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PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

Etimologia (3 significati)

- Communis (il bene comune): il valore che vi è al di sotto è proprio quello di un comune "ethos" a cui appartenere,
ovvero una norma di vita, oppure un atteggiamento etico dell’uomo;
- Cummoenia (avere mura comuni): significa sia, da una parte, avere delle fortezze innalzate che difendono, che
proteggono dall'esterno, sia identificare meglio e distinguere meglio ciò che sta dentro da ciò che sta fuori, l'ingroup
dall'outgroup;
- Cummunia (avere doveri comuni): rimanda molto all'importanza di avere gli stessi diritti e gli stessi doveri e rimanda
al concetto a sua volta di reciprocità e fiducia nell'altro.

Se guardiamo bene tutte le definizioni che abbiamo dato, il prefisso fondamentale, ciò che unisce tutte le definizioni, è
quello del "cum", quindi viene sottolineato il carattere di relazione, del sistemainterattivo, di contesto condiviso in cui
noi cresciamo.

UNA PRIMA DEFINIZIONE ITALIANA DI COMUNITÀ: PIERO AMERIO

Piero Amerio, psicologo sociale e uno dei fondatori della psicologia di comunità in Italia, dà questa definizione: “la
comunità può consistere in un particolare luogo geografico oppure in una rete di relazioni che forniscono amicizia,
stima e sostegno tangibile”. Fondamentalmente, infatti, quando noi parliamo di comunità distinguiamo due ordini di
problemi: da una parte, c'è la necessità di inquadrare il discorso prendendo in considerazione il tema della
condivisione o non condivisione del dato geografico. Dall'altra, la presenza o meno (quindi l’inclusione o l’esclusione)
di dinamiche conflittuali all'interno della stessa. Oggi, quando parliamo di comunità, parliamo molto più di un fatto
relazionale, piuttosto che spaziale, cioè la copresenza, la condivisione di uno spazio geografico non sembra essere più
un dato fondamentale. Ad esempio, i social network, comunità virtuali in cui le persone intrattengono delle relazioni
per un bisogno di entrare in contatto con l'altro e per acquisire dall'altro, scambiare con l'altro delle informazioni.
Quello che succede in rete è fondamentalmente quello che succede anche nella comunità reale: il soggetto si forma,
quello che viene chiamato un capitale sociale di rete, quindi c'è un senso di vicinanza, di reciprocità con l'altro, c'è una
comunione di conoscenze, di scambi di informazioni e c'è la possibilità di sentirsi vicini e quindi di essere accettati. Gli
studi in realtà, rispetto al tema più generale delle comunità virtuali, danno dei risultati contrastanti rispetto a questo,
cioè da un lato alcuni studi mettono in evidenza più un carattere di isolamento che la persona affronta nel momento
in cui entra all'interno di queste comunità, mentre dall'altro viene molto sottolineata invece la possibilità di
condividere conoscenze e informazioni, e quindi di facilitare la possibilità di contatto con l'altro. Un esempio
particolare sono le community networks, quei particolari tipi di comunità virtuali a cui partecipano persone che
condividono uno stesso spazio geografico, per cui non solo queste facilitano la relazione con l'altro, ma anche lo
scambio delle informazioni rispetto, per esempio, alle attività del quartiere, le sue problematiche maggiori, e quindi
favoriscono anche una maggiore partecipazione del cittadino alla propria comunità. Rispetto invece all'inclusione ed
esclusione delle dinamiche conflittuali, quello che possiamo dire è che le comunità sono dei sistemi sociali complessi
all'interno dei quali avvengono sia delle forze di stessa origine che contrarie. Se parafrasiamo Colley possiamo dire,
per esempio, che la comunità è un insieme di reti di relazioni che appartengono più ad uno spazio mentale, che ad
uno spazio geografico, e contraddistinte da un campo di forze e contro-forze all'interno del quale gli individui vi
appartengono, instaurando dei legami basati sullo scambio reciproco.

LA COMUNITÀ - EXCURSUS STORICO

Pensiero classico: si identifica un'entità sovra-individuale che trascende l'individuo sia da un punto di vista politico
che da un punto di vista etico. Facciamo riferimento, ad esempio, alla Polis di Aristotele, dove all'interno di essa il
soggetto è politico, è un soggetto che si relaziona all'altro, viene garantita al suo interno sia la libertà individuale, da
una parte, che l'appartenenza ad un comune ethos, ad una comune etica.
Rinascimento: c’è la crisi della concezione classica, l'attenzione si sposta da essa, come fatto sovra-individuale e
trascendentale, all'individuo stesso che è capace di decidere per il suo destino ed è fondamentalmente un soggetto
attivo, il motto di questa fase lo ritroviamo all'interno della celebre affermazione di Cartesio del "cogito ergo sum".
Pensiero giusnaturalistico: l'attenzione si sposta da “un sociale che non è più qualcosa di sovrumano, ma è
assolutamente umano” ed è regolato dalle contrattazioni che gli uomini di una stessa comunità stipulano tra di loro e
che regolanoi rapporti e vanno a identificare la possibilità di avere degli stessi diritti senza ledere la libertà dell'altro.
Pensiero romantico: esalta un collettivo sociale che è tenuto insieme da un sentimento di appartenenza, più che da un
patto o da una negoziazione tra i membri stessi. Quindi è un legame che tiene “l’uomo legato all’uomo”, una visone
che gli psicologi di comunità utilizzano ancora oggi.

LA COMUNITÀ SECONDO TÖNNIES E WEBER

Ferdinand Tönnies (sociologo): la comunità si fonda sulla comprensione, cioè “un modo di sentire comune e reciproco
associativo”, un sentimento all'interno del quale si sviluppa una “volontà collettiva”, espressione della sua unità.
Inoltre, egli distingue la comunità dalla società, che invece è un prodotto degli interessi, degli egoismi umani.

Max Weber (sociologo/filosofo): l'orientamento all'azione all'interno di una comunità si basa proprio “su un
sentimento di una comune appartenenza che è soggettivamente sentita dalla persona”, quindi che è diversa da
persona a persona all'interno della stessa. Anche qui troviamo una differenza tra la comunità e l'associazione, in cui
invece la disposizione all'agire sociale poggia su un'identità di interessi oppure su interessi che sono motivati
razionalmente rispetto al valore e allo scopo.

Gli elementi essenziali della comunità, nella visione di Tönnies e Weber, sono fondamentalmente questi:
- Interdipendenza delle relazioni tra le persone appartenenti;
- Forte grado di omogeneità rispetto ai valori e alle norme (valori e norme condivise);
- Il loro prospettarsi come degli elementi soggettivamente percepiti e interiorizzati nella persona;
- Forte senso dell'ingroup rispetto all'outgroup.

LA COMUNITÀ COME UN SENTIRE: IL SENSO DI COMUNITÀ

Seymour Sarason: psicologo sociale e professore emerito all’università di Yale, è considerato il padre della psicologia
di comunità. Egli definisce il senso di comunità come “quella percezione di similarità con gli altri, una riconosciuta
interdipendenza con gli altri, una disponibilità a mantenerla offrendo o facendo per gli altri ciò che si aspetta gli altri
facciano per sé. C'è la sensazione che la comunità sia qualcosa di stabile e affidabile”.

David W. McMillan: definisce il senso di comunità come “un sentimento che tutti i membri hanno di appartenervi e di
essere importanti gli uni per gli altri e una condivisione di bisogni che saranno soddisfatti soltanto dall'agire comune,
dallo stare insieme”.

Gli elementi fondanti del senso di comunità per David W. McMillan e il suo collega, David M. Chavis, sono:
- Senso di appartenenza: il sentirsi parte di qualcosa di più grande, riconosciuti dentro un'unità più generale.
- Influenza: collegata al concetto dell'empowerment, è la percezione di essere importanti da parte della persona e la
possibilità di andare ad intaccare e modificare la struttura della società. L'influenza è direttamente proporzionale
all'ampiezza della comunità; specialmente in quelle molto ampie, come avviene nelle situazioni odierne, si è più
predisposti a cadere nell'anonimato e nella difficoltà di assumersi delle responsabilità, rispetto alla comunità stessa
- Integrazione dei bisogni: l'aspettativa che i propri bisogni, i propri desideri e i propri scopi possano essere
soddisfatti, all'interno della comunità, da parte di un'azione collettiva e unita.
- Connessione emotiva condivisa: l'insieme di tutti quei valori, quelle credenze e quelle aspettative comuni.

Il senso di comunità e il capitale sociale: il senso di comunità è un concetto fondamentale perché è attraverso questo
sentirsi appartenenti e riconosciuti dall'altro che il soggetto prova benessere. Uno degli scopi della psicologia di
comunità è assolutamente quello di garantire il benessere dell'individuo e della collettività e migliorare la qualità
della vita. Il senso di comunità è un fattore di protezione per la salute, sia in termini psicologici che fisici. Il concetto
poi è associato a quello di capitale sociale, ovvero il grado di coesione sociale che esiste all'interno di una comunità. Il
capitale sociale ha un costrutto multilivello e multidimensionale, che prende in considerazione quattro dimensioni
fondamentali: comportamentale, cognitiva, formale e informale. Queste quattro andranno a intersecarsi tra di loro.

LA NASCITA E LA DEFINIZIONE DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

Nel 1960 in America si sviluppa un'attenzione nuova all'origine dei problemi sociali e la legittimazione avviene nel
1965 all'interno di un convegno per la “formazione degli psicologi per l'igiene mentale di comunità” (l'attenzione si
sposta sul disagio mentale). C'è quindi il fallimento di una concezione del disagio mentale di tipo individualistico,
biologico e intrapsichico; questo comporta anche una concezione nuova della cura, poiché l’istituzionalizzazione
e la cura all'interno degli istituti manicomiali e degli ospedali psichiatrici non è più ritenuta idonea. Questo perché
alla concezione nuova di disagio si affianca anche una nuova concezione dell'individuo, che non può essere
considerato se non all'interno del proprio ambiente di vita. È necessaria, oltre che una nuova concezione della
malattia, anche una nuova modalità di cura che parta da un approccio interdisciplinare, perché il disagio non
appartiene più solo all'individuo ma appartiene alla relazione che questo instaura all'interno della società e quindi ha
un carattere bio-psicosociale. Un altro punto che viene focalizzato dagli psicologi di comunità è l'importanza della
ricerca, che è collegata al cambiamento sociale, e questo è un concetto che si ritrova molto nell'opera di un
importantissimo psicologo di comunità che è Kurt Lewin. La ricerca, quindi, non nasce soltanto dalla necessità di attuare
un'attività diagnostica, ma serve anche ad un'attivazione dei membri della comunità, a un cambiamento all'interno di
essa e la relazione tra ricerca (teoria) e il cambiamento (pratica) è circolare.

La psicologia di comunità viene legittimata, per esempio, attraverso l'edizione di questo volume dello psicologo David
Rappaport del 1977: “Community Psychology Velius Research and a Action”, dove la psicologia di comunità viene
definita come “un'ideologia, un insieme di valori e un atteggiamento preciso”. L'ideologia si muove all'interno di un
nuovo approccio, che è ecologico-sistemico. I valori fanno riferimento soprattutto alla promozione delle competenze
del soggetto, quindi con un'attenzione nuova alla persona e non più al deficit, alla problematicità che la persona
porta. Si ricerca le competenze residue, le risorse che il soggetto ha e con le quali si muove all'interno della comunità
stessa. L'atteggiamento preciso quindi che la psicologia di comunità prevede è un atteggiamento di tipo preventivo.
All'interno di questa nuova visione anche lo psicologo cambia il suo ruolo e l’identità. Lo psicologo è un operatore
sociale, non è più un professionista chiuso all'interno del suo studio clinico, come siamo abituati a pensare, o
all'interno del laboratorio svolgendo un'attività da ricercatore, ma è un professionista che si cala nel sociale, che si
impegna attivamente per la promozione del cambiamento sociale. Questo cambiamento avviene attraverso
un'attività di ricerca continua, fondamentale per evidenziare i legami presenti tra i servizi e le varie strutture del
territorio, oltre che per favorire un lavoro di rete.

Kenneth Heller: la psicologia di comunità è un orientamento rivolto più alla prevenzione che al trattamento, non si
incentra sul deficit ma sulle competenze e i modi per rafforzarle e si focalizza sull'interazione tra persona e ambiente.
Quello che avviene è un cambiamento dell'oggetto di studio, che non è più l'individuo o la società, e il problema (il
disagio) non è più visto come insito all'interno dell’individuo o di problematiche sociali, ma all'interno della relazione
che tra di questi si sviluppa.
Jim Orford: nel suo volume “Psicologia di Comunità” (1995) vede questa come “un'area di intervento, una disciplina
accademica e un patrimonio conoscitivo e tecnico che forma una professione di aiuto”.
Piero Amerio: in “Psicologia di Comunità” (2000) ne parla come di “un'area di ricerca e di intervento sui problemi
umani e sociali, che si rivolge all'interfaccia tra la sfera individuale e la sfera collettiva, tra sfera psicologica e sociale”.

Il disagio nell’approccio ecologico e sistemico: il disagio non è più una condizione insita nell’individuo né una
condizione determinata unilateralmente dalle strutture sociali, ma è all’interno della relazione. Per spiegare il disagio
psicologico e sociale, nel corso del tempo, si è fatto sempre riferimento a due teorie fondamentali:

1) Teoria eccezionalista (o della selezione sociale): il disagio è causato da alcuni fattori individuali casuali
(predisposizione da parte del soggetto) e la modalità di cura deve essere focalizzata sull'individuo e si formalizza, per
esempio, in un intervento di tipo farmacologico, psicoterapeutico o riabilitativo (trattamento riparativo);
2) Teoria universalistica: il disagio è una conseguenza di un'iniqua distribuzione delle risorse dell'ambiente. Questo
significa che il disagio si trova all'interno della società e quindi è necessario un intervento che vada a modificare
queste situazioni, soprattutto a livello sociale, come per esempio gli interventi preventivi.

GLI OBIETTIVI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

PREVENZIONE: legittimata, dal punto di vista legislativo, dalla legge 833 del 1978, la Legge sulla Riforma Sanitaria,
che nell'articolo 1 parla proprio della “promozione, del mantenimento e del recupero della salute fisica e psichica di
tutta la popolazione senza distinzioni di condizioni individuali e sociali” e nell'articolo 2 parla anche di “prevenzione
delle malattie e degli infortuni in ogni contesto di vita e di lavoro”. Quando parliamo di prevenzione, parliamo
fondamentalmente di tre tipi, descritti per esempio da Korchin e Caplan nell'ambito psichiatrico, e sono:

Prevenzione primaria: riduce la possibilità che una malattia si evidenzi all'interno di una popolazione e agisce prima che
la malattia possa manifestarsi, ad esempio nel caso dei vaccini;
Prevenzione secondaria: interviene nel momento in cui la malattia già si è diffusa all’interno della popolazione, ma
limita il suo diffondersi e il suo cronicizzarsi e si identifica con la diagnosi e la cura precoce, come per esempio le
campagne che invitano la popolazione ad effettuare visitedi controllo e screening in campo oncologico;
Prevenzione terziaria: attenua le conseguenze della malattia in chi l’ha già avuta, il senso di deficit e la possibilità del
soggetto di sentirsi con un handicap di qualche tipo. Si identifica con la cura e la riabilitazione. Lo scopo è di impedire,
per esempio, il progredire della malattia, la percezione di handicap e la possibilità della morte. Un esempio può
essere il procurare una protesi a chi ha dovuto subire un’amputazione o insegnare loro un nuovo lavoro.

Altre definizioni di prevenzione, invece, prendono in considerazione solo il gruppo target, e quindi identificano degli
interventi che possono essere universali, quindi rivolti a tutti, oppure selettivi, rivolti soltanto alle persone a rischio, o
ancora individuali, rivolti alla persona nello specifico. Definizioni ancora più complesse prendono in considerazione sia
il gruppo target che i livelli di intervento, dei quali ne sono stati identificati cinque: individuale, microsistema,
organizzazione, comunità e macrosistema (esempio: formulazione delle leggi). Quindi, gli interventi preventivi
agiscono prima che il disagio si manifesti e agiscono su quei fattori che facilitano o rallentano la possibilità delle
emergenze del disagio. Nel primo caso parliamo dei fattori di rischio, che espongono il soggetto alla possibilità
maggiore di malattia, mentre nel secondo caso i fattori di protezione, che espongono il soggetto in una possibilità
minore di malattia. Collegato al concetto di comunità è il concetto di resilienza. La resilienza deriva da una
concezione di ambito fisico, ed è fondamentalmente la capacità della materia di resistere agli urti, assorbendone
un'energia positiva. Nel campo della psicologia identifica la capacità del soggetto di resistere ai fattori di rischio e agli
eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita in seguito ad essi.

Abbiamo però delle difficoltà rispetto all'insediamento dell'ottica e della strategia preventiva; infatti, c’è ancora un
predominio della concezione eccezionalista e vi è un minor consolidamento dell’ottica preventiva rispetto a quella
riparativa. Inoltre, è presente una maggiore sostenibilità di un orientamento temporale verso il presente e,
soprattutto, c'è una scarsa domanda sociale di interventi di prevenzione, da parte della comunità, nonché
un'emergenza continua che porta ad attuare degli interventi subito, che sono sempre interventi di cura, quando la
malattia è già sorta. Infine, ci sono da prendere in considerazione le caratteristiche peculiari proprie delle scienze
sociali. Quando parliamo di prevenzione, parliamo di due direzioni fondamentali: una prevenzione di tipo “proattiva”,
che va ad agire prima che il disagio si manifesti per eliminare i fattori di stress ambientali, e quindi promuovere in
questo modo il benessere del cittadino, e gli interventi invece di natura “reattiva”, che si identificano
fondamentalmente con la cura, in qualche modo, con la possibilità di aumentare le competenze dell'individuo di
fronte agli eventi stressanti (come la consulenza, le strategie educative e formative) o più terapeutici (come i gruppi di
auto-aiuto).

