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IL DIRITTO DEI PRIVATI NELL’ESPERIENZA ROMANA

Principia
De iure*
La norma giuridica è ogni regola che disciplina la vita organizzata e che rientra nell’ordinamento giuridico. La norma
giuridica ha i caratteri della generalità e dell’astrattezza.

Generalità nel senso che, non essendo dettata per i singoli, si rivolge a una moltitudine di persone o
comunque a intere categorie di soggetti.
Astrattezza perché non è posta per disciplinare il singolo caso concreto, bensì fattispecie previste
ipoteticamente e in modo astratto dal legislatore.
Coercibilità rappresenta il carattere per cui il precetto contenuto nella norma il più delle volte è
connesso a una sanzione, che ne garantisce l’operatività.

De periodis*
La periodizzazione più diffusa del diritto romano è quella che distingue 4 differenti stadi evolutivi:

1. Periodo arcaico, che va dalla fondazione di Roma (753 a.C.) all'emanazione delle leges
Liciniae-Sextiae (367 a.C.); storicamente, corrisponde al periodo monarchico;
2. Periodo preclassico, che va dall'emanazione delle leges Liciniae-Sextiae fino all'avvento del
principato (27 a.C.); storicamente corrisponde al periodo della Repubblica Romana;
3. Periodo classico che va da Augusto (27 a.C.) fino all'avvento dell'imperatore Diocleziano (284);
4. Periodo postclassico, che va dal regno di Diocleziano al regno di Giustiniano (568); storicamente
comprende il periodo dell'Impero Romano d'Occidente.

De fontibus §
Il diritto romano trae origini dalle fonti. Dicesi fonte un fatto, uno scritto, una testimonianza che permette di
conoscere il diritto. Le fonti possono essere di due tipi: La fonte di produzione e la fonte di cognizione.

- La fonte di produzione è tutto ciò che ha contribuito alla creazione del diritto romano.

Ist. di Gaio, I,2: Constant autem iura populi romani ex legibus, plebiscitis, senatoconsultis,constitutionibus principum
edictis eorum qui ius edicendi habent, responsis prudentium.
Traduzione : gli ordinamenti giuridici del popolo romano sono costituiti da leggi, plebisciti, senatoconsulti,
costituzioni dei principi, editti dei magistrati competenti, responsi dei giuristi.

D.1,1,7,pr.-1 (Papiniano, Definizioni, 2): Ius autem civile est, quod ex legibus, plebis scitis,senatus consultis, decretis
principum, auctoritate prudentium venit. Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi
vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honorariumdicitur ad honorem praetorum sic
nominatum.
Traduzione: il diritto civile è quello che proviene dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dai decreti dei principi,
dall’autorità dei giuristi. Il diritto pretorio è quello che fu introdotto dai pretori per ragioni di pubblica utilità allo
scopo di migliorare, integrare e correggere il diritto civile.

- La fonte di cognizione è tutto ciò che contribuisce alla conoscenza del diritto romano direttamente (fonte
di cognizione tecnica) o indirettamente (fonte di cognizione atecnica). La nostra fonte di cognizione primaria è il
Corpus iuris civilis di Giustiniano. Il Corpus è una revisione organica di tutte le norme giuridiche vigenti nel tempo
repubblicano (leges), delle disposizioni imperiali (leges imperiales), e dei pareri dei più illustri giuristi della storia
romana. Più specificatamente, il Corpus iuris civilis si articola in quattro parti: Il Codex raccoglienti le disposizioni
imperiali, i digesta seu pandectae, che raccolgono invece le norme dei giuristi, le istitutiones, un compendio di
quattro libri realizzato per la cupida legorum iuventus, ovvero per gli studenti bramosi di diritto ed infine le novellae
leges,
presenti nella seconda edizione del libro, che raccoglie le leggi introdotte da Giustiniano.

De fontibus in temporis §
- I mores (costumi) sono tradizioni, consuetudini che, anche se non scritte, debbono essere necessariamente
rispettate.
- Le leges (manifestazioni di volontà), sono provvedimenti provenienti dal Re (lex regia), oppure dal Senato.
Esse intervengono nella repressione dei comportamenti criminosi più gravi (crimina), quali il delitto, l’alto
tradimento, problemi di tipo cultuale, che sconvolgono l’assetto della comunità.
- I foedera (patti) regolano le iniziative riguardo alla comunità, le dichiarazioni di guerra, i problemi
interindividuali intrattenuti fra i soggetti.
- L’interpretatio (con riferimento alle leggi) è il presupposto primo per l’applicazione del diritto e consiste in
un processo tecnico per cui, partendo dalle parole della legge e considerando ulteriori elementi, si perviene a
ricostruire l’effettiva portata della norma giuridica.
La interpretatio prudèntium (cioè dei soggetti particolarmente esperti di diritto) peraltro, nei tempi più antichi,
aveva portata più vasta, importando sviluppo ed adattamento del diritto vigente alle contingenze della vita: si diceva
infatti che tutto il iùs civile consisteva nella interpretatio prudentium. Funzione dell’interprete, quindi, era quella di
interpretare ed adottare gli antichi costumi, con la conseguenza che i giuristi erano considerati iuris auctòres, ossia
veri e propri autori del diritto vigente. Sul finire dell’epoca classica venne attribuito valore vincolante al parere dei
giureconsulti e si giunse gradatamente a far coincidere il ius civile con la sola interpretazione giurisprudenziale.
Secondo la famosa definizione di Cicerone (de orat. 1.212) i giuristi operavano tre tipi d’intervento: respondère,
consistente nel fornire responsi su una determinata questione; àgere, cioè comporre schemi processuali su richiesta
dei magistrati dei privati (tale attività non va confusa con l’assistenza in giudizio che spetta all’avvocato, non al
giurista); cavère, cioè l’elaborazione di schemi negoziali, quali testamenti, mancipationes, stipulationes ecc.
Particolare rilievo nel periodo arcaico ebbe, altresì, l’interpretatio pontìficum; il monopolio pontificale della
interpretatio durò sino al III sec. a.C., per lasciare spazio ad analoga attività interpretativa da parte della
giurisprudenza laica.
La interpretatio comprendeva anche quella che i moderni chiamano interpretazione analogica o analogìa: attraverso
di essa infatti fu ampliata la cerchia delle servitùtes dei contractus, delle disposizioni testamentarie.

- Lo ius civile indica il complesso delle norme che regolamentava i rapporti tra cittadini romani:
originariamente trasmesso dagli antichi padri per via consuetudinaria (mòres) fu sancito dalle lèges, dai plebiscìta,
dai senatusconsùlta, dai respònsa prudèntium e dalle constitutiònes imperiali.
Secondo Gaio, il ius civile si distingueva dal ius gèntium , in quanto mentre il primo era costituito esclusivamente le
norme vigenti nella cìvitas romana, il secondo includeva un gruppo di disposizioni, derivanti dalla ragione naturale
(naturàlis ràtio) e, come tali, osservate presso tutti i popoli.
A seguito della costituzione caracalliana del 212 d.C., che concesse la cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero, la
distinzione tra ius civile e ius gentium perse qualsiasi rilevanza pratica e rimase valida sotto il profilo astrattamente
dottrinale.
Il ius civile novum è quel nuovo settore del ius civile che si formò grazie all’attività giurisdizionale del pretore
urbano, il quale ammise l’applicabilità anche ai cittadini di nuovi rapporti di carattere prevalentemente
commerciale, sconosciuti al vecchio ius civile. Questi in origine erano stati riconosciuti e tutelati dal praetor
peregrinus nei rapporti tra Romani e stranieri. Il ius civile novum fu denominato dai giuristi di età classica ius
gentium.

- Lo Ius honoràrium (vel ius prætòrium) è un complesso di norme create di volta in volta dal pretore, per
regolare casi concreti non direttamente disciplinati dal ius civile, attraverso una procedura snella e priva, per quanto
possibile, di formalismi. Oltre a supplire alle lacune del ius civile, il ius honorarium, talvolta, vi apportava correttivi,
onde impedire la rigida applicazione di norme (di origine vetusta) ritenute non più accettabili in un mutato
panorama storico-politico. Nei casi in cui il ius honorarium si contrapponeva al ius civile, questo non era
formalmente abrogato, non avendone il magistrato il potere, ma solo reso inoperante: in pratica il dualismo si
componeva con la prevalenza del ius honorarium, poiché il magistrato rendeva il ius civile inattivo nel caso concreto.
Nell’epoca imperiale a questi due sistemi giuridici si aggiunse gradatamente la cognìtio extra ordine cui
appartenevano quelle nuove norme imperiali che non si facevano valere attraverso il processo per formulas, ma al di
fuori di questo sistema, cioè extra òrdinem. Per tutta l’epoca classica questo sistema interferì con il ius civile e il ius
honorarium, ma ne rimase distinto.
In epoca postclassica si accelerò il processo di unificazione, che si concluse nel diritto giustinianeo con la
affermazione del principio dell’unità del diritto: Scomparso il sistema formulare e diventato il processo
esclusivamente extra òrdinem e venuto meno ogni potere discrezionale del magistrato, (costretto ad attenersi alla
legge), la separazione tra ius civile, ius honorarium e ius extra òrdinem scomparve.

- L’edictum è una fonte di produzione del ius honorarium o ius prætorium, risalente all’incirca alla metà del
II sec. a.C. L’edictum viene pubblicato dai vari magistrati giusdicenti [prætor urbanus, prætor peregrìnus, ædìles
curùles, præses provinciae] all’inizio di ogni anno di carica per preannunciare e rendere pubbliche le linee
programmatiche cui si sarebbero ispirati nel corso dell’anno di carica. Il successore non era giuridicamente vincolato
alle disposizioni edittali emanate dal predecessore; tuttavia, in linea di massima, vi era una certa uniformità tra i vari
editti ai quali, su una base immutata, venivano apportate le modifiche ed i correttivi di volta in volta ritenuti
necessari. Si parlò, in proposito, di edictum tralatìcium. Il susseguirsi degli editti magistratuali determinò la
formazione di un complesso considerevole di norme che si tramandavano di magistrato in magistrato. Nell’età del
principato, la potenzialità creativa dell’edictum si inaridì: anzi, se si deve credere a talune fonti, l’imperatore Adriano
avrebbe addirittura commissionato al giurista Salvio Giuliano una “codificazione dell’editto”, che assunse così una
forma definitiva dalla quale i magistrati non potevano in alcun modo discostarsi. Si distinguevano:

- l’edictum perpetuum, se, come di regola, l’editto era destinato a rimanere in vigore per tutto l’anno;

- l’edictum repentìnum, qualora fosse diretto alla risoluzione di una o più fattispecie determinate. Al di fuori
di ogni pronuncia edittale il magistrato poteva anche adottare una decisione specifica ed estemporanea con
un decretum.

L’importanza dell’attività edittale è immediatamente percepibile ove si consideri che lo sviluppo dell’attività
normativa magistratuale, sempre più nettamente differenziantesi dagli schemi del tradizionale iùs civile, si tradusse
nella formazione di un ordinamento giuridico sostanzialmente autonomo ed autosufficiente, denominato ius
honoràrium, caratterizzato da una matrice equitativa e da una spiccata attenzione alle problematiche derivanti dalla
vita quotidiana e dalle nuove esigenze da questa proposte.

- Ius controvèrsum è un’espressione con la quale si suole indicare un’unica opinione dominante, avente
rilevanza normativa, emersa dalla ricomposizione di una pluralità di divergenti soluzioni (sententiae) individuate da
più giuristi, allo scopo di risolvere determinati problemi.

- Il ius publice respondendi, secondo la trattazione che ne fa Pomponio, è una facoltà concessa, fin dai
tempi di Augusto, ai giuristi di maggior valore. Questi potevano fornire pareri particolarmente autorevoli, capaci di
vincolare i giudici, e che, pertanto, venivano considerati fonti di diritto. In dottrina si è rilevato che Augusto, onde
limitare il proliferare di respònsa giurisprudenziali, ritenne opportuno conferire ad alcuni giuristi, particolarmente
meritevoli, una sorta di patente di buon giurista. In origine, i pareri dei giuristi cui era attribuito il ius publice
respondendi non erano vincolanti per il giudice, ma erano rivestiti di un’autorevolezza maggiore di quelli dei giuristi
che ne erano sforniti (ciò comportava l’inutilità di produrre in giudizio i pareri di quest’ultimi). Il ius publice
respondendi fu compiutamente disciplinato da Tiberio, che lo trasformò in un privilegio di concessione imperiale che
attribuiva ai responsa dei giuristi che ne erano forniti carattere vincolante per i giudici. La concessione del ius publice
respondendi ben presto fu riservata non ai giuristi più meritevoli, bensì a quelli più vicini agli orientamenti del
prìnceps; attraverso essa, risultando vincolanti per i giudici i pareri dei giuristi che godevano di tale privilegio, il
prìnceps finiva col controllare in modo penetrante l’amministrazione della giustizia, privando la magistratura di ogni
autonomia.
- Il Ius nòvum (o extraordinarium) è l’insieme delle nuove norme formatesi per iniziativa del principe.
Nucleo di esso furono le fonti giuridiche extra ordinem, in primis le costituzioni imperiali. Accanto ad esse si pose
tutto ciò che si affermò per iniziativa dei principi sia pure sotto forme giuridiche repubblicane (ad es. senatus
consulta). Il ius novum non abrogò il ius vetus. Il ius civile vetus e il ius honorarium rimasero formalmente in vigore,
ma furono semplicemente disapplicati ovunque fossero introdotti principi innovativi.

La bipartizione iura - leges, in diritto postclassico, indicava il complesso normativo esistente in Roma, in particolare:

iura erano frammenti di opere di giuristi classici. Agli scritti dei più famosi giureconsulti dell’età classica, l’imperatore
riconobbe valore di norma giuridica;

leges era definito l’insieme delle costituzioni imperiali, fonti ben presto assolutamente prevalenti rispetto a quelle
risalenti. L’insieme delle leges fu detto anche ius novum.

Il Codex Theodosiànus costituì l’ideale continuazione del Codex Gregoriànus e del Codex Hermogeniànus ed
inaugurò la serie delle codificazioni tardo-romane. Pubblicato il 15 febbraio del 438 d.C. nella parte orientale
dell’impero, il Codex fu adottato dall’imperatore d’Occidente Valentiniano III e, a partire dal 1° gennaio del 439 d.C.,
entrò in vigore in tutto l’impero. In esso erano contenute solo leges generales cioè provvedimenti normativi.
L’opera, strutturata sulla falsariga dei due codici innanzi menzionati, constava di 16 libri, ciascuno dei quali si
divideva in un certo numero di tituli; ogni titolo era dedicato, a sua volta, alla trattazione di una data materia e delle
relative costituzioni imperiali, enumerate secondo un ordine cronologico.

De iurae interpretatione

- L’interpretazione è un’attività di ricerca e chiarificazione del significato contenuto nel testo di una norma
giuridica. Ogni disposizione, infatti, può dar luogo a un gran numero di interpretazioni a seconda del caso che, di
volta in volta, si è chiamati a risolvere. L'interpretazione della legge non viene mai condotta esclusivamente
riferendosi al dato testuale bensì alla luce di tutta una serie di elementi che si trovano al di fuori del testo la cui
interpretazione varia a seconda del caso e delle circostanze. Dopo aver individuato il significato di ciascuna parola (e
tenendo presente che una parola non ha mai un solo significato) si deve interpretare la disposizione tenendo
presente la cosiddetta intenzione del legislatore a cui il dato normativo spesso rimanda. Il tecnico del diritto, nella
sua opera di interpretazione del dato normativo, può ricorrere a integrazioni o estensioni della norma facendo
ricorso a elementi extralegislativi.

- Analògia lègis è un procedimento attraverso il quale l’interprete, nel caso in cui la fattispecie
concreta sottoposta al suo esame non appare disciplinata da alcuna disposizione di legge specifica, desume
la disciplina applicabile da disposizioni di legge dettate per fattispecie concrete affini a quella di volta in
volta in esame.

- Analògia iùris è un procedimento attraverso il quale l’interprete, nei casi in cui la fattispecie
concreta sottoposta al suo esame non appare disciplinata da alcuna disposizione di legge (specifica, o
comunque suscettibile di analogia legis), applica i principi generali tratti dall’ordinamento giuridico vigente,
pur se non dettati da espresse disposizioni di legge.

De iuris privatis ac publicis


D.1,1,1,2-3 (Ulpiano, Ist., 1): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum.Publicum ius est quod ad statum
rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim.
Due sono gli aspetti di questo studio: il pubblico e il privato. Diritto pubblico è quello che concerne l’utilità dello
stato romano; diritto privato quello che riguarda l’interesse dei singoli: talune cose sono infatti utili allo stato, altre
per i privati.

De relationis inter subiectos

- Il rapporto giuridico è una relazione fra soggetti giuridici con riferimento ad un oggetto giuridico. Spinti
dalla personale tendenza al bene, definita interesse, gli individui infatti si incontrano, e molto spesso si scontrano
per un determinato oggetto. Il diritto stabilisce la preminenza di un soggetto su un altro: La situazione attiva, quella
in
cui il soggetto è ritenuto preminente; la situazione passiva, quella in cui il soggetto è in una posizione subordinata.
Nei confronti dell'oggetto giuridico il soggetto avanza una pretesa, ovvero una richiesta (actio), che costringe il
soggetto passivo ad una situazione di subordinazione. Nel caso il soggetto passivo non voglia attenersi alla sua
condizione di subordinazione, il soggetto attivo è tenuto o ad autotutelarsi con l'uso della violenza (vis); oppure fare
ricorso alla giurisdizione.
I rapporti fra due soggetti possono essere di due tipi: Il rapporto assoluto ed il rapporto relativo.

- Nel rapporto assoluto il soggetto attivo rivolge la sua pretesa a tutti i soggetti passivi (omnes), che
sono nella condizione di non poter intervenire (pati).
- Nel rapporto relativo un soggetto attivo determinato rivolge la sua pretesa ad un soggetto passivo
determinato, che è chiamato ad un’attività di dare, fare o non fare (dare, facere, non facere).

Si è soliti distinguere inoltre i rapporti assoluti, in rapporti assoluti in senso proprio ed in senso improprio. Questi
ultimi, come i rapporti relativi, concernono una relazione fra due soggetti determinabili, ma come i rapporti assoluti,
il soggetto attivo rivolge la sua pretesa verso tutti (erga omnes).
E’ bene fare due esempi: L’usufrutto e la locazione.

- L’usufrutto è il diritto di usare la cosa altrui e trarne i frutti rispettandone però la particolare utilità che la
cosa presenta al momento della costituzione dell’usufrutto (ius utendi, ius fruendi).
Qui, nel caso l’usufruttuario (soggetto attivo) venga danneggiato da un terzo, è chiamato a rivolgersi contro il terzo
(actio in rem) che lo ha danneggiato, in quanto pretende che il suo diritto venga rispettato da tutti: Il rapporto
dunque che si instaura in questa situazione è assoluto in senso improprio.
- La locazione è il contratto con il quale una parte (proprietario, locatore) si impegna a far godere ad
un’altra (conduttore) parte di una cosa mobile o immobile per un certo tempo.
Qui, nel caso il conduttore venga danneggiato da un terzo, è chiamato a rivolgersi non al terzo, ma al locatore (actio
in personam), l’unico soggetto con il quale viene considerato in contratto: Il rapporto è pertanto di tipo relativo.

E’ bene inoltre ricordare che i rapporti assoluti in senso proprio si distinguono da quelli in senso improprio per
essere illimitati nel tempo. Con la formula “illimitati nel tempo” si allude al fatto che la proprietà in un rapporto
assoluto proprio, anche se non usata per un lungo periodo di tempo, non si estingue (imprescrittibilità), salvo che
non venga usurpata da qualcuno senza che sia contestato (prescrizione acquisitiva). Nel rapporto assoluto
improprio, invece il soggetto perde la facoltà di utilizzare la proprietà, nel caso non se ne avvalga per lungo tempo
(prescrizione
estintiva).

De agendi possibilitate
Principia*
E’ ignota al diritto romano una compiuta elaborazione del concetto di capacità nelle sue varie estrinsecazioni
(giuridica, di agire); con connotazioni particolari, venivano, in diritto romano, adoperati i termini di persona, càput e
stàtus. Nel diritto vigente, si distinguono essenzialmente:

- La capacità giuridica, che è l’attitudine del soggetto ad esser titolare di diritti e doveri e viene acquistata da
tutte le persone fisiche nate vive, nonché dalle persone giuridiche per effetto del riconoscimento (art. 12
c.c.). Essa viene meno con la morte delle persone fisiche o con l’estinzione delle persone giuridiche;

- la capacità d’agire, che è l’attitudine a compiere manifestazioni di volontà che siano idonee a modificare la
propria situazione giuridica e spetta, nella sua pienezza, alle persone fisiche che abbiano compiuto il
diciottesimo anno di età, nonché, sia pur con qualche limitazione (art. 17 c.c.), alle persone giuridiche
riconosciute. Può essere limitata oppure esclusa in presenza di particolari condizioni di salute, psico-fisiche
(interdizione, inabilitazione), o di condanne penali (interdizione legale).

In diritto romano, l’acquisto della piena capacità giuridica si aveva con la nascita; allo scopo, occorreva esser nati
vivi. Più in generale, l’esistenza dell’essere umano veniva collegata all’evento della nascita in condizioni di vitalità e
comunque all’effettiva vita; in particolare:

si considerava nato il feto distaccato dall’alveo materno;


la vitalità era collegata ad un parto perfectus, che seguiva una gestazione regolare di almeno sette mesi;
la vita effettiva, superando la restrittiva tesi proculiana, era desunta da qualsiasi manifestazione (con esame caso per
caso).

In particolari casi, fu riconosciuta una limitata capacità giuridica anche al nascituro.


Tendenzialmente, i giuristi romani ritennero che il concepito, non essendo in rèrum natùra (cioè non essendo
attualmente esistente), in quanto costituiva una mera pòrtio mulìeris (parte della donna), fosse privo di soggettività
giuridica. Col tempo gli fu riconosciuta una limitata tutela, sotto vari profili; infatti:

- si punì il procurato aborto, considerato come lesione cagionata alla madre od al diritto del padre
(privato della spes pròlis, cioè della prole sperata);
- per il nascituro istituito erede o beneficiato di un legato, la legge prevedeva la nomina di un
curatore speciale, il curàtor vèntris, col compito di conservare i beni che gli sarebbero spettati;
- per principio del fàvor libertàtis, nasceva libero e non servo il figlio di chi era libero al momento del
concepimento, ma che successivamente avesse perso la libertà;
- allo stesso modo, per determinare lo status familiæ o civitàtis del neonato si guardava al momento
del concepimento: così nasceva libero e cittadino romano il figlio della donna ingenua e coniugata
ad un cittadino romano al momento del concepimento, anche se al momento della nascita fosse
stata schiava o non più cittadina romana.

Giustiniano stabilì, infine, il principio che per determinare lo status del neonato si dovesse applicare il criterio del
momento del concepimento o di quello della nascita a seconda del maggiore vantaggio che ne potesse derivare
all’individuo. Ai fini dell’acquisto della piena capacità giuridica oltre ad esser nato vivo, un soggetto doveva esser
libero, cittadino romano e sùi iuris.
La piena capacità giuridica conferiva i seguenti diritti:
ius commèrcii, la capacità di porre in essere attività commerciali in Roma, utilizzando i negozi giuridici per æs et
lìbram tipici del ius civile e ricorrendo alla tutela fornita dalle lègis actiònes;
ius conùbii;
testamènti fàctio attiva, la capacità di fare testamento;
testamenti factio passiva, la capacità di ricevere per testamento;
ius suffràgii, la possibilità di esercitare il proprio diritto di voto;

L’estinzione della capacità giuridica si aveva in generale con la morte, oppure con la càpitis deminùtio, nelle sue
varie connotazioni.

De limitata agendi possibili tate*

Al cittadino che si trovasse in determinate condizioni, veniva limitata la capacità giuridica, pur rimanendo egli libero,
cives e sui iuris.

Sexus muliebris: le donne, a parte l'incapacità di partecipare alla vita pubblica, non potevano adottare né essere
tutrici di impuberes, avevano limitata capacità di succedere e non potevano contrarre obbligazioni.
Libertinitas: era la condizione dei libèrti o libertìni. La condizione di libertus o libertinus comportava alcune
limitazioni rispetto allo status di ingenuus, ed in particolare i liberti erano esclusi da alcune cariche pubbliche: Essi
venivano inoltre raggruppati in pochissime tribù, in modo che il loro voto avesse minore valore rispetto a quello
degli ingenui; le libertæ, inoltre, non potevano contrarre matrimonio con soggetti di rango senatorio;
Il liberto doveva al patrono obsèquium, operae, bona. Dal dovere di obsequium gli derivava il
divieto di esercitare alcuna azione criminale o infamante contro il patrono né altra azione senza
il permesso del magistrato. L’obbligo delle operae si concretava, invece, nella prestazione di
servigi, quali l’amministrazione dei beni o la cura dei figli del patrono. Il liberto aveva, nei
confronti del patrono, doveri di natura sociale: Doveva salutarlo al risveglio, fargli da
procacciatore di voti in periodo elettorale, far parte del suo seguito nel Foro.
Il patrono aveva, inoltre, un diritto di successione legittima sui beni del liberto, il quale non
poteva compiere atti in frode a tale aspettativa. Il patrono ed il liberto avevano infine l’obbligo
reciproco degli alimenti.

- Peregrinitas, la condizione dello straniero, sottoposta a diversi limiti (vedi oltre).

- Infamia. Condizione squalificante socialmente, consistente nella perdita della pubblica aestimatio. infamia,
deriva da:
- esercizio di mestieri infamanti (lenocinio, attività teatrale o gladiatoria, ecc.);
- inosservanza del tempus lugendi;
- il compimento di un delictum;
- esclusione dall'esercito per ignominia;

De universitatibus*
Fin dal periodo classico, si riconobbe una certa soggettività giuridica agli enti associativi. Il modello su cui i giuristi
elaborarono la figura dei corpora vel universitates fu fornito dalla maggiore organizzazione esistente all'epoca: il
Populus Romanus Quiritium. Infatti, "Populus Romanus" era il nome con cui si indicava lo Stato come persona
giuridica, anche se ad esso non fu mai riconosciuta una capacità giuridica di diritto civile. Oltre al Populus, vi erano
altre persone giuridiche quali le coloniae, le provinciae, i collegia, le piae causae e le sodalitates. I collegia e le
sodalitates erano consociazioni di antichissima tradizione; i primi erano formati in prevalenza a scopo di culto,
mentre le seconde erano costituite a fini di ricreazione e mutua assistenza ai soci. La regolamentazione di questi enti
fu opera di Augusto, il quale rese obbligatoria un'autorizzazione del Senato per la costituzione di nuovi collegia e
sodalitates. Argomentando da Gaio, sembra che per la costituzione di in nuovo collegium occorresse la voluntas di
almeno tre persone, la creazione di una arca communis (patrimonio sociale distinto da quello dei soci), e la richiesta
di autorizzazione al Senato. Solo se l'autorizzazione era rilasciata, il collegium veniva costituito, altrimenti non
esisteva neanche di fatto: invero, il diritto romano non conosceva la categoria delle associazioni non riconosciute e
degli enti
di fatto.
Anche le fondazioni erano ignote ai Romani fino all'epoca giustinianea; solo in questo periodo, infatti, vennero
riconosciute le piae causae (associazioni con fini di beneficenza), alle quali fu attribuita anche la testamenti factio
passiva, cioè la capacità di ricevere per testamento.
Un notevole progresso nel riconoscimento della personalità ai patrimoni autonomi si ebbe con la figura dell’ eredità
giacente. L’eredità giacente è il patrimonio successorio in attesa di essere accettato da un erede. Va distinto
dall’eredità vacante, quella, cioè, rifiutata, o comunque non accettata da nessun erede.
Fino a tutto il periodo classico, l’eredità giacente era considerata res nullìus, in quanto i rapporti facenti capo al
defunto non appartenevano né al defunto stesso (la cui capacità si era estinta con la morte), né al futuro erede (che
non aveva ancora accettato): Chi se ne impadroniva non veniva considerato responsabile di furto. Ben presto
emerse, tuttavia, la necessità di considerare, per limitati fini, l’eredità giacente come soggetto giuridico:

- talvolta la giurisprudenza classica fingeva che la vita del de cùius (considerato titolare dell’eredità giacente)
si protraesse fino all’accettazione;
-talaltra, faceva retroagire la futura accettazione, considerando titolare dell’eredità giacente il futuro erede.

Gradualmente, si diffuse la concezione dell’eredità giacente come provvisorio soggetto autonomo di diritti.
Giustiniano affermò che l’eredità giacente (considerata, ormai a pieno titolo, come soggetto giuridico, sia pur
limitato) era titolare dei diritti e doveri in essa rientranti.

De agendi capacitate*
La capacità giuridica poteva, peraltro, non coincidere con la capacità di agire; in particolare, erano privi della
capacità d’agire:
- i soggetti impuberi;
- i soggetti colpiti da infamia;
- gli addìcti (ossia quei debitori insolventi, caduti in mano al proprio creditore, a seguito dell’assegnazione
del magistrato, in sede di mànus inièctio) ed i nèxi;
- i redèmpti ab hòstibus (il cittadino riscattato da altra persona [redèmptor] dai nemici di guerra).

-La cura è una limitata forma di assistenza approntata per le persone incapaci d’agire: Essa poteva concretizzarsi in
una gestione generale del patrimonio dell’incapace da parte del curatore, oppure in forme di assistenza continuative
meno intense.
Si distinguevano, in particolare:

la cura furiosi, in favore di un soggetto affetto da infermità mentale, e privo di pater familias o di tutore;
la cura pròdigi, in favore di soggetti affetti da prodigalità: come curatore era designato l’agnato prossimo e, in
mancanza, la persona nominata dal magistrato;
la cura minòrum, in favore dei minori di 25 anni sui iuris.

- Il furiòsus è un soggetto insano di mente e come tale è incapace di agire ed è sostituito nella sua attività da un
curator furiosi. La cura furiosi, istituto, già noto alla legge delle XII Tavole prevede l’amministrazione del patrimonio
appartenente ad un soggetto infermo ad un curàtor. In epoca antica, come curatore era senz’altro designato
l’agnato prossimo; successivamente, la curatela assunse carattere spiccatamente assistenziale e protettivo e
pertanto il curatore poteva essere nominato dal magistrato, eventualmente anche confermando una precedente
designazione testamentaria. Il patrimonio del furiosus veniva amministrato dal curatore, che provvedeva anche al
suo sostentamento; cessata la curatela, era tenuto al rendiconto della gestione. Egli esercitava, inoltre, le potestà
familiari del furiosus. In caso di gestione infedele, al furiosus spettava, nei confronti del curatore, l’àctio negotiòrum
gestòrum contraria.

- Il prodigus è il soggetto affetto da prodigalità. Il prodigus non è, comunque, un qualsiasi dilapidatore ma colui che,
avendo ereditato ab intestato i “bona paterna avitaque”, li amministrasse in modo sconsiderato con grave danno
per la propria “familia”. Il prodigus per interdictum del pretore era assistito dal curàtor prodigi, che era tenuto,
inizialmente, soltanto a controllare e verificare l’amministrazione di quanto fosse pervenuto all’incapace per
successio ab intestàto e, solo successivamente, di tutto il suo patrimonio.

- La cura minorum è un istituto in forza del quale il soggetto minore di venticinque anni poteva, nelle relazioni
giuridiche con i terzi, farsi assistere da un curàtor, ossia da un terzo, onde evitare eventuali raggiri. L’esigenza
nacque allorché una Lex Laetoria “de circumscriptione adulescentium” intorno al 200 a.C. intese porre rimedio ai fin
troppo
vantaggiosi affari che affaristi abili e senza scrupoli concludevano con “minores XXV annorum”, profittando della loro
inesperienza. Tale legge concesse ai minori una exceptio, per paralizzare l’esecuzione del contratto, ed un
provvedimento di restitutio in integrum, nel caso in cui il negozio fosse stato eseguito. È allora probabile che, a
fronte della concreta possibilità di veder paralizzati gli effetti dei negozi conclusi, coloro che entravano in affari con
tali minori, iniziarono a pretendere che questi si facessero assistere da un maggiorenne che potesse consigliarli.
Inizialmente, quindi, i minori si rivolsero al Pretore affinché nominasse un “curator ad certam causam” per ogni
singolo affare. Successivamente Marco Aurelio dispose che il curatore, anziché essere nominato di volta in volta,
doveva essere permanente: la relativa nomina era effettuata dal magistrato su richiesta del minore.

