulgata e viene inserita in apposito elenco.
I documenti sottoscritti con firma elettronica avanzata, firma qualificata e firma digitale hanno comunque lo
stesso valore legale di scrittura privata (art. 21, d.lgs. 82/2005). Ai sensi dell’art. 45, d.lgs. 82/2005, i
documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o
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informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza , soddisfano il requisito della
forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale. Secondo
quanto dispone l’art. 136, c.p.a., tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale
degli uffici giudiziari e delle parti, possono essere sottoscritti con firma digitale.
In tema di forma dei provvedimenti un cenno meritano le determinazioni. Con tale termine ci si riferisce
nella prassi agli atti dirigenziali; di particolare rilievo sono quelli che comportano impegni di spesa. La
determinazione chiude la fase amministrativa che genera l’obbligazione e, comportando appunto l’impegno,
apre quella contabile di attuazione del suo contenuto. Essa costituisce quindi il momento iniziale del
procedimento contabile destinato a sfociare nel pagamento della spesa da parte della tesoreria. In linea di
massima l’impegno deriva dal perfezionamento dell’obbligazione, anche se vi sono ipotesi in cui le spese
formano impegno pur se non presuppongono l’esistenza di un’obbligazione già perfezionata.
9. Difformità del provvedimento dal paradigma normativo: la nullità e l’illiceità del provvedimento
amministrativo

Le conseguenze che l’ordinamento prevede con riferimento ai casi in cui il provvedimento sia difforme dal
paradigma normativo variano a seconda del tipo di norma non rispettata:
- il provvedimento emanato in violazione delle norme attributive del potere è nullo;
- ove invece esso sia difforme dalle norme di azione che disciplinano l’esercizio del potere va
qualificato come annullabile, fatta salva l’applicazione dell’art. 21-octies, l. 241/1990.
La dottrina amministrativistica riconduce nullità e annullabilità nell’ambito della categoria dell’ invalidità,
consistente nella difformità dell’atto dalla normativa che lo disciplina.
L’art. 21-septies l. 241/90 si occupa della nullità.
La prima categoria di nullità presa in considerazione dalla norma è quella “strutturale”, essendo nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali.
I tentativi di individuare casi concreti in cui venga violata una norma delimitativa del potere sono destinati a
risultare poco fruttuosi: le ipotesi configurabili sono in sostanza scolastiche e a esse va probabilmente riferita
la nullità (o l’esistenza). Con riferimento al caso relativo a vizio attinente al profilo soggettivo, l’art.
21septies, individuando una specifica ipotesi di nullità, parla al riguardo di difetto assoluto di attribuzione
(seconda categoria di nullità; Cons. Stato, sez.IV, n. 1957/2012).
Il potere amministrativo non esiste e l’effetto non si produce quando l’amministrazione agisce violando una
norma attributiva del potere. La mancanza di potere può presentarsi sia come carenza “in astratto” sia come
carenza di potere “in concreto”. In tal caso il potere non manca totalmente: sia pur ridotta,
un’estrinsecazione del potere sussiste, perché “in astratto” esso c’è, in quanto le norme attributive del potere
sono state osservate.
Sul piano sostanziale, il regime del provvedimento si riconduce in senso proprio a quello che è stato
denominato in dottrina con il termine “illeceità”. In conclusione può dirsi che, in linea di principio, la
disapplicazione sta nell’atto illecito come l’annullamento sta all’atto illegittimo. L’art. 133, d.lgs. 104/2010
c.p.a., stabilisce una terza ipotesi di nullità con riferimento al provvedimento adottato in violazione o
elusione del giudicato. La norma codifica in tal modo un precedente orientamento giurisprudenziale, e
precisa che “le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del
giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice ammi amministrativo”. Si consideri che il
problema della qualificazione dell’atto non conforme al paradigma normativo non si pone ogni qualvolta la
nullità sia prevista espressamente dalla legge: a queste ipotesi si riferisce l’art. 21- septies quando afferma che
l’atto è pure nullo “negli altri casi espressamente previsti dalla legge” (quarta ipotesi di nullità).
Al cospetto di un atto nullo, il privato dovrebbe essere titolare di un diritto soggettivo, sicché la cognizione
della questione spetterebbe al giudice ordinario; parte della giurisprudenza ritiene possibile che sussista un
interesse legittimo, così radicandosi la giurisdizione del giudice amministrativo. Questa soluzione parrebbe
spostata dal codice del processo amministrativo, che disciplina l’azione di nullità dinanzi al giudice
amministrativo senza riferirsi alla sola giurisdizione esclusiva e, quindi, dando per presupposto che il privato
sia titolare di interessi legittimi.

10. L’illegittimità del provvedimento amministrativo

L’atto emanato nel rispetto delle norme attributive del potere ma in difformità di quelle di azione è in linea di
principio affetto da illegittimità ed è sottoposto al regime dell’annullabilità. L’atto annullabile rispetta le
norme che riconoscono la possibilità di produrre effetti, e per questa ragione produce gli stessi effetti
dell’atto legittimo, ma sono effetti precari, nel senso che l’ordinamento prevede strumenti giurisdizionali per
eliminarli contestualmente all’atto che li pone in essere.

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L’atto illegittimo è inoltre annullabile da parte della stessa amministrazione in via di autotutela ovvero in
sede di controllo o di decisione dei ricorsi amministrativi; esso può inoltre essere disapplicato dal giudice
ordinario che incidentalmente sia chiamato a verificarne la legittimità al fine di decidere una controversia che
attiene alla lesione di diritti soggettivi. Il provvedimento illegittimo può essere convalidato. Il regime
dell’atto annullabile si ricava dall’art. 21-octies l. 241/1990, ai sensi del quale è “annullabile il
provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da
incompetenza”. L’art 21-nonies si occupa dell’annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo e della sua
convalida.
L’illegittimità può essere di quattro tipi: originaria, sopravvenuta, derivata, parziale.
- originaria: l’illegittimità si determina con riferimento alla normativa in vigore al momento della
perfezione dell’atto;
- sopravvenuta: invece la normativa sopravvenuta successivamente all’emanazione del
provvedimento in generale non incide sulla validità dello stesso. Il mutato quadro normativo può
aprire piuttosto la via all’adozione di provvedimenti di riesame;
- derivata: l’ipotesi di annullamento dell’atto che costituisce il presupposto di altro atto dà luogo
altresì ad un caso di illegittimità derivata. È incerto se l’annullamento dell’atto presupposto
travolga automaticamente gli atti successivi; non è un caso che dall’illegittimità- caducante si
distingua l’illegittimità meramente invalidante dell’atto successivo, il quale deve essere impugnato o
annullato autonomamente;
- parziale: l’illegittimità parziale si riscontra allorché solo una parte del contenuto sia illegittimo
sicché soltanto essa sarà oggetto di annullamento salvo che eliminandola non sarà più possibile
configurare come tale l’atto amministrativo: la restante parte resta in vigore determinando un
cambiamento del contenuto originario dell’atto (modificazione).
Si ribadisce che, ai sensi dell’art. 21-octies, l. 241/1990, il provvedimento difforme dal paradigma normativo
non è annullabile in taluni casi; ciò accade quando esso sia adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti ma, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato. Il provvedimento
amministrativo, inoltre, non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, qualora
l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato.
Rimane da chiarire perché un atto difforme dal paradigma normativo possa essere considerato valido; si
potrebbe immaginare che esso sia tale perché originariamente idoneo a conseguire lo scopo, secondo il
modello ricavabile a contrario dall’art. 156, c.2, c.p.c.
Ammettendo che, nei casi rientranti dall’art. 21-octies, il privato sia titolare di un interesse legittimo si
potrebbe concludere che la l. 241/1990 nega la facoltà di reazione processuale, in contrasto con il principio
costituzionale espresso dagli artt. 24 e 113 Cost.
La legittimità del provvedimento verrà svelata nel corso del giudizio, che rappresenterà per certi versi la
continuazione del procedimento: è questa un’ulteriore conseguenza della disciplina, nel senso che essa
accentua i poteri del giudice individuando nel processo la sede in cui si deciderà se alla violazione di una
norma consegue o meno l’illegittimità dell’atto.
Vi è una differenza tra le due ipotesi contemplate dal c.2, l. 241/1990: la prima concerne vizi procedimentali
( ad esempio il vizio della motivazione) e di forma (errata indicazione del numero di protocollo), e richiede
che l’attività sia vincolata e che sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso
da quello in concreto adottato; la seconda consente di salvare il provvedimento dell’annullamento a seguito
della dimostrazione in sede processuale dell’immutabilità del suo contenuto dispositivo quando sia mancata
la comunicazione dell’avvio del procedimento. Essa, dunque, si applica anche ai provvedimenti
discrezionali.

11. I vizi di legittimità del provvedimento amministrativo

I vizi di legittimità degli atti amministrativi, e cioè le concrete cause dell’illegittimità degli stessi, sono:
l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere. L’analisi dei vizi va condotta tenendo conto
che essi conseguono alla violazione delle norme di azione e delle disposizioni che attengono alla modalità di
esercizio di un potere.
Si suole denominare incompetenza il vizio che consegue alla violazione della norma di azione (leggi, oppure
regolamenti o statuti) che definisce la competenza dell’organo e cioè, il quantum di funzioni spettante
all’organo. A tale vizio non si applica l’art. 21-octies l. 241/90. Non dà pertanto luogo al vizio di
incompetenza la violazione di una di relazione attinente all’elemento soggettivo: in tal caso (definito in

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dottrina come “incompetenza assoluta”, contrapponendola alla “incompetenza relativa” che consegue alla
violazione di norme di azione), l’atto sarà addirittura nullo per carenza di potere. L’incompetenza può aversi
per materia, per valore, per grado o per territorio; quest’ultima si ha allorché un organo eserciti una
competenza di un altro organo dello stesso ente che disponga però di una diversa competenza territoriale (ad
esempio un prefetto che invade la competenza di un altro prefetto).
Il vizio di violazione di legge sussiste allorché si violi una qualsiasi altra norma di azione generale e astratta
che non attenga alla competenza e sempre che, in caso di attività vincolata, non trovi applicazione l’art.
21octies, l. 241/90. Il vizio ricorre in tutti i casi in cui sia violata una norma d’azione, indipendentemente dal
fatto che essa sia contenuta nella legge in senso formale, ovvero in altra fonte. Dal punto di vista
contenutistico la violazione di legge abbraccia moltissime situazioni: in particolare sono assai importanti le
violazioni procedimentali, i vizi di forma, la carenza di presupposti fissati dalla legge e la violazione delle
norme sulla formazione della volontà collegiale. La violazione di legge può ricorrere sia nel caso di mancata
applicazione della norma, sia nell’ipotesi di falsa applicazione della stessa. Ai fini della sua validità, il
provvedimento deve essere adottato da organi amministrativi composti da soggetti che, rispetto alla questione
decisa, non abbiano interessi tali da compromettere, anche potenzialmente, la possibilità di una decisione
imparziale. Ai sensi dell’art. 6-bis, l. 241/1990, il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale
devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto.
Il vizio di eccesso di potere è il risvolto patologico della discrezionalità. Esso sussiste dunque quando la
facoltà di scelta spettante all’amministrazione non è correttamente esercitata. L’eccesso di potere nasce dalla
violazione di quelle prescrizioni che presiedono allo svolgimento della funzione che non ravvisabili in via
preventiva e astratta. Tali regole si sostanziano nel principio di logicità-congruità applicato al caso concreto e
la loro violazione è evidenziata dal giudice amministrativo in occasione del sindacato dell’eccesso di potere.
Il giudizio di logicità-congruità va effettuato tenendo conto dell’interesse primario da perseguire, degli
interessi secondari coinvolti e della situazione di fatto. Il principio di logicità-congruità racchiude altresì
quello di proporzionalità, il quale, a sua volta, è pure presente nell’ordinamento dell’Unione europea e,
come tale, viene richiamato da parte della giurisprudenza quale parametro di legittimità di alcuni atti
amministrativi delle autorità nazionali, precisamente di quelli che impongono restrizioni alle libertà tutelate
dal diritto dell’Unione europea. Eccesso di potere non significa straripamento di potere, che darebbe luogo
a nullità dell’atto. L’eccesso di potere è predicabile soltanto con riferimento agli atti discrezionali; un
sindacato di congruità e di ragionevolezza delle valutazioni operate è compiuto dal giudice amministrativo
anche con riferimento alla c.d. discrezionalità tecnica, nel senso di ritenere illegittima la valutazione di un
presupposto che sia manifestamente illogica.
Classica forma dell’eccesso di potere è lo sviamento, che ricorre allorché l’amministrazione persegua un fine
differente da quello per il quale il potere le era stato conferito. La giurisprudenza ha poi elaborato una serie di
figure, dette figure sintomatiche, le quali sono il sintomo del non corretto esercizio del potere in vista del
suo fine. Esse agevolano il compito dell’interprete, perché forniscono una sorta di catalogo delle situazioni in
cui l’atto può risultare viziato per eccesso di potere. Le figure sintomatiche si distinguono in: violazione
della prassi; manifesta ingiustizia (sproporzione tra sanzione e illecito), contraddittorietà tra più parti
dello stesso atto (tra dispositivo e preambolo o motivazione) o tra più atti (ad esempio una sanzione inflitta
ad un militare subito dopo la redazione di note informative favorevoli); disparità di trattamento tra
situazioni simili; travisamento dei fatti (si assume a presupposto dell’agire una situazione che non sussiste
in realtà), incompletezza e difetto dell’istruttoria; inosservanza dei limiti, dei parametri di riferimento e
dei criteri prefissati per lo svolgimento futuro dell’azione. Ricorre eccesso di potere allorché la motivazione
sia insufficiente, incongrua, contraddittoria, apodittica, dubbiosa, illogica e perplessa. In tali ipotesi si parla
di difetto di motivazione. L’assenza di motivazione (altrimenti detta carenza di motivazione) dà luogo al
vizio di violazione di legge, atteso che la motivazione è obbligatoria, ex art. 3, l. 241/1990. Costituiscono
figure di eccesso di potere anche le violazioni di circolari, di ordini e di istruzioni di servizio e il mancato
rispetto della prassi amministrativa; tali fatti e atti non pongono norme giuridiche: in caso contrario la loro
violazione darebbe luogo a violazione di legge.
La circolare è un atto non avente carattere normativo mediante la quale l’amministrazione fornisce
indicazioni in via generale ed astratta in ordine alle modalità con cui dovranno comportarsi in futuro i propri
dipendenti e i propri uffici; essa ha efficacia solo interna all’amministrazione, ma non ha rilevanza
determinante nella genesi dei provvedimenti e non produce effetti direttamente in capo ai cittadini i quali,
infatti, non possono impugnarla autonomamente. Esistono inoltre circolari intersoggettive, indirizzate a enti
diversi dall’autorità emanante, spesso in funzione di coordinamento.
La prassi amministrativa è il comportamento costantemente tenuto da un’amministrazione nell’esercizio di
un potere. Non si tratta di una fonte del diritto (tale qualifica spetta alla consuetudine). L’inosservanza della
prassi non dà luogo a violazione di legge, ma può essere sintomo, se non sorretta da adeguata motivazione, di
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eccesso di potere. Circa le norme interne, nei limiti in cui esse esistano e siano autonome rispetto a quelle
poste da circolari, si può dire che si tratta di norme non operanti per l’ordinamento generale, non aventi la
natura di norme giuridiche e destinate a disciplinare soltanto i rapporti interni, sicché la loro violazione non
dà luogo al vizio di violazione di legge, ma al più è sintomo di potere.

12. La motivazione di provvedimenti e atti amministrativi

Un importante requisito di validità, comune ad atti provvedimentali e ad alcuni non provvedimentali, è la


motivazione. Questo dovere è stato introdotto dall’art. 3, c.1, l. 241/1990, secondo cui “ogni provvedimento
amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici
concorsi e il personale, deve essere motivato”. Fanno eccezione gli atti normativi e gli atti a contenuto
generale (art. 3, c.2). La motivazione deve inoltre indicare “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione amministrativa, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
Ai sensi dell’art. 3, l. 241/90, il dovere di motivare è soddisfatto se il provvedimento richiama altro atto che
contenga esplicita motivazione e questo sia reso disponibile (motivazione per relationem).
La motivazione deve essere formata contestualmente all’adozione della decisione, onde non pare da seguire
la tesi favorevole alla motivazione in corso di giudizio.
Anche gli atti amministrativi non provvedimentali devono essere motivati; continuano a dovere essere
motivati gli atti riguardo ai quali dottrina e giurisprudenza avevano sostenuto la necessità di motivazione.
Sono oggi ammissibili atti non provvedimentali non motivati, anche se la ratio della motivazione e il
principio di trasparenza dell’attività amministrativa tendono a restringere ulteriormente l’ambito degli atti
sottratti all’obbligo di motivazione.
La differenza fra atti provvedimentali e atti non provvedimentali, per quanto attiene all’obbligo di
motivazione, risulta coerente con la distinzione fra le due categorie di atti in ordine agli effetti giuridici: solo
dai primi scaturiscono effetti rilevanti sul piano dell’ordinamento generale, consistenti nella modificazione,
costituzione o estinzione di situazioni giuridiche soggettive. L’eventuale motivazione di atti non
provvedimentali ha un diverso significato giuridico: essa esplicita all’esterno la congruità di scelte,
valutazioni o determinazioni che non coinvolgono direttamente situazioni giuridiche, avendo un esclusivo
rilievo infraprocedimentale.
Se la legge ha risolto il problema del “se” motivare (la carenza di motivazione configura oggi violazione di
legge), rimane aperta la questione del “come” motivare: la motivazione, oltre che esistente, deve risultare
sufficiente per sottrarsi alle censure di eccesso di potere, chiarendo i fatti che giustificano la decisione
amministrativa adottata. In particolare, l’amministrazione dovrà motivare se disattende le rappresentazioni
dei privati interessati, e deve dar conto delle risultanze istruttorie. Da questo punto di vista si giustifica
l’esclusione del dovere di motivare per gli atti normativi e per quelli amministrativi generali. L’esclusione
del dovere di motivazione degli atti a contenuto generale non impedisce che, quando in essi siano contenute
clausole specifiche di peculiare applicazione, queste possono essere considerate provvedimentali, e quindi
debbano essere motivate. Ciò significa che è pur sempre necessaria un’attenta interpretazione dell’atto stesso.

13. I vizi di merito

Il merito amministrativo è l’insieme delle soluzioni compatibili con il canone della congruità-logicità che
regola l’azione discrezionale , distinguibili e graduabili tra di loro soltanto utilizzando i criteri di opportunità
e convenienza.
L’illegittimità per vizi di merito si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale configge con tali criteri non
giuridici.
L’inopportunità del provvedimento è irrilevante, nel senso che la legge si limita a richiedere che la scelta
discrezionale sia legittima alla stregua del canone di congruità-logicità, ossia non risulti viziata per eccesso di
potere: ciò è coerente con l’esigenza di rispettare la sfera di azione dell’amministrazione. Talora, tuttavia,
l’inopportunità assume rilevanza perché l’ordinamento prevede la sua sindacabilità, e, dunque, la sostituzione
della valutazione di un terzo a quella compiuta dall’amministrazione. I mezzi predisposti sono: il controllo di
merito, gli interventi in via di autotutela, i ricorsi amministrativi e i ricorsi giurisdizionali nell’ambito della
giurisdizione di merito.
Il regime dell’atto viziato per vizi di merito è considerato l’annullabilità. La l. 241/1990, nel disciplinare
l’annullamento d’ufficio, ammette l’annullabilità dei soli atti illegittimi. Ai sensi dell’art. 21- quinquies, è
revocabile il provvedimento a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

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14. Procedimenti di riesame dell’atto illegittimo: conferma, annullamento, riforma, convalida

I provvedimenti c.d. di “secondo grado” sono caratterizzati dal fatto di essere espressione di autotutela e di
avere ad oggetto altri e precedenti provvedimenti amministrativi o fatti equipollenti. Si distinguono in
particolare:
- poteri di riesame, sotto il profilo della validità, di precedenti provvedimenti o di fatti equipollenti
(silenzio significativo);
- poteri di revisione, incidenti sull’efficacia e sull’esecuzione di precedenti atti.
Il procedimento di riesame può avere esiti differenti: conferma della legittimità, riscontro dell’illegittimità
dell’atto, riscontro dell’illegittimità non sanabile dello stesso. Indipendentemente dalla misura adottata,
l’amministrazione deve comunque dare conto in ogni caso della sussistenza di un interesse pubblico specifico
che la giustifichi: l’autotutela è infatti pur sempre esercizio di amministrazione attiva, e rivolta alla tutela di
un interesse pubblico.
Il provvedimento che viene adottato allorché l’amministrazione verifichi l’insussistenza dei vizi nell’atto
sottoposto a riesame viene tradizionalmente definito come conferma o atto confermativo.
All’atto confermativo in senso proprio può essere accostato il rifiuto preliminare: trattasi del rifiuto di porre
in essere un procedimento che costituisca esercizio della funzione; tale atto, non impugnabile, consegue ad
un’attività preliminare volta alla verifica dell’esistenza dei presupposti dell’esercizio del potere. Simile al
rifiuto preliminare è il silenzio non significativo serbato su di una istanza in ordine alla quale non sussiste
l’obbligo di provvedere.
Ai sensi dell’art. 2, l. 241/1990, le amministrazioni, se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità,
improcedibilità o infondatezza della domanda, concludono il procedimento con un provvedimento espresso
in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di
diritto ritenuto risolutivo.
Il rifiuto preliminare si distingue infine dal provvedimento di rifiuto dell’atto richiesto dal cittadino, che
costituisce esercizio di un potere e, in quanto tale, è impugnabile.
L’annullamento d’ufficio (o annullamento in sede di autotutela) è il provvedimento mediante il quale si
elimina un atto invalido e vengono rimossi ex tunc (ossia retroattivamente, a partire dal momento
dell’emanazione) gli effetti prodotti, ancorché questi consistano nella costituzione di un diritto soggettivo in
capo al destinatario.
Ai sensi dell’art. 21-nonies, c.1, l. 241/1990 il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato
d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
A differenza dell’annullamento posto in essere dal giudice amministrativo, che è previsto in vista della tutela
delle situazioni giuridiche dei privati, l’annullamento d’ufficio ha la funzione di tutelare l’interesse pubblico:
il rilievo concorre a spiegare perché, accanto alla illegittimità dell’atto, occorra anche la sussistenza di un
interesse pubblico che giustifichi l’eliminazione dell’atto medesimo e dei suoi effetti.
Il potere è esercitabile d’ufficio ma, nella prassi, è spesso preceduto dall’invito all’autotutela da parte del
privato: tale istituto è molto importante anche ai fini dell’azionabilità della pretesa risarcitoria. I presupposti
per esercitare il potere di annullamento d’ufficio sono costituiti dall’illegittimità del provvedimento e dalla
sussistenza di ragioni di interesse pubblico. Pertanto l’amministrazione deve valutare se l’eliminazione del
provvedimento invalido sia conforme con l’interesse pubblico, anche tenendo conto degli interessi nel
frattempo sorti sia in capo ai privati che sul provvedimento abbiano fatto affidamento, sia in capo ai
controinteressati.
Strutturalmente diverso dall’annullamento in via di autotutela (Cass., sez. un., n. 12110/2013)) è la verifica
d’ufficio e in via di autotutela della nullità di un proprio precedente provvedimento al fine di non dar corso
ai relativi effetti: tale atto, di accertamento, non avrebbe carattere autoritativo e presuppone un atto non già
illegittimo, ma nullo.
L’annullamento va posto in essere entro un termine ragionevole, decorso il quale i suoi effetti vanno
comunque considerati consolidati: è questa un’ulteriore applicazione del principio della tutela del legittimo
affidamento.
Vanno poi individuate alcune situazioni in cui l’annullamento sarebbe doveroso, quindi non discrezionale, ed
indipendente dalla valutazione di interessi pubblici e privati, assumendo caratteri assai prossimi all’esercizio
della funzione di controllo.
Con riferimento all’ipotesi di atto amministrativo conforme a norme nazionali in contrasto con la disciplina
comunitaria, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che l’eliminazione del contrasto normativo
(disapplicazione) e le connesse conseguenze amministrative, costituiscono adempimento di un obbligo