PROMOZIONE DEL BENESSERE: è il secondo importante obiettivo della psicologia di comunità. Vi sono differenti
definizioni di benessere, a seconda del criterio utilizzato; abbiamo dei criteri esterni, per cui il benessere è visto come
una condizione di vita ottimale e si è in possesso di tutte le caratteristiche migliori da un punto di vista dei valori
condivisi, e parliamo in questo senso del benessere oggettivo o sociale. Oppure, se prendiamo in considerazione dei
criteri interni, si avrà un benessere soggettivo, cioè il benessere basato sul vissuto soggettivo e la valutazione
personale che la persona fa rispetto all'appagamento della propria vita. Il benessere soggettivo, però, non viene
definito come un criterio stabile perché varia da momento a momento, per questo si fa maggiormente riferimento oggi
a un nuovo costrutto che è quello del benessere psicologico. Il benessere psicologico viene sottolineato da Carol Riff
attraverso la votazione di sei caratteristiche fondamentali, che sono:

1) Relazioni positive con le altre persone: avere un buon senso di comunità;


2) Accettazione di sé;
3) Autonomia: sentirsi autonomi e indipendenti;
4) Padronanza dell’ambiente: avere un potere, una possibilità di agire, una padronanza sull'ambiente;
5) Avere uno scopo nella vita;
6) Crescita personale: un processo dinamico, che dura per tutto il corso della nostra vita.

LE ORIGINI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ: LE TRE RIVOLUZIONI

La prima rivoluzione nel campo della salute mentale

La prima la possiamo inserire all'interno del contesto della Rivoluzione Francese da parte di un medico, Philippe Pinel,
che scarcerò proprio in quegli anni i soggetti psichiatrici detenuti. La concezione era che il soggetto malato con una
sofferenza psichica non fosse semplicemente un antisociale, un delinquente o posseduto dal demonio, ma fosse
portatore di una sofferenza che necessitava di una modalità di trattamento diversa. Le sue idee vennero riprese
cinquant'anni dopo da Eli Todd, uno psichiatra americano che vedeva nella comunità l'origine dei problemi della
malattia mentale perché proprio la società, nel frustrare le aspettative di un benessere e di una qualità di vita molto
alta da parte dell'individuo, concorre alla formazione della malattia stessa. È la società stessa a dover in qualche modo
prendersi cura dei malati e occuparsi del trattamento di questepersone. Entrambi, quindi, affermavano la necessità di
un trattamento umanitario. Alla fine del 1800, però, la concezione del trattamento umanitario per i soggetti con una
sofferenza psichica fallisce, per lo più a causa del momento storico-culturale che l'America affronta: un'eccessiva
industrializzazione e il pervadere di un'ottica di tipo individualistica. In quel periodo in più gli psicologi erano
assolutamente staccati dal contesto sociale e chiusi all'interno dei loro laboratori; la maggior parte degli psicologi
americani poi si formava all'interno delle strutture delle università tedesche, che assolutamente si muovevano
all'interno di un'ottica autoreferenziale e conservatrice. In quel momento lo psicologo veniva utilizzato soprattutto
per la selezione delle reclute per la Prima guerra mondiale o all'interno delle scuole per la selezione di bambini
particolarmente dotati o con problematiche specifiche, che quindi necessitavano di un sostegno. Una delle poche
differenze, in questo ambiente storico culturale, che si sviluppa, intorno agli inizi del XX secolo, è il Movimento delle
"Settlement Houses", che sono delle case che nascono per dare una risposta al fenomeno del "melting pot", cioè
della mescolanza delle razze dovute ai movimenti migratori. Il fine di queste strutture era sicuramente quello di
assicurare a queste persone disagiate una cura e un'inclusione nella società dell’epoca.

La seconda rivoluzione nel campo della salute mentale

Il pervadere dell’ottica dello psicologo centrato sull'individuo e sulle sue problematiche, si associa poi alla seconda
rivoluzione nel campo la salute mentale, dovuta all'opera di Sigmund Freud. Per Freud il problema dell'individuo è da
ricercare all'interno dello stesso, all'interno di una logica intrapsichica. Le sue osservazioni, il suo pensiero, è soggetto
a modifiche continue nel corso dei suoi studi e la cura avviene attraverso un processo di psicoanalisi, ovvero l'analisi
dei sogni e del transfert, che è quella particolare relazione che si instaura all'interno della stanza di terapia tra il
paziente e l'analista. Sappiamo che Freud distingue, nella sua organizzazione teorica, due tipi di concezioni diverse:

- Prima topica: il disagio viene visto come seguente ad un evento traumatico avvenuto nell’infanzia e di tipo sessuale
che la persona agisce o subisce e la malattia nasce dalla rimozione dell'affetto, cioè della rappresentazione mentale
del sentimento che ad esso vi è collegato;
- Seconda topica: l'attenzione di Freud si sposta dall'esterno, si parla di una nevrosi e di un'isteria come conseguenza di
un conflitto estremamente e specificatamente intrapsichico tra le forze provenienti dalla parte più pulsionale e
istintiva, l'Es, e le forze provenienti dall'organo di coscienza, cioè l'Io, che poi media anche tutte le influenze del Super
Io, quindi dell'istanza necessaria per capire il dover essere.

La terza rivoluzione nel campo della salute mentale

Le cose cambiano intorno agli anni ’50, quando l'APA, l'Associazione Americana di Psicologia, dichiara, come scopo
principale della psicologia, proprio la “necessità di manifestarsi come una teoria, una disciplina, una scienza, una
professione, finalizzata alla promozione del benessere della persona e del suo contesto”. Si iniziano anche i lavori della
"Joint Commission", della Commissione Interdisciplinare per la Salute e la Malattia Mentale, che realizza uno studio
all'interno del quale viene sottolineata la necessità di una nuova pratica, sia teorica che operativa, rispetto alla
cura della malattia mentale. Le persone affette da una sofferenza psichica non possono più essere curate all'interno
degli istituti manicomiali, ma è necessario restituirle alla comunità che deve farsene carico. Questo movimento si
situa all'interno di un momento storico-culturale dell'America di quel tempo, con la grande attenzione e gli sforzi degli
investimenti sulle classi più svantaggiate, una grande attenzione agli emarginati, il movimento dei neri o la
rivendicazione delle donne, i movimenti contro la guerra in Vietnam, quindi un orientamento assolutamente
progressista. Tutto questo dà l'avvio ad un Movimento di Igiene Mentale e di Comunità che viene formalizzato nel
1963 attraverso una legge,la "Community Menthal Health Centers Act" (CMHCs). Con questa legge vengono di molto
ridotti i ricoveri all'interno delle comunità e vengono istituiti dei nuovi servizi.

L’ottica di base: è quella di promuovere interventi preventivi nelle due accezioni, ovvero quella del prevenire, quindi
agire prima che il disagio mentale si manifesti, e quella invece della promozione del positivo, del benessere. Si
interviene sull'interazione, concetto fondamentale della disciplina, tra il disagio del singolo e il contesto sociale e
territoriale all'interno del quale l’individuo è inserito. Inoltre, si sviluppa un approccio interdisciplinare al disagio
mentale e sociale, perché ogni problema ha una dimensione personale e più soggettiva, ma anche sociale e oggettiva.
Si configura, dunque, un approccio maggiormente di tipo bio-psicosociale.
I centri di igiene mentale di comunità: i servizi che vengono offerti dai nuovi Centri di Igiene Mentale di Comunità
che nascono appunto con la legge del ‘63, sono sia conservatori, ovvero tradizionali, che sono predisposti alla cura
della persona e a tutte le attività diagnostiche, sia innovatori, come l'ospedalizzazione parziale e di emergenza, i
servizi di consulenza e supporto psicologico, la riabilitazione, le opere di formazione continuativa agli operatori e,
infine, la ricerca e la valutazione dei servizi offerti. Questi servizi non sono offerti soltanto alle persone ricoverate, ma
a tutte quelle persone che portano un disagio, come per esempio il tossicodipendente o i soggetti a rischio.

Il convegno a Swampscott (1965): la legittimazione della disciplina avviene in questa sede, dove per la prima volta si
parla di psicologia di comunità e c'è l'adozione di un modello multidisciplinare che collega la psicologia a tutte le
altre scienze sociali e una sottolineatura di un nuovo ruolo dello psicologo, che non è più il professionista chiuso nel
suo studio, ma è un operatore che agisce attivamente attraverso il suo intervento all'interno della comunità. Secondo
una definizione data da Hobbs, uno degli psicologi che parteciparono al convegno del ’65, “la malattia mentale non è
una sofferenza personale di un individuo, ma è un problema sociale, etico e morale, e quindi in questo senso la
responsabilità ricade su tutta la società”.

Nel 1966 poi viene anche istituita, all'interno dell'APA, la Divisione di Psicologia di Comunità, dando il via ad un
processo di legittimazione della disciplina, attraverso la formazione di un gruppo di persone unite insieme sotto una
comune denominazione, ma anche la formalizzazione attraverso una rivista propria della divisione. Quello che si
ribadisce è una differenza tra una strategia preventiva e una riparativa, quindi fondamentalmente tra interventi di
prevenzione primaria, da una parte, e interventi di prevenzione secondaria e terziaria, dall'altra. Poi, si sottolinea che i
centri devono operare attraverso una diagnosi e un trattamento precoce, quindi un'attività che si focalizzi anche su
una prevenzione di tipo secondario e, infine, si evidenzia, anche qui, il nuovo ruolo degli psicologi che è di
coordinamento di tutti i servizi previsti, che devono avere come fine quello dell'azione all'interno della società
attraverso un'attenzione alle problematiche sociali.

LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ NEGLI ANNI ’70

Negli anni ‘70 iniziò un momento diverso per la psicologia di comunità, un momento di crisi e di revisione profonda,
con lotte interne tra un'area più moderata ed una, invece, più radicale che criticava alla prima una scarsa incisività sul
contesto sociale. L'area radicale si fa più forte e iniziano per questo diverse lotte all'istituzionalizzazione, con la
creazione anche di setting alternativi, per esempio iniziando delle esperienze di auto-aiuto, self-help e di
socializzazione delle conoscenze. Vengono anche promulgate altre due leggi che agiscono rispetto alla
deistituzionalizzazione e in una conferenza ad Austin, nel 1975, vengono ribaditi i punti fondamentali della disciplina.
Innanzitutto, il trattamento orientato alla prevenzione, ma anche come promozione delle competenze. Poi, la
formazione di un'ottica sistemica e l'attivazione di ricerche multidisciplinari, che quindi non partissero e non finissero
solo nel campo psicologico, ma anche in tutte le altre scienze limitrofe. Infine, un approccio empirico, quindi
pragmatico, dell'intervento sociale.

LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ NEGLI ANNI ’80

Durante gli anni ’80 avvengono scontri ancora più forti tra l'ala radicale e l'ala moderata ma questa rivisitazione ha
delle finalità positive, poiché genera diversi dibattiti e convegni che vengono organizzati e portano al superamento
della crisi. La disciplina esce dalla fase conflittuale attraverso una maggiore identità della disciplina, un ampliamento
dei campi di intervento (lo psicologo di comunità entra all'interno delle aziende, andando a valutare le ripercussioni
delle azioni come il licenziamento o la disoccupazione, agendo quindi attraverso degli interventi di prevenzione sui
soggetti a rischio) e dei programmi più generali di sviluppo comunitario, attivati dalle ricerche sul territorio.

LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ NEGLI ANNI ’90

Negli anni ‘90 assistiamo allo sviluppo e al consolidamento della disciplina. I concetti principali sono tre:

Empowerment: nella definizione data da Zimmerman, è “la capacità, reale o percepita, di poter intervenire sulle
decisioni, di avere consapevolezza critica di come funzionano le strutture di potere e i processi decisionali e di vedere la
partecipazione come uno strumento per ottenere i risultati previsti”. Quindi è la capacità, da parte dell'individuo, di
sentire, conoscere e capire come funzionano le strutture della comunità, agendo all'interno di esse per modificarle e di
una concezione della necessità della partecipazione di tutta la cittadinanza per migliorare la qualità di vita (ottica
politica-emancipatoria).
Sostegno Sociale: è un costrutto complesso, poiché racchiude in sé diversi tipi di sostegno che noi viviamo
quotidianamente, come il supporto emotivo (la vicinanza emotiva all'altro e l'empatia, cioè la capacità di capire e di
entrare nello stato emotivo dell'altro, di viverlo come proprio), il supporto informativo (lo scambio di informazioni che
aiutano l'elaborazione cognitiva degli eventi), il supporto interpersonale (il rapporto con i gruppi della comunità, più o
meno formalizzati: gruppi informali come quelli familiari o di lavoro, gruppi più formalizzati come le istituzioni) e il
supporto materiale (il materiale o la risorsa che l'altro ci offre all'interno della comunità). Tutti questi tipi di sostegno
sociale concorrono a formare il capitale sociale, un aspetto fondamentale del sentirsi vicini agli altri, dall'avere fiducia
degli altri, della sensazione di reciprocità che esiste tra i membri della comunità.

Auto e Mutuo Aiuto: spiegabile attraverso la definizione data da Alfred Katz ed Eugene Bender dei gruppi di auto-
aiuto, ovvero che sono delle “strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto e al
raggiungimento di scopi particolari. Sono di solito formati da pari che si uniscono in una reciproca assistenza per
soddisfare bisogni comuni, per superare un handicap comune o un problema di vita oppure per impegnarsi a produrre
cambiamenti personali o sociali desiderati. All'interno di questi gruppi vengono enfatizzate le relazioni sociali faccia a
faccia e il sostegno materiale ed emotivo. Spesso sono orientati verso una qualche “causa”, proponendo una nuova
“ideologia” o dei valori sulla base dei quali i membri acquisiscono e potenziano il proprio senso di identità personale”. I
gruppi di auto e mutuo aiuto e i self-help più importanti sono nati nel ‘35 con gli alcolisti anonimi e avevano come
finalità quella di accrescere il proprio senso di empowerment. Avevano una base volontaria, quindi nessuna
costrizione nella formazione degli stessi ed erano finalizzati al reciproco aiuto. Il loro elemento terapeutico più
caratterizzante è, infatti, proprio la possibilità di ogni singolo partecipante di essere “helper”, ovvero quello che dà
l'aiuto all'altro, attraverso la condivisione delle esperienze e dei vissuti rispetto alla problematica portata.

Negli anni ’90, in America, l'attenzione si focalizza su alcune aree di interesse e gli ambiti di intervento della
disciplina coinvolgono i gruppi più emarginati dalla società (es. le minoranze etniche), gli adolescenti, la violenza sulla
donne, l'omosessualità e i gruppi a rischio di contagio AIDS e altre malattie infettive. L'obiettivo fondamentale è
quello di influenzare le politiche sociali e statali attraverso la diffusione dei risultati degli studi e delle ricerche sui
diversi problemi sociali, con l’intento di invogliare la politica a promulgare delle leggi specifiche in merito.

LO SVILUPPO DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ OLTRE GLI USA

Dopo gli Stati Uniti d’America, la psicologia di comunità si diffonde anche in Nuova Zelanda, in Australia, in Canada, in
America Latina, fino ad arrivare in Europa. Ciò che accomuna i diversi approcci della disciplina nei diversi paesi è il
desiderio di andare oltre la psicologia individuale, quindi una visione intrapsichica del disagio della persona, e di
mettere insieme, all'interno di un approccio ecologico-sistemico, la persona, l'ambiente e il contesto e guardare alle
loro interazioni per poter capire il funzionamento globale e le eventuali difficoltà. C'è sempre un'enfasi sulla
prevenzione nelle tre declinazioni (primaria, secondaria e terziaria) e sulla ricerca. Naturalmente la diffusione e
l'insediamento della psicologia di comunità negli altri paesi è influenzata dallo status che la psicologia ha in quel
determinato paese. Per cui, se c'è uno status accademico e culturale riconosciuto, il suo insediamento sarà più facile.

LO SVILUPPO DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ IN EUROPA

Gli obiettivi degli psicologi europei, soprattutto in Olanda, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Portogallo, erano di
rafforzare le proprie basi teoriche, in quanto gli americani venivano criticati per avere uno scarso apparato
epistemologico, sviluppare delle tecniche per dei mutamenti organizzativi e di rete che si basassero più
sull'osservazione del gruppo e la sua diagnosi nel contesto comunitario in generale e, infine, dare importanza al ruolo
del sociale nell’insorgenza delle patologie, proprio a livello eziologico. Molto significativo è un progetto del 1992, cioè
il Primo Convegno Internazionale che si sviluppò in Portogallo,
a Lisbona, rispetto al reinserimento sociale di giovani soggetti
con una patologia psichiatrica, che vennero inseriti all'interno
di gruppi di auto-aiuto per poi favorire il loro insediamento
all'interno del contesto lavorativo. Si parla di progetti nei quali
possiamo ritrovare tutti i principi fondamentali della psicologia
di comunità. In questo senso, lo psicologo che lavorava in
questi progetti non era deputato solo al colloquio psicologico
con la persona sofferente ma fungeva da intermediario tra la
persona e l'azienda che l'avrebbe assunto, favorendo
l'inclusione sociale. Questi progetti di inserimento lavorativo
attivavano tutti i servizi del territorio, come le Asl, le cooperative sociali e i centri per l'impiego. In sostanza, lo
psicologo aiutava la persona attraverso le tre azioni fondamentali: orientamento, formazione e inserimento
lavorativo, stimolando nella persona la ricerca della propria scelta di vita, le proprie capacità, le proprie risorse e
indirizzarsi verso un percorso professionale congruo. Naturalmente, in quest’ottica diventa fondamentale la riduzione
del danno, quindi l’applicazione della prevenzione terziaria.

LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ IN ITALIA

In Italia la psicologia di comunità arriva negli anni ’70 e, come succede in America, si fonda all'interno di un
orientamento molto progressista, rappresentato dai movimenti studenteschi femministi dell'epoca. L'ottica
all'interno della quale ci muoviamo anche in Italia rimane identica; quindi, c'è la necessità di attuare interventi
preventivi, migliorare la qualità di vita dei soggetti e aumentare la competenza della comunità (empowerment
comunitario). Lo studio degli psicologi di comunità si focalizza molto sul lavoro di rete, il senso di sicurezza dei cittadini
(“il senso di comunità”) e l'azione del terzo settore, ovvero delle cooperative sociali. Ci sono delle date importanti in
Italia, per esempio nel ‘77 esce il primo manuale della Francescato e nell'86 il corso di psicologia diventa laurea in
psicologia clinica e di comunità, quindi una legittimazione accademica della materia. Tra i fattori che influenzano lo
sviluppo della psicologia di comunità in Italia, abbiamo due livelli:

A) Livello teorico: ciò che influenza l'insediamento della disciplina è la diffusione delle idee della scuola di Paolo Alto,
quindi sulla pragmatica della comunicazione, all'interno della quale si sviluppa l'idea del soggetto come agente e
relazionale, quindi dell'inscindibilità della relazione tra il soggetto e il contesto (non possiamo capire ciò che accade in
un individuo o ciò che l'individuo fa se lo togliamo dal suo contesto di riferimento).
B) Livello pratico: la psicologia di comunità nasce e si sviluppa in relazione all'azione di deistituzionalizzazione di
Franco Basaglia e dagli esponenti della Psichiatria Democratica e la promulgazione di alcuni leggi innovative.

