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SEZIONE SECONDA

IL DELITTO TENTATO

TENTATIVO
●Premessa: la consumazione del reato.
Il delitto è consumato quando la fattispecie prevista dalla legge come reato è completa in tutti i suoi
elementi costitutivi.
Non importa che il reo non abbia realizzato completamente il piano che aveva in mente; l'importante è che
il fatto posto in essere corrisponda in tutto e per tutto alla fattispecie prevista dal legislatore. Così, ad esempio,
se un ladro entra in una casa per rubare 10 cose e riesce a rubarne solo due non abbiamo un reato tentato, ma
consumato; la fattispecie del furto infatti si realizza quando qualcuno si impossessa di una cosa altrui e rubare
due cose è sufficiente per integrarne gli estremi, anche se il reo non è riuscito completamente nel suo intento.
Si distingue la fase della consumazione da quella della perfezione.
È perfetto il reato in cui sono presenti tutti gli elementi minimi per la fattispecie di reato (ad esempio viene
compiuto il primo atto relativo ad un sequestro di persona e la vittima viene chiusa nella stanza).
Il reato è consumato quando si è concluso l’ultimo momento dell’atto criminoso, o, come preferiscono altri,
quando il reato perfetto ha raggiunto la sua massima gravità concreta (ad esempio la vittima sequestrata viene
rilasciata).
●Fondamento politico-criminale del tentativo
In ordine al fondamento politico-criminale del tentativo si contrappongono due orientamenti.
Un primo orientamento, che potrebbe definirsi soggettivistico, sostiene che il fondamento della
punibilità del tentativo va cercato nella pericolosità del soggetto. Ne consegue: 1) equiparazione tra tentativo e
consumazione dal pdv sanzionatorio; 2) punibilità del tentativo inidoneo; 3) anticipazione della tutela alla fase
preparatoria del reato.
Un secondo orientamento, che potrebbe definirsi oggettivistico, sostiene che il fondamento della
punibilità del tentativo va cercato nell’oggettiva e concreta messa in pericolo del bene giuridico protetto. Ne
consegue: 1) differenza tra tentativo e consumazione dal pdv sanzionatorio; 2) irrilevanza penale del tentativo
inidoneo; 3) tendenziale irrilevanza delle condotte meramente preparatorie del reato.
Non vi è dubbio che il nostro sistema penale accolga l’impostazione oggettivistica, come dimostra, peraltro,
l’irrilevanza del tentativo inidoneo e la previsione generale della minore punibilità del tentativo, rispetto al
corrispondente reato consumato.
●Il delitto tentato: cenni preliminari
L’ordinamento giuridico può assegnare rilevanza anche all’illecito penale che si “manifesti” con la peculiare
caratteristica di un fatto corrispondente alla condotta tipica (o ad una parte di essa) ma contrassegnata dalla
mancata produzione, sul piano oggettivo, dell’evento, offesa cui la condotta era soggettivamente diretta. Si
tratta di ipotesi normative di estensione della punibilità, nel senso che la norma estende la punibilità di un
fatto ad una soglia antecedente a quella del reato consumato; esso risulta infatti dalla combinazione di una
norma di parte speciale (ad esempio la norma sull’omicidio) con lo schema generale, delineato nell’art. 56 c.p.
(non è configurabile una fattispecie “astratta” di delitto tentato, ma solo fattispecie di tentato omicidio, tentata
truffa, tentata rapina, etc.).
Va sottolineato, però, che il tentativo non è una sottospecie del delitto consumato. Si tratta invece di una
figura di reato autonoma e perfetta, perché presenta tutti gli elementi necessari per l'esistenza del reato: fatto
tipico, antigiuridicità, colpevolezza. La figura è stata codificata nella parte generale solo per evitare che per
ogni figura il legislatore dovesse disciplinare due distinte fattispecie, una per il reato tentato e una per quello
consumato.
Il che implica come conseguenza che, ad esempio, al tentativo non si applicano le misure di sicurezza
previste per il reato consumato o le pene accessorie correlate ad esso; mentre se interviene un provvedimento
di amnistia per certi reati consumati (sequestro, furto, ecc.) l’effetto del provvedimento non si estende alle
corrispondenti fattispecie tentate.