- La tutela è una forma di assistenza predisposta per particolari categorie di soggetti sui iùris ritenuti incapaci di
agire; la piena capacità di agire apparteneva, infatti, agli individui sui iuris, di sesso maschile, maggiori di 25 anni.
L’assistenza veniva svolta da un soggetto detto “tùtor”. La tutela, in diritto romano, aveva una funzione ben diversa
da quella assolta dalla corrispondente figura moderna: Essa tendeva, infatti, soprattutto a salvaguardare gli interessi
della famiglia, attribuendo al tutor una vis ac potèstas. Solo attraverso una lenta evoluzione la tutela venne
concepita come istituto di protezione dell’incapace.
In epoca classica ritroviamo due figure di tutela:

la tutela impùberis (o impuberum), per l’infante;


la tutela mulìerum, per la donna sui iuris.

- La tutela impùberum è una forma di tutela regolata già dall’antico costume e dalla legge delle XII Tavole cui erano
sottoposti gli impuberes il cui pater fosse morto o càpite deminùtus.
Nell’ambito della tutela impuberum, si distingue:

la tutela legitima, che trovava il suo fondamento nella legge: Tùtor legitimus era necessariamente l’adgnàtus
proximus;
la tutela testamentaria, che trovava il suo fondamento in un testamento: Il tutor testamentàrius era designato dal
de cùius.

A partire dal III sec. a.C., essendo la tutela impuberum ormai considerata un’imprescindibile esigenza morale e
sociale, una lex Atilia impose al pretore di nominare un tutore (tutor Atiliànus o dativus o decretàlis) a coloro che ne
fossero sprovvisti. In origine, si riteneva che il tutore testamentario potesse rinunziare alla tutela ed il tutore
legittimo potesse cedere la tutela ad altri; in seguito, essendosi diffusa una nuova concezione della tutela, ormai
intesa come istituto avente funzione protettiva di un soggetto incapace di gestire adeguatamente le sue attività,
l’orientamento giurisprudenziale e dottrinale mutò. La tutela fu considerata (anche a seguito della lex Atilia) come
mùnus publicum (ufficio socialmente rilevante); si riconobbe al tutore designato dal magistrato la facoltà di rifiutare
la tutela, soltanto previa indicazione di persona più idonea a ricoprire l’ufficio. Non poteva rivestire la carica di
tutore legittimo chi non fosse stato civis, sui iùris e pubere. Il tutore aveva l’administràtio del patrimonio
dell’impubere. I suoi poteri si concretavano nella gestio (cioè nella gestione degli affari dell’impubere) e
nell’auctòritatis interposìtio (cioè nella integrazione della capacità del pupillo attraverso l’autorizzazione).
È da notare, inoltre, che mentre in epoca classica il tutor poteva compiere ogni atto di amministrazione, a partire
dall’epoca postclassica divenne sempre più frequente l’uso di richiedere, da parte del tutore, l’autorizzazione al
magistrato per porre in essere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione in ordine al patrimonio del pupillo.
Il tutore, al termine del periodo di tutela, era tenuto al rendimento dei conti. Contro il tutor testamentarius, che
avesse compiuto malversazioni o frodi, con dolo o per colpa grave, era prevista una specifica actio populàris,
accusàtio suspècti tutòris, infamante. Molto probabilmente quest’azione fu estesa in seguito anche agli altri tutori.
Verso la fine dell’età repubblicana fu poi introdotta una azione generale, l’actio tutelae che, indipendentemente dal
carattere delittuoso dei singoli atti del tutore, poteva essere esperita ogni qualvolta il tutore si fosse sottratto ai
doveri collegati al suo officium. Allo scopo di assicurare una maggiore protezione dei diritti del pupillus, in epoca
imperiale fu, altresì, concesso un nuovo mezzo di difesa, maggiormente efficace.

- La tutela mulìerum è una particolare forma di tutela cui la donna sui iùris era soggetta per tutta la durata della
sua vita; mentre le donne impuberi erano soggette alla comune tutela impùberum, le donne puberi erano
sottoposte alla tutela in perpetuo. Solo le vestali, raggiungendo la pubertà, erano sottratte alla tutela.
La mulier poteva amministrare da sola il suo patrimonio per gli atti di straordinaria amministrazione ma si richiedeva
però l’auctòritas del tutore: Si pensi, ad esempio, ad atti quali l’alienazione di res màncipi, atti per aes et lìbram,
costituzione di obbligazioni, processi per lègis actiònes e per formulas, remissione di debiti, manomissioni. Pertanto,
la
donna poteva alienare res nec màncipi senza autorizzazione e compiere ogni atto d’acquisto.
Tutor legitimus era, per la donna ingenua, l’adgnatus proximus, subordinatamente un gentilis; per la liberta, il
patronus. L’esercizio della tutela legitima (non la titolarità) poteva essere trasferito ad altri mediante in iure cessio
tutelae. In seguito la lex Iulia et Papia di Augusto stabilì che cessava di essere soggetta alla tutela la donna che aveva
generato tre figli se ingenua, o quattro se liberta. Le donne potevano avere un tutore legittimo o testamentario; la
scelta del tutore poteva essere lasciata dal pater familias alla stessa donna. Alla nomina del tutore da parte del
magistrato si faceva luogo solo se la donna ne avesse fatto richiesta (tutore dativo).
Già verso la fine dell’età repubblicana la tutela perse ogni importanza: il marito usava accordare, nel testamento,
alla moglie, la facoltà di scegliere un tutore di suo piacimento (tutor optivus), in previsione della sua vedovanza e per
evitare che la stessa cadesse sotto la tutela degli agnati. La donna poteva altresì assoggettarsi alla manus di una
persona di sua fiducia, che, a sua volta, si impegnava ad emanciparla: Con l’emancipazione, il soggetto emancipante
diventava tutore della donna (tutor fiduciàrius: la tutela era detta fiduciaria).

Status §
Importante era, nella terminologia romana, il termine status, che indicava la posizione dell'individuo nei confronti
dell'ordinamento: Uomo libero, cittadino, membro della famiglia. Il diritto romano conobbe nei tre suddetti status
altrettanti requisiti, o meglio condizioni necessarie per l'acquisto della capacità.

- in relazione allo status libertatis, Roma distingueva gli uomini in liberi e schiavi; la libertà si acquistava per
nascita (liberi ingenui) o per manumissione (liberti). Solo i liberi ingenui potevano avere la cittadinanza, la
capacità giuridica, il ius connubii e il ius commercii. Il ius civile conosceva diverse forme di manumissione
(affrancazione) degli schiavi;
Giustiniano affermò il principio del favor libertatis, in base al quale aveva effetto qualsiasi manifestazione di
volontà in tal senso espressa dal padrone per liberare lo schiavo, a prescindere dalla forma.

- lo status civitatis era la cittadinanza di cui godevano solo i cives Romani. In età arcaica, erano cives Romani
solo i nati in Roma e gli appartenenti ad una delle 31 tribù rustiche, mentre gli altri erano latini o peregrini o
apolides. La cittadinanza si acquistava per nascita da padre o madre cittadini, e si perdeva per capitis
deminutio.
Il possesso della cittadinanza comportava la piena capacità giuridica consistente nello ius commercii, ius
connubi, ius testamenti factio (attiva e passiva, ius suffragi e ius honorum. A parte veniva
considerato lo ius militiae.

- in rapporto allo status familiae si avevano persone sui iuris e persone iure alieno. Era sui iuris il
paterfamilias, incarnazione dell'autorità, assoluto dominus della propria casa, con poteri pressoché illimitati
sui figli, familiari e schiavi. Nel diritto classico si formò una terza categoria di persone quelle in causa
mancipi, cioè quelli che eranostati trasferiti ad altri soggetti a titolo di proprietà, in posizione quasi servile,
per aver commesso delitti o a garanzia di obbligazioni assunte. Al possesso dello status familiae seguiva la
patria potestas, ius nuptiae, adoptio, adrogatio, tutela, tutela, emancipatio.

De rebus
Il bene, suscettibile di soddisfare i bisogni umani, oggetto del diritto soggettivo di un individuo era indicato dal
termine res. Affinché una res potesse costituire oggetto di rapporti giuridici privati, doveva avere i seguenti requisiti:

concretezza, cioè l’inerenza alla realtà sensibile;


utilità, cioè attitudine a soddisfare un bisogno umano;
limitatezza, cioè scarsezza tale da indurre il soggetto ad accaparrarsela, sopportando anche eventualmente un
sacrificio (con esclusione di cose quali ad es., l’aria);
disponibilità privata, cioè idoneità ad essere, lecitamente, oggetto di rapporti giuridici (con esclusione delle res extra
commercium);
estraneità al soggetto attivo del rapporto, per i Romani, infatti, qualunque oggetto o soggetto poteva essere res,
tranne che il titolare del rapporto.

È opportuno evidenziare che:

tra le res non rientrarono le entità immateriali che non si fossero concretizzate in una cosa materiale (si pensi a
servizi, prestazioni personali, opere dell’ingegno);
il concetto di oggetto giuridico fu inteso in senso più ampio delle mere cose, ricomprendendo, ad esempio, anche gli
schiavi (considerati res in senso lato).

Le res potevano essere classificate in diversi modi a seconda delle caratteristiche prese in considerazione:

- Res mancipi e nec mancipi. Le res mancipi erano quelle che, sin dall’antichità, avevano costituito oggetto
di mancìpium, risultando inscindibilmente collegate alla vita della familia primitiva e ai suoi bisogni. Alle res mancipi
si contrapponevano le res nec mancipi le quali, pur essendo collegate alla vita della familia, non erano indispensabili
per la stessa ma ne costituivano mera fonte di ricchezza ed erano sottoposte ad un regime giuridico diverso.
La fondamentale differenza tra res mancipi e nec mancipi, evidenziata anche da Gaio, consisteva in ciò:

le res mancipi si trasferivano con la mancipàtio o con la in iùre cèssio (tranne le servitù rustiche) e non con la
tradìtio;
le res nec mancipi si trasferivano con la semplice traditio.

La distinzione finì con il perdere rilievo in quanto, in diritto pretorio, si ammise che anche le res mancipi potessero
essere trasferite per traditio: Il domìnium sulle res mancipi oggetto di traditio veniva acquistato, iure civili, per
decorrenza del tempus ad usucapiònem. Prima che fosse avvenuta l’usucapione, al soggetto “ricevente” era
concessa, a tutela, l’àctio Publiciàna. In epoca postclassica, caduta in disuso la mancipatio, Giustiniano abolì la
distinzione, anche
formalmente, con una costituzione del 513 d.C.

- Res mobiles e res immobiles. Le res mobiles comprendono tutte le cose suscettibili di essere trasportate
da un luogo ad un altro, senza che ne sia alterata la struttura (ad es., un animale, uno schiavo od un libro); le res
immobiles comprendono tutte le cose non suscettibili di essere trasportate da un luogo ad un altro.

- Res consumabili e inconsumabili. Le Res consumabili comprendono tutte le cose che, usate secondo la
loro normale destinazione, erano suscettibili di una sola utilizzazione (da parte del soggetto che se ne serviva), sia
perché tale utilizzazione comportava la distruzione della cosa (es. derrate alimentari), sia perché ne comportava
l’alienazione (es. denaro) o la trasformazione (es. materie prime, come il grano). Le res inconsumabili comprendono
tutte le cose suscettibili di uso ripetuto (anche se a causa di tale uso potevano deteriorarsi sino a risultare distrutte).

- Res fruttifere ed infruttifere. Le res fruttifere comprendono tutte le cose capaci di dare periodicamente
prodotti materiali, pur rimanendo intatte e mantenendo immutata la loro destinazione economica: Tali prodotti, con
la separazione dalla res fruttifera, divenivano cose economicamente autonome. Le res infruttifere comprendono
tutte le cose inidonee a produrre frutti.

- Res fungibili ed infungibili. Le res fungibili comprendono tutte le cose quae pòndere, numero, mensùra
consìstunt, cioè quelle prese in considerazione non per la loro qualità, bensì per la loro quantità, peso, numero o
misura; infungibili erano tutte le altre, prese in considerazione per la loro individualità.
- Res divisibili ed indivisibili. Le res divisibili comprendono tutte le cose suscettibili di essere divise in più
parti, in modo che tra le parti ed il tutto vi fosse una mera differenza quantitativa e non qualitativa (ad es., derrate
alimentari, denaro, una casa a più piani). Le res indivisibili comprendono tutte le cose che non potevano essere
divise materialmente, senza determinare la perdita della loro utilità originaria (ad es., un servo, un animale ed in
generale ogni res semplice).

- Res semplici e res composte. Le res semplici comprendono le cose quae uno spìritu continèntur, quelle,
cioè, che costituiscono un’unità organica autonoma (ad es., una statua, uno schiavo, una pietra). Le res composte
comprendono le cose quae ex plùribus inter se cohaerèntibus cònstant, quelle, cioè, che risultavano dall’unione di
più cose, in modo da formare un complesso unitario, senza che le singole cose componenti perdessero la propria
individualità: Le singole parti perdevano, tuttavia, la loro autonomia funzionale, per dar vita ad un nuovo bene,
avente una funzione propria (ad es., un edificio, una nave).

De iurae factis atque actis


Nell’ambito degli accadimenti che vengono riconosciuti dall’ordinamento giuridicamente rilevanti, si suole
distinguere fra fatti ed atti giuridici.

- Il fatto in senso stretto è qualsiasi accadimento, naturale o umano, a cui l’ordinamento ricollega un effetto
giuridico, prescindendo dalla volontarietà e dalla consapevolezza del comportamento stesso da parte del soggetto
che lo pone in essere.
Fra i fatti in senso stretto, vi sono la mortis causa e l’avulsio.
La mortis causa è un principio, che entra in gioco quando un soggetto giuridico è colto dalla morte. Teoricamente
parlando, la morte dovrebbe dar luogo all’estinzione di tutti rapporti giuridici, venendo a mancare una delle due
parti: Tuttavia, fin dall’antichità, sono state approntate varie norme che garantiscano agli eredi (heredes – aventi
causa) di prendere il posto del defunto (dante causa), secondo un principio di successione che è detto, mortiscausa,
ovvero causato dalla morte. E’ bene sottolineare che la morte è intesa a questo proposito sempre un fatto in senso
stretto, anche se causata da atto proprio quali il suicidio o l’omicidio.
Nel caso in cui un soggetto giuridico non sia colto da morte, ma perda la soggettività giuridica, il principio di
successione ad entrare in gioco non è quello della mortis causa, ma bensì quello della successione inter vivos.

L’avulsio è un modo d’acquisto della proprietà a titolo originario, rientrante nella categoria degli incrementi fluviali.
In particolare, l’avulsio era l’incremento che aveva luogo nei casi in cui l’impeto del fiume staccava una porzione di
terreno da un fondo, trascinandola su un altro fondo. L’acquisto della proprietà aveva luogo, in favore del titolare
del fondo che aveva ricevuto l’incremento, solo nel momento in cui la parte staccata si fosse stabilmente
incorporata nel fondo (ad es., quando gli alberi avessero immesso radici nel terreno). Prima di quel momento, la
proprietà della parte staccata poteva esser rivendicata dal titolare del fondo che aveva subito il decremento.
La disciplina dell’avulsio trovava applicazione anche nei casi in cui, per effetto di una frana, una porzione
di un fondo superiore, fosse andata ad incrementare un fondo inferiore (il fenomeno era definito crùsta
làpsa. Dicesi acquisto a titolo originario, l’acquisizione di una proprietà che o non è appartenuta ad
alcuno (res nullius), oppure è sì appartenuta ad alcuno, ma per l’ordinamento giuridico, non ha
rilevanze pratiche (res derelictae).

Il principio di accessione fa parte dei fatti in senso stretto. L’accessione è un modo d’acquisto della proprietà a titolo
originario; si verificava quando una cosa (considerata accessoria) si univa ad un’altra (considerata principale), in
modo da costituire una cosa sola. Il principio generale che regolò questi casi fu: “accessorium sequitur principale”. Il
proprietario della cosa principale (era considerata tale la cosa dotata di maggiore autonomia) acquistava la proprietà
della cosa accessoria, o meglio conservava la proprietà della cosa principale anche dopo l’accrescimento di essa in
virtù dell’unione con la cosa accessoria. Il carattere di accessorietà di una cosa rispetto ad un’altra veniva desunto
dal suo minor valore, od anche dalla sua minor rilevanza sociale.
La ratio lègis o iuris dell’istituto va rinvenuta nell’esigenza di tutelare il dòminus della res di maggior
valore economico-sociale, garantendogli l’automatico acquisto della proprietà della res di minor valore
economico-sociale.

Si distinguevano due forme di accessione:

di cosa mobile a cosa mobile: di regola, comportava l’acquisto della cosa altrui da parte del proprietario della res di
maggior valore economico, eccettuato il caso di accessione separabile. Vi rientravano:

ferruminatio (saldatura) quando due cose metalliche si saldavano insieme in modo autogeno: Il dòminus della cosa
ritenuta principale acquistava automaticamente (ìpso iùre), dal momento e per effetto della saldatura, il domìnium
ex iùre Quirìtium della cosa accessoria;
textura, ossia la tessitura di una stoffa mediante fili altrui: In diritto classico si ritenne, pur tra contrasti dottrinali,
che il proprietario della stoffa acquistasse la proprietà dei fili;
scriptura, quando il proprietario delle cose sulle quali un terzo avesse scritto (pergamene, papiri) acquistava la
proprietà delle sostanze usate per scrivere (inchiostro, cera), e, con esse, dello scritto. L’autore dello scritto perdeva,
pertanto, ogni diritto sul prodotto intellettuale: Il proprietario delle pergamene o dei papiri poteva, infatti, a sua
libera scelta, distruggere lo scritto o divulgarlo.
pictura, quando su una tavola altrui veniva realizzato un dipinto: In questo caso, in applicazione di un principio
contrario a quello generalmente applicato in tema di accessione, si riteneva che il proprietario del dipinto divenisse
proprietario del tutto (tàbulam picturae cedere);
tinctura,come fattispecie autonoma non è espressamente ricordata nelle fonti; tuttavia, parte della dottrina ritiene
che essa debba ugualmente essere inserita tra i modi di acquisto della proprietà per accessione: Il proprietario di
una stoffa tinta da un terzo (con propri colori), acquistava la proprietà dell’intera stoffa e quindi anche la proprietà
dei colori utilizzati nella tintura.

di cosa mobile a cosa immobile: era retta dal principio “superficies solo cèdit”, in virtù del quale il proprietario del
suolo acquistava tutto ciò che era sopra (es. piantagioni, costruzioni) o sotto (es. gallerie, radici) il suolo. Vi
rientravano:

satio (semina). Nella satio si aveva la semina, da parte di un terzo, su un fondo altrui, con sementi non appartenenti
al proprietario del fondo: In questo caso, quest’ultimo acquistava la proprietà dei germogli.
iImplantatio. L’implantatio consisteva nella coltivazione di una pianta su un fondo altrui: Il proprietario del fondo
acquistava automaticamente il dominium ex iure Quiritium della pianta soltanto nel momento in cui essa aveva
immesso stabilmente le proprie radici nel fondo. L’acquisto non avveniva se la pianta era soltanto depositata sul
fondo senza esservi stabilmente trapiantata.

Un discorso a parte merita il concetto di tempo, da molti considerato un fatto in senso in stretto. A proposito per
esempio dei rapporti assoluti in senso improprio, si dice che a determinare la prescrizione estintiva, sia il tempo il
fattore determinante. In realtà, si replica, che non è il tempo a determinare la prescrizione, ma bensì l’inattività,
l’inutilizzo per lungo tempo della proprietà. A tale ipotesi, si replica citando il fatto che ad esempio, sia il tempo a
determinare quando un individuo diventi un soggetto giuridico (A diciotto anni per esempio si diventa maggiorenni).
Anche questa ipotesi si può facilmente ribaltare, affermando che l’individuo diventa soggetto giuridico quando si
ritiene che egli abbia acquisito una sufficienza maturazione psico – fisica. Il tempo è dunque solo uno standard, un
concetto – limite, che si pone onde rimarcare alcuni eventi.

- L’atto giuridico è un fatto dell'uomo cui l'ordinamento ricollega effetti giuridici in ragione dello stato
soggettivo degli autori dell'atto: rileva giuridicamente la consapevolezza del comportamento tenuto.

Gli atti giuridici possono essere distinti in atti illeciti e leciti:

per quanto riguarda gli atti illeciti, questi sono determinati dai rapporti di responsabilità primaria (extra
contrattuale) e secondaria (extra - contrattuale): E’ tuttavia bene sottolineare che l’inadempienza di un rapporto di
responsabilità secondaria non è mai stato considerato alla stregua di illecito vero e proprio, anche se è stato
comunque oggetto di severe sanzioni. Oltre i delicta, altri illeciti sono i crimina, ovvero gli atti contro la pubblica
società (reati), che tuttavia non sono competenza di Istituzioni di diritto romano;

per quanto riguarda gli atti leciti, si hanno due categorie: Meri atti giuridici ed atti di autonomia (negozi giuridici).

I meri atti giuridici sono i fatti dell'uomo per i quali assume rilevanza la volontarietà della materialità dell'atto. Gli
atti di autonomia sono quelli in cui rilevano giuridicamente non solo la consapevolezza del comportamento ma
anche l'intento perseguito e cioè la volontarietà degli effetti.

De iuridico negotio: Causa, voluntas, forma

De causae valore: Mancipatio et stipulatio


- L’abuso di due antichi negozi di scambio, la mancipatio e la stipulatio, fece emergere per la prima volta
nell’ordinamento romano, il concetto di causa di un negozio giuridico.

Mancipatio. E’ un negozio solenne tipico del iùs civile, di origini risalenti, traslativo del domìnium ex iùre Quirìtium
sulle res màncipi . La capacità di porre in essere una mancipatio apparteneva ai soli cittadini romani, patres
familiàrum. La mancipatio si svolgeva nel modo seguente: Alla presenza di cinque testimoni (scelti tra cittadini
romani puberi) e di un pesatore pubblico detto lìbripens (di eguale condizione), l’acquirente (mancìpio accìpiens),
tenendo tra le mani alcuni pezzi di bronzo, dichiarava solennemente che la cosa oggetto della mancipatio gli
apparteneva. Successivamente colpiva la bilancia del pesatore con il bronzo che poi veniva consegnato, quale
prezzo, all’alienante (mancipio dans).

Stipulatio. E’ un contratto verbale, concluso mediante scambio di domanda e risposta, in virtù del quale un soggetto
(promìssor) si impegnava a compiere una qualsivoglia prestazione in favore di un altro (stipulàtor).

La stipulatio era conclusa oralmente con la pronuncia di una formula solenne. L’utilità del ricorso alla stipulatio era
data:
dalla semplicità con cui si poteva estinguere l’obbligazione;
dalla possibilità di difendere il diritto del creditore mediante l’efficace “actio ex stipulatu”.

La mancipatio e la stipulatio si configuravano come dei meri atti giuridici, in cui rilevava la mera volontarietà
dell’atto e non l’intenzione. Al punto tale che l’indiscussa inequivocabilità ed indiscutibilità di tali due negozi, venne
utilizzata anche per fini non sempre molto leciti, quali ingenti donazioni “forzose”, come la mancipatio nummo uno,
utilizzata per realizzare l’attribuzione sostanzialmente gratuita di una res màncipi, dal momento che l’alienante
richiedeva il pagamento simbolico di una sola moneta (nummo uno) oppure la donazione obbligatoria che fa
sorgere tramite stipulatio in capo al donatario soltanto un diritto di credito verso il donante, qualunque sia
l’ammontare della somma ricevuta.
Per frenare questo fenomeno intervenne prima una legge la lex Cincia de donis et muneribus, un plebiscito
proposto dal tribuno M. Cincio Alimento nel 204 a.C., che impose il divieto di compiere atti di liberalità eccedenti un
certo ammontare (ignoto), tranne che nei confronti di parenti ed affini, ma non fu sufficiente. Fu necessario
l’intervento del pretore: Questi, se convinto della bontà dell’opinione della parte che era riuscita a sottrarsi al
momento della stipulatio – donazione, poteva o negare l’azione ex stipulato che avrebbe mosso il donatario, oppure
più frequentemente paralizzarla, con una exceptio legis Cinciae, che onerava il convenuto della dimostrazione della
prova che il suddetto atto non fosse una donazione.
Gli antichi atti giuridici della mancipatio e della stipulatio dunque cominciarono ad apparire sotto luce diversa: Non
più meri atti giuridici formali ed indiscutibili ma atti di cui rilevava anche l’intenzionalità, la causa che vi era dietro.

De causae usum §
Con adattamento funzionale si designa un fenomeno, caratteristico del tradizionalismo romano, in virtù del quale
strutture negoziali nate per svolgere una certa funzione, passarono col tempo ad essere utilizzate, anche con
modifiche sostanziali, per la realizzazione di una causa diversa, pur conservando il nòmen iùris originario.
È il caso, ad esempio, del testamentum per aes et libram.
Il testamentum per aes et libram è una forma testamentaria creata nel II sec. a. C. dalla giurisprudenza pontificia. Il
testamentum si sviluppò allorquando si cominciò ad ammettere che l’atto di nomina dell’erede potesse essere
inserito all’interno di un negozio avente la struttura della mancipàtio familiae. Il familiae èmptor nel testamentum
per aes et libram, interveniva solo formalmente, non acquistando nulla e non ingerendosi nella esecuzione delle
disposizioni: Il testatore, mediante una sua dichiarazione (nuncupàtio), consegnava semplicemente il testamento al
familiae èmptor. La redazione del testamento avveniva in presenza dei cinque testimoni e del lìbripens, ma il più
delle volte il testatore recava le tavolette già preparate in tutta la parte dispositiva: a ciò si accompagnava un breve
processo verbale che attestava le avvenute formalità della mancipatio familiae. Le tavolette erano poi sigillate dai
sette soggetti intervenuti.

De voluntatis valore §
Lo ius honorarium e la iurisprudentia classica intervennero a dare rilievo anche nei casi in cui l'autore di un negozio
non avrebbe manifestato una certa volontà se non fosse intervenuto un elemento esterno a turbarla. Tre furono i
vizi giuridicamente rilevanti nell'ordinamento romano: error, metus, dolus malus. Rilevanza

Error. Fu considerato dalla giurisprudenza classica come l’ignoranza o falsa conoscenza di una circostanza qualsiasi,
che avesse avuto rilievo nel processo di formazione della volontà (c.d. èrror fàcti) e costituì, insieme al dolo ed alla
violenza, uno dei vizi della volontà. Prima del periodo classico, tuttavia, la rilevanza della volontà per il ius civile era
minima, se non esclusa, salvo che in campo testamentario. In diritto pretorio, fu concessa al soggetto caduto in
errore soltanto una excèptio dòli. In diritto classico, il negozio viziato da errore fu considerato inutile, se, oltre a
trattarsi di negozio a forma libera e ad aversi prova certa dell’errore, quest’ultimo era:

- essenziale, e cioè, tale che in mancanza di tale errore, il negozio non sarebbe stato
concluso;
- riconoscibile, e cioè, tale da poter essere autonomamente riconoscibile anche dalla
controparte;
- scusabile, e cioè tale da potersi tollerare in una persona di normale diligenza e
intelligenza.

Alla base dell’inutilità del negozio, fu posto il brocardo “erràntis nulla volùntas est” (chi erra non ha alcuna volontà).
Si ritenne, invece, di regola inescusabile l’errore di diritto (error iùris), quello cioè che aveva ad oggetto norme
giuridiche; questo principio generale trovava deroghe per quelle persone (minori, donne, militari, contadini) che, per
le loro condizioni, erano ritenute impossibilitate a conoscere adeguatamente le norme vigenti. Solo per questi
soggetti, l’error iùris rilevava.

Tra gli erròres fàcti, si distinguevano:

Error in persona: quello che cadeva sull’identità di una persona, a favore della quale si compiva l’atto o con la quale
si concludeva il negozio. Si considerava nulla la disposizione testamentaria in ogni sua parte, nel caso in cui Tizio,
volendo istituire Caio come hères, durante la redazione del suo testamento avesse scritto il nome Sempronio: si
riteneva che non esistesse una valida manifestazione di volontà.
Error in negotio: quello che si verificava se un soggetto riteneva di compiere un negozio (ad esempio, una locazione)
e, invece, sottoscriveva un atto diverso (vendita): non si realizzava, in tal modo, né l’atto posto in essere, perché
mancava la volontà, né quello voluto, perché non si manifestava alcuna volontà in tal senso.
Error in substantia: quando i soggetti erano d’accordo sull’individuazione della res, ma erano in contrasto sulla
presenza o meno di alcune sue caratteristiche essenziali (es.: ritengo d’oro un bracciale che, invece, è di metallo
dorato).
Error in qualitate: quando il soggetto riteneva che la cosa oggetto del negozio avesse una determinata qualità. Esso
non produceva nullità.
Error in còrpore: quando il soggetto riteneva che il negozio avesse per oggetto una cosa diversa da quella che in
effetti aveva (c.d. errore sull’identità fisica della cosa: es., credo di vendere il fondo Corneliano ed invece vendo il
fondo Saliniano). In tal caso, poiché l’errore influiva su tutto il negozio, in quanto mancava la volontà in relazione a
quel determinato oggetto, il negozio non era valido.

Dall’errore vizio della volontà si distingueva il cosiddetto errore ostativo, che si verificava quando, per ignoranza o
per altro motivo, si manifestava una volontà che era diversa dall’intimo volere (si pensi ad es. al soggetto che dice di
voler donare a Tizio, mentre in realtà vuol donare a Caio). La tendenza espressa in proposito dal diritto romano era
nel
senso di non dar rilievo all’errore ostativo e considerare, pertanto, valido ed efficace il negozio in apparenza
concluso.

- Metus. Consiste in uno stato di oppressione psichica, originata da minacce proferite da un’altra persona e
che inducono un soggetto a concludere un negozio giuridico. In particolare, si distingue in dottrina tra:

- vis, che è la violenza morale in se stessa, la coartazione della altrui volontà attraverso minacce;
- metus che è il timore, il senso passivo di spavento prodotto dalla vis.

In diritto romano il metus trovò da principio scarso, se non insignificante, rilievo; in diritto classico si finì col ritenere
rilevante, per inficiare la volontà negoziale, la minaccia attuale di un male ingiusto e notevole, alla persona stessa del
contraente o alle persone dei suoi stretti congiunti, posta in essere al fine di costringerlo a concludere un negozio. È
opportuno precisare che la violenza morale (nella quale il soggetto, ètsi coactus, tàmen vòluit, cioè, seppure
minacciato, manifestò una volontà negoziale) era diversa dalla violenza fisica (nella quale la vittima non manifestava
alcuna volontà negoziale: la manifestazione di volontà è frutto della forza bruta dell’aggressore che, ad es., guidi la
mano della vittima per apporre una firma in calce ad un atto).

Tra i rimedi apprestati in favore della vittima della violenza, ricordiamo:


- la in integrum restitutio era un'azione che ripristinava lo status quo ante e quindi eliminava gli effetti
dannosi del negozio viziato;
- l’exceptio metus, opponibile contro chi pretendesse l'esecuzione del negozio estorto con la violenza o il
metus.
- l'actio metus che consisteva nella richiesta del quadruplo della prestazione eseguita sotto minaccia, o del
quadruplo del danno subito. Tale azione spettava non solo contro l'autore o il mandante della vis, ma anche
contro chiunque avesse abusato o acquisito o goduto della cosa frutto della violenza. Il convenuto poteva
liberarsi restituendo la cosa.

- Dolus. Il dolo rilevante quale vizio della volontà nella conclusione di un negozio giuridico si connotava
quale dòlus malus e consisteva nel comportamento inescusabilmente malizioso, fatto di raggiri e artifizi, di un
soggetto (c.d. decèptor) nei riguardi di un altro soggetto (c.d. decèptus) con cui fosse in trattative o in rapporti
giuridici, allo scopo e con gli effetti di indurlo ad un’azione pregiudizievole dei propri interessi.
Diverso dal dolus malus era il dolus bonus, che consisteva in una tollerabile abilità (fatta eventualmente di piccoli,
innocui espedienti) nel curare i propri interessi e non costituiva vizio della volontà.
L’elaborazione del dolo (nella forma di dolus malus) quale vizio della volontà negoziale è frutto della giurisprudenza
preclassica e classica, che distinse tra:

- dolo determinante (càusam dans), che comportava la nullità del negozio, in quanto determinava
nel contraente una falsa rappresentazione della realtà, che, fuorviandolo, lo induceva alla
conclusione di un contratto, altrimenti non voluto;
- dolo incidente (ìncidens), che induceva la controparte alla stipulazione di un contratto a condizioni
diverse da quelle volute. Questo tipo di comportamento non determinava la nullità dell’atto; la
parte caduta in errore, però, aveva diritto ad un indennizzo oppure ad ottenere la giusta
prestazione.