Legge n. 118 del 1971 → Istituzione delle Unità territoriali di riabilitazione;


Legge n. 416 del 1974 → Istituzione dei Decreti delegati nella scuola;
Legge n. 382 del 1975 → Trasferimento delle competenze dello Stato alle Regioni e agli Enti Locali;
Legge n. 405 del 1975 → Istituzione dei Consultori;
Legge n. 685 del 1975 → Norme sulle sostanze stupefacenti e la tossicodipendenza;
Legge n. 354 del 1975 → Riforma dell’Ordinamento Penitenziario;
Legge n. 517 del 1977 → Inserimento dei portatori handicap nelle classi normali per garantire una reale integrazione;
Legge n. 194 del 1978 → Tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza;
Legge n. 180 del 1978 → Assistenza psichiatrica;
Legge n. 833 del 1978 → Riforma Sanitaria e istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN);

LE LEGGI PIU IMPORTANTI

Legge n. 405 del 1975: prevede l'istituzione dei consultori familiari, una odierna realtà importantissima del Sistema
Sanitario, che offrono l'assistenza psicologica e sociale per aumentare e facilitare il consolidarsi della funzione
genitoriale e preparare al parto, alla maternità e alla paternità i giovani genitori, Inoltre, sono finalizzati anche al
sostegno sulle problematiche della coppia e danno tutti i mezzi necessari per arrivare ad una scelta libera e
responsabile rispetto al concepimento. Tutelano in primis la salute della donna e del minore e, in più, favoriscono la
divulgazione delle informazioni, ovvero quel supporto informativo necessario per prevenire la gravidanza quando non
è desiderata o per concepire invece un figlio in maniera più consapevole.

Legge n. 685 del 1975: si dà un’alta priorità a prevenzione, riabilitazione e inclusione, quindi al reinserimento dei
giovani (esempio: progetti dei masterplan). Il consumatore tossicodipendente non è più visto come un semplice
delinquente, bensì come un “soggetto disadattato socialmente”, del quale è importante prendersi carico e cura.

Legge n. 354 del 1975: si sottolinea il carattere rieducativo della pena, così come evidenziato dall'articolo 27 della
nostra Costituzione. Inoltre, si sottolinea la necessità di una pena finalizzata all'inclusione sociale del soggetto
detenuto, attraverso un trattamento che avesse delle caratteristiche sia intramurarie che extramurarie. Per questo,
c'è l'introduzione delle misure alternative alla detenzione, l'affidamento in prova ai servizi sociali e tutte le misure di
semilibertà necessarie che facilitano l'inclusione e il contatto con il reinserimento nella comunità. La 354 viene poi
seguita dalla promulgazione della legge Gozzini, soprattutto extracarceraria, che accentua il ricorso al territorio e
all’immediato reinserimento dei detenuti soprattutto ampliando gli istituti di misura alternativa.
Legge n. 180 del 1978: una legge fondamentale per chi si avvicina allo studio della psicologia, fortemente voluta da
Franco Basaglia, incentrata sulla deistituzionalizzazione dei malati di mente, dove vengono sottolineati i punti
fondamentali dei nuovi sistemi di cura. Innanzitutto, c’è una regolamentazione del trattamento sanitario
obbligatorio (TSO), da effettuare solo in casi estremi, quando la persona non è in grado di intendere di volere e non è
possibile avere un consenso informato da parte sua (una forma di tutela dell'altro nel momento di crisi).
Successivamente, viene richiesto il divieto di costruzione di nuovi ospedali psichiatrici e la necessità di chiusura di
quelli ancora attivi, nonché l’utilizzo di quelli esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali.
Infine, l'istituzione dei servizi ambulatoriali, di cui oggi conosciamo degli esempi come i Dipartimenti di Salute
Mentale (DSM) e i centri diurni, proprio per finalizzarli alla cura della malattia mentale.

Legge n. 833 del 1978: all'articolo 1, il SSN viene descritto così: “è costituito da quel complesso di funzioni, di
strutture, di servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e
psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino
l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del Servizio Sanitario Nazionale compete allo Stato,
alle Regioni e agli Enti Locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini”. Ancora una volta abbiamo come
concetto fondamentale quello della prevenzione, insieme all'uguaglianza tra cittadini e naturalmente il
decentramento dei servizi alle Regioni e agli Enti Locali, garantendo la partecipazione e l’attivazione del territorio.

Così come ci sono dei fattori, come le leggi appena descritte, che influenzano positivamente lo sviluppo della
disciplina in Italia, ci sono anche fattori che ostacolano lo sviluppo e il consolidamento della disciplina, ovvero i
fattori politici (l'avversione e l’ostracismo alle scienze psicologiche, durante l'epoca del fascismo), i fattori culturali
(grande diffidenza da parte della comunità nei confronti della professione dello psicologo) e fattori professionali
(l'introduzione tardiva della disciplina nel campo accademico o la nascita tardiva dell'Albo degli Psicologi). Altri
ostacoli sono l’attuazione solo parziale delle leggi citate e una predominanza della rappresentazione mentale dello
psicologo come “psicologo clinico”.

DIFFERENZE TRA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ E PSICOLOGIA CLINICA

L’ottica assunta dello psicologo di comunità è proattiva e interviene prima che il problema emerga, previene il
disagio e promuove il benessere. Il disagio, secondo la psicologo di comunità, è collocato negli ambienti sociali o nella
relazione che l'individuo instaura con l'ambiente sociale; quindi, un intervento in questo ambito può migliorare
l’adattamento della persona. Invece, l'ottica dello psicologo clinico è reattiva, interviene dopo che il malessere si è già
introdotto e sviluppato. Nell'ottica della psicologia clinica, il disagio è collocato all'interno dell'individuo o, se
prendiamo come esempio l'ottica sistemico-relazionale, nella relazione che l’individuo ha con il suo contesto familiare.

I MODELLI TEORICI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

La psicologia di comunità nasce come una disciplina accademica empirica e applicativa ma anche come un insieme di
conoscenze e un'area di ricerca, dove l'interesse è rivolto alle persone considerate nel contesto dei loro ambienti e
sistemi di vita. La psicologia di comunità si interessa non all'individuo e al contesto ambientale, bensì alla relazione
che c'è tra questi due ed è una disciplina che punta ad un'ottica preventiva e di empowerment dell'individuo e della
collettività. Una metafora che possiamo utilizzare e all'interno della quale possiamo inserire la maggior parte dei
modelli teorici, è la metafora ecologica (ecologia deriva dal greco e significa oikos, ovvero casa): “l’ambiente esercita
un’influenza sul comportamento dell’individuo”.

LA TEORIA DEL CAMPO O FIELD THEORY: KURT LEWIN (1890-1947)

Per parlare dei paradigmi teorici di riferimento dobbiamo iniziare da uno dei capostipiti della
disciplina, che è Kurt Lewin e il contributo fondamentale che questo psicologo dà alla psicologia di
comunità è la teoria del campo. Lewin la descrive non come una vera propria teoria ma come un
“metodo di analisi delle relazioni causali (di causa-effetto) che ci sono tra gli eventi, per produrre poi
una conoscenza scientifica che vada a spiegare i fatti sociali”. Secondo Lewin, il campo psicologico è
rappresentato da quell’insieme di fattori, individuali e ambientali, che avvengono all'interno di un
dato momento, in cui sono compresi anche i fatti che avvengono nel passato, oltre che nel presente
e nel futuro dell'individuo. Tengono conto dei suoi comportamenti e della società, quindi la valutazione è sempre
inserita in un contesto dinamico con uno sguardo anche a ciò che è successo prima e ciò che succederà
successivamente. Riprendendo le parole di Lewin, “il campo psicologico che esiste a un dato momento, contiene
anche punti di vista da cui l’individuo guarda al futuro e al suo passato” e all'interno del campo i fatti sono collegati
tra loro da un fattore chiave che è il legame di interdipendenza (l'uno senza l'altro non può esistere). Nella teoria del
campo troviamo diversi elementi importanti, tra cui lo spazio di vita, al cui interno identifichiamo il comportamento
umano come frutto di una relazione tra la persona (P) e l’ambiente psicologico percepito (A). Questi elementi sono
inseriti nella famosa formula di Lewin: C = f (P, A). Quello che Lewin sottolinea è la capacità attiva del soggetto,
all'interno di un contesto, dotato di una capacità trasformativa del reale. Insieme allo spazio di vita, nel campo
troviamo anche quei fattori che appartengono all'ambiente sociale, che non interagiscono direttamente con
l'individuo, e quei fattori che si situano, invece, su una linea di confine tra la persona e l'ambiente all'interno di un
interscambio continuo. La relazione che c'è tra la sfera individuale-soggettiva e quella sociale-oggettiva è dinamica,
continuamente attiva e si concretizza all'interno dell'agire umano. L'azione, a sua volta, ha una forte valenza
trasformatrice, può modificare le condizioni ambientali attraverso una consapevolezza rispetto al proprio potere e
determina un vero e proprio processo psicosociale.

Per Lewin, l'azione è collegata anche al concetto della ricerca. Il contributo più importante che Lewin dà, all'interno di
questo tema, è il concetto della ricerca partecipata, dell'Action research. Fondamentalmente identifica una modalità
di ricerca sul campo che è strettamente collegata all'azione, dove la ricerca senza azione non può esistere e l'azione
necessita della collaborazione di tutti gli individui. Pertanto, le ricerche partecipate, come l'analisi organizzativa
multidimensionale o la tecnica degli otto profili, proprio per l'analisi e lo sviluppo della comunità, sono tecniche cui
partecipano diversi membri della comunità, i quali diventano soggetti attivi e, aumentando la propria consapevolezza
attraverso la ricerca, aumentano anche la loro possibilità di azione nel sociale. Per fare una ricerca, secondo Lewin, è
importante lo studio delle dinamiche del campo psicologico, in cui non c'è una descrizione statica di esso ma di come
i fatti avvengono nel loro sviluppo temporale. La teoria deve precedere la raccolta dei dati, un altro elemento
fondamentale, e l'attenzione viene posta sulla necessità di un uso di una metodologia multidisciplinare, proprio
perché l'oggetto di studio su cui ci si sofferma è complesso e necessita del coinvolgimento di professionalità diverse.

Il piccolo gruppo: è un insieme dinamico caratterizzato dall'interdipendenza e dalla reciproca influenza dei suoi
membri. All'interno del gruppo la persona cresce, si sviluppa e aumenta la propria socialità, si confronta con le altre
persone, si esprime e impara anche a conoscere le limitazioni rispetto al proprio comportamento, dando un senso del
limite che è fondamentale per il vivere sociale. Il gruppo ha una potenzialità trasformativa, sia a livello individuale che
sociale, poiché all'interno del gruppo si ha il potere di modificare gli eventi che succedono.

LA PSICOLOGIA AMBIENTALE

Oltre a Lewin, dobbiamo anche porre l'attenzione sulla psicologia ambientale. Anche in questo caso, è una disciplina
che studia il benessere e il comportamento degli individui, in relazione alle transazioni che avvengono tra loro e
l’ambiente socio-fisico.

ROGER BARKER (1903-1990)

Il massimo esponente della psicologia ambientale è Roger Barker, allievo di Lewin, che si distanzia
dal suo pensiero perché pone maggiormente l'attenzione sui fattori ambientali oggettivi, esterni
all'individuo, che determinano il comportamento umano e non viceversa. Barker, proprio perché
critico verso la metodologia sperimentale, così chiusa all'interno del proprio laboratorio, porterà
avanti un proprio metodo di ricerca, l’osservazione naturalistica. Barker era interessato molto al
comportamento dei bambini, soprattutto per capire le cause delle problematiche infantili. Così
iniziò ad osservare, in una piccola cittadina del Kansas, i bambini nel loro contesto di vita naturale.
All'interno di quest'osservazione, lo psicologo non manipola nulla rispetto a quello che vede, ma è
un semplice trasduttore di ciò che viene visto, quindi si limita a decodificare. Ben presto Barker si rese conto che
questo metodo di osservazione era troppo lungo e costoso, sia da un punto di vista economico che da un punto di
vista temporale, e quindi iniziò ad analizzare i comportamenti umani all'interno dei behavior settings o i setting
comportamentali, ovvero unità ambientali più piccole, all'interno delle quali avvengono dei comportamenti
significativi (esempi: la chiesa, la scuola, la biblioteca). Tra le componenti del setting, Barker individua due
caratteristiche fondamentali. Per primo, il grado di penetrazione, cioè quanto l'individuo partecipa e per quanto
tempo a quel setting comportamentale, e individua sei livelli di penetrazione, in cui più è centrale la zona di
penetrazione all'interno della quale l'individuo si trova, maggiore è la possibilità che l'individuo ha di assumere dei
ruoli di responsabilità, di aumentare il proprio potere e la propria capacità di azione all'interno del setting stesso,
diventandone il leader. Di conseguenza, più è periferica la zona in cui si posiziona l'individuo, maggiore sarà invece la
sua passività, con la possibilità che questo venga emarginato e il suo ruolo divenga quello di osservatore passivo. La
seconda caratteristica fondamentale del setting è la ricchezza, un costrutto complesso perché dato dalla
combinazione del numero di persone che partecipano, divise per caratteristiche come sesso, genere, età, status, etnia
e via dicendo, in grado di penetrare il setting, insieme con le modalità comportamentali e di azione che l’individuo
attua e il tempo di apertura del setting stesso. Nello studiare il numero dei setting e il numero dei partecipanti, Barker
arriva a definire la teoria del dimensionamento relativo e propone la superiorità del funzionamento del setting di
piccole dimensioni rispetto a quello di grandi dimensioni, secondo la quale è più funzionale un setting
sottodimensionato (o sottopopolato). I setting sotto popolati funzionano meglio perché le persone hanno maggiori
opportunità di emergere ed esercitano una maggiore pressione, potendo ricoprire dei ruoli o delle posizioni di
maggiore responsabilità. Il contrario avviene nei setting sovradimensionati, che infatti offrono poche possibilità
all'individuo e la passività sarà maggiore.

RUDOLF H. MOOS (1934)

Seguace di Barker, Rudolf H. Moos pose sempre molta attenzione sulle variabili ambientali nella
formulazione del comportamento umano ma, diversamente da Barker, prese in considerazione
anche la percezione che l'individuo ha, quindi il vissuto soggettivo dell'individuo all'interno del
proprio contesto di vita. Moos andrà a fornire degli strumenti, come scale e questionari, per
valutare la pressione ambientale, cioè quelle caratteristiche che coinvolgono e connotano certi
ambienti e che esercitano un'influenza sull'individuo, così come l'individuo li percepisce. Moos si
propone di cogliere proprio il rapporto tra strutture organizzative e vissuti soggettivi. Quindi
diversamente da Barker, c'è una maggiore attenzione alla dinamica psicologica.

LA PROSPETTIVA ECOLOGICA: JAMES G. KELLY (1929-2020)

James G. Kelly mette in evidenza l'importanza dei setting naturali e di come il comportamento
umano sia una risultante del processo di adattamento che l'individuo fa, all'interno del suo
contesto, rispetto a quelle che sono le risorse e le circostanze presenti nel contesto stesso. Quindi
c'è un cambiamento di paradigma, l'attenzione è rivolta a questo accomodamento esistente tra
l'individuo e il suo ambiente, poiché modificando la distribuzione delle risorse presenti all'interno
del proprio contesto di vita, si possono modificare anche le condizioni all'interno delle quali il
contesto vive, e quindi migliorare il benessere della persona. Con Kelly non c'è una ricerca della
psicopatologia come una connotazione prettamente individuale e psicologica, ma una valutazione
del disagio dell'individuo come emergente all'interno della relazione con le risorse del territorio. Questo significa
incoraggiare in modo importante la ricerca e l'uso delle risorse. Anche in questo approccio, così come abbiamo visto
rispetto a Lewin, l'uomo è un soggetto, una persona dotata di competenze che può utilizzare per il proprio sviluppo e,
quindi, per il proprio benessere. Kelly propone quattro principi fondamentali nei contesti di vita:

1) Interdipendenza: il cambiamento di qualsiasi parte dell’ecosistema produce un cambiamento anche negli altri;
2) Ciclicità delle risorse: fondamentale il modo in cui le risorse presenti nell’ambiente (umane, organizzative,
tecnologiche, economiche) sono distribuite, utilizzate e trasferite;
3) Adattamento: di stampo darwiniano, ci dice che l'organismo varia le proprie abitudini o le proprie caratteristiche in
funzione delle condizioni e delle trasformazioni ambientali;
4) Successione: è un principio fondamentale perché permette la programmazione degli interventi nel campo della
psicologia di comunità e identifica e sottolinea il fatto che l'ambiente ha delle proprietà dinamiche che permettono di
rilevare come i diversi contesti evolvono nel tempo.