Il tentativo, almeno secondo l’opinione tradizionale, è considerato un reato di pericolo, o, meglio, un reato
di pericolo astratto, o presunto.
Il soggetto infatti viene punito non perché ha realizzato un’offesa al bene giuridico, ma perché ha messo in
pericolo il detto bene. Il legislatore, cioè anticipa la punibilità del fatto di reato ad un momento anteriore
rispetto a quello dell’offesa effettiva.
●Iter criminis
La nozione generale del tentativo è correlativa al concetto dell’iter criminis, in cui il reato si presenta
come un processo che si snoda attraverso fasi cronologicamente successive l’una all’altra. Da questo punto di
vista, nel tipo dell’illecito doloso – sia commissivo che omissivo – si individuano quattro fasi: l’ideazione del
reato, culminante nella risoluzione ad agire (o ad omettere); la preparazione del reato; l’esecuzione del reato
(che corrisponde alla non attivazione o al non impedimento dei decorsi causali che conducono all’offesa del
bene giuridico); la consumazione del reato, che coincide con il momento della produzione dell’offesa al bene
protetto, nella forma del danno o in quella del pericolo.
Negli ordinamenti contemporanei, una condotta che si arresti nella prima fase dell’iter criminis (ideazione o
risoluzione) è sempre irrilevante, anche come tentativo, mentre l’avvenuta consumazione del reato esclude per
definizione la figura del tentativo. L’ambito della rilevanza giuridica del tentativo ha, dunque, a che fare con i due
stadi intermedi della realizzazione criminosa, preparazione ed esecuzione.
●L'inizio dell'attività punibile.
L'aspetto più complicato dell'istituto del tentativo è quello di stabilire in che momento comincia il
tentativo, cioé l'attività punibile (ovvero, a partire da quale momento il soggetto che vuole commettere un
delitto diventa punibile).
Un codice autoritario e repressivo, in genere, considera tentativo già il semplice pensare al reato o la sua
preparazione; un codice più garantista, invece, richiederà consistenti atti esterni, cioè che ci si sia avvicinati al
risultato finale.
Sotto questo profilo è evidente la differenza tra il codice Zanardelli e il codice Rocco; il primo, ispirato a
principi liberali, richiedeva che il soggetto avesse cominciato con mezzi idonei l’esecuzione; cioè richiedeva che
il reato fosse entrato in una fase esecutiva, con conseguente esclusione degli atti preparatori; il secondo
ispirato a principi maggiormente autoritari, richiede che il soggetto abbia compiuto atti idonei e non equivoci,
cioè atti che possono tranquillamente rientrare in una fase preparatoria del delitto.
La dottrina cerca di dare una risposta al quesito attraverso una “rilettura” della disposizione di cui all’art.
56 c.p., alla luce, di un’altra norma del c.p., concernente la materia del concorso di persone nel reato, e cioè
l’art. 115 c.p. che esclude la punibilità dell’accordo o dell’istigazione non seguita dalla commissione di un reato.
Ebbene, non è concepibile che atti preparatori siano non punibili se commessi in occasione di un accordo, o
come conseguenza dell’accoglimento di una istigazione, e siano invece da ritenersi punibili, se commessi da un
individuo isolato. È chiaro che si dovrebbe riservare lo stesso trattamento giuridico a tutti gli atti che, pur
senza essere commessi nell’ambito di un accordo o di una istigazione, tuttavia hanno la stessa “natura” di
quegli atti, dichiarati non punibili dall’art. 115 c.p.
Resta tuttavia sempre da stabilire in base a quali caratteristiche siano riconoscibili le attività, “conformi
alla fattispecie”, il cui compimento integra il minimo indispensabile perché si possa parlare di tentativo
punibile. Il criterio di determinazione delle attività rilevanti come tentativo si è concretato nella
individuazione di una categoria di atti, definiti come atti “iniziali”: ai quali si riconosce, in definitiva, qualità
di atti esecutivi – e perciò sicuramente appartenenti alla fattispecie del delitto in itinere – ma contraddistinti
dalla particolare caratteristica di segnare, appunto, l’inizio della esecuzione del reato. Questo momento viene
indicato nella messa in opera dei mezzi predisposti per l’esecuzione del reato. Il criterio della “mesa in opera”
implica che, dal punto di vista soggettivo, agli atti iniziali si ricolleghi con immediatezza, nel piano particolare
dell’agente, il passaggio alla fase terminale dell’azione; e, da un punto di vista oggettivo, essi si presentino con
un carattere di immediata connessione logico-causale con la fase terminale della realizzazione del reato.