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internazionale dello stato la cui legittimità è stata ampiamente riconosciuta e di fronte al quale non può non
recedere ogni altro interesse pubblico o privato.
Si noti che la produzione degli effetti retroattivi dell’annullamento potrebbe essere impedita dall’esistenza di
situazioni già consolidate non suscettibili di rimozione o la cui rimozione configgerebbe con il principio di
buona fede o di affidamento ingenerato in capo a chi, sul presupposto della legittimità dell’atto, vi abbia dato
esecuzione.
L’affermazione tradizionale secondo cui l’annullamento comporta sempre l’eliminazione dell’atto con
efficacia ex tunc va oggi rivisitata, atteso che l’annullamento è ammesso anche nei confronti del
silenzioassenso, figura in cui un provvedimento non ricorre.
In dottrina si sostiene che l’amministrazione potrebbe limitare o graduare gli effetti retroattivi. questa tesi
pare trovare conferma nella sentenza del Cons. Stato, sez. VI, n. 2755/2011 che, a livello di obiter dictum,
chiarisce che la disciplina sostanziale non dispone “l’inevitabilità della retroattività degli effetti
dell’annullamento di un atto in sede amministrativa…”. Si deve osservare che, secondo la Cassazione,
l’annullamento d’ufficio di un provvedimento favorevole potrebbe aprire la via del risarcimento a favore del
soggetto che abbia fatto affidamento su quell’atto (ord. nn. 6594/6595, 6596/2011).
Discussa è la sorte degli atti che seguono il provvedimento annullato e di cui lo stesso costituisce il
presupposto: sicuramente essi sono affetti da illegittimità derivata. Secondo un indirizzo giurisprudenziale e
dottrinale la caducazione dell’atto presupposto determinerebbe l’automatica caducazione degli atti
consequenziali. Un effetto caducante automatico potrebbe ravvisarsi nell’ipotesi in cui l’atto annullato
costituisca non solo un presupposto di validità dell’atto successivo, ma addirittura un suo presupposto di
esistenza.
Il potere di annullamento può essere dunque esercitato entro un termine ragionevole. L’eccessivo decorso del
tempo, rapportato all’affidamento ingenerato nei terzi, può dunque causare l’illegittimità del relativo atto. In
questa ipotesi ricorre la figura della convalescenza dell’atto per decorso del tempo la quale impedisce
appunto l’annullamento d’ufficio di atti illegittimi qualora essi abbiano prodotto i loro effetti per un periodo
adeguatamente lungo. Il potere di annullamento spetta all’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge.
Ove la parte annullata sia sostituita da altro contenuto si ha la figura della riforma , avente efficacia ex nunc.
Questa è la riforma “sostitutiva”; esiste altresì la riforma “aggiuntiva”, che consiste nell’introduzione di
ulteriori contenuti a quello originario. Ai sensi dell’art. 14, c.3, d.lgs. 165/2001, il ministro non può riformare
i provvedimenti dei dirigenti.
L’ordinamento prevede il potere del governo di procedere in ogni tempo all’annullamento degli atti di ogni
amministrazione (ad eccezione della regione); il potere in esame ha carattere straordinario e può essere
esercitato a tutela dell’unità dell’ordinamento.
La convalida è un provvedimento di riesame a contenuto conservativo: ai sensi dell’art. 21-nonies, l. 241/90
l’amministrazione ha la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. Il relativo potere è applicazione del principio di
conservazione degli atti giuridici. L’amministrazione rimuove il vizio che inficia il provvedimento di primo
grado e pone in essere una dichiarazione che espressamente riconosce il vizio ed esprime la volontà di
eliminarlo, sempreché tale vizio sia suscettibile di essere rimosso. Gli effetti della convalida retroagiscono al
momento dell’emanazione dell’atto convalidato.
Dalla convalida si distingue la sanatoria in senso stretto, la quale ricorre allorché il vizio dipende dalla
mancanza, nel corso del procedimento, di un atto endoprocedimentale la cui adozione spetta a soggetto
diverso dall’amministrazione competente ad emanare il provvedimento finale. L’atto può essere sanato da un
provvedimento tardivo che dà luogo a una sostanziale inversione dell’ordine procedimentale.

15. Conversione, inoppugnabilità, acquiescenza, ratifica, rettifica e rinnovazione del


provvedimento

La conversione è istituto che riguarda gli atti nulli: in luogo dell’atto nullo è da considerare esistente un
differente atto, perché sussistono tutti i requisiti di questo e risulti che l’agente avrebbe voluto il secondo atto
ove fosse stato a conoscenza del mancato venire in essere del primo. Essa opera ex tunc in base al principio
della conservazione dei valori giuridici. Si ammette talora in dottrina e in giurisprudenza la possibilità della
conversione anche in atti annullabili.
In tali casi si verifica in realtà un fenomeno più complesso, costituito dall’annullamento dell’atto originario e
dalla conseguente caducazione dei suoi effetti e dalla sostituzione con altro atto di cui sussistono nel primo
tutti i requisiti.

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L’inoppugnabilità è la condizione in cui l’atto viene a trovarsi ove siano decorsi i termini per impugnarlo.
L’atto inoppugnabile va distinto da quello convalidato: l’inoppugnabilità comporta l’inattaccabilità dell’atto,
ma la differenza deriva dal fatto che la figura opera solo sul piano giustiziale; di conseguenza l’atto
inoppugnabile è pur sempre annullabile d’ufficio e disapplicabile dal giudice ordinario.
L’acquiescenza è l’accettazione spontanea e volontaria, da parte di chi potrebbe impugnarlo, delle
conseguenze dell’atto e, quindi, della situazione da esso determinata. Il comportamento acquiescente deve
desumersi da fatti univoci, chiari e concordanti; esso presuppone la conoscenza del provvedimento e, pur in
presenza di alcune decisioni giurisprudenziali in senso contrario, l’avvenuta sua emanazione.
L’acquiescenza, a differenza della convalida, non produce effetti erga omnes: essa osta infatti alla
proposizione del ricorso amministrativo o giurisdizionale da parte del solo soggetto che l’ha prestata.
Ancora differente è l’istituto della ratifica, che ricorre allorché sussista una legittimazione straordinaria di
un organo ad emanare a titolo provvisorio e in una situazione d’urgenza un provvedimento che rientra nella
competenza di un altro organo, il quale, ratificando, fa proprio quel provvedimento originariamente
legittimo.
Pure la rettifica non riguarda provvedimenti viziati, ma atti irregolari, e consiste nell’eliminazione
dell’errore.
Infine, differente dalla convalida è la rinnovazione del provvedimento annullato, che consiste
nell’emanazione di un nuovo atto, avente dunque effetti ex nunc, con la ripetizione della procedura a partire
dall’atto endoprocedimentale viziato.

16. L’efficacia del provvedimento amministrativo: limiti spaziali e limiti temporali

La produzione degli effetti sul piano dell’ordinamento generale (efficacia: può essere costitutiva,
dichiarativa, preclusiva) è subordinata alla sussistenza di tutti gli elementi rilevanti per tale produzione.
L’efficacia incontra limiti territoriali: essi corrispondono di norma a quelli di competenza dell’autorità.
L’efficacia del provvedimento può essere subordinata al compimento di determinate operazioni, al verificarsi
di alcune circostanze o all’emanazione di ulteriori atti rispetto all’adozione del provvedimento in sé. Solo a
quel punto la fattispecie si completa nel senso che risultano integrate tutte le circostanze che l’ordinamento
ha previsto allorché possa prodursi l’effetto sul piano dell’ordinamento generale.
L’atto può essere perfetto ma non efficace, ovvero efficace ma annullabile, in quanto, pur ricorrendo tutti i
requisiti e gli elementi di efficacia, l’atto o il procedimento che lo precede non è conforme al paradigma
normativo.
L’efficacia del provvedimento incontra non solo limiti spaziali, ma anche temporali, nel senso che, pur
sussistendo il principio secondo cui gli atti di norma producono effetti al momento in cui sono venuti in
essere, non mancano esempi di atti ad efficacia differita o ad efficacia retroattiva. I primi sono quelli la cui
operatività è subordinata al completarsi della fattispecie operativa.
L’efficacia può essere sospesa e sussistono altre circostanze che del pari condizionano lo spiegarsi
dell’efficacia.
L’atto amministrativo è di regola irretroattivo; tuttavia si riconosce l’efficacia di alcuni atti prima del
perfezionarsi della fattispecie. Esistono atti, come quelli che incidono sulla fattispecie, retroattivi per natura
(annullamento, annullamento parziale, convalida). Al di fuori di queste ipotesi, la retroattività, in quanto mira
a soddisfare un interesse del singolo, è ammessa solo se l’atto produce effetti favorevoli per il destinatario e
non sussistono controinteressati, ovvero se vi è il consenso dell’interessato.
Diversa dalla retroattività è la retrodatazione, conferiti ad atti che l’amministrazione sarebbe stata tenuta ad
emanare, ma che non adottò tempestivamente, dunque in un contesto normativo o in una situazione di fatto
differenti rispetto a quelli attuali: in altri termini, l’amministrazione procede a riportare la decorrenza degli
effetti dell’atto al momento in cui essi avrebbero dovuto dispiegarsi, anche se l’atto stesso è stato emanato in
seguito.
Sempre in tema di limiti temporali dell’efficacia, occorre poi distinguere tra atti ad efficacia istantanea
(l’effetto si produce, esaurendosi, in un dato momento e riguarda un singolo accadimento o fatto storico o
un’isolata situazione) e atti ad efficacia durevole o prolungata (è il caso dei piani urbanistici e delle
concessioni di servizio e di alcune autorizzazioni).

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17. I procedimenti di revisione: sospensione, proroga, revoca e ritiro del provvedimento


amministrativo

L’efficacia durevole o prolungata può essere condizionata anche dall’adozione di provvedimenti


amministrativi posti in essere a conclusione di procedimenti (detti procedimenti di revisione) di secondo
grado, ossia aventi ad oggetto altri provvedimenti, o meglio, la loro efficacia.
L’eseguibilità consiste nella “effettiva attitudine del provvedimento ad essere eseguito”. Il provvedimento è
poi eseguito mediante “l’esecuzione”. Ai sensi dell’art. 21-quater, l. 241/1990, i provvedimenti
amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalle legge o dal
provvedimento medesimo.
Tipico atto che incide sull’eseguibilità e sull’efficacia è la sospensione amministrativa. La sospensione è il
provvedimento con il quale, nel corso di una procedura principale di riesame o di revisione ed a fini cautelari,
viene temporaneamente paralizzata l’eseguibilità e l’efficacia di un provvedimento efficace, sia esso
ampliativo o limitativo della sfera del destinatario.
Il c.2 della norma dispone che l’efficacia ovvero l’esecuzione del provvedimento amministrativo può essere
sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato
ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell’atto
che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute
esigenze.
La proroga è il provvedimento con cui si protrae ad un momento successivo il termine finale di efficacia di
un provvedimento durevole. La proroga in senso proprio va adottata prima della scadenza del provvedimento
di primo grado. Ove sia emanata successivamente si tratta in realtà di rinnovazione, la quale consiste in un
nuovo atto, identico al precedente scaduto, autonomamente impugnabile, la cui legittimità va valutata al
momento della sua adozione.
La revoca è il provvedimento che fa venir meno la vigenza degli atti ad efficacia durevole , a conclusione di
un procedimento volto a verificare se i risultati cui si è pervenuti attraverso il precedente provvedimento
meritino di essere conservati. Ai sensi dell’art. 21-quinquies l. 241/1990, per sopravvenuti motivi di
pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento delle situazioni di fatto o di nuova valutazione
dell’interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere
revocato. In dottrina si parla anche di revoca (chiamata anche decadenza) per indicare il provvedimento di
natura sanzionatoria che l’amministrazione pone in essere a seguito della violazione di un obbligo
dell’interessato. Alla radice del potere generale della revoca in senso proprio si profilano dunque più
situazioni: può accadere che siano sopravvenuti motivi di interesse pubblico o siano mutate le circostanze di
fatto esistenti al momento dell’adozione del provvedimento di primo grado sicché non appare conforme
all’interesse pubblico il perdurare della sua vigenza, ovvero che l’amministrazione valuti nuovamente la
stessa situazione già oggetto di ponderazione al momento dell’adozione dell’atto di primo grado.
La revoca, la quale incide sull’efficacia dell’atto e non sull’atto, è collegata al problema delle sopravvenienze
che incidono sull’efficacia di un atto legittimo, al principio della costante rispondenza dei rapporti
amministrativi all’interesse pubblico e al tema della tutela del legittimo affidamento del privato. La
connessione con il tema della sopravvenienza e l’applicazione del principio dell’irretroattività dei
provvedimenti amministrativi spiegano perché essa abbia effetti ex nunc: ai sensi dell’art. 21-quinquies, la
revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.
Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l’amministrazione ha
l’obbligo di provvedere al loro indennizzo. Il c.1-bis si occupa della quantificazione dell’indennizzo con
specifico riferimento ai casi in cui la revoca di un atto a efficacia durevole o istantanea riguardi un atto
originariamente non compatibile con l’interesse pubblico e incida su rapporti negoziali.
L’indennizzo è parametrato al solo danno emergente, il che non significa che coincida con esso, potendo
risultare inferiore; l’indennizzo tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei
contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei
contraenti o di altri soggetti all’”erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico”.
La competenza a disporre la revoca (che è atto recettizio: art. 21-bis) spetta all’organo che ha emanato l’atto,
ovvero ad altro previsto dalla legge. Figura simile alla revoca è quella del recesso degli accordi, mentre
differente è l’ipotesi disciplinata dall’art. 21-sexies, l. 241/1990, secondo cui il recesso unilaterale dai
contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto.
Nella prassi amministrativa e nel linguaggio comune si parla di revoca anche per indicare la diversa ipotesi
(definita in dottrina rimozione o abrogazione) in cui con un provvedimento vincolato viene fatta cessare la
permanenza della vigenza di atti legittimi ad efficacia prolungata allorché venga meno uno dei presupposti
specifici sul fondamento dei quali tali atti erano stati emanati. La rimozione, che non esclude la revoca, ha

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efficacia a partire dal momento in cui si realizza la contrarietà al diritto della perdurante vigenza dell’atto di
primo grado.
Va infine ricordato che, ai sensi dell’art. 123 Cost., lo statuto delle regioni regola l’esercizio del referendum
su “provvedimenti amministrativi della regione”: l’esito del referendum può consistere nel ritiro del
provvedimento con efficacia ex nunc. Atteso che la nuova formulazione dell’art. 8, T.U. enti locali, non fa
più riferimento al referendum “consultivo” ma semplicemente al referendum, il ritiro degli atti
amministrativi a seguito della celebrazione del referendum può interessare anche gli atti degli enti locali.
La dottrina e la giurisprudenza conoscono più in generale la figura del mero ritiro dell’atto non efficace:
esso potrebbe essere giustificato sia da motivi di legittimità, sia da motivi di inopportunità o da fatti
sopravvenuti.

18. Esecutività ed esecutorietà del provvedimento amministrativo

L’idoneità del provvedimento, legittimo o illegittimo, a produrre automaticamente ed immediatamente i


propri effetti allorché l’atto sia divenuto efficace è detta esecutività.
La l. 241/90 all’art. 21-quater indica con il termine esecutività il carattere dell’eseguibilità e, cioè, la sua
idoneità non a produrre effetti, ma ad essere eseguito.
La norma disciplina poi l’”esecuzione” del provvedimento, stabilendo che, se efficace, esso va eseguito
immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento stesso, occupandosi
poi della sua sospensione.
Con il termine esecutorietà del provvedimento si indica allora la possibilità che essa sia compiuta, in quanto
espressione di autotutela, direttamente dalla p.a., senza dover ricorrere previamente ad un giudice.
L’art. 21-ter, l. 241/1990 dispone che, nei casi e nei modi stabiliti dalla legge, le pubbliche
amministrazioni, previa diffida, possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro
confronti; ciò avviene qualora l’obbligato non ottemperi spontaneamente nei termini, ponendo in essere le
operazioni e le attività materiali imposte dal provvedimento.
L’esecutorietà è rimessa alla scelta del soggetto pubblico: in mancanza di determinazione l’attuazione del
provvedimento potrà avvenire in sede giurisdizionale. La maggioranza dei provvedimenti non sono assistiti
da una disciplina legislativa che espressamente preveda l’esecutorietà e ciò può creare seri problemi per il
corretto perseguimento dell’interesse pubblico in caso di mancata spontanea ottemperanza da parte dei
privati.
L’art. 21-ter, l. 241/1990, dispone altresì che il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le
modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Molteplici sono i mezzi attraverso i quali
l’esecutorietà si manifesta nel nostro ordinamento.
Nell’ipotesi in cui il provvedimento costituisca obblighi di fare infungibili, l’amministrazione può procedere
alla coercizione diretta, se ammessa dalla legge e se compatibile con i valori costituzionali, ovvero può
minacciare e infliggere sanzioni per ottenere l’esecuzione spontanea. Ove l’obbligo di fare consti di una
prestazione fungibile può essere prevista l’esecuzione d’ufficio: l’amministrazione esegue direttamente, con
propri mezzi ma a spese del terzo, l’attività richiesta.
Nei casi di obblighi di dare relativi a somme di denaro , la legge contempla due ipotesi: l’esecuzione forzata
territoriale tramite ruoli e, per quanto riguarda le entrate patrimoniali, il procedimento caratterizzato
dall’ingiunzione, che oggi non richiede più la vidimazione del giudice.

19. Gli accordi amministrativi. Osservazioni generali

È sempre fiorito in dottrina un dibattito, tuttora in corso, in ordine alla configurabilità di un contratto di
diritto pubblico stipulato tra amministrazione o tra amministrazione e privati, ovvero alla possibilità di
qualificare come contratti di diritto privato alcune fattispecie caratterizzate dall’attinenza a beni, servizi e
funzioni pubbliche; le principali questioni sorte circa l’ammissibilità di tale figura attengono ai diritti
soggettivi e oggettivi del rapporto e alla natura dell’attività amministrativa. L’attuale normativa, e in
particolare la l. 241/1990, consente che le amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra loro
accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune ( art. 15, l.
241/1990).
Inoltre la legge sul procedimento amministrativo, dispone all’art. 11 che “in accoglimento di osservazioni o
proposte presentate a norma dell’art. 10, l’amministrazione procedente può concludere senza pregiudizio dei
diritti dei terzi e, in ogni caso, nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di
determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”.
L’accordo si caratterizza per il necessario coinvolgimento di profili diversi da quelli patrimoniali, in
particolare dell’esercizio di potere amministrativo che, con formula descrittiva, viene qualificato come bene
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sottratto alla comune circolazione giuridica. L’introduzione della figura dell’accordo di diritto
amministrativo come forma differente dal provvedimento di definizione del procedimento lascia insoluto il
problema della sua qualificazione e impone di analizzarne la disciplina.