Era considerato illecito il “pactum ne dolum praestetur” cioè di esclusione della responsabilità per “dolus malus”.
La repressione del dolo fu, in origine, un’innovazione pretoria, che Cicerone, in particolare, attribuisce ad Aquilio
Gallo. Tra i rimedi apprestati in favore del decèptus (cioè la vittima del dolo) ricordiamo:

L'actio doli era un'azione penale infamante, caratterizzata dall'intrasmissibilità passiva e dall'esperibilità entro un
anno dal raggiro. Per la gravità delle sue conseguenze, tale azione poteva essere esperita solo quando mancava ogni
altro rimedio giuridico. A discrezione del pretore, poteva essere concessa l' actio in factum, non infamante, sia dopo
un anno dal raggiro, sia contro gli eredi dell'autore del dolo. Dalle parole di Ulpiano (“l'editto pretorio ha anche tali
parole: giudicherò quelle cose fatte con frode, se intorno ad esse non vi sarà altra azione giudiziaria e se la cosa mi
sembrerà opportuna”) si deduce che l'actio doli aveva carattere sussidiario, in quanto promovibile solo in mancanza
di altri rimedi; la giurisprudenza la ritenne applicabile anche nel caso in cui il dolo fosse stato conseguente alla
formazione del negozio.

L'exceptio doli era opponibile al soggetto (decèptor), che dopo aver agito con dolo al fine di indurre un soggetto
(deceptus) alla conclusione di un negozio, ne chiedesse l’adempimento. Si distinguevano:

dolus speciàlis seu præteriti, per il dolo commesso al tempo della conclusione del negozio;
dolus generàlis seu præsentis, di più larga applicazione per il dolo commesso in un momento successivo.

L’actio era formulata in modo da consentire al magistrato giudicante di valutare anche il comportamento che il
deceptor avesse tenuto dopo la conclusione del negozio giuridico: Poteva, perciò, accadere che il deceptor risultasse
soccombente per un comportamento malizioso tenuto solo dopo la conclusione del negozio, oppure vittorioso per
avere, dopo la conclusione del negozio, neutralizzato gli effetti del comportamento doloso tenuto in precedenza.

De formae valore (astrazione) §


Dopo aver tenuto conto degli elementi essenziali di un negozio giuridico, quali il vizio di volontà e l'istituzione della
causa, l'ordinamento giuridico romano comincia a rivalutare anche il concetto di forma, ovvero il modo di
manifestare la volontà:

forma vincolata e forma libera. Se nell'ordinamento giuridico di oggi non vi sono restrizioni sul modo nel quale la
forma può esprimersi (forma libera), nell'ordinamento romano, invece, a causa delle origine religiosa e sacrale delle
obbligazioni, si ha una forma vincolata, ovverosia non libera ma vincolata all'ordinamento giuridico.

Nel negozio della mancipatio per esempio, lo scambio non può avere luogo se l'intero rituale non è seguito
correttamente. Si parla in questo caso di forma ad substantiam, ovvero quella forma che se non rispettata non può
dare origine al contratto. Si parla invece di forma ad probationem, quando la forma non è fondamentale per
l'esistenza del negozio: Dunque anche se assente, il negozio è egualmente valido; tuttavia nel caso in cui sorga una
questione, colui che ha interesse non se ne può avvalere in giudizio in quanto, essendo assente la formalità, manca
la prova per dimostrarlo.
Tuttavia a partire dal III secolo a.C., con l'espansione dei commerci nel Mediterraneo e l'incontro dunque con tante
popolazioni diverse quali Punici, Egiziani e Greci, i Romani decidono di non porre limite, almeno nei traffici
commerciali, alla forma. Essi, infatti, dall'osservazione del semplicistico modo con il quale i commercianti degli altri
paesi si intendono fra loro, ad esempio a gesti, decidono di abbandonare la forma rituale per le forme di
obbligazione consensu contractae, quali emptio – venditio e locatio – conductio.

astrazione. Vi sono casi in cui gli effetti di alcuni negozi si producono astraendosi dalla causa. In questo caso si parla
negozi astratti. Si ha astrazione sostanziale quando non vi è mancanza di causa, ma la sua rilevanza è solo eventuale
e successiva alla conclusione del negozio. Nei negozi astratti la causa ha la sua valenza ma la reazione
dell’ordinamento giuridico è ad effetto ritardato. L’astrazione prevede tre casi:

forma assorbente, in cui una parte deve prima adempiere il negozio e poi pretendere che la situazione venga
ristabilita. Si dice in questo caso il negozio è formalmente astratto.
forma dominante, in cui il negozio può non essere adempiuto, ma la parte “raggirata” (il convenuto) deve
impegnarsi a dimostrare il vizio di volontà o di causa (inversione dell’onere della prova). Si parla in questo caso di
negozio processualmente astratto.
forma concorrente, in cui la forma concorre (collabora) con la volontà e la causa.

Per ben comprendere i diversi casi, è bene fare un esempio.


In caso di mutuo, la stipulatio era usata per garantire la restituzione del denaro e magari a garantire anche la
prestazione di interessi. Poteva accadere che la domanda e la risposta fossero pronunciate prima della dazione, della
conta del denaro (numeratio pecuniae) e fossero anche riprodotte per iscritto: Ironia della sorte, per qualche
accidente poteva capitare che il donante, colpito da qualche shock mnemonico o qualche altra circostanza avversa,
non effettuasse la numerazione della pecunia, si dimenticasse cioè di versare la somma che poi il donatario avrebbe
dovuto restituire. Ciò può comportare che, successivamente, un erede del mutuante, accortosi dell’esistenza della
stipulatio, possa pretendere dal mutuatario la restituzione della somma che il mutuante in realtà ha mancato di
consegnargli. Contro questo torto, inizialmente il mutuatario non ha difese, ed è costretto a pagare la somma.
Successivamente tuttavia, con l’istituzione della pratica solve et repète (paga e reclama) il mutuatario è sì obbligato
a pagare, solvendo la stipulatio, ma può chiedere tuttavia in separata sede, la restituzione (anche se non si è certi si
tratti di restitutio ad integrum) di quanto versato (forma assorbente).
Ancora più tardi viene concessa al mutuatario una exceptio doli, che tuttavia costringe il mutuatario stesso, una volta
chiamato in giudizio, a dimostrare di non aver ricevuto la somma promessa (inversione dell’onere della prova). E’
bene sottolineare che l’exceptio doli, in questo caso, non è contro un dolus malus, ma un dolus praesens (generalis),
tipico di chi chiede la restituzione di qualcosa che il proprio dante causa non ha mai dato. In età imperiale, il
processo di astrazione viene ancor meglio affinato: Questa volta non è il mutuatario a dover dar prova di aver
ricevuto la somma, ma è bensì il mutuante a dover dimostrare di aver versato la somma. Non vi è più dunque
l’inversione dell’onere della prova.

De negotii accidentes et Cautio Muciana §


Delineati gli elementi essenziali, resta da esaminare quelli che sono gli elementi accidentali del negozio giuridico,
ovvero quegli elementi non essenziali per il negozio, ma che se presenti devono essere considerati come essenziali.
Questi sono tre: Il termine (dies); la condizione (condicio) ed il modo (modus).

il dies (clausola terminale) è la clausola con cui si fa dipendere l'inizio o la fine degli effetti del negozio da un evento
futuro certo nel suo verificarsi. Un esempio di dies è “ti regalerò un libro quando avrai compiuto la maggiore età”.

la condicio è la clausola con cui si fa dipendere da un evento futuro ed incerto l'inizio (condizione sospensiva) o la
fine degli effetti del negozio (condizione risolutiva).

Esistono diversi tipi di condizione:

condizione positiva, ossia una c ondizione che fa dipendere l’evento dall’accadimento dell’evento futuro ed incerto;
condizione negativa, ossia una condizione che fa dipendere l’evento dal non accadimento dell’evento futuro ed
incerto;
condizione potestativa, ossia una condizione che fa dipendere l’evento dalla volontà di una singola parte;
condizione casuale – Condizione che fa dipendere l’evento da un accadimento casuale, non voluto dalle parti;
condizione mista – Condizione che può far dipendere l’evento o da un accadimento casuale o dalla volontà delle
parti.
Nel caso di condizione sospensiva, il negozio è congelato fino all’accadere di un determinato evento (“Ti regalerò un
libro se avrai conseguito la laurea a pieni voti”): In questo caso, si dice che vi è una mera inefficacia (capacità di
produrre effetti) del negozio giuridico. A questo proposito, la condizione sospensiva nel caso sia anche potestativa,
negativa senza limiti di tempo, fa risultare l’atto impossibile nella sua realizzazione. Il periodo “Ti regalerò la mia
villa a Capri se non (condizione negativa) seguirai (condizione potestativa) la carriera politica” (condizione
sospensiva) può legare infatti il legatario (donatario) per tutta la durata della vita. Viene così introdotta, per merito
del giurista Quinto Mucio Scevola, una stipulatio, chiamata Cautio muciana, con la quale il legatario acquista fin da
subito il legato ma promette all’erede di restituirla immediatamente nel caso in cui egli venga meno alla condizione
precedentemente stabilita. La condizione sospensiva diviene così condizione risolutiva.
Nel caso di condizione risolutiva, il negozio è interrotto al verificarsi di un determinato evento (“Ti comprerò libri
finché andrai a scuola”). Nei confronti di quest’ultima condizione, a Roma vi è un certo scetticismo, in quanto si è
dubbiosi nell’affidare l’interruzione di un atto giuridico ad un evento futuro ed incerto. Volendosene tuttavia servire,
i Romani riescono ad elaborare un metodo che aggiri questo sistema, combinando l’atto giuridico con la stipulatio.
Ad esempio, volendo un proprietario affittare la sua casa, egli prima stabilisce un contratto di locatio - conductio con
l’inquilino senza specificarne il termine (e dunque valido fino alla morte dell’inquilino), poi, in separata sede,
stabilisce una stipulatio, con la quale l’inquilino si impegna a lasciare la casa all’accadere di un determinato evento.
La condizione risolutiva, in pratica, viene aggirata con una stipulatio che la trasforma in condizione sospensiva.

Il modus è la clausola apponibile soltanto a negozi a titolo gratuito con cui, senza dar luogo ad obbligazione a suo
carico, si chiede che il beneficiario ponga in essere una certa attività, di entità tale tuttavia da non costituire una
controprestazione (un piccolo sacrificio da adempiere per ottenere un bene maggiore). Anche se il modus non ha
forza vincolante, a Roma si compiono numerosi tentativi affinché il legatario si impegni a rispettare la volontà
impostagli nel legato:

- cautio: il giurista Trebazio introduce una norma con la quale il legatario è costretto a pagare una cautio
(una somma di denaro con la quale si garantisce l’adempimento dell’impegno) con la quale poter erigere un
monumento che ricordi l’autore della liberalità;
- stipulatio: l’erede effettua una stipulatio poenae, che prevede il pagamento di una penale da parte del
donatario in caso di mancato adempimento del modus.
- spectacula: si devono istituire dei giochi in onore dell’autore della liberalità.

Il modus non è sempre facilmente distinguibile dalla causa. In un testamento ad esempio una matrona scrive:
“Saccus Servus meus et Eutychia et Irene ancillae meae omnes sub hac condicione liberi sunto, ut monumento mei
alternis mensibus lucernam accendant et solemnia mortis peragant” (Il mio servo Sacco e le mie ancelle Eutychia ed
Irene tutti a questa condizione saranno liberi affinché al mio monumento nei mesi alterni accendano una lucerna ed
eseguano solenni cerimonie di morte). Qui la distinzione fra modus e condicio non appare chiara, in quanto non si
capisce se gli schiavi saranno liberi per accendere la lucerna (modus), o saranno liberi dal momento che dovranno
accendere la lucerna (condizione sospensiva). L’erede della testatrice, interessato a non perdere gli schiavi ma
neppure a violare la volontà della testamentaria, rivoltosi al giurista Modestino, viene a sapere che data la forma
“ut” usata nella formula, si tratta di modus: se fosse stata condicio, invece, la forma usata sarebbe stata “si”.

De interpretatione negotiale: Causa Curiana §


- L’interpretazione del negozio risulta essere fondamentale. Molte volte, infatti, per far sì che la volontà del
contraente venga rispettata, è necessario guardare oltre la mera forma: A questo proposito, esistono due tipi di
interpretazioni negoziali, l’interpretazione obiettiva e l’interpretazione subiettiva:

l’interpretazione obiettiva consiste nel rispetto, nell’interpretazione del negozio, della mera forma con la quale è
stata espressa la volontà. Tale interpretazione è tipica dei periodi classico e preclassico romano, addicendosi alle
società dinamiche, come lo era la Roma del tempo;

l’interpretazione subiettiva consiste invece nell’indagine della concreta volontà del contraente, al di là della forma e
del testo. Tale interpretazione è tipica del periodo imperiale, dove il rallentamento economico, ed anche in certa
misura l’avvento della fede cristiana, spingono ad un’indagine più approfondita della volontà.

Elemento fondamentale che favorisce per lungo tempo l’interpretazione obiettiva su quella subiettiva è anche il
carattere religioso – sacrale delle tecniche (cfr. stipulatio, mancipatio), che fa ritener ritenere inconcepibile la
possibilità di fraintendimento”).
Fa scalpore a Roma, come riferisce Cicerone, quando tale tendenza viene interrotta, con l’interpretazione che si
attribuisce alla cosiddetta Causa Curiana. Un tale, credendo che la moglie sia incinta, ha predisposto nel testamento
che se suo figlio muoia prima di raggiungere la pubertà, erede del suo patrimonio sia un suo amico Manius Curius.
Tuttavia, morto il testatore, si scopre che la moglie non è gravida: Secondo un interpretazione obiettiva, dunque,
non essendo nato affatto il bambino, erede degli averi dovrebbe essere la famiglia del tale, rappresentata da un
certo Marcus Coponius, che ha assunto come avvocato Quinto Mucio Scevola. Tuttavia, come fa notare l’avvocato
Marco
Licinio Crasso, a difesa di Curius, il testatore, pur non prevedendo una tale situazione, avrebbe voluto che erede del
suo patrimonio fosse comunque l’amico Curius. L’interpretazione adottata dai Centumviri, ai quali spetta giudicare il
caso, fu quella sostenuta da Crasso: Così facendo, essi, non solo adottarono un’interpretazione di tipo subiettiva, ma
anche un diverso tipo di negozio la substitutio vulgaris (la sostituzione è disposta nel caso in cui l’erede primo
istituito non possa o non voglia accettare l’eredità), al posto di quella pupillaris.

De ambigui tate §
Particolarità del concetto di interpretazione negoziale, è il concetto di ambiguità.
Nell’ordinamento romano preclassico e classico è previsto che in caso di ambiguità, il contratto vada interpretato nel
senso sfavorevole per lo stipulatore. Lo stipulatore, è bene sottolineare, tuttavia non è da intendere esclusivamente
con il creditore: Se nella stipulatio, infatti, è stipulatore chi pone la domanda ovvero il creditore, nel contratto di
emptio – venditio, può essere stipulatore anche il debitore.
Non è presente dunque, nell’ordinamento romano, il concetto di favor debitoris, ovvero l’atteggiamento di favore
nei confronti del debitore: Si ritiene, infatti, che non vi debba essere la necessità di tutelare il debitore, in quanto
questi di sua spontanea volontà ha deciso di sottomettersi ad un contratto nei confronti di un altro.
In età imperiale, tuttavia, con la diffusione del Cristianesimo, la vecchia concezione viene scardinata dal concetto di
favor debitoris: Ad esempio, si ha notizia, che Marco Aurelio con un decreto limita l’autotutela per i creditori,
dichiarando che un’eventuale violenza esercitata dal creditore sarebbe andata contro il principio di “pietas” del
creditore stesso.
Nel codice civile italiano di oggi sono compresi sia la concezione classica di ambiguità (art.1370 – “Le clausole
inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti si
interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”) e sia la concezione imperiale (art.1371 – “qualora il contratto rimanga
oscuro, esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato”). Ben diversa era la cosa per il codice
italiano del 1865, in cui si dice (art.1137) “nel dubbio il contratto si interpreta contro colui che ha stipulato, ed in
favore di quello che ha contratto l’obbligazione”: Qui è chiaro che il contratto va interpretato in favore del debitore.
De negotiis nullis §
Non tutti i negozi sono riconosciuti dall’ordinamento e producono effetti, cioè sono validi ed efficaci (vitali). Vi
ossono essere anche negozi validi ed invalidi.
Un negozio valido è un atto al quale l’ordinamento giuridico riconosce forza vincolante. Un negozio invalido è un
atto al quale l’ordinamento giuridico non riconosce validità. Al concetto di invalidità sono collegati i concetto di
nullità ed invalidità.

- per nullità (invalidità assoluta) si intende l’incapacità di un atto di produrre gli effetti per il quale
era stato stipulato;
- per annullabilità (invalidità relativa) si intende la capacità di un atto di produrre effetti giuridici
finché la sua validità non venga eccepita ed interrotta dall’ordinamento.

Invalidità ed annullabilità, tuttavia non sono sempre facilmente distinguibili: Ad esempio nel caso il negozio sia
affetto da vizio di volontà, a rigor di logica, questo dovrebbe essere invalido in quanto la volontà non essendosi
formata bene, è come se non esista; ma in realtà il negozio viene considerato annullabile. Ciò è dovuto a motivi di
prestigio: Ad
un’importante azienda non piacerebbe, infatti, che si sapesse in giro di essere stata truffata su determinati pezzi
difettosi che aveva acquistato, una situazione che invece si verificherebbe se si annullasse il negozio.
Strettamente correlato a questi concetti è inoltre il concetto di efficacia, ovvero la capacità di un atto di produrre
effetti giuridici. L'efficacia di un atto è collegata alla sua validità ma non coincide con essa: Un atto invalido, infatti,
non è efficace se all'invalidità consegue la nullità; se, invece, all'invalidità consegue l'annullabilità dell'atto invalido,
lo stesso è sì suscettibile di annullamento ma, fintantoché questo non intervenga, è efficace ed, anzi, se, come
spesso avviene, l'annullamento è soggetto ad un termine di decadenza, il suo decorso senza che sia intervenuto
l'annullamento rende l'atto stabilmente efficace. Inoltre, un atto valido può essere inefficace se è vincolato da una
condizione sospensiva, o da un termine iniziale: Situazione che lo rende efficace a partire solo da un evento futuro,
incerto o certo che sia.
Quando l’atto è invece valido ed efficace si parla di vitalità dell’atto giuridico. Nell’esperienza romana inizialmente
vige solo la distinzione fra atto utilis ed inutilis, che indicano rispettivamente l’atto valido ed invalido. La distinzione
tra utilis ed inutilis tuttavia non è nettissima, in quanto il ius civile che la sancisce può essere scavalcato ed
accantonato
dalle decisioni prese dai pretori riguardo ai singoli casi. Vi sono casi, infatti, in cui il pretore può sancire l’invalidità di
un atto valido (è il caso della stipulatio utilizzata come supporto al contratto di mutuo) oppure la validità di un atto
invalido (è il caso del testamentum per aes et libram, ovvero il testamento fatto con l’uso della mancipatio, ove il
pretore, anche se per casi fortuiti non si era correttamente effettuato il rituale, accorda comunque all’erede
designato la disponibilità dei beni, ma dopo un anno). Successivamente, quando le norme del pretore vengono
considerate al pari del ius civile, e racchiuse nello ius honorarium, cominciano ad affiorare anche i concetti di
negotium non ullus, e negotium quasi nullus. Il negozio non ullus è quel negozio che non riesce a concretarsi in una
forma stabilita di obligationem (ad esempio come emptio – venditio, o locatio – conductio); pertanto nel caso
concreto non è ascrivibile a nessun tipo di negozio esistente (non ullus, letteralmente “non alcuno”). Il negotio quasi
nullus è quel negozio
che, anche se potendo essere paralizzato da exceptio (ope exceptionis - ope magistratus), continua a produrre i suoi
effetti (quasi nullus, letteralmente “quasi nullo”).
In età imperiale, i negotia irrita (annullabili), vengono considerati nulli ipso iure (letteralmente “per diritto stesso”), è
il caso dell’emptio res litigiosa (un’azione che permette, a chi è stato costretto da persone potenti e prepotenti a
vendere alcuni beni, di poter adoperare l’exceptio per paralizzare la vendita, che passa da ope exceptionis ad ipso
iure.

De Sanatoria*
Uno dei principi fondamentali dei moderni ordinamenti giuridici è il principio di conservazione, secondo il quale il
negozio, nel rispetto della volontà delle parti, deve essere mantenuto in vita il più possibile ove sia possibile salvarlo
in tutto o in parte. Il principio si basa sull’esigenza dell’economia degli atti giuridici nonché sulla presunzione di
serietà della manifestazione di volontà dell’autore dell’atto.
Nel diritto romano, secondo il iùs civile, un negozio nullo non poteva diventare efficace, ma poteva essere oggetto di
sanatoria attraverso:

- riduzione. Il negozio diveniva valido eliminandone una parte, ritenuta superflua. E’ il caso del
testamento in cui erano stato disposto un erede con riferimento solo a certi cespiti patrimoniali.
Questa azione secondo l’antico ius civile, avrebbe prodotto l’invalidità del negozio poiché l’erede,
visto come “capus totius testamenti” doveva essere successore universale; tuttavia la
giurisprudenza ritenne che il testamento dovesse essere ritenuto valido perché mancante di una
parte ritenuta superflua;
- conversione. Il negozio nullo si considerava non alla stregua del tipo avuto presente dalle parti al
momento della sua conclusione, ma di un altro negozio (idoneo egualmente a perseguire l’intento
voluto dalle parti col negozio invalido), del quale fossero presenti tutti gli elementi. Se per esempio
per sancire il pagamento di un mutuo, obligatio consensu contracta, si utilizzava l’acceptilatio,
utilizzata per sancire la conclusione della stipulatio, questa acceptilatio poteva convertirsi in un
pactum de non petèndo, mediante il quale una parte si obbligava a non chiedere l’adempimento
della obbligazione. Tale patto, pur non estinguendo l’obbligazione per il diritto civile, impediva al
creditore di agire per l’adempimento (il debitore, infatti, avrebbe potuto bloccare la pretesa del
creditore, sollevando un’eccezione, exceptio pacti).

De mandato et procura §
Non è sempre possibile attuare personalmente un negozio giuridico. Alcune volte è necessario affidare l’incarico di
compiere il negozio a qualcun altro: E’ questo il principio della rappresentanza. La rappresentanza può essere diretta
ed indiretta:
rappresentanza diretta. Il rappresentante agisce per conto e per nome del rappresentato dando luogo alla spendita
del nome. La responsabilità del negozio è dunque attribuita al rappresentato. Qui il rappresentato (dominus negotii)
incarica il rappresentante (procurator) attraverso l’atto della procura;
rappresentanza indiretta. Il rappresentante agisce solo per conto del rappresentato, senza dar luogo alla spendita
del nome. La responsabilità del negozio è dunque attribuita al rappresentante. Qui il rappresentato incarica il
rappresentante attraverso l’atto del mandato.

Si suole distinguere anche fra rappresentanza volontaria e rappresentanza necessaria:


nella rappresentanza volontaria, la fonte della rappresentanza (ovvero la giustificazione dell’agire) risiede nella
volontà del rappresentato;
nella rappresentanza necessaria la fonte risiede nella norma giuridica.

Esiste anche un terzo tipo di rappresentanza, la rappresentanza spontanea, nella quale il rappresentante sostituisce
il rappresentato di sua spontanea volontà.

Nell’esperienza romana l’idea della rappresentanza è molto tarda, ed ha trovato sempre grandi ostacoli. Per lungo
tempo tale principio non è stato preso in considerazione, in quanto ogni pater familias aveva a disposizione diversi
schiavi, oltre che figli, per poter compiere numerose faccende. Quando poi si sviluppano i traffici, molto
semplicemente
ci si affida all’espediente del mandatum, un contratto consensuale a forma libera, con il quale un soggetto
(mandante) da incarico ad un altro (mandatario) di compiere per lui delle attività.
Tuttavia, col passare del tempo, per motivi di ordine pratico (come solitamente avviene nell’ordinamento giuridico
romano), viene istituita una prima forma di rappresentanza, l’actio institoria. Tale rappresentanza rende
responsabili i patres (preponenti) che avevano mandato figli o servi a lavorare nelle botteghe, degli eventuali debiti
contratti
da questi ultimi. L’actio institoria, successivamente, viene estesa, con actio ad exemplum, anche ai casi in cui il
rappresentante non sia un familiare ma bensì un extraneus: In questo caso,denominato actio quasi institoria, al
preponente dell’extraneus sono imputati gli eventuali debiti per rappresentanza diretta, ma non gli acquisti,
attribuiti invece con una rappresentanza indiretta (e che dunque vanno in capo al rappresentante, che li avrebbe
poi dovuti passare al rappresentato).
Distinta da questa è invece la storia della rappresentanza spontanea, che ha origine nel periodo delle guerre civili fra
Mario e Silla. Alcuni amici di importanti esponenti politici mariani, costretti alla fuga a causa delle liste di
proscrizione, decidono, infatti, di prendersi cura del patrimonio di questi ultimi fino al loro ritorno. Tale operazione,
che prende il nome di negotiorum gestio alterius, non trovando sempre tuttavia, al ritorno dei domini negotiorum,
una giusta gratificazione per chi per amicizia di sua spontanea volontà se ne era occupato, viene ben presto tutelata
dall’ordinamento giuridico, che costringe i domini negotiorum a rimborsare l’intera somma spesa dai gestores
durante
l’intera gestione.
De pacto §
Il pactum era un mero accordo, o convenzione, tra due o più soggetti, che interveniva allo scopo di regolare una
situazione di comune interesse. Il iùs civile considerava irrilevanti i patti, i quali potevano solo produrre le
conseguenze
determinate dal costume sociale.
In via di eccezione, il ius civile considerò rilevante il pactum se si trattava di:

pactum adièctum, cioè di una clausola accessoria apposta ai negozi giuridici;


pactum legitimum, cioè di un patto produttivo di conseguenze giuridiche in base ad una lex.

Un esempio risalente di pactum legitimum può essere rinvenuto nella legge delle XII Tavole, la quale stabilì che
nell’ipotesi di membrum ruptum la vendetta privata (taglione) poteva essere evitata da un pactum intervenuto tra
offeso e offensore (o tra i relativi patres familiàrum).
Ai pacta fu conferito rilievo generale dal ius honoràrium attraverso una clausola dell’edictum (pacta convènta
servàbo). Con questo editto il pretore intese dare rilevanza giuridica a tutti i patti modificativi di obligatiònes, e cioè
ai pacta de non petèndo, sia totali (in base ai quali ci si obbligava a non chiedere parte della prestazione o di non
chiedere mai
l’intera prestazione) sia parziali (in base ai quali ci si obbligava a non chiedere la prestazione in certe circostanze o
sino ad un certo momento). Oltre al generico pacta conventa servabo, il pretore riconobbe rilevanza anche a
specifici
pacta, ciascuno individuato da una sua causa tipica.
A seguito dell’intervento del pretore, oltre ai pacta legitima (produttivi di obligatiònes iùre
civili), si distinguevano:

nuda pacta, privi di valore giuridico;


pacta praetòria, determinativi di azioni o eccezioni pretorie e quindi di obligationes
honorariae.

De Conventiònis sine nòmine et transactione §


Le conventiones sine nomine (meglio noti come contratti innominati) sono una categoria di contratti, di creazione
giurisprudenziale classica, che ricompredeva tutti i contratti privi di un proprio nomen iùris e di una
regolamentazione tipica, ma diffusi nella pratica (si pensi ai contratti do ut des, do ut facias, facio ut des, facio ut
facias).
Queste le caratteristiche principali dei contratti innominati:

l’obbligazione sorgeva indipendentemente dalla prestazione del consenso, per il solo fatto che una delle parti avesse
operato una prestazione;
la prestazione era fatta in vista di una futura controprestazione della controparte;
le obbligazioni delle parti erano interdipendenti.

Fu solo il diritto giustinianeo ad inquadrare completamente le conventiones nell’ambito del iùs civile, predisponendo
mezzi di tutela adeguati ad ogni fattispecie; l’evoluzione postclassica portò, altresì, alla tipizzazione di alcuni
contratti in origine innominati (permutàtio, aestimàtum, transàctio, precàrium, datio ad experiendum, inspicièndum,
vendèndum).

La transactio era un negozio con cui porre fine ad una controversia (fine peraltro raggiungibile anche mediante
acceptilatio, stipulatio, ecc.), che in più determinava anche l'estinzione delle obbligazioni eventualmente sussistenti
tra le parti.
Il debitore citato in giudizio poteva appunto eccepire l'intervenuta transactio mediante exceptio pacti. Solo in età
giustinianea, la transactio divenne un autonomo negozio innominato, cioè atipico.
Quanto ai mezzi di tutela, in particolare, occorre rilevare che, poiché l’obbligazione nascente dai contratti innominati
si fondava sulla esecuzione di una prestazione dell’altra parte, l’azione a difesa dei contratti innominati era
esperibile da chi aveva eseguito la prestazione, per costringere l’altra parte ad eseguire la controprestazione.
Se il creditore voleva ottenere la restituzione di quanto aveva dato (nel caso di do ut des e do ut facias), poteva
essere esperita una condìctio. Se il creditore voleva ottenere l’indennizzo per la prestazione effettuata (nel caso di
facio ut
facias e di facio ut des), poteva esercitare un’àctio de dolo.

De successione mortis causa


Principia*
La successione mortis causa indica il subingresso a titolo derivativo che una parte (avente causa) effettua nei
rapporti giuridici di un’altra (dante causa), tramite l’eredità, acquisita a titolo universale dal dante causa, oppure
tramite i legati, acquisiti a titolo particolare.
Analizziamo la definizione nei suoi particolari:

un atto giuridico a titolo derivativo è un atto con il quale una parte consegue un diritto, trovando la propria fonte in
una situazione di un altro soggetto;
per titolo universale, si intende una successione con la quale una parte (avente causa) acquista la totalità dei
rapporti sia attivi che passivi, di una determinata parte (dante causa);
per eredità si intende il complesso dei rapporti che vengono trasmessi dal dante causa all’avente causa;
per titolo particolare, si intende una successione con la quale una parte (avente causa) subentra in singoli rapporti
individuati di un’altra parte (dante causa);
per legato si intende l’oggetto dell’acquisto da parte dell’avente causa.

De successione in Romana experientia §


Nell’esperienza romana per molto tempo non si ha cognizione della successione mortis causa. La struttura familiare
romana seppur particolarmente complessa nel suo insieme, era fondata sulla contitolarità dei rapporti fra sui (filii in
potestate ed uxor in manu) e pater. I sui erano comproprietari delle res familiares ed al momento della morte del
pater si limitavano ad espandere i propri poteri, senza alcun subingresso nella hereditas. Se il pater moriva senza
successori, ab intestato, coloro che avevano diritto secundum lege ai suoi beni cioè gli adgnati (i collaterali in linea
maschile) o i gentiles (membri della gens), si limitavano ad una mera occupazione dei beni senza subentrare nella
titolarità dei rapporti. Anche se il pater avesse voluto disporre in ordine ai suoi beni, lo strumento che gli si
presentava la mancipatio familiae, con la quale il pater in punto di morte trasmetteva inter vivos i suoi bona ad un
amico che li avrebbe poi dovuti girare a coloro che gli venivano indicati, prevedeva l'attribuzione in legati e non a
titolo universale.
In età repubblicana, la situazione mutò sotto la spinta della giurisprudenza pontificale.
Questa per far sì che con la trasmissione dei rapporti non si perdesse il culto dei sacra, delle divinità familiari,
introdussero, tramite i provvedimenti di Tiberio Coruncario e di Publio Mucio Scevola, i principi del “sacra cum
pecunia” e dell' “heres caput et fondamentum totius testamenti”. In primo luogo, coloro che avessero usucapito per
un anno delle res hereditaries, rispondevono anch'essi come eredi per debiti e culti; in secondo luogo fu stabilito che
nella mancipatio venisse necessariamente indicato chi fosse l'heres universale.
Nasce la forma testamentaria del testamentum per aes et libram, che adottando la pratica della mancipatio come
tecnica per la successione mortis causa, riprende l'antica mancipatio familiae.
Il familiae èmptor interveniva solo formalmente, non acquistando nulla e non ingerendosi nella esecuzione delle
disposizioni: Il testatore, mediante una sua dichiarazione (nuncupàtio), consegnava semplicemente il testamento al
familiae èmptor. La redazione del testamento avveniva in presenza dei cinque testimoni e del lìbripens, ma il più
delle volte il testatore recava le tavolette già preparate in tutta la parte dispositiva: A ciò si accompagnava un breve
processo verbale che attestava le avvenute formalità della mancipatio familiae. Le tavolette erano poi sigillate dai
sette soggetti intervenuti. Si assiste alla nascita del testamentum come atto unilaterale (redatto oralmente oppure
in forma scritta), compiuto alla presenza di testimoni, attraverso il quale il pater familias, dispone dei propri beni per
il momento successivo alla sua morte.