Questo rapporto di immediatezza fra l’atto iniziale e l’atto di vera e propria esecuzione del reato non si esprime
tanto in una prossimità spazio-temporale, quanto in un “intrinseco, e logicamente unitario, svolgimento della
loro connessione causale”, a sua volta determinabile in relazione al contenuto dell’azione tipica di ciascun
reato e alle peculiarità del suo manifestarsi nel caso concreto. Ambigua rimane tuttavia, la rilevanza di altri
comportamenti, potenzialmente riconducibili alla categoria degli atti iniziali: come, ad esempio, gli atti di
avvicinamento al luogo del reato, con gli strumenti atti a realizzarlo.
●Struttura. Il tentativo compiuto e incompiuto
La figura del delitto tentato è delineata nell’art. 56 c.p., a norma del quale: “Chi compie atti idonei, diretti
in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento
non si verifica”.
Fattispecie oggettiva.
Per la punibilità del tentativo si richiede, quindi, il compimento di atti idonei diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto. I requisiti essenziali della fattispecie oggettiva del delitto tentato
sono, quindi, l’idoneità e l’univocità degli atti (Esempi: 1) atti idonei ma non univoci (Tizio che si apposta
con un’arma carica aspettando la vittima); 2) oppure univoci ma non idonei (Tizio che spara alla vittima, ma
con un’arma a salve).
Il requisito di idoneità degli atti risponde al principio di necessaria offensività dell’illecito: idoneo è un
atto che può considerarsi capace di raggiungere il risultato, e oggettivamente pericoloso, quindi quello che
presenta queste due caratteristiche: 1) capacità e 2) oggettiva pericolosità. Il relativo giudizio, contrassegnato
dallo schema della cd. prognosi postuma, va effettuato ex ante e in concreto. In particolare, il giudice si colloca
idealmente al momento del fatto e, tenendo conto di tutte le circostanze concrete, verifica, alla stregua delle
conoscenze dell’agente e di un osservatore avveduto che si trovi nella stessa situazione, se gli atti compiuti
rendevano probabile la consumazione del reato come conseguenza della condotta dell’autore. Va osservato,
altresì, che l'idoneità è riferita all'atto e non al mezzo; un atto può essere idoneo anche se il mezzo non lo è (ad
esempio far ingerire dello zucchero non è un atto idoneo ad uccidere, ma se viene somministrato ad un
diabetico allora diventa tale; al contrario il mezzo può essere idoneo, come una pistola, ma può essere
inidoneo l'atto, se l'omicida spara fuori dal raggio di tiro).
Assai discusso è il caso della non riuscita del crimine a causa della predisposizione di una forza
di polizia che è stata informata preventivamente del fatto. Ci si domanda cioè, se l'azione del delinquente,
che non poteva riuscire a causa della presenza della polizia, possa ciononostante ritenersi idonea ed essere
punita a titolo di tentativo. La dottrina propende in genere per la risposta positiva; ragionando diversamente,
infatti, si finirebbe per non punire un soggetto tutte le volte che il suo delitto è stato impedito dalle forze
dell'ordine; quanto poi al requisito della idoneità dell'atto, c'è da dire che effettuando un giudizio ex ante il
tentativo era certamente da considerarsi idoneo, perché in tali casi la mancata realizzazione dell'evento è
dovuta solo a fattori contingenti ed esterni, non prevedibili in anticipo.
Oltre ad essere idonei, gli atti devono essere anche diretti, in modo non equivoco, a commettere il
delitto.
Il profilo dell'univocità degli atti mira ad escludere la punibilità di condotte che possano verosimilmente
condurre a risultati diversi da quelli penalmente rilevanti. Con riferimento a tale requisito, si è posto il
problema di stabilire la soglia oltre la quale gli atti prodromici risultino inequivocabilmene diretti alla
commissione del delitto.