20. Gli accordi tra amministrazione e privati ex art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241

Due sono le tipologie di accordi tra amministrazione e privati: gli accordi sostitutivi di provvedimento e gli
accordi integrativi del provvedimento (determinativi del contenuto discrezionale del provvedimento stesso).
Le differenze essenziali in ordine alla disciplina tra i due modelli sono le seguenti: mentre l’accordo
sostitutivo tiene luogo del provvedimento, l’accordo determinativo del contenuto non elimina la necessità del
provvedimento nel quale confluisce, sicché il procedimento si conclude pur sempre con un classico
provvedimento unilaterale produttivo di effetti, onde l’accordo ha effetti solo interinali; soltanto gli accordi
sostitutivi sono soggetti ai medesimi controlli previsti per i provvedimenti, mentre nel caso di accordi
determinativi del contenuto discrezionale, il controllo, ove previsto, avrà ad oggetto il provvedimento finale.
Quanto alla possibile qualificazione di tali accordi come contratti, le maggiori perplessità in ordine a tale
soluzione, pur sostenuta da alcuni autori, nascono non tanto dalla circostanza che i negozi in esame hanno ad
oggetto l’esercizio del potere, quanto dall’incompatibilità del regime cui sono assoggettati con il modello
civilistico di contratto.
A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due parti
(il soggetto pubblico) assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello del
privato: l’accordo deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico” e “per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo”. La
validità dell’accordo e la sua vincolatività sono subordinate alla compatibilità con l’interesse pubblico, il
quale ne diviene così elemento definitorio. La rilevanza dell’interesse pubblico consente di qualificare
l’accordo come atto appartenente al diritto pubblico, la cui stipulazione è preceduta da un’attività pubblica
dell’amministrazione e da un’attività del cittadino che rimane privata senza che ciò comporti una
“privatizzazione” dell’atto finale. Dall’esame dell’art. 11, l. 241/1990, la dottrina ha tratto numerosi ulteriori
spunti a favore della tesi della natura pubblica dell’accordo. L’accordo sostitutivo risulta assoggettato agli
stessi controlli ai quali sarebbe sottoposto il provvedimento.
Dal punto di vista processuale l’art. 133, d.lgs. 104/2010, stabilisce la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in ordine alle controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi.
L’accordo si differenzia nettamente anche dai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
Gli accordi debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga
diversamente; essi debbono essere motivati e le controversie in materia di formazione, conclusione ed
esecuzione sono riservate alla giurisdizione esclusiva; l’amministrazione può recedere unilateralmente
dall’accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse corrispondendo un indennizzo. Agli accordi si
applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in
quanto compatibili.
Per quanto riguarda il regime dell’accordo non conforme al paradigma normativo, esso richiede anche di
considerare i principi civilistici cui la norma rinvia: le regole sull’annullabilità del contratto sono applicabili
alla formazione del consenso del cittadino, mentre appaiono incompatibili con l’esercizio del potere
amministrativo. Uno spazio importante per il rinvio ai principi civilistici si profila in relazione alla disciplina
del rapporto scaturente dall’accordo; sembra invece ammissibile il rinvio ai principi che impongono alle parti
di comportarsi secondo buona fede e, con riferimento alle situazioni in cui vi sia un inadempimento degli
obblighi assunti, a quelli in tema di risoluzione per inadempimento e per sopravvenuta impossibilità della
prestazione, sempre facendo salvo il criterio della compatibilità.
L’accordo è strettamente legato al tema della partecipazione: esso può infatti essere concluso “in
accoglimento di osservazioni e proposte” (art. 11, c.1, l. 241/1990). Ai sensi del c. 4-bis, a garanzia
dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica
amministrazione conclude accordi , la stipulazione è preceduta da una determinazione dell’organo che
sarebbe competente per l’adozione del provvedimento.
Il recesso dall’accordo invece corrisponde alla revoca del provvedimento; ai sensi dell’art. 11, il recesso è
ammissibile soltanto per “sopravvenuti motivi di interesse pubblico”, sicché si profila insufficiente, ai fini del
legittimo recesso, una rinnovata valutazione dell’interesse pubblico. Il processo è da configurare come
“mezzo autoritativo di risoluzione del rapporto”, espressione del potere a fronte del quale la posizione del
privato si atteggia ad interesse legittimo, e incide, sciogliendoli, sui rapporti, piuttosto che sugli atti.
L’accordo integrativo è un accordo endoprocedimentale destinato a riversarsi nel provvedimento finale.
Esso, ammissibile soltanto nelle ipotesi in cui il provvedimento sia discrezionale, fa sorgere un vincolo fra le
parti: in particolare l’amministrazione è tenuta ad emanare un provvedimento corrispondente al tenore
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dell’accordo. In caso contrario il giudice amministrativo potrà dichiarare l’obbligo di provvedere. L’effetto
finale è da rapportare solo al provvedimento, soggetto al consueto regime pubblicistico, e unico atto
impugnabile. Il provvedimento non è revocabile, almeno per quella parte che corrisponde all’accordo, in
ordine alla quale si può esercitare il potere di recesso.
Più complesso è il discorso riguardante l’accordo sostitutivo, in ordine al quale non è più necessaria (dopo
le riforme del 2005) la previsione di legge delle ipotesi in cui era possibile concluderlo: esso elimina la
necessità di emanare un provvedimento. L’accordo sostitutivo del provvedimento è soggetto ai medesimi
controlli previsti per quest’ultimo; quanto alla norma secondo cui l’accordo deve essere concluso “senza
pregiudizio dei diritti di terzi”, va osservato che essa non limita l’efficacia alle sole parti, in quanto l’accordo
sostitutivo dovrebbe avere la stessa efficacia del provvedimento che sostituisce.
In conclusione si ribadisce che la indubbia accresciuta considerazione degli interessi dei privati, realizzata
dalla recente normativa sul procedimento amministrativo, non pare in grado di eliminare il carattere di
necessaria preordinazione alla cura degli interessi pubblici dell’azione amministrativa e la unilateralità della
disposizione in ordine agli stessi.
L’accordo sostitutivo è strumento che non elimina la possibilità che il provvedimento sia emanato nel caso in
cui l’accordo non venga stipulato.

21. I contratti di programma e gli accordi tra amministrazioni

Il termine “contratto di programma” può essere impiegato per indicare gli atti mediante i quali soggetti
pubblici e privati raggiungono intese mirate al conseguimento di obiettivi comuni. In questo senso il
contratto di programma si contrappone all’accordo di programma che essendo un tipo di accordo tra
amministrazioni, coinvolge soltanto soggetti pubblici. Spesso il termine indica però il disciplinare relativo ad
alcuni servizi. Alla prima forma di contratti stipulati con privati, si accostano altre figure introdotte dalla
recente normativa. In particolare la l. 662/1996, recante la disciplina delle attività di programmazione
negoziata che coinvolgono una molteplicità di soggetti pubblici e privati, individua, quali strumenti specifici,
le intese istituzionali di programma, gli accordi di programma quadro, i patti territoriali, i contratti di
programma e i contratti d’area.
La distinzione con gli accordi sostitutivi va rinvenuta nel fatto che, con riferimento alle figure di
programmazione negoziata, non è possibile individuare un provvedimento che venga sostituito mediante
accordo. La differenza tra le due figure è tuttavia più netta sul piano sostanziale: a differenza di quanto
accade per gli accordi sostitutivi, legati alla partecipazione procedimentale di un privato in situazione di
soggezione, gli altri strumenti servono per concordare azioni comuni tra soggetti sostanzialmente collocati
sullo stesso piano e particolarmente qualificati. Si tratta di strumenti aventi finalità di coordinamento tra più
centri di potere tendenzialmente paritari e tra differenti processi decisionali.
Gli accordi tra amministrazioni sono impiegati come strumenti per concordare lo svolgimento di attività in
comune in un contesto in cui la frammentazione dei poteri richiede costantemente misure di raccordo e di
semplificazione. Non a caso, la norma che stabilisce il potere di concludere accordi tra le amministrazioni è
inserita nel capo relativo alla semplificazione procedimentale, a differenza di quella di cui all’art. 11, l.
241/1990, facente parte del capo sulla partecipazione al procedimento.
L’art. 15, l. 241/1990, prevede in generale che le amministrazioni pubbliche possano sempre concludere tra
loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune. Per quanto
attiene alla normativa concernente tale figura, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell’art. 11,
cc. 2, 3 e 5 l. 241/1990. Un primo esempio di accordi è costituito dalle conferenze dei servizi le quali sono
previste come accordo sostitutivo di parti del procedimento caratterizzate dalla sussistenza di un interesse
pubblico prevalente. Esistono però altri esempi di accordi tra amministrazioni. Uno dei problemi principali
che riguardano tali modelli negoziali attiene alle conseguenze del dissenso espresso da una delle parti
interessate. L’ordinamento prevede talora strumenti per superare siffatto dissenso affidando in particolare
allo Stato poteri sostitutivi da esercitarsi secondo modalità garantistiche in caso di mancato raggiungimento
dell’accordo.
Va poi operata una distinzione tra gli accordi che si inseriscono all’interno di un procedimento
amministrativo che sfocia nell’adozione di un formale atto finale e quelli che invece hanno una rilevanza
autonoma: nella prima tipologia di accordi l’ordinamento si preoccupa di prevedere strumenti per superare il
mancato raggiungimento dell’intesa , atteso che esiste un’amministrazione procedente titolare di un interesse
primario, laddove nel secondo caso, allorché manchi un’amministrazione titolare di un interesse primario, lo
stallo va superato sul piano dei rapporti politici tra i due soggetti.
In altri termini, nel primo caso l’intesa è un momento della fase determinativa del contenuto del
provvedimento; nella seconda ipotesi, invece, l’accordo sintetizza l’atto tra soggetti pariordinati che produce
effetti e che fissa direttamente il regolamento di interessi.
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Un delicato problema di confine, in materia di partenariato pubblico-pubblico, si pone tra la disciplina


degli accordi di cui all’art. 15, l. 241/1990 e quella degli appalti, di cui possono essere parti contraenti anche
due amministrazioni: in linea di principio, là dove la prestazione dedotta nell’accordo non sia qualificabile
come appalto, trova applicazione il regime dettato dalla stessa legge.

22. In particolare: gli accordi di programma

Particolari accordi tra amministrazioni, destinati ad essere approvati da un provvedimento amministrativo


formale, sono gli accordi di programma, dai quali derivano obblighi reciproci alle parti interessate e
coinvolge nella realizzazione di complessi interventi. La figura è prevista da molteplici normative, alcune
delle quali ammettono tra l’altro il coinvolgimento dei privati, ma trova un importante esempio di disciplina
nell’art. 34 T.U. enti locali: “per la definizione e l’attuazione di opere, interventi o di programmi di
intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l’adozione integrata e coordinata di comuni,
province e regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, e comunque di due o più soggetti
predetti, il presidente della regione o il presidente della provincia o il sindaco, in relazione alla competenza
primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi e programmi di intervento, promuove la conclusione di un
accordo di programma , anche su richiesta di uno o più soggetti interessati, per assicurare il coordinamento
delle azioni e per determinare i tempi, le modalità , il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento.”
Rispetto alla norma base di cui all’art. 15, l. 241/1990 gli accordi di programma di cui al T.U. enti locali, si
caratterizzano per la specificità dell’oggetto, per il carattere fortemente discrezionale che li permea, e per il
loro contenuto di regolamentazione dell’esercizio dei poteri delle amministrazioni interessate, nonché per un
notevole grado di dettaglio della disciplina cui sono assoggettati.
In particolare l’art. 34 T.U. enti locali, prevede la fase obbligatoria della conferenza dei servizi, convocata
per verificare la possibilità di raggiungere l’accordo, e si occupa dell’approvazione dell’accordo stesso, della
possibilità che l’accordo preveda procedimenti arbitrali e interventi surrogatori in caso di inadempienze,
degli effetti dell’accordo, nonché della vigilanza sulla sua esecuzione.

CAPITOLO VIII

OBBLIGAZIONI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E DIRITTO COMUNE

1. Il regime delle “obbligazioni pubbliche” tra diritto comune e deviazioni pubblicistiche

Contratto, fatto illecito, legge e altri fatti o atti di cui all’art. 1173 c.c. sono fonti di obbligazioni anche per la
pubblica amministrazione, che si trova nella medesima situazione in cui si colloca ogni altro soggetto
dell’ordinamento.
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Con riferimento alle obbligazioni a carico dell’amministrazione si parla talora in dottrina di obbligazioni
pubbliche. Tale accezione appare però ambigua atteso che le obbligazioni, comunque sorte, sono sottoposte
alla disciplina privatistica.
Il termine obbligazioni pubbliche può dunque essere impiegato soltanto a fini descrittivi, per indicare cioè la
natura pubblica del soggetto alle quali si riferisce: esse gravano infatti sugli enti pubblici. Esiste un ampio
ventaglio di obbligazioni facenti capo all’amministrazione in forza di leggi, di contratti e di provvedimenti,
volte a fornire prestazioni o beni a favore del cittadino o della collettività. Da questo punto di vista, le
obbligazioni in esame vanno raggruppate non già in ragione della loro fonte, bensì sulla base del comune
profilo contenutistico che le caratterizza. La problematica si intreccia strettamente con il tema delle
prestazioni pubbliche di cui si fa carico l’amministrazione nel momento in cui garantisce un servizio
pubblico.

2. I contratti della pubblica amministrazione

Gli enti pubblici godono della capacità giuridica di diritto privato e possono utilizzare gli strumenti di diritto
comune (pure il contratto) per svolgere la propria azione e per conseguire i propri fini.
L’amministrazione ha la capacità giuridica di stipulare contratti di diritto privato, fatte salve le eccezioni
stabilite dalla legge; essa, però, può agire utilizzando gli strumenti privatistici soltanto nei casi in cui vi sia
attinenza con le finalità pubbliche.
L’attività contrattuale è disciplinata in primo luogo dal diritto privato ma è altresì sottoposta a regole di
diritto amministrativo.
Il contratto si differenzia nettamente dall’accordo in quanto è caratterizzato dall’irrilevanza dell’interesse
pubblico in ordine al regime di validità del negozio e dall’insensibilità del rapporto contrattuale nei confronti
delle variazioni dell’interesse dell’amministrazione parte contraente.
L’interesse pubblico rileva però con una serie di importanti conseguenze sul piano del procedimento che
segna la formazione della volontà dell’amministrazione: l’espressione “evidenza pubblica”, utilizzata per
descrivere il procedimento amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della pubblica
amministrazione, indica appunto il fatto che questa fase deve svolgersi in modo da esternare l’ iter seguito
dall’amministrazione, anche al fine di consentire il sindacato alla luce del criterio della cura dell’interesse
pubblico. Tale procedura è caratterizzata dalla presenza di atti amministrativi mediante i quali
l’amministrazione rende note le ragioni di pubblico interesse che giustificano in particolare l’intenzione di
contrattare , la scelta della controparte e la formazione del consenso.
In attuazione delle direttive comunitarie 2004/18/CE e 2004/17/CE, è stato approvato il d.lgs. 163/2006, c.d.
Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, che ha riunificato in un unico corpo
normativo la disciplina relativa alle tre diverse tipologie di contratti: lavori, forniture e servizi. Si tratta di una
disciplina di contratti onnicomprensiva, che copre sia quelli sopra soglia comunitaria, sia quelli di valore
inferiore a tali limiti; esso ha ad oggetto i contratti e non solo gli appalti. Un corposo regolamento attuativo è
stato approvato con d.p.r. 207/2010; modifiche ulteriori alla trama normativa sono state introdotte dal d.l.
70/2011, conv. nella l. 122/2011, mentre a livello europeo, nel dicembre 2011 sono state presentate
importanti proposte di direttive. Tra le novità introdotte dal codice meritano un cenno: la previsione
dell’obbligo di indicare nel bando di gara o nel capitolato d’oneri le modalità di ponderazione e valutazione
prescelti; la regolamentazione dell’avvalimento (cioè la possibilità di fare affidamento sulle capacità di un
altro soggetto, che fornisce i requisiti e mette a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata
dell’appalto); la disciplina dei sistemi dinamici di acquisizione e quella delle aste elettroniche.
Muta il profilo funzionale dell’evidenza pubblica, che da disciplina posta a presidio delle esigenze
dell’interesse pubblico, in vista della scelta del miglior contraente e del contenimento della spesa
dell’esclusivo punto di vista dell’amministrazione, diviene una regolamentazione che protegge anche gli
interessi delle imprese.
Accanto alla matrice comunitaria, nella disciplina dei contratti della pubblica amministrazione si rinvengono
altre due “anime”; la l. 241/1990 contiene disposizioni comuni a tutte e tre le tipologie contrattuale (lavori,
forniture, servizi) e altre, invece, riservate a ciascun singolo settore. Per quanto concerne i lavori pubblici
l’art. 3, d.lgs. 163/2006, specifica che essi comprendono “le attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione, restauro e manutenzione di opere”, mentre per opera si intende il risultato di un insieme di
lavori che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Oltre alla concorrenza, molti altri valori
affiorano dalla lettura della disciplina in materia, tra cui la tutela del buon uso delle risorse pubbliche
(nell’era della spending review), la trasparenza e la lotta alla corruzione (la l. 190/2012 prevede che negli
avvisi, bandi di gara o lettere d’invito, le stazioni appaltanti possono stabilire che il mancato rispetto delle
clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara).
Per quanto attiene al contenimento delle spese, la disciplina si caratterizza anche per la tipologia di
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conseguenze (nullità del contratto) prevista in caso di violazione delle relative regole, nonché per il fatto
che viene sacrificata la stabilità del rapporto contrattuale, nel senso che, ricorrendo talune condizioni,
l’amministrazione può recedere dai contratti stipulati precedentemente.
La l. 135/2012 prevede che sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità
amministrativa, i contratti stipulati dalle amministrazioni in violazione del dovere di cui all’art. 26, l.
488/1999 (che impone alle amministrazioni di ricorrere alle convenzioni stipulate dal ministero del tesoro,
del bilancio e della programmazione economica con le quali l’impresa prescelta si impegna ad accettare
ordinativi di fornitura di beni e servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato, o in violazione degli
obblighi di approvvigionarsi attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A.
Ai sensi dell’art. 53, Codice dei contratti pubblici, i lavori pubblici possono essere realizzati esclusivamente
mediante contratto di appalto o di concessione, fatto salvo il caso dei lavori in economia, ammessi sono
all’importo di 200.000 euro.
L’appalto di lavori pubblici si distingue dal corrispondente contratto privatistico per la natura pubblica di uno
dei due contraenti e perché ha ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche. Secondo la formulazione
dell’art. 3, Codice dei contratti pubblici, esso è il contratto a titolo oneroso, concluso in forma scritta tra un
operatore economico e una situazione appaltante o un ente aggiudicatore, avente per oggetto la sola
esecuzione dei lavori pubblici, ovvero ancora l’esecuzione, con qualsiasi mezzo, di un’opera rispondente alle
esigenze specificate dalla stazione appaltante o dall’ente aggiudicatore, sulla base del progetto preliminare
posto a base di gara.
L’appalto di lavori pubblici è assoggettato ad una disciplina derogatoria relativa ai seguenti aspetti:
- presenza di un di un direttore dei lavori, funzionario tecnico dell’amministrazione svolgente
funzioni di controllo e vigilanza;
- peculiari regole di contabilità, attinenti all’accertamento e alla registrazione di tutti i fatti che
producono spesa;
- regime delle riserve: l’appaltatore deve far valere qualsiasi pretesa di maggiori compensi o
indennizzi, relativamente a tutti i fatti idonei a produrre spese, mediante riserve da inserire a pena di
decadenza nei documenti contabili; al riguardo può essere attivato un accordo bonario al fine di
addivenire a una soluzione conciliativa della stessa;
- sussistenza della possibilità dell’amministrazione di apportare varianti al progetto originario;
- istituto del collaudo: l’amministrazione, a seguito di una relazione stesa da tecnici e da una
commissione all’uopo incaricata, accerta e attesta che il lavoro è stato eseguito a regola d’arte;
- il sistema del “prezzo chiuso”; questo meccanismo consiste nell’aumento di una percentuale fissata
con decreto del ministro dei lavori pubblici da applicarsi all’importo dei lavori ancora da eseguire
per ogni anno intero previsto per l’ultimazione dei lavori stessi.
La normativa si segnala poi per i seguenti aspetti:
- la previsione di un’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici (organismo collegiale composto di
cinque membri, che resta in carica cinque anni e che svolge compiti di accertamento, vigilanza,
proposta e sanzionatori, e di garanzia dell’osservanza dei principi di concorrenza, correttezza e
trasparenza); di rilievo è l’istituzione di una commissione per la soluzione delle controversie
presso l’autorità che, su istanza di parte, svolge compiti di composizione delle liti in tempi non
superiori a venti giorni;
- la disciplina della conferenza di servizi per l’acquisizione di intese, pareri, autorizzazioni, nulla
osta e assensi denominati ai fini dell’esecuzione dei lavori pubblici;
- L’introduzione del principio dell’obbligatorietà della programmazione dei lavori pubblici;
- la disciplina della progettazione, della direzione dei lavori, della pubblicità, delle garanzie
assicurative e del contenzioso;
- la disciplina del subappalto, ammesso per le categorie di lavorazioni prevalenti indicate nel bando
entro i limiti fissati dalla legge.
Il d.lgs. 163/2006 riconosce alla parte pubblica che abbia stipulato contratti relativi all’esecuzione di contratti
di appalto una serie di poteri peculiari e tassativi. L’art. 136 afferma che, in tema di lavori pubblici,
l’amministrazione può risolvere i contratto per grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo;
importante è anche l’art. 134: l’amministrazione può recedere in qualunque tempo dai contratti, verso la
corresponsione del pagamento dei lavori eseguiti, dei materiali esistenti in cantiere e del decimo dell’importo
dei lavori rimasti ineseguiti.
L’art. 14, Codice dei contratti pubblici, disciplina pure i contratti misti al criterio dell’accessorietà/
prevalenza. Gli appalti, ai sensi dell’art. 54, sono affidati mediante procedura aperta o ristretta e, in casi
eccezionali, negoziata, con o senza pubblicazione del bando.

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Gli appalti di forniture sono disciplinati dall’art. 3, c.9, Codice contratti pubblici, che li definisce “contratti
a titolo oneroso aventi per oggetto l’acquisto, la locazione finanziaria, la locazione, l’acquisto a riscatto con o
senza opzioni per l’acquisto, di prodotti”: l’appalto è impiegato dalla disciplina comunitaria in un’ipotesi in
cui ha ad oggetto una fornitura. Le forniture sono aggiudicate con il criterio del prezzo più basso o con quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Gli appalti di servizi sono gli appalti diversi dagli appalti di lavori e di fornitura aventi ad oggetto la
prestazione di servizi indicati in due appositi allegati; la differenza tra un appalto di lavori e un appalto di
servizi è indicata nel fatto che solo nel primo caso vi è la trasformazione fisica della res oggetto del contratto;
la distinzione tra un appalto di servizi e un appalto di forniture risiede invece nella circostanza che l’attività
oggetto del primo consiste in un facere e non in un dare.
Gli appalti disciplinati dal codice dei contratti rientrano nella categoria dei contratti passivi (attraverso i
quali l’amministrazione si procura beni e servizi: tali contratti comportano dunque l’erogazione di spese).
Con riferimento ai riflessi sul bilancio dell’ente, essi si differenziano dai contratti attivi (se mediante essi
l’amministrazione si procura entrate: vendite, locazioni, ecc.).

2.1. Le principali scansioni del procedimento ad evidenza pubblica: la deliberazione di contrattare e il


progetto di contratto

Il procedimento ad evidenza pubblica, volto ad assicurare l’imparzialità e la trasparenza nella scelta del
miglior contraente, si apre con la determinazione di contrattare (o determinazione a contrattare), ovvero
con la predisposizione di un progetto di contratto; tali atti predeterminano il contenuto del contratto e la
spesa prevista ed individuano altresì la modalità di scelta del contraente.
I capitolati generali definiscono “le condizioni che possono applicarsi indistintamente ad un determinato
genere di lavoro, appalto o contratto e le forme da seguirsi per le gare”. La giurisprudenza riconosce loro
carattere non normativo, sicché la fonte della loro efficacia risiede nell’adesione ad essi prestata dalle parti e
non discende quindi direttamente da essi; la violazione di tali capitolati non dà luogo al vizio di violazione di
legge.
Anche ai capitolati speciali la dottrina e la giurisprudenza riconoscono carattere non normativo. Essi
riguardano le “condizioni che si riferiscono più particolarmente all’oggetto proprio del contratto” e quindi,
pongono parte della regolamentazione del rapporto contrattuale.
La determinazione a contrattare e il progetto possono essere soggetti a controlli e a pareri. Essi inoltre sono
considerati tradizionalmente atti amministrativi interni, non rilevanti per i terzi, e come tali, non impugnabili
e non revocabili dall’amministrazione. Il parere obbligatorio del Consiglio di stato è previsto soltanto “sugli
schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più ministri”, sicché debbono
ritenersi abrogate le norme che prevedevano il parere preventivo obbligatorio sui singoli progetti di contratto
predisposti dai ministri.
Una funzione consultiva in ordine alla stesura di schemi di capitolati e nelle questioni relative alla
progettazione e all’esecuzione delle opere pubbliche è svolta sia dall’Avvocatura dello stato, sia dal
Consiglio superiore dei lavori pubblici, il cui parere obbligatorio è richiesto per tutti i progetti di lavori
pubblici di competenza statale di importo superiore a 25 milioni di euro. Dopo la drastica riduzione dello
spettro di atti statali soggetti a controllo preventivo della Corte dei conti, non è più richiesto il controllo di
tale organo sul progetto di contratto. Spesso la determinazione di contrattare o il progetto di contratto
costituiscono una fase esecutiva di una programmazione più generale: il metodo della programmazione è
espressamente previsto per i lavori pubblici di singolo importo superiore a 100.000 euro dall’art. 128, d.lgs.
163/2006. Sempre con riferimento alle opere pubbliche, va notato che la progettazione si articola in
preliminare, definitiva ed esecutiva.

