Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Il concorso di persone nel reato indica, in via generale, il fenomeno della realizzazione plurisoggettiva del
reato.
Si suole distinguere tra concorso necessario e concorso eventuale.
a) Il concorso di persone si definisce necessario quando la fattispecie di reato contemplata dalla norma
richiede necessariamente la partecipazione di più soggetti (la presenza di più soggetti appartiene alla struttura
del fatto tipico). Esempio classico è quello della rissa.
I reati a concorso necessario vengono a loro volta distinti da un lato in reati plurisoggettivi unilaterali o
bilaterali, a seconda che la direzione delle condotte dei vari soggetti sia l’una verso l’altra (corruzione,
bigamia), o l’una contro l’altra (rissa), e dall’altro in reati plurisoggettivi propri e impropri, a seconda che i
soggetti “necessari” per l’esistenza della fattispecie siano tutti autori punibili, o alcuno di essi rivesta un
ruolo diverso, non rilevante penalmente (es. atti sessuali con un minorenne). In tale ultima ipotesi, si discute
se il partecipe non punibile possa tuttavia rispondere del reato a titolo di concorso eventuale. La dottrina
propende per la soluzione negativa, giacchè, in caso contrario, si finirebbe con il punire il concorrente non
espressamente assoggettato a pena dalla legge e quindi si violerebbe il principio di legalità.
Altro problema è quello dell’applicabilità alle ipotesi di concorso necessario della disciplina del concorso
eventuale, per quanto attiene alle circostanze aggravanti e attenuanti, e al relativo regime. L’opinione
prevalente è nel senso della applicabilità, a meno che le norme in questione non siano espressamente escluse
o derogate dalle disposizioni che incriminano il reato necessariamente plurisoggettivo.
b) Il concorso di persone si definisce, invece, eventuale, quando la fattispecie di reato contemplata dalla
norma può essere realizzata anche da un unico soggetto, ma in realtà commesso da più persone.
Gli aspetti maggiormente problematici della disciplina del concorso, non concernono i casi in cui ciascuno dei
soggetti attivi realizza per intero la condotta tipica (come, ad esempio, nell’ipotesi di più persone che sparino
contemporaneamente, ciascuno con la propria arma, contro una o più vittima designate), bensì le ipotesi in cui
un soggetto non realizza per intero gli elementi della fattispecie di parte speciale richiesta dalla norma
incriminatrice. Si pensi al basista di un furto o di una rapina. In questi casi l’art. 110 c.p. ha una funzione
costitutiva per la rilevanza penale delle condotte che, pur esprimendo una forma di partecipazione, talvolta
essenziale, alla realizzazione del reato, tuttavia non corrispondono in alcun modo alla descrizione della
condotta tipica che lo costituisce.
Alla disciplina del concorso di persone spetta, dunque, la funzione di estendere la tipicità in relazione a
condotte che non sarebbero tipiche ai sensi della fattispecie di parte speciale.
Gli ordinamenti positivi contemporanei vi provvedono secondo due modelli di disciplina: il modello
differenziato e il modello unitario.
Nel modello differenziato di incriminazione delle condotte di concorso il legislatore individua e descrive
singolarmente le diverse “forme” di partecipazione al reato, penalmente rilevanti, distinguendole in base al
ruolo che ciascun concorrente svolge nell’economia della realizzazione comune (correità, istigazione,
agevolazione, etc.)
Nel modello unitario di incriminazione delle condotte di concorso di persone, il legislatore prescinde dal
tipo particolare di condotta posta in essere dai singoli compartecipi, valorizzando essenzialmente, come
criterio di punibilità, l’efficienza causale del contributo di ciascuno alla realizzazione del reato, in una
tendenziale parificazione della loro rilevanza penale; salva la possibilità di tener conto dei singoli
comportamenti a livello di circostanze aggravanti o attenuanti o a livello di colpevolezza individuale.
Il c.p. del 1930 ha optato per una scelta radicalmente diversa rispetto a quella del Codice Zanardelli, passando
da un modello differenziato a un modello unitario di incriminazione del concorso, non distinguendo tra le
varie condotte di concorso e considerandole equivalenti.
Per quanto concerne le teorie giuridiche del concorso la dottrina oscilla essenzialmente fra due orientamenti,
rispettivamente costituiti dalla teoria dell’accessorietà delle condotte di concorso e la e la teoria delle
fattispecie plurisoggettive eventuali (la cui struttura sarebbe determinata da un effetto di integrazione tra la
fattispecie monosoggettiva di parte speciale e le norme sul concorso di persone).