Secondo una parte della dottrina (teoria soggettiva), gli atti sono univoci quando in sede processuale è
raggiunta la prova del proposito criminoso. Questa teoria, però, confonde l'elemento soggettivo di un reato
con l'elemento oggettivo, perché, in pratica, ravvisa il requisito dell'univocità lì dove riesce a ravvisare il dolo.
Inoltre, se la teoria fosse esatta, la legge non avrebbe il bisogno di richiedere espressamente l'univocità
degli atti, perché si tratterebbe di un presupposto implicito, perché nessuno dubiterebbe mai del fatto che il
tentativo necessiti dell’elemento del dolo.
Se la norma parla di non equivocità degli atti, invece, vuol dire che la norma ha richiesto qualcosa di più di
un atto oggettivamente idoneo, ma qualcosa di diverso dalla prova del semplice dolo.
Secondo altra parte della dottrina (teoria oggettiva), invece, gli atti sono univoci quando, in sé
considerati, sono oggettivamente tali da provocare quel determinato evento. Contro questa teoria si è detto
che essa è troppo restrittiva perché di per sé un atto può sempre essere non univoco; se Tizio spara a Caio
senza colpirlo la sua azione di per sé non ci dice nulla perché può essere diretta ad uccidere, ma anche a ferire
o solo a spaventare.
Secondo una teoria intermedia, accolta dalla dottrina dominante, è necessario utilizzare
contemporaneamente il criterio oggettivo e quello soggettivo. L’atto sarà univoco, cioè, quando sia di per sé
idoneo a provocare l’evento, e quando sia raggiunta la prova dell’intento criminoso (è quindi sempre
necessario l’elemento soggettivo, per poter punire il reo). Si ammette cioè che la prova dell’intenzione
dell’agente possa essere desunta sia dagli atti, che dovrebbero, tuttavia, riflettere anche in modo oggettivo
l’intenzione dell’agente, sia da qualsiasi elemento esterno alla condotta.
In conclusione, possiamo affermare che gli atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un
delitto sono quelli che esteriorizzano un'intenzione criminosa, senza però che il crimine sia stato commesso; o
perché manca l'evento, nonostante la condotta sia stata realizzata, oppure perché la condotta è stata realizzata
solo in parte.
Si distingue poi un tentativo compiuto da uno incompiuto. La distinzione la si ricava dal testo
dell’articolo 56, ove è detto “quando l’evento non si compie o l’azione non si verifica”:
- il tentativo compiuto si ha quando il reo ha posto in essere tutto l’iter criminoso, fino alla fine, ma
l’evento non si è verificato (ad es. l’omicida spara un colpo che non colpisce il bersaglio);
- il tentativo incompiuto si ha quando la condotta criminosa non è stata portata a termine (l’intera
azione tipica è stata compiuta, senza però che ne sia seguito l’evento avuto di mira dall’agente)
Le due ipotesi sono del tutto assimilate per quanto attiene alle sanzioni applicabili, a differenza di quanto
era stabilito nel c.p. del 1889, che distingueva espressamente, anche ai fini della pena, la figura del delitto
tentato (corrispondente al tentativo “imperfetto”) da quella del delitto mancato (corrispondente al
tentativo “perfetto”).
A norma dell’art. 56 c.p.

Fattispecie soggettiva.
Il reato tentato è punibile solo a titolo di dolo e non di colpa data la particolare struttura del delitto che
prevede il compimento di atti diretti in modo non equivoco e, pertanto, una situazione psicologica di dolo. La
dottrina è concorde nel ritenere che il dolo del delitto tentato sia identico al dolo del corrispondente delitto
consumato. Si sottolinea, però, che l’accertamento del dolo, a differenza che nel delitto consumato, precede, e
non segue, la valutazione che concerne la rilevanza degli elementi della fattispecie oggettiva. Solo in rapporto
al fine perseguito dall’agente è possibile, infatti, stabilire l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti.