2.2. La scelta del contraente e l’aggiudicazione: procedure aperte e ristrette

La seconda fase del procedimento ad evidenza pubblica è costituita dalla scelta del contraente. Le modalità
con cui tale scelta può essere effettuata sono l’asta pubblica, la licitazione privata, la trattativa privata e
l’appalto concorso.
Il dialogo competitivo è volto a definire le soluzioni preferibili relativamente ai soli appalti particolarmente
complessi, qualora le amministrazioni ritengano che il ricorso alla procedura aperta o ristretta non permetta
l’aggiudicazione dell’appalto; vanno pure ricordati il sistema dinamico di acquisizione (interamente
elettronico, per acquisti di beni disponibili sul mercato), le centrali di committenza (acquisiscono lavori,
forniture o servizi destinati ad altre amministrazione), le aste elettroniche (utilizzabili quando le specifiche
dell’appalto possono essere fissate in maniera precisa) e l’accordo quadro relativo a una pluralità di

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prestazioni da garantire nel tempo e caratterizzato dalla definizione delle condizioni generali di contratto. Ai
sensi dell’art. 3, r.d. 2240/1923, l’asta è obbligatoria per i contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato
(contratti attivi), salvo che per circostanze e ragioni particolari non sia opportuno far ricorso alla licitazione.
L’asta pubblica è il pubblico incanto aperto a tutti gli interessati che posseggano i requisiti fissati nel bando,
mentre la licitazione privata è la gara caratterizzata dal fatto che ad essa sono invitate a partecipare soltanto
le ditte che, in base ad una valutazione preliminare, sono ritenute idonee a concludere il contratto.
Nell’asta pubblica e nella licitazione privata l’amministrazione predefinisce compiutamente lo schema
negoziale, lasciando in bianco solo il nome del contraente ed il prezzo, senza che il privato possa negoziare i
contenuti del contratto.
Si tratta di due modelli di gara analoghi, fatto salvo il profilo della individuazione dei partecipanti alla gara.
La procedura è infatti ristretta nella gara privata e aperta in quella pubblica: è al riguardo significativo che a
livello di Unione europea si parli di procedure “aperte” e di procedure “ristrette” per indicare le gare che,
nel nostro ordinamento, rispettivamente corrispondono all’asta e alla licitazione.
La struttura della gara è caratterizzata dalla presenza del bando di gara (o avviso d’asta) nell’asta pubblica, e
dall’invito, indirizzato solo agli interessi, nella licitazione. Tali atti debbono indicare le caratteristiche del
contratto, il tipo di procedura seguita per l’aggiudicazione, i requisiti per essere ammessi, i termini e le
modalità da seguire per la presentazione delle offerte.
Con riferimento ai contratti più rilevanti, va osservato che, ai fini di limitare la discrezionalità nella scelta
della rosa dei possibili concorrenti e di superare i limiti di conoscenza del mercato da parte
dell’amministrazione, la legge ha introdotto una fase di preselezione nelle procedure ristrette:
l’amministrazione non procede direttamente all’invito, ma pubblica un bando indicando i “requisiti di
qualificazione”; le imprese interessate, purché in possesso dei requisiti, possono far richiesta di essere
invitate alla licitazione; soltanto a questo punto, l’amministrazione procede con l’invito. È chiaro che in tal
modo si attenuano le differenze rispetto all’asta pubblica, salvo il fatto che l’amministrazione conosce in
anticipo le ditte che parteciperanno alla gara, trattandosi di quelle che ne hanno fatto richiesta; nella
licitazione la verifica dei requisiti soggettivi viene effettuata al momento della pre-qualifica; ai sensi del
d.lgs. 33/2013, le amministrazioni sono obbligate a pubblicare le informazioni relative alle procedure per
l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture.
Il procedimento di gara si articola dunque nelle fasi della pubblicazione del bando e della presentazione delle
offerte ove si tratti di asta, mentre quella ristretta si svolge di norma con le seguenti scansioni: avviso o
bando; richiesta di invito da parte degli interessati; invito a partecipare rivolto dalla stazione appaltante agli
interessati; valutazione delle offerte; scelta di quella migliore e aggiudicazione.
I soggetti ammessi alle gare per l’affidamento di appalti pubblici, ai sensi del d.lgs. 163/2006, sono non solo
imprese e società, ma anche consorzi tra società cooperative e tra imprese artigiane, consorzi stabili, i
consorzi di concorrenti, gli operatori economici stabiliti in altri Stati membri e raggruppamenti temporanei
costituiti ai soli fini della partecipazione all’appalto dei predetti soggetti che conferiscono mandato collettivo
speciale con rappresentanza a uno di essi (capogruppo), il quale esprime l’offerta in nome e per conto anche
dei mandanti.
Bando e invito hanno rilevanza sul piano negoziale, nel senso che sono assimilabili all’invito a offrire.
Secondo quanto disposto dalla normativa sulla contabilità dello Stato, i sistemi d’asta sono il metodo delle
candele vergini, quello delle offerte segrete in busta chiusa da confrontarsi con un parametro stabilito
dall’amministrazione, il mezzo del pubblico banditore (l’incanto è effettuato a viva voce e l’asta dura fin
quando il banditore non dichiari chiusa la gara). Per quanto riguarda la licitazione, si può procedere con una
lettera invito ovvero con un’offerta-contratto. Nel primo caso , per mezzo di appositi avvisi, i soggetti
idonei sono invitati a comparire in luogo, ora e giorno determinati per presentare la propria offerta; nella
seconda ipotesi viene invitato uno schema di atto ai soggetti ritenuti idonei con invito a restituirlo firmato e
con l’offerta del prezzo. Problemi particolarmente delicati si profilano allorché il bando di gara sia in
contrasto con la legge: il concorrente deve impugnare immediatamente il bando ove contenga disposizioni
immediatamente lesive, in deroga al principio secondo cui può impugnare soltanto chi abbia legittimamente
partecipato alla gara. Parte della giurisprudenza ammette la disapplicabilità d’ufficio del bando ancorché
non impugnato dal privato che abbia proposto ricorso soltanto avverso l’atto di esclusione sul presupposto
che tale atto abbia natura normativa. Siffatta impostazione è stata comunque respinta dal Consiglio di Stato.
Il problema è delicato ove ci si collochi nella prospettiva dell’amministrazione: può essa non applicare un
bando che ritenga in contrasto con una legge? Secondo una prima tesi, l’amministrazione non può
disapplicare il bando, avendo soltanto a disposizione il potere di annullarlo in via di autotutela, unico mezzo
con cui l’atto illegittimo può essere rimosso dall’amministrazione. In questo modo, ove non vengano
esercitati poteri di autotutela, prevale il bando sulla legge, con il rischio che l’eventuale impugnativa del
soggetto pregiudicato, il quale censuri l’illegittimità del bando, vada a buon fine, determinando la
caducazione della gara nel suo complesso. Diverso è l’orientamento ad avviso del quale l’amministrazione
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può interpretare le clausole del bando in senso estensivo, addirittura riconoscendo ad essa un potere
discrezionale nel momento dell’emanazione dell’atto applicativo del bando; in particolare, le uniche
prescrizioni da dover essere rispettate a pena di esclusione sono quelle la cui inosservanza pregiudichi la par
condicio tra i concorrenti. Per quanto attiene al bando in contrasto con il diritto dell’Unione europea, nel
caso in cui il bando non sia stato impugnato tempestivamente e il ricorso, che ne invochi la incompatibilità
con il diritto dell’Unione europea, investa solo l’atto di esclusione, la Corte di Giustizia (con sent. 27
febbraio 2003) ha statuito che la normativa comunitaria sugli appalti (c.d. direttiva ricorsi) va interpretata nel
senso che impone ai giudici l’obbligo di dichiarare ricevibili i motivi del diritto basati sull’incompatibilità del
bando di gara con il diritto dell’Unione europea, anche ricorrendo la possibilità di disapplicare le norme
nazionali processuali di decadenza.
Le operazioni di gara volte a prendere cognizione delle offerte e a compararle sono verbalizzate dall’ufficiale
rogante (anche l’apertura dell’offerta tecnica va svolta in seduta pubblica: ad. plen. N. 13/2011) e si
concludono con l’aggiudicazione.
L’aggiudicazione è l’atto amministrativo con cui viene accertato e proclamato il vincitore da parte del
soggetto che presiede la celebrazione dell’asta o la commissione di valutazione delle offerte in sede di
licitazione privata. Si parla di aggiudicazione provvisoria nei casi in cui essa debba essere oggetto di verifica
del possesso dei requisiti da parte dell’aggiudicatario; l’art. 11, d.lgs. 163/2006 stabilisce che
l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta: dal punto di vista sistematico, ciò porta
a escludere che essa abbia valore negoziale, da attribuire invece alla successiva stipulazione.

2.3. Appalto integrato, procedura negoziata e servizi in economia

Può accadere che l’amministrazione, non essendo in grado di predefinire unilateralmente lo schema del
contratto, richieda la collaborazione dei privati anche al fine di redigere il progetto dell’opera che intende
realizzare.
L’appalto concorso viene utilizzato nei casi tassativamente indicati dalla legge,quando l’amministrazione, in
base a prestabilite norme di massima, richiede ai privati di presentare progetti tecnici e le condizioni alle
quali essi siano disposti ad eseguirli (art. 4, r.d. 2440/1923); esso consta dunque di una gara relativa al
progetto, cui segue una sorta di trattativa privata con il soggetto di cui sia stato prescelto il progetto tecnico.
Il c.2 dell’art. 53, d.lgs. 163/2006 definisce l’appalto integrato prevedendo che l’appalto di lavori pubblici
possa avere ad oggetto non soltanto l’esecuzione, ma anche la progettazione esecutiva e l’esecuzione.
Nell’ipotesi in cui il concorso abbia solo ad oggetto la presentazione dei progetti, si rientra nel metodo del
“concorso di idee”, sistema affermatosi nella prassi e ora espressamente disciplinato (art. 57, d.lgs.
163/2006).
In altri casi, la formazione del contratto non può che avvenire sulla base di una trattativa con la controparte.
Nella trattativa privata, impiegabile in situazioni tassativamente indicate (in caso di gara andata deserta,
nelle ipotesi di urgenza o quando sul mercato vi sia un unico soggetto in grado di stipulare il contratto),
l’amministrazione dispone di una maggiore discrezionalità nella scelta del privato contraente, il
procedimento amministrativo risulta molto più snello rispetto alle altre figure, vi è una fase di negoziazione
diretta tra amministrazione e privato e manca l’aggiudicazione. Il d.lgs. 163/2006, in luogo del richiamo alla
trattativa privata, utilizza la nozione di “procedura negoziata”, prevedendo una procedura distinta a seconda
che sia necessaria la pubblicazione di un bando di gara. La semplicità e l’informalità della procedura
comportano minori garanzie per i privati interessati. In caso di trattativa, il momento pubblicistico si colloca
prima e dopo la formazione del contratto, investendo la determinazione a contrattare e l’approvazione del
contratto.

2.4. Stipulazione, approvazione, controllo ed esecuzione del contratto

Le altre fasi della procedura ad evidenza pubblica, successive alla deliberazione a contrattare e alla scelta del
contraente, sono costituite dalla stipulazione, dall’approvazione e dal controllo. In relazione alla
stipulazione, va osservato, che secondo la giurisprudenza, i contratti della pubblica amministrazione
debbono sempre essere conclusi per scritto, anche se non attengono a beni immobili. In ogni caso,
nell’ambito dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, l’art. 11, d.lgs. 163/2006, stabilisce che il
contratto è stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica
secondo le norme vigenti per ciascuna stazione appaltante, in forma pubblica amministrativa a cura
dell’ufficiale rogante dell’amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata.
Il d.lgs. 53/2010, esercitando la delega conferita dal’ art. 44, l. 88/2009, ha dato attuazione alla direttiva
66/2007/Ce (c.d. seconda direttiva ricorsi). Essa mira a garantire che il ricorso possa essere proposto prima
della stipula del contratto. Ciò si traduce nell’istituto dello stand-still: la conclusione del contratto non può
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avvenire prima dello scadere di un termine (sospensivo) decorrente dal giorno successivo alla data in cui la
decisione di aggiudicazione è stata inviata agli interessati. Il d.lgs. 53/2010 ha fissato in trentacinque giorni
questo termine, facendolo decorrere dall’invio dell’ultima comunicazione del provvedimento di
aggiudicazione definitiva.
Ai fini di una tempestiva comunicazione, l’art. 79, u.c., codice dei contratti, stabilisce che il bando o l’avviso
con cui si indice la gara o l’invito nelle procedure senza bando fissano l’obbligo del candidato o concorrente
di indicare, all’atto di presentazione della candidatura o dell’offerta, il domicilio eletto per le comunicazioni;
il bando o l’avviso possono altresì obbligare il candidato o concorrente a indicare l’indirizzo di posta
elettronica o il numero di fax al fine dell’invio delle comunicazione.
Un secondo stand-still period impedisce la stipula o l’esecuzione del contratto nel caso di proposizione di un
ricorso. Il d.lgs. 53/2010, in particolare, introduce il divieto per la stazione appaltante di stipulare il contratto,
ma unicamente in caso di proposizione di un ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva che contenga anche
la domanda cautelare. L’esecuzione del contratto così concluso può essere subordinata ad approvazione da
parte della competente autorità (art. 12, codice dei contratti). Si tratta di una condicio juris di efficacia del
contratto, la quale è estranea rispetto alla fase formativa del contratto in sé considerato: una volta intervenuta,
il contratto produce effetti dal momento della stipulazione o dell’aggiudicazione che tiene luogo del contratto
stesso. L’amministrazione si trova in tal modo in una posizione di preminenza, claudicante che dà luogo a
una situazione in cui all’obbligo del privato, scaturente dalla conclusione del regolare contratto, non si
contrappone un analogo vincolo per l’amministrazione, la quale anzi dispone di alcuni poteri (come quello di
approvazione del contratto) il cui esercizio potrebbe impedire l’eseguibilità del contratto stesso.
Si parla in dottrina di contratto claudicante, proprio per indicare la supremazia dell’amministrazione nella
fase successiva alla espressione del consenso, ma antecedente all’approvazione del contratto già concluso. Il
rifiuto di approvazione del contratto concluso è riconosciuto legittimo dalla giurisprudenza quando sia
giustificato dalla presenza di vizi di legittimità presenti nella procedura o dalla inesistenza della copertura
finanziaria, ovvero dalla sussistenza di gravi motivi di interesse pubblico (si pensi al verificarsi di
sopravvenienze come le calamità naturali, che impedirebbero la costruzione dell’opera o la riduzione dei
finanziamenti) oppure ancora dall’incongruità dell’offerta o dall’eccessiva onerosità del prezzo. In tema di
approvazione di contratti già stipulati, il codice dei contratti pubblici, all’art. 12 stabilisce che, una volta
decorso il termine previsto dai singoli ordinamenti o, in mancanza, quello di trenta giorni, il contratto di
intende approvato.
I decreti di approvazione dei contratti dello Stato, costituenti la sede in cui si assume l’impegno contabile
della spesa (sempreché si tratti di contratti passivi) collegata al nascere dell’obbligazione contrattuale, sono
inviati agli uffici centrali del bilancio per la registrazione dell’impegno di spesa stesso e, nei casi previsti
dalla legge, sono sottoposti a controllo preventivo della Corte dei conti, fase questa che, fino alla sua
conclusione, impedisce al contratto di divenire esecutivo. Successivamente alla conclusione e al
perfezionamento degli eventuali procedimenti di approvazione e di controllo, il contratto è efficace e viene
eseguito dai contraenti nel rispetto delle norme civilistiche, fatte salve le prescrizioni relative ai poteri di
speciali riconosciuti in capo all’amministrazione nell’ipotesi di lavori pubblici.

2.5. Concessioni e appalti nei settori speciali

Il Codice dei contratti pubblici disciplina anche la concessione e gli appalti nei settori c.d. speciali. La
concessione, utilizzabile soltanto quando abbia ad oggetto, oltre all’esecuzione, anche la gestione delle
opere, è affidata mediante procedura aperta o ristretta con il metodo dell’offerta economicamente più
vantaggiosa (art. 144). La concessione di costruzione e la concessione di costruzione ed esercizio, ha
dovuto recentemente confrontarsi con la normativa comunitaria, preoccupata di evitare che uno strumento
nato per consentire ai privati di sostituirsi all’amministrazione nella realizzazione complessiva di opere di sua
competenza, si trasformasse in un mezzo per eludere la più rigida disciplina comunitaria in materia di appalti.
Le concessioni di lavori pubblici sono contratti a titolo oneroso, conclusi in forma scritta, aventi ad oggetto
l’esecuzione, ovvero la progettazione esecutiva e l’esecuzione, ovvero la progettazione definitiva, la
progettazione esecutiva e l’esecuzione di lavori pubblici o di pubblica utilità, e di lavori ad essi
strutturalmente e direttamente collegati, nonché la loro gestione funzionale ed economica, che presentano le
stesse caratteristiche di un appalto pubblico di lavori, ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori
consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera o in tale diritto accompagnato da un prezzo (art. 143, Codice
dei contratti). La durata della concessione può essere superiore a trenta anni quando sia necessario assicurare
il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti.
La Commissione delle comunità europee, con comunicazione interpretativa del 12 aprile 2000, ha precisato
che nel diritto dell’Unione europea il carattere peculiare della concessione di lavori sarebbe costituito dal

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trasferimento al concessionario dell’alea relativa alla gestione dell’opera: non si tratta, dunque, del rischio
tipico imprenditoriale, ma del rischio di mercato.
Il Codice dei contratti pubblici disciplina anche:
− il leasing, contratto avente ad oggetto la prestazione di servizi finanziari e l’esecuzione di lavori,
utilizzabile per la realizzazione, l’acquisizione e il completamento di opere pubbliche o di pubblica
utilità. Dietro versamento di un canone periodico, il bene viene concesso in godimento da un locatore
al committente pubblico/locatario, che può riscattarlo dopo un certo numero di anni;
− il contratto di disponibilità, mediante il quale sono affidate a un privato la costruzione e la messa a
disposizione a favore dell’amministrazione aggiudicatrice di un’opera di proprietà privata destinata
all’esercizio di un pubblico servizio, a fronte di un corrispettivo. È lo stesso fornitore del bene a
concederlo all’utente a fronte del canone periodico, senza che quell’utente incorra nei rischi tipici
derivanti dall’assunzione della qualità di proprietario; l’affidatario assume il rischio della costruzione
e della gestione tecnica dell’opera per il periodo di messa a disposizione dell’amministrazione
aggiudicatrice. L’amministrazione corrisponde un canone, proporzionalmente ridotto o annullato nei
periodi di ridotta o nulla disponibilità della stessa per manutenzione, vizi o qualsiasi motivo non
rientrante tra i rischi a carico dell’amministrazione aggiudicatrice;
− il contratto di sponsorizzazione: si tratta di una figura con cui l’amministrazione mira a ottenere un
risparmio di spesa, mentre il privato sponsor punta alla valorizzazione del proprio logo/marchio/
immagine durante lo svolgimento di determinate attività. L’acquisizione o la realizzazione di lavori,
servizi e forniture, a cura e spese dello sponsor, è sottratta al regime ordinario del codice, dovendosi
semplicemente farsi applicazione degli obblighi di trasparenza e di pubblicità;
− lo strumento del project financing: si tratta di una tecnica di finanziamento per l’esecuzione delle
opere pubbliche caratterizzata dal ricorso al finanziamento dei privati (artt. 153 e ss). In particolare,
l’istituto trova applicazione con riferimento a quelle opere e attività in grado di produrre flussi di
cassa a compensazione delle somme ottenute per finanziare l’operazione complessiva.

Per lungo tempo la normativa comunitaria ha escluso dal proprio ambito di applicazione gli appalti relativi ai
settori del gas, dell’energia termica, dell’acqua, dell’elettricità, dei trasporti, dei servizi postali e dello
sfruttamento di area geografica di rilevanza comunitaria (c.d. settori esclusi). In relazione a questi settori, la
parte III del codice individua il proprio ambito soggettivo di applicazione anche con riferimento alle imprese
pubbliche e a peculiari soggetti privati (quelli che agiscono sulla base di diritti speciali ed esclusivi: si tratta
dei diritti costituiti per legge, per regolamento o in virtù di una concessione o altro provvedimento
amministrativo avente per effetto di riservare ad uno o più soggetti l’esercizio delle attività) che operano nei
settori sopra indicati. Al riguardo, si consideri che proprio in virtù del fatto che le attività di gestione nei
settori in esame sono di competenza non soltanto di enti pubblici, ma anche di privati, occorre prescindere
dalla natura giuridica pubblica del soggetto aggiudicatore. La gara può essere avviata non solo sulla base del
tradizionale bando, ma anche a seguito di un avviso periodico (relativo ai contratti che saranno stipulati nel
corso dell’anno) o sulla base di un sistema di qualificazione istituito e gestito dall’ente aggiudicatore (che
selezionerà i concorrenti all’interno di quelli inseriti nel sistema).