De testamenti forma §
L’enorme rilevanza sociale e giuridica del testamento induce i giuristi romani a ritenere che un testamento, sia pur
invalido, debba essere conservato per quanto possibile, trattandosi di un atto negoziale ormai non più ripetibile
(essendo defunto il disponente). Il testamento deve essere interpretato potius ut valeat quam ut pereat (cioè in
modo che possa esplicare la sua efficacia, piuttosto che nel senso di invalidarlo). Esso presenta le seguenti
caratteristiche:

è iuris civilis, essendo accessibile solo ai cives, ovvero ai cittadini romani;


è essenzialmente personale, nel senso che non è ammesso manifestare la volontà per mezzo di intermediari, sia
nuncius che rappresentante;
è unilaterale, traendo efficacia dalla sola volontà del disponente;
è mortis causa, nel senso che acquista rilievo giuridico solo alla morte del testatore;
è revocabile, poiché il testatore può sempre mutare volontà (usque ad vitae supremum exitum);
è un atto formale, richiedendo il rispetto di determinate forme.

A proposito della forma, il testamento è costituito da:

- heredis istitutio, che istituisce l’erede (unica condizione obbligatoria, caput et fundamentum totius
testamenti);
- substitutiones, con la quale si può dar luogo alla sostituzione dell’erede nel caso questi venga fatto
prigioniero di guerra, o muoia prima dell’apertura del testamento;
- cretio, che impegna l’erede ad accettare l’eredità: Può avere anche una condizione terminale, cretio
perfecta (entro 100 giorni è lo standard);
- exheredationes, che disereda, esclude dal testamento coloro che il testatore ritiene indegni (può essere
anche la figlia sposata, che ha già ricevuto un ingente dote);
- legata, che possono essere di quattro generi:

legatum per vindicationem, che trasmette direttamente la proprietà (o il diritto che ne è oggetto) dal testatore al
legatario: Di conseguenza se il legatario non riceve ciò che gli spetta, può esperire contro l’erede la rei vindicatio;
legatum per praeceptionem (da antiparte), che consiste nella attribuzione della proprietà di una cosa ad uno dei
coeredi, che può impossessarsi della cosa prima della divisione ereditaria, sottraendola alla stessa;
legatum per damnationem ha per effetto la creazione di un’obbligazione a carico dell’erede ed a favore del
legatario: La formula utilizzata è - heres meus damnas esto dare; pertanto, affinché il legatario acquisti la proprietà
sulla cosa legata, occorre che l’erede gliela trasferisca con apposita mancipatio, in iure cessio o tradìtio. Nel caso si
dia luogo a legatum per vindicationem ma l’oggetto è andato smarrito, si può dare luogo ad un legatum per
damnationem, con il quale si attribuisce l’equivalente dell’oggetto smarrito all’erede (conversione).
legatum sinendi modo (legato in modo di lasciare), di struttura assai affine al legato per damnationem, è disposto
con la formula heres meus damnas esto sinere e consiste nella possibilità da parte del legatario di prendere una cosa
che sia in proprietà del testatore o dell’erede al momento della morte del de cuius. Se oggetto è una cosa di
proprietà di un terzo, il legato non è valido; se è una cosa divenuta di proprietà dell’erede dopo la morte del de
cuius, per effetto del senatusconsultum Neronianum il legatum è considerato come legatum per damnationem.

- datio tutoris, con la quale si può affidare la gestione di figli impuberi o della moglie ad un tutore.
- clausola codicillare, con la quale, nel malaugurato caso il testamento non sia valido, si prega l’erede
legittimo di adempiere alla volontà espressa nel testamento dal defunto, come fideicommissum
(disposizione di fiducia), come preghiera, che pur non valendo sul piano giuridico, ha un grande valore sul
piano sociale (obligatio naturalis).

De Fideicommisso hereditatis §
Il fedecommesso ereditario è un particolare tipo di fedecommesso, consistente nella preghiera rivolta all’erede di
trasferire l’eredità (in tutto od in parte) ad una terza persona. La disposizione fedecommissaria richiedeva, quale
presupposto, una corretta istituzione di erede. Lo scopo perseguito negozialmente attraverso il fedecommesso era
quello di vincolare l’erede, in modo da precludergli la possibilità di compiere liberamente atti di disposizione sul
patrimonio ereditario ed obbligarlo a trasferire il patrimonio ereditario stesso (in tutto od in parte) a persona
designata dal testatore. Il fedecommesso in questione non era un negozio puro, potendovi essere apposta una
condizione od un termine. Il fedecommissario (colui che riceve il fedecommesso) acquistava in origine, come detto,
la qualifica di cessionario nei confronti dell’hères fiduciàrius; la disciplina del fedecommesso ereditario subì, tuttavia,
notevoli innovazioni in virtù di due senatusconsùlta:

il senatusconsultum Trebelliànum stabilì che il fideicommissarius hereditatis dovesse esser considerato come un
erede (herèdis lòco) e potesse quindi direttamente esperire tutte le azioni ereditarie, senza dover pertanto ricorrere,
all’erede;
il senatusconsultum Pegasiànum stabilì, in conformità di quanto già disposto, in tema di legati, che in ogni caso
all’erede dovesse essere riservato un quarto del patrimonio ereditario.

De vocatione contra testamentum §


La successione necessaria è espressione che designa tutti i casi in cui il fenomeno della successione a titolo
universale per causa di morte avveniva, prescindendo dal testamento lasciato dal de cùius; vi rientravano le ipotesi
di:

praeteritio: era l’omessa menzione di un discendente nel testamento: In particolare, per quanto riguarda gli herèdes
sui, vigeva il principio che essi dovessero essere espressamente istituiti oppure diseredati. Se il testatore non avesse
istituito erede o diseredato nominativamente (“nominatim”) un filius maschio, il testamento era nullo (in base alla
regola civilistica “sui heredes aut istituendi aut exheredàndi”) e si apriva, quindi, la successio ab intestato; se
l’omissione riguardava invece qualche altro heres suus, si riteneva che l’erede pretermesso concorresse, comunque,
con gli altri eredi istituiti alla divisione del patrimonio del de cuius;
violazione dell’offìcium pietatis: consisteva nel dovere del testatore di contemplare, nel testamento, i parenti.
Determinante in tal senso fu una decisione del collegio dei centumviri che invalidava i testamenti in cui fossero stati
esclusi i parenti più stretti, considerando il testatore in una posizione “quasi a demente”.

Analogamente il testamento che ledeva la portio debita era detto inofficiosum, perché violava l’offìcium pietàtis. La
portio debita era quella parte del patrimonio ereditario che doveva essere necessariamente riservata dal testatore ai
parenti più stretti (e cioè ai figli, ai genitori, ai fratelli ed alle sorelle del de cùius che non fossero stati diseredati).
La portio debita era pari ad un quarto della quota che sarebbe spettata ai querelanti se si fosse fatto luogo alla
succèssio ab intestàto. La portio debita venne fatta valere tramite l'actio ad supplèndam legìtimam (azione di
reintegra della legittima), un'azione riconosciuta in diritto postclassico in favore del legittimario che sostituiva
l’attore agli instituti nella misura in cui questi avessero preso il suo posto, lasciando intatta ogni altra disposizione.

De testamento iure praetorio factum et bonorum possessione §


Su disposizione del praetor urbanus fu concessa la possessio dei beni del defunto a chi era stato beneficiato in un
testamento civilistico manchevole della solennità della mancipatio. Il pretore, infatti, ritenne che fosse sufficiente
l’esibizione delle tabulae munite dei sigilli di sette testimoni per concedere la possessio dei bona defuncti.
Strumento utilizzato dal pretore fu la missio in possessiònem (“immissione nel possesso di singoli beni”), mezzo
complementare della procedura formulare, con la quale il pretore immetteva un determinato soggetto nella
detenzione o anche nel possesso, di un complesso di beni, con poteri di controllo, di amministrazione e di
disposizione.
La missio in possessionem si concretava nella bonorum possessio, l’attribuzione a colui che ne avesse fatto richiesta
e che avesse avuto le qualità stabilite nell’Editto, non solo del possesso dei singoli beni ereditari, ma addirittura del
godimento di fatto della situazione di erede, indipendentemente dalla titolarità (alla stregua del ius civile).
Originariamente, la bonorum possessio era sine re (senza azione), in quanto non consentiva al bonorum possèssor
(possessore dei beni ereditari) di resistere in giudizio alla hereditàtis petìtio intentata da chi dimostrasse di essere
erede secondo il ius civile.
In epoca classica, tuttavia, la bonorum possessio divenne cum re (con azione), ossia si caratterizzò per l’effetto
opposto. In base ai motivi che davano luogo alla concessione della bonorum possessio, si distingueva
tra:

- bonorum possessio contra tabulas (contro il testamento), concessa dal pretore, contro la volontà
manifestata dal de cùius nel testamento;
- bonorum possessio secundum tabulas (in conformità al testamento), accordata dal pretore in conformità
alla volontà manifestata dal de cùius in un testamento non valido per il ius civile;
- bonorum possessio sine tabulis (in assenza di testamento), concessa dal pretore, in mancanza di
testamento, a persona che appartenesse ad una delle categorie individuate, a tal fine, dall’Editto

De collazione §
La collatio è un istituto in forza del quale i coeredi, discendenti dal de cùius, erano giuridicamente obbligati a
conferire alla massa ereditaria, prima della sua divisione, tutti i beni (doni, dote, etc.) ricevuti dal de cuius quando
questi era in vita. Uno degli effetti della bonorum possessio fu quella di far godere anche i filii mancipati o le filiae
sposate, generalmente esclusi dalla successione testamentaria, dei bona lasciati dal pater. Il filius emancipatus (filia
dotata) che facesse richiesta di bonorum possessio sine tabulis o contra tabulas, per poter godere dell’hereditas,
doveva a tal fine o attribuire il patrimonio (la dote) che possedeva alla morte del pater agli heredes oppure poteva
limitarsi a lasciare dell’eredità paterna quanto avrebbe dovuto distribuire.

De agere secundum ius


Principia*
- processo, è un insieme di atti coordinati volti a dirimere una controversia;
- procedimento, è un insieme di atti coordinati volti a dirimere una fase del processo;
- procedure, è il modello, l’itinerario che deve seguire il processo;
- attore, è colui che “agit”, muove l’azione processuale;
- convenuto. E’ colui che è chiamato in giudizio dall’attore;
- processo di cognizione. Ha la generale funzione di portare alla conoscenza del giudice (onde il termine
cognizione) una questione perché possa individuare la regola di diritto sostanziale applicabile al caso
concreto, sì da dirimere e quindi decidere la controversia.

A seconda dello scopo perseguito dall'attore si qualifica l'azione:

- azione di mero accertamento. E' la finalità minima perseguita dal processo di cognizione. Il processo tende
alla mera verifica dell'esistenza o inesistenza di una situazione giuridica lesa o contestata.
- azione di condanna. La finalità realizzata dal processo è più complessa. L'azione, oltre che perseguire un
accertamento, mira a ordinare al convenuto un determinato comportamento. L'accoglimento della
domanda conclude il processo con una correlata sentenza di condanna, che costituisce titolo esecutivo per
la esecuzione forzata.
- azione costitutiva. Con tale azione, oltre che volere un accertamento, si mira a conseguire una
modificazione della realtà giuridica. Con l'accoglimento di una tale domanda conclude il processo con una
correlata sentenza costitutiva che modifica essa stessa la realtà giuridica.

Processo di esecuzione. Ha la funzione di realizzare coattivamente l'attuazione dei diritti. La tutela giurisdizionale
avviene mediante l'esecuzione forzata, la quale si fonda su un titolo esecutivo che indica il diritto che si intende
attuare.

Processo cautelare. Ha la funzione di salvaguardare certe situazioni da eventuali modificazioni anteriori al processo
di accertamento o di esecuzione.
De agere secundum ius in temporis §
Vedi la tabella allegata.

De legis actionibus §
Le legis actiones costituirono la più antica forma processuale del diritto romano. Ampiamente diffuse all’epoca della
legge delle XII Tavole [vedi tabella], sopravvissero formalmente per tutta l’età repubblicana. Furono ufficialmente
abolite (salvo qualche eccezione) nel 17 a.C., dalla lex Iulia iudiciòrum privatòrum.
Le più antiche forme di procedimento giurisdizionale, che si riconnettono alle pratiche di autodifesa sviluppatesi
nell’ambito dell’ius Quiritium, furono denominate, inizialmente, “actiones”: solo successivamente presero il nome di
legis actiones. L’etimologia dell'espressione lege agere era poco nota già ai giuristi romani del periodo
classico. Gaio, giurista del II secolo, dà la seguente spiegazione del termine: “Actiones, quas in usu veteres
habuerunt legis actiones appellabantur vel ideo, quod legibus proditae erant, vel ideo, quia ipsarum legum verbis
accommodatae erant et ideo immutabiles proinde atque leges observabantur” (Le azioni, che gli antichi hanno avuto
in uso sono chiamate azioni di legge, o perché erano state introdotte da leggi o perché erano state adattate alle
parole delle leggi e perciò erano osservate come immutabili al pari delle leggi). Gaio dapprima ricollega l'espressione
lege agere alla Lex intesa come lex publica populi Romani (ma la romanistica moderna contesta tale spiegazione,
giacché le prime legis actiones vennero introdotte dal mos maiorum ben prima che nascessero le leges), poi ricollega
il significato dell'ablativo lege al significato del termine lex come pronuncia orale e solenne, intendendo come lex la
pronuncia di certa verba. Lege agere vorrebbe dire, secondo questa opinione, agere certis verbis, ossia agire con la
pronuncia di parole determinate.
La legis actio era una solenne affermazione del proprio diritto, compiuta di regola davanti al magistrato (in iùre) e
secondo uno schema precostituito, che i privati non potevano mutare.
Il processo era diviso in due fasi:

la prima fase, detta in iure, davanti al magistrato;


la seconda, detta apud iudicem, davanti al giudice privato.

fase in iure: aveva lo scopo di fissare, con certezza e precisione, i termini della controversia, ed esigeva, di
conseguenza, la necessaria presenza di entrambe le parti: Spettava all’attore condurre dinanzi al magistrato la
controparte, nel caso anche con la forza. Davanti al magistrato, l’attore affermava solennemente il suo diritto.
L’elemento fondamentale della fase in iure era lo scambio tra le parti di dichiarazioni solenni, incompatibili tra loro
(in quanto l’una affermava il diritto, l’altra lo negava). Esse erano pronunciate davanti a testimoni, la cui presenza
era esplicitamente richiesta: questa era la cosiddetta litis contestàtio.

La funzione della litis contestàtio era duplice:


determinare l’oggetto del processo;
impegnare le parti alla soluzione della lite mediante sentenza.

Se il convenuto non contrastava le affermazioni dell’avversario, si attuava la confessio in iure: Il processo si


arrestava nel momento in cui l’affermazione dell’attore riceveva la conferma del magistrato. Lo stesso avveniva se il
fondamento del diritto affermato dall’attore appariva evidente. Si poteva quindi passare all’esecuzione, con la
conseguenza che l’attore poteva impossessarsi della cosa o del debitore.

fase àpud indice: se le parti non raggiungevano alcun accordo, dopo la lìtis contestàtio, si apriva la fase apud
iudicem (peraltro eventuale). Il magistrato rimetteva le parti dinanzi ad un iùdex privàtus (da lui scelto) il quale,
ascoltate le loro ragioni ed esaminati i mezzi di prova, emetteva la sua sententia, oralmente.
Nella fase apud iudicem non era più necessaria la presenza di entrambe le parti: La sentenza, in assenza di una parte,
interveniva ugualmente ed era sfavorevole a questa. L’ufficio di giudice poteva essere affidato ad una persona sola o
ad un collegio: Nel primo caso, il giudice era nominato dal magistrato di volta in volta; nel secondo caso il collegio
decideva un numero indefinito di controversie, avendo in determinate materie, competenze generali:
in materia di libertà, erano competenti i decèmviri stlìtibus iudicàndis;
in materia di eredità e di proprietà, erano competenti i centùmviri.

Se il convenuto non ottemperava alla sentenza, intervenivano senz’altro misure esecutive; con l’actio in rem il
convenuto perdeva il possesso della cosa in favore dell’avversario; con l’actio in personam era soggetto alla
immediata esecuzione personale.

Il diritto romano conobbe quattro legis actiones:


legis actio sacramenti: la legis actio sacramenti aveva origini molto antiche, e poteva essere esercitata a difesa di
ogni diritto per il quale non fosse specificatamente prevista una procedura diversa: Era cioè un’actio generalis. Come
è possibile desumere dalla descrizione gaiana, contenuta nelle Institutiones, essa consisteva in una sorta di
scommessa fatta dalle parti in lite. Fissati, infatti, i termini della controversia, ciascuna delle parti faceva una
promessa solenne (detta appunto sacramèntum), di pagare in favore dell’erario una determinata somma in caso di
soccombenza; toccava poi ad un iùdex, nominato dal magistrato dinanzi a cui si svolgeva la fase in iure, stabilire
quale delle parti avesse ragione e quale avesse, invece, dolosamente promesso la somma. Si distinguevano una legis
actio in rem (con la quale si faceva valere un diritto reale su una cosa, costituendo oggetto del contendere la
titolarità di un diritto su una res) ed una legis actio in personam (nella quale oggetto del contendere era l’esistenza o
meno, a carico del convenuto, di una obbligazione).
legis actio sacramenti in rem: attore e convenuto comparivano dinanzi al magistrato portando la cosa controversa o
una parte simbolica di essa, se si trattava di cosa non trasportabile. L’attore, tenendo in mano una verga (festùca),
toccava la cosa e pronunciava la frase “hunc ego hòminem ex iùre Quirìtium meum esse aio secundum suam
causam. Sicut dixi, ecce tibi vindìcta impòsui” (affermo solennemente che questo schiavo mi appartiene per diritto
quiritario, in conformità alla sua destinazione. Ecco, così come ho dichiarato, ti impongo la mia vindicta);
contestualmente toccava la cosa con la festuca, operando la vindicàtio. Come spiega Gaio, poiché la festuca
rappresentava la lancia di guerra, questo atto simboleggiava l’occupazione bellica e, quindi, nel toccare la cosa con la
festuca, l’attore manifestava simbolicamente il suo diritto di piena proprietà sulla cosa: In epoca più antica, infatti, il
diritto tipico di proprietà era quello sulle cose prese al nemico.

A questo punto due erano le possibilità:


se il convenuto non compiva alcuna dichiarazione contraria, la cosa restava definitivamente in proprietà dell’attore
(a questa forma, si ricorse molto spesso per trasmettere i beni oggetto di compravendita).
se, invece, il convenuto compiva la stessa dichiarazione ed eseguiva gli stessi atti compiuti già dall’attore, operando
la vindicatio contraria, sorgeva la controversia vera e propria. In questo caso il magistrato intimava ad entrambe le
parti di abbandonare la cosa contesa (“mìttite ambo rem”); a ciò seguiva la reciproca scommessa. Il magistrato
investito della controversia poteva assegnare il possesso interinale sulla res oggetto del giudizio alla parte che a suo
avviso vantasse una pretesa in apparenza fondata; la restituzione della res e dei frutti, in caso di soccombenza del
possessore interinale era garantita attraverso la nomina di garanti (c.d. praedes lìtis et vindiciàrum rispettivamente,
per la res e per i frutti). Successivamente, nominato il iudex, si passava alla fase àpud iùdicem, nella quale ciascuna
parte produceva le prove che intendeva porre a sostegno della sua tesi, ed il giudice, dopo averle valutate, emetteva
la sua sententia, con la quale, risolvendo il tema oggetto della controversia, proclamava quale dei sacramenta fosse
iùstum e quale iniustum. Poiché la summa sacramenti era promessa da tutte e due le parti, pur dovendo essere
pagata solo da chi perdeva la causa, si richiedeva che ognuna presentasse dei garanti per il futuro eventuale
pagamento (i praedes sacramenti che prestavano garanzia davanti al magistrato); la somma era poi devoluta ad una
cassa pubblica.

legis actio sacramenti in persònam. Il creditore e il debitore convenivano in iure: Dinanzi al magistrato il creditore,
rivolgendosi al debitore, affermava il proprio diritto e l’esistenza di un credito verso il convenuto. Il convenuto
poteva tacere, nel qual caso risultava definitivamente accertato il suo debito, o contestare il diritto azionato: In
questo caso il creditore lo provocava al sacramentum. A differenza della legis actio sacramenti in rem, in cui le parti
affermavano per sé lo stesso diritto, nella legis actio sacramenti in personam una parte affermava il credito e l’altra
lo negava. Inoltre mancava la fase di attribuzione del possesso interinale, non essendoci una res oggetto della
controversia. La sfida al sacramentum, peraltro, permaneva e di conseguenza era necessaria sempre l’indicazione
dei praedes sacramenti.

Legis actio per mànus iniectiònem. La manus iniectio fu la più antica delle legis actiones e costituì il primo esempio
di azione esecutiva generale. Suo presupposto era il mancato pagamento da parte del convenuto di una somma di
danaro, a cui era tenuto per una causa certa ed indiscutibile. Il caso tipico fu quello relativo alle somme dovute a
seguito di accertamento giudiziale; a questa ipotesi furono in seguito equiparati altri casi di crediti ben accertati, ad
esempio crediti basati su una confessio in iure, per i quali si parlò di “manus iniectio pro iudicato”.
Il creditore, trascorsi 30 giorni (dìes iusti) dalla sentenza che aveva riconosciuto il suo diritto, conduceva, anche con
la forza, nuovamente in ius il debitore insolvente e dinanzi al magistrato lo afferrava pronunciando la frase: “quod tu
mihi iudicàtus es sestèrtium decem mila, quando non solvìsti, ob eam rem ego tibi sestertium decem mila iudicati
manum inìcio” (poiché sei stato condannato a pagarmi diecimila sesterzi e non l’hai fatto, io compio su di te la
manus iniectio per diecimila sesterzi). Il condannato non poteva respingere la manus iniectio, ma solo offrire un
vìndex per
contestare le ragioni del creditore. Se però il vindex risultava sconfitto, il debitore era condannato al pagamento del
doppio del dovuto. Se non era presentato il vindex, il magistrato confermava la dichiarazione del creditore mediante
l’addìctio. Il creditore aveva diritto di condurre il debitore presso la sua abitazione e di tenerlo legato per 60 giorni,
durante i quali doveva presentarlo in pubblico in tre mercati consecutivi per venderlo, dichiarando l’esistenza del
debito e il suo ammontare. Trascorsi i 60 giorni senza alcun esito positivo, il debitore poteva essere ucciso o venduto
fuori del territorio romano (trans Tìberim) e, se vi erano più creditori, in base alle XII Tavole, poteva essere ucciso: il
suo corpo diviso tra gli stessi creditori. Col tempo la manus iniectio andò sempre più trasformandosi da processo
esecutivo in processo dichiarativo: Al debitore fu concessa la possibilità di respingere la manus iniectio e di iniziare
un giudizio per accertarne la legittimità. Una lex Vallia, di epoca imprecisata, fece della manus iniectio pura la regola,
lasciando sopravvivere la vecchia procedura per il solo caso di esecuzione del giudicato.

- Legis actio per iùdicis arbitrìve postulatiònem. La legis actio per iudicis arbitrive postulationem costituì una
semplificazione della legis actio per sacramèntum. Essa fu introdotta dalla legge delle XII Tavole ed aveva un campo
di applicazione ben delineato, risultando esperibile dapprima per l’accertamento dei crediti derivanti da spònsio e
successivamente nei giudizi divisori. Presenti in iùre le parti, l’attore affermava la propria pretesa e, nel caso di
contestazione del convenuto, si rivolgeva tanto a lui che al pretore chiedendo a questi di nominare un iudex che
decidesse la controversia. La formula adoperata era: “quando tu negas, te, praetor, iudicem pòstulo uti des”.
La procedura si caratterizzava per il fatto che, eliminata la sfida al sacramentum, l’attore, dopo aver ribadito la sua
domanda, e dopo aver ricevuto il diniego del convenuto, chiedeva immediatamente la nomina dell’iùdex o
dell’àrbiter che avrebbe deciso la questione. Una successiva lex Licìnia estese l’applicabilità della legis actio alla
divisione di cose
singole, chiesta dai condomini (actio communi dividundo), mentre la prassi la consentì anche per l’actio finium
regundorum. In queste ultime due ipotesi, il giudice aveva poteri più ampi di quelli solitamente riconosciutigli, e
perciò era chiamato arbiter: la legis actio fu, così, denominata legis actio per iudicis arbitrive postulationem.

- Agere in rem per sponsionem. E’ un’azione che mira ad evitare le complicazioni della legis actio sacramenti in rem,
avvalendosi della iudicis arbitrive postulationem. Il convenuto prima del giudizio, da luogo ad una duplice stipulatio
(stipulatio praeiudicialis): Nella prima promette di pagare 50 assi (il prezzo minimo da pagare nella legis actio
sacramenti) nel caso il giudice stabilisca che la res non fosse sua; nella seconda promette di restituire la res nel
caso egli nel processo soccomba. Secondo la procedura della legis actio iudicis arbitrive postulationem, il giudice
doveva limitarsi ad accertare l’effettiva sussistenza del credito: A causa tuttavia della duplice stipulatio, al credito di
50 assi risultava legata anche le res; l’attore dunque che avesse vinto la causa, avrebbe ottenuto anche la res, reale
oggetto del suo contendere, evitando le complicazioni che la legis actio sacramenti in rem avrebbe comportato.
L’agere in rem per sponsionem fu trasposta con qualche adattamento anche nel processo per formulas: Si parla in
questo caso di agere per formulam petitoria.
- Legis actio per condictiònem. Introdotta, come riferisce Gaio, da una lex Silia del III sec. a.C. per l’accertamento di
crediti di somme certe di danaro, fu estesa, da una successiva lex Calpurnia, ai crediti di cosa determinata. La
condìctio costituì probabilmente un adattamento della legis actio sacramènti, in quanto sostituì il pagamento della
somma di danaro all’erario con il pagamento di una penale al vincitore.
La procedura era molto simile a quella della legis actio sacramenti. L’attore affermava davanti al convenuto che
questi era debitore verso di lui di una data somma di danaro e gli chiedeva di riconoscere il suo debito. Se il
convenuto negava, l’attore lo invitava a comparire nel trentesimo giorno davanti al pretore per la nomina del
giudice: di solito il convenuto per evitare la condictio provvedeva a pagare il dèbitum. La prima parte dell’azione si
svolgeva, dunque, extra iùs, e cioè non davanti al magistrato.

De legis actionis schemis: Legis actio sacramenti


1. E’ prevista una manus iniectio per condurre il convenuto davanti al pretore
2. Scommessa: Chi perde paga 5 bovini o 5 ovini
3. In iure.
~ In rem. L’attore toccava con una bacchetta (festuca) la cosa reclamandaone la proprietà; altrettanto faceva il
convenuto. Il pretore ordinava di rilasciare la cosa, attribuendone il possesso interinale alla parte che le sembrava
avesse ragione e l’attore sfidava il convenuto ad un giuramento di 50 assi.
~ In personam. Lo stesso procedimento, senza il possesso interinale.
4. Apud iudicem. Le parti si recano da un giudice che funge da arbitro della controversia: Questi ha tempo fino al
tramonto per emettere una sententiam (iudicatum). La sententiam autorizzava il vincitore all’autosoddisfazione.

De legis actions schemis: Per manus iniectionem


1. Svolge da esecuzione per i procesi di legis actio sacramenti: Il iudicatus non poteva infatti contestare la prestesa
se non offrendo un vidnex che però se perdeva rischiava di pagare il doppio.
2. Iniziava dopo 30 giorni dalla condanna.
3. Si dava luogo all’addictio: Il vincitore poteva tenere legato l’addictus che doveva essere esposto in tre mercati
consecutivi nel comizio dinanzi al pretore, dove si doveva annunciare l’entità della somma per la quale era stato
assoggettato. Se non veniva riscattato poteva essere venduto fuori confine o messo a morte.

De legis actions schemis: Legis actio per iudicis arbitrive postulationem


1. Si agisce in base a stipulatio o per azioni divisorie
2. Il convenuto nega quanto affermato dall’attore
3. Le parti si rivolgono direttamente al pretore al quale si chiede la risoluzione della controversia
4. Si passa alla fase apud iudicem
Per formulas §
Il processo per formulas, caratterizzato da una procedura più semplice e meno rigorosa delle arcaiche lègis actiònes,
finì per sostituirsi completamente a queste nel periodo augusteo. Le procedure per formulas sorsero in epoca
preclassica e convissero a lungo col sistema delle legis actiones. Queste si affermarono nell’ambito della iurisdictio
del praetor peregrinus: L’espansione romana e l’incremento dei contatti e dei commerci con popolazioni peregrine,
infatti, finì per accantonare (e poi abbandonare) il formalismo delle antiche procedure delle legis actiones, che non
solo non potevano essere adottate per i cives non romani ma mal si adattavano anche agli istituti (es. obligationes
consensu contractae) che stavano sorgendo, per far spazio ad una procedura nuova e semplificata.
Le procedure per formulas furono utilizzate dal praetor urbanus nelle controversie tra Romani relative agli istituti del
ius civile novum. L’estensione anche ai rapporti del ius civile vetus avvenne con la lex Aebutia de formulis, del II sec.
a.C., che probabilmente rese facoltativo il nuovo processo rispetto alle legis actiones, finché non fu reso obbligatorio
dalla lex Iulia iudiciorum privatorum del 17 a.C. Il processo per formulas era una procedura di cognizione divisa in
due fasi, una in iùre, davanti al magistrato e l’altra apud iùdicem, davanti al giudice nominato dal magistrato.
Quando l’azione concessa dal magistrato ineriva una fattispecie non prevista dal ius civile si parlava di actio in
factum. Laddove, invece, il ius civile avesse già disciplinato in via astratta la fattispecie in questione, l’actio concessa
dal magistrato era da ritenersi già nota all’ordinamento giuridico e, pertanto, veniva considerata come actio in ius.
In realtà le azioni onorarie erano tutte sorte in origine come actiones in factum: Di pari passo col riconoscimento e
l’estensione del ius honorarium, un numero sempre maggiore di esse fu elevato al rango di actiones in ius.

Fase in iure: nella fase in iure, il giudice doveva valutare il contenuto ed il fondamento della domanda e,
quindi, concedere o negare l’àctio richiesta; se riteneva di concedere l’azione, determinava le reciproche pretese
delle parti fissandole nella formula che concedeva loro. La formula consisteva in una sorta di riepilogo del giudizio
avvenuto in iùre, fatto secondo un programma concordato tra le parti, ed in base a modelli preparati dal magistrato,
contenente le rispettive pretese delle parti, nonché il compito di cui veniva investito, nella successiva fase àpud
iùdicem, il iudex privatus. Elementi essenziali del giudizio formulare furono l’intentio e la condemnatio che non
potevano mai mancare.

Elementi accessori furono:


la demonstratio;
l’adiudicatio;
la taxàtio;
la praescrìptio;
l’exceptio e le clausole ad essa collegate.

Fase apud iudicem: la fase apud iudicem si svolgeva secondo le indicazioni fissate nella formula stessa,
ciascuna parte produceva le prove che riteneva opportune; al termine dell’istruzione, il giudice, valutate le prove ed
attenendosi alla formula, emetteva la sentenza, che poteva essere di accoglimento o di rigetto della domanda
proposta.

De schema per formulas


1. è introdotta dai pretori per venire incontro alle nuove esigenze cui il ius civile non poteva adempiere con la
formalità delle legis actiones;
2. prevede una fase apud iudicem simile a quella delle legis actiones, ma una fase in iure completamente differente;
3. il procedimento non avviene più tramite la pronuncia di parole solenni, ma tramite una formulazione riassuntiva
dei fatti (formulae) esposti dalle parti al pretore;
4. ha uno schema ben preciso e le parti necessitano dell’aiuto di un giurista per ben guidare la controversia.
5. Iudicium. Si articola in:
~ iudicis nominatio: viene eletto il giudice che dovrà dirimere la controversia;
~ praescriptio: diretta ad escludere la deduzione in giudizio di pretese che si intendeva riservare ad eventuali future
domande giudiziali;
~ demonstratio: la sommaria indicazione del fatto su cui era fondata la controversia;
~ pars pro actore (intentio, condemnatio) – intentio: Individua la controversia;
~ exceptio: un’eccezione posta dalla controparte;
~ replicatio: la replica dell’attore all’exceptio;
~ taxatio: una clausola con la quale, nei casi di condemnàtio relativa ad una somma incerta, si poneva un limite
prestabilito all’importo della condanna: il giudice era così vincolato a condannare la parte soccombente al
pagamento di una somma non eccedente quella prestabilità;
~ condemnatio: ha lo scopo di invitare il iudex a condannare (o ad assolvere) ponendo in evidenza: in primo luogo, il
destinatario del provvedimento; in secondo luogo, la precisa richiesta dell’attore. Quest’ultima era sempre riferita
ad una somma di denaro, cioè ad una “condemnatio pecuniaria”.

De actione arbitraria §
Nella procedura formulare, era l’azione che conteneva nella propria formula una clausola arbitraria. In base ad essa
il iùdex era tenuto ad esporre alle parti, solennemente, prima di addivenire alla pronuncia della sentenza, il
convincimento maturato in ordine alla lite. In tal modo offriva, al potenziale soccombente, la possibilità di eseguire
spontaneamente il comando giudiziale, ristabilendo la preesistente situazione patrimoniale della controparte, ed
evitando, così, di incorrere nella condemnàtio, cioè di subire la condanna.La clausola arbitraria era tipica, ad
esempio, dell’actio de dolo.
De actione bonae fidei §
Nella procedura formulare, categoria di azioni nelle quali era attribuito al giudice un ampio potere discrezionale nel
determinare le prestazioni del convenuto sulla base di un criterio di buona fede. In virtù di ciò, i poteri del giudice
erano particolarmente dilatati, in quanto egli era chiamato a risolvere i casi sottoposti al suo esame, anche
prescindendo da una rigorosa applicazione dei precetti normativi. In tal modo, ebbero origine talune regole
destinate a rivestire una notevole importanza in materia di diritto delle obbligazioni e, in particolare, in tema di
contratti di vendita, locazione, e mandato.

De actione utile §
Categoria di azioni utilizzate per uno scopo analogo, ma non del tutto identico, a quello originario, onde disciplinare
casi non previsti dal ius civile. L’impiego delle actiones utiles consentì, pertanto, di tutelare situazioni nuove, sfornite
di una propria disciplina. In concreto si ricorreva a tre espedienti:

la trasposizione di soggetti, consistente nell’indicazione di un soggetto come titolare della pretesa o dell’obbligo e
nella designazione di un altro come titolare del corrispondente potere o della corrispondente soggezione: Si poteva
così, ad esempio, condannare, al pagamento dei debiti contratti dal filius o dal servus, rispettivamente il pater
familias od il dòminus;
la finzione di un requisito civilistico consistente nel dare fittiziamente per esistente un requisito in realtà mancante
richiesto dal ius civile: Si pensi al caso in cui si considerava, al limitato scopo di tutelare i creditori del soggetto
adottato, fittiziamente come non avvenuta la càpitis deminùtio (rescissa càpitis deminutiòne);
la creazione di azioni nuove ad imitazione di altre esistenti per casi analoghi: Si pensi alle actiones ad exemplum,
actionis legis Aquiliae, che il praetor soleva concedere in casi di damnum iniuria datum, altrimenti non tutelati,
secondo una rigorosa interpretazione della lex Aquilia de damno.

De iudicis legitimis atque iudicis imperio continentia


Nelle procedure per formulas, indicano due tipi di giudizi differenti, rispettivamente:

iudicia legitima. Sono i processi che si svolgevano tra cittadini romani, sotto un solo giudice (sub uno iùdice)
cittadino romano, in Roma o comunque entro il raggio di un miglio dalle mura della città: La lex Iulia iudiciòrum
privatòrum stabilì che queste azioni si estinguevano se non erano decise entro un anno e sei mesi.
iudicia imperio continentia. Sono i processi che dipendevano dalla durata in carica del magistrato (denominati
anche giudizi recuperatori in quanto affidati cioè alla decisione dei recuperatòres), e quelli che si svolgevano dinanzi
ad un solo giudice, ma con l’intervento di uno straniero (o come parte, o come giudice). Vi rientravano, inoltre,
anche i giudizi (tra Romani e stranieri) che si svolgevano oltre il raggio di un miglio dalle mura di Roma. In particolare
essi valevano, finché il magistrato che li aveva instaurati conservava la sua giurisdizione, e cioè per un anno: Per tale
motivo erano definiti imperio continentia.

De praetoris instrumentis §
Interdicta (detti anche decrèta). Erano, secondo la definizione di un’autorevole dottrina, “ordinanze di urgenza
emesse dal magistrato cum imperio, in contraddittorio tra due parti, allo scopo di evitare la lìtis contestàtio e il
procedimento àpud iùdicem di fronte a certe fattispecie relativamente semplici ed evidenti. Il magistrato ingiungeva
al convenuto, su richiesta dell’attore, di compiere l’azione, positiva o negativa, da quest’ultimo reclamata…”.
Gli interdicta si distinguevano a seconda dell’oggetto, in:

prohibitòria, che imponevano l’astensione da un certo comportamento;


restitutòria, che ordinavano la restituzione di una res;
exhibitòria, che comportavano l’obbligo di esibire una res che si tenesse nascosta.
In relazione ai destinatari, in:

simplìcia, se rivolti ad una sola delle parti;


duplìcia, se rivolti ad entrambe le parti.

Gli interdicta erano sostanzialmente provvedimenti d’urgenza, emanati a seguito di cognizione (e cioè di un
accertamento) molto sommaria ed approssimativa, limitata al rilievo della fondatezza prima facie (a prima vista) del
diritto vantato dall’istante e sfociavano in un ordine rivolto ad uno o ad entrambi i contendenti.

- In integrum restitutio: permetteva al magistrato, ritenuta l’iniquità di un determinato mutamento giuridico, di


ripristinare la situazione giuridica preesistente. Il pretore, valutato attentamente il caso propostogli, emanava un
decreto di restituzione, oppure denegava una certa azione.

- Stipulatio praetoria (vel cautio): rimedio cautelare tipico del processo formulare, consistente in una stipulatio che il
pretore (su richiesta di chi aveva interesse) ordinava a taluno di contrarre, onde ottenere l’impegno a pagare una
somma di denaro alla controparte se si verificava un certo evento (di volta in volta specificato).
Tra le cautiònes, si distinguevano:
repromissiònes, se era richiesta la sola promessa di pagamento;
satisdatiònes, se alla promessa dovevano accompagnarsi ulteriori garanzie (anche di terzi).

- Bonorum venditio: forma di esecuzione forzata promuovibile, ad iniziativa dei creditori, sul patrimonio di un
debitore irrimediabilmente insolvente. La procedura si articolava in varie fasi:

dapprima, i creditori chiedevano al pretore di immettersi nel patrimonio del debitore (missio in bona);
a seguito di tale richiesta, il pretore, ricorrendone i presupposti (irrimediabile insolvenza del debitore), immetteva
nel possesso dei beni del debitore tutti i creditori (non solo quelli istanti, ma anche quelli successivamente
intervenuti), nominando tra essi un curatore (curàtor bonòrum) cui veniva affidata temporaneamente la custodia e
’amministrazione dei beni;
trascorsi 30 giorni dalla missio in bona, i creditori procedevano all’elezione (tra essi) di un magìster bonorum, il
quale, dopo aver redatto l’inventario dei beni, emetteva il bando di vendita contenente l’elenco dei beni messi in
vendita, i nomi dei creditori (con gli importi dovuti a ciascuno e l’indicazione dei crediti eventualmente assistiti da
garanzie), i termini entro i quali dovevano essere soddisfatti i creditori;
trascorsi 10 o 15 giorni dall’emanazione della lex venditionis, il magister honorum provvedeva alla vendita in blocco
dei beni del “fallito” a quello tra i creditori, il honorum emptor, che offriva il pagamento della più alta percentuale
dei debiti. La bonorum venditio era infamante per il debitore. I creditori, per la parte dei loro crediti rimasta
insoddisfatta, conservavano i propri diritti nei confronti del debitore fallito, ma avendo quest’ultimo esaurito, con la
bonorum venditio, il proprio patrimonio, essi dovevano attendere la creazione di un nuovo attivo patrimoniale.

- Actio Rutiliana: è un’azione (così denominata dal nome del pretore Rutilio che per primo la iscrisse nel proprio
editto) esperibile dal bonòrum èmptor per ottenere il pagamento dei crediti vantati dal fallito, ancora vivente, nei
confronti dei propri debitori. Il pretore, seguendo lo schema dell’actio ficticia a trasposizione di soggetti, concedeva
l’azione facendo figurare nella intèntio il nome del “fallito” e nella condemnàtio quello del bonòrum èmptor, che,
quindi, si avvantaggiava in concreto del provvedimento, potendo agire in proprio contro debitori non suoi.

- Actio Serviana: azione affine all’actio Rutiliàna dalla quale si differenziava in ragione della particolarità che la fìctio
consisteva nel far figurare il bonòrum èmptor, quale erede del fallito (attore ficto se herède) che fosse defunto.

- Bonorum distractio: la bonorum distractio è una forma di esecuzione forzata caratterizzata dalla vendita dei singoli
beni facenti parte del patrimonio di un debitore irrimediabilmente insolvente, fino al conseguimento della somma
necessaria al soddisfacimento delle ragioni del creditore.
- Actio iudicati: è un mezzo ordinario, nelle procedure formulari, per costringere il soggetto, già soccombente in un
primo giudizio, ad adempiere le obbligazioni patrimoniali indicate dalla sentenza. Con essa l’attore, vittorioso in
primo grado, chiedeva al giudice la conferma del pregresso giudizio e l’esecuzione delle proprie pretese. Ove il
convenuto, già soccombente, si fosse deciso a rem defendere, ossia a resistere alle pretese dell’attore, e le sue
ragioni non fossero state condivise dal iùdex, egli veniva condannato a pagare il duplum (il doppio) della somma alla
quale era stato condannato al termine del giudizio di primo grado. La sentenza acquisiva così carattere esecutivo.

Cognitio extra ordinem §


La cognitio extra ordinem si sviluppò verso la fine del periodo repubblicano.
Originariamente tale procedimento veniva adottato per dirimere controversie di diritto pubblico; a partire da
Augusto esso venne esteso anche a rapporti di natura privata. La cognitio extra ordinem ha origine dalla singolare
vicenda dei fidecommessi. I fedecommessi erano quelle disposizioni di ultima volontà, di per sé inidonei a produrre
effetti secondo il iùs civile, con le quali il testatore, in forma non di comando, bensì di preghiera, si rivolgeva a colui
che aveva istituito erede, o legatario, affinché compisse, dopo la sua morte, una data attività a favore di un’altra
persona. Avevano un molteplice scopo:

- la possibilità di riaffermare la volontà del testatore se le disposizione testamentarie che aveva


lasciato fossero invalide iure civili;
- la possibilità di lasciare disposizioni testamentarie a chi normalmente non poteva riceverle o non
poteva/voleva essere nominato nel testamento;
- la possibilità di far godere per un po' dei bona l'heres legittimus finché questi seguendo la volontà
espressa nel fidecommissum non lo alienasse ad altri.

Essi si costituivano sempre come obligazione naturale, e mai come obligazione così propriamente detta, perché la
loro esecuzione era affidata alla volontà dell'erede. Seguendo tuttavia quello che sembrava l'orientamento
prevalente all'interno del popolo, Augusto decise di affidare i fedecommessi alla giurisdizione prima dei consoli e poi
di uno speciale pretore, il praetor fidecommissarius: In tal modo non solo rese di fatto l'esecuzione dei
fedecommessi obbligatoria, ma creò, attraverso l'istituzione di una nuova figura pretorile, un nuovo tipo di
giurisdizione, svincolato da quella tradizionale del praetor urbanus. Analogamente egli agì per l'honorarium, il
compenso elargito ad un prestatore d'opera intellettuale, prima non vincolante, ma ora obbligatorio. Sempre
Augusto poi, avendo cumulato le cariche dell'imperium proconsulare maius et infinitum e della tribunicia potestas,
poteva con la sua auctoritas intervenire in casi della giurisdizione ordinaria che avevano avuto tuttavia un esito
palesemente ingiusto. Sorse così quella che venne detta “cognitio extra ordinem”, che in epoca classica
sostanzialmente affiancò la procedura per formulas fino a sostituirla del tutto, in periodo postclassico.

La cognitio extra - ordinem si caratterizzava per i seguenti caratteri:

unità del procedimento: tutta l’attività processuale si svolgeva davanti allo stesso funzionario statale;
ampia discrezionalità del giudicante. Il funzionario-giudice aveva ampi poteri per accertare il fatto;
procedibilità contumaciale, per la quale era necessario e sufficiente solo che il convenuto fosse stato avvertito
dell’inizio del procedimento;
Impugnabilità della sentenza;
specificità della condanna, per cui la condanna non consisteva più nel pagamento di una somma di denaro, ma
poteva imporre anche un comportamento specifico, come la restituzione della cosa, un pati, un non fàcer;
esecutività manu militari, per cui l’esecuzione delle sentenze veniva demandata ad appositi organi statali, gli
apparitòres.

La chiamata in giudizio del convenuto avveniva con una citazione. Il processo del tardo Impero conobbe, invece, la
figura della lìtis denuntiàtio: L’attore redigeva un documento di citazione, lo presentava al giudice e, una volta
approvato, lo notificava alla controparte. Nel diritto giustinianeo prevalse la diversa forma della citazione per
libèllum: L’attore presentava al giudice lo scritto (libellus conventiònis) e chiedeva che il convenuto fosse chiamato
in giudizio; il giudice, esaminata la richiesta e ritenutala non infondata, si pronunciava per l’accoglimento. Il
convenuto, per costituirsi in giudizio, doveva redigere e notificare il suo libellus contradictiònis. Le parti erano
obbligate a presentarsi in giudizio, in quanto obbedivano all’ordine del giudice. L’istruzione probatoria era di
competenza del giudice stesso, in base al principio inquisitorio, egli, però, nella valutazione delle prove doveva
attenersi a un rigido schema prefissato. Formatosi il convincimento, veniva emessa sentenza in giudizio. L’
impugnazione (“appellatio”) avveniva col deposito di un atto di appello presso il giudice che aveva emesso la
sentenza. Il giudice superiore, ricevuti gli atti e una relazione sommaria dal collega di primo grado, invitava le parti a
formulare le richieste (che potevano anche mutare) e a presentare le prove. La seconda sententia era normalmente
inappellabile, salvo un ricorso speciale (“supplicatio”) all’imperatore.

De schema cognitio extra ordinem


1. Nasce in seguito all’affidamento da parte di Augusto della pratica dei fedecommessi, resi obbligatori, ai consoli e
ad uno specifico pretore, il praetor fidecommissarius.
2. Anche l’honorarium, che mal si prestava allo schema della locatio, viene garantito tramite la cognitio extra
ordinem.
3. La nuova procedura traeva vigore dall’auctoritas del principe, il quale, dotato dell’imperium proconsolare maius et
infinitum e della tribunizia potestas, aveva competenze anche in ambito legislativo.
4. La procedura si fondava su:
~ Unità del procedimento: non si aveva necessariamente lo sdoppiamento in due fasi del processo
~ Procedibilità contumaciale: il processo poteva svolgersi anche senza la presenza del convenuto
~ La sentenza poteva anche ordinare un determinato comportamento, non era necessariamente pecuniaria
~ La sentenza era impugnabile al prefetto del pretorio, vice dell’imperatore, o addirittura all’imperatore stesso

De schema in dominato
1. Stretto controllo da parte del potere pubblico con separazione fra processo e diritto sostanziale
2. Diffidenza verso le testimonianze ed uso frequente delle praesumptiones
3. Assimilazione dei mezzi pretorili (interdica, cautiones, in integrum restitutio) a mezzi giurisdizionali
4. Divisione del territorio in province, diocesi e prefetture, organi giudiziari sottordinati l’uno all’altro
5. Giurisdizione speciale dei vescovi, con sentenza inappellabile

De mancipio
Principia*
- Mancipium: è un originario rapporto giuridico assoluto (detto anche mànus o potèstas), di contenuto amplissimo,
riconosciuto dall’antichissimo sistema del iùs Quirìtium dai cui mores fu regolato. Il termine mancipium derivava
etimologicamente da “manu càpere” (prendere con mano). Soggetto attivo del mancipium era il pater familias (il
rapporto si estrinsecava tra i diversi patres familiàrum); oggetto erano tutti i diversi elementi (persone e beni) che
componevano la familia arcaica.
A partire dalla fine del VI sec. a.C. il manc ipium unitario si scisse in diverse situazioni attive:

• si identificarono, da un lato, potestà familiari in senso stretto:


• patria potestas;
• mànus maritàlis;
• potestas sui lìberi in mancipio;
• dall’altro si identificarono potestà reali, aventi ad oggetto la facoltà di godere e
disporre di cose e schiavi: quest’ultimo tipo di situazione attiva prese il nome di
domìnium ex iùre Quiritium.

De patria potestate §
Era il potere spettante al pater familias su tutti gli appartenenti al nucleo familiare. La patria potestas veniva
acquistata dal pater familias sui figli e discendenti legittimi per effetto della nascita, sui figli adottivi a seguito di
adrogàtio o adòptio e sui figli naturali a seguito di legitimàtio.
Cause di estinzione della patria potestas furono:

La morte o la capitis deminutio del pater o del filius. La capitis deminutio è la perdita di una delle qualità giuridiche
dell’individuo: libertà, cittadinanza e posizione familiare.
In diritto romano, si distingueva in particolare, tra:

la capitis deminutio maxima, che comportava la riduzione in schiavitù di una persona libera;
la capitis deminutio media, che comportava la perdita, generalmente per effetto di condanna penale, della
cittadinanza, da parte di una persona che conservava, peraltro, la condizione di uomo libero;
la capitis deminutio minima, che comportava la perdita della posizione familiare: si pensi, ad esempio al caso della
fuoriuscita dalla famiglia, per emancipàtio, o del passaggio da una familia all’altra per adozione o matrimonio.

- L’adoptio del filius da parte dei terzi. L’adoptio è un procedimento inteso a trasferire la patria potestas su un filius
da un pater ad altro pater. L’adoptio in senso lato si divideva in due specie: l’adoptio in senso stretto (denominata
anche adoptio impèrio magistràtus) e l’adrogàtio (denominata anche adoptio pòpuli auctoritàte). L’adoptio in senso
stretto era preordinata all’adozione di un filius familias, ossia di un soggetto già sottoposto alla potestà del suo pater
familias originario.

- L’emancipatio del filius. L’emancipatio consisteva nella rinuncia volontaria del pater familias alla patria potestà sul
filius e comportava l’acquisto da parte di quest’ultimo, della qualità di persona sui iuris. In epoca classica, al fine di
conseguire l’emancipatio, il pater provvedeva per tre volte di seguito alla mancipàtio del filius ad un terzo, il quale
per due volte ne operava la remancipatio al pater; a seguito della terza mancipatio, il filius si considerava
manomesso, in ossequio alla disposizione delle XII Tavole che sanciva la perdita della patria potèstas in caso di
triplice vendita del figlio. L’emancipatio comportava per il filius l’acquisizione dello status di soggetto sùi iùris, ossia
di pater familias e la perdita di tutti i diritti di cui era titolare nei confronti della famiglia originaria. Dal momento che
le XII Tavole prescrivevano la summenzionata procedura relativamente ai soli figli maschi, si ritenne che, per
l’emancipazione delle figlie, dei nipoti e degli altri parenti sottoposti, fosse sufficiente una sola vendita con
successiva remancipatio e manumissio.

De manu maritale §
Era la potestà particolare riconosciuta al pater familias su di una mùlier di provenienza estranea alla famiglia che
veniva a trovarsi nella posizione di filia, o di nèptis qualora il marito fosse ancora alièni iùri subièctus.
La manus maritalis caratterizzava il matrimonium cum manu; i suoi fatti costitutivi erano:

- la confarreàtio: si concretava in una cerimonia religiosa, compiuta alla presenza del flàmen Diàlis
(sacerdote di Giove) e di dieci testimoni, e prendeva nome da una focaccia di farro (c.d. pànis fàrreus) che gli
sposi spezzavano, per simboleggiare l’inizio della vita in comune, in onore di Iuppiter Farreus. In caso di
confarreatio, lo scioglimento del matrimonio doveva avvenire mediante un actus contrarius dalle analoghe
caratteristiche formali: la diffarreatio, che, alle origini era una vera e propria forma di divorzio. In alcuni casi,
come quello dei flamines maiores, sembra che il matrimonio confarreatico fosse indissolubile.
- la coëmptio. Si concretava in una mancipàtio, fatta dalla donna (se sui iùris), o dal rispettivo pater (se alièni
iuri subiècta), con la quale la donna stessa si assoggettava al futuro marito o a chi esercitava la potestà su
quest’ultimo.
- l’usus. L’usus costituiva un’applicazione dell’usucapione: Il marito o il pater familias acquistava la manus
maritalis sulla donna in virtù della coabitazione protratta per almeno un anno. La donna poteva impedire
l’acquisto della manus maritalis, allontanandosi dalla casa del marito per tre notti consecutive con
l’intenzione di interrompere l’usus

Tra le cause di estinzione della manus maritalis, vanno ricordate:


la morte della donna o del marito che fosse pater familias, cioè capostipite;
la mancipàtio della moglie ad un terzo;
la diffarreàtio.

De potestate in liberis in mancipio §


Era la potestas che il pater esercitava sui cosidetti liberi in mancipio. Venivano così definite le persone libere che si
trovavano sottoposte ad un pater familias, dal quale non discendevano, in aggiunta o in sostituzione dei figli. I
soggetti in questione entravano in causa mancipii allorquando il proprio pater familias di origine esercitava nei loro
confronti il suo iùs vendèndi, la nòxae dàtio (per liberarsi della responsabilità per il delitto commesso dal filius), il
nèxum (per garantire un debito), o comunque nei casi di vendita fittizia, attraverso la quale si compiva
l’emancipazione classica.
Il soggetto in causa mancipii non perdeva né la sua libertà, né la cittadinanza. In sostanza, egli si trovava, rispetto al
pater familias acquisito, nella stessa, identica posizione di un filius familias, con un’unica, fondamentale differenza:
Mentre il filius familias, per cause naturali (morte del pater familias) o giuridiche (emancipàtio), un giorno
sicuramente si sarebbe sottratto alla sua posizione di soggezione, la causa mancipii, se non era, per se stessa,
transitoria (per esempio: vendita provvisoria nella emancipatio), poteva, in teoria, protrarsi per tutta la vita non solo
dell’avente potestà, ma anche dei suoi discendenti. Infatti, mentre dal lato attivo la potèstas si trasmetteva agli eredi
dell’attuale pater familias, passivamente, la causa mancipii, si trasmetteva ai figli ed ai discendenti dell’asservito.
Un soggetto cessava di essere in causa mancipii a seguito di manumìssio o di solùtio per aes et lìbram (qualora fosse
stato ceduto a seguito di nexum o di noxae deditio). A seguito della manumissio egli, essendo sempre filius del pater
originario, tornava sotto la sua potestas (salvo che quest’ultimo non fosse morto: in tal caso, acquistava l’autonomia
familiare).

De Dominio ex iure Quiritium


Principia*
E’ un istituto fondamentale nell’ambito dei rapporti dominicali e paradominicali, derivante in parte dal mancìpium,
per quanto riguarda le res màncipi, in parte della possessio, per quanto riguarda le res nec màncipi. Rispetto al
mancipium il dominium ex iure Quiritium aveva, da una parte un ambito meno esteso, perché aveva ad oggetto solo
le res e non le persone (erano pertanto esclusi i filii, le uxores in manu, i liberi in mancipio; erano invece inclusi i
servi); ma, dall’altra parte, comportava un allargamento dei confini originari del mancipium, potendo avere ad
oggetto sia res mancipi che nec mancipi. Poteva avere ad oggetto sia cose mobili che immobili (con la limitazione,
per queste ultime, che si trattasse di fondi siti in agro Romano e dal I sec. a.C., di fondi siti in agro Italico).
La titolarità del dominium ex iure Quiritium su una res poteva appartenere soltanto a cittadini romani, non anche a
peregrìni. Il dominium ex iure Quiritum, definito in epoca imperiale anche proprìetas, era un rapporto reale assoluto
in senso proprio ed attribuiva al suo titolare (dòminus ex iure Quiritium):

- Illimitatezza: facoltà illimitata di godimento, della res che ne era oggetto. Il dominius ex iure Quiritium non era
soggetto né a limitazioni di carattere pubblicistico, né di natura privatistica, eccezion fatta per quelle scaturenti dalla
communio: Nel diritto classico i soli diritti reali che potevano limitarlo erano l’usufrutto e le servitù prediali. Con
riferimento ai beni immobili si diceva che il dominium ex iure Quiritium si estendeva ùsque ad caelum et usque ad
ìnferos, cioè fino al cielo ed a tutto il sottosuolo: tutto ciò che faceva parte del fondo, o che, comunque, era ad esso
incorporato e ne incrementava la consistenza, diventava, per attrazione, oggetto del dominium. Quanto alla
limitazione costituita dal divieto di immissioni nell’altrui proprietà, fu solo la giurisprudenza classica ad ammettere
lentamente che il proprietario non potesse liberarsi delle acque correnti nel suo fondo riversandole sul fondo
sottostante e che non avesse il diritto di riversare il fumo della sua officina sul fondo contiguo: solo Ulpiano delineò
in via generale il divieto di arrecare con le attività svolte sul proprio fondo danni al fondo del vicino. Si trattò,
comunque di intuizioni sporadiche, che non portarono alla formulazione di un generale divieto di compiere atti
emulativi.

- Imprescrittibilità: capacità del dominium di non estinguersi con l’inerzia: E’ illimitato non solo spazialmente ma
anche temporalmente.
- Elasticità: facoltà del dominio di ritornare allo stato pristino al termine di rapporti di ius in re aliena che lo avessero
gravato. E’ facoltà che si rafforza a partire dalle guerre annibaliche, quando l’esigenza della proprietà, maggiormente
sentita, portò ad una riduzione dei poteri di iura in re aliena.

De adquirendi modis §
L’acquisto del dominium poteva avvenire:
A titolo originario.

- Incrementi fluviali: la disciplina degli incrementi fluviali era basata sul principio che i proprietari rivieraschi
(ossia i proprietari di fondi confinanti con corsi d’acqua, non appartenenti a terzi) acquisivano in proprietà ogni
incremento che il corso d’acqua avesse naturalmente apportato ai loro fondi.

- Fruttificazione: modo di acquisto a titolo originario del domìnium ex iùre Quirìtium in relazione alle sole
res fruttifere, cioè capaci di produrre periodicamente altri beni dotati di una propria autonomia economica (oltre ai
frutti delle piante, si pensi alla legna tratta da un bosco ceduo, alla lana, ai parti del bestiame). I frutti appartenevano
di regola al proprietario della cosa che li produceva. Qualora sulla cosa fossero stati costituiti diritti reali su cosa
altrui (usufrutto, enfitèusi, pegno) o di obbligazione (locazione), sorgeva il problema di determinare se l’acquisto era
a
favore del proprietario o meno. Il semplice distacco dalla cosa fruttifera (separàtio) comportava l’acquisto a favore
del
possessore dell’àger vectigàlis e dell’enfitèuta. Affinché l’usufruttuario divenisse proprietario dei frutti, si richiedeva
invece la percèptio, cioè l’effettiva apprensione dei frutti. Il locatario acquistava i frutti con la perceptio, ma
occorreva la persistenza, anche tacita, della volontà del locatore: Infatti per poter cogliere i frutti, il locatario doveva
riceverne
l’autorizzazione. Se questa mancava, pur rispondendo il locatore in base al rapporto di locàtio-condùctio, il locatario
non poteva acquistare la proprietà dei frutti. Infine, il creditore pignoratizio che aveva ricevuto in pegno una res
fruttifera, doveva imputare agli interessi dovuti ed eventualmente al capitale, i frutti precepiti.

- Specificatio: si aveva, in particolare, specificatio nei casi in cui una res, a seguito di lavorazione, perdeva la
sua connotazione e struttura iniziale, trasformandosi in una res diversa, avente una diversa funzione. Qualora il
soggetto specificatore fosse una persona diversa dal proprietario della materia, sorgeva il problema della spettanza
della cosa specificata (ad es., della statua ricavata dal marmo):

- per i Sabiniani la cosa creata per effetto della specificazione apparteneva al proprietario della
materia;
- per i Proculiani che davano rilievo al lavoro, la proprietà spettava allo specificatore;

Giustiniano stabilì che, laddove la cosa poteva ritornare allo stato primitivo, la proprietà spettasse al dòminus della
materia; nel caso inverso allo specificatore. A fronte dell’acquisto della proprietà sulla res specificata, il proprietario
della materia o lo specificatore avevano l’obbligo di risarcire l’altra parte, rispettivamente per il lavoro prestato o per
la materia fornita.

- Assegnazione: espressione con cui parte della dottrina qualifica i casi di attribuzione (diretta o indiretta)
del domìnium ex iùre Quirìtium da parte del giudice.

- Occupatio: aveva luogo attraverso la volontaria presa di possesso di una cosa non oggetto di domìnium o
comunque abbandonata (res derelìcta).

- Usucapio: L’usucapio era definita da Modestino come “adièctio domìnii per continuatiònem possessiònis
tèmporis lege definiti” (cioè, annessione di una res al proprio dominium attraverso il possesso continuativo, per un
periodo di tempo stabilito dalla legge); si trattava, pertanto, di un modo di acquisto della proprietà, fondato sul
possesso di una res protratto per un certo periodo di tempo (tempus ad usucapiònem) secondo le condizioni volute
dal iùs civile, attraverso il quale il possessore diventava dòminus ex iure Quiritium. Il termine fissato dalla legge delle
XII Tavole fu di due anni per i fondi e di un anno per tutte le altre res.
Poteva esservi usucapione solo:

• a favore di un soggetto che poteva diventare dominus ex iure Quiritium (cioè di


cittadino romano);
• relativamente a cose che potevano essere oggetto di dominium ex iure Quiritium
(non, ad es., i fundi provinciali).

In età classica furono richiesti due ulteriori requisiti fondamentali:

• la giusta causa dell’acquisto;


• la buona fede del possessore: a tutela di quest’ultimo il pretore concesse l’àctio
Publiciàna.
Si richiese inoltre che la res fosse “habilis ad usucapionem” nel senso che vi furono alcune categorie di cose che non
potevano essere usucapite, a causa di loro caratteristiche obiettive, come le cose rubate (res furtivae).

A titolo derivativo.

- Mancipatio. (cfr.De causae valore: Mancipatio et stipulatio).

- In iure cessio. L’acquirente e l’alienante fingevano di voler instaurare una lite sulla proprietà della cosa
mediante la lègis àctio sacramènti in rem, comparendo davanti al magistrato con la cosa o con una parte che
la rappresentasse.
pronunciava la formula “àio hanc rem meam esse ex iùre Quirìtium” (dico solennemente che questa cosa è
mia) e toccava la cosa con la festuca (bacchetta), simbolo del domìnium. L’alienante, che in un normale
giudizio di rèi vindicàtio doveva pronunciare la stessa formula, taceva, concretando una confèssio in iure; il
magistrato dava causa vinta al rivendicante, che in tal modo acquistava la proprietà.

- Traditio. Era la forma più semplice di trasferimento della proprietà in quanto consisteva nella materiale
consegna di una cosa. Essa costituiva il modo di trasmissione specifico delle res nec màncipi e non si
applicava alle res màncipi (se una res mancipi veniva trasferita mediante traditio, per acquistarne la
proprietà bisognava che si maturasse l’usucapione). Nel periodo classico, affinché vi fosse il trasferimento
della proprietà, occorrevano quattro condizioni, cioè che:

• si trattasse di una res nec màncipi;


• la cosa fosse di proprietà del tradente;
• il tradente avesse la volontà di trasmettere la cosa e l’accipiente quella di acquistare;
• i fosse una iusta causa traditiònis, cioè che la traditio fosse posta in essere per
conseguire un intento che il diritto oggettivo riteneva valido e sufficiente ai fini della
trasmissione di una cosa. Si aveva così un’iusta causa credèndi, se si consegnava una
somma in adempimento di un mutuo; un’iusta causa solvèndi, se il debitore pagava il
suo debito; un’iusta causa donatiònis, se vi era la volontà di donare.

Quanto alla consegna, il diritto antico richiedeva che essa fosse materiale. Il diritto classico ammise che potessero
esservi altri modi equivalenti per trasmettere all’accipiente la proprietà (o il possesso); più precisamente:

• la traditio symbolica: La consegna di una merce era effettuata attraverso la consegna


di un oggetto che lo simboleggiava (si pensi alla consegna delle chiavi in luogo della
consegna dell’appartamento);
• la traditio longa manu: Consisteva nell’indicazione del bene o del fondo, situati ad una
certa distanza, fatta da una posizione elevata che ne permettesse la visione;
• la traditio brevi manu: L’acquisto della proprietà o del possesso si verificava allorché
taluno, avendo presso di sé la cosa a titolo di mera detenzione (corpus), cominciasse
successivamente (con il consenso espresso o tacito del dominus), a tenerla animo
possidèndi, ossia con l’intenzione di godere della cosa a titolo esclusivo;
• il constitùtum possessòrium: Era fondato sul mutamento dell’elemento psicologico di
un soggetto in ordine ad una res; in particolare, chi possedeva una res in nome
proprio, come suo titolare, poteva trasferire la proprietà ad altri, continuando però a
disporne come mero detentore, in nome altrui (nòmine alieno). Si pensi, ad esempio,
al proprietario di un appartamento che lo venda, ma continui ad abitarlo quale
conduttore, avendo stipulato, contemporaneamente alla vendita, un contratto di
locazione (con l’acquirente) in suo favore.

Costituiva ipotesi inversa rispetto alla traditio brevi manu.

Il diritto giustinianeo ammise che la traditio potesse realizzarsi simbolicamente, attraverso la consegna dei
documenti, per le cose che erano trasferite con atti pubblici.

De peregrina proprie tate §


Si poteva parlare di dominium ex iure Quiritium solo nei casi in cui fossero presenti due requisiti:

• la cittadinanza romana;
• la proprietà non oltre i confini stabiliti dal fiume Rubicone (un piccolo fiume 320 km a
nord di Roma, che scorre nella provincia di Forlì-Cesena).

Si presentavano dunque fondamentalmente due casi, in cui non si potesse parlare di dominium ex iure Quiritium:

- Cives romano che possedesse al di fuori dei confini del Rubicone. In questo caso si parlava di possessio
vel usufructus, un rapporto affine al domìnium ex iùre Quirìtium. Aveva ad oggetto le terre conquistate al di fuori
della penisola italica che proprio in virtù di ciò, non potevano essere oggetto di dominium ex iure Quiritium; tali
fondi erano in proprietà dello Stato, ma venivano assegnati in godimento ai privati. Salva la limitazione derivante
dall’obbligo di pagare un tributo, l’istituto in questione determinava una situazione affine alla proprietà, pur se la
giurisprudenza classica preferì utilizzare il termine possessio o, meno tecnicamente, alla parola ususfructus,
evidenziando le analogie intercorrenti tra il concessionario di un fundus e un usufruttuario. Al titolare della possessio
vel usufructus, l’edìctum provinciale concesse un’àctio utilis, ad exemplum rèi vindicatiònis, per chiedere la
restituzione del fondo in danno di chi l’avesse spossessato. L’istituto derivava, anche nella sua terminologia, dalla
possessio dell’àger publicus.

- Peregrinus che possedesse o all’interno di Roma o in terre al di fuori del Rubicone. Poiché non era
cittadino romano, il peregrinus non poteva acquistare secondo le tradizionali formule romane ma doveva avvalersi
necessariamente di istituti di “ius naturale” quali la traditio. Istituti come la traditio tuttavia non garantivano la
proprietà della cosa ma solo il possesso. Il peregrinus, se non fosse passato il tempo necessario dell’usucapio che
avrebbe garantito la proprietà, non avrebbe avuto difese contro eventuali attacchi di terzi la sua proprietà. A difesa
di questa situazione intervenne il pretore con la in bonis habere. L’in bonis habere fu caratterizzata dalla tutela che il
pretore accordava ai soggetti che acquistavano cose in violazione dei dettami del ius civile (l’acquisto di una res
màncipi conseguita mediante tradìtio appunta): Il pretore tutelava l’acquirente (anche nei confronti del dòminus ex
iure Quiritium), fingendo trascorso il tèmpus ad usucapiònem, attraverso l’àctio Publiciàna. L’Actio Publiciana era
un’azione posta a tutela del soggetto che, avendo acquistato una res màncipi a seguito di mera traditio e non
avendone, quindi, conseguito il domìnium ex iùre Quirìtium, ne fosse stato spossessato prima di averla usucapita.
In tale caso, l’acquirente-spoliatus (possessore in buona fede) poteva, attraverso l’actio Publiciana, chiedere la
restituzione della res nei confronti di chi gliela aveva sottratta (erga omnes). L’Actio Publiciana era una actio ficticia
in quanto, per il suo esercizio, il praetor fingeva che fosse trascorso, a favore dell’acquirente, il periodo di tempo
necessario ad usucapire la res (due anni per la res immobiles e un anno per le cèterae res). Era, inoltre, secondo la
dottrina dominante, una actio in rem, simile, in ciò, alla rèi vindicàtio. L’Actio Publciana era esperibile anche nei
confronti dell’alienante, cioè del soggetto che aveva trasmesso la res (exceptio rei venditae ac traditae).

De possessione §
- Possessio: è la situazione di fatto di appartenenza di una res ad un soggetto. Si distingue dal dominium che invece
indica la proprietà de iure della res. In età alto arcaica, non esisteva il concetto di possessio ma solo quello di
dominium: Ildominus aveva potere di difendere erga omnes le cosiddette res familiares, quelle su cui esercitava il
mancipium, quali i membri della sua familia oppure gli animàlia quae collo dorsòve domàntur (animali da briglia e da
soma) cioè gli animali addomesticabili (cavalli, buoi, asini, muli). Le res escluse da queste, quali il gregge (pecunia) o i
terreni di ager publicus non costituivano oggetto di rapporto giuridico e non potevano essere difesi contro terzi.
Anche nel IV secolo quando l'ager pubblicus non fu lasciato alla comunanza indiscriminata, ma venne assegnato
dietro pagamento di un canone (vectigal) non si poteva ancora parlare di possessio nel senso privatistico che lo
caratterizza, ma semmai di possessio iure publico. Nell’ordinamento romano si cominciò a parlare di possessio
privatistica, nel senso comunemente oggi inteso, con il fenomeno dell'usus.

- Usus: era la disponibilità materiale di tutte le res appartenenti ad una familia di cui poteva avvalersi un soggetto
diverso dal pater familias titolare delle stesse: Ad essa faceva ricorso, il pater familias che avesse temporaneamente
bisogno di utilizzare beni appartenenti ad una familia non sua. Dall’usus derivò il contratto di precarium, definito da
Ulpiano come “quod prècibus petènti utèndum concèditur tamdiu quamdiu is qui concèssit pàtitur” (ciò che viene
concesso su istanza di un soggetto può essere usato fino a quando chi lo concesse non ne chiede la restituzione).
Il possesso della res data in precario poteva essere sottratto dal concedente al precarista, in qualunque momento,
anche a proprio piacimento, con un semplice cenno (ad nùtum); se il precarista rifiutava la restituzione della res, il
concedente, proprietario della res, poteva agire contro il precarista con la rèi vindicàtio. Il precario fu all'origine del
fenomeno della possessio, avendo segnato per la prima volta lo sdoppiamento fra titolarità e disponibilità della res:
La disponibilità della res, infatti, in tempi meno risalenti venne definita possessio (al posto di usus) ed il termine usus
assunse la valenza di usucapione.
La possessio era caratterizzata dalla materiale disponibilità di una res, cui si accompagnava la volontà di tenere per
sé la res come se fosse propria. Erano, pertanto, necessari:

l’elemento oggettivo (corpus), cioè la materiale disponibilità della res;


l’elemento soggettivo (l’ànimus rem sibi habèndi), cioè l’intenzione di tenere per sé la res a titolo esclusivo.

Quanto all’animus, era la legge che stabiliva in quali rapporti vi fosse possessio e in quali detenzione. Era considerato
possessore il proprietario, il ladro, il precarista, il creditore pignoratizio ed il sequestratario, mentre era considerato
detentore il depositario, il comodatario ed il locatario. Qualora sussistesse l’animus, il possesso si manteneva anche
quando la cosa fosse materialmente detenuta dallo schiavo, dal colono, dall’amico o dall’ospite. In ordine al servus
fugitivus si conservava il possesso solo animo, finché altri ne acquistava il possesso.

De comunione §
La communio indica la contitolarità di diritti reali di godimento.
Tale istituto affonda le sue origini nell’antico consòrtium èrcto non cìto. Il consortium ercto non cito era un
antichissimo istituto del diritto quiritario che rappresentava la più antica forma di contitolarità di situazioni
giuridiche oggettive. L’espressione indicava, infatti, la situazione di comproprietà in cui venivano a trovarsi più
fratelli alla morte del comune pater familias; il patrimonio familiare ereditato non veniva diviso, ma gestito in
comune da filii, “attuando una sorta di società universale” (consortium fràtrum suòrum). In tal caso il diritto di
ciascuno dei consòrtes non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una
contitolarità solidale sul patrimonio; tutti erano proprietari del tutto. Decaduto in età repubblicana, il consortium
ercto non cito fu sostituito dal nuovo istituto della comunio e se ne differenziava per la rilevanza del concetto di
quota, elaborato dai giuristi dell’età repubblicana: Essa era intesa come frazione ideale del tutto, su cui gravava,
nella proporzione fissata, il diritto di ciascuno dei condomini. Tale concetto di quota rilevava, oltre che in sede di
divisione, anche per la distribuzione dei frutti, per il riparto delle spese e per il pagamento degli eventuali danni,
nonché per gli atti di disposizione: Ciascuno dei condomini poteva trasmettere la propria quota di proprietà. Il
singolo condomino poteva agire in giudizio per difendere la sua quota dagli attacchi dei terzi, con una rei vindicatio
partiaria che aveva ad oggetto unicamente la quota del tutto appartenente al condomino che agiva. Viceversa, per
agli atti di disposizione della cosa nella sua totalità occorreva la volontà di tutti i condomini. Ciascun condomino
poteva apportare le innovazioni sulla cosa comune, salva l’opposizione degli altri, attraverso l’esercizio dello ius
prohibendi. Con lo ius prohibendi questi ponevano il veto all’innovazione, per ottenere o l’interruzione dell’opera o
la distruzione di quanto già fatto. Solo in diritto giustinianeo si affermò esplicitamente la regola del consenso
preventivo, con la conseguente scomparsa
dello ius prohibendi.
Residuo dell’antico consortium ercto non cito fu l’istituto dello ius adcrescendi in base al quale in caso di rinuncia o
di derelictio di uno dei condomini, la sua quota non diveniva res nullius ma accresceva di diritto le quote degli altri
comunisti. Quanto ai rapporti interni tra i condomini, il diritto classico accordava le seguenti azioni al consorte che
avesse avuto pretese nei confronti degli altri:

l’àctio pro socio;


l’actio negotiòrum gestòrum;
l’actio commùni dividùndo.

Ciascuno dei condomini poteva chiedere in qualsiasi momento la divisione della cosa comune; questa poteva aver
luogo o d’accordo tra le parti (c.d. divisione volontaria) oppure giudizialmente, con la suddetta actio communi
dividundo.

De iuribus in re aliena §
I iura in re aliena, sono diritti così denominati, perché insistenti su una cosa appartenente ad altri. Si tratta di
situazioni giuridiche tutelate èrga òmnes, e quindi assolute, ma di contenuto limitato per la coesistenza, sullo stesso
bene, del diritto di proprietà altrui. I diritti su cosa altrui vennero tutelati anche nel caso di possesso. La possessio
iuris consisteva nell’esercizio di fatto di diritti assoluti o reali diversi dal domìnium, cioè di quelle res incorporales
che erano i iùra in re alièna. Il pretore, difese la signoria di fatto dell’usufrutto e di talune servitù contro determinate
turbative, accordando alcuni interdìcta in via utile, in maniera simile a quella accordata al possesso di una cosa
corporale. Tra di essi si distinguono:

Diritti reali di godimento


- Servitus. Le servitù denominate anche iura praediorum (diritti prediali) si concretizzavano in un peso
imposto ad un fondo, detto fondo servente, per l’utilità di un altro fondo vicino, detto fondo dominante,
appartenente ad un diverso proprietario. Le servitù costituiscono il più antico rapporto reale in senso improprio del
diritto romano. L’aumento della popolazione con la maggiore edificazione, fece sorgere, infatti, ben presto la
necessità di poter attraversare il territorio altrui per recarsi ad un luogo di pubblica utilità (il foro, la fontana per
esempio).
Il diritto romano non conobbe una figura generale di servitù regolata da una disciplina unitaria, bensì una serie di
figure tipiche di servitù con caratteristiche comuni, ma singolarmente disciplinate. Le caratteristiche comuni
costituirono lo schema cui ci si riferì per regolamentare altri tipi di “iura in re aliena” di formazione successiva. Per
effetto di tale continuo e persistente riferimento alla disciplina originaria si arrivò, in epoca postclassica, ad inserire
nella categoria unitaria delle servitutes tutti i diritti di godimento; distinguendoli in:

servitù prediali (vere e proprie servitù);


servitù personali (servitutes personàrum, usufrutto, uso, abitazione).
Le servitutes, risultando collegate all’utilità di un fondo non si estinguevano né per morte dei rispettivi proprietari,
né per cessione del fondo ad un diverso soggetto. Il proprietario del fondo servente era tenuto a non compiere atti
che potessero rendere disagevole l’esercizio della servitù od addirittura impedirlo; il proprietario del fondo
dominante, a sua volta, non poteva comportarsi in modo da render troppo gravosa la servitù.
I Principi presi in considerazione in materia di servitù erano:

utilitas;
perpetuità: poiché la servitù presumeva una situazione di permanente utilità tra i fondi, non era ammissibile una
servitù temporanea;
vicìnitas (o propìnquitas);
nèmini res sua sèrvit (indica che il fondo dominante ed il fondo servente devono appartenere a proprietari diversi);
sèrvitus in facièndo consìstere nequit (il peso imposto al proprietario del fondo servente, per l’utìlitas del fondo
dominante, non poteva mai consistere in un’attività positiva, da svolgersi in favore dell’altro fondo);
inalienabilità: La servitù si trasmetteva necessariamente con il trasferimento del fondo e non poteva essere alienata
separatamente da questo
indivisibilità: La servitù non poteva che sorgere od estinguersi per intero. Pertanto, la sua costituzione da parte di un
solo condomino non era efficace. Inoltre, nel caso di divisione del fondo dominante o servente, la servitù continuava
ad esistere per l’intero: ciascuna parte del fondo dominante aveva diritto all’intera servitù, mentre ciascuna parte
del fondo se rvente la sopportava per l’intero.

Le servitù poi vengono distinte fondamentalmente in tre tipi:

servitutes mancipi: è una categoria di servitù prediali classificata tra le res mancipi. Le ipotesi più antiche erano
quelle della servitù di passaggio (iùra itìnerum) e quella di acquedotto (che attribuiva, al titolare del fondo
dominante, il diritto di derivare o far passare condutture idriche, per l’irrigazione del proprio fondo, attraverso un
fondo altrui);
servitutes urbanae: categoria peculiare di servitù, caratterizzata dalla circostanza che l’utìlitas consisteva nella
migliore funzionalità urbana del fondo dominante;
servitutes rusticae: categoria particolare di servitù, in cui l’utìlitas era connessa alla produzione o all’attività agricola
del fondo dominante.

I modi di acquisto o costituzione delle servitutes erano più in generale quelli con cui si trasmetteva il domìnium ex
iure Quiritium:
mancipàtio (per le sole servitutes màncipi);
in iure cèssio servitùtis;
adiudicàtio;
legatum per vindicatiònem.

Le servitutes si estinguevano:
in virtù di un atto uguale e contrario rispetto a quello che aveva determinato la loro costituzione;
per confùsio;
per non usus;
per remìssio servitutis;
per il mutamento dello stato dei luoghi.

- Superificies: diritto reale di godimento su cosa altrui, in virtù del quale un soggetto, diverso dal proprietario del
fondo, poteva costruire e mantenere in proprietà una costruzione su un suolo altrui. L’istituto fu originariamente
ignoto al iùs civile, nel quale vigeva incontrastato il principio dell’inseparabilità del suolo dalla superficie (superficies
sòlo cèdit). Fin dall’età repubblicana si manifestò, tuttavia, la tendenza al superamento di tale principio. Si diffuse,
infatti, l’uso, da parte dei magistrati, di concedere ai privati, mediante corrispettivo (solàrium), il diritto, di costruire
sul foro o sulle strade: Così, ad esempio era concesso agli argentarii (banchieri) di tenere le loro tabernae (gli uffici)
nel foro. Pur in presenza della concessione, il suolo restava pubblico, ma il costruttore aveva la piena disponibilità
della bottega, che poteva anche alienare o distruggere. L’uso di concedere il diritto di edificare sull’altrui suolo si
affermò anche nei rapporti tra privati: In tal caso si creava un rapporto derivante da un contratto di
locàtio-condùctio dal quale nasceva solo un diritto di obbligazione, vincolante per le parti ed i loro eredi e non per i
loro aventi causa a titolo particolare.
Al superficiario, peraltro, il pretore concesse un interdìctum de superficièbus, il quale, accordato sul modello degli
interdetti possessori, fece sì che il condùctor, a differenza di ogni altro locatario, potesse essere considerato e
protetto come possessore della superficies: Al riguardo si parlò di quasi possessio.
In diritto giustinianeo, a seguito della contaminazione del diritto romano con istituti giuridici originari delle province
ellenistiche, si iniziò a configurare la superficies quale diritto reale: Il diritto ellenistico non conosceva il principio
superficies solo cedit ed ammetteva, perciò, che la proprietà potesse essere divisa per piani orizzontali.
Il diritto del superficiario fu considerato come appartenente alla categoria degli iùra in re alièna e non come una
autonoma forma di proprietà, dal momento che Giustiniano volle mantenere, almeno formalmente, la validità del
principio superficies solo cedit.
In epoca giustinianea, pertanto, il diritto di superficie assunse le caratteristiche di rapporto giuridico assoluto in
senso improprio, tutelato da un’àctio in rem superficiària.

- Emphyteusis: il termine, di derivazione greca designava originariamente il rapporto di concessione di terre,


intercorrente fra le città delle province orientali e i privati concessionari che si obbligavano a dissodare le terre
incolte e a migliorarle. Nel diritto romano, fino al periodo classico, non esisteva un istituto corrispondente. Scopi
affini erano perseguiti attraverso concessioni in godimento di terre da parte della città o di altri enti pubblici
secondo uno schema analogo, ma non identico alla locàtio condùctio. In ogni caso non era previsto in capo al
concessionario l’obbligo del miglioramento del fondo, quanto piuttosto l’obbligo di pagare un modesto canone
[vectìgal].
Nel V secolo d.C. ebbe origine il ius emphyteuticarium, il quale presentava i seguenti caratteri:

la concessione era data in perpetuo;


il canone era considerato invariabile;
il concedente nella prassi divenne anche il privato e non più solo la comunità pubblica o l’imperatore.

Risolvendo i dubbi avanzati in dottrina sul punto, l’imperatore Zenone stabilì che, in caso di distruzione del fondo, il
danno doveva essere sopportato dal concedente, se il fondo periva totalmente, cessando l’obbligo dell’enfiteuta, e
dal concessionario nel caso di danni temporanei, dovendo questi continuare a pagare il canone. Nel diritto
giustinianeo l’enfitèusi fu configurata come un rapporto assoluto reale in senso improprio. I giuristi dell’epoca
modificarono la disciplina dell’istituto: Venne imposto all’enfiteuta l’obbligo di comunicare al proprietario ogni
trasferimento che egli volesse fare del suo diritto e fu accordato al proprietario un diritto di prelazione (ius
protimèseos), grazie al quale egli, offrendo pari condizioni economiche, doveva esser preferito, nel riscatto del
fondo enfiteuticario, al terzo che intendesse acquistare, a sua volta, dall’enfiteuta, il diritto di enfiteusi. Se il
proprietario non esercitava tale diritto, gli spettava il laudèmium, cioè una sorta di indennità pari al due per cento
del prezzo pagato dal nuovo enfiteuta.
Il concedente poteva risolvere il rapporto, con la cosiddetta devoluzione, qualora l’enfiteuta per tre anni consecutivi
non avesse pagato il canone o le imposte gravanti sul fondo, non avesse fatto la comunicazione dell’alienazione o
non avesse pagato il laudemio, oppure avesse gravemente deteriorato il fondo.

- Habitatio: assicurava, al soggetto che ne era titolare, la facoltà di abitare una casa altrui ed, eventualmente, darla
in locazione a terzi (facoltà quest’ultima espressamente riconosciuta solo in diritto giustinianeo). In diritto classico
era molto discusso se l’habitatio, cui veniva negata autonoma dignità, dovesse essere inquadrata nell’ambito
dell’ususfrùctus o dell’usus. Il diritto giustinianeo conferì all’habitatio autonoma dignità, inquadrandola, come
autonomo diritto reale limitato, nella categoria delle servitùtes personàrum, dalle quali si distingueva, peraltro,
sotto due profili; l’habitatio, infatti: non si estingueva né per càpitis deminùtio e né per non uso.
- Usufructus: il giurista Paolo definì l’istituto come il diritto di usare e fruire della cosa altrui, facendone salva la
sostanza (iùs alienis rèbus utèndi fruèndi, salva rerum substàntia): Il titolare poteva percepire dalla cosa i frutti ed, in
genere, tutto ciò che ne rappresentava reddito normale. Il diritto aveva ad oggetto una res fruttifera e
inconsumabile. L’usufructus in origine (III sec. a.C.) svolgeva una funzione alimentare: Il testatore imponeva
all’erede, mediante un legàtum sinendi modo, di lasciar percepire periodicamente i frutti di una cosa fruttifera alla
vedova a cui era stato legato da matrimonium sine manu e che non poteva succedere ab intestato al marito. In
seguito si ammise che l’usufructus potesse essere costituito mortis causa mediante legatum per vindicationem.
Per la sua originaria funzione alimentare, l’usufructus in un primo momento si poteva costituire solo a favore di
persone fisiche. In epoca classica si ammise che beneficiario potesse essere anche una persona giuridica.
Caratteri fondamentali dell’istituto erano:

la correlazione con la destinazione economica della cosa: L’usufruttuario non poteva mutare la destinazione del
bene, né compiere atti di disposizione dello stesso (salva rerum substantia);
la connessione inscindibile con la persona dell’usufruttuario:Il diritto si estingueva con la morte o con la càpitis
deminùtio dello stesso;
la temporaneità: l’usufrutto si estingueva a causa della morte dell’usufruttuario;
a tutela dell’istituto era concessa una vindicàtio ususfructus, chiamata in seguito da Giustiniano àctio confessoria
servitùtis.

- Usus sine fructu: diritto reale assoluto in senso improprio su cosa altrui, rientrava tra i rapporti affini all’usufrutto.
L’usus sine fructu di una cosa fruttifera o anche infruttifera, riconosciuto sin dall’epoca classica, consisteva appunto
nell’usare una cosa altrui entro i limiti dei propri bisogni o dei bisogni della propria famiglia, senza percepirne i frutti.
Nonostante l’usus normalmente fosse sine fructu, eccezionalmente, soprattutto in caso di usus costituito su fondi
rustici, era ammessa la possibilità di appropriarsi dei frutti della cosa, che fossero abitualmente necessari per una
razionale utilizzazione della res. In altri termini, l’usuario, a differenza dell’ususfructuarius, non aveva diritto a tutti i
frutti normali della cosa, pur non essendone esclusa del tutto la percezione.

- Fructus sine usu: istituto affine all’ususfructus, dovuto all’elaborazione scolastica, attribuiva al cosiddetto
fructuàrius il potere di raccogliere i frutti di una res fruttifera, senza peraltro utilizzarla.

- Quasi usufructus: istituto così denominato in diritto giustinianeo, ma risalente all’età classica: Si trattava di un
diritto di usufrutto avente ad oggetto cose consumabili. Oggetto dell’ususfructus potevano essere, tradizionalmente,
soltanto cose inconsumabili, quelle, cioè, suscettibili di uso ripetuto e quindi restituibili al nudo proprietario.
Sin dagli albori dell’epoca classica si diffuse, tuttavia, l’abitudine di attribuire per testamento l’usufrutto di tutto il
patrimonio ereditario (o di una sua parte), senza operare alcuna distinzione tra cose consumabili e cose
inconsumabili. Un senatusconsùltum dell’imperatore Tiberio stabilì che tale disposizione testamentaria dovesse
essere considerata valida, ammettendo che in relazione alle cose consumabili si applicasse un regime giuridico tale
da consentire la produzione di effetti affini a quelli tipici dell’usufrutto. In particolare, si impose al beneficiario il
versamento di una càutio, che garantiva all’erede la restituzione del tantùndem eiùsdem gèneris cioè di cose dello
stesso genere e qualità di quelle ricevute, che, essendo consumabili, non potevano essere usate e restituite. Le res
consumabili passavano immediatamente in proprietà del quasi-usufruttuario; la cautio garantiva, nel caso di
mancata restituzione del tantundem eiusdem generis, il pagamento del controvalore in denaro della res.
Sostanzialmente la posizione del quasi usufruttuario (che acquistava, in realtà, la proprietà delle cose ricevute) era
quella di un mutuatario: Sia se agiva in base alla cautio oppure per la restituzione, l’azione del nudo proprietario era
non in rem, ma in personam. In particolare si poteva agire anche con l’actio certae creditae pecuniae o con la
condìctio certae rèi.

Diritti reali di garanzia.

- Pignus (pignus datum): il pignus era, nel diritto romano, un diritto reale di garanzia, il cui antecedente storico è
rinvenibile nell’istituto della fidùcia cum creditore. Il pignus trasferiva la sola disponibilità materiale di una cosa;
oggetto poteva esserne qualsiasi cosa in commercio, suscettibile di possesso e di alienazione. Ma già in diritto
classico la nozione di oggetto del pignus si ampliò fino a ricomprendervi i iura in re aliena, i crediti, i diritti scaturenti
da pignus, le cose future, le quote di una communio e i frutti non ancora esistenti.
La sua configurazione come diritto reale di garanzia avvenne solo nel periodo classico: In particolare, venne
considerato come diritto reale costituito in favore del creditore, a mezzo di un apposito negozio reale, che si
perfezionava con la materiale consegna della cosa.
Si distinguevano, in relazione ai modi di costituzione del pegno:

un pegno volontario (che si costituiva mediante accordo tra le parti, o per testamento);
un pegno legale (previsto da singole disposizioni di legge, che intendevano tutelare particolari categorie di creditori).

Le fattispecie di pegno legale si distinguevano in casi di:

pignus speciale, quando si esplicava su singoli e determinati beni del debitore. Ipotesi di pignus speciale possono
riscontrarsi nel pegno riservato al locatore di un immobile urbano sui mobili dell’inquilino;
pignus generale, quando vincolava l’intero patrimonio del debitore. Esempi di pignud generale possono rinvenirsi
nel pegno riservato al fisco sul patrimonio del debitore di imposta;
pignus giudiziale (costituito dal magistrato, si trattava del c.d. p ex causa iudicàti càptum), questa forma di pegno,
avendo lo scopo di consentire l’esecuzione di sentenze emanate extra òrdinem dal magistrato, era materialmente
posta in essere dagli apparitòres, che si impossessavano di cose appartenenti al debitore condannato.

- Hypotheca (pignus conventum-pigno pattuito): a differenza del pignus datum, l’hypotheca era una mera
convenzione in virtù della quale, senza il materiale trasferimento del possesso del bene al creditore una cosa veniva
assegnata a quest’ultimo a garanzia di un debito.
Dapprima la convenzione di garanzia intervenne solitamente nella locazione di fondi: tra il locante e il locatario
veniva stipulato un patto in base al quale i beni complessivamente immessi da quest’ultimo nel fondo venivano
destinati a garantire il pagamento del canone. Si accordò al locante un’àctio in rem, detta Serviana (o pigneratìcia)
esperibile contro qualsiasi terzo. Detta azione fu poi estesa in via utilis ad ogni altro caso di pegno nel quale
mancasse il trasferimento del possesso (actio quasi Serviana o hypothecaria). La possibilità di costituire una garanzia
con la sola convèntio fu estesa dalle locazioni rustiche a tutti i tipi di obbligazione e così nacque la nuova figura di
diritto reale di garanzia chiamata (con nome greco) hypothèca. Nel diritto giustinianeo il pignus gravava sui beni
mobili e l’hypotheca solo sui beni immobili, secondo una distinzione che ancor’oggi caratterizza i due istituti.

De Familia
De familia civile §
A Roma, il termine familia indicava il paterfamilias e le persone libere a lui sottoposte (moglie, figli, nipoti).
La concezione romana della famiglia era patriarcale: Paterfamilias era chi non aveva ascendenti vivi, ed esercitava la
manus maritalis verso la moglie, la patria potestas sui discendenti, e la dominica potestas su tutti gli altri beni (casa,
schiavi, animali, ecc.). Il concetto di famiglia fu essenzialmente politico, poiché non indicava un nucleo composto da
sole persone legate da vincoli di sangue e di parentela, bensì un complesso di persone soggette a vario titolo alla
potestà di un comune capostipite. Il rapporto che legava tra loro i vari componenti della famiglia era chiamato
adgnatio, termine che indicava la comune discendenza da uno stesso capostipite maschio, attraverso altri maschi. Il
vincolo di agnazione era computato per gradi, ed il grado era dato dal numero delle generazioni (ad esempio, padre
e figlio erano agnati di 1° grado, poiché tra di loro intercorreva una sola generazione). Il vincolo di agnazione aveva
rilievo giuridico fino alla settima generazione (7° grado di agnazione).
La concezione patriarcale della famiglia subì, col passare dei secoli e l'evolversi della società civile, notevoli
mutamenti. In epoca arcaica, la Legge delle XII tavole escludeva qualsiasi rilevanza alla discendenza materna,
chiamata cognatio; in epoca successiva, la cognatio ebbe rilievo come impedimento al matrimonio, e fu ammessa la
possibilità di donazione fra cognati. In epoca imperiale, due senatusconsulta consentirono la regolare successione
tra madre e figli.
In età giustinianea, la distinzione fra adgnati e cognati fu abolita, e con il solo termine di cognati vennero chiamati
tutti i parenti, sia in linea maschile che femminile. Dalla adgnatio e dalla cognatio occorre tenere distinta la adfinitas,
cioè il vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge: L' adfinitas aveva valore solo come impedimento al
matrimonio.

De matrimonio §
In diritto romano, il fondamento della familia era nel matrimonio. Istituto che più di tutti ha subito evoluzioni e
modifiche nel corso della storia, ha mantenuto tuttavia inalterati alcuni principi fondamentali che è possibile
ritrovare ancora oggi, nel diritto civile vigente, come il principio della consensualità e della monogamia.
In epoca arcaica, esistevano due tipi di matrimonio:

matrimonium cum manum conventione. Il matrimonio cum manum conventione era la forma più antica di
celebrazione del matrimonio, che doveva necessariamente essere seguita dalla coabitazione per un anno (usus). La
donna doveva essere nupta, cioè sposata, e l'uomo suo maritus. Nel diritto antico, oltre l’usus, vi sono altri due modi
di aquisto della manus sulla donna da parte del marito: La coemptio e la confarreatio;
la coemptio, a differenza dell’usus principio di applicazione dell’usucapione, era un'applicazione della mancipatio e
consisteva in una finta compra-vendita della donna. Il maritus pagava il prezzo simbolico di una moneta aquistando
la manus sulla donna matrimonii causa.
la confarreatio era una cerimonia religiosa che si svolgeva davanti a dieci testimoni e al Flamen Dialis: I due sposi
spezzavano una focaccia di farro come simbolo della volontà di unirsi in matrimonio.

A seguito della Conventio in manum la donna entrava nella famiglia del marito loco filiae, perdendo ogni legame
con la famiglia di origine.

- Matrimonium sine manu. Il matrimonium sine manu nacque in epoca repubblicana, per evitare i gravi effetti che
l'uscita della donna dalla famiglia originaria comportava, ossia la perdita di tutti i diritti successori verso la famiglia
d'origine. Secondo una disposizione contenuta nelle XII tavole, la donna può assentarsi, prima del termine di ogni
anno, per tre notti consecutive (Trinocti usurpatio), interrompendo così l'usus da parte del marito ed evitando la
manus maritalis.

Per un matrimonio legittimo occorrevano vari requisiti:

lo ius connubi, che spettava a tutti i cives romani;


la pubertas e il consenso dei nubendi e del paterfamilias.
gli sponsalia (fidanzamento), in cui i promessi venivano impegnati dai rispettivi padri al futuro matrimonio tramite
una stipulazione solenne, detta sponsio (promessa).

Probabilmente, in epoche antiche, tale stipulazione era perseguibile, mentre di certo in età classica non creava alcun
obbligo e non richiedeva forme solenni. In diritto postclassico, l'istituto degli sponsalia cambiò radicalmente: Dalla
promessa sorgevano obblighi tra il futuro marito e il padre della sposa; tra fidanzati si creava un vincolo assimilabile
al vero matrimonio (così, essi erano punibili per adulterio e non potevano contrarre altre nozze). Gli sponsalia si
scioglievano per mutuo consenso o per recesso unilaterale (repudium), che importava anche il risarcimento e la
restituzione dei beni reciprocamente donati adfinitas contrahendae causa. Il matrimonio si scioglieva di regola per
morte di uno dei coniugi, per il venir meno di qualche requisito, o per divortium.

De divortio§
Lo scioglimento del matrimonio avveniva per la morte di uno dei coniugi o quando veniva a mancare la cosiddetta
affectio maritalis. Dalle origini fino all'età repubblicana, anche se futile, qualsiasi motivo era valido per divorziare.
Dall'età repubblicana, il matrimonio si scioglieva anche per la capitis deminutio maxima subita da uno dei coniugi,
ossia quando veniva ridotto in schiavitù oppure diveniva servus poenae per condanna.
La capitis deminutio media, che importava la perdita della cittadinanza, non scioglieva il matrimonio ma faceva che
esso divenisse iuris gentium.
Il matrimonio era sciolto anche quando il marito di una libertina diventava senatore ma Giustiniano abolì questa
conseguenza e in seguito anche il divieto.
Il divorzio per sua natura non doveva esigere forme, come non ne esigeva il matrimonio. Un semplice avviso per
litteras o per messaggio verbale (per nuntium) doveva bastare. La Lex Iulia prescrisse che il divortium o repudium
fosse comunicato da un liberto alla presenza di sette testimoni, ma i giureconsulti ammettevano lo scioglimento del
matrimonio anche in assenza dell'osservanza di questa formalità. In età imperiale, invalse l'uso di mandare la
comunicazione per iscritto con un libellus repudii.

De concubinato §
Il concubinatus era l’unione di un uomo e una donna caratterizzata dalla stabilità e dalla mancanza della volontà di
considerarsi marito e moglie. I rapporti sessuali al di fuori del matrimonio erano severamente puniti dalla lex Iulia de
adulteriis ma il concubinato era largamente diffuso nella società romana sia a causa delle pene gravi contro lo
stuprum sia per i vari divieti matrimoniali.
Il concubinato consisteva nella convivenza di una donna (generalmente di bassa condizione, scelta tra i liberti) con
un uomo libero: Suoi caratteri peculiari erano l’assenza di affectio maritalis, l’assenza di forme di celebrazione (solo
una dichiarazione espressa) e della dote (consentita solo per gli sposi). La concubina, anche in assenza di affectio
maritalis, (qualora donna ingenua e honorata) godeva della existimatio, cioè della stima della società quasi al pari di
una moglie.
Sotto gli imperatori cristiani, il concubinato fu elevato al rango di istituzione giuridica: i liberi naturales (figli naturali)
potevano essere legittimati ed acquisire pertanto un diritto agli alimenti ed un limitato diritto di successione.

De familiae bonis §
L'insieme delle donazioni propter nuptias, del peculium e dei paraphernalia, serviva alla famiglia per provvedere ai
pesi economici della vita quotidiana (ad onera matrimonii ferenda).

- donazioni proter nuptias: fin dalle epoche più antiche, era in uso a Roma fare donazioni alla propria
fidanzata, donazioni che venivano poi costituite in dote (donazioni inter vivos). Era anche uso che la donna, all'atto di
andare sposa, recasse con sè un patrimonio (profecticius) o un peculio, che poi confluivano anch'essi nella dote.
Giustiniano equiparò la donatio propter nuptias alla dote, ed anzi una legge postclassica stabilì l'assoluta eguaglianza
fra quanto portato in dote dalla donna e quanto donato dal fidanzato propter nuptias;

- bona paraphernalia: nel regime patrimoniale della famiglia entrava anche l'insieme dei bona
paraphernalia, cioè bona extra dotem (beni propri della moglie ed a lei appartenenti anche dopo il matrimonio:
vestiti, gioielli, schiavi, ecc). Nei primi secoli dell'impero, era uso che tali beni venissero consegnati "in
amministrazione" al marito, sicché la moglie poteva agire contro di lui con l'ordinaria actio depositi o con l’actio
mandati. Il marito poi passava alla moglie periodicamente una modesta somma (spillaticum) per le spese
quotidiane;

il peculium: il pater non poteva peraltro provvedere da solo a tutte le necessità familiari, per cui era solito donare al
filius una piccola somma (pusilla pecunia) perché l'amministrasse: Si trattava del peculium profecticium, così
chiamato perché ex patre proficiscitur, che rimaneva di proprietà del padre e di cui il figlio aveva solo
l'amministrazione. Il peculium non poteva essere, infatti, trasferito al filius, mentre poteva essere revocato dal pater
con l’ademptio peculii; in genere, costituiva una limitata garanzia a favore dei terzi per le obbligazioni contratte dal
figlio;
la dote: era il complesso dei beni che la moglie (o chi per lei) dava o prometteva al marito in vista del matrimonio. La
necessaria connessione della dote col matrimonio faceva sì che la dote fosse nulla, se nullo era il matrimonio.
Oggetto della dote potevano essere sia beni materiali che immateriali (come ade esempio crediti). Secondo antichi
testi, la dote poteva essere promessa (quando non veniva materialmente data con la traditio) mediante i normali
modi di costituzione delle obbligazioni: In ogni caso, la dote ricadeva sotto il diritto generale del nuovo
paterfamilias. Poiché i beni apportati in dote erano irripetibili, appariva ingiustificato l'arricchimento del marito in
caso di divorzio: Si cercò di rimediare, dapprima con stipulationes private (che pattuivano la restituzione della dote
in caso di divorzio) che consentivano l'actio ex stipulatu, e poi con una vera azione legale, indipendente da
qualunque convenzione (l'actio rei uxoriae).

In età postclassica, la moglie ebbe la possibilità di iscrivere hypoteca legale tacita su tutti i beni del marito, a garanzia
della restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio, e di avere il privilegium exigendi nei confronti
dei creditori del marito.

De Obligationibus
Principia*
L’obbligazione era, nel diritto romano, il vincolo giuridico che una persona libera (obligatus) contraeva obbligandosi
ad eseguire una determinata prestazione nei confronti di un’altra persona (crèditor).
Il vincolo era finalizzato all’adempimento ed originariamente ebbe natura personale (vinculum personae): Pertanto
se il debitore si rendeva inadempiente, egli era asservito al creditore tramite la manus inièctio.
L’obligatio pertanto non si traduceva nel dovere di eseguire, concretizzandosi, invece, nel vincolo che legava le parti,
con contenuto e valenza personali: La persona del debitore, nella sua entità fisica, era vincolata (reus obligatus).
L'arcaico ius Quiritium fu molto preciso nel disciplinare i diritti reali e le successioni, ma fu carente rispetto al
fenomeno economico del credito: Tutti gli impegni assunti in tal senso non avevano alcun fondamento giuridico, ma
si basavano sulla possibilità dei creditori di reagire contro l'inadempiente. Il debitore diventava nexum (cioè
vincolato) e se l'obbligazione restava inadempiuta, il creditore poteva incatenarlo o venderlo come schiavo, o
addirittura ucciderlo.
Lentamente nei secoli cominciò ad affermarsi l'idea che il vincolo dovesse stringere due patrimoni e non due
persone, e questa ideologia culminò nella lex Poetelia Papiria che nel 326 a.C. abolì la possibilità di esecuzione sulla
persona del debitore. Oggetto della obligatio divenne la prestazione, ossia il comportamento che il debitore doveva
tenere per soddisfare la pretesa del creditore e poteva consistere in un fàcere, dare o praestare.
Sotto il profilo soggettivo, il rapporto obbligatorio richiedeva la presenza di almeno due soggetti, il debitore ed il
creditore. Erano, altresì, configurabili rapporti plurisoggettivi, onde la possibilità di obbligazioni parziarie, cumulative
e solidali.
Le obbligazioni vennero inizialmente ripartite da Gaio in due categorie: Obligazioni ex contractu (rapporti relativi di
debito), derivanti da fatto lecito e obbligazioni ex delicto (rapporti relativi di responsabilità), derivanti da fatto
illecito. Successivamente Gaio distinse fra obligationes ex contractu, ex maleficio (delicto) ed ex variis causarum
figuris,
inserendo in queste ultime alcune obbligazioni che mal si adattavano alla bipartizione precedente, quali la solutio
indebiti (un soggetto eseguiva una prestazione di dare non dovuta o perché l’obbligazione era inesistente o perché
esisteva, ma in capo ad un debitore o nei confronti di un creditore diversi) e la negotiorum gestio (la gestione dei
negozi altrui senza il consenso del legittimo interessato).
Giustiniano infine elaborò una quadripartizione, dividendo in obligationes: ex contractu, quasi ex contractu, ex
maleficio, quasi ex maleficio.

De obbligationis elementis §
Erano elementi dell’obligatio i soggetti, l'oggetto e le varie clausole (condicio, dies, modus).
Circa i soggetti, questi di regola erano due, ma non era esclusa la compresenza di più soggetti attivi o passivi, e
neppure le obbligazioni con un soggetto indeterminato. Era ammessa la rappresentanza, per lo più in forma
indiretta, e si conoscevano diverse categorie di soggetti che non potevano contrarre (furiosi, minores, ecc.). Circa
l'oggetto della prestazione, nei tempi arcaici era la persona del debitore; poi si intese nel senso del comportamento
che il debitore doveva tenere per soddisfare la pretesa del creditore: Poteva essere un facere, un non facere, un
dare, un praestare (nel senso di “garantire”).
Era ritenuta inutile stipulatio (cioè invalida) quella avente ad oggetto res sacrae o res extra commercium, res illicitae
o turpes. È da notare che se l'oggetto era indeterminabile o indefinito, l'obbligazione era nulla, mentre la semplice
difficultas praestationis non facit inutilem stipulationem.
Circa le clausole apponibili, la disciplina era la stessa degli elementi accidentali del negozio, con tutte le conseguenze
relative. Al di là della condicio e il dies, anche i “luoghi” erano soliti essere inseriti nelle obbligazioni, come quando si
diceva “prometti di dare in Cartagine”.
Il diritto romano riteneva inutile la prestazione quando questa aveva ad oggetto una res futura, poiché in quel caso
non era ancora nella disponibilità del promittente.
Non è richiesto esplicitamente dalle fonti ma sembra che la prestazione dovesse avere necessariamente un
determinato requisito: La cosiddetta patrimonialità. Sembra infatti che non esistesse prestazione senza un
contenuto patrimoniale.

De obligationis generibus §
La tripartizione gaiana stabilisce:
1) Obligationes ex contractu (rapporti relativi di debito) comprendevano tutte le obbligazioni che si fondano su di un
accordo.

Re contractae (obbligazioni reali) - Nelle obbligationes re contractae ai fini della creazione del vincolo obbligatorio,
oltre all’accordo (consensus) tra le parti, occorre anche la consegna effettiva e materiale (traditio) della cosa oggetto
dell’obbligazione.
Vi rientrano:
- Mutuum. Contratto reale che si concludeva mediante il trasferimento della proprietà di una
somma di danaro o di una quantità di altre cose fungibili da un soggetto (mutuante) ad un altro
(mutuatario). Quest’ultimo assumeva l’obbligo di restituire al primo una quantità uguale di cose
dello stesso genere e qualità (tantùndem eiùsdem gèneris et qualitatis). Il mutuo si perfezionava con
la datio rei, ossia con la consegna della cosa oggetto del contratto.
Il mutuante poteva tutelarsi, esercitando:
• l’actio certae creditae pecuniae, se il mutuo aveva per oggetto una somma di danaro;
• la condìctio certae rei (anche detta condictio triticària), se l’oggetto era una qualsiasi
altra cosa fungibile.
Il mutuum era un contratto essenzialmente gratuito, tuttavia, il mutuatario poteva essere tenuto a
pagare gli interessi: ciò si verificava se le parti ponevano in essere un’apposita stipulàtio,
formalmente autonoma e separata dal mutuo.

Fiducia: atto solenne di alienazione di res mancipi (può essere posto in essere dai soli cives e si perfeziona per il
tramite dalla mancipatio o della in iure cessio), con effetto di produrre il trasferimento della proprietà dall’alienante
(fiduciante) all’acquirente (fiduciario), tramite l’esplicito accordo, denominato pactum fiduciae, in base al quale
quest’ultimo si impegnava a restituire la cosa ricevuta contro la restituzione del prezzo pagato.
Il pactum fiduciae, in principio, non aveva una rilevanza autonoma: Restava, infatti, affidato alla
semplice correttezza del compratore l’adempimento dell’obbligo di rimancipare la cosa.
Successivamente il patto veniva configurato come autonomo: Se il compratore si rendeva
inadempiente, l’alienante può esperire l’actio fiduciae. A seconda del fine cui tendeva il trasferimento di
proprietà, si distingueva tra:

- fiducia cum amico. Una figura particolare di fiducia, che serviva a realizzare scopi per i
quali il ius civile non prevedeva mezzi idonei. In epoca classica, attraverso la fiducia cum
amico si perseguivano le finalità del deposito o del comodato, contratti allora sconosciuti,
nonché della manumìssio;
- fiducia cum creditore. Ipotesi speciale di fiducia, che si realizzava quando la proprietà
della cosa era trasmessa a garanzia di un credito; essa costituì, pertanto, la più antica forma
di garanzia dell’obbligazione del diritto romano. In epoca classica la fiducia cum creditore fu
sostituita dalle figure del pegno e dall’ipoteca, e scomparve in epoca giustinianea insieme
all’istituto della mancipàtio.

Depositum. Contratto reale, perfezionantesi con la consegna di una cosa mobile che una parte (depositante) faceva
all’altra (depositario), con l’obbligo per quest’ultima di custodirla gratuitamente e di restituirla a richiesta del
depositante. La consegna (tradìtio) comportava il trasferimento al depositario della mera detenzione della cosa
(possessio naturalis). Oggetto del depositum doveva essere una cosa mobile ed infungibile. Si trattava di un
contratto gratuito, poiché il depositario non riceveva alcun compenso per la custodia. Se fosse stato previsto un sia
pur minimo compenso, non si avrebbe avuto più depositum, ma locazione. Il depositante era tutelato da un’àctio in
factum accordata dal pretore, azione poi trasformatasi in actio ex fide bona. Al depositario, invece, era accordata
un’actio contraria, con la quale egli poteva far valere, contro il depositante, le pretese relative all’indennizzo delle
spese sostenute per la manutenzione della cosa e al risarcimento dei danni arrecati dalla cosa depositata.

Commodatum. Contratto reale, che si perfezionava mediante la consegna di una cosa da un soggetto (comodante)
ad un altro (comodatario) affinché quest’ultimo la usasse gratuitamente, assumendo l’obbligo di restituirla.
Il commodatum ignoto al diritto romano arcaico, fu introdotto dal diritto pretorio (ius honorarium), che
riconobbe al comodante l’esperibilità di una actio in factum, poi divenuta actio in ius ex fide bona, per la
restituzione della cosa comodata. Oggetto del commodatum doveva essere una cosa corporale ed
inconsumabile; una cosa consumabile poteva darsi in comodato solo per un uso diverso da quello
normale (che non ne comporti la consumazione).
Il commodatum era un contratto gratuito ed unilaterale, poiché nessuna obbligazione nasceva in capo al
comodante.
Il comodatario può usare la cosa nei limiti impostigli dal comodante o, in mancanza, nei limiti della sua
normale destinazione: Se usava la cosa eccedendo tali limiti, commetteva furtum usum.

Pignus. Le finalità del pignus come contratto reale potevano essere raggiunte attraverso la stipula di un apposito
contratto reale, che si perfezionava con la consegna della res alla controparte. Il contratto consisteva, in particolare,
nel trasferimento del possesso di una cosa dal debitore al creditore, con il patto che il creditore tenesse presso di sé
la cosa, a garanzia dell’adempimento di un suo credito, con l’obbligo di restituirla qualora il debitore avesse eseguito
esattamente la prestazione. In caso contrario, egli poteva venderla, soddisfacendosi sul ricavato.
Per la restituzione della res oggetto del pignoramento, era concessa al debitore una actio (in factum)
pigneraticia in personam ; in seguito, la giurisprudenza tardo classica riconobbe anche una actio in ius di
buona fede. In favore del creditore (che avesse sopportato spese per la conservazione della cosa, o per
danni da evizione) fu apprestato uno iudicium contrarium.

- Verbis contractae (obbligazioni verbali): nelle obligationes verbis contractae, ai fini della creazione del vincolo
obbligatorio, oltre all’accordo (consensus) tra le parti, occorreva anche la pronuncia di parole solenni fatta in
presenza l’uno dell’altro, da entrambi o da uno solo dei soggetti del rapporto obbligatorio.
Vi rientrano:

Stipulatio: contratto verbale, concluso mediante scambio di domanda e risposta, in virtù del quale un soggetto
(promìssor) si impegna a compiere una qualsivoglia prestazione in favore di un altro (stipulàtor).
La stipulatio è conclusa oralmente con la pronuncia di una formula solenne. L’utilità del ricorso alla
stipulatio è data dalla semplicità con cui si può estinguere l’obbligazione (acceptilatio); dalla possibilità
di difendere il diritto del creditore mediante l’efficace actio ex stipulatu.
I requisiti della stipulatio erano:
- l’oralità;
- la presenza delle parti;
- l’unitas actum;
- la congruenza tra domanda e risposta.
La stipulàtio era un negozio astratto e pertanto poteva essere utilizzata al fine di perseguire gli scopi più svariati. Le
più importanti forme di applicazione di stipulatio furono:

promissio dotis;
stipulationes novatorie (stipulatio Aquiliana): particolare tipo di stipulatio, creata dal giurista Aquilio Gallo: La
stipulatio consisteva nella trasformazione (attraverso novazione) di obbligazioni di altro genere, non costituite verbis
in obbligazioni ex stipulatu (derivanti, cioè, da stipulatio), al fine di poterle estinguere mediante acceptilàtio;
stipulatio poenae (vedi oltre);
dotis dictio (Costituzione di dote): era un atto unilaterale, verbale, attraverso il quale, mediante una stipulatio, si
conseguiva l’effetto della costituzione di un credito del marito sui beni dotali. La dotis dictio poteva essere compiuta
dal pater familias o dal debitore della donna per ordine di questa ed aveva effetti non reali ma obbligatori.
Vadiatura: era un contratto verbale attraverso il quale, nell’ambito del processo per lègis actiònes, un soggetto (vas)
assicurava che il convenuto sarebbe comparso in giudizio. Si trattava di un’antica figura di garanzia personale.
Praediatura: era un contratto verbale a scopo di garanzia, sorto nell’ambito della procedura per legis actiones.
Mediante la praediatura più soggetti (praedes) assicuravano che la parte alla quale era stato assegnato in via
provvisoria il possesso della cosa durante il processo, la restituisse in caso di condanna (praedes litis et vindiciàrum),
oppure garantivano il pagamento del sacramèntum nella procedura della lègis àctio sacramenti;
Stipulationes praetoriae (vedi De praetoris instrumentis§);
Stipulazioni di garanzia (sponsio, fideiussio);

- Sponsio: figura tipica di contratto verbale riconosciuta dal iùs civile. Può essere considerata fra le più antiche
obbligazioni di garanzia conosciute dai romani. Per effetto di essa, il debitore non perdeva la sua attuale libertà,
poiché diventava schiavo del creditore solo in caso di inadempimento. L’obbligazione di garanzia era assunta dallo
spònsor rispondendo “spòndeo” alla domanda “idem dari spondes?”, ove l’idem si riferiva al contenuto della
obbligazione principale garantita. In tal modo, lo sponsor assumeva l’impegno di effettuare a favore del garantito la
stessa prestazione (cui si riferisce l’idem della formula) oggetto della obbligazione principale. In ogni caso,
comunque, il garante non poteva obbligarsi in duriòrem causam, cioè ad assumere un’obbligazione più grave (per
l’ammontare, per il termine, per le modalità, etc.) di quella garantita. La sponsio poteva accedere solo ad
obbligazioni derivanti da stipulàtio ed era accessibile ai soli cives romani. Nel suo assetto storico essa presenta i
seguenti caratteri:
- autonomia: Il negozio di garanzia, pur accedendo ad una obbligazione principale, non era
subordinato a questa. Pertanto essa era valida anche se l’obbligazione principale era nulla;
- correlazionalità: in virtù della quale lo sponsor era obbligato allo stesso modo del debitore
principale. Il creditore poteva rivolgersi all’uno o all’altro indifferentemente.

La sponsio, per il suo carattere astratto, poteva soddisfare ogni esigenza, dal momento che bastava pronunciare
semplicemente la solenne formula verbale composta dall’offerta e dall’accettazione per costituire il rapporto
obbligatorio, senza che rilevasse lo scopo perseguito dalle parti.

- Fideiussio: era un contratto verbale, di regola adoperato a scopo di garanzia, al pari della spònsio. La figura della
fideiussio si affermò verso la fine dell’età repubblicana ed aveva un regime diverso da quello della sponsio: Essa, a
differenza della sponsio, poteva essere riferita a qualunque tipo di obligàtio, anche non ex stipulàtu. Inoltre,
l’obbligo di garanzia non si estingueva con la morte del soggetto, ma era trasmissibile agli eredi. Non era previsto per
la fideiussio il limite temporale biennale proprio della sponsio. In epoca classica, il creditore poteva rivolgersi,
indifferentemente, al debitore principale o al fideiussore; se il fideiussore pagava non aveva diritto di rivalsa verso
eventuali altri cofideiussori, né aveva un’apposita azione contro il garantito, ma doveva agire con l’àctio mandàti o
con l’actio negotiòrum gestòrum.

- Litteris contractae (obbligazioni letterali): nelle obligationes litteris contractae ai fini della creazione del vincolo
obbligatorio, oltre all’accordo (consensus) tra le parti, erano richieste anche particolari, scritturazioni fatte da
entrambi i soggetti del rapporto obbligatorio o da uno solo di essi. Caratteristica comune delle obbligationes litteris
contractae fu che per la loro costituzione era necessario il solo compimento delle formalità della scritturazione, non
essendo richiesta l’indicazione della causa dell’operazione.
Vi rientravano:

- Nòmina transscriptìcia e arcària (Nomi trasferiti mediante atto pubblico da cassa): era un negozio rientrante nella
categoria dei contratti letterali. I nomina transscripticia avevano sempre ad oggetto una somma di danaro già
dovuta in base ad una obbligazione preesistente e si fondavano sulle risultanze del còdex accèpti et expènsi, cioè dal
libro contabile che il pater familias teneva per annotarvi le somme ricevute o versate a seguito di rapporti di credito.
Le somme ricevute erano riportate nella rubrica dell’acceptum e quelle versate in quella dell’expensum.
L’obligàtio nasceva in base alla transscrìptio, che poteva essere di due specie:

- transscriptio a re in personam: utilizzata a fini di novazione oggettiva, se il creditore scriveva nella


rubrica dell’acceptum (operando una acceptilàtio) la somma dovuta, come se fosse stata realmente
ricevuta, e scriveva nella rubrica dell’expensum (operando la expensilàtio) la stessa somma in
riferimento alla stessa persona, come se fosse stato costituito un mutuo, in tal caso il precedente
debito si estingueva e ne sorgeva uno nuovo litteris: Ciò valeva non solo a darne prova sicura, ma
soprattutto ne rendeva più facile l’estinzione mediante acceptilatio quando il debito sarebbe stato
saldato. In origine, si riteneva che essa fosse accessibile ai soli cittadini romani, ma in seguito fu
ammessa anche ai peregrini;
- transscriptio a persona in personam: utilizzata ai fini di novazione soggettiva, se il creditore
scriveva nella rubrica dell’acceptum la somma dovuta dal debitore e scriveva nell’expensum la
stessa somma in riferimento ad un’altra persona, come se questa avesse contratto un mutuo: in tal
caso si estingueva l’obbligazione del precedente debitore e sorgeva una obligatio litteris in capo al
nuovo debitore. Presupponendo la preesistenza di una obligatio litteris, essa non era applicabile, di
norma, ai peregrini. Il debitore poteva opporre al creditore che lo avesse chiamato in giudizio, in
caso di registrazioni false, una excèptio doli, concessagli dal pretore: Occorreva però la prova che
l’iscrizione fosse falsa o comunque non rispondente al vero.

- Chirographa: era un documento redatto in un unico originale dal debitore e consegnato da questi al creditore
quale impegno di pagamento. Secondo parte della dottrina, tale documento aveva solo efficacia probatoria
relativamente ad obbligazioni preesistenti; per contro altra dottrina ritiene che il chirographa probabilmente avesse
efficacia non solo costitutiva, ma persino rappresentativa dell’obbligazione, che si reputava incorporata nel
documento e quindi estinta con la distruzione dello stesso. L’istituto, probabilmente di derivazione orientale (greca
od egiziana), appartenne in origine al iùs gentium, che regolava i rapporti tra stranieri; presenta notevoli punti di
contatto con i moderni titoli di credito.

- Syngraphae: istituto in uso, dapprima, presso i Greci e successivamente recepito in diritto romano, tra i contratti
letterali. Le syngraphae erano, in particolare, un documento redatto in doppio originale sottoscritto da entrambi i
soggetti, contenente l’impegno a pagare una certa somma. Esse avevano efficacia rappresentativa dell’obligatio che,
in pratica, si incorporava nel documento e si estingueva con la distruzione di questo. In età postclassica, si
avvicinarono all’instrumentum stipulatorio fino a confondersi con esso.

- Consensu contractae. Nelle obligationes consensu contractae, ai fini della creazione del rapporto obbligatorio, è
necessario e sufficiente l’accordo (consensus) tra le parti.
Tali obbligazioni sono originate da:
~ Emptio–venditio: contratto consensuale ed obbligatorio in forza del quale una delle parti (vènditor) si
obbliga a trasmettere all’altra (emptor) il possesso di una res (màncipi o nec màncipi, corporale o
incorporale), denominata merx, garantendone il pacifico godimento, dietro corrispettivo di una somma di
danaro: il pretium. La conclusione del contratto per effetto del consenso produceva in capo alle parti
esclusivamente effetti obbligatori.
In epoche assai risalenti, l’empio – venditio fu preceduta, con ogni probabilità, da forme di baratto, data
l’assenza di moneta nell’economia romana. Successivamente la causa dello scambio di merce verso un
corrispettivo in danaro venne soddisfatta attraverso la mancipàtio per le res mancipi, mentre per le res nèc
mancipi tra cittadini romani e per le res mancipi nel commercio con gli stranieri, si ricorse con ogni
probabilità ad una doppia tradìtio della cosa e del prezzo. La piena ammissione del contratto consensuale
dell’emptio – venditio, fu un risultato realizzato per mezzo della iurisdictio del praetor peregrìnus nel quadro
dei rapporti giuridici del ius gentium.

- Locatio-conductio: contratto consensuale, col quale una parte (locatore) si obbliga a mettere nella
materiale disposizione dell’altra (conduttore) una cosa, che quest’ultimo si obbliga a restituire dopo averla
goduta per un certo tempo, o dopo averla lavorata, manipolata, trasformata nel modo pattuito. Le origini
storiche della locatio-conductio sono assai incerte:

un primo orientamento la ricollega alle prime locazioni dello Stato;


un secondo orientamento ritiene che la locatio-conductio si affermò in Roma attraverso il iùs honoràrium: Il suo
precedente nel ius civile sarebbe stato il precàrium, istituto col quale il proprietario di una cosa ne cedeva il possesso
ad altri in cambio di un corrispettivo;
altra dottrina esclude la derivazione della locatio-conductio dal precàrium, con il quale poteva ravvisarsi solo
un’identità di funzione.

Si è rilevato che la vendita e la locazione, nel diritto romano, non furono nettamente distinte, poiché entrambe
potevano essere costitutive di sole obbligazioni (mentre nel diritto moderno la vendita ha efficacia traslativa). Ciò
che distingueva i due contratti non era la perpetuità del rapporto (potendo esservi anche una locazione perpetua),
ma la funzione del contratto: La vendita attribuiva al compratore un potere assoluto e definitivo, la locazione,
invece, attribuiva solo il godimento della cosa. Inoltre, il compratore vantava una iusta causa usucapiònis ed il suo
possesso era tutelato con l’àctio Publiciàna, mentre il conduttore non aveva alcuna tutela reale. A tutela del locatore
e del conduttore erano apprestate, rispettivamente, un’actio locàti ed un’actio condùcti entrambe azioni di buona
fede.

Nell’ambito della locatio – conductio, confluirono tre figure:

- locatio rèi: era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore si impegnava ad
assicurare al conduttore il godimento di una cosa mobile od immobile, per un certo periodo di
tempo, dietro il pagamento di un corrispettivo (mèrces). Qualunque cosa poteva essere oggetto di
locatio rei, sia mobile che immobile, purché inconsumabile. La locatio rei poteva avere come
oggetto anche uno schiavo e poteva importare la facoltà di avvalersi della operae di questo.
Oggetto di locatio rei poteva essere inoltre l’esercizio di iùra in re alièna. La durata della locatio rei
era, di regola, fissata dalle parti o, in mancanza, dalle consuetudini locali, ma poteva aversi, anche,
una locazione a tempo indeterminato (locatio in perpetuum), che durava finché una delle due parti
non decideva di recedere dal contratto;
- locatio operis: era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore metteva materiali
di sua proprietà a disposizione di un àrtifex (che assumeva le vesti del conduttore) che si
impegnava, con lavoro proprio (o di propri dipendenti) a lavorarli e trasformarli in oggetti, per utilità
del locatore, ricevendo da quest’ultimo, in cambio dell’opera conclusa, un corrispettivo (mèrces).
Nella locatio operis il locatore doveva prestare al conduttore la materia prima da lavorare o la cosa
in ordine alla quale doveva essere effettuata la trasformazione: Il conductor aveva il compito di
trasformarla, lavorandola, e di riconsegnarla al condùctor, contro il pagamento della merces. In tale
contratto la cosa non era locata a vantaggio del conduttore, ma a vantaggio del locatore: ne
conseguiva che l’obbligo di pagare la mercede incombeva sul locatore. Il conduttore era obbligato
ad eseguire il lavoro o il servizio affidatogli sia personalmente (anche, eventualmente, attraverso
l’opera dei propri schiavi), sia sublocando l’opus ad un altro conductor. L’opera doveva essere
eseguita nel tempo stabilito ed in mancanza entro il periodo di tempo considerato normalmente
necessario per condurlo a termine;
- locatio operarum: era quel particolare tipo di locatio-conductio, nel quale il locatore metteva a
disposizione del conduttore i propri servizi dietro il pagamento di un corrispettivo (mèrces). La
locatio operarum, derivando dalla locazione dello schiavo, poteva avere come oggetto non qualsiasi
lavoro umano, ma soltanto quello prevalentemente manuale, che di solito era prestato da schiavi.
Caratteristica dell’obbligazione del locàtor operarum era la sua subordinazione totale alle direttive
del condùctor (datore di lavoro). Nel diritto postclassico, per l’influenza del Cristianesimo, si attenuò
la concezione della piena subordinazione del locator al conductor. Peraltro, il fenomeno della
scarsezza di mano d’opera, sia servile che libera, importò l’introduzione di norme sulla sèrvitus
glebae e sull’ereditarietà dei mestieri. La locatio operarum cessava per morte del locator, essendo
impossibile che le operae fossero prestate da persone diverse. Viceversa, se era il condùctor a
morire, i suoi diritti ed i suoi obblighi si trasmettevano agli eredi. Al di fuori della locatio operarum
rimanevano le artes ingènuae (o operae liberàles), cioè le attività prevalentemente intellettuali,
quali quelle dell’avvocato, del medico etc. Di solito le professioni intellettuali erano esercitate su
richiesta dagli interessati ed a titolo gratuito: Il cliente, peraltro, poteva corrispondere un
honoràrium. Le operae liberales non ebbero tutela giudiziaria se non quella extra òrdinem [vedi
cognìtio extra ordinem].

- Socìetas: era un contratto consensuale con il quale due o più soggetti (socii) si obbligavano reciprocamente a
mettere in comune beni o attività, in quantità anche disuguali, allo scopo di compiere una o più operazioni
economiche, dividendo tra tutti, secondo criteri prestabiliti, i guadagni o le eventuali perdite.
Le origini della societas sono molto discusse. Per alcuni essa risulterebbe da un adattamento del vecchio istituto del
consòrtium ercto non cito. Con ogni probabilità la societas derivò dal consolidarsi di prassi largamente seguite nel
commercio mediterraneo. L’intensificarsi delle relazioni con gli altri popoli, a partire dal III sec. a.C., impose la
necessità, da un lato, di raggruppare ingenti somme, dall’altro di sopportare in comune i rischi di operazioni
economiche di vasta portata. Il riconoscimento di tale contratto è da attribuirsi all’attività giurisdizionale del praetor
peregrìnus, nell’ambito dei rapporti del iùs gentium.

Obblighi del socio erano:

- apportare in società quanto aveva promesso. Se il suo apporto aveva per oggetto cose, egli doveva
trasferire agli altri, con mancipatiònes o traditiònes varie, una quota di esse, in modo da creare una
comunione sulle cose stesse;
- rendere comuni gli acquisti fatti per la società;
- salvo diverso accordo delle parti gli utili e le perdite erano ripartiti in egual misura: L’accordo tra i
socii poteva giungere ad esimere totalmente dalla sopportazione delle perdite un socio cui era
riservata una partecipazione agli utili, ma non poteva escludere la partecipazione agli utili di un
socio che partecipava, sia pure parzialmente, alle perdite (societas leonìna);
- il consenso doveva essere persèverans, cioè doveva sussistere fino al momento del conseguimento
del fine sociale o della scadenza del termine.

La società si estingueva:

ex personis: per morte o càpitis deminùtio di uno dei soci;


ex rèbus: per il raggiungimento del fine sociale o per la sopravvenuta impossibilità di raggiungerlo;
ex voluntate: per volontà dei soci, per la scadenza del termine fissato o per rinuncia (renuntiàtio);
ex actiòne: a seguito dell’esercizio dell’azione di divisione.

La società produceva effetti solo tra i soci, non essendo riconosciuta la possibilità di creare enti con capacità
giuridica. Le obbligazioni reciproche derivanti dal contratto di società erano sanzionate dall’àctio pro socio, actio
civile e di buona fede: essa poteva essere esperita come azione generale di rendiconto finale della società, ma
poteva anche essere intentata perdurante il rapporto di società. Essa importava, per la fiduciarietà del vincolo
infranto, l’infamia del condannato.

- Mandatum: era un contratto consensuale che obbligava un soggetto (mandatàrius) ad eseguire uno o più atti
giuridici per conto di un altro soggetto (mandàtor). In diritto romano il mandatus fu riconosciuto come contratto
consensuale solo in epoca preclassica (nel II-I sec. a.C.), quando le esigenze commerciali imposero agli operatori
economici di ricorrere ad intermediari lontani per curare affari cui non potevano attendere personalmente.
L’individuazione del mandatum fu dovuta, in particolare, alla giurisprudenza evolutiva del praetor peregrìnus. Il
mandatum era gratuito: Qualora fosse stato pattuito un compenso, si aveva una locatio operis, non un mandatum. Il
mandatario poteva essere richiesto di compiere non soltanto atti giuridici, ma anche un’attività di fatto (es. curare
una piantagione); era inammissibile il mandatum rei turpis (Gai Inst. 3.157), quello, cioè, nel quale il mandatario era
obbligato a compiere un’attività turpe.

Il mandatario aveva l’obbligo di:

eseguire esattamente l’incarico; se egli agiva discostandosi dalle istruzioni ricevute, il mandante poteva agire per
ottenere l’esatto adempimento dell’incarico affidato;
riversare gli effetti dell’attività svolta nella sfera giuridica del mandante (es. trasferire la proprietà delle res
acquistate, versare quanto riscosso).

Il mandante aveva l’obbligo di:

rivalere il mandatario delle spese affrontate nell’esecuzione del mandatum e dei danni eventualmente subiti;

A tutela delle reciproche obbligazioni, le parti potevano esperire l’àctio mandati (directa a tutela dei diritti del
mandante; contraria a tutela dei diritti del mandatario) azione di buona fede attribuita dal praetor. Il mandato si
estingueva per esecuzione dell’incarico o sopravvenuta impossibilità di eseguirlo, per il sopraggiungere del termine
stabilito e per il venir meno del consènsus persèverans: Oltre al verificarsi del contrarius consensus, l’estinzione si
verificava per il recesso di una delle parti (revocàtio del mandante e renuntiàtio del mandatario). Il mandato cessava,
inoltre, per morte di una delle parti, ma se le obbligazioni erano già sorte in conseguenza dell’esecuzione
dell’incarico, esso vincolava gli eredi.

Mandatum pecuniae credendae (mandato di credito): il mandatum pecuniae credendae consisteva nell’incarico che
taluno dava ad un altro di prestare danaro ad un terzo: L’istituto veniva usato a scopo di garanzia personale delle
obbligazioni. Nella compilazione giustinianea il mandatum si presentava come un contratto che con l’apparenza
esteriore del mandato, esplicava la funzione obiettiva della fideiussione. La validità del mandato di credito fu
riconosciuta, secondo parte della dottrina, dai tempi di Sabino in poi: Precedentemente nessuna rilevanza giuridica
aveva l’incarico rivolto ad altri di concedere un mutuo, in nulla differenziandosi tale “invito” da un’esortazione o un
consiglio nel solo interesse del consigliato. Il mandatum era un contratto a forma libera, da cui nasceva un’obligatio
verbi contràcta. Eseguito il mandato, cioè il mutuo, se il mutuatario non pagava, il mandatario (colui che ha fatto il
credito) poteva agire col contràrium iudìcium mandati contro il mandante (colui che ha chiesto di far credito) per far
valere la garanzia: Il mandante, sostanzialmente, acquistava una situazione giuridica analoga a quella del fideiussore,
garantendo l’adempimento del mutuatario. A differenza della fideiùssio, il mandatum non era un contratto
accessorio del rapporto di credito garantito, anzi era un contratto collegato rispetto al contratto di mutuo:
L’obbligazione del mandante era valida, anche se era invalida quella del debitore principale.
le obligationes ex delicto (rapporti relativi di responsabilità) sono originate dalla commissione di illeciti civilistici. Le
obligationes ex delicto avevano caratteri particolari che le distinguevano da tutte le altre obbligazioni; in particolare:

Penalità. Contro i delicta, potevano essere intentate tre tipi di azioni:

• actiones poenales. Tendevano ad ottenere il pagamento di una


ammenda pecuniaria (poena) all’attore da parte del responsabile di
un atto illecito; generalmente l’ammenda consisteva in un multiplo
(actiones in duplum, triplum, quadruplum) del valore della res.
Quando il criterio della res non soccorreva, né la poena era altrimenti
fissata, essa era determinata, con valutazione discrezionale, dal
giudicante. Potevano concorrere con le actiones reipersecutoriae.
• actiones reipersecutoriae. Tendevano ad ottenere l’equivalente di
ciò che spettava all’attore. Avevano quindi funzione risarcitoria e non
punitiva.
• actiones mixtae. Tendevano ad ottenere sia il pagamento della
poena che il versamento del controvalore. In pratica le actiones
mixtae non potevano concorrere con le actiones reipersecutoriae né
con le actiones poenales (di cui, in realtà, sono una specie peculiare),
svolgendo la funzione sia delle une che delle altre.

- Intrasmissibilità, od individualità. Gli eredi del soggetto responsabile e quelli dell’offeso non subentravano nel
rapporto obbligatorio originato dalla commissione dell’illecito. La morte del responsabile o della parte lesa
estingueva le actiònes ex delicto, intrasmissibili iùre hereditàrio. Tale principio subì nel corso dell’evoluzione del
sistema giuridico romano diverse modifiche; in particolare:

- per quanto riguarda l’intrasmissibilità attiva, si ritenne che essa riguardasse soltanto i delicta di natura
personale e non patrimoniale (erano, pertanto, intrasmissibili solo l’àctio iniuriàrum e l’actio sepùlchri
violati);
- per quanto riguarda l’intrasmissibilità passiva, si ritenne proseguibile, nei confronti degli eredi del
responsabile, l’azione penale intentata quando quest’ultimo era ancora in vita.

- Nossalità: termine arcaico, utilizzato come sinonimo di delìctum, ma anche, prevalentemente, per indicare uno dei
caratteri più rilevanti delle obligatiònes ex delicto, la nossalità. Data l’incapacità giuridica delle persone alièno iùri
subièctae, in età arcaica si riteneva che il pater familias o il dòminus fossero responsabili per i delitti commessi dal
filius o dal servus. La relativa azione giudiziale, volta ad ottenere il risarcimento del danno, andava proposta,
pertanto, contro il titolare della potestas. La nossalità si concretizzava nella possibilità offerta al pater e al dominus
di sottrarsi al
risarcimento del danno, abbandonando il sottoposto, colpevole del delitto, alla reazione vendicativa della vittima o
della sua familia (noxae dedìtio); in tal modo il titolare della potestas poteva evitare un danno più grave, superiore
per entità al valore della stessa persona sottoposta.
In diritto giustinianeo, fu abolita la noxae deditio dei figli e si stabilì che le azioni penali dovessero essere esercitate
soltanto ed esclusivamente nei confronti del filius responsabile. L’istituto rimase in vita per i delitti commessi dagli
schiavi, ed assunse funzione risarcitoria in favore del danneggiato, finendo con l’essere ammesso anche in ordine ad
azioni non originate da un delitto.

- Cumulatività: se il delictum era commesso da più soggetti, ciascuno era tenuto a subire l’intera pena. Se invece il
delictum era commesso in pregiudizio di più persone, il colpevole doveva pagare la poena per intero ad ogni singolo
attore. Se vi erano più offensori e più offesi, ogni soccombente doveva pagare la poena ad ogni singolo attore.

Le obligationes ex delicto venivano distinte in:

furtum: consisteva nella sottrazione non violenta e contro la volontà del suo detentore di una cosa mobile, oppure
di un animale o di uno schiavo. Da Gaio (Inst., III, 183 ss.) si apprende che il furtum poteva avere ad oggetto anche
uomini liberi, come nel caso che venisse sottratto alla potestà del pater familias un filius, oppure alla potestà
maritale la moglie oppure, infine, una persona ricevuta in potestà per sentenza (iudicàtus) oppure per regolare
contratto (auctoràtus, tipico esempio era quello dei gladiatori); Era configurabile anche il furtum rei suae, cioè il
furto di una cosa propria: tipico è il caso del debitore che si impadroniva di una res data in pegno al creditore;
A seconda che il ladro fosse colto in flagrante, si distingueva fra furtum manifestum e furtum
non manifestum.
Il furtum si distingueva dalla rapina nella quale la sottrazione avveniva in modo violento.
Elementi del furtum erano:

La condotta (elemento oggettivo) che poteva consistere in una amòtio rei (consistente nell’impossessamento della
cosa e nella rimozione della stessa dal luogo in cui si trovava) od in una contrectàtio (consistente nel contatto
fraudolento con una cosa altrui contro la volontà del titolare (invìto dòmino): Si commetteva furto sia
impadronendosi di una cosa altrui per portarla via (amotio), che, più in generale, impadronendosi di una cosa altrui
contro la volontà del dòminus (contrectatio).
La nozione di amotio si allargò fino a ricomprendere anche ipotesi in cui mancava la
sottrazione materiale: Si ammise che commetteva furto il depositario che usava della
cosa depositata (furtum ùsus) o il detentore che, rifiutandosi di restituire la cosa al
dominus, incominciava a possederla per sé (furtum possessiònis);
il dolus malus (elemento soggettivo), cioè dalla coscienza di impossessarsi della res contro la volontà del
proprietario;
l’animus lùcri facièndi (fine di lucro), cioè l’intenzione di trarre vantaggio dalla cosa rubata. Il fine di lucro era
normale nel furto, ma veniva distinto dall’animus furàndi (la vera e propria intenzione di commettere il furto);
la non punibilità del furto putativo, nel senso che all’intenzione di rubare doveva seguire un vero e proprio furto e
non una sottrazione solo erroneamente ritenuta furto (come ad esempio impossessamento di una res nullìus o
derelìcta).

In presenza di furtum manifèstum il derubato che fosse riuscito a prendere il ladro poteva applicare la mànus
inièctio e la pena da pagare corrispondeva al doppio (duplum) del valore della cosa rubata, mentre se il ladro era
colto di notte ovvero si difendeva con armi o si trattava di uno schiavo, poteva anche essere ucciso. Se si trattava,
invece, di furtum nec manifestum, il derubato poteva chiamare in giudizio il presunto ladro per mezzo di una lègis
àctio sacramènti in personam. Se il convenuto resisteva in giudizio si passava alla lìtis contestàtio e, in caso di
condanna, era tenuto a pagare il doppio del valore della cosa rubata. Singolare l’istituto della lance licioque: La legge
delle XII tavole stabilì che, in caso di furtum néc manifèstum, il derubato poteva procedere ad una perquisizione
nella casa del presunto ladro. Gaio chiarisce che il derubato doveva eseguire la perquisizione nudo, avendo ai fianchi
la sola cintura “lìcio cìntus” e con un piatto in mano “làncem habens”. Al di là del significato religioso di questi atti è
probabile che si volesse impedire che il derubato, durante la perquisizione, fingesse di ritrovare la cosa
precedentemente occultata sulla sua persona. In epoca classica, ferma restando la possibilità di uccidere il ladro
notturno o che si difendeva a mano armata, era concessa un’actio fùrti, che comportava, se esperita
vittoriosamente, la condanna ad una pena pecuniaria. L’actio furti, che si poteva esperire anche contro colui che
avesse cooperato al furto, era infamante e trasmissibile agli eredi del derubato. Essa poteva inoltre essere
esercitata, oltre che dal dominus, da chiunque avesse avuto interesse a che il furto non fosse stato commesso.

- Iniuria: è qualsiasi azione in contrasto col diritto.


In epoca arcaica qualsiasi lesione od offesa arrecata ad un gruppo familiare determinava la violenta reazione del
gruppo stesso: L’esigenza di ripristinare l’equilibrio nei rapporti sociali era limitata unicamente dal principio, morale
e religioso, della proporzionalità tra azione difensiva e offesa (tàlio). Solo in seguito, la legge delle XII Tavole, nel
disciplinare il delitto di iniuria, arginò la reazione privata.
La legge delle XII Tavole disciplinò, in particolare, tre casi di iniuria:

membrum rùptum. Consisteva nell’inutilizzazione o nell’amputazione di un arto o di un organo; per esso era
comminato il taglione se non si raggiungeva un accordo amichevole;
os fractum. Consisteva nella rottura di un osso: Per esso era previsto il pagamento di una somma di danaro, che era
di 300 assi se offeso era un uomo libero e 150 se era uno schiavo;
iniuriae pure e semplici, consistenti in qualsiasi altra lesione di minore portata, per le quali era
previsto il pagamento di 25 assi. In seguito, tale disciplina si rivelò inadeguata soprattutto
perché l’ammontare della pena era fisso a fronte delle diverse offese realizzabili in concreto e
l’entità della stessa era ormai divenuta irrisoria. Il pretore unificò le tre figure e concesse
un’àctio iniuriàrum, infamante ed aestimatoria, che consentiva al giudice di fissare l’ammontare
della condanna secondo equità.

- Damnum iniuria datum: è una figura di delictum consistente nel danneggiamento di una cosa o di uno schiavo
altrui.
Il damnum iniuria datum fu disciplinato, come figura astratta, dalla lex Aquilia de damno (287 a.C.).
Ne erano requisiti:

damnum: inizialmente era rilevante solo se materiale vale a dire cagionato con la forza muscolare sulla cosa
considerata nella sua struttura fisica. Successivamente si disciplinò anche l’ipotesi di danno non corpore illatum (non
causato direttamente col proprio corpo) come, ad esempio, nel caso di chi avesse tenuto rinchiusi animali per lungo
tempo senza nutrirli, provocandone così la morte;
iniuria. era l’antigiuridicità del danno, cioè la sua ingiustizia;
dolus o culpa: il titolo di responsabilità per aver causato il danno. Per aversi responsabilità, era sufficiente la culpa
levissima, cioè una lieve negligenza;
nesso causale fra l’azione e il danno.

3) Obligationes ex variis causarum figuris.


- Solutio indebiti (pagamento di una prestazione non dovuta): si aveva nei casi in cui un soggetto eseguiva una
prestazione di dare non dovuta, o perché l’obbligazione era inesistente o perché esisteva, ma in capo ad un debitore
o nei confronti di un creditore diversi: In questo caso, poiché l’accipiente acquistava, in seguito alla dazione, la
proprietà della cosa, il solvente non poteva esperire la rèi vindicàtio, bensì la condictio per la restituzione del
tantùndem eiùsdem gèneris.
Si ritenne, inoltre, che per l’esperibilità della condictio occorressero:

l’error solvèntis, in quanto in assenza dell’errore si riteneva che il debitore volesse gratificare l’accipiente;
l’error accipièntis, in quanto, se l’accipiente riceveva scientemente un indèbitum, si riteneva che si verificasse un
furtum, con la possibilità dell’esperimento della condictio ex causa furtìva.

- Negotiorum gestio: si intendeva la gestione di affari altrui, intrapresa spontaneamente e non sollecitata
dall’interessato (dòminus). Dal fatto della gestione nasceva per il gestore l’obbligo di condurre a termine l’attività
intrapresa fino al compimento dell’affare o degli affari. Contestualmente nasceva in capo all’interessato l’obbligo di
accettare la gestione e quello di assumersi gli effetti di questa e, cioè, di rivalere il gestore di tutte le spese
sostenute.
Requisiti dell’istituto erano:

il compimento di un atto che importasse gestione di affare altrui, atto che poteva essere sia materiale (riparazione)
sia giuridico (vendita);
la volontà di gestire un negozio altrui (ànimus alièna negòtia gerèndi);
l’assenza di un contratto di mandato;
l’utilità della gestione: Tale requisito doveva valutarsi con riguardo al momento iniziale della gestione, a nulla
rilevando il risultato finale di essa;
l’assenza della c.d. prohibìtio dòmini.

A tutela del dominus era accordata un’àctio negotiorum gestòrum diretta, mentre a tutela del gestore era prevista
un’actio contrària; quest’ultima, riconosciuta in origine nel solo caso di gestione in favore di persona assente, fu poi
considerata di carattere generale.
De obbligationibus naturali bus §
Le obbligazioni naturali (dette naturales tantum) sono connotate dall'assenza del vinculum iuris in quanto generate
dallo ius naturale. Di conseguenza, se il debitore, pur non essendo giuridicamente vincolato, adempiva ugualmente,
il crèditor naturalis aveva la solùti retèntio, cioè il diritto di trattenere il pagamento spontaneamente fatto dal
dèbitor, e respingere la condìctio indèbiti eventualmente proposta per ottenere la restituzione di quanto
indebitamente pagato.
Le fonti affermano: «se è dovuto qualcosa a qualcuno “per natura”, costoro non sono da ritenersi creditori (...) e
quello che deve "per natura" può essere perseguito solo per coscienza».
Altri casi di obbligazioni naturali erano descritti dalle fonti: Tutti coloro che contraevano con il filius senza
l'intervento del paterfamilias assumevano semplicemente delle obbligazioni naturali, et repeti non poterit.
Il territorio precipuo (se non esclusivo) delle obbligazioni naturali era individuato dalla giurisprudenza nei rapporti
delle persone alieni iuris, principalmente degli schiavi; in particolare sono obbligazioni naturali (naturales tantum):

- le obbligazioni degli schiavi sia tra di loro, sia col loro padrone, sia con estranei. È vero che gli schiavi non
avevano capacità giuridica, ma è anche vero che essi contraevano obbligazioni per il loro padrone e non già
per sè stessi, ed è questo aspetto che conferiva validità civile a questo genere di obbligazioni;
- le obbligazioni tra persone legate insieme da un rapporto di patria potestà (ad esempio tra paterfamilias
e filiusfamilias o tra due filiifamilias soggetti alla medesima patria potestà). Quello che impediva il sorgere di
un'obbligazione giuridica era la presenza della patria potestas, sicché restavano possibili le sole obligationes
naturales tantum;
- le obbligazioni estinte per capitis deminutio anche minima (si ricordi che le obbligazioni potevano
estinguersi a seguito di emancipazione, adrogatio, adozione). Poiché si trattava di una singolare causa di
estinzione dell'obbligazione, la giurisprudenza stabilì che l'obbligazione civile estinta dava luogo ad una
obbligaione naturale solo se si trattava di una prestazione di mero fatto (le obbligazioni aventi ad oggetto la
trasmissione di un diritto restavano estinte e non facevano luogo a obbligazioni naturali).
- l'obbligazione del pupillus assunta senza l'intervento (auctoritas) del tutore, per assenza di capacità
diintendere e di volere.

De obligationibus quasi ex delicto §


Le obligationes quasi ex delicto, è una categoria residuale di obbligazioni di derivazione giustinianea, nella quale
furono fatti rientrare illeciti minori, diversi da quelli che costituivano la fonte delle obligationes ex delicto.
Le varie fattispecie enucleate venivano tutelate attraverso la concessione di apposite azioni in factum, tra le quali si
ricordano le seguenti:

- actio de effusi vel deiectis (azione su riversati o fatti cadere): azione concessa contro l’abitante (habitàtor)
della casa dalla quale erano stati lanciati oggetti, solidi o liquidi, che avevano cagionato danni ai passanti. Si
trattava di una ipotesi di responsabilità oggettiva (vedi oltre) poiché se l’autore del lancio era sconosciuto,
l’habitator era costretto a risarcire comunque il danno anche se questo non poteva essergli addebitato né a
titolo di dolus, né di culpa. Se, invece, l’autore del lancio era conosciuto, contro costui veniva esperita la
normale actio lègis Aquìliae;
- actio de posito vel sospenso (azione per cosa appoggiata o sospesa). Azione concessa contro l’abitante
(habitàtor) di una casa dal cui balcone o tetto fosse caduto un oggetto (appoggiato oppure sospeso)
cagionando danno ai passanti. Nell’età classica la responsabilità veniva imputata attraverso un parametro
oggettivo (era, pertanto, collegata al mero verificarsi del fatto); in epoca giustinianea invece, ai fini della
responsabilità, si richiese l’elemento soggettivo della culpa;
- actio adversus iudicem qui litem suam fecerit (azione per la responsabilità dei magistrati). Azione
concessa dal diritto pretorio per una particolare fattispecie di illecito rientrante tra i quasi-delitti: In origine,
essa era esercitabile contro il giudice che si fosse appropriato di una res controversa, cioè oggetto di un
giudizio. Successivamente, si ritenne (specie in diritto giustinianeo) che l’actio fosse esercitabile anche
contro il giudice che avesse emesso una sentenza ingiusta per negligenza;
- actio sepulchri violati (azione per la violazione del sepolcro). Azione concessa contro chi violava l’altrui
sepolcro per seppellirvi un membro della propria famiglia o un estraneo. Se l’azione veniva esperita dal
titolare del sepolcro, la pena ammontava ad una somma di danaro determinata equitativamente dal giudice;
se, al contrario, il titolare del sepolcro non esperiva l’azione, essa diveniva azione popolare e la pena era pari
alla somma fissa di 100.000 sesterzi.

De lege Aquilia §
A prescindere dalle varie figure di delictus che rientravano nella tutela penale, lo ius civile conosceva alcune figure di
danneggiamento che trovavano tutela in sede civile: si parla della iniuria e del conseguente damnum iniuria datum.
La disciplina del damnum si trova nella Lex Aquilia (287 a.C.), la prima legge scritta in materia di risarcimento del
danno: In primo luogo, impose di ragguagliare il valore del risarcimento all'ultimo prezzo più alto raggiunto dal bene
nel mese precedente, e poi richiese che tra il damnum e il factus vi fosse un nesso di causalità.
L'actio legis Aquiliae era concessa contro il danneggiatore che doveva risarcire il duplum se si provava la colpa,
nonché il damnum (effettiva lesione) e l'iniuria (antigiuridicità). Per la responsabilità, era sufficiente anche la culpa
laevissima, aggravando così la posizione del danneggiante.

La responsabilità
De obligationum vinculo solvendi §
L’ordinamento romano prevedeva due criteri per l’adempimento delle obbligazioni:

concursus causarum: si tratta di un’obbligazione si estingueva per concorsus causarum quando il creditore otteneva
successivamente, in base ad altro titolo, la prestazione dovutagli. In origine, si riteneva che, in presenza di concursus
causarum, l’obbligazione si estinguesse comunque, senza che fosse rilevante il modo attraverso il quale il creditore
avesse raggiunto il suo soddisfacimento. Dai tempi di Salvio Giuliano la regola subì una limitazione: Si ritenne che
l’obbligazione si estinguesse solo se il creditore avesse ottenuto la cosa a titolo lucrativo e a titolo gratuito; se,
invece, il creditore aveva acquistato la cosa a titolo oneroso, il debitore continuava ad essere obbligato nei suoi
confronti all’adempimento o almeno alla satisfactio.
Solutio: indicava l’adempimento (inteso come scioglimento del vincolo obbligatorio) e costituiva il normale modo di
estinzione di un’obbligazione. Essa veniva generalmente intesa come atto inverso rispetto a quello che aveva
originato l’obbligazione. Il limite della solutio era pertanto rappresentato dal fatto che non si potevano estinguere
quelle obbligazioni per le quali non era possibile il compimento di un atto contrario rispetto a quello costitutivo
(come ad esempio le obbligazioni ex delicto). Il concetto di vincolo, evocato dalla solutio, venne inteso, fino
all’emanazione della lex Poetèlia Papìria de nèxis, come insistente sulla persona del debitore; solo successivamente
fu inteso come mero vincolo patrimoniale.

De mora §
La mora è l'inadempimento colposo dell'obbligazione al tempo debito e con le modalità previste, oppure il colposo
rifiuto di accettarla. Si distingue pertanto la mora in solvendo (mora del debitore) dalla mora in accipiendo (mora del
creditore).

- Mora solvendi (debendi). La mora debendi (o mora solvendi) era la mora del debitore, cioè il ritardo
colposo nel pagamento.
Per aversi mora solvendi occorrevano i seguenti requisiti:

l'obbligazione doveva essere valida e munita di azione: non si configurava mora nelle obligationes naturales;
l'obbligazione doveva anche essere pura ed esigibile: Non poteva essere richiesta la prestazione ante diem, ossia
prima della scadenza del termine, né se mancava l'imputabilità del ritardo al debitore;
occorreva poi la interpellatio, cioè l'atto di costituzione in mora; per le obbligazioni eo die (cioè a termine) si
applicava il principio del dies interpellat pro homine (essendo l’obbligazione sottoposta a termine (dies) non si
richiede una formale intimazione). Per effetto della mora, l'obbligazione si perpetuava e sorgeva la responsabilità del
debitore, che era perciò tenuto a dare usuras, cioè a pagare gli interessi dal giorno della mora, nonché a risarcire il
danno derivante dal ritardo (damnum iniuria datum) e ad accollarsi il rischio del perimento della cosa.
- Mora accipiendi (credendi). Diversa era la mora credendi (o mora accipiendi), che si verificava quando il
creditore rifiutava senza motivo di ricevere il pagamento integrale.
Gli effetti della mora del creditore erano:

il rischio per il perimento della cosa era a carico del creditore;


il debitore era esonerato dagli interessi e poteva addirittura rifiutare di adempiere se non veniva rimborsato delle
spese sostenute per il ritardo.

De usuris §
Dopo l'interpellatio, decorrevano a favore del creditore gli interessi (usurae). La misura degli interessi veniva
determinata officio iudicis oppure apud iudicem, ma poteva anche essere stabilita dalle parti: Generalmente,
comunque, la questione degli interessi era esaminata apud iudicem.
Le parti potevano preventivamente stabilire la misura degli interessi con una clausola chiamata stipulatio usurarum.
Giustiniano vietò gli interessi composti (anatocismo).

- De exoneratione obligationum vincoli solvendi §


I casi di esonero da responsabilità erano dati dalla vis maior e dal casus fortuitus, che portavano senz'altro alla
liberazione del debitore, in quanto in entrambi i casi si trattava di eventi del tutto inevitabili.

Casus fortuitus. Nell’ambito del casus fortuitus rientravano:

eventi naturali (terremoto, inondazione);


fatti giuridici (si pensi, ad esempio, al sopravvenire di una normativa giuridica che dichiarasse res extra commèrcium
la cosa oggetto della prestazione del debitore, rendendo impossibile l’adempimento);
fatti commessi da un terzo (si pensi, ad esempio, alla fuga dello schiavo che il debitore doveva consegnare al
creditore).

- Vis maior. L’espressione indicava il complesso delle circostanze estranee alla volontà del debitore e da lui non
dominabili. In diritto giustinianeo, la vis maior fu compiutamente distinta dal casus fortuìtus, considerata quale
evento che, di fatto, impediva l’adempimento di una obbligazione, in quanto — pur se previsto o prevedibile — non
neutralizzabile dalle umane forze (si pensi ad una violenta tempesta, un terremoto, un’incursione di barbari, etc.).

De culpa et dolo (Responsabilità oggettiva e soggettiva) §


Nella valutazione dell’inadempimento delle obbligazioni sono presi in considerazioni due criteri: La responsabilità
oggettiva e la responsabilità soggettiva:

- responsabilità oggettiva: è un criterio che non prende in considerazione l’atteggiamento


psicologico del debitore. Il debitore rispondeva per inadempimento, anche se provava di essere
stato diligente ed osservante delle regole;
- responsabilità soggettiva: è un criterio che prende in considerazione l’atteggiamento psicologico
del debitore: Si qualificano in particolare di casi di culpa e dolo.

- Culpa: consisteva, genericamente, in un comportamento volontario tenuto in spregio delle elementari norme di
diligenza, prudenza e perizia.
Si distinse, in particolare, in ordine all’intensità della negligenza tra:

- culpa làta, che consisteva nella mancata prestazione anche di un minimo di diligenza da parte del
debitore nell'adempimento;
- culpa lèvis, che consisteva in un comportamento negligente del debitore, cagionato dalla
mancanza, della diligenza del bonus pater familias (uomo medio);
- culpa levìssima, criterio di imputazione ordinario: anche una lieve negligenza era sufficiente ad
integrare gli estremi della responsabilità).

- Dolus. Quale criterio di imputazione della responsabilità per inadempimento contrattuale, il dolus rilevava solo
nella configurazione di dolus malus (od anche dolus praesens), cioè quale accertata intenzionalità di non adempiere
l’obbligazione o di commettere un fatto illecito.
In particolare, in ambito contrattuale, si ritenne che il dolus fosse normale criterio di imputazione della
responsabilità per i casi in cui un’obbligazione fosse sorta nell’esclusivo interesse del creditore: in questo caso il
debitore era responsabile solo dell’inadempimento derivante da dolus, mentre in tutti gli altri casi, il criterio
d’imputazione normale era la culpa levis.

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