Con riferimento alle varie tipologie di dolo, una questione molto controversa è quella che concerne la
compatibilità fra il delitto tentato e il c.d. dolo eventuale. La dottrina dominante esclude la
compatibilità del delitto tentato con il dolo eventuale data la ritenuta incompatibilità tra l'azione diretta in
modo non equivoco a delinquere (che presuppone il dolo diretto) e l’atteggiamento psicologico di chi,
perseguendo un fine diverso, si rappresenti soltanto come possibile il verificarsi di un evento secondario e,
ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla (Ad esempio: Tizio dà fuoco ad una palazzina
prevedendo e accettando il rischio che vi dorma qualcuno e che muoia; può rispondere - oltre che di incendio -
di tentato omicidio con dolo eventuale?). L’opposta tesi minoritaria, condivisa da Fiore, ritiene legittima
l’imputazione di atti di tentativo anche a titolo di dolo eventuale. Non si comprende, infatti, perché ciò che, al
momento dell’azione, sarebbe sufficiente a costituire l’agente in dolo rispetto al delitto consumato, dovrebbe,
ex post, ritenersi insufficiente se l’evento, poi, non si verifica per ragioni indipendenti dalla volontà
dell’agente. Né si comprendono appieno le motivazioni per cui gli elementi idonei ad essere apprezzati come
rappresentazione e volontà del fatto nell’ambito della nozione generale, del dolo, non lo sarebbero più quando
si tratti di delitto tentato.
Nessun dubbio, invece, sussiste circa la compatibilità del tentativo con quella particolare forma di dolo
diretto di secondo grado che è il dolo alternativo. Il dolo alternativo, infatti, sussiste se l’agente si
rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta
cosciente e volontaria, sicché già al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato egli deve
prevederli entrambi.
●Tentativo e circostanze
Con riferimento alle circostanze del delitto tentato, nessuna questione sorge in merito al tentativo
circostanziato di delitto che si realizza allorchè l’azione di tentativo si presenta essa stessa corredata dalla
circostanza o perché preesistente all’azione stessa (es. qualità personali, motivi a delinquere: se Tizio tenta di
uccidere suo padre, ma senza riuscirvi, risponde di tentato omicidio con l'aggravante del rapporto di
parentela.) o perché l’accompagna nel suo svolgersi (es. tempo, luogo). Ed invero, non sembrano sussistere
ostacoli di ordine strutturale o giuridico alla combinazione della fattispecie di cui all’art. 56 c.p. con quella del
reato circostanziato, e ciò quand’anche la circostanza non si sia ancora realizzata (es. Tizio tenta, senza
riuscirvi, di forzare la porta d’ingresso di un’abitazione per commettere un furto); qualche dubbio, sotto il
profilo del rispetto del principio di legalità, è stato sollevato in ordine all'ammissibilità del tentativo di
delitto circostanziato, laddove la circostanza si sarebbe compiutamente realizzata ove il delitto fosse stato
condotto a compimento (tentativo di un delitto che se fosse pervenuto alla consumazione sarebbe stato
qualificato da una circostanza aggravante o attenuante), tale è ad es. nel piano dell’agente l’azione diretta allo
svuotamento di una cassaforte contenente ingenti valori. Sulla configurabilità del tentativo di delitto
circostanziato la giurisprudenza è generalmente orientata in senso positivo, mentre la dottrina propende per
la tesi negativa. Quest’ultima conclusione è condivisa anche da Fiore, il quale osserva che, e se è vero che l’art.
56 c.p. può astrattamente combinarsi con tutte le fattispecie di delitto, sia semplice sia circostanziato, è d’altra
parte innegabile che l’art. 59 c.p. nel disciplinare l’imputazione oggettiva della circostanza, ne presuppone in
ogni caso l’esistenza. E, dunque, almeno in quanto trattasi di circostanza che si realizza solo in presenza della
compiuta realizzazione della fattispecie, violerebbe il principio di legalità l’imputazione oggettiva di un
elemento accidentale del reato, che non si è (ancora) realizzato.
●La configurabilità del tentativo nell'ambito delle varie tipologie delittuose.
Vi sono delitti o tipologie di reati che risultano incompatibili con i requisiti strutturali del tentativo.
Innanzitutto, in considerazione del tenore testuale dell'art. 56 cp, il delitto tentato non è compatibile con i
reati contravvenzionali. La dottrina riconduce questa limitazione, oltre alla generica minore gravità delle
contravvenzioni, anche al fatto che le contravvenzioni rappresentano per lo più forme anticipate di tutela di
determinati beni giuridici, strutturalmente perciò non compatibili con la struttura del tentativo.
In secondo luogo, la necessità che gli atti siano univocamente diretti a delinquere esclude la compatibilità di
tale forma di manifestazione del reato con il delitto colposo.
Non è configurabile neppure il tentativo di un delitto preterintenzionale. Da un lato, infatti, in questo
tipo di delitto manca, per definizione, la volontà di produrre l’evento perfezionativo; dall’altro, allorché
l’evento “più grave” non si verifica, il dolo dell’autore non copre altro se non il fatto (consumato o tentato) che
corrisponde al reato “minore”.
Diverse sono le tesi con riferimento ai reati di pericolo. Si riconosce generalmente che il delitto tentato
non è configurabile nei reati c.d. di pericolo concreto, perché in questi tipi di illecito la condotta che
determina l’insorgere di un pericolo di lesione per il bene giuridico assume per ciò solo rilevanza come reato
consumato. Il delitto tentato è invece configurabile in relazione alle fattispecie di pericolo astratto
o presunto, essendo perfettamente ipotizzabile la rilevanza di atti idonei, univocamente diretti a produrre la
situazione normativamente ritenuta pericolosa, che per un intervento esterno siano bloccati sul nascere. Si
pensi a chi viene sorpreso e bloccato mentre sta rubando un’auto.
Divergenti sono le opinioni con riguardo ai reati omissivi propri, laddove si ravvisa l'incompatibilità con
il tentativo in quanto, in difetto di scadenza del termine utile per compiere l’azione doverosa, vi sarebbe
sempre la possibilità di compiere l'azione dovuta con esclusione della punibilità e, in caso di scadenza del
termine, vi sarebbe reato consumato. La dottrina più recente ritiene, invece, configurabile il tentativo di delitto
omissivo proprio qualora il soggetto obbligato si sia posto in condizione, prima della scadenza del termine, di
non eseguire l'azione doverosa (l’obbligato, prima della scadenza del termine, compia atti positivi idonei
diretti in modo non equivoco a rendere impossibile l’adempimento), come nel caso del pubblico ufficiale che
predisponga la propria partenza in coincidenza con la scadenza dei termine per il compimento di un atto
dovuto. Nessun dubbio, ovviamente, per i delitti omissivi impropri, nei quali, è ipotizzabile tanto il
tentativo quanto la desistenza. Si pensi alla madre che ometta di nutrire il proprio bambino, allo scopo di farlo
morire, senza riuscire nell’intento.
Nei reati di pura condotta il delitto tentato è, ovviamente, configurabile solo nella forma del tentativo
incompiuto, perché se la condotta descritta dalla norma incriminatrice si è interamente realizzata vi è la
consumazione del reato.
Nei reati unisussistenti, cioè quei reati che si perfezionano con un unico atto (ad esempio l’uso indebito
di una carta di credito), il delitto tentato è concepibile, all’opposto, solo nella forma del tentativo perfetto (o
delitto mancato): per la configurabilità del tentativo incompiuto (o delitto tentato in senso stretto) si richiede
infatti che la condotta si configuri come un iter criminis frazionabile, così da potersi concepire la interruzione
dell’azione esecutiva.
Quanto ai reati abituali si ammette la configurabilità del tentativo, in quanto è possibile ipotizzare il
compimento “senza successo, di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere quei fatti che, da soli
o aggiungendosi ai precedenti, avrebbero integrato la serie minima richiesta per l’esistenza del reato abituale”.
Nessun dubbio, invece, può sorgere circa la configurabilità del delitto tentato nei reati permanenti,
sempre che la condotta esecutiva sia frazionabile e l’interruzione dell’iter criminis intervenga prima che si
realizzi la situazione, il cui instaurarsi e la cui eventuale permanenza nel tempo corrisponde alla peculiare
forma in cui si manifesta la consumazione di questo tipo di reato.
Nei delitti sottoposti a una condizione oggettiva di punibilità il tentativo è configurabile, sempre
che la condizione si sia effettivamente verificata e il suo verificarsi non richieda necessariamente la
consumazione del delitto.
Il tentativo non è invece giuridicamente ammissibile nei delitti c.d. di attentato (o a consumazione
anticipata), la cui fattispecie consiste nel compimento di un fatto “diretto a” realizzare un determinato evento
o si concreta nell’”attentare” a qualcuno o a qualcosa. L’inammissibilità del tentativo deriva qui dal fatto che la
condotta necessaria e sufficiente per il delitto tentato è già abbastanza per la consumazione del delitto.
Il delitto tentato è punito con una pena sensibilmente inferiore a quella prevista per il corrispondente
delitto consumato: nei casi di ergastolo è infatti applicabile la reclusione da dodici a ventiquattro anni; negli
altri casi, la pena stabilita per il delitto consumato è diminuita da un terzo a due terzi.

DESISTENZA VOLONTARIA
L’art. 56 co. 3 c.p. dispone: “Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena
per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso”.
La desistenza volontaria ricorre quando la condotta tipica, nel corso del suo sviluppo e prima che
giunga a compimento, viene interrotta per decisione dello stesso autore, che non risponderà, quindi, degli atti
di tentativo. Naturalmente, è fatta salva la responsabilità del “colpevole” per il reato diverso, che egli abbia
eventualmente realizzato, prima di interrompere il tentativo del delitto che aveva di mira. Ad es.: Tizio vuole
uccidere Caio ma, al momento di premere il grilletto, rinuncia. In questo caso il colpevole è punito con la pena
stabilita per gli atti effettivamente compiuti; in pratica Tizio potrà essere incriminato solo per porto d'armi
abusivo.
Dall’esame della norma si desume agevolmente che: a) la speciale ipotesi di irrilevanza degli atti di
tentativo, in esso prevista, concerne esclusivamente la figura del tentativo incompiuto, mentre è
strutturalmente incompatibile con l’ipotesi del c.d. delitto mancato; b) in caso di desistenza volontaria la
fattispecie oggettiva del delitto tentato (nella forma del tentativo incompiuto), richiede non solo i requisiti
della idoneità e univocità degli atti, ma anche quello della interruzione volontaria dell’iter esecutivo, che priva
gli atti di tentativo, fin lì compiuti, della loro caratteristica rilevanza e impedisce di configurare la fattispecie
criminosa del delitto tentato.
Si ritiene che la volontarietà della desistenza sussista ogniqualvolta, alla volontà di realizzare il fatto
tipico, si sostituisce nel piano intenzionale dell’agente, la volontà di non proseguire nella condotta tipica. È
evidente, che il carattere della volontarietà dovrà essere escluso non solo quando l’agente sia privato di ogni
facoltà di scelta, ma anche quando egli si sia trovato di fronte ad una situazione tale che, pur non rendendo
assolutamente impossibile la prosecuzione dell’azione, tuttavia non lasciava al soggetto un normale margine di
autonomia decisionale. Si pensi al ladro che desiste dal sottrarre la cosa perché si accorge di essere stato
scoperto.
Secondo una prima opinione volontario è l’atto consapevole e cosciente. Volontarietà non è sinonimo di
spontaneità; il reo potrebbe essere indotto a cambiare idea anche da circostanze esterne, come la presenza
delle forze di polizia, oppure dalla consapevolezza di non riuscire a superare i sistemi di difesa. È dunque
irrilevante il motivo per cui il soggetto ha desistito e ciò che conta è unicamente che la desistenza sia dovuta
ad una scelta non coartata dall’esterno.
Secondo una diversa opinione i motivi sono invece rilevanti; volontarietà sarebbe sinonimo di spontaneità;
il che implica l’assenza di coazioni esterne. Infatti quando il soggetto rinuncia a compiere il fatto per la
presenza di coazione esterna siamo nell’ambito del tentativo e non della desistenza; a ragionare
diversamente si finirebbe per applicare la norma sulla desistenza a colui che tenta di penetrare in casa per
rubare ma vi rinuncia perché non è riuscito a superare la porta blindata. È necessario invece che la
desistenza si sia avuta per effetto di una libera scelta, essendo esclusa tutte le volte che il reo abbia
rinunciato perché si trovava nell’impossibilità di proseguire.
Ovviamente la spontaneità non implica che il soggetto debba essersi moralmente ravveduto. Il reo potrebbe
essere indotto a desistere dalla paura di essere punito, oppure dall’intenzione di commettere il reato in un
secondo momento. Ciò che conta, comunque, è che la scelta sia stata libera.
Se nei delitti commissivi è sufficiente, ad integrare la desistenza, che l’agente arresti in itinere il compimento
degli atti diretti a commettere il delitto, nei delitti omissivi, all’inverso, si richiede, ai fini della desistenza,
che l’autore si attivi nella direzione opposta: quella, cioè, del compimento dell’azione doverosa.
In particolare, nei reati omissivi impropri si richiede che l’agente intraprenda la condotta dovuta: come nel
caso della madre che riprende a nutrire l’infante, che aveva deciso di lasciar morire.
Quanto ai reati omissivi propri, la desistenza appare configurabile negli stessi termini (nei limiti in cui sia
configurabile, in astratto, la stessa fattispecie del tentativo).
Secondo l’opinione tradizionale, la non punibilità della desistenza è fondata su una valutazione di ordine
politico-criminale. Una parte della dottrina fa leva sulla funzione general preventiva della pena per cui, finché
non si è verificata la consumazione del reato, è opportuno mettere a disposizione del reo una via d’uscita,
consistente nella promessa di impunità per il tentativo compiuto, se l’autore volontariamente rinunzia alla
prosecuzione dell’azione. Questa concezione è stata criticata, soprattutto perché la sua validità presuppone
l’idea che l’uomo si comporti in ogni occasione come un essere perfettamente razionale.
La dottrina più recente ricerca, perciò, il fondamento della desistenza nella funzione special preventiva,
muovendo dal rilievo che la condotta di colui che, di sua iniziativa, è ritornato sui propri passi manifesta,
nell’autore, una scarsa e riluttante determinazione a delinquere, per cui, nei suoi riguardi, non sorgerebbero
concrete esigenze di prevenzione, in particolare sotto il profilo della necessità di una pena rieducativa.

RECESSO ATTIVO
L’art. 56 co. 4 c.p. stabilisce che, se il colpevole di un delitto tentato, “volontariamente impedisce
l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.
Il recesso attivo ricorre quando il colpevole di un delitto tentato volontariamente impedisce il verificarsi
dell’evento a cui l’azione era diretta (il reato è ormai compiuto, ma il reo fa di tutto per eliminarne gli effetti).
Ad es. Tizio ha sparato ma, prima che Caio muoia, lo porta in ospedale per farlo curare perché si è pentito. In
tal caso egli soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.
Dall’esame della norma si desume agevolmente che: 1) la disciplina ivi contenuta si applica solo alla figura
del tentativo compiuto, quando cioè l’azione si compie, ma non si verifica l’evento; 2) la fattispecie oggettiva
del tentativo richiede non solo i requisiti di idoneità e univocità degli atti, ma anche quello dell’interruzione
volontaria dell’evento.
Desistenza e recesso sembrano, dunque, presentarsi come fattispecie rigidamente alternative, poiché l’una
è inerente ad una azione “che non si compie”, mentre l’altro presuppone, per definizione, un tentativo perfetto.
Il requisito della volontarietà, comunque, deve presentare, nel recesso, le stesse caratteristiche che
contrassegnano la volontarietà della desistenza. In particolare, risultano del tutto irrilevanti i motivi che
hanno indotto l’autore ad intraprendere il “controintervento”, atto a paralizzare le conseguenze dell’azione di
tentativo già compiuta.
Non sempre è agevole distinguere fra desistenza e recesso, il problema si pone, in particolare, in
materia di reati omissivi impropri, ove la condotta doverosa corrisponde in ogni caso a un’attività impeditiva
dell’evento (art. 40 cpv. c.p.). Ad esempio un infermiere vuole uccidere un paziente e allo scopo smette di
somministrargli un farmaco vitale; se si pente e decide di riprendere le cure si applica la norma desistenza o
quella sul recesso attivo? Si è sostenuto, in dottrina, che, allorquando, per paralizzarne l’efficienza del
processo causale in atto, è sufficiente intraprendere l’azione dovuta, si abbia desistenza, mentre si avrebbe
recesso attivo, allorché è necessario intraprendere una condotta diversa, atta a scongiurare l’evento. Quindi
riprendendo l’esempio: se per evitare la morte è sufficiente la semplice ripresa della somministrazione dei
medicinali siamo nel campo della desistenza; se invece la salute del paziente è già compromessa e per salvarlo
occorre qualcosa in più, cioè adoperarsi attivamente, siamo nel campo del recesso attivo.

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