2.6. Interessi legittimi, vizi del procedimento amministrativo e riflessi sulla validità del contratto

Gli atti compiuti dall’amministrazione in vista della conclusione del contratto sono sempre finalizzati al
perseguimento di interessi pubblici e, di conseguenza, non sono riconducibili agli atti di autonomia dei
privati. Gli atti del c.d. procedimento ad evidenza pubblica non producono direttamente modificazioni
giuridiche unilaterali, almeno nel senso che sono destinati ad essere integrati dal consenso privato e che la
disciplina giuridica del rapporto deriva non già da essi, bensì dal contratto.
Problematica si presenta la questione della configurabilità di interessi legittimi a fronte dell’emanazione degli
atti del procedimento ad evidenza pubblica, posto che gli interessi legittimi sono correlati normalmente
all’esercizio di tradizionali poteri amministrativi destinati ad incidere sulle posizioni giuridiche dei privati in
modo unilaterale. La delibera a concludere un contratto a trattativa privata, che pregiudica l’interesse protetto
dell’imprenditore il quale aspira a partecipare alla gara (Cons. Stato, sez. V, n. 454/1996), e l’aggiudicazione
o l’approvazione del contratto, possono quindi essere lesivi di interessi legittimi e di conseguenza ven1re
autonomamente impugnati. A seguito dell’annullamento (giurisdizionale o in via di autotutela) degli atti
amministrativi e dei loro effetti si producono conseguenze che si riverberano sulla validità del contratto.
Secondo la giurisprudenza più risalente del giudice ordinario, l’annullamento con effetto ex tunc degli atti
amministrativi emanati in vista della conclusione del contratto (deliberazione di contrattare, bando,
aggiudicazione) incide sulla sua validità in quanto priva l’amministrazione della legittimazione e della

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capacità stessa (art. 1425 c.c.) a contrattare, determinando l’annullabilità del contratto. Siffatto
annullamento può però essere pronunciato solo su richiesta dell’amministrazione, la quale sarebbe l’unica
parte interessata ai sensi dell’art. 144 1 c.c. («l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla
parte nel cui interesse è stabilito dalla legge»). Altra tesi è quella secondo cui il contratto che viene stipulato
a seguito di un’aggiudicazione illegittima sarebbe destinato alla caducazione automatica, che non richiede
alcuna pronuncia giurisdizionale ulteriore, come conseguenza dell’annullamento della aggiudicazione,
considerata atto presupposto e richiamando l’istituto privatistico del collegamento negoziale che, nel caso di
specie, ricorrerebbe però tra atti eterogenei. Si è altresì sostenuto che il contratto risulterebbe affetto da
inefficacia sopravvenuta relativa: al fine di tutelare i terzi in buona fede (e, cioè, il contraente), si è
invocata l’applicazione analogica degli artt. 23 e 25 c.c., che, con riferimento alle associazioni e alle
fondazioni, fanno salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della
deliberazione.
Si dibatteva poi in ordine all’individuazione del giudice cui spettasse la giurisdizione sulle controversie
attinenti alla sorte del contratto. Le questioni della sorte del contratto dopo l’annullamento giurisdizionale
dell’aggiudicazione, della sorte del contratto a seguito dell’annullamento in via di autotutela
dell’aggiudicazione e della spettanza delle controversie alla giurisdizione del giudice ordinario o del giudice
amministrativo, hanno impegnato a lungo la dottrina e la giurisprudenza; questi problemi hanno trovato
parziale soluzione in forza al d.lgs. 53/2010 (poi “confluito” nel codice del processo amministrativo: d. lgs.
104/2010) che, sul piano processuale, ha ricondotto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
la cognizione delle controversie che attengono anche alla sorte del contratto a seguito dell’annullamento
giurisdizionale dell’aggiudicazione, mentre, sul piano sostanziale, prevede che il contratto possa essere in
questi casi dichiarato inefficace dal giudice.
Ai sensi dell’art. 21-sexies, l. 241/1990, il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è
ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto. L’art. 21-quinquies, peraltro, complica il quadro di
riferimento, atteso che, menzionando la revoca di atti amministrativi che incida su rapporti negoziali,
sembrerebbe indurre ad ammettere che l’amministrazione, anche dopo la stipula del contratto, possa revocare
l’aggiudicazione, così sciogliendosi automaticamente dai vincoli contrattuali, fatto salvo l’obbligo di
corrispondere un indennizzo.
Ritornando sulla possibilità che l’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione dopo la stipula del
contratto incida sul contratto medesimo, si pone il problema della sorte nel negozio, non direttamente
interessato dal vizio che colpisce solo l’atto presupposto di aggiudicazione. La giurisprudenza ha sposato la
tesi della caducazione automatica del contratto secondo il principio simul stabunt, simul cadent; in dottrina
vi è chi sostiene che possa applicarsi la disciplina sostanziale tratta dal codice civile. Dal punto di vista
processuale, Cass., sez. un., ord. n. 14260/2012, ha statuito che appartengono alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo anche le controversie relative all’inefficacia del contratto come conseguenza
dell’annullamento in via di autotutela dell’aggiudicazione. Un regime diverso del contratto stipulato in
violazione delle regole che l’amministrazione deve osservare è stabilito da alcune disposizioni che
perseguono la finalità di garantire il buon uso delle risorse pubbliche e che richiamano la figura della nullità.

3. Gestione d’affari, arricchimento senza causa e pagamento di indebito

Analizziamo ora alcune altre fattispecie che possono costituire fonti di obbligazioni.
La gestione d’affari è disciplinata dagli artt. 2028-2032 c.c., ove è previsto l’obbligo in capo a chi,
scientemente e «senza esservi obbligato, assume la gestione di un affare altrui», di continuare la gestione
stessa e di condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da sé. Questi, qualora la
gestione «sia utilmente iniziata», ha l’obbligo di adempiere le obbligazioni che il gestore abbia assunto in suo
nome e deve tenerlo indenne di quelle da lui assunte in nome proprio, rimborsandogli altresì le spese
necessarie o utili.
L’istituto può applicarsi all’amministrazione nell’ipotesi in cui un terzo gestisca affari di spettanza del
soggetto pubblico, purché, come si esporrà appresso, non si tratti dell’esercizio di pubbliche potestà; la
giurisprudenza ha introdotto la regola secondo cui l’utilità della gestione deve essere accertata con un atto di
riconoscimento da parte dell’amministrazione, a differenza di quanto accade nell’ipotesi in cui l’azione sia
esperita tra privati. Siffatta regola è stata desunta dal principio di cui all’art. 4 della l. 2248/1865, all. E, il
quale impedisce al giudice ordinario di sostituirsi alle scelte di spettanza dell’amministrazione stessa.
Le limitazioni introdotte all’istituto contribuiscono a spiegare la maggior diffusione che ha conosciuto quello
dell’arricchimento senza causa, o actio de in rem verso (al quale è attribuito il ruolo di rimedio sussidiario)
disciplinato dal c.c. agli artt. 2041 e 2042, prescrivendosi in particolare che «chi, senza una giusta causa, si è
arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima
della correlativa diminuzione patrimoniale». L’arricchimento consiste nel vantaggio che può essere
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rappresentato da un incremento del patrimonio, da un risparmio di spesa o dalla mancata perdita di beni. Le
ipotesi che qui interessano particolarmente sono quelle in cui il soggetto arricchito è l’amministrazione.
L’istituto dell’arricchimento senza causa può peraltro trovare applicazione nel caso in cui l’amministratore,
funzionario o dipendente, infatti, è titolare, nei confronti dell’ente pubblico che si sia eventualmente
arricchito, dell’azione diretta di indebito arricchimento; il contraente privato è a sua volta legittimato ad agire
contro l’ente medesimo, anche contestualmente alla domanda nei confronti del funzionario, per assicurare
che siano soddisfatte o conservate le ragioni del proprio debitore (che sia creditore verso l’amministrazione)
quando il patrimonio di quest’ultimo non offra adeguata garanzia.
Ai sensi dell’art. 194, T.U. enti locali, gli enti locali hanno la possibilità di riconoscere i debiti fuori bilancio
derivanti da acquisizione di beni e servizi senza delibera autorizzata o impegno contabile, purché siano
accertati e dimostrati l’«utilità» e l’«arricchimento» per l’ente nell’ambito dell’espletamento di pubbliche
funzioni e servizi di competenza. Anche in relazione all’arricchimento senza causa, la giurisprudenza, in
ossequio al principio di cui all’art. 4 , l. 2248/1865, all. E, individua un ulteriore presupposto per l’esercizio
dell’actio de in rem verso nei confronti dell’amministrazione, costituito dal riconoscimento esplicito o
implicito dell’utilità dell’opera da parte del soggetto pubblico, riconoscimento che può derivare anche
dall’utilizzazione concreta dell’attività o dell’opera.
Infine occorre accennare al pagamento di indebito (indebito oggettivo), che trova applicazione in primo
luogo nelle ipotesi in cui l’amministrazione abbia disposto a favore dei propri dipendenti il pagamento di
somme in eccedenza rispetto a quelle che avrebbe dovuto versare.
La giurisprudenza ha progressivamente introdotto il principio della tutela dell’affidamento ingenerato nel
privato in buona fede: più precisamente la legittimità della scelta dell’amministrazione (che si concretizza in
un atto amministrativo) di agire per la ripetizione dell’indebito viene valutata anche alla stregua di questo
affidamento; per altro verso, la ripetizione delle somme pagate indebitamente da alcune amministrazioni
trova una propria peculiare disciplina, la quale rende rilevante l’elemento psicologico del beneficiato.
Nella prassi amministrativa si è imposto un peculiare istituto, denominato riconoscimento di debito. Esso
viene utilizzato allorché, a seguito della realizzazione di opere o dell’effettuazione di servizi da parte di
un’impresa al di fuori del contesto contrattuale, derivi un vantaggio per l’amministrazione. L’atto di
riconoscimento di debito è ritenuto legittimo dalla giurisprudenza contabile quando, a fronte della esecuzione
di lavori o all’effettuazione di prestazioni, dimostrata l’impossibilità di ricorrere ai normali schemi
contrattuali, l’amministrazione valuti autonomamente l’utilità dell’opera o del servizio effettuati dal privato e
motivi congruamente al riguardo. Il riconoscimento di debito consente il legittimo impegno di spesa.

4. La responsabilità civile dell’amministrazione e dei suoi agenti: l’art. 28 Cost. e la responsabilità


extracontrattuale

Il problema della responsabilità della pubblica amministrazione, da quando è stata ammessa nei confronti
dei cittadini anche per l’attività di diritto pubblico da essa posta in essere, si è sempre e ovunque rivelato di
difficile soluzione. Si tratta infatti di conciliare la necessità di tutelare i cittadini di fronte agli illeciti dannosi
perpetrati dai pubblici poteri, secondo i principi dello Stato di diritto, con quella di salvaguardare le
pubbliche finanze da risarcimenti insostenibili, causati da interventi capaci di recare pregiudizio a collettività
talvolta assai vaste.
La Costituzione del 1948 pone per la prima volta disposizioni concernenti la responsabilità
dell’amministrazione e dei suoi agenti. L’art. 28 Cost. recita: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli
enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti
compiuti in violazione di diritti»; e aggiunge: «In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli
enti pubblici».
Per rimanere nell’ambito della responsabilità civile, il richiamo all’applicazione delle «leggi civili» permette
di completare la fattispecie di illecito lacunosamente disciplinata dall’art. 28 con la indicazione del solo
requisito della «lesione di diritti». Per quanto riguarda gli altri requisiti, occorre far riferimento all’art. 2043
c.c. ove essi siano contenuti. Identificata dunque la iniuria, basta ricordare che essi sono: la condotta
(comportamento attivo od emissivo imputabile all’agente); un danno, ossia un pregiudizio economico o
comunque valutabile in termini economici; la dolosità o colposità della condotta; il nesso di causalità tra la
condotta e il danno.
L’essenza del rapporto di servizio, o, per i privatisti, di preposizione, non è sufficiente a determinare la
responsabilità dell’ente pubblico: occorre infatti che l’illecito sia stato commesso nell’esercizio delle
incombenze inerenti al posto ricoperto. E, ai sensi dell’art. 2049 c.c., basta un nesso di occasionalità
marginale con esse, non esclusa dalla condotta dolosa del soggetto agente.

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5. La disciplina posta dal legislatore ordinario: il t.u. degli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 3/1957)

Il dettato dell’art. 28 Cost. non ha tuttavia distolto una parte della dottrina e la giurisprudenza dal continuare
a sostenere, anche dopo la sua entrata in vigore, la tesi della responsabilità diretta della pubblica
amministrazione.
Il legislatore ordinario ha incluso un intero capo (il II del titolo II), dedicato alla responsabilità, nel t.u. dello
statuto degli impiegati civili dello Stato (d.p.r. 3/1957), le cui disposizioni sono state successivamente estese,
in via legislativa o interpretativa, a tutti i soggetti contemplati nell’art. 28 Cost. E così, sotto la rubrica
«responsabilità verso i terzi», l’art. 22 del citato decreto, sancisce la personale responsabilità dell’impiegato
«che cagioni ad altri un danno ingiusto», definendo ingiusto (art. 23) il danno «derivante da ogni violazione
dei diritti dei terzi commessa con dolo o colpa grave». Rilevanti sono poi gli artt. 23 (responsabilità degli
organi collegiali: tutti i membri sono responsabili in solido, salvo il caso di dissenso espresso e fatto
constatare nel verbale) e 30 (ai sensi del quale il mancato esercizio dell’azione del terzo nei confronti del
dipendente, la reiezione della domanda, la presenza di rinunce o di transazioni non escludono che il
comportamento del dipendente medesimo sia valutato dall’amministrazione al fine di farne valere la
responsabilità nei propri confronti).

6. I riflessi di tale disciplina su dottrina e giurisprudenza: la responsabilità diretta della pubblica


amministrazione e la responsabilità dei suoi funzionari e dipendenti

La sopravvenuta diversità di disciplina rispetto a quella originaria ha determinato conseguenze di


grandissimo rilievo. In primo luogo, in base alla interpretazione della Corte costituzionale, limitare mediante
leggi amministrative la responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici, altrettante limitazioni in via di
principio avrebbero dovuto ex art. 28 Cost. applicarsi alla responsabilità degli enti pubblici. Fu rafforzata la
tesi della c.d. responsabilità diretta o per fatto proprio della pubblica amministrazione, da ricondursi ad una
fattispecie di illecito diversa rispetto a quella di cui all’art. 28 Cost. sulla responsabilità della persona fisica
agente. In essa l’elemento soggettivo non è quello della colpa grave, come stabilisce il cit. art. 23 del t.u.
3/1957 per i funzionari e dipendenti pubblici, bensì la colpa dell’uomo medio che è un grado più attenuato di
colpa; questa veniva richiesta soltanto ove si trattasse di attività c.d. materiale dell’ente pubblico, non invece
quando il danno immediatamente derivasse da un atto amministrativo o dalla sua esecuzione.
L’orientamento ora richiamato in ordine all’elemento soggettivo è stato abbandonato con l’importante
sentenza-pilota n. 500/1999 delle sezioni unite della Corte di cassazione ove è chiaramente affermato che il
giudice dovrà effettuare, in tale ipotesi, un’indagine estesa alla valutazione della colpa, non del funzionario
agente, ma della pubblica amministrazione intesa come apparato, che sarà configurabile «nel caso in cui
l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in
violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della
funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come
limiti esterni alla discrezionalità».
Si può tracciare un quadro generale della disciplina della responsabilità civile dei dipendenti pubblici, di
quella della pubblica Amministrazione e dei rapporti tra di esse. E appare evidente come la fattispecie di
illecito dei primi presenti rilevanti differenze nei confronti della seconda. Per essi è richiesta la colpa grave,
per questa (attività materiale) è sufficiente la colpa dell’uomo medio.
Muta il giudice: la responsabilità dell’amministrazione per i danni cagionati da attività provvedimentale è
giudicata dal giudice amministrativo, quella del dipendente spetta alla giurisdizione del giudice ordinario. In
altri termini, riguardo al medesimo illecito civile esistono, in relazione alla posizione dell’amministrazione e
a quella dell’agente, due discipline alternative assai diverse dal lato sostanziale e dal lato processuale, la cui
applicazione è rimessa all’arbitrio del terzo danneggiato e tali da condurre a esiti dei relativi giudizi
profondamente difformi, al limite addirittura opposti.
L’art. 3, c. 59, l. 244/2007 ha previsto la nullità dei contratti di assicurazione con cui l’ente assicuri propri
amministratori contro i rischi connessi alla responsabilità amministrativa e contabile. Per quanto attiene
invece all’assicurazione contro i rischi dei dipendenti conseguenti all’espletamento della loro attività
(responsabilità verso i terzi), esistono alcune norme autorizzative di legge o della contrattazione collettiva.

7. I recenti indirizzi ampliativi della responsabilità della pubblica amministrazione. In particolare:


la responsabilità precontrattuale

Negli anni recenti, pur rimanendo immutati i lineamenti fondamentali della responsabilità della pubblica
Amministrazione, si sono potuti riscontrare, soprattutto in giurisprudenza, taluni ripensamenti, rivolti in parte

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ad una più razionale applicazione di principi ormai consolidati, in parte ad una revisione di posizioni da
sempre oggetto di critiche in dottrina. La giurisprudenza estende ad esempio con sempre maggiore ampiezza
agli enti pubblici quelle norme del codice civile che prevedono ipotesi particolari di illecito e che in passato
erano state ritenute ad essi inapplicabili.
Importante è l’ammissione, nei confronti degli enti pubblici, dell’istituto della responsabilità
precontrattuale per violazione dell’art. 1337 c.c. (dovere di buona fede nelle trattative e nella formazione
del contratto: Cass., n. 4382/2012) e dell’art. 1338 c.c. (che si occupa del dovere di comunicare all’altra parte
le cause di invalidità del contratto). Avverso questa estensione veniva affermato in giurisprudenza che il
sindacato sulle modalità di conduzione delle trattative e sulla condotta della pubblica amministrazione fino al
momento dell’approvazione, ove prevista, del contratto da parte dell’organo di controllo, necessaria ai fini
del sorgere della obbligazione, avrebbe costituito una indebita ingerenza nell’esercizio dei poteri
discrezionali ad essa attribuiti, senza considerare che dove esiste mala fede si è al di fuori di qualsiasi
legittima scelta di soluzioni possibili e dunque di esercizio di discrezionalità.
In ogni caso, tale responsabilità viene esclusa, da un lato, nell’ipotesi in cui il privato abbia dato esecuzione
non richiesta a un negozio con l’amministrazione invalido in base a disposizioni generali da presumersi note
all’interessato, e quindi non a seguito di formale stipulazione, dall’altro, con riguardo al procedimento
amministrativo strumentale alla scelta del contraente (c.d. evidenza pubblica): nell’ambito del relativo
procedimento l’aspirante alla stipulazione del contratto ha infatti esclusivamente un interesse al corretto
esercizio del potere di scelta. Parte della giurisprudenza amministrativa, in base alla teoria del «contatto
amministrativo qualificato» ha talora invece ammesso in tali casi la responsabilità, peraltro spesso definita
come contrattuale. La giurisprudenza
più recente, però, sembra aver riconosciuto la rilevanza delle regole di buona fede e correttezza in ordine
all’attività provvedimentale dell’ amministrazione utilizzando lo schema della responsabilità precontrattuale:
Cons. Stato, ad. plen. n. 6/2005, in particolare, ha ritenuto che le controversie in tema di revoca degli atti
della procedura ad evidenza pubblica rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo.

8. Il problema del risarcimento degli interessi legittimi

Assai controverso è il tema del risarcimento degli interessi legittimi. Il problema, prospettato nei termini di
risarcibilità degli interessi legittimi in quanto tali, è mal posto. Fino al recente passato, allo scopo di saggiare
la sostenibilità della tesi che ammette la risarcibilità degli interessi legittimi, occorreva distinguere alcune
ipotesi principali.
L’annullamento giurisdizionale di atto amministrativo che comprimesse illegittimamente un diritto
consolidato, eliminando la causa di compressione del diritto, apriva la via, in presenza degli altri elementi
dell’illecito, al risarcimento del danno patito dal privato per il periodo di indebita limitazione della sua
situazione di diritto soggettivo. n risarcimento deriva tuttavia in tal caso dalla lesione non già dell’interesse
legittimo, bensì del diritto. Nell’ipotesi di lesione di diritti in «attesa di espansione», nonostante il
precedente orientamento negativo della giurisprudenza, non sussistevano ostacoli insormontabili ad
ammettere il risarcimento del danno patito dal privato anche in tal caso. Occorre considerare che
l’ordinamento risolve conflitti intersoggettivi fornendo tutela ad interessi (tradizionalmente identificati con i
diritti soggettivi) dei privati, la cui lesione integra la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c., ma non è affatto
escluso che altri interessi «meritevoli di tutela», correlati a beni della vita particolarmente importanti,
possano essere individuati come protetti e che la loro lesione apra la via al risarcimento. La Corte di
cassazione, con la sentenza n. 500/1999, precisa che il diritto al risarcimento del danno è «distinto dalla
posizione giuridica soggettiva la cui lesione è fonte di danno ingiusto che può avere, indifferentemente,
natura di diritto soggettivo, di interesse legittimo o di interesse comunque rilevante per l’ordinamento».
Va sottolineato che l’atto lesivo di interessi meritevoli di tutela risarcibili e collegati a interessi legittimi,
illecito perché causa di danno ingiusto, è tale soltanto se risulta anche illegittimo, sicché tale illegittimità
diventa un presupposto dell’illiceità. Circa la meritevolezza dell’interesse, è di rilievo quanto affermato da
Cons. Stato, ad. plen. n. 7/2005 , secondo cui il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente il
passaggio a riparazioni per equivalente solo “quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione
con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali”.
Corte cost. n. 204/2004 conferma la concentrazione in capo al giudice amministrativo delle questioni
risarcitorie connesse all’attività provvedimentale dell’amministrazione. Tale soluzione è ora sposata dal
codice del processo (d.lgs. 104/2010), che all’art. 7 non lascia spazi alla giurisdizione di giudici diversi
quanto alle controversie risarcitorie originate dalla lesione di interessi legittimi.
La Cassazione, con tre parallele decisioni (6594, 6595 e 6596 del 2011), ha delineato nuovamente uno spazio
di giurisdizione a favore del giudice ordinario. Quanto al tipo di responsabilità civile configurabile in capo
all’amministrazione si potrebbe astrattamente discutere se trattasi di responsabilità precontrattuale,
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contrattuale o extracontrattuale. La giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee ammette
la responsabilità dello Stato per danni causati al singolo da violazione del diritto dell’Unione europea, anche
nell’ipotesi di c.d. illecito del legislatore (Cass., sez. un., n. 9147/2009, che riconduce tale forma di illecito
all’area della responsabilità contrattuale).