LA PROSPETTIVA ECOLOGICA: M. LEVINE E I CINQUE PRINCIPI PER LA PRATICA IN PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

1) Un problema nasce nel setting (o situazione): i fattori situazionali causano, innescano e/o mantengono il problema;
2) Un problema sorge perché la capacità adattiva, di problem solving, del setting sociale, è bloccata;
3) Un aiuto deve essere collocato in modo strategico rispetto all'insorgenza del problema, per essere efficace;
4) Gli scopi e i valori dell'operatore, o del servizio di aiuto, devono essere coerenti con gli scopi e ai valori del setting;
5) La forma dell'aiuto fornito deve essere stabilita in modo sistematico, usando le risorse naturalmente presenti nel
setting o introdotte delle nuove risorse, sempre in modo congruo, che devono diventare istituzionalizzate come parte
del setting, e quindi riconosciute anche dalla collettività.
L’APPROCCIO SISTEMICO IN PSICOLOGIA

Un altro approccio di importanza fondamentale per la psicologia di comunità, derivante dalla teoria dei sistemi che
era già utilizzata dalla teoria della Gestalt e poi applicata agli studi sulla comunicazione, grazie alla scuola di Palo Alto
di Paul Watzlawick. Il sistema è un'unità complessa e organizzata secondo regole stabilite, dove all'interno vi è il
carattere dell'interdipendenza tra le parti, e dalla relazione con l’ambiente. Un’unità intera di parti in relazione tra
loro, dove l’intero è diverso dalla semplice somma delle parti. Le regole fisse, definibili anche come proprietà del
sistema, sono la totalità (un cambiamento in una parte del sistema produce un cambiamento anche nell'altra), la
retroazione (il fenomeno che sottolinea il carattere circolare dei sistemi interattivi, quindi ogni comportamento
influenza ed è influenzato dal comportamento dell’altro), l’equifinalità e la multifinalità, per cui i risultati non
dipendono solo dalla condizione iniziale ma dalla natura del processo e dai parametri del sistema, e quindi da tutto il
processo. Il concetto di sistema viene spesso utilizzato all'interno della psicologia di comunità; infatti, si parla dei
sistemi sociali come un insieme di rapporti tra elementi di complessità crescente, dai sistemi più piccoli fino ai sistemi
più grandi, dall'individuo fino alla comunità intera (individui, piccoli gruppi, organizzazioni e comunità).

GREGORY BATESON (1904-1980)

Gregory Bateson è stato un antropologo, filosofo e psicologo britannico che ha studiato per molto
tempo i sistemi e si è interessato a due tipi di forze fondamentali all'interno di un sistema: le
forze che vanno in antagonismo, che portano alla rottura da parte del gruppo (processo di
schismogenesi) e le forze di adattamento, che invece tendono ad un compromesso e a una
coesione sociale. Queste forze si trovano in equilibrio grazie a un sistema di feedback, di
retroazione; in primis, abbiamo una retroazione positiva quando le informazioni all'interno di un
contesto deviano dalla condizione iniziale, facendo sì che aumenti la condizione di differenziazione.
Poi, una retroazione negativa quando invece il sistema ritorna allo stato iniziale, quindi si stabilisce
l'omeostasi. Questo significa che ciascuna parte, all'interno di un sistema, reagisce all'altra in un
equilibrio che è sempre dinamico. C'è quindi un cambiamento del paradigma, con Bateson, per cui l'individuo e ogni
gruppo sociale si trovano in una relazione reciproca e sono sottosistemi di sistemi più complessi. In seguito, Bateson si
interesserà molto anche ad un sistema particolare che è il sistema familiare, dando vita a tutti gli studi sulla
comunicazione, soprattutto attraverso lo studio delle famiglie con un membro schizofrenico e studi sulla
comunicazione paradossale e contro-paradossale con tutti gli sviluppi relativi rispetto alla pratica clinica.

STANLEY MURRELL

Anche con Stanley Murrell abbiamo una fondamentale evidenza dell'importanza delle relazioni tra l'individuo e il suo
contesto. Secondo Murrell, i sistemi sociali sono importanti perché influenzano il comportamento degli individui, che
non può essere separato dal contesto sociale in cui si manifesta. Pertanto, se si vuole raggiungere un grado di accordo
psicosociale, è necessario tenere a mente che il benessere psicologico dell'individuo è determinato dal grado di
congruenza presente tra i bisogni, le aspettative e le motivazioni dell'individuo, le risorse presenti e le richieste che
l'ambiente pone. In questo senso, Murrell parla anche di un accomodamento inter-sistemico, valutando l'accordo
presente nelle richieste che i vari sistemi fanno, a cui l'individuo partecipa, che gli permettono di sviluppare un
proprio benessere psicologico. Seguendo l'approccio sistemico, Murrell parla di sei livelli di intervento possibili
all'interno della comunità. I primi due sono focalizzati sull'individuo, cioè:
I. Ricollocamento individuale: il sistema nel quale l’individuo è inserito è altamente disfunzionale, per cui si opta per lo
spostamento dell'individuo in un altro sistema (esempio: i bambini all'interno di una famiglia maltrattante o
abbandonati, con la caduta della potestà genitoriale, vengono affidati ad altre famiglie o dichiarati adottabili);
II. Intervento sull'individuo: è quello dell'aiuto all'individuo per migliorare le proprie strategie o potenziare le proprie
risorse rispetto alla propria valutazione, permettendogli di affrontare un problema specifico, affinché si inserisca
meglio nel sistema (esempio: un trattamento psicoterapeutico).
Poi abbiamo invece altri interventi che si collocano su livelli più complessi e che riguardano la comunità:
III. Interventi sulla popolazione: interventi di tipo preventivo (prevenzione primaria) sui soggetti e sui gruppi a
rischio, per esempio in caso di evoluzione di malattia o di disagio;
IV. Interventi sul sistema sociale generale: interventi finalizzati ad operare dei mutamenti strutturali e funzionali del
sistema per facilitare la gestione dei problemi degli individui (esempi: interventi nelle aziende, ricerca partecipata);
V. Interventi intersistemici: l'azione è diretta su più sistemi per aumentarne coordinamento e connessione;
VI. Interventi sull'intera rete sociale: rivolti alla comunità nel suo insieme (esempio: l'opera dei mass-media).
LA TEORIA DELLA CRISI E DELLO STRESS PSICOSOCIALE: BARBARA DOHRENWEND (1927-1982)

Un'altra teoria fondamentale è quella dello stress psicosociale della psicologa sociale Barbara
Dohrenwend, secondo la quale la persona risponde alla situazione di crisi in funzione dei sistemi di
sostegno sociale e dei mediatori psicologici disponibili. Il modello dello stress psicosociale è
caratterizzato da un evento stressante, ambientale o psicologico, che termina con un cambiamento
psicologico, positivo o negativo, oppure con il ripristino della situazione psicologica iniziale.
Dohrenwend parla della situazione di crisi come un evento legato a eventi stressogeni per
l'individuo che ha un'evoluzione all'interno di poche settimane e porta tre possibili risultati: la
persona può crescere e cambiare in senso positivo, come risultato della sua capacità di
padroneggiare l’esperienza, proprio perché riesce a gestire la situazione problematica. Oppure, il soggetto può
tornare ad uno stato psicologico per lui normale, quindi un ritorno ad una condizione di stabilità. Infine, può
sviluppare una forma psicopatologica, quindi una reazione disfunzionale persistente, che necessita poi di intervento.
Tutti e tre questi possibili risultati sono in relazione alla presenza, durante l'evento stressante nel periodo di crisi, dei
mediatori situazionali (sistemi di sostegno sociale, formale e informale) e dei mediatori psicologici (valori e abilità di
coping).

LA TEORIA DELLO SVILUPPO DEL CONTESTO: URIE BRONFENBRENNER (1917-2005)

L'ultima teoria è quella dello psicologo americano Urie Bronfenbrenner, il modello definito
processo-persona-contesto-ambiente. Fondamentalmente, Bronfenbrenner si scontra contro la
psicologia ambientale, che valutava l'importanza solo dell'ambiente sull'individuo, e amplia anche
la visione del campo di Lewin perché, secondo Bronfenbrenner, le azioni dell'individuo sono in
relazione non solo con l'ambiente di vita che si trova intorno all'individuo, ma anche in relazione ai
contesti e ai sistemi più remoti. Questo modello si basa su tre assunti fondamentali: il rapporto tra
l'individuo e l’ambiente è caratterizzato dalla reciprocità. Poi, anche i contesti non
direttamente sperimentati dall'individuo possono produrre delle modificazioni nel suo
comportamento. Infine, ogni persona è un'entità dinamica, all'interno dei vari contesti con cui entra in contatto, e
quindi un soggetto attivo che reagisce alle pressioni ambientali e ristruttura il proprio spazio di vita. Le strutture
concentriche ed interdipendenti tra loro che Bronfenbrenner individua sono quattro:

Microsistema: il contesto di vita vicino all'individuo con cui entra direttamente in relazione, per esempio la famiglia;
Mesosistema: il sistema di microsistemi a cui l'individuo partecipa, per esempio i rapporti tra famiglia e scuola;
Esosistema: insieme dei sistemi con cui la persona non entra direttamente in contatto ma che invece influenzano la vita
delle persone che interagiscono con lui, per esempio il lavoro del partner;
Macrosistema: il contesto sociale allargato che influenza i livelli sottostanti, ad esempio il tasso di disoccupazione.

All'interno di questa prospettiva c'è una concezione dell'ambiente sociale che comprende anche la dimensione
soggettiva, ovvero come la persona vive e ciò che prova all'interno dei propri contesti, contribuendo a costruirlo
intorno a sé. Importante è anche il concetto di nicchie ecologiche, cioè quelle regioni dell'ambiente che sono
particolarmente favorevoli o sfavorevoli allo sviluppo dell'individuo. Conoscere le nicchie ecologiche è fondamentale,
per esempio, per attuare programmi di intervento preventivi. Pertanto, gli interventi ecologici devono essere
finalizzati alla scoperta delle opportunità presenti nell'ambiente e capaci di rispondere ai bisogni degli individui.

LE ISTITUZIONI TOTALI E LA DEISTITUZIONALIZZAZIONE

Per istituzione intendiamo tutti quegli “apparati preposti allo svolgimento delle funzioni e dei compiti che hanno un
interesse pubblico”. Fondamentalmente, istituzione deriva dal termine istituire, che significa “dare un ordine,
regolamentare”. Dal punto di vista antropologico o sociologico, possiamo identificare con il termine istituzione “tutti
quei comportamenti, quelle azioni e quelle relazioni sociali che sono governate da leggi e norme riconosciute dalla
collettività intera” (Treccani). Se al termine istituzione noi aggiungiamo l'aggettivo totale, la visione cambia
completamente. Se prendiamo in considerazione l'opera Asylums (1961) del sociologo Erving Goffman che pone in
evidenza la realtà delle istituzioni totali e soprattutto dell'ospedale psichiatrico, per “istituzione totale”
identifichiamo “un luogo di residenza e di lavoro di un gruppo di persone che, tagliate fuori dal mondo esterno per un
considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, al suo interno, insiemead un altro gruppo
di persone, trascorrendo la loro vita all'interno di un regime chiuso e formalmente amministrato”.
LE CARATTERISTICHE

Le caratteristiche delle istituzioni totali sono rigide, ferme e sempre uguali in qualsiasi circostanza. Prima di tutto c'è
la presenza di fini stabiliti, quindi anche strutturalmente le barriere innalzate impediscono a ciò che sta fuori di
vedere e di valutare quello che accade dentro. Dal punto di vista politico, all'interno di queste strutture c'è il rispetto
di norme rigide e definite nel tempo che non solo regolano le aspettative e i comportamenti dell'individuo, ma che
prevedono anche delle sanzioni nel momento in cui queste regole non vengono rispettate. Da un punto di vista
strutturale, all'interno abbiamo un insieme di status e di ruoli netti e riconosciuti da tutti. Dal punto di vista culturale,
c'è un sistema valoriale condiviso da tutti i partecipanti all’istituzione totale. Dal punto di vista drammaturgico, c’è la
presenza di tecniche di controllo. Quello che viene messo in evidenza dai vari autori è il carattere coercitivo
dell'istituzione, che si manifesta attraverso dei punti precisi:

a. Tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e con una stessa autorità;
b. Ogni fase delle attività giornaliere è svolta dalla persona insieme ad un altro gruppo, tutti trattati allo stesso modo;
c. Le attività giornaliere sono schedate secondo un ritmo prestabilito;
d. Tutte le attività a cui il soggetto è sottoposto sono finalizzate a degli scopi, secondo un piano razionale.

All'interno dell'istituzione totale l'individuo è privato di ogni capacità di autonomia, di ogni capacità di potere
decisionale sulla propria vita, di ogni identità.

LE 5 CATEGORIE DI GOFFMAN

1) Le istituzioni totali che nascono per tutelare le persone incapaci di gestire la propria vita (es. gli orfanotrofi);
2) Le istituzioni totali che nascono per tutelare le persone incapaci di gestire la propria vita e che, anche non
intenzionalmente, possono essere pericolose per la comunità (es. gli ospedali psichiatrici);
3) Le istituzioni totali che nascono per proteggere la società dai pericoli intenzionali nei suoi confronti, ovvero dai
soggetti che intenzionalmente sono un pericolo per la società anche se capaci di badare a sé stessi (es. le carceri);
4) Le istituzioni totali che nascono per svolgere una certa attività lavorativa (es. le piantagioni coloniali o i campi di
lavoro P.S. non esistono più però sono citate perché presenti nell'opera di Goffman);
5) Le istituzioni totali definite come “staccate dal mondo”, quindi soprattutto di stampo religioso (es. i monasteri,
le abbazie o i conventi).

GLI ATTORI

Oltre agli internati, all'interno delle istituzioni totali, troviamo anche altri attori, come lo staff. Parliamo delle persone
che lavorano all'interno dell'istituzione e hanno il compito di monitorare, valutare e, in caso, giudicare l'operato degli
internati. Le grandi differenze tra internati e lo staff riguardano il fatto che i primi vivono quotidianamente all'interno
dell'istituzione, mentre i secondi svolgono un'attività lavorativa che consiste in un turno, solitamente, di otto ore. C'è
una posizione up and down tra i due, poi consolidata dai pregiudizi e dagli stereotipi reciproci, che di solito portano ad
una posizione di potere da parte dello staff, che sente di avere sempre ragione. Inoltre, c'è una grande distanza tra
staff e internati nelle comunicazioni; ad esempio, negli ospedali psichiatrici non veniva comunicato agli internati il
motivo della loro permanenza all'interno della struttura, né quanto sarebbe durata. Un altro aspetto fondamentale che
distingue lo staff dagli internati è l'elemento famiglia; lo staff vive naturalmente la sua famiglia all'esterno
dell’istituzione e questo permette a chi opera all'interno dell'istituzione totale di mantenere una certa distanza
dall'istituzione, sfuggendo alla sua tendenza inglobante. Per gli internati, invece, i rapporti con la famiglia sono molto
scarni, poco presenti e il gruppo che condivide quella condizione diventa un sistema familiare secondario.

GOFFMAN: INTERPRETAZIONE SOCIOLOGICA DELLA STRUTTURA DEL “SÉ”

Parlando del sé, Goffman distingue due parti: l'attore, ovvero la parte autonoma, spontanea e istintiva dell'individuo,
che connota la propria identità e la propria individualità, e il personaggio, l'insieme di caratteristiche che il soggetto
assume per entrare, quasi di compromesso, in relazione con l'esterno. Nel carcere, nell’ospedale psichiatrico o nelle
altre istituzioni totali simili la parte autentica del sé, l'attore, perde completamente potere, la persona viene quasi
spogliata di tutti i suppellettili scenici, del proprio copione, dei propri abiti ed è costretta ad assumere un ruolo che è
l'unico possibile, ovvero quello previsto dall'istituzione stessa. Il sé dell'individuo si esaurisce completamente
all'interno del ruolo che l'istituzione vuole per lui, per cui si trova costretto ad assumere un nuovo ruolo scenico, cioè
quello che l’istituzione pretende da lui (caratteristica peculiare dell'istituzione totale).
L’OSPEDALE PSICHIATRICO

Legge del 14 febbraio 1904: “debbono essere custodite e curate nei manicomi quelle persone che, affette da
alienazione mentale, sono un pericolo per sé o per gli altri oppure possono essere un pericolo per l'ordine pubblico,
quindi essere fonte di scandalo”.

Questa legge italiana è, in realtà, preceduta da una legge francese del 1838 che definiva la necessità di rinchiudere
all'interno di queste istituzioni gli alienati mentali che avevano commesso reato, per ordinanza diretta del prefetto.
Questa legge influenza tutta la legislazione successiva, tra cui proprio legge italiana del 14 febbraio 1904. La
connotazione di pericolosità sociale continua anche nelle successive legislazioni, soprattutto rispetto agli autori di
reato alienati. Con questa legge, la cura e la custodia delle persone affette da una patologia mentale vengono
completamente affidati ad una nuova disciplina, la psichiatria. Quindi la psichiatria trova, all'interno della legislazione,
non solo un riconoscimento del proprio ruolo, ma addirittura il proprio oggetto di studio. In queste strutture gli
internati sono esclusi dalla comunità, che in nessun modo può valutare, monitorare e controllare la modalità di cura
che viene esercitata all'interno dell'istituzione sui degenti. Questo porta a delle conseguenze fondamentali, perché
l'approccio di cura di tipo “custodialistico” viaggia verso una direzione, ovvero quella del ricovero ad libitum, dove c'è
una grande pressione rispetto alla non remissione dei segni di malattia esperiti dal malato mentale. I metodi di cura,
inoltre, violano quasi sempre il corpo e la mente dell'individuo. La cura si basa su shock (elettrico o termico) e/o
operazioni chirurgiche (es. la lobotomizzazione), soprattutto per i soggetti particolarmente violenti. L’aspetto più
positivo di questa vicenda è la grossa attenzione che viene rivolta all'ospedale psichiatrico (al manicomio); infatti, per
tutto il corso del 1900 vennero fatte delle indagini approfondite, ci fu un'attenzione sociale su di esso, tanto che già
dagli anni ‘30/’40 del 1900 iniziano delle modalità di cura diverse, come l'utilizzo della porta aperta per dare
maggiore autonomia e libertà di movimento all'individuo. Soltanto dopo la seconda metà del XX secolo, c'è un
intervento più diretto da parte delle istituzioni sociali, poiché sappiamo che l'opera di Goffman viene completamente
ripresa da Basaglia, con il processo della deistituzionalizzazione, quindi della chiusura degli ospedali psichiatrici e
dell'inizio della cura all'interno del contesto di vita e dell'inclusione sociale di queste persone.