Secondo la teoria dell’accessorietà il fondamento della punibilità a titolo di concorso risiede nel fatto che
la condotta del concorrente accede alla condotta dell’esecutore. Ciò implica l’esistenza di un fatto principale,
nonché l’esistenza di un rapporto, per così dire, “servente” rispetto alla realizzazione di una fattispecie
conforme a quella descritta (nella forma monosoggettiva) da una norma incriminatrice speciale. Si osserva,
tuttavia, che proprio in quanto presuppone l’esistenza di un fatto principale, il principio di accessorietà non
sarebbe idoneo ad esprimere in una formula unitaria e omnicomprensiva la struttura del concorso di persone
nel reato. Ed invero, il rapporto di accessorietà non si rinviene nell’ipotesi in cui tutti i concorrenti compiono
l’intera azione tipica o nei casi di esecuzione frazionata, ove manca la realizzazione per intero di un fatto
principale.
Secondo la teoria della “fattispecie plurisoggettiva eventuale”, il fondamento della punibilità a titolo
di concorso risiede nella combinazione della norma di parte generale che punisce il concorso di persone nel
reato con la norma incriminatrice di parte speciale, da cui originerebbero diversi tipi di reati plurisoggettivi
tipici, sicchè la tipicità della condotta del concorrente non andrebbe vista in relazione alla fattispecie astratta
di parte speciale ma in relazione al tipo che scaturirebbe dalla combinazione tra l'art. 110 cp e la norma
incriminatrice di parte speciale.
La norma incriminatrice contempla l'evento illecito, l'art. 110 c.p. prende in considerazione tutte le condotte
causalmente efficienti ad esso e le unifica, consentendo l'imputazione dello stesso reato ai più autori.
Da un punto di vista fenomenico il fatto che un evento possa essere determinato da più fattori è del tutto ovvio
anzi è la regola, perché non esiste in natura alcun fenomeno che sia il prodotto di una sola causa.
È ben possibile che le condotte umane che intervengono nel processo causale siano più d'una.
Sostanzialmente possono verificarsi due casi: 1) il concorso di cause “indipendenti”, quindi il semplice
sommarsi di più azioni nella causazione dell'evento; 2) la sinergia tra le azioni, viceversa tra loro “dipendenti”.
Il rapporto di causalità sussiste tutte le volte che l’evento dannoso o pericoloso da cui dipende il reato è
conseguenza dell’azione o dell’omissione del reo (art. 40 c.p.).
Il concorso di cause (preesistenti, simultanee o sopravvenute) non esclude il rapporto di causalità fra
l’azione/omissione e l’evento. La causa che determina l’evento può consistere nel fatto illecito altrui (cfr. art.
41, comma 3).
Una cosa è il concorso di cause tra loro indipendenti che hanno determinato il fatto e ben altra cosa è la
rilevanza di condotte legate tra loro dalla convergenza verso la realizzazione del reato collettivo.
Come affermato dalla Suprema Corte, il concorso di più persone nel reato scaturisce non già dal mero
concorso di cause che fanno capo a più persone, ma dal comune intento verso il conseguimento di un
determinato risultato (del risultato caratteristico di quel reato) che anima più persone legate dalla coscienza di
ciascuna di contribuire, in maggiore o minore misura, alla produzione dell’evento.
I rapporti tra l'istituto del concorso di persone rispetto a quella del concorso di cause illecite possono
comprendersi meglio attraverso una serie di ipotesi esemplificative, prima in un reato a forma libera
(omicidio), poi in un reato a forma vincolata (rapina).
Caso 1
Pasquale aggredisce Giuseppe, che, trasportato in ospedale gravemente ferito, muore a causa della mancanza
di cure mediche idonee da parte di Antonio. Entrambi “cagionano la morte” della persona, pur agendo
indipendentemente l'uno dall'altro, essendo l'intervento di ciascuno concausa dell'evento. In questo caso l'art.
110 c.p. non opera, Pasquale e Antonio rispondono ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. per l'evento causato
(Pasquale per omicidio doloso, Antonio per omicidio colposo tramite omissione).