9. La responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione, la responsabilità da contatto e il


danno da ritardo

La responsabilità civile, fin qui illustrata concerne l’illecito collegato all’emanazione di un provvedimento;
essa è stata tradizionalmente inquadrata nella c.d. responsabilità extracontrattuale, ossia in quella che ha
come fonte un fatto illecito, costituito, secondo la tradizionale definizione, dalla violazione del generale
obbligo del neminem laedere.
È opportuno sottolineare che cosa diversa è la responsabilità contrattuale, fondata sulla violazione di un
rapporto obbligatorio già vincolante tra le parti, sorto in virtù di contratto, ex lege, per atto unilaterale o da un
precedente fatto illecito (obbligazione di risarcimento).
Se l’inadempimento, in tali campi come in ogni altro, fa sorgere la responsabilità in capo alla sola
amministrazione, unica obbligata, risulta irrilevante la distinzione tra responsabilità diretta e responsabilità
indiretta, propria della responsabilità extracontrattuale. Il funzionario o il dipendente rimane estraneo alla
responsabilità ex art. 1218 c.c. e contro di lui non si potrà rivolgere il terzo, appunto perché il diritto leso ha
come correlato soltanto l’obbligo dell’amministrazione, non della persona fisica agente, il cui dovere
d’ufficio sussiste soltanto verso la prima, non verso il secondo, e la cui violazione sarà, semmai, fonte di
responsabilità amministrativa nei confronti dell’ente per le conseguenze pecuniarie dell’inadempimento e
comunque non potrà mai costituire causa non imputabile all’ente pubblico della impossibilità e del ritardo
della prestazione ai fini dell’esclusione della responsabilità di esso.
In giurisprudenza si è ammesso il concorso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. In materia
esiste una notevole confusione, specialmente in ordine alla responsabilità per trattamenti medici. Si può
discutere, ad esempio, se la responsabilità delle aziende ospedaliere verso i pazienti abbia natura contrattuale
o extracontrattuale, ma non è ammissibile che per lo stesso fatto vengano enucleati, come distinti, obblighi
che invece devono a tutti gli effetti considerarsi obblighi contrattuali, e vengano così configurate due distinte
responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale. Esse invece possono coesistere nell’ipotesi in cui, dopo
attenta valutazione della reale portata degli obblighi contrattuali, la condotta produttiva di danno sia
riconducibile alla esecuzione del contratto, ma, sia pure da essa occasionata, la condotta stessa sia estranea
all’adempimento e vada sussunta, per violazione di un diritto assoluto, nella fattispecie di illecito
extracontrattuale. Qui si avranno due illeciti, ma tra loro distinti. Così l’ente pubblico ben potrà rispondere ex
contractu e, ove il terzo si rivolga contro di esso, direttamente o come obbligato solidale per il fatto del
dipendente, anche a titolo di responsabilità extracontrattuale; il dipendente risponde invece a titolo di
responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art. 28 Cost.
Si può concludere parlando del problema del «titolo» di responsabilità dell’amministrazione per emanazione
(o mancata emanazione) di un provvedimento amministrativo; si discute oggi se trattasi di responsabilità
precontrattuale, contrattuale o extracontrattuale. La soluzione seguita dalla sent. n. 500/1999 della
Cassazione è quella di ritenere la responsabilità in esame di natura extracontrattuale: la responsabilità
extracontrattuale, in generale, si riferisce alle situazioni in cui non preesiste un rapporto particolare tra
danneggiato e danneggiante. Alcune voci della dottrina e parte della giurisprudenza sul presupposto che,
rispetto al privato coinvolto dall’azione, l’amministrazione non può considerarsi come il «terzo qualunque»
la cui responsabilità è disciplinata dall’art. 2043 c.c., sembrano di recente propendere invece per il
riconoscimento di un nuovo modello di responsabilità (c.d. «da contatto amministrativo qualificato»)
collegato alla violazione di obblighi di protezione esistenti in capo all’amministrazione. La sussistenza di un
contatto tra amministrazione e privato comporta il sorgere di alcuni obblighi «senza prestazione» in capo
all’amministrazione, la cui violazione determina una responsabilità per alcuni versi assoggettata al regime di
cui all’art. 1218 c.c. quanto al riparto dell’onere della prova relativo all’elemento psicologico e al termine di
prescrizione.
In tema di alleggerimento dell’onere probatorio del danneggiato, va comunque osservato che parte della
giurisprudenza ammette che la colpa possa essere provata dall’attore mediante presunzione.
Di rilievo è la sentenza della Corte di giustizia CE, 30 settembre 2010, causa C-314/09, la quale ha affermato
che il diritto dell’Unione europea osta a una normativa nazionale che nelle ipotesi di violazione della
disciplina sugli appalti pubblici subordini il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni al carattere colpevole
di tale violazione, precisando che non sono ammesse né presunzioni di colpevolezza in capo
all’amministrazione né la possibilità di far valere un difetto di imputabilità soggettiva della violazione

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lamentata. Si configura dunque una responsabilità oggettiva; rilevante appare anche il profilo del nesso di
causalità, illuminato sotto il peculiare profilo di un onere in capo alla vittima di impugnare tempestivamente
l’atto prima di attivare la pretesa risarcitoria.
La necessità della sussistenza di colpa o dolo ai fini della configurazione dell’illecito è stata in ogni caso
espressamente riconosciuta dall’art. 2-bis l. 241/1990, ai sensi del quale l’inosservanza del termine di
conclusione del procedimento che cagioni un danno ingiusto dà luogo a responsabilità in capo
all’amministrazione e ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative soltanto se
l’inosservanza è dovuta a dolo o colpa. Il “mero ritardo” ritardo è risarcibile in quanto tale,
ancorché il riferimento all’ingiustizia possa evocare la necessità di selezionare i casi di ritardo tenendo anche
conto della prospettiva di successo della parte. Lo spazio per il danno da mero ritardo si è assottigliato a
seguito dell’entrata in vigore della disciplina dell’indennizzo da ritardo (art. 28, l. 98/2013) che, pur
prevedendo limiti quantitativi e oneri procedurali, dispone che le somme corrisposte o da corrispondere a
titolo di indennizzo sono detratte dal risarcimento.
10. La responsabilità amministrativa e la responsabilità contabile

La responsabilità amministrativa dei dipendenti verso l’amministrazione si inquadra nel più vasto istituto
della responsabilità e dell’illecito di cui è conseguenza.
In tema di danno indiretto, va ricordato che, ai sensi dell’art. 55-septies, d. lgs. 165/2001, la condanna della
pubblica amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del lavoratore
dipendente, degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, dal contratto collettivo o individuale,
comporta l’applicazione nei suoi confronti, ove già non ricorrano i presupposti per l’applicazione di un’altra
sanzione disciplinare, della sospensione del servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre
giorni fino a un massimo di tre mesi, in proporzione all’entità del risarcimento. Con la locuzione
«responsabilità amministrativa» si suole però intendere soltanto quella in cui incorre il soggetto persona
fisica avente un rapporto di servizio con un ente pubblico, il quale, in violazione di doveri da tale rapporto
derivanti, abbia cagionato un danno alla sua pubblica amministrazione. Poiché gli illeciti si distinguono tra
loro non in quanto antologicamente differenti, ma per il diverso tipo di sanzione ad essi collegato
dall’ordinamento giuridico, sicché sarà illecito civile quello cui viene collegata una sanzione civile, l’obbligo
di risarcimento permette di qualificare siffatta responsabilità come responsabilità civile. E questa tesi sembra
ulteriormente avvalorata dal fatto che l’art. 18, d.p.r. 3/1957 (statuto degli impiegati civili dello Stato, ma
applicabile a tutti i funzionari e dipendenti pubblici), stabilisce che, di fronte alla responsabilità civile fatta
valere dal terzo nei confronti della sola pubblica amministrazione, l’impiegato è tenuto a risarcire il danno a
questa cagionato, consistente nella somma da essa pagata al terzo, sia pure, come s’è visto, non in virtù di
regresso, bensì come conseguenza della violazione di obblighi di servizio. Se dunque il titolo muta, se muta
anche il giudice chiamato a pronunziarsi e, di conseguenza, muta la disciplina relativa a tal tipo di giudizio, il
risarcimento ha pur sempre ad oggetto lo stesso danno.
La più attenta dottrina parla di responsabilità civile-amministrativa, sottolineando così il genus commune,
insieme con le differenze, non irrilevanti, specifiche. Un carattere peculiare assumono alcune forme di
responsabilità “tipizzata” dal legislatore, sganciate da una prospettiva risarcitoria-compensativa e molto più
prossime alla dimensione sanzionatoria.
La responsabilità amministrativa, che, in via generale, si configura per gli impiegati dello Stato, ha le sue
fonti negli artt. 82 e 83, r.d. 2440/1923, recante disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla
contabilità generale dello Stato, nell’art. 52 del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti (r.d. 1214/1934) e negli
artt. 18, 19 e 20 del t.u. sugli impiegati civili dello Stato (r.d. 3/1957).
Il rapporto di servizio è alla radice della responsabilità di cui si tratta, anche se l’art. l, comma 4, l. 20/1994,
sembra estendere la giurisdizione della Corte a controversie nelle quali un tale rapporto non sussiste con
l’amministrazione danneggiata. Ma esso non comporta soltanto l’esercizio di funzioni pubbliche, bensì
postula che il soggetto sia inserito nell’apparato della pubblica amministrazione per il conseguimento di un
fine pubblico.
La Cassazione ha in passato affermato la giurisdizione della Corte dei conti anche per i fatti commessi dagli
amministratori e dipendenti di enti pubblici economici (ord. n. 4511/2006) e nei riguardi degli amministratori
delle s.p.a. miste per i danni erariali cagionati al patrimonio dell’ente pubblico locale (sent. n. 3899/2004).
L’art. 16-bis, d. l. 248/2007, conv. nella l. 31/2008, richiamando il criticabile criterio della partecipazione in
luogo di quello dell’effettivo controllo, ha peraltro previsto che per le società per azioni quotate in mercati
regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici,
inferiore al 50 %, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è
regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla
giurisdizione del giudice ordinario.

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In realtà, occorre distinguere dal caso della società pubblica come soggetto danneggiato dalle persone
fisiche, in ordine al quale sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, due ulteriori ipotesi: quella della
società, a totale partecipazione pubblica, che danneggi l’ente pubblico azionista e quella
dell’amministratore o del componente di organi di controllo della società partecipata dall’ente pubblico che
danneggi direttamente l’ente medesimo, appunto socio della società e non già la società. La Cassazione ha
poi chiarito (sez. un., n. 4511/2006) che il criterio per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella
contabile in materia di azione di responsabilità per danno erariale si è spostato dalla “qualità del soggetto”
alla “natura del denaro” e degli scopi perseguiti. In questa responsabilità “finanziaria”, risulta dunque meno
rilevante il criterio del rapporto di servizio, al più da concepire come nesso funzionale tra risorse pubbliche e
perseguimento di interessi pubblici, mentre assume importanza decisiva la sussistenza di un qualsivoglia
titolo (concessione, ma anche contratto) in forza del quale il soggetto venga ad agire in vista di finalità
pubbliche.
Affinché sorga la responsabilità amministrativa, comunque occorrono ulteriori elementi: innanzitutto, la
rilevata violazione dei doveri od obblighi di servizio, che costituisce, nell’illecito, il comportamento, il
«fatto»; l’elemento c.d. psicologico; il danno; il nesso di causalità tra il fatto e il danno.
Quanto all’elemento psicologico, è richiesta almeno la colpa grave: l’art. 3 , d.l. 543/1996, conv. con
modificato nella l. 639/1996, stabilisce che la responsabilità in materia di contabilità pubblica è limitata ai
fatti o alle omissioni commesse con dolo o colpa grave, con l’evidente fine di attenuare le preoccupazioni dei
dipendenti, spesso non infondate, circa le pesanti conseguenze connesse alla valutazione della colpa
effettuata dal giudice contabile con rigore parso talora eccessivo. In tal modo si riducono le possibilità
dell’amministrazione di ristoro del danno cagionato dal dipendente mediante la violazione di un dovere
d’ufficio.
È esclusa la gravità della colpa quando il fatto dannoso tragga origine dall’emanazione di un atto vistato e
registrato in sede di controllo preventivo di legittimità, limitatamente ai profili presi in considerazione
nell’esercizio del controllo.
Quanto al danno, va ricordata l’estensione della nozione che affiora nella giurisprudenza della Corte dei
conti in rapporto ad un danno all’economia nazionale. Essa, richiamato il concetto tradizionale di danno
patrimoniale, individua le caratteristiche della «nuova» figura di danno «connessa alla violazione di norme di
tutela aventi per oggetto, non già beni materiali che costituiscono il patrimonio in senso proprio del
soggettopersona (Stato od enti pubblici), ma l’interesse ad utilità non suscettibili di godimento ripartito e
quindi riferibili a tutti i membri indifferenziati della collettività».
La l. 190/2012 sembra aver ampliato l’area del danno all’immagine della pubblica amministrazione,
stabilendo che esso deriva dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato
con sentenza penale passata in giudicato. L’entità del danno si presume, salvo prova contraria, pari al doppio
della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente e, cioè,
della tangente. La stessa l. 190/2012 stabilisce che, in caso di commissione, all’interno dell’amministrazione,
di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile risponde anche per il
danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione, salvo che provi di avere predisposto, prima
della commissione del fatto, un piano di prevenzione della corruzione, di avere osservato le prescrizioni
dettate dalla l. 190/2012 e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza dello stesso. L’art. 1, l.
190/2012, conv. Nella l. 135/2012, prevede ipotesi di danno erariale come conseguenza della stipula di
contratti in violazione delle norme sul “buon uso delle risorse pubbliche” e, cioè, ad esempio, nell’ipotesi di
stipulazione di un contratto senza rispettare gli obblighi di approvvigionarsi facendo ricorso agli strumenti
messi a disposizione dalla Consip. Altre figure indicative di un atteggiamento creativo della giurisprudenza,
sono quelle del danno alla concorrenza, del danno da disservizio e del danno al prestigio.
Tra gli elementi della fattispecie di responsabilità, resta da trattare del nesso di causalità. L’importanza,
fondamentale in campo penale, di tale nesso si attenua alquanto quando esso viene esaminato in campo
civile, tanto più se in rapporto ad una responsabilità contrattuale, come del resto avviene riguardo alla
responsabilità amministrativa. Si tratta, in sostanza, di appurare il rapporto di causazione che intercorre tra
l’inadempimento, costituito dalla trasgressione, per azione od omissione, di uno o più obblighi, doveri e
modalità di comportamento derivanti dal rapporto di servizio e il danno subito dall’amministrazione.
In via generale è da ritenere che la Corte dei conti faccia prevalente riferimento al principio della causalità
adeguata, valutando perciò ex ante se la causa è stata idonea a produrre l’effetto, ma senza tenere conto degli
eventuali effetti straordinari o atipici della condotta tenuta.
Dall’esame degli artt. 82 e 83 della legge sulla contabilità di Stato, si ricavano altri principi inerenti alla
responsabilità amministrativa: quello della divisibilità del danno e quello del potere riduttivo attribuito alla
Corte dei Conti. Il primo aspetto è stato oggi ridisciplinato dalla l. 639/1996, che stabilisce che se il fatto
dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno

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per la parte che vi ha preso. Quanto al potere riduttivo, esso viene riconosciuto anche nell’ipotesi di
responsabilità contabile.
Ai sensi dell’art. l, l. 20/1994, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione o
dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici
soggetti al giudizio di responsabilità.
La più recente legislazione in materia di responsabilità amministrativa è caratterizzata dalla progressiva
omogeneizzazione e unificazione nei riguardi di tutti i dipendenti ad essa soggetti, che in precedenza avevano
un trattamento notevolmente diverso rispetto a quello dei dipendenti dello Stato: segnatamente i dipendenti
degli enti locali, originariamente soggetti alla giurisdizione del giudice ordinario. Rispetto al passato, le
novità introdotte dall’art. l sono:
a) il carattere personale della responsabilità stessa e la trasmissibilità del debito agli eredi secondo le
leggi vigenti nei casi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito
arricchimento degli eredi stessi;
b) la responsabilità imputata esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole, nel caso di
deliberazioni di organi collegiali;
c) la limitazione della responsabilità ai fatti e alle omissioni commesse con dolo o colpa grave;
d) la condanna a ciascuno per la parte che vi ha preso, valutate le singole responsabilità, da parte della
Corte dei conti, se il fatto dannoso è causato da più persone: i (soli) concorrenti che abbiano
conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo sono però responsabili solidalmente;
nel caso di danno prodotto da più soggetti in concorso tra di loro, la responsabilità di chi ha agito con
dolo è principale, mentre quella di coloro che hanno agito con colpa grave è sussidiaria, sicché la
sentenza deve essere eseguita prima nei confronti del debitore principale;
e) la circostanza che «la Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori
e dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni ed enti diversi
da quelli di appartenenza». La giurisprudenza, alla luce di tale norma, ritiene che la Corte dei conti
possa esercitare la propria giurisdizione in relazione alle azioni di responsabilità anche in mancanza
di un rapporto di impiego o di servizio tra danneggiante e danneggiato;
f) la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, in ogni caso, in cinque anni, decorrenti dalla
data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla
data della sua scoperta.

Il termine quinquennale di prescrizione e soprattutto l’intrasmissibilità seppur soltanto tendenziale agli eredi
della responsabilità hanno riacceso le polemiche, ancora recentissimamente rinfocolate, circa la natura della
responsabilità amministrativa. Il principio secondo cui la responsabilità dei soggetti sottoposti alla
giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale, in particolare, non è in
sintonia con la configurazione della responsabilità amministrativa quale responsabile contrattuale, cui
dovrebbe invece conseguire, data la patrimonialità della obbligazione, la trasmissibilità in ogni caso agli
eredi dell’obbligo di risarcimento: esso sembra piuttosto riconducibile ad una nozione sanzionatoria di tale
responsabilità.
Parte della dottrina ha configurato la tradizionale responsabilità amministrativa ancora una volta come
responsabilità di diritto pubblico sganciata dalla matrice civilistica e avente carattere prevalentemente
sanzionatorio (sanzione amministrativa pari alla somma da risarcire).
La l. 127/1997 ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 53, l. 142/1990, che disciplinava in modo specifico la
responsabilità dei segretari comunali e che la conciliazione della lite nelle controversie individuali di lavoro
da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione non può dar luogo a responsabilità amministrativa ai
sensi dell’art. 66, d.lgs. 165/2001.
Una particolare specie di responsabilità amministrativa in ordine alla quale pure sussiste la giurisdizione del
giudice contabile è infine la responsabilità contabile, che riguarda solo gli «agenti» che maneggiano denaro
e valori pubblici e che sono tenuti al rendiconto, cioè all’obbligo di documentare i risultati della gestione
effettuata, e, quindi, di rendere conto dei beni e dei valori di cui abbiano disposto, dimostrando le diverse
operazioni svolte nel corso della gestione (d. lgs. 123/2011).
I contabili, che hanno l’obbligo strumentale della custodia dei valori loro assegnati, si distinguono in
contabili di diritto (i quali svolgono tale funzione in base a norme, a rapporto di impiego o a contratto: essi
all’ingresso nell’ufficio ricevono in consegna beni e valori, assumendo il dovere di restituzione e, in taluni
casi, di custodia) e i contabili di fatto (soggetti che hanno comunque maneggio di denaro e di beni: è ad
esempio tale il funzionario che non abbia conservato in cassaforte una somma rilevante, eccezionalmente
giacente in ufficio, e poi scomparsa). Gli agenti contabili si distinguono in agenti della riscossione, agenti
pagatori e consegnatari di oggetti o beni pubblici.

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Altri esempi di agenti contabili sono: l’economo; l’impiegato che abbia tra i suoi compiti quello di riscuotere
i proventi di un’attività dell’ente e versare le somme relative all’ufficio economato; l’istituto bancario
incaricato del servizio di cassa dell’ente locale; la società beneficiaria di contributi pubblici per la gestione di
corsi di formazione professionale; le società a totale partecipazione pubblica del comune che gestiscano un
servizio e riscuotano nell’interesse del comune i relativi proventi; l’ufficiale giudiziario in caso di tardivo
versamento di tasse all’erario. I conti in esame si dicono giudiziali perché sottoposti al vaglio del giudice
contabile. Essi comprendono il carico (costituito dalla somma del resto della gestione precedente e degli
incrementi realizzatisi nel corso della gestione), lo scarico (cioè le somme o i valori da decurtare), e il resto
(dato dalla differenza tra carico e scarico). Occorre distinguere tra rendiconto (o conto) giudiziale, il quale ha
la finalità di accertare la responsabilità degli agenti contabili per danni al patrimonio pubblico, e conto
amministrativo, compilato dagli agenti dell’amministrazione a fini di controllo.
Gli elementi della responsabilità contabile sono analoghi a quelli della responsabilità amministrativa
(comportamento, evento, esercizio di pubblica funzione, nesso di causalità), ai quali si aggiunge però la
qualifica di agente contabile. I conti degli agenti contabili, al compimento del procedimento di «rendimento
del conto», debbono essere presentati alla Corte dei conti (d. lgs. 123/2011; l’amministrazione ha comunque
l’obbligo di parificare i conti resi dagli agenti contabili, al fine di garantire la corrispondenza tra dati
rappresentati nel conto e atti in possesso dell’amministrazione).
Il giudizio di conto si instaura necessariamente con la presentazione del conto giudiziale, indipendentemente
dall’esistenza di una controversia. Ai sensi dell’art. 2, l. 20/1994, decorsi cinque anni dal deposito del conto
senza che sia stata depositata presso la segreteria della Corte dei conti la relazione su di esso o siano state
elevate eventuali contestazioni, il giudizio sul conto si estingue. La norma aggiunge che r!mane ferma la
responsabilità amministrativa e contabile a carico dell’agente.
Una disciplina peculiare riguarda gli enti locali: l’art. 93, c. 2, T.U. enti locali, stabilisce che il tesoriere e
ogni altro agente contabile che abbia maneggio di pubblico denaro o sia incaricato della gestione dei beni
degli enti locali, nonché coloro che si ingeriscano negli incarichi attribuiti a detti agenti, debbono rendere il
conto della loro gestione e sono soggetti alla giurisdizione della Corte dei conti; il c. 3 ha precisato che gli
agenti contabili degli enti locali non sono tenuti alla trasmissione della documentazione occorrente per il
giudizio di conto, salvo che non sia la Corte dei conti a richiederlo. Va infine ricordato che, ai sensi dell’art.
18, d.l. 67/1997, conv. in l. 135/1997, le amministrazioni di appartenenza debbono rimborsare ai dipendenti
pubblici, nei limiti riconosciuti congrui dall’ avvocatura dello Stato, le spese legali relative a giudizi per
responsabilità civile, penale e amministrativa instaurati per fatti connessi all’attività istituzionale e conclusi
con sentenza che escluda la loro responsabilità.