Ospedale psichiatrico giudiziario: è un ibrido, una via di mezzo tra il carcere e l’ospedale psichiatrico. Con il decreto-
legge del 1891 venne stabilito che l'alienato che aveva commesso reato dovesse essere custodito all'interno dei
manicomi giudiziari e la legge, poi ratificata dal codice Rocco del 1931, sottolineava che l'alienato mentale, autore di
reato ma non imputabile a causa della malattia per esso, dovesse essere custodito all'interno di queste strutture,
dove doveva essere valutata la sua pericolosità sociale. Quindi, con il codice Rocco l’ospedale psichiatrico giudiziario
diventa un istituto penitenziario e ha l'obbligo di seguire le misure di sicurezza detentiva, al fine di rieducare e
riabilitare la persona. La legislazione sull'ospedale psichiatrico giudiziario trova poi una legittimazione all'interno della
Riforma Penitenziaria del 1975, in cui viene dichiarato che la persona non imputabile di reato per vizio di mente viene
arrestata e sottoposta ad un periodo di osservazione psichiatrica. Se l'osservazione psichiatrica ne sostiene la
pericolosità sociale, l'autore viene rinchiuso nell’ospedale psichiatrico giudiziario per 2, 5 o 10 anni, a seconda del
grado di pericolosità e del reato commesso. Al termine di questo periodo, il soggetto viene riesaminato e se lo stato di
pericolosità non è più presente la persona viene rimessa in libertà, mentre se l'autore viene ancora giudicato
pericoloso socialmente, continuerà la sua detenzione all’interno dell’istituto. Questo sistema legislativo rimane in uso
per molti anni, fino a che il 31 maggio del 2015, dopo una serie di leggi emanate in questo arco temporale, abbiamo la
chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, o almeno parziale, e la presa in carico di queste persone da parte delle
Rems, ovvero le Residenze di Esecuzione per le Misure di Sicurezza. Attualmente, le Rems sono 16 sul panorama
nazionale e sono direttamente gestite dal Dipartimento di Salute Mentale.

CHE COSA NON È LA DEISTITUZIONALIZZAZIONE?

La deistituzionalizzazione ha una filosofia di base che è quella di dare all'individuo con una sofferenza mentale una
maggiore possibilità di scelta, oltre che di autonomia e potere decisionale, rispetto alle azioni della propria vita. La
deistituzionalizzazione si differenzia da altri fenomeni come la deospedalizzazione, che prevede invece che la cura non
possa essere connessa con il posto letto. Questo aspetto, in realtà, è presente anche all'interno dell'ospedale
psichiatrico e nel processo di deistituzionalizzazione, ma la differenza è che la deospedalizzazione non prevede
l'istituzione o il rafforzamento di servizi territoriali che possano prendere in carico tali soggetti, mentre questo è un
punto fondamentale su cui si batte la deistituzionalizzazione. Altro processo coinvolto è la transistituzionalizzazione,
che prevede che il soggetto con una malattia psichiatrica venga spostato dall'ospedale psichiatrico ad altre strutture,
come le comunità psichiatriche o i centri di residenza, dove però rimane l'elemento peculiare dell'aspetto
manicomiale, che è quello della gestione e del controllo di tutte le azioni della vita quotidiana dell'individuo. Infine,
abbiamo una corrente molto radicale che è quella dell'antipsichiatria, che invece nega assolutamente l’esistenza
della malattia mentale come qualcosa che vada curato e propone, di questa, un'idea positiva, come se per esempio la
schizofrenia potesse essere vista come un viaggio di andata e ritorno, alla scoperta di sé, da parte della persona.
Naturalmente, il processo di deistituzionalizzazione non nega la presenza della malattia mentale, semmai sostiene un
modello di cura molto diverso da quello presente all'interno degli ospedali psichiatrici.

I PRINCIPI CHIAVE DELLA DEISTITUZIONALIZZAZIONE

Gli assunti di base


I. L'istituzione psichiatrica tradizionale non porta ad una cura della malattia, bensì ad una sua cronicizzazione;
II. L'interesse non è per la malattia mentale in sé, bensì per una sofferenza mentale storicizzata e contestualizzata;
III. Si “smonta” l'istituzione psichiatrica con la sua definitiva chiusura.

Due fasi
A) Deistituzionalizzazione manicomiale: si attua già all'interno degli ospedali psichiatrici, per cui alla persona viene
ridata una certa dignità, le vengono dati dei vestiti, dei soldi, viene lasciata una maggiore libertà di spostamento e di
autonomia all'interno della struttura. Questa fase si conclude con il reinserimento sociale, che è la finalità
fondamentale, di questi soggetti in famiglia o in altro luogo che sia opportuno per i pazienti già ricoverati o cronici;
B) Deistituzionalizzazione territoriale (di comunità): consiste nell’organizzare i servizi psichiatrici all’interno dei
dipartimenti di salute mentale, proprio con la costruzione di organismi di servizi alternativi direttamente gestiti.

Tutto ciò ha delle implicazioni sia clinico-operative (epistemologiche), sia organizzative. Le prime ci mostrano come non
si debba parlare più di un malato mentale, bensì di un soggetto portatore di una sofferenza mentale, per cui è
necessario abbandonare un'ottica nosografica, tipica della psichiatria dell'epoca, e adottare un approccio ideografico
che valuti il soggetto e le sue peculiarità, individuando l'intervento più opportuno. Prendersi cura dell'individuo
significa anche prendersi cura della sua famiglia, attivando le risorse familiari del territorio. Non c'è più un danno da
riparare ma c'è una sofferenza di una persona di cui prendersi cura. Invece le implicazioni sull'organizzazione sono
tutti quei cambiamenti che vengono attuati nei Servizi Sanitari e nelle strutture destinate all’assistenza di pazienti con
disturbi mentali, che raggiungono l'apice con l’approvazione, nel 1978, della legge 180.

DEISTITUZIONALIZZAZIONE IN ITALIA E CENTRALITÀ DELLA PERSONA UMANA: LA LEGGE 180

La legge 180, poi inglobata all'interno della legge 833 della Riforma del Sistema Sanitario, viene
promossa dallo psichiatra italiano Franco Basaglia ed è fondamentale per tutti gli operatori del
campo psicologico. È costituita da 11 articoli che pongono l'attenzione su tre punti fondamentali:
1. La chiusura degli ospedali psichiatrici e l'obbligo di non costruirne di nuovi;
2. Inserire i pazienti psichiatrici nelle strutture alternative (DSM, SPDC, centri diurni) collegate con i
servizi del territorio;
3. La regolamentazione del trattamento sanitario obbligatorio (TSO) da limitare ai casi di assoluta
necessità.

CRITICITÀ

Aree critiche: innanzitutto una distribuzione disomogenea in tutto il territorio nazionale dei servizi psichiatrici e delle
strutture residenziali, oltre che la mancanza di coordinamento tra i servizi sociali e i servizi sanitari e un pregiudizio
diffuso nei confronti della malattia mentale e di qualcosa che è diverso. Inoltre, c’è un’insufficiente attenzione per gli
interventi di prevenzione primaria e secondaria, fondamentali soprattutto per soggetti a rischio come i bambini che
vivono una situazioni di maltrattamento fisico o psicologico. In questi casi, molto probabilmente, avremo una
maggiore incidenza di sviluppo di psicopatologia e disturbi della personalità. Un altro grosso problema è la difficoltà
nella diagnosi differenziale e nella presa in carico di soggetti che presentano sia una patologia psichiatrica sia un
comportamento di dipendenza da sostanze, per cui sono continuamente indirizzati da un servizio all'altro. Ad
esempio, dal dipartimento di salute mentale al SERT (servizi per le tossicodipendenze). Infine, c'è ancora una scarsa
attenzione alla presenza dei disturbi mentali negli istituti di pena.

Cose da fare: favorire una conoscenza epidemiologica del disturbo e incrementare gli interventi volti a combattere
l'emarginazione e la stigmatizzazione della persona che presenta una sofferenza di questo tipo, diffondendo l'ottica
del volontariato, dell'associazionismo e dell'auto-aiuto (principio base di psicologia di comunità). Opportuno rendere
omogenea la distribuzione dei servizi sul territorio nazionale e integrare le attività svolte, convergendo insieme (nel
privato e nel pubblico) per dare una maggiore risposta alle esigenze della persona malata. Poi, porre attenzione alla
famiglia della persona malata, formulando un intervento che tenga conto, oltre alle sedute di psicoterapia familiare,
anche di aumentare gli interventi domiciliari o rafforzare la presenza di centri di residenza per la famiglia. Infine,
favorire l'ottica della prevenzione (primaria e secondaria) e della diagnosi precoce (fondamentale) e attuare dei
programmi di formazione e di aggiornamento continuo del personale, perché lavorare in questo campo non è
assolutamente semplice e ha delle implicazioni anche sulla sfera personologica e relazionale dell'operatore.

I NUOVI SERVIZI

I Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) sono strutture nate


per offrire servizi alternativi al momento della chiusura degli
ospedali psichiatrici e hanno la funzione di programmare,
organizzare, erogare e monitorare tutti gli interventi previsti
per la persona. Gli interventi, al contrario di quanto previsto
per l'istituzione totale, non sono solo di cura, ma soprattutto
interventi di prevenzione e riabilitazione, quindi di
reinserimento sociale dei pazienti. Le strutture in cui si
divide il Dipartimento di Salute Mentale sono le Unità
Operative Complesse U.O.C (i Distretti e i Servizi Psichiatrici
di Diagnosi e Cura ospedalieri SPDC) e le Unità Operative
Semplici (i Centri di Salute Mentale, i Centri Diurni, le
Comunità Terapeutiche e Riabilitative).

Le competenze degli operatori: chi lavora nel campo della salute mentale deve possedere la capacità di elaborare
progetti terapeutico-riabilitativi partendo dalla globalità bio-psico-sociale del paziente. La capacità di gestire e
promuovere i gruppi di auto-mutuo-aiuto e anche di fare programmi di prevenzione e educazione alla salute mentale
sul territorio, attraverso una formazione comune e condivisa basata sul lavoro di equipe. Il lavoro a contatto con la
malattia mentale è logorante e stressante, per cui è opportuno prepararsi a gestire la sindrome del burn-out.

IL GRUPPO IN PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

Definiamo il gruppo come una totalità dinamica che


include affetti, bisogni, processi e pensieri di
relazione, ovvero un insieme in cui vi è
un'emergenza psicologica (affetti e bisogni) e
un'emergenza cognitivo-comportamentale (processi
e pensieri di relazione). Etimologicamente, il termine
gruppo deriva dal germanico "kruppa", che significa “matassa”, e nella determinazione della lingua italiana lo
riferiamo al “groppo”, al nodo. Quindi la prima valutazione vede il gruppo come un intreccio di relazioni che
fondamentalmente accompagna tutta la nostra vita, una dimensione collettiva.

Piccolo gruppo: una struttura intermedia tra l’individuo e la comunità, costituita da un numero ristretto di persone.
Sono contesti adatti a sviluppare una mentalità plurale, in cui viene soddisfatto il bisogno di appartenenza e di
individuazione. All’interno del piccolo gruppo si possono sperimentare i cosiddetti legami deboli, che permettono
proprio di sviluppare una relazione molto forte di interdipendenza (obiettivo principale). Per legame debole si
intende quel legame al cui interno il soggetto è capace sia di appartenere all'altro, sia di ricevere il senso di
appartenenza in maniera speculare, visualizzando il punto di vista dell'altro e farlo proprio. Rispetto ai piccoli gruppi,
le comunità odierne sembrerebbero in qualche modo caratterizzate da logiche escludenti, quindi risulterebbero
carenti proprio di quel senso di interdipendenza di cui i piccoli gruppi sono portatori. In questo senso, l'operatore
sociale e, soprattutto, lo psicologo di comunità, deve lavorare con il fine di ricercare questa caratteristica, perché
questo favorirebbe proprio lo sviluppo comunitario.

Gruppi terapeutici: sono delle realtà che appartengono più ad un contesto clinico e nascono per una richiesta esplicita
da parte del paziente sofferente di risolvere un proprio disagio. Infatti, lo scopo dei gruppi terapeutici è proprio quello
di alleviare la sofferenza del paziente attraverso una ristrutturazione profonda della personalità.
IL T-GROUP

Il T-group (o training group, o gruppo di addestramento) è un'esperienza di apprendimento per implicazione indiretta
(attraverso il contatto e l'esperienza dell’altro), attraverso la quale i partecipanti acquisiscono una maggiore
sensibilità ai fenomeni di gruppo e una più accurata percezione di sé e dell'altro.
(G. Badolato e M. G. Di Iullo, 1979)

Gli obiettivi del training group riguardano, innanzitutto, l’imparare ad apprendere dalla propria esperienza, acquisire
una maggiore consapevolezza di sé e arrivare ad una maggiore comprensione di ciò che accade in un gruppo (per
funzionare meglio nei gruppi in generale). Inoltre, si acquista una maggiore sensibilità ai problemi degli altri e una
tolleranza per i sentimenti diversi dai propri, si facilita le iniziative personali, e quindi c'è la possibilità di essere attivi
all'interno del gruppo e si stabilisce il proprio comportamento in funzione della realtà osservata nel gruppo. Un
concetto fondamentale è quello del feedback, ovvero tutte quelle comunicazioni che mandano messaggi rispetto a
come il messaggio dell'altro è stato recepito. Ha un'importanza fondamentale perché sono comunicazioni continue
che modificano il nostro comportamento e, di conseguenza, anche l'assetto del gruppo. All'interno dei training group,
è proprio grazie alle retroazioni, ai feedback, che noi possiamo individuare tre livelli di apprendimento:

1) Intrapsichico: ciascun membro all'interno del gruppo impara a conoscersi meglio, a conoscere meglio il proprio
modo di reagire all'altro, vedendosi riflesso nell'altro e quindi si prende coscienza dei ruoli interpretati;
2) Interpersonale: si acquisisce una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi altrui e una più corretta
percezione delle caratteristiche delle persone;
3) Sociale: l'apprendimento che ha luogo all'interno del training group può essere esteso anche in altri tipi di contesti.

I GRUPPI DI LAVORO

Si parla di gruppo di lavoro quando c'è un insieme organizzato di persone che si riuniscono per la condivisione di un
compito e hanno un obiettivo da raggiungere, in cui la caratteristica fondamentale è l'interdipendenza (necessaria
proprio per il raggiungimento dell’obiettivo). Ovviamente il gruppo di lavoro si differenzia dal lavoro di gruppo.
Interdipendere all'interno di un gruppo di lavoro significa non solo conoscere il compito da svolgere, ma anche
utilizzare metodologie condivise, distribuire ruoli e competenze, appartenere ad una stessa storia, riconoscersi come
fondamentali l'uno per l'altro, tollerare l'altro e sentirne la diversità come un arricchimento e quindi come continua
possibilità di messa in discussione di sé, nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo. La psicologia di comunità,
all’interno dei gruppi di lavoro, opera in due direzioni; per prima cosa, aumentare le caratteristiche positive del
setting ambientale, ovvero creare delle possibilità di crescita reali per i soggetti in modo da svolgere ruoli congrui alle
proprie aspettative, competenze e bisogni. Poi, rinforzare l'empowerment dei singoli partecipanti.

Gli interventi: vengono svolti attraverso molteplici strategie, come l'analisi organizzativa, soprattutto quella
multidimensionale, la consulenza sistemica, l'intervento sulla crisi, la ricerca-intervento e, infine, i programmi di
formazione on the job, dove vengono trasmesse conoscenze relative al funzionamento del gruppo stesso. In questi
programmi l'obiettivo è proprio quello di sviluppare l'appartenenza, l'interdipendenza e la condivisione dei vissuti
emotivi.
La formazione: prevede vari nuclei a sé stanti di formazione con obiettivi specifici e diversi. Ogni unità lavorativa si
articola in tre momenti fondamentali: una breve introduzione teorica, un'esercitazione pratica per garantire
l'apprendimento attraverso l'esperienza e, infine, una discussione finale rispetto a quanto esperito.
La letteratura: lo psicologo italiano Enzo Spaltro identifica il gruppo come un nucleo fondamentale che permette il
passaggio attraverso diverse fasi: “prima si impara la relazione di coppia, poi di piccolo gruppo (micro), poi di grande
gruppo collettivo, organizzazione o istituzione (macro), poi ancora di comunità, cioè di collettivo non delimitato
(mega)”. Il passaggio da un livello all’altro avviene attraverso un cambiamento di mentalità, che serve all'uomo per
vivere più democraticamente, così come viene esplicitato anche dai fratelli psicologi D. Johnson e F. Johnson (1975).

I GRUPPI AUTO-AIUTO (SELF-HELP)

Nel secolo scorso il self-help fu visto come una possibilità concreta di cambiamento evolutivo per l'uomo e di
risoluzione dei propri disagi. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inserisce i gruppi di auto-aiuto (self-help)
all'interno di: “tutte quelle misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere o recuperare la salute -
intesa come completo benessere fisico, psicologico e sociale - di una determinata comunità”. Già da questa definizione
noi possiamo valutare anche il carattere non solo di cura, insito all'interno del self-help, ma anche di prevenzione.
Katz e Bender: la definizione più conosciuta dei gruppi di auto-aiuto è quella data dagli psicologi Alfred Katz ed
Eugene Bender nel 1976: “strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto e al
raggiungimento di scopi particolari. Essi sono di solito formati da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca
assistenza nel soddisfare bisogni comuni, per superare un handicap comune o un problema di vita oppure per
impegnarsi a produrre cambiamenti personali o sociali desiderati. I gruppi di auto-aiuto enfatizzano le relazioni sociali
faccia a faccia, il senso materiale e il sostegno emotivo; altrettanto spesso sono orientati verso una qualche “causa”,
proponendo una “ideologia” o dei valori sulla base dei quali i membri possono acquisire o potenziare il proprio senso
di identità personale”.

Caratteristiche del gruppo di auto-aiuto: innanzitutto, essi hanno un’origine spontanea (nessuna costrizione) e lo
scopo ultimo è il sostegno reciproco. La composizione del gruppo è caratterizzata dall’orizzontalità e l'enfasi è posta
sul senso di responsabilità personale. All’interno di questi gruppi, i partecipanti sono tutti responsabili perché hanno
un duplice ruolo (una delle caratteristiche fondamentali e uno dei fattori terapeutici del gruppo): fornitore di
supporto e sostegno e, allo stesso tempo, il destinatario delle cure (questo dà una grande sensazione di potere e di
responsabilità). Le attività sono tutte autogestite dai membri all'interno del gruppo e la filosofia di base è quella del
learning by doing e del changing by doing: si impara, si
fa e si cambia, ovvero permettere il cambiamento
attraverso l'esperienza. Il primo gruppo di auto-aiuto,
quello maggiormente conosciuto, nasce negli anni
Trenta negli USA ed è il gruppo degli Alcolisti Anonimi
(1935). I fattori che favoriscono la nascita e la
diffusione di questa tipologia di gruppi sono
fondamentalmente: una sfiducia nelle istituzioni e
nell’operato dei professionisti, una crisi nei modelli di
cura tradizionali, il cambiamento del modo di vedere la
patologia rispetto al passato e lo sviluppo di un'ottica di
tipo preventivo.

LE TIPOLOGIE DEI GRUPPI DI AUTO-AIUTO

Una prima classificazione a cui facciamo riferimento è quella dello psicologo Leon H. Levy, criticata perché in alcuni
casi sembra sfociare già nei gruppi terapeutici, il quale distingue i gruppi di auto-aiuto in:
- Gruppi di controllo del comportamento o riorganizzazione della condotta (es. Alcolisti Anonimi);
- Gruppi di difesa e sostegno dallo stress, per aumentare la capacità di far fronte allo stress;
- Gruppi di azione sociale e civile (es. gruppi contro la discriminazione degli omosessuali);
- Gruppi di crescita personale e autorealizzazione (es. gruppi di persone single).

Più adeguata sembra essere, invece, una successiva classificazione data dalle psicologhe italiane Donata Francescato
e Anna Putton, che distinguono quattro gruppi di auto-aiuto:
- Gruppi di controllo del comportamento: il focus è sui comportamenti problematici (es. Alcolisti Anonimi, gruppi di
tossicodipendenti) - tali e quali ai gruppi descritti da Levy.
- Gruppi di portatori di handicap o malattie croniche: difficoltà oggettiva nel cambiare la condizione in cui queste
persone vivono, per cui i gruppi mirano molto all'accettazione della malattia e al migliorare la qualità della vita del
paziente (es. gruppi di malati psichiatrici, malati di cancro);
- Gruppi di parenti di persone con problemi gravi;
- Gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi: la crisi e la disorganizzazione psichica sono dovute ad un
evento improvviso, positivo o negativo, oppure prevedibile (eventi normativi o para-normativi).

I FATTORI DI EFFICACIA

A) Funzioni socio-emotive: sono caratterizzate da un abbassamento delle difese e delle resistenze perché ci si sente
accettati e la situazione di isolamento viene meno. Attraverso l'identificazione con l'altro, che porta le mie stesse
difficoltà, io posso permettermi di abbassare le corazze che ho dovuto ergere rispetto alla malattia. C’è una
comunicazione diretta tra i membri, vi è un processo di identificazione con le persone vissute come simili a sé, un
sostegno informativo ed emotivo e una capacità in maniera circolare. Vi è l’opportunità di socializzare e di acquisire
uno status all'interno del gruppo.
B) Valore terapeutico dell’helper: secondo il modello dell’helper-therapy (1965), proposto dallo psicologo sociale
Frank Riessman, chi aiuta riceve aiuto, dal momento che aumenta il proprio empowerment e la competenza
personale, c'è un riconoscimento sociale per il ruolo che si svolge, si sente meno dipendente e si passa da una
posizione di dipendenza e impotenza a una posizione attiva e, infine, si ha l’opportunità di osservarsi dall’esterno e di
apprendere strategie di cambiamento.

C) La carica ideologica del gruppo: i gruppi si organizzano attorno ad un sistema di principi, regole e valori condivisi,
che in qualche modo permettono poi la relazione trasformativa del gruppo stesso e, pertanto, la funzione attiva e
trasformativa del gruppo è permessa dall’adesione a quest’ideologia condivisa.

Riprendendo la classificazione proposta da Francescato e Putton, si possono distinguere diversi fattori di efficacia a
seconda della tipologia di gruppi di auto-aiuto:
- Gruppi di controllo del comportamento: meccanismi di identificazione e modellamento;
- Gruppi portatori di handicap o malattie croniche: il sostegno emotivo e informativo, l’identificazione con il gruppo
dei pari, l’essere un helper;
- Gruppi di parenti di persone con problemi gravi: il sostegno emotivo, strumentale e, soprattutto, informativo;
- Gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi: il sostegno sociale fornito dal gruppo attraverso
l’identificazione e l’aiuto reciproco.

I GRUPPI DI AUTO-AIUTO IN ITALIA

Il gruppo italiano di auto-aiuto più conosciuto è quello degli Alcolisti Anonimi, caratterizzato dall'anonimato (rispetto
al proprio nome e ai contenuti condivisi con gli altri membri) e dal fatto che per iniziare a farne parte è necessario,
come unico requisito, il desiderare di smettere di bere. Il percorso prevede 12 passi da superare, il primo dei quali è
quello di dichiararsi impotenti rispetto alla malattia (“noi abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcool o
al cibo, e di non poter più controllare la nostra vita”) e non è possibile, all'interno del gruppo, fare un dibattito ed
esprimere giudizi o critiche, per cui il soggetto viene sempre accettato e il suo contributo condiviso nel gruppo. In
Italia, poi, sono molto sviluppati, e in evoluzione, i gruppi che si occupano di soggetti operati per un tumore. Tali
gruppi hanno alcuni obiettivi fondamentali, tra cui il fatto che il gruppo serve soprattutto per dare un luogo protetto
di ascolto, dove si possa parlare della malattia, in quanto spesso è difficile parlarne all'esterno. C'è una difficoltà
rispetto all'accettazione della malattia il fatto di poterne parlare e sentirsi ascoltati promuove un esame di realtà e
l’elaborazione del problema. Si aiuta il paziente ad affrontare i problemi correnti, si incoraggia la speranza, si
diminuisce la sensazione di isolamento, attraverso anche la condivisione di strategie di problem solving per affrontare
il problema. Infine, si forniscono anche delle informazioni ma il fine ultimo, soprattutto con soggetti in fase terminale,
è di aumentare la qualità della vita del soggetto malato.

Il self-help e i sistemi formali di cura: quello che si dovrebbe fare, dal punto di vista dello psicologo di comunità, è
facilitare l'interconnessione e l’integrazione tra i sistemi formali di cura e i sistemi del self-help attraverso una stima e
un’accettazione reciproca delle diversità, in un'ottica di complementarità dell'intervento. Lo psicologo di comunità
dovrebbe aiutare sia l'implementazione di tali servizi sul territorio, sostenendo e facilitando la nascita delle realtà del
self-help, sia questa connessione con i sistemi organizzati (la sanità pubblica), preposti alla cura istituzionale.

RETE, SOSTEGNO SOCIALE E LAVORO DI RETE COME PRATICA DELLO PSICOLOGO DI COMUNITÀ

La definizione di rete sociale è data da C. J. Mitchell nel 1969: “un insieme specifico di legami tra un insieme specifico
di persone”. Lo studio della rete è lo studio dei legami che uniscono le persone tra di loro, un concetto fondamentale
per conoscere questi legami, all'interno dei sistemi, e aumentare la conoscenza dei comportamenti dell'individuo.

GLI STUDI SULLA RETE SOCIALE

MORENO: il primo a parlare di rete sociale è stato lo psichiatra rumeno Jacob Levi Moreno (1889-1974), all'interno
della sua prospettiva teoria detta sociometria, in cui studia le relazioni spontanee esistenti tra gli individui. Questo
studio porta poi a definire il “sociogramma”, uno strumento atto a valutare la presenza dei rapporti, all'interno di una
collettività, di un sistema o di un gruppo, che si connotano per l'accettazione o per il rifiuto. Analizzare questi
rapporti, porta alla formazione della “mappa sociometrica” all'interno della quale vengono definite le relazioni
esistenti. I criteri che vengono presi in considerazione sono due: il criterio socio-affettivo e il criterio socio-funzionale.
BARNES: l’antropologo inglese John Barnes (1918-2010), osservando e studiando un villaggio di pescatori norvegesi,
descrive le caratteristiche delle relazioni che ogni individuo aveva con gli altri, individuando rapporti basati sulla
familiarità, sull’amicalità o rapporti lavorativi e inizia a valutare le influenze di questi rapporti nello svolgimento della
propria vita. Studiando questo villaggio, Barnes arriva a distinguere la rete personale, un insieme di relazioni che
circondano l'individuo, dalla rete sociale, l'insieme delle relazioni all'interno di tutta la collettività. La rete sociale
viene poi definita graficamente con un insieme di punti, alcuni dei quali collegati da linee. I punti sono le persone o i
gruppi, mentre le linee rappresentano i legami esistenti tra loro.

GRANOVETTER: un'altra teoria a cui si fa riferimento è


quella del sociologo americano Mark Granovetter
(1943), il quale sostiene che la forza dei legami è data
dalla combinazione tra tempo, frequenza, intensità,
emozioni e scambio di servizi. Granovetter distingue i
legami forti, che concentrano tutte le interazioni
all’interno dei gruppi di appartenenza, dai legami
deboli, che invece favoriscono l'integrazione dei
membri di gruppi diversi. L’organizzazione di comunità è
più agevole in quartieri in cui i legami familiari e amicali
sono meno stretti e c’è una minore diffidenza nei
confronti degli estranei.

IL SOSTEGNO SOCIALE - LE FUNZIONI

Sostegno emotivo: la manifestazione d'affetto, l’interesse per l’altro che si trova, per esempio, all'interno della
famiglia, quell'agenzia che ha come obiettivo il soddisfacimento dei nostri bisogni fondamentali, tra cui i bisogni
socio-emotivi di base;
Sostegno strumentale: una forma di aiuto pratico o assistenza fornito nel momento del bisogno per l'individuo e
consiste in un intervento pratico;
Sostegno informativo: aiuto volto ad arricchire le informazioni e le conoscenze della persona;
Sostegno affiliativo: deriva dall'appartenenza ai gruppi, distinti in formali e informali.

Su questo tema, la psicologa clinica italiana Maura Sgarro distingue due tipi di sistemi supportivi, dalla cui azione si
origina il sostegno sociale che promuove un sano sviluppo individuale e rafforza le capacità di reazione allo stress:
1. Sistema informale: sono i gruppi primari, come la famiglia e le aggregazioni spontanee, che sono legati dall'affetto,
dalla condivisione dei valori fondamentali, dal soddisfacimento dei propri bisogni ed è un gruppo costante nel tempo,
in cui la costituzione si basa sulla possibilità dell'esperire il sentimento verso l'altro;
2. Sistema formale: le strutture istituzionali e i professionisti che operano all'interno dei contesti di cura, di
riabilitazione e prevenzione delle difficoltà in ambito psicosociale.

IL SOSTEGNO SOCIALE COME MODERATORE DELLO STRESS

Alcuni studi si rifanno al cosiddetto modello diretto, che ipotizza una connessione lineare e diretta, cioè un “effetto
primario” sul benessere indipendentemente dai livelli di stress. Un secondo approccio, definito modello indiretto,
dice che il sostegno sociale influisce sulla condizione di benessere dell'individuo perché agisce da tampone o da
“cuscinetto” protettivo nei confronti dell'evento stressante e ne modera le conseguenze.
Cohen e Willis: il sostegno sociale esercita un ruolo di "health
protective" in diversi momenti della sequenza che avviene in
seguito ad un evento stressante e alla sua successiva reazione. Il
sostegno sociale interviene in più momenti di questa sequenza, ad
esempio tra l'evento stressante e la reazione allo stress, attenuando
e prevenendo il processo di valutazione dello stress. Oppure, può
intervenire in un momento successivo, tra l'esperienza dello stress e
la comparsa dei sintomi, riducendo o eliminando la reazione allo stress o influenzando direttamente i processi
fisiologici. In questo senso, molte ricerche hanno messo in evidenza il rapporto esistente tra la presenza di sostegno
sociale e la possibilità di agire sul sistema neuroendocrino, responsabile della produzione degli ormoni legati allo
stress (soprattutto cortisolo), agendo direttamente sull'arousal (stato di attivazione fisiologico) del soggetto.
Misure: questa concezione di sostegno sociale ha trovato delle critiche perché molto spesso viene confuso con il
concetto di rete sociale. Per questo motivo, oggi si parla molto più spesso di sostegno sociale percepito, dove viene
presa in considerazione la variabile individuale e soggettiva rispetto all'elaborazione degli stimoli stressanti e alla
valutazione della possibilità di ricevere il sostegno dall'altro. In questo senso, sono state create delle misure per
valutare il sostegno sociale percepito, come il Social Support Questionnaire, un questionario che misura il numero
delle persone che forniscono aiuto e la soddisfazione che proviamo rispetto all'aiuto percepito, oppure il Social
Support Resource, un’intervista strutturata che permette di rilevare la capacità supportiva della rete sociale,
chiedendo quali sono le persone che svolgono le funzioni di aiuto e secondo quali obiettivi.

Interventi: rispetto alla questione del sostegno sociale abbiamo due tipi di interventi fondamentali, il primo dei quali è
il collegamento intersistemico, volto all'integrazione dei sistemi sociali di sostegno formale con quelli informali.
L'integrazione tra questi due sistemi porta a dei vantaggi oggettivi, perché da una parte abbiamo dei sistemi informali,
che partecipano più attivamente alla gestione della propria salute e, dall'altra parte, abbiamo dei sistemi di cura
tradizionali (i sistemi formali), che sono sottoposti ad un controllo continuo e quindi spinti ad aumentare l'efficacia
del proprio intervento. Il secondo intervento è rappresentato dagli interventi terapeutici, il cui scopo è quello di
promuovere la competenza e ottimizzare le potenzialità supportive delle reti sociali. In più, gli interventi terapeutici
possono essere centrati sull'individuo oppure a un livello più macro, ovvero gli interventi sistemici. Parlando di
interventi terapeutici centrati sull’individuo, fondamentalmente facciamo riferimento alla psicoterapia, in cui
l'intervento è finalizzato proprio ad aumentare la capacità di insight del soggetto e risolvere i propri conflitti interni,
aumentando la capacità di integrazione nella rete sociale e l’accesso alle fonti di sostegno. Gli interventi sistemici,
invece, sono finalizzati ad aumentare le capacità terapeutiche health protective delle reti di sostegno presenti, quindi
si attuano su più livelli. Differentemente dall'approccio terapeutico, gli interventi sistemici richiedono una visione
complessa e un’azione esercitata su una pluralità di variabili e relazioni. Un'altra terapia è la network therapy (o la
terapia di rete), che mira a potenziare le risorse supportive della rete dei legami più prossimi al soggetto. L'obiettivo
fondamentale è proprio quello, inserendo il paziente all'interno della rete, di evitare un etichettamento come
“malato”.

IL LAVORO DI RETE

Il lavoro di rete è un vero proprio paradigma


operativo dell'intervento psicosociale, un modo di
lavorare che interviene su tutti i livelli della rete
sociale esistenti ed è fondamentale per aumentare
l'accordo intersistemico. Rispetto agli interventi
metodologici del lavoro di rete, distinguiamo tra un
intervento centrato sull'individuo (terapia di rete o
terapia di sostegno), che va a valutare e a
riconoscere le potenzialità preventive e riabilitative
(curative) della rete di appartenenza dell'individuo,
attraverso la conoscenza delle aree disfunzionali e
dei deficit della rete stessa, quindi con una matrice di tipo clinico-terapica. Oppure un intervento a livello macro
(community care e lavoro sociale di rete), orientato all'attivazione di reti stabili che facciano fronte ai problemi
complessi della comunità, ma soprattutto centrato su una strategia delle connessioni tra i sistemi esistenti.

I processi che hanno favorito lo sviluppo dell'ottica del lavoro di rete sono quelli di democratizzazione della società
(lo sviluppo della “società moderna” con la progressiva modificazione del modo di concepire l’esistenza e un maggior
valore rispetto all'interdipendenza e alla relazione con l'altro), lo sviluppo di politiche sociali, soprattutto a partire
dagli anni ’60, con i processi di de-segregazione e de-istituzionalizzazione. Infine, i cambiamenti a livello sociale,
quindi eventi che necessitano di maggiore integrazione tra il settore pubblico e privato, per offrire risposte
diversificate ai bisogni della comunità. Le caratteristiche fondamentali di una rete sono la presenza di soggetti
interagenti, la relativa stabilità delle transizioni esistenti e una strutturazione dello scambio, che in qualche modo è
definito da una progettazione comune, una suddivisione condivisa dei ruoli e una definizione di procedure di gestione
dei conflitti. I cambiamenti del lavoro di rete coinvolgono tutti i livelli di un’organizzazione, tra cui il livello
individuale, in cui c'è un cambiamento dell'identità personale, il livello sistemico, ovvero un cambiamento nella
rappresentazione del servizio e della sua collocazione nel territorio, oppure ancora il livello funzionale, in cui
cambiano le funzioni dei ruoli dei singoli servizi e i rapporti tra gli operatori a livello psicosociale. Lavorare in un'ottica
di rete significa anche, a livello strutturale, promuovere delle leggi innovative, mentre a livello psicosociale si osserva
un cambiamento dei rapporti tra operatori, degli stili di leadership, della distribuzione del potere e delle modalità
comunicative. Per effettuare un lavoro di rete bisogna seguire dei passaggi fondamentali, tra cui la prima cosa da fare
è identificare la rete, per poi passare ad analizzarla in tutte le sue strutture, dimensioni e caratteristiche fondamentali
(l'ampiezza, la qualità, la quantità, la frequenza, la reciprocità, la durata e la forza dei legami, la coesione). Solo una
volta che la rete è studiata e analizzata nel suo insieme, anche attraverso la valutazione delle aree disfunzionali e i
deficit, ma soprattutto le aree funzionali e le risorse della rete stessa, possiamo implementare un intervento coerente
con quanto emerso dalle fasi precedenti.

I TIPI DI RETE

Rete coesa ed omogenea: un'unica rete con una grande capacità di fornire sostegno reciproco all'altro ma con una
richiesta di adesione ai valori preponderanti della rete stessa molto forte, quindi grande richiesta di conformismo;
Rete frammentata: piccoli gruppi quasi indipendenti tra di loro, dove all'interno è possibile ricevere sostegno, anche
se in misura minore. Quasi nulla la richiesta di conformismo, però vi è una maggiore flessibilità;
Rete dispersa: caratterizzata da relazioni sporadiche e di breve durata, quasi nulle le possibilità di ricevere sostegno.