Caso 2
Pasquale e Antonio, preventivamente accordatisi, feriscono con separate azioni Giuseppe, che muore per le
lesioni riportate. Entrambi “cagionano la morte” della persona, essendo l'intervento di ciascuno concausa
dell'evento. In questo caso opera l'art. 110 c.p., sicché Pasquale e Antonio rispondono di omicidio doloso in
concorso. In mancanza dell'art. 110 c.p. ciascuno sarebbe stato responsabile ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. di
omicidio doloso.
In entrambi i casi l’intervento di ciascuno è concausa dell’evento. Vediamo le differenze:
Caso 1
a) agiscono in modo indipendente, senza volontà di concorrere, nemmeno unilateralmente;
b) sussiste il nesso di causalità perché l’evento morte è conseguenza della condotta di ciascuno;
c) sussiste il concorso di cause (sopravvenuta quella di Antonio ed indipendente da quella di Pasquale).
Caso 2
a) agiscono previo accordo;
b) sussiste il nesso di causalità perché l’evento morte è conseguenza della condotta di ciascuno;
c) sussiste il concorso di cause.
Ciò che li distingue nella sostanza è il previo accordo.
Caso 3
Pasquale dà mandato ad Antonio di uccidere Giuseppe, che muore a causa dell'azione di Antonio. Solo
Antonio “cagiona la morte”, poiché l'azione di Pasquale è condizione dell'evento, ma non concausa. L'art. 110
c.p. opera unificando le condotte, il che vale ad attribuire alla condotta di Pasquale efficacia causale
dell'evento, sicché Pasquale e Antonio rispondono di omicidio doloso in concorso. In assenza dell'art. 110 c.p.
Pasquale non avrebbe risposto di omicidio.
Caso 4
Pasquale assume il compito di sorvegliare l'entrata di un'abitazione, mentre Antonio procede ad uccidere chi
vi abita. Solo Antonio “cagiona la morte”, non essendone la condotta di Pasquale una condizione. L'art. 110
c.p. opera nel senso di far acquistare alla condotta di Antonio rilevanza nell'esecuzione del reato. In mancanza
dell'art. 110 c.p. Antonio non sarebbe stato responsabile di omicidio.
Caso 5
Pasquale e Antonio effettuano una rapina in banca, l'uno minacciando il cassiere, l'altro sottraendo il denaro
dalla cassaforte. Entrambi pongono in essere una condotta parzialmente sussumibile negli elementi costitutivi
del delitto (violenza o minaccia e sottrazione della cosa mobile altrui), ma nessuna di esse è tipica. L'art. 110
c.p. unifica le condotte, che insieme diventano tipiche, sicché Pasquale e Antonio rispondono di rapina in
concorso. In assenza dell'art. 110 c.p. ciascuno avrebbe risposto limitatamente alla condotta posta in essere
(Pasquale per violenza privata, Antonio per furto).
Caso 6
Pasquale assume il compito di sorvegliare l'entrata della banca, mentre Antonio procede a rapinarla. Solo
Antonio pone in essere una condotta tipica, mentre Pasquale non realizza alcun frammento di essa e neppure
una condizione dell'evento. In questo caso l'art. 110 c.p. opera unificando le condotte e valendo ad attribuire
alla condotta di Pasquale rilevanza nell'esecuzione del reato. In mancanza dell'art. 110 c.p. Pasquale non
sarebbe stato responsabile di rapina.
REITA’ MEDIATA
Lo schema della reità mediata ricomprende esclusivamente i casi in cui l’esecutore materiale (o mediato)
realizzi la fattispecie oggettiva di un reato, senza il concorso della sua volontà; autore del fatto tipico è, quindi,
un altro soggetto, cd. autore mediato, che ha l’effettivo dominio finalistico della condotta.
Ipotesi non controverse di reità mediata sono il “costringimento fisico” e l’“errore determinato dall’altrui
inganno”. Nell’ipotesi del costringimento fisico (disciplinato dall’ all’art. 46 c.p. “Non è punibile chi ha
commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla quale non poteva resistere
o comunque sottrarsi. In tal caso del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della
violenza”) il vero autore del fatto è l’autore della violenza che si serve della vittima come di uno strumento:
non a caso la legge prevede il “trasferimento” della responsabilità penale, dall’autore “materiale” del fatto,
all’autore mediato di esso, cioè colui che detiene l’effettivo dominio finalistico della condotta.
Anche nell’ipotesi di errore determinato dall’altrui inganno (disciplinato dall’art. 48 c.p., a norma del
quale: “Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è
determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi
l’ha determinata a commetterlo”) la legge prevede il “trasferimento” della responsabilità penale, dall’autore
“materiale” del fatto, all’autore mediato di esso.
Solo chi pone consapevolmente in essere l’inganno, infatti, prevede e vuole l’evento, come conseguenza
dell’azione od omissione dell’autore materiale; quest’ultimo, invece, non sa quel che fa e non prevede, né
vuole, l’evento causalmente connesso alla propria condotta. Si pensi al caso del notaio che autentichi una
sottoscrizione apocrifa, perché tratto in inganno dai testimoni, circa la vera identità del firmatario.
Ciò non di meno, l’esecutore materiale del fatto risponderà di delitto colposo, qualora, nell’indursi ad agire
(sia pure per effetto dell’inganno perpetrato ai suoi danni) abbia tuttavia violato elementari misure di cautela.
È evidente la differenza rispetto alla fattispecie del concorso di persone (tra il fatto di chi induce all’azione un
soggetto privo di dolo e quello di concorre nel fatto doloro altrui): mentre, a norma dell’art. 115 c.p., chi istiga
altri a commettere un reato non è mai punibile per il solo fatto dell’istigazione, nell’ipotesi dell’art. 48 c.p.,
invece, l’invito ad agire costituisce di per sé atto di esecuzione del reato, poiché corrisponde già alla messa in
opera del mezzo, destinato, nel piano particolare del determinatore, alla realizzazione del delitto.
La condotta dell’ingannatore si differenzia dalla “normale” ipotesi dell’istigazione, proprio perché le energie
causali dell’evento sono già messe in moto nel momento in cui egli agisce per determinare l’istigato a compiere
l’atto di cui ignora le conseguenze. Si pensi al caso di chi consegni al servizio postale un plico esplosivo da
inoltrare alla vittima designata, non vi è dubbio che l’agente abbia con ciò già realizzato un tentativo di
omicidio e che se l’evento si verifica ne debba rispondere come unico autore, proprio perché possiede il
dominio finalistico dell’evento.
In queste ipotesi, non siamo certo di fronte a una condotta che “acceda” ad un “reato” commesso da altri (vale
a dire l’ignaro esecutore). Al contrario, colui che possiede il dominio finalistico – o, se si preferisce, la
“signoria” del fatto – è, e resta, il solo e vero “autore” del reato.
Non configurano, invece, casi di reità mediata, ma di concorso di persone nel reato le fattispecie
di cui agli artt. 51 co. 2 c.p. (reato commesso per ordine dell’autorità), e 54 co. 4 (stato di necessità
determinato dall’altrui minaccia). In entrambi i casi l’esecutore materiale del fatto, cioè la persona che riceve
l’ordine o che è minacciata, ne è da ogni pdv anche l’autore (poiché integra gli estremi di un fatto tipico doloso,
realizza i requisiti minimi per il concorso del determinatore ai fini e per gli effetti dell’art. 110 c.p.), sia pure
non punibile. Colui che ha dato l’ordine o ha posto in essere la minaccia agisce a sua volta come concorrente
nel reato assumendo il ruolo di determinatore.
Tant’è vero che il tipo di fatto di cui il determinatore sarà chiamato a rispondere, ex art. 51 co. 2 e 54 co. 3 c.p.,
dipenderà pur sempre dalla decisione di chi esegue l’ordine, o subisce la minaccia.
Per quanto attiene alla fattispecie disciplinata dall’art. 86 c.p. (“Determinazione in altri dello stato di
incapacità allo scopo di far commettere un reato”) occorre, invece, distinguere fra i casi in cui lo stato
d’incapacità determinato in altri è tale da escludere ogni contenuto di volontà nell’azione dell’esecutore (come
nell’azione etero diretta: si pensi all’induzione di uno stato di ipnosi) e i casi in cui il soggetto sia tuttavia
capace di assumere decisioni.
La prima ipotesi è riconducibile allo schema della reità mediata, poiché solo chi ha provocato lo stato di
incapacità ha “il possesso esclusivo del dominio finalistico del fatto; nella seconda ipotesi il carattere doloso
dell’azione dell’incapace è sufficiente a connotare come concorso nel “reato” il fatto di chi ha cagionato lo stato
di incapacità. Naturalmente, a quest’ultimo soggetto competerà in ogni caso la qualifica di autore, condivisa
con lui dall’esecutore incolpevole.