11. Obbligazioni e servizi pubblici

All’amministrazione fanno capo rilevanti obbligazioni nell’ambito dei pubblici servizi: in tali ipotesi il
rapporto obbligatorio si inserisce in un contesto più ampio, segnato dal dovere dell’amministrazione di
assicurare prestazioni di servizi a favore della collettività.
La dottrina più recente ha notato che il termine «prestazione amministrativa» illumina in senso proprio il
solo aspetto contenutistico dell’obbligazione e, di conseguenza, non può servire per caratterizzare l’attività
nel suo complesso. L’evoluzione dei compiti e delle funzioni dello Stato, soprattutto a seguito dell’avvento
del c.d. Stato pluriclasse e del conseguente aumento delle esigenze alle quali occorreva dar risposta, ha
progressivamente determinato una incisiva crescita delle dimensioni dell’intervento dello Stato nella società
e nell’economia, in funzione di ausilio ai cittadini e di riequilibrio economico e sociale (Stato sociale). La
Costituzione, pur non occupandosi espressamente di servizi pubblici, ha dato ulteriore impulso a questo
processo, garantendo diritti in capo ai cittadini e impegnando, con una serie di norme molto importanti (artt.
3, 4, 32, 33, 34, 35, 38), lo Stato legislatore e i soggetti istituzionali a svolgere attività pubbliche al fine di
assicurare loro l’eguaglianza sostanziale. L’attività di prestazione di servizi ai cittadini ha ormai acquisito un
rilievo così importante da affiancarsi a pieno titolo alla tradizionale attività che si svolge mediante
provvedimenti autoritativi, connotando il ruolo della moderna amministrazione. Il tema dei servizi pubblici si
caratterizza così come vero crocevia di problematiche amministrative. In dottrina si sottolineano:
− l’aspetto organizzativo, atteso che l’amministrazione deve garantire la soddisfazione di alcuni bisogni
apprestando le strutture necessarie ed individuando le modalità di erogazione dei servizi più idonee;
− il punto di vista economico, nel senso che la scelta delle attività da elevare a servizio pubblico onde
soddisfare alcuni bisogni, e, di conseguenza, la scelta in ordine al tipo di organizzazione del servizio,
dipende dall’entità delle risorse economiche disponibili, reperite ora mediante prelievo tributario, ora
facendo pagare un corrispettivo per il servizio reso;
− il problema delle posizioni giuridiche dei cittadini utenti;

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− il tema delle autonomie territoriali, in quanto esse, sia per il loro carattere di enti a fini generali, sia per
la forte vocazione verso il sociale che da sempre manifestano, sia per la vicinanza ai bisogni, sono
coinvolte in modo assai rilevante nell’attività di erogazione dei servizi; − il rapporto pubblico-privato; −
il tema della trasparenza.

Il servizio pubblico è la complessa relazione che si instaura tra soggetto pubblico, che organizza una offerta
pubblica di prestazioni, rendendola doverosa, e utenti. Tale relazione ha dunque ad oggetto le prestazioni di
cui l’amministrazione, predefinendone i caratteri attraverso la individuazione del programma del servizio,
garantisce, direttamente o indirettamente, l’erogazione, al fine di soddisfare in modo continuativo i bisogni
della collettività di riferimento, in capo alla quale sorge di conseguenza una aspettativa giuridicamente
rilevante. Il servizio è dunque «pubblico» in quanto reso al pubblico degli utenti per la soddisfazione dei
bisogni della collettività, nonché in ragione del fatto che un soggetto pubblico lo assume come doveroso.
Non è invece servizio pubblico l’attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti, come
avviene nel caso della gestione di un’opera pubblica, ovvero il servizio reso all’amministrazione: si pensi al
servizio di pulizia o manutenzione degli immobili, oppure alla gestione del calore degli edifici pubblici.
Il servizio pubblico è «assunto» dal soggetto pubblico con legge o con un atto generale, rendendo doverosa
la conseguente attività. Questo momento non può che essere riservato all’autorità pubblica perché consegue
ad una violazione dei bisogni riservata al soggetto pubblico.
Ai sensi dell’art. 42, T.U. enti locali, l’assunzione dei pubblici servizi locali è di competenza del consiglio
dell’ente locale. Nel servizio pubblico sono presenti anche momenti provvedimentali, sicché non è corretto
ritenere che esso consista semplicemente in un’attività materiale: nella predefinizione e attuazione del
rapporto tra utente ed ente vengono cioè in evidenza atti e fatti di varia natura: legislativi, amministrativi
autoritativi, operazioni materiali e pure contratti di diritto comune (contratti di utenza). Alla fase
dell’assunzione del servizio segue quella della sua erogazione e, cioè, la concreta attività volta a fornire
prestazioni ai cittadini. In proposito, l’ordinamento prevede forme tipizzate di gestione, contemplando
spesso anche l’intervento di soggetti privati.
Con riferimento ai servizi pubblici, si è di recente evidenziato il crescente fenomeno denominato di
esternalizzazione, a indicazione complessiva dell’esercizio di attività amministrative affidato a soggetti
diversi dalla pubblica amministrazione, spesso in virtù del principio di sussidiarietà orizzontale. Di recente si
è introdotto anche l’impiego del «contratto di servizio» quale strumento per disciplinare i rapporti tra
amministrazione e soggetto esercente: il d.lgs. 422/1997, ad esempio, dispone che l’esercizio dei servizi di
trasporto pubblico regionale e locale, con qualsiasi modalità effettuati e in qualunque forma affidati, è
regolato «mediante contratti di servizio di durata non superiore a nove anni».
Al fine di garantire la continuità dell’offerta di una prestazione, la disciplina comunitaria talora prevede il
meccanismo, alternativo rispetto al contratto, dell’imposizione ai privati già presenti sul mercato di obblighi
di servizio. Si è visto che le forme di gestione del servizio pubblico sono tipizzate dal legislatore: in alcuni
casi l’amministrazione si avvale della propria organizzazione, in altre si rivolge all’esterno.
Per quanto riguarda i servizi pubblici locali che rientrano nella titolarità di comuni e province aventi gli artt.
112 e ss., T.U. enti locali, distinguono nettamente tra i servizi a rilevanza economica e servizi privi di tale
rilevanza. Tra i primi saranno probabilmente da annoverare i servizi dell’energia elettrica, del trasporto, della
raccolta rifiuti e del ciclo delle acque.
Premesso che non trova applicazione il d.lgs. 59/2010 relativo ai servizi sul mercato interno, va aggiunto
che la disciplina dell’affidamento e della gestione dei servizi locali di rilevanza economica era contenuta
inizialmente nell’art. 113 Tuel, poi abrogato “nelle parti incompatibili” dall’art. 23-bis, d.l.112/2008, conv.
nella l. 133/2008 e succ. modif., norma a sua volta abrogata dal referendum celebrato nel giugno 2011: il
referendum investiva in uno dei quesiti l’intero sistema di gestione dei servizi pubblici locali.
Il legislatore è successivamente intervenuto con il d.l. 138/2011, conv. nella l. 148/2011, disciplinando
assunzione e organizzazione del servizio. La Corte cost., però, con la sent. n. 199/2012 ha dichiarato
incostituzionale anche tale disciplina, nella parte in cui, in contrasto con l’esito del referendum abrogativo
celebrato nel 2011, riproduceva la precedente norma oggetto di abrogazione referendaria (l’art. 23-bis, d.l.
112/2008), ribadendo una disciplina restrittiva al di là di quanto richiesto dalla normativa dell’Unione
europea, soprattutto per quanto attiene all’in house, configurato da quella disciplina come modello
derogatorio ed eccezionale: questo istituto è stato “salvato” nel settore dei servizi pubblici, come
conseguenza del vincolo che grava sul legislatore di rispettare la volontà popolare espressa nel referendum.
Infine, è scomparso il riferimento espresso allo specifico momento dell’assunzione e, cioè, alla scelta che
deve essere effettuata a monte tra liberalizzazione e organizzazione di un’offerta pubblica.
Dal punto di vista organizzativo, nella parte della disciplina di cui al d.l. 138/2011, conv. nella l. 148/2011
rimasta in vita (art. 3-bis), si prevede che le regioni definiscano lo svolgimento dei servizi pubblici locali a

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rete di rilevanza economica per ambiti o bacini territoriali ottimali ed omogenei, di norma non inferiori al
territorio provinciale, tali da garantire economie di scala ed assicurare l’efficienza del servizio. Si chiarisce
che le funzioni di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica, compresi quelli
appartenenti al settore dei rifiuti urbani, di scelta della forma di gestione, di determinazione delle tariffe
all’utenza per quanto di competenza, di affidamento della gestione e relativo controllo sono esercitate
unicamente dagli enti di governo degli ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei istituiti o designati.
Per quanto attiene all’affidamento del servizio, l’art. 34, d.l. 179/2012, conv. nella l. 221/2012 dispone che
l’affidamento del servizio pubblico locale a rilevanza economica effettuato sulla base di apposita relazione,
pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti
previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici
degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale,indicando le compensazioni economiche se
previste. Si prevede poi l’adeguamento entro il 31 dicembre 2013 degli affidamenti in essere non conformi ai
requisiti previsti dalla normativa europea.
In relazione al momento dell’affidamento, l’art. 34 contiene indicazione assai sintetiche, anche se deve
ritenersi ferma la possibilità di procedere con le modalità compatibili con il diritto comunitario e/o garantite
dalla Corte cost.: gara; affidamento a società mista con gara per la scelta del socio operativo; affidamento in
house. Quanto alle forme di affidamento, la giurisprudenza aveva in passato ammesso la possibilità per l’ente
di esercitare i servizi pubblici nella forma dell’amministrazione diretta. La normativa di cui all’art. 34,
però, ammette ulteriori forme di affidamenti diretti solo in un caso, disponendo che il servizio di
illuminazione votiva deve essere affidato in concessione ai sensi dell’art. 30, d.lgs. 153/2006 e, ove ne
ricorrano le condizioni, dell’art. 125 (affidamento diretto in economia). Si dovrà poi verificare gli spazi di
utilizzo dell’azienda speciale, che non era contemplata dalle leggi più recenti.
In ogni caso, la disciplina impone che la scelta di affidamento sia il risultato di un’istruttoria e sia supportata
da adeguata motivazione. L’art. 113, c. 11 Tuel,, stabilisce l’obbligo di stipulare il contratto di servizio per la
regolazione dei rapporti tra pubblica amministrazione e soggetto erogatore del servizio pubblico. Ulteriori
norme che devono essere considerate sono quelle attinenti all’incompatibilità tra incarichi negli enti pubblici
e cariche nelle società affidatarie dei servizi, nonché all’inconferibilità di incarichi di vertice nelle
amministrazioni a coloro che nei due anni precedenti abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di
diritto privato o finanziati dall’amministrazione (d.lgs. 39/2013). Esse valgono a scongiurare commistioni tra
“regolazione” e gestione del servizio medesimo.
Un altro tema di rilievo attiene alla competenza legislativa. Al riguardo, va ricordato che, in ordine ai servizi
pubblici privi di rilevanza economica, la Corte cost., con sent. n. 272/2004, ha dichiarato incostituzionale
l’intera normativa statale di cui all’art. 113-bis del T.U. enti locali, che aveva a oggetto siffatti servizi. In
sostanza, in questi ambiti, la disciplina è oggi rimessa alle fonti regionali e locali.
Ai sensi dell’art. 113-bis, dichiarato incostituzionale, gli affidamenti diretti per i servizi privi di rilevanza
economica, in passato potevano avvenire a favore dei seguenti soggetti:
a) istituzione, «organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio di servizi sociali, dotato di
autonomia gestionale»;
b) aziende speciali; l’azienda speciale è un ente pubblico strumentale dotato di personalità giuridica, di
autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale. Un’azienda
speciale pluricomunale costituita sulla base di una convenzione tra vari enti locali è il consorzio.
Organi dell’azienda e dell’istituzione sono il consiglio di amministrazione, il presidente e il direttore.
Lo statuto dell’azienda speciale prevede un organo di revisione e forme autonome di gestione;
c) società a capitale interamente pubblico, secondo il modello dell’in house providing. Aggiungiamo
che non costituisce una forma di gestione autonoma la convenzione che consente semplicemente di
svolgere in modo coordinato determinati servizi, senza dar luogo alla costituzione di organismi o
soggetti nuovi.

Ancorché relativa a norma abrogata con il referendum, è di interesse ricordare quanto statuito da Corte cost.
325/2010, con riferimento all’art. 23-bis, d.l. 112/2008, relativo ai servizi a rilevanza economica: ponendo in
luce la corrispondenza tra le nozioni di servizi pubblici e di servizi di interesse economico generale, la
decisione àncora la competenza legislativa del legislatore statale alla “tutela della concorrenza”.
Molteplici sono le classificazioni che possono essere operate in relazione ai servizi pubblici. La Costituzione,
ad esempio, parla di «servizi pubblici essenziali»: l’art. 43 Cost., in particolare, si occupa della riserva
operata con legge allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti di determinate attività e
individua, quale oggetto della riserva stessa, le imprese che si riferiscono a servizi pubblici «essenziali». Gli
artt. 33, 34 e 38 Cost. ostano invece all’instaurazione di un monopolio pubblico per i servizi di istruzione e di
assistenza.

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Con riferimento agli enti locali, la legge si riferisce ai servizi indispensabili e a quelli «ritenuti necessari per
lo sviluppo della comunità» (art. 149, T.U. enti locali). Essi sono finanziati dalle entrate fiscali, le quali
integrano comunque la contribuzione erariale per l’erogazione dei servizi indispensabili. Allorché lo Stato e
le regioni prevedano per legge casi di gratuità nei servizi di competenza dei comuni e delle province, ovvero
fissino prezzi e tariffe inferiori al costo effettivo della prestazione, essi debbono garantire agli enti locali
risorse finanziarie compensative.
I servizi sociali sono caratterizzati dai seguenti elementi: finalizzazione alla tutela e alla promozione del
benessere della persona, doverosità della predisposizione degli apparati pubblici necessari per la loro
gestione e assenza del divieto per i privati di svolgere siffatta attività. In sostanza l’intervento pubblico è
imposto dall’ordinamento (si pensi a sanità e scuola), ma non è subordinato al fallimento del mercato,
garantendosi anzi uno spazio per l’iniziativa dei privati. I tradizionali servizi sociali potrebbero essere
inquadrati giuridicamente richiamando il principio dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., riferibili sia
al gruppo che «integra», sia a chi è aiutato e alla sua famiglia.
Nella normativa più recente è comparsa la definizione di servizio universale, «insieme minimo definito di
servizi di qualità determinata, accessibili a tutti gli utenti a prescindere dalla loro ubicazione geografica e… a
un prezzo accessibile».
Il servizio pubblico universale, rivolto a tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro condizioni personali ed
economiche e dall’ubicazione territoriale, è nozione elaborata nell’ambito comunitario, ove, più in generale,
a livello di Trattato, il servizio pubblico costituisce oggetto di disciplina indiretta sul presupposto che possa
incidere sul libero gioco della concorrenza. In particolare, la normativa comunitaria definisce i confini entro i
quali sono ammesse deroghe al rispetto delle norme del Trattato: le imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale sono sottoposte alle norme del Trattato, e, in particolare, al regime
della concorrenza.
Si è avviato nel nostro Paese il processo di liberalizzazione di alcuni mercati. Il fenomeno ha alcune
connessioni con la tematica dei servizi pubblici, nel senso che le attività liberalizzate, di norma, in passato
erano gestite in situazione di monopolio da concessionari di servizi pubblici, laddove la liberalizzazione
comporta l’eliminazione della barriere all’ingresso e, quindi, l’apertura alla concorrenza. Nel caso dei servizi
a rete (si pensi a elettricità e gas), il completamento della liberalizzazione impone l’uso comune
dell’infrastruttura, separando gestione della rete da gestione del servizio.
L’apertura del mercato è compensata attraverso la regolamentazione del mercato medesimo, con la
conseguenza che alcune prestazioni possono oggi essere svolte da più imprenditori, spesso in regime di
autorizzazione e talora con l’imposizione di obblighi di servizio.
In materia di trasporto ferroviario, a seguito della disciplina comunitaria, vanno tenuti separati i profili della
installazione e gestione dell’infrastruttura e quello del servizio di trasporto, suscettibile di essere affidato
mediante contratti di servizio. L’ordinamento tende ad imporre quanto meno la separazione contabile e,
cioè, l’organizzazione delle scritture contabili del soggetto che gestisce più attività secondo modalità che
consentano di identificare separatamente costi e ricavi relativi a ciascuna di esse, come se esse fossero gestite
da imprese separate.
Il tema della liberalizzazione si intreccia infine con la problematica della privatizzazione: l’art. l-bis, d.l.
332/1994, convertito, con modificazioni, dalla l. 474/1994, stabilisce che le dismissioni delle partecipazioni
azionarie dello Stato e degli enti pubblici nelle società in mano pubblica operanti nel settore della difesa,
trasporti, telecomunicazioni, fonti di energia e altri servizi pubblici sono subordinate alla creazione di
organismi indipendenti per la regolarizzazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi di rilevante
interesse pubblico.
Quanto al principio di economicità, si è notato che l’art. 114, c. 4, T.U. enti locali, afferma che anche i
servizi sociali debbono essere erogati rispettando il criterio dell’economicità.
In ordine ai principi di qualità, tutela e partecipazione, occorre ricordare che il d.lgs. 286/1999 all’art. 11
impone l’erogazione dei servizi pubblici secondo modalità che promuovano il miglioramento della qualità e
assicurino la tutela dei cittadini e degli utenti e la loro partecipazione nelle forme, anche associative,
riconosciute dalla legge alle inerenti procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi. La
stessa norma prevede che i casi e le modalità di adozione delle carte dei servizi, i criteri di misurazione della
qualità dei servizi, le condizioni di tutela degli utenti, nonché i casi e le modalità di indennizzo automatico e
forfettario all’utenza per mancato rispetto degli standard di qualità sono stabilite con direttive, aggiornabili
annualmente, del presidente del consiglio dei ministri.
Da rimarcare anche il nesso con la trasparenza; ai sensi dell’art. 10, d.lgs. 33/2013, essa rileva come
dimensione principale ai fini della determinazione degli standard di qualità dei servizi pubblici da adottare
con le carte dei servizi.
In conclusione, occorre ricordare l’art. 133, d.lgs. 104/2010, codice del processo amministrativo; questa
norma devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie in materia di pubblici
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servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri
corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione…».

12. Servizi pubblici e tutela delle situazioni oggettive

Mediante l’assunzione e la programmazione del servizio pubblico, inteso il termine in senso proprio,
l’amministrazione assume il dovere di garantire il servizio.
Assunzione e programmazione sono atti preordinati a conferire diritti a singoli (utenti), aventi ad oggetto la
prestazione che costituisce il servizio pubblico.
Le prestazioni possono essere rese indistintamente a tutti gli interessati, ovvero ai singoli utenti che ne
facciano richiesta. In questo secondo caso, l’erogazione dei servizi, a domanda individuale, presuppone
l’instaurazione di contratti di utenza pubblica, i quali sono configurati sul modello del contratto per
adesione.
Dal punto di vista della situazione giuridica dell’utente, ove vi sia stata la stipulazione di un vero e proprio
contratto, sorge un diritto soggettivo in capo al privato, con la conseguenza che l’eventuale inadempimento
dell’amministrazione origina responsabilità contrattuale.
La questione riguarda invece l’aspirazione dell’utente ad ottenere prestazioni che la pubblica
amministrazione ha il dovere di erogare alla collettività precedentemente all’eventuale stipulazione di un
contratto o all’atto di ammissione (prestazioni definite in termini di livelli essenziali), e in relazione, alle
scelte concrete di organizzazione del servizio. Si pensi alle prestazioni sanitarie: la giurisprudenza oscilla tra
l’affermazione della sussistenza di un diritto soggettivo e il riconoscimento di un interesse legittimo al
corretto esercizio del potere amministrativo di organizzazione del servizio.
Si può aggiungere che, riconoscendo la sussistenza di obblighi di servizio, l’ordinamento consente di
configurare veri e propri diritti soggettivi aventi ad oggetto le prestazioni di servizio pubblico, oggi tutelabili
ai sensi del d.lgs. 206/2005, il cui art. 2, c. 2, lett. g), annovererà tra i diritti fondamentali dei consumatori
quello all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficacia. L’art. 30, l. 69/2009
prevede che le carte dei servizi adottate dalle amministrazioni e dai privati che erogano servizi pubblici o di
pubblica utilità devono contemplare la possibilità per l’utente o per la categoria di utenti che lamenti la
violazione di un diritto o di un interesse giuridico rilevante di promuovere la risoluzione non giurisdizionale
della controversia.
In tema di carte di servizi molto rilevante è la disciplina di cui all’art. 8, d.l. 1/2012, con. nella l. 27/2012, ai
sensi della quale tali carte indicano in modo specifico i diritti, anche di natura risarcitoria, che gli utenti
possono esigere nei confronti dei gestori del servizio e dell’infrastruttura. L’azione sull’efficienza di
amministrazioni e concessionari di cui al d.lgs. 198/2009 (c.d. class action pubblica), inoltre, potrebbe
costituire uno strumento anche per fornire tutela all’utente il cui interesse sia leso dalla non corretta
prestazione del servizio. Infine, l’art. 21-bis, l. 287/1990, attribuisce all’autorità garante della concorrenza e
del mercato la legittimazione ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i
provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del
mercato.