Gli obiettivi del lavoro di rete: aumentare la consapevolezza delle reti presenti, valorizzare gli elementi positivi delle
relazioni, allentare, se necessario sciogliere, i legami esistenti, rinforzare e sostenere le reti oppure crearne di nuove,
riorganizzare i sistemi di sostegno e, infine, ricostruire daccapo, se necessario, una rete già esistente.

IL LAVORO DI RETE E LO PSICOLOGO DI COMUNITÀ

L'intervento dello psicologo di comunità è volto alla costruzione delle reti sociali, integrando, attraverso varie
strategie, le reti esistenti e i sistemi di sostegno formale con quelli informali, con l’obiettivo di creare legami multipli
e networks sociali (obiettivo fondamentale). L’intervento dello psicologo può essere volto, quindi, non solo
all’individuazione delle risorse presenti sul territorio, ma anche alla costruzione di reti di rapporti tra di esse.
Nell’implementazione del lavoro di rete, lo psicologo di comunità collabora all'elaborazione del progetto di rete
stesso, eliminando poi le resistenze e i pregiudizi tra gli operatori appartenenti alle diverse organizzazioni e dei diversi
sistemi. Lo psicologo deve favorire e utilizzare un'ottica pluralistica e dare la possibilità di far emergere punti di vista
diversi, costruire quindi una cultura comune relativa al lavorare per progetti attraverso anche la produzione delle
regole condivise sulle metodologie di intervento e sui criteri di valutazione.

LO SVILUPPO DI COMUNITÀ E L’EMPOWERMENT

Lo sviluppo di comunità è un “processo dinamico che ha come fine quello di favorire una condizione di progresso
sociale ed economico della comunità attraverso la partecipazione attiva di tutti i cittadini” (J. Rothman, 1974).
Secondo, invece, lo psicologo di comunità Elvio Raffaello Martini, insieme al collega Roberto Sequi, lo sviluppo di
comunità è visto come un “processo di cambiamento volto al miglioramento della qualità di vita e alla possibilità, da
parte della comunità, di acquisire le capacità di risolvere i propri problemi e soddisfare i propri bisogni” (1996). Per
quanto riguarda, invece, le principali strategie dello sviluppo di comunità, sono le seguenti:

- Creare un senso di coesione sociale;


- Rinforzare le esperienze di auto-aiuto;
- Sensibilizzare tutti cittadini sui problemi della comunità;
- Identificare e incoraggiare le capacità dei leader locali e l'operato dei professionisti;
- Sviluppare una coscienza civica e lo scambio, nel rispetto reciproco delle diversità;
- Utilizzare le competenze dei professionisti, mobilitando di gruppi di pressione e cambiamento sociale;
- Offrire una formazione sulle tecniche di gestione dei conflitti e di soluzione dei problemi;
- Coordinare l’azione di rete tra i vari servizi ai diversi livelli.

Potremmo, dunque, definire lo sviluppo di comunità come l'insieme degli interventi che hanno come scopo quello di
aumentare la possibilità di cambiamento della comunità e migliorare le condizioni di vita, sia quelle sociali che quelle
economiche, attraverso la cooperazione volontaria di tutti e lo sviluppo dell’auto-aiuto tra i cittadini stessi, attraverso
l'aumento della possibilità di self- help. Si differenzia leggermente dallo sviluppo di comunità, invece, l'azione sociale,
che invece si riferisce a quegli interventi volti a ridistribuire in modo equo le risorse presenti sul territorio, modificare le
relazioni di potere attraverso l'impegno attivo politico di presa di posizioni molto precise e si sviluppa attraverso
interventi che accrescono la consapevolezza dei gruppi minoritari svantaggiati (distinzione meno netta nella pratica).
I FATTORI E I VALORI SOTTOSTANTI

Fattore educativo: rendere consapevoli le persone sul


proprio ruolo all'interno della società sviluppando il self-help;
Fattore operativo: individuare i bisogni, gli strumenti e le
risorse necessarie per avviare il cambiamento;
Fattore valutativo: monitorare continuamente il processo di
cambiamento per valutarne l'andamento;
Fattore democratico: promuovere la collaborazione di tutti;
Fattore politico sociale: cooperazione tra forze locali e forze
governative.
A questo proposito, Martini e Sequi sostengono che i fattori
che più contribuiscono allo sviluppo di comunità sono il
coinvolgimento dei cittadini (i soggetti sono spinti ad agire direttamente), la partecipazione che dona la possibilità di
esercitare un potere sano rispetto alla possibilità di scegliere e di agire in modo autonomo, la creazione di
connessioni, quindi lo sviluppo della comunicazione tra le diverse strutture sociali e l’identificazione di obiettivi
comuni e, infine, il senso di responsabilità sociale, ovvero la consapevolezza che tutto ciò che riguarda la comunità
appartiene a tutti.

LE STRATEGIE DI SVILUPPO DI COMUNITÀ: L’ANALISI DI COMUNITÀ

Una delle strategie più efficaci per aumentare lo sviluppo di comunità è l'analisi di comunità, che traccia un vero e
proprio “profilo di comunità” e che è stata identificata proprio da Martini e Sequi e prende il nome di tecnica dei
sette profili di comunità, in cui si va a sottolineare il profilo di comunità andando ad analizzare diverse caratteristiche:

1) Profilo territoriale: i dati relativi al territorio, come il clima o l'estensione;


2) Profilo demografico: il numero degli abitanti divisi per caratteristiche come genere, sesso o età;
3) Profilo delle attività produttive: le attività primarie, secondarie e terziarie;
4) Profilo dei servizi: servizi socio-sanitari, educativi, ricreativo-culturali pubblici e privati;
5) Profilo istituzionale: l'organizzazione politico-amministrativa, quindi la distribuzione del potere;
6) Profilo antropologico: storia, norme, atteggiamenti sociali e sistema di valori tramandati in quella cultura;
7) Profilo psicologico: dinamiche affettive, coesione e identificazione col gruppo, apertura-chiusura del sistema,
livello di partecipazione e senso di sicurezza.

Si arriva alla definizione di analisi di comunità che è quella data da nel 1995 da Martini e Sequi: “non intesa come
analisi dei bisogni, ma un momento fondamentale di un processo di cambiamento…coincide con il processo di presa di
coscienza da parte dei soggetti, protagonisti della comunità, delle loro condizioni, necessità, potenzialità, risorse, dei
loro limiti, valori e desideri…non sono i dati ad essere importanti, ma il significato che i diversi attori sociali, attraverso
un processo di negoziazione collettiva, attribuiscono ai dati, che è determinante ai fine del cambiamento”.

IL METODO DEGLI OTTO PROFILI

Rispetto al metodo identificato da Martini e Sequi, la psicologa Donata Francescato, insieme alla collega Cornelia
Ehmayer, fa delle modifiche e delle aggiunte, arrivando alla formulazione del suo metodo degli otto profili. Per
prima cosa, osserviamo l'aggiunta di un profilo in più, quello del futuro; poi, un potenziamento proprio nella ricerca
della valutazione dei profili, dove viene istituito un gruppo di ricerca interdisciplinare formato sia da esperti esterni,
come lo psicologo, sia da esperti interni alla comunità stessa che, in questo senso, la rappresentano. Nello specifico, il
gruppo di ricerca interdisciplinare opera, prima ancora di arrivare ad un’analisi obiettiva dei profili, un'analisi
preliminare, in cui viene effettuata una valutazione dei punti di forza e dei punti di debolezza della comunità stessa, la
quale poi viene confrontata con i dati raccolti durante l’analisi dei profili. In questo senso, parliamo di un vero e
proprio metodo di ricerca partecipata, che coinvolge i cittadini e parte dalla necessità dello studio teorico rigoroso,
per arrivare poi al cambiamento della comunità stessa attraverso l’applicazione dei principi di partenza. Secondo la
visione di Francescato ed Ehmayer, l’azione e la ricerca sono assolutamente inscindibili e, in questa disciplina, vanno
considerate equamente, perché assolutamente congrue con i principi guida della psicologia di comunità stessa.
Arriviamo, dunque, alla descrizione specifica degli otto profili proposti nel modello di Francescato ed Ehmayer, di
seguito descritti, insieme con le tecniche di analisi dei profili stessi:
1) Richiesta di un committente: necessità di studiare e capire come è costituita la propria comunità;
2) Formazione del gruppo di ricerca (multidisciplinare o interdisciplinare);
3) Analisi preliminare: mediante azione di brainstorming o focus group, ricerca i punti di forza e debolezza;
4) Analisi di ogni profilo: avviene attraverso gli indicatori obiettivi, ovvero i dati statistici;
5) Comparazione tra dati obiettivi e percezione di analisi preliminare;
6) Presentazione dei risultati al committente e discussione di gruppo;
7) Realizzazione dei progetti;
8) Follow-up: valutare l'andamento e l'efficacia del progetto nel medio-lungo termine.

Tecnica del profilo territoriale: la passeggiata e le fotografie del quartiere;


Tecnica del profilo demografico: la consultazione anagrafe e l’intervista ad esperti sui dati ambigui;
Tecnica del profilo delle attività produttive: l’intervista ad esperti e i dati statistici;
Tecnica del profilo dei servizi: l’intervista ad esperti e il focus group;
Tecnica del profilo istituzionale: l’intervista ad esperti delle varie istituzioni;
Tecnica del profilo antropologico: l’intervista ad esperti e ai cittadini e il focus group;
Tecnica del profilo psicologico: scale di sostegno sociale e tecniche proiettive (disegno e film di quartiere);
Tecnica del profilo del futuro: le interviste ai cittadini e il focus group su domande-stimolo.

LA RICERCA PARTECIPATA

Gli strumenti della ricerca partecipata in analisi di


comunità possono essere diretti oppure indiretti. Tra
gli strumenti tradizionali sicuramente c'è l'intervista
face to face, dove si intervista personalmente il
cittadino chiedendogli opinioni in merito ad alcune questioni che riguardano il territorio in cui vive, ed è una tecnica
che sicuramente raccoglie una quantità di dati e di informazioni molto ampi perché il soggetto è di fronte a noi e
possiamo chiedergli molte cose. Al contempo, è una tecnica dispendiosa, sia in termini economici che in termini di
tempo, e in più può essere soggetta a delle distorsioni. Nel sondaggio telefonico, invece, si intervistano
telefonicamente le persone attraverso domande predefinite. Infine, il questionario self-report viene spedito a casa e
presenta domande e risposte predefinite. In questi ultimi due strumenti, le difficoltà dell’intervista face to face
vengono meno perché è garantito alla persona l'anonimato. Rispetto invece agli strumenti innovativi, abbiamo i
focus group, che sono piccoli gruppi all'interno dei quali si attiva una discussione sull’argomento oggetto di indagine e
si invitano tutti partecipanti ad esprimersi liberamente e confrontarsi con gli altri. Il clima è orizzontale e trasversale,
non esiste un leader e anche lo psicologo stesso viene considerato più come un facilitatore della comunicazione, una
persona competente che non risolve il problema direttamente (come farebbe il clinico), ma funge da attivatore di
risorse interne e di processi, come un consulente.

Le strategie di sviluppo di comunità: tutte le tecniche di sviluppo di comunità seguono, ovviamente, i principi della
psicologia di comunità, facilitando l'unione e la cooperazione tra gli individui che vivono uno stesso problema, la
cooperazione tra loro e la condivisione del capitale sociale della comunità, fondamentale per il suo benessere. Fanno
emergere in modo particolare il legame esistente tra empowerment individuale e lotte sociali, permettono la
realizzazione di progetti finalizzati al cambiamento sociale e, inoltre, identificano le risorse e i vincoli della comunità.

L’EMPOWERMENT

L'empowerment è un concetto chiave che permette di mediare tra una dimensione più individuale e una più socio-
politica, integrando i contributi di diverse dottrine: la psicologia sociale, la psicologia ambientale, la psicologia clinica e
la teoria dei sistemi. All'interno della psicologia della comunità è descritto come la possibilità che si dà all'individuo e
alla comunità di “favorire l'acquisizione di potere, di diventare in grado di" (to empower). Questo è un costrutto
multidimensionale, che implica sia un processo che un esito (acquisire potere ed essere potente insieme). La prima
definizione che prendiamo in considerazione è quella dello psicologo americano Julian Rappaport, il quale sostiene
che l’empowerment è “un processo che permette l’acquisizione di potere e di accrescere la capacità delle persone (a
livello dei singoli, dei gruppi, delle organizzazioni e delle comunità) di controllare attivamente la proprio vita” (1981).
In senso generale, le tre caratteristiche alla base del concetto di empowerment sono la capacità di esercitare un
controllo (la capacità, percepita o reale, di influenzare le decisioni), la consapevolezza critica (la conoscenza del
funzionamento delle strutture di potere, dei processi decisionali e della gestione delle risorse) e l’azione collettiva (le
azioni messe in atto per raggiungere gli obiettivi condivisi e desiderati, un’azione a cui tutti partecipano).
Zimmerman: secondo la definizione di Marc A. Zimmerman, psicologo e professore universitario americano, è che si
passa da una condizione di impotenza appresa (learned helplessness) ad una condizione di speranza appresa (learned
hopefullness). Si passa da una condizione di impotenza appresa, porta l'individuo a una situazione di fallimento e di
incontrollabilità degli eventi, oltre che di non possibilità di intervenire attivamente su di essi, a una condizione di
speranza appresa, una posizione invece più attiva e affermativa da parte del soggetto, il quale si sente finalmente
capace di controllare gli eventi della propria vita. Vediamo come all'interno del costrutto dell'empowerment proposto
da Zimmerman troviamo anche il concetto di auto-efficacia di Albert Bandura, ovvero la fiducia nelle proprie
possibilità di raggiungere quei determinati obiettivi e quei determinati scopi prefissati, oltre che il locus of control
interno di Julian Rotter, cioè la convinzione che ciò che si fa determina in qualche modo quello che succede nella
propria vita, per cui gli eventi dipendono anche dal proprio comportamento.

Bruscaglioni: secondo la definizione dello psicologo Massimo Bruscaglioni, l’empowerment serve ad aumentare le
possibilità di azione, le scelte che l'individuo ha. Bruscaglioni sostiene che l’empowerment psicologico è “un processo
di ampliamento, attraverso il miglior uso delle proprie risorse attuali e potenziali acquisibili, delle possibilità che il
soggetto può praticare e rendere operative”. Quindi è un costrutto che integra diverse dimensioni (di personalità,
cognitive e motivazionali).

Torre: anche Dorothy Ann Torre, psicologa dello sviluppo, in questa scia, parla di “un processo attraverso cui le
persone diventano sufficientemente forti da partecipare, condividere il controllo e influenzare gli eventi e le situazioni
che incidono sulla propria vita”.

I requisiti fondamentali dell'empowerment: sono lo sviluppo di un sé potente (promuove il coinvolgimento sociale


affettivo, quindi essere coinvolti da un punto di vista non solo comportamentale, ma anche emotivo e cognitivo), la
capacità di fare un'analisi critica dei sistemi sociali e politici che definiscono il proprio ambiente, l’abilità di sviluppare
delle strategie di azione e coltivare risorse per raggiungere i propri scopi e, infine, la capacità di agire in modo
efficace, in collaborazione con altri, per definire e raggiungere degli scopi collettivi.
Le quattro componenti fondamentali dell'empowerment:
in primis, un determinato tipo di atteggiamenti, valori e
credenze, che vanno nel senso di un'autoefficacia
percepita, del locus of control interno e un senso di sé che
promuove e desidera gestire l’azione. In seguito, la
validazione delle esperienze collettive, dove queste non
sono più considerate personali. Poi, le conoscenze e le
capacità per pensare in modo critico, ovvero una
ricollocazione del problema nel contesto di appartenenza
e, per concludere, l’azione; quindi, le persone diventano
capaci di sviluppare dei piani di azione e aumentano senso
di responsabilità e volontà di agire per raggiungere
obiettivi comuni e condivisi.
I presupposti teorici dell’empowerment psicologico: si può definire l’empowerment come una variabile continua,
cioè non dicotomica, oppure un concetto multidimensionale, perché si articola su più livelli di complessità crescente
(individuale, di gruppo, organizzativo e di comunità), oppure ancora come qualcosa con un'evoluzione non lineare
perché dipende dal momento storico, oppure come qualcosa che si specifica in relazione a contesto e popolazione.
Empowerment sociale: accanto al concetto di empowerment psicologico, troviamo quello di empowerment sociale,
definito dal Cornell Empowerment Group: “un processo intenzionale, continuo e centrato sulla comunità locale, che
comporta rispetto reciproco, riflessione critica, attività di cura e
partecipazione di gruppo”. Quindi è un processo mediante il quale
le persone prive di risorse possono impadronirsene ed accrescere il
controllo su di esse, modificando la propria vita.
Ian Iscoe e la comunità competente: possiamo definirla, cosi come
un cittadino competente, come una comunità che ha potere, con
un repertorio di possibilità e di alternative per cambiare il reale.
Una comunità che ha una conoscenza, cioè sa dove e come
ottenere le risorse per risolvere i problemi e, inoltre, ha
motivazione e autostima, cioè chiede di essere autonoma.
LA METODOLOGIA DI RICERCA E VALUTAZIONE IN PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

La psicologia di comunità ci ha insegnato che l'oggetto di


studio privilegiato è l'uomo all'interno del suo ambiente, per
cui non possiamo studiare i comportamenti, gli atteggiamenti,
i valori e le emozioni dell'individuo se non lo inseriamo
all'interno del suo contesto di vita. La psicologia di comunità,
quindi, ha evidenziato il fatto che le persone devono essere
esaminate nei contesti naturali di appartenenza. L’oggetto di
studio diventa complesso, multi determinato e multi
sfaccettato, basato sull’individuo, il gruppo, il sistema
comunitario e le relazioni intercorrenti tra questi tre elementi.
Per conoscere un contesto, una comunità, un quartiere, qualsiasi sia il nostro oggetto di studio, la prima cosa da fare
è definirlo, anche se nel processo di conoscenza è possibile che avvengano delle distorsioni da parte dell'osservatore.
Proprio per questo il metodo più utilizzato, all'interno della psicologia di comunità, per la ricerca è quello
dell'osservazione partecipante, che è collegata alla metodologia più utilizzata all'interno della psicologia di comunità,
ovvero la ricerca intervento, in cui a partecipare attivamente, all'interno della comunità, non è solo il ricercatore che
osserva, bensì anche la comunità stessa. Qualsiasi sia il metodo utilizzato, è importante ricordare che esistono aspetti
strutturali (come è composta la comunità), aspetti relazionali (quali relazioni esistono tra i membri della comunità) e
aspetti di gestione (le regole, le norme, i processi di potere e la distribuzione delle risorse all’interno della comunità).

Gli strumenti (metodi quantitativi): si possono suddividere a seconda del contatto che esiste con l'oggetto di studio,
quindi avremo strumenti a nessun contatto (ricavabili dai database o dagli indicatori già esistenti all'interno delle
comunità, per esempio dati Istat), strumenti a minimo contatto (metodi di osservazione del contesto sia fisico-
strutturale, come traffico e spazi verdi, sia sociale, come la presenza di extracomunitari), strumenti a moderato
contatto (contatto intenzionale e sporadico, ma circoscritto, come la somministrazione di scale self-report o i
questionari) e strumenti ad elevato contatto (il contatto è diretto e continuativo e il coinvolgimento è considerevole,
come le interviste individuali o il focus group). Il limite dei metodi quantitativi è rappresentato dal fatto che hanno
delle caratteristiche molto rigorose. Innanzitutto, richiedono dei campioni molto ampi e rappresentativi della
popolazione, che pongono distanze tra il ricercatore e il fenomeno indagato. In seguito, hanno la tendenza a
generalizzare troppo la spiegazione degli eventi, solo sulla base della prevalenza delle correlazioni riscontrate. Infine,
tendono alla riduzione della complessità dell'oggetto indagato, eliminando o attenuando l’effetto di molte variabili.

I metodi qualitativi: nascono dall’insoddisfazione verso i


metodi quantitativi e i fattori che ne hanno influenzato
positivamente lo sviluppo sono di tre tipi: fattori socioculturali
(la valorizzazione dell'individualità e dell'esperienza
quotidiana), fattori teorici (l’esigenza di una nuova modalità di
ricerca più attenta alla relazione tra individuo e contesto) e
fattori tecnologici (lo sviluppo di nuove tecnologie ha facilitato
l'analisi dei dati qualitativi). Il limite dei metodi qualitativi sta
proprio nel formulare una quantità di dati che è difficilmente
compatibile con un metodo rigorosamente scientifico.

Metodi di ricerca sperimentali: la ricerca sperimentale permette al ricercatore di andare a valutare la relazione
esistente tra alcuni eventi, mantenendo costanti tutte le variabili. Fondamentalmente questo avviene attraverso l'uso
di due gruppi: un gruppo sperimentale e un gruppo di controllo. Sul gruppo sperimentale verrà somministrato
l'intervento che noi vogliamo andare a valutare o la variabile che vogliamo andare a valutare, sul gruppo di controllo
assolutamente nulla. La ricerca sperimentale, però, richiede delle condizioni molto rigorose, ovvero dei campioni che
siano sufficientemente rappresentativi (ampi), un'assegnazione casuale dei soggetti tra un gruppo e l'altro, la
somministrazione di un trattamento solo ad un gruppo (a quello sperimentale), appunto della variabile che noi
vogliamo andare a verificare, per osservarne eventuali cambiamenti e, infine, l’eliminazione dell’interferenza delle
variabili di disturbo.

Metodi di ricerca quasi sperimentale: l’appartenenza di un soggetto ad un gruppo, sperimentale e di controllo, non è
casuale e questo comporta delle oggettive difficoltà. Un esempio è il disegno quasi sperimentale con un gruppo di
controllo non equivalente (gruppo di controllo simile a quello sperimentale per alcune caratteristiche, come le
variabili anagrafiche, il setting di appartenenza o altre), in cui c’è sempre la suddivisione in due gruppi e il trattamento
viene somministrato a un gruppo soltanto dei due, ma l'assegnazione all'uno all'altro non è casuale ma a seconda
delle reali appartenenze. In questo senso andremo anche a utilizzare un pretest, prima dell'inizio del periodo di
formazione, proprio per verificare le conoscenze di base dei due gruppi e somministreremo, dopo il progetto di
formazione, un altro test successivo per andare a verificare le conoscenze acquisite. Un secondo esempio è l'analisi
delle serie temporali (si introduce una variabile che si ritiene possa portare dei cambiamenti, in modo tale che le
misurazioni precedenti al trattamento differiscano dalle serie temporali successive se effettivamente l’intervento ha
prodotto modificazioni). Qui la valutazione avviene su un unico gruppo, per cui prima e dopo l'intervento della
variabile faremo delle somministrazioni di test o utilizzeremo dei dati che ci indicano il livello del fenomeno, per
verificare se questo aumenta o diminuisce a seconda della variabile oggetto di studio.

Indagine epidemiologica: all'interno del campo dei metodi quantitativi, abbiamo l'indagine epidemiologica.
L'epidemiologia è uno strumento molto valido utilizzato per rilevare, all'interno di una popolazione, di un contesto o
di una comunità, la prevalenza di problematiche di tipo psichiatrico o psicosociale, nonché le risorse e i punti di forza.
I concetti fondamentali sono quelli della stima della prevalenza e dell'incidenza, in cui è fondamentale comprendere
l’entità di un problema, mettere a fuoco l’eziologia ed evidenziare i fattori di rischio e protettivi che possono incidere.
Fare questo tipo di indagine permette di valutare l'emergenza, i fattori di causa dell'evento problematico e andare ad
analizzare i fattori di rischio o di protezione che favoriscono o meno l'insorgenza della problematica, aiutando ad
attuare dei programmi di intervento a livello di prevenzione primaria. I principali meriti degli studi epidemiologici
riguardano l’evidenziare un rapporto tra la patologia e l'ambiente e ampliare il focus dell'osservazione e
dell'intervento al contesto di provenienza della patologia e non solo alle caratteristiche individuali.

Indicatori sociali: sono un metodo descrittivo che andrà a


valutare i livelli di benessere/malessere in funzione di
diversi gruppi sociali all'interno della comunità.
Intendiamo, per esempio, i tassi di criminalità, i tassi di
disoccupazione, o altro. Sebbene si valutino degli aspetti
oggettivi della comunità, questo metodo di indagine è
sottoposto a delle distorsioni soggettive, anche perché
vengono utilizzati degli strumenti self-report, quali delle
scale di valutazione, delle interviste e dei questionari,
soggetti quindi alla distorsione da parte del soggetto.

LA RICERCA-INTERVENTO (RICERCA-AZIONE, ACTION RESEARCH)

Si tratta della metodologia di ricerca più utilizzata dalla psicologia di comunità ed è stata identificata dallo psicologo
Kurt Lewin, intorno agli anni ’40. Lewin parla della ricerca-intervento come “un tipo di ricerca d’azione, una ricerca
comparata sulle condizioni e gli effetti delle varie forme di azione sociale che a sua volta tende a promuovere l’azione
sociale stessa. Se producesse soltanto dei libri non sarebbe infatti soddisfacente” (1948). Si esce, quindi, da un'ottica di
causalità lineare e deterministica e si entra invece in un'ottica di circolarità, per cui la nostra ipotesi influenza le azioni
del ricercatore e le azioni del ricercatore sono in qualche modo influenzate a sua volta dai feedback che arrivano
dall'esterno, in un ciclo continuo. I principi di fondo di questa metodologia sono il rapporto circolare tra teoria e
prassi, finalizzato a continui processi di trasformazione, e la partecipazione e la collaborazione di tutti i soggetti a cui
l'intervento di cambiamento è diretto. La ricerca-intervento si dispiega all'interno di quattro fasi fondamentali:

1. Fase diagnostica: l’individuazione del problema, delle ipotesi e degli obiettivi;


2. Fase conoscitiva: la raccolta dei dati prima dell’intervento;
3. Fase dell'intervento;
4. Fase valutativa (fondamentale!): la raccolta dei dati dopo l’intervento. Serve a dare delle indicazioni per sapere se
l’intervento è stato efficace, altrimenti occorre continuare l’opera di raccolta dati al fine di specificare meglio il
problema, e questo può portare all’apertura di un nuovo ciclo.

Le caratteristiche della ricerca-intervento: in prima istanza abbiamo la complessità del reale, poi l'ascolto sensibile,
che si rifà all’ottica rogersiana delle scienze umane fondata sull'empatia, oppure la presenza di un ricercatore
collettivo, che è un gruppo di cui fanno parte i professionisti e i membri della popolazione di interesse. Ancora, il
cambiamento, infatti la ricerca-azione mira a questo, passando poi alla negoziazione, che dura per tutto il corso della
ricerca-azione. Infine, la valutazione, quindi la discussione sui valori e i significati della comunità.
Vantaggi e limiti della ricerca-azione: i vantaggi fondamentalmente incoraggiano l’integrazione tra i saperi
differenti, sottolineano il ruolo costruttivo dell’azione e, soprattutto, favoriscono i processi di empowerment, sia a
livello individuale che sociale. Rispetto i limiti della ricerca-intervento, i dati che vengono raccolti di solito non
raggiungono una vera e propria soddisfacente validità scientifica. Gli obiettivi sono situazionali e spesso l'oggetto di
studio è un evento unico, non ripetibile. Il campione è ristretto ed è poco rappresentativo della popolazione in
generale e il controllo sulle variabili è scarso.

LA RICERCA-INTERVENTO IN PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

- Approccio olistico al problema;


- Significatività del tema della ricerca per tutti gli attori coinvolti;
- Disponibilità a negoziare, con gli attori, le azioni da compiere;
- Intervento del ricercatore nelle azioni;
- Assenza di un metodo predefinito da applicare;
- Perseguimento dello sviluppo personale e professionale degli
operatori-attori del processo;
- Emancipazione degli attori;
- Impiego di strumenti descrittivi per la valutazione dei risultati
durante e alla fine della ricerca;
- Produzione di un mutamento sociale (i progetti di ricerca-
intervento poi diventano azione sociale stessa).

PHOTOVOICE

È uno strumento di partecipazione che coinvolge i membri di una comunità in un processo attivo di riflessione, prima
individuale e poi collettivo, che produce una conoscenza orientata all'azione. Questo tipo di ricerca si attua
attraverso le fotografie, poiché al gruppo di ricercatori viene richiesto proprio di realizzare, attraverso la disponibilità
di materiali, delle foto che rappresentino il tema specifico dell'oggetto di indagine all'interno della propria comunità.
La prima fase riguarda degli incontri preliminari, in cui viene spiegato qual è la metodologia dell'intervento, che cosa
si andrà a valutare e le problematiche da un punto di vista etico. Poi si passa a una vera e propria attività fotografica,
cioè si chiede alle persone, di solito piccoli gruppi, di fotografare la propria città, il proprio quartiere, prendendo in
considerazione proprio il tema scelto precedentemente e si andranno a scattare 15 fotografie, dalle quali se ne
scelgono, di solito, soltanto 3. Il ricercatore, inoltre, deve essere molto attento a stimolare le persone, a non dare
soltanto un'immagine pessimistica e negativa della comunità in oggetto, ma a sviluppare anche delle visioni possibili
alternative. Le fotografie scattate poi vengono presentate al gruppo, si attiva una discussione e un pensiero creativo
collettivo rispetto ai temi presentati, ma una discussione che non è finalizzata alla critica, bensì ad andare a ipotizzare
veri e propri cambiamenti all'interno della comunità stessa. Nella terza fase poi, oltre ad individuare gli interventi da
attuare, fondamentalmente si prende contatto anche attraverso, per esempio, una mostra di fotografie, con le
personalità della politica o amministratori locali, proprio per mettere in pratica una collaborazione attiva.

LA VALUTAZIONE

Negli ultimi anni si è sviluppata la consapevolezza dell’importanza di effettuare delle verifiche sulla qualità e
l’efficacia dei programmi d’intervento. La valutazione serve proprio ad evitare gli sprechi, sia in termini di tempo che
di risorse economiche, a correggere gli interventi inutili o male impostati, scegliere tra più alternative, controllare le
proposte esistenti o migliorare gli interventi in atto. I vantaggi della valutazione si pongono, poi, a più livelli:

Operatori: aumenta il feedback sul proprio lavoro e la


possibilità di appartenere all'equipe;
Organizzazione: migliora la qualità del servizio offerto,
incentivando una cultura organizzativa condivisa;
Utente: promuove un atteggiamento partecipativo e
aumenta il potere di intervento e il controllo;
Amministratore/politico: facilita la scelta tra più
alternative d’azione e permette di proporre la riforma
di programmi in atto o di promuovere interventi
alternativi.
LA RICERCA VALUTATIVA

L'aspetto fondamentale di ogni processo valutativo è la dinamicità e la flessibilità, cioè l’adattabilità a seguire “su
misura” i cambiamenti insiti nell’evoluzione del programma d’intervento, all'interno del progetto. Distinguiamo tre
momenti fondamentali della valutazione:

1) Valutazione ex-ante (ideazione, attivazione, progettazione): serve per descrivere il programma-intervento e ha


come obiettivo quello di valutare la formulazione congrua degli obiettivi e delle strategie messi in atto, la loro
chiarezza e coerenza rispetto alle azioni proposte, la possibilità che da loro discendano degli indicatori utili per le
successive valutazioni. Inoltre, serve per esplicitare o formulare un paradigma teorico che sia alla base del processo,
che si ponga come base di tutto l'intervento, e valutare proprio l'utilità e l'utilizzabilità dei risultati della valutazione e
della ricerca.
2) Valutazione di processo e monitoraggio (realizzazione o implementazione): comprende le attività di valutazione
che si realizzano durante l’attuazione del programma-intervento, rendendo possibile le modifiche delle attività in
corso d’opera e influenzando l'andamento stesso modificando l'attività in corso. Fornisce informazioni per migliorare
il programma-intervento e valuta il contesto in cui l’intervento viene effettuato.
3) Valutazione di efficacia (verifica e valutazione dei risultati): è la parte conclusiva di un programma-intervento e
necessita anche di entrare in contatto le informazioni che provengono dagli altri due momenti valutativi. Ma
soprattutto valuta l'efficacia, cioè la capacità di raggiungere gli obiettivi, l'impatto, cioè il cambiamento reale indotto
dal programma e l'efficienza, cioè il rapporto tra i costi e i benefici, la trasferibilità e la riproducibilità del modello.

L’ANALISI ORGANIZZATIVA MULTIDIMENSIONALE

L’Analisi Organizzativa Multidimensionale (AOM) è una forma di ricerca partecipata molto utilizzata nella psicologia
di comunità. Parliamo di organizzazione come di un sistema complesso e aperto in cui le parti sono interdipendenti tra
di loro e in continuo contatto con l'esterno. Lo psicologo Massimo Bruscaglioni sostiene che: “alcune teorie
chiariscono in maniera efficace gli aspetti conflittuali delle organizzazioni trascurando quelli cooperativi, mentre altre
teorie spiegano efficacemente gli aspetti cooperativi delle organizzazioni trascurando pressoché completamente quelli
conflittuali. Analogamente alcune teorie descrivono efficacemente gli aspetti relazionali direttamente osservabili nelle
organizzazioni, trascurando gli aspetti relazionali che affondano le loro radici nell’inconscio individuale e collettivo,
mentre altre descrivono efficacemente gli aspetti relazionali derivanti dai fenomeni intrapsichici inconsci trascurando
quegli aspetti che derivano dai fenomeni direttamente osservabili” (1982). Bruscaglioni parla di quattro approcci
teorici fondamentali per lo studio delle organizzazioni:
1) Approccio sociologico-strutturale: centra il focus sulla distribuzione
di potere, sulla divisione della qualità del lavoro e sulla conflittualità
presente all'interno dell'organizzazione;
2) Approccio sistemico-funzionale: evidenzia la cooperazione e la
funzionalità dell’organizzazione, che viene vista come un sistema
complesso e integrato nelle sue parti;
3) Approccio socioanalitico: studia le componenti latenti, inconsce
individuali e collettive, cioè le emozioni, i pensieri, i valori e gli
atteggiamenti inconsci dell'individuo, spesso difensivi, che legano
l’individuo all'organizzazione e di cui non sempre è consapevole;
4) Approccio psicosociale: approfondisce il fattore umano e lo sviluppo
delle risorse umane in rapporto all’efficienza organizzativa.
Un tentativo di integrazione è stato portato avanti dal sociologo David L. Morgan, il quale utilizza il metodo delle
metafore organizzative, in cui la metafora, per parlare delle organizzazioni, permette una visione più ampia e una
lettura più complessa del sistema che si studia. Gli scienziati Robert L. Flood e M. C. Jackson elaborarono il metodo
dell’intervento dei sistemi totali, che parla invece della necessità di utilizzare più metafore all'interno dell'intervento
dei sistemi totali, per andare a studiare l'organizzazione stessa, ed è un metodo che coniuga gli approcci più
anglosassoni e più pratici.

Assunti di base AOM: tutte le realtà organizzative hanno processi e variabili comuni, mentre i diversi approcci teorici
si sono focalizzati soltanto su alcuni aspetti diversi dell'organizzazione. Questi diversi approcci teorici permettono solo
una “lettura” diversa del sistema organizzativo e nessuna di queste è più vera dell'altra, ma sono semplicemente
visioni diverse della stessa realtà.
Gli obiettivi: aumentare le capacità del ricercatore di valutare i problemi e i punti di forza della propria
organizzazione, permettere di formulare una diagnosi multipla, su più livelli, del funzionamento dell'organizzazione
stessa e rendere consapevoli di tutte le variabili presenti all'interno dell'organizzazione, che è necessario prendere in
considerazione se si vogliono effettuare cambiamenti efficaci promuovano l’empowerment organizzativo.

I benefici: permette al consulente di avere una visione d'insieme del funzionamento dell’organizzazione (ottica della
complessità), permette di accrescere la capacità di analisi di chi dirige e di chi lavora nella stessa organizzazione e
permette di esaminare il grado di accordo psicosociale esistente nell’organizzazione. L’accorso psicosociale è il grado
di congruità tra le istanze, i bisogni e le aspettative dell'organizzazione e quelle del dipendente. L'AOM permette