13. Adempimento delle obbligazioni pubbliche e responsabilità patrimoniale dell’amministrazione

Le più importanti deroghe alle regole civilistiche, che caratterizzano la disciplina delle obbligazioni
pubbliche aventi ad oggetto somme di denaro, riguardano il luogo e il tempo dell’adempimento.
Dal punto di vista del luogo dell’adempimento, giurisprudenza e dottrina sono divise: secondo un’opinione, i
pagamenti debbono essere eseguiti secondo le regole civilistiche (domicilio del creditore al tempo della
scadenza), mentre altra e prevalente tesi ritiene che il luogo dell’adempimento sia costituito dalla sede degli
uffici di tesoreria. In ordine al tempo dell’adempimento, ricordando che i crediti producono interessi dal
momento in cui essi sono liquidi ed esigibili, va osservato che di recente la giurisprudenza ha affermato che
l’esaurimento della procedura di erogazione della spesa non condiziona il sorgere degli interessi. Ciò vale,
secondo la Cassazione, per gli interessi moratori, attivabili a seguito di messa in mora.
La disciplina del procedimento contabile stabilisce che i pagamenti avvengano “nel tempo stabilito dalle
leggi, dai regolamenti e dagli atti amministrativi generali” (art. 4): in ogni caso alla scadenza del termine per
il pagamento, il credito liquido si deve quindi ritenere senz’altro esigibile. Va menzionata l’importante
direttiva 2000/35/Ce, in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
applicabile anche alle transazioni effettuate con soggetti pubblici.
Essa è stata recepita con d.lgs. 231/2002, modificato dal d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192. Tale fonte fissa il
termine per il pagamento in trenta giorni. Si stabilisce che, nelle transazioni commerciali in cui il debitore è
una pubblica amministrazione, le parti possono pattuire, purché in modo espresso, un termine per il
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pagamento superiore, quando ciò sia giustificato dalla natura o dall’oggetto del contratto o dalle circostanze
esistenti al momento della sua conclusione. In ogni caso i termini non possono essere superiori a sessanta
giorni. La clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto. I termini sono però raddoppiati per
gli enti pubblici che forniscono assistenza sanitaria e che siano stati debitamente riconosciuti a tale fine e per
le imprese pubbliche che sono tenute al rispetto dei requisiti di trasparenza finanziaria di cui al d.lgs.
333/2003.
Circa gli interessi di mora, si stabilisce che essi decorrono dal giorno successivo alla scadenza. Mentre però
le imprese possono concordare un tasso differente, le amministrazioni devono attenersi agli interessi di mora.
Si aggiunga che le amministrazioni debbono adottare le opportune misure organizzative per garantire il
tempestivo pagamento delle somme dovute per somministrazioni, forniture e appalti, con obbligo di
pubblicazione delle misure stesse sui siti internet (art. 9, d.l. 78/2009, norma che, con esclusione di alcune
amministrazioni, ad esempio quelle sanitarie, stabilisce anche una responsabilità disciplinare e
amministrativa in capo al funzionario che assuma impegni di spesa senza prima aver accertato che il
programma dei pagamenti sia compatibile con gli stanziamenti di bilancio e con le regole della finanza
pubblica).
L’ordinamento ha tentato di porre parzialmente rimedio al problema del pagamento dei debiti delle
amministrazioni disciplinando prima la certificazione dei crediti delle imprese e. poi, adottando un
intervento più organico con il d.l. 35/2913, conv. nella l. 64/2013.
Il provvedimento opera su fronti diversi. Intanto, le amministrazioni provvedono a registrarsi su di una
specifica piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, predisposta dal
Ministero dell’economia e delle finanze.
Di interesse è il profilo della ricognizione dei debiti contratti dalle amministrazioni, le pubbliche
amministrazioni debitrici comunicano a partire dal 1° giugno 2013 ed entro il termine del 15 settembre 2013,
utilizzando la piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, l’elenco
completo dei debiti certi, liquidi ed esigibili, maturati alla data del 31 dicembre 2012, con l’indicazione dei
dati identificativi del creditore, e la comunicazione avviene sulla base di un apposito modello scaricabile
dalla piattaforma elettronica.
A regime, a partire dal 1° gennaio 2014, le comunicazioni relative all’elenco completo dei debiti certi, liquidi
ed esigibili alla data del 31 dicembre di ciascun anno, sono trasmesse dalle amministrazioni pubbliche per il
tramite della piattaforma elettronica entro il 30 aprile dell’anno successivo. La disciplina della
comunicazione s’intreccia con l’istituto della certificazione: per i crediti diversi da quelli già oggetto di
cessione o certificazione, infatti, la comunicazione equivale a certificazione del titolo. La disciplina prevede
che, su istanza del creditore di somme dovute per somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni
professionali, le regioni e gli enti locali nonché gli enti del Servizio sanitario nazionale certificano, nel
rispetto delle disposizioni normative vigenti in materia di patto di stabilità interno, entro il termine di trenta
giorni dalla data di ricezione dell’istanza.
Un’ulteriore misura attiene alla semplificazione della cessione dei crediti certi, liquidi ed esigibili maturati
nei confronti delle pubbliche amministrazioni per somministrazioni, forniture ed appalti; essi sono esenti da
imposte, tasse e diritti di qualsiasi tipo.
La legge di stabilità per il 2014 può autorizzare il pagamento mediante assegnazione di titoli di Stato dei
debiti delle amministrazioni pubbliche che hanno formato oggetto di cessione da parte dei creditori in favore
di banche o intermediari finanziari disciplinati dalle leggi in materia bancaria e creditizia. Per altro verso, si
agisce sul piano delle compensazioni. Al riguardo, si ricorda che un’altra regola peculiare applicabile
all’amministrazione è quella relativa alla possibilità, riconosciuta a favor dello Stato, ma non del privato, di
operare compensazioni tra propri crediti e debiti: in virtù del principio dell’integrità del bilancio, il privato
non può infatti operare una compensazione di un proprio debito con un credito vantato nei confronti dello
Stato. I crediti non prescritti, certi, liquidi ed esigibili, maturati nei confronti dello Stato, possono essere
compensati con le somme dovute a seguito di iscrizione a ruolo.
In generale, secondo la disciplina, l’omissione dei doveri dalla stessa imposti che abbia causato la condanna
al pagamento di somme per risarcimento danni o per interessi moratori è causa di responsabilità
amministrativa a carico del soggetto responsabile del mancato o tardivo adempimento. infine, con l’obiettivo
di assicurare il pagamento dei debiti, la normativa individua “spazi finanziari” e, cioè, sblocca circa 40
miliardi in due anni, sottraendo al patto di stabilità i pagamenti entro un limite indicato dal decreto stesso.
Con riferimento ai casi in cui gli enti non possano far fronte ai pagamenti, la legge prevede l’istituzione di un
fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili.
Ciò chiarito in ordine alla disciplina di cui alla l. 64/2013, tornando ai principi generali, si aggiunge che si
ritiene inapplicabile alla pubblica amministrazione l’art. 1181 c.c., sicché il creditore privato non può
rifiutare un adempimento parziale della pubblica amministrazione, il che può avvenire quando in bilancio
non sia stanziata una somma sufficiente a pagare l’intero debito.
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Un istituto peculiare del diritto pubblico è inoltre costituito dal fermo amministrativo, disciplinato dall’art.
69 della legge di contabilità dello Stato: «qualora un’amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo,
ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del
pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo». In altri termini,
l’amministrazione creditrice verso un creditore di altra amministrazione chiede la sospensione provvisoria
dei pagamenti dovuti dall’amministrazione debitrice, senza la necessità di utilizzare lo strumento del
pignoramento o del sequestro.
La responsabilità patrimoniale è l’istituto, disciplinato dal codice civile, posto a presidio delle ragioni dei
creditori. Il titolare del diritto di credito, ai sensi dell’art. 2740 c.c., vede tutelate le sue ragioni dal fatto che il
debitore risponde dell’adempimento delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. In caso
di inadempimento dell’obbligazione, ove il credito risulti da un titolo esecutivo (art. 474 c.p.c.), il creditore
può poi procedere all’esecuzione forzata al fine di ottenere la soddisfazione del proprio interesse. Alcuni
beni dell’amministrazione, tuttavia, si sottraggono all’esecuzione forzata: il soggetto pubblico, in altri
termini, non risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni. In particolare, i beni riservati
all’amministrazione e quelli destinati a funzioni e servizi pubblici non sono pignorabili. L’esecuzione
forzata, in linea di massima, è quindi possibile solo nei confronti dei beni patrimoniali disponibili. Discorso
analogo può essere svolto in ordine al sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c.: i beni demaniali e
quelli patrimoniali indisponibili non sono sequestrabili perché riservati o destinati ad una funzione o ad un
servizio pubblico.

CAPITOLO IX

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA ITAL1ANO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA E LA


TUTELA INNANZI AL GIUDICE ORDINARIO

1. Giustizia amministrativa: definizione e cenni di diritto comparato

Con il termine “giustizia amministrativa” si indica nel nostro ordinamento un complesso di istituti
assoggettati a differenti discipline. La giustizia amministrativa comprende infatti:
− le disposizioni che trovano applicazione a opera del giudice amministrativo o di un giudice
amministrativo speciale;
− parte delle disposizioni relative al giudizio che si svolge dinanzi al giudice- ordinario; −
la normativa sui ricorsi amministrativi.

Di tali discipline alcune sono di natura processuale, altre (relative ai ricorsi amministrativi) di natura
sostanziale. La giustizia amministrativa italiana si caratterizza così per la presenza di rimedi giurisdizionali
(dinanzi al giudice ordinario, a quello amministrativo e ai giudici amministrativi speciali) e di rimedi
amministrativi. Inoltre, confluisce in essa l’intero processo amministrativo, mentre, per ciò che attiene al
giudice ordinario, le trattazioni di giustizia amministrativa si occupano in particolar modo di studiare le
disposizioni processuali che trovano applicazione quando parte del rapporto processuale sia una pubblica
amministrazione. Va pero osservato che l’art. 117 c. 2, lett. l della Costituzione. attribuisce oggi alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato le materie della “giurisdizione e norme processuali (...); giustizia
amministrativa”: quest’ultima, per esclusione, parrebbe includere i soli rimedi non aventi natura
giurisdizionale. Ma l’espressione “giustizia amministrativa” è chiaramente usata nell’art.125 Cost. (che si
riferisce agli organi di primo grado appunto di giustizia amministrativa) per indicare rimedi giurisdizionali. Il
momento unificante di questo eterogeneo sistema è rappresentato dalla comune finalità, costituita dalla tutela
del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione attraverso il riconoscimento del potere di
rivolgersi ad una autorità (giudice ammnistrativo, giudice ordinario, autorità amministrativa) al fine di
ottenere giustizia.
L’attuale sistema è il frutto di un lungo e complesso processo che affonda le proprie radici in periodi storici
ormai risalenti. Già nello Stato assoluto e nello Stato di polizia erano presenti meccanismi volti a sindacare
il rispetto delle regole di condotta de] potere amministrativo; tuttavia l’esigenza di soddisfare la domanda di
giustizia dei privati si fece più pressante dopo la Rivoluzione francese e in occasione della nascita dello Stato
a regime amministrativo. Se l’affermazione della separazione dei poteri condusse alla sottrazione
dell’attività amministrativa al sindacato dell’autorità giudiziaria, ciò non impedì la creazione di un sistema di
tutela speciale e interno ad esso (contentieux administratif); in questo sistema il Consiglio di Stato si
trasformò. da organo di giustizia ritenuta, secondo un modello in cui la decisione finale era pur sempre

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emanata dal capo del potere esecutivo (il Consiglio si limitava a formulare la decisione), in organo di
giustizia delegata (al quale, dunque, era attribuito l’esercizio della funzione giurisdizionale) nel 1872: ebbe
luogo così, nel modello francese, l’enucleazione di un corpo di regole peculiari di “diritto amministrativo”.
Tale sistema può essere definito modello monistico con prevalenza del giudice amministrativo, in quanto
caratterizzato dalla presenza di un giudice amministrativo, non completamente separato dall’esecutivo, che si
presenta come “maggior polo d’attrazione” delle liti con l’amministrazione, occupandosene con competenza
tendenzialmente generale.
Per quanto attiene all’attualità, con l. 95-125/1995, il Consiglio di Stato francese è stato trasformato da
giudice d’appello in giudice di “cassazione”, mentire i giudici di appello sono le Cours administratives
d’Appel. In Francia più di recente si va imponendo il richiamo alla natura della disposizione che deve essere
applicata nel caso su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi. Accanto ai ricorsi per l’annullamento dell’atto,
sono ammissibili ricorsi di piena giurisdizione, mediante i quali si chiede al giudice anche la condanna
dell’amministrazione al pagamento di una somma a titolo di risarcimento. Il modello francese fu esteso in
alcuni Paesi dell’Europa occidentale e perfino in alcuni Paesi latino-americani. In Germania la nascita degli
istituti del contenzioso avvenne soltanto dopo la metà dell’Ottocento; i giudici amministrativi tedeschi (i
quali oggi hanno competenza generale a decidere le controversie circa le materie di diritto pubblico e sono
nettamente separati dall’amministrazione) si articolano in giudici di primo grado, giudici d’appello (presenti
in ogni Stato) e nel giudice di revisione delle decisioni dei giudici d’appello. Le azioni ammissibili sono
quella di annullamento, quella di condanna (che ricomprende anche la condanna all’emanazione di un atto
amministrativo) e l’azione di accertamento di rapporti o della nullità dell’atto amministrativo. Diverso invece
è il modello monistico con prevalenza del giudice ordinario, ispirato a una differente visione del
liberalismo e attutato nel sistema belga, che nel 1831 istituì la giurisdizione unica, soluzione che influenzò
profondamente il diritto italiano.
Attualmente sussiste una netta censura tra sistema continentale (tranne il Belgio) e il modello inglese,
caratterizzato dalla giurisdizione unica del giudice ordinario. La tradizione liberale del potere, che affonda le
sue radici nella Magna Charta del 1215, e la supremazia del Parlamento non offrirono nel Regno Unito spazi
sufficienti per la creazione di un regime specifico di giurisdizione per l’azione amministrativa. Il controllo
sull’amministrazione e sul governo si sviluppò come controllo di legalità esercitato dal parlamento, posto in
superiorità rispetto all’esecutivo. Di conseguenza, i rapporti tra privati e amministrazione erano, e sono
ancora oggi, equiparati a quelli tra privati e assoggettati allo stesso diritto comune. Le corti ordinarie
giudicano anche nella materia amministrativa. Per quanto riguarda la struttura dell’apparato giudiziario, al
vertice si colloca l’House of Lords, mentre al di sotto vi è la Court of Appeal e l’High Court, distinta in
Family Division, Chancery Division e Queen’s Bench Division. Nel segno della separazione tra i poteri dello
Stato, il Constitutional Reform Act del 2005 introduce nel Regno Unito la Corte suprema, alla quale sono
trasferite tutte le funzioni giurisdizionali della House of Lords.

2. L’evoluzione del sistema italiano

Nel 1831 venne istituito da Carlo Alberto il Consiglio di Stato: tale organo sarebbe divenuto in seguito
punto di riferimento del sistema di giustizia amministrativa; esso era diviso in 3 sezioni e fu mantenuto dallo
statuto del Regno concesso nel marzo 1948. Attribuzioni contenziose erano invece riconosciute a livello
periferico ai Consigli di intendenza, qualificati dal regio editto del 1847 come giudici ordinari del
contenzioso amministrativo. La competenza a giudicare in appello le decisioni di tali consigli era attribuita
alla Camera dei conti (denominata Corte dei conti a partire dal 1859), le cui decisioni potevano essere
impugnate per incompetenza dinanzi al Consiglio di Stato. Nel 1859, a seguito della riforma Rattazzi, giudice
supremo del contenzioso venne riconosciuto il Consiglio di Stato, al quale poteva essere presentato appello
nei confronti di una serie di controversie relative a diritti civili (appalti), di diritto pubblico (imposte, tasse
provinciali e comunali) e relative a contravvenzioni. Il Consiglio di Stato giudicava in unico grado sulle
controversie relative al debito pubblico e alle pensioni. Gli organi indicati costituivano nel loro complesso i
Tribunali ordinari del contenzioso amministrativo. Al Re era riservata la soluzione dei conflitti che
insorgessero tra amministrazione e giudici, ovvero tra tribunali ordinari e speciali; tutte le restanti questioni
erano risolte in via amministrativa dalla pubblica amministrazione.
Al momento in cui venne raggiunta l’unità d’Italia, il nuovo Stato dovette affrontare il tema dell’unificazione
del sistema di giustizia amministrativa. Questa fu risolta nel 1865 quando fu emanata la l. 2248/1865,
composta da un solo articolo, la quale era completata da sei allegati: il più interessante, in questione, è
l’allegato E (ancora in vigore). Il legislatore post-unitario accolse il modello belga: in quello Stato (come
detto precedentemente) erano state devolute alla giurisdizione dei tribunali ordinari sia le questioni relative ai
diritti privati, sia quelle relative ai diritti politici. Tale fu quindi la fonte ispiratrice della legge del 1865, detta
anche legge abolitrice del contenzioso amministrativo, che aboliva soltanto il contenzioso amministrativo
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ordinario, lasciando intatte alcune giurisdizioni amministrative “speciali”: in particolare si ricordano le


competenze della Corte dei conti in materia contabile e di pensioni e quelle del Consiglio di Stato in
relazione ad alcune controversie tassativamente indicate, nonché ai ricorsi per annullamento avverso le
decisioni della Corte dei conti. Il criterio per individuare la giurisdizione era dunque quello della natura della
situazione giuridica di cui si affermasse la lesione (art. 2). Per quanto attiene alle questioni non attinente a
diritti (art. 3), la “tutela” era lasciata alle amministrazioni: lo spartiacque della tutela giurisdizionale
coincideva con la distinzione tra diritti soggettivi (uniche situazioni tutelabili) e “altri affari” (questioni non
attinenti a diritti) e la tutela delle posizioni soggettive di cui non poteva conoscere il giudice ordinario era
affidata ai soli ricorsi amministrativi. Il potere del giudice ordinario era limitato alla conoscenza degli effetti
dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, escluso dunque quello di revocare o annullare l’atto
stesso. Inoltre si sanciva l’obbligo di applicare solo gli atti amministrativi e i regolamenti conformi a leggi.
La soppressione dei tribunali del contenzioso amministrativo mostrò come fosse grave la lacuna di tutela che
si era aperta in relazione alla situazioni dei privati che non avessero la dignità di diritti soggettivi, tenendo
conto della “timidezza” talora mostrata dall’ordine giurisdizionale nei confronti della pubblica
amministrazione. Il giudice ordinario, in particolare, escludeva la propria giurisdizione nei casi in cui il
comportamento del soggetto pubblico coinvolgesse in qualche modo le funzioni amministrative, ritenendo
che ciò fosse sufficiente a determinare l’estinzione del diritto soggettivo. Di conseguenza, le ipotesi nelle
quali sopravviveva un sindacato giurisdizionale risultavano estremamente limitate. Iniziarono dunque a
fiorire voci critiche in ordine al sistema adottato con la legge del 1865. Esso venne modificato con la
1.3761/1877, la quale attribuì alle sezioni unite della Corte di cassazione di Roma la competenza, in
precedenza spettante al Consiglio di Stato (l. 2248/1865, allegato D), a risolvere i conflitti di attribuzione
tra giudice ordinario e pubblica amministrazione. La reazione al sistema sorto a seguito della svolta del 1865
ebbe come principale protagonista Silvio Spaventa, che affermò l’importanza essenziale dell’istituzione di un
giudice per la soluzione delle controversie tra amministrazione e cittadini. In particolare venne sottolineata
l’insufficienza della tutela assicurata dall’art. 3, l. 2248/1865, all. E agli interessi non configurabili come
diritti. Il dibattito sfociò nella riforma del 1889. Con l’approvazione della 1.5992/1889, istitutiva della IV
sezione del Consiglio di Stato, la giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione risultò divisa tra
due ordini giurisdizionali, caratterizzando il nostro sistema di giustizia come “dualistico”.
Almeno fino al 1907, anno in cui fu affermata espressamente la natura giurisdizionale delle decisioni del
Consiglio di Stato, non vi fu unanimità di opinioni in ordine al carattere giurisdizionale di esso: alcune voci
infatti affermarono che la nuova istituzione fosse pur sempre da collocare nell’ambito del potere esecutivo;
più precisamente, si sarebbe trattato di una forma di controllo amministrativo, pur assistita dalla garanzia del
contraddittorio. D’altro canto va notato che la IV sezione aveva gli stessi poteri di annullamento degli atti
spettanti in via di autotutela all’amministrazione. Vero è che la giurisdizione del giudice amministrativo era
individuata facendo riferimento all’illegittimità del provvedimento; quasi immediatamente (v. Cass., sez. un.,
24 giugno 1891: par.5) il sistema si assestò secondo un principio di duplicità-esclusione, nel senso che le due
aree interessate dalle giurisdizioni del giudice ordinario e di quello amministrativo in ordine alle controversie
di cui fosse parte l’amministrazione vennero ritenute escludersi a vicenda: il giudice ordinario continuava a
conoscere della lesione dei diritti soggettivi, mentre il giudice amministrativo si occupava della sola
illegittimità degli atti amministrativi derivante della violazione di norme differenti, di norme cioè che
disciplinano l’azione della pubblica amministrazione.
La legge istitutiva della IV sez., anche se soltanto sotto il profilo processuale, obbligava a spostare
l’attenzione dall’amministrazione che si rapporta con gli altri soggetti dell’ordinamento titolari di diritti e
collocati su di un piano di parità, all’amministrazione che esercita un potere, consentendo di sindacare la
legittimità di tale esercizio in vista dell’interesse pubblico; emergeva così il momento della
funzionalizzazione dell’azione amministrativa.
L’opera di riforma del sistema di giustizia amministrativa fu completata grazie all’attribuzione, con la legge
6837/1890, alle giunte provinciali amministrative della competenza, estesa di regola anche al merito, a
conoscere di alcune controversie tassativamente indicate e relative agli atti degli enti controllati in sede
locale, prevedendo altresì la possibilità di appello al Consiglio di Stato.
Per quanto attiene ai rimedi non giurisdizionali, le innovative riforme di questi anni non intaccavano in modo
decisivo il ruolo e la funzione dei ricorsi amministrativi e in particolare il ricorso gerarchico. In ogni caso, la
proposizione del ricorso giurisdizionale non era ammissibile nelle ipotesi in cui fosse stato esperito il ricorso
amministrativo e, per quanto attiene al Consiglio di Stato, era subordinata alla definitività dell’atto, carattere
questo che poteva essere acquisito mediante l’impiego di un rimedio amministrativo.
Nel 1907 fu istituita la V sez. alla quale fu attribuita unicamente la giurisdizione di merito. II coordinamento
con la IV sez. era affidato alle sezioni riunite. Nello stesso anno furono approvati i testi unici sul Consiglio di
Stato, sulla giunta provinciale amministrativa e il regolamento di procedura avanti al Consiglio di Stato (r.d.
642/1907, ancora oggi in vigore). Negli anni 1923-1924 fu abolita la distinzione di competenza tra IV e V
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sezione e fu introdotta la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato: infatti in ordine ad alcune materie
tassativamente indicate, tra cui quella del pubblico impiego, in cui era difficile distinguere tra diritti
soggettivi e interessi legittimi e in cui i conflitti di giurisdizione erano particolarmente frequenti, si decise la
devoluzione della giurisdizione al giudice amministrativo, competente a sindacare anche della lesione di
diritti, con “esclusione” della giurisdizione del giudice ordinario. Fu riconosciuto al giudice amministrativo il
potere di giudicare, con efficacia limitata al caso, delle questioni pregiudiziali e incidentali relative a diritti,
ad eccezione delle questioni di stato e falso documentale.
Nel 1948 fu istituita la VI sez. del Consiglio di Stato (d.lgs. 642/1948) e il Consiglio di giustizia
amministrativa per la Sicilia (d.lgs. 654/1948). Siamo giunti al periodo della costituzione, la quale contiene
importanti disposizioni di giustizia amministrativa o, per meglio dire, di quella giustizia amministrativa
costituita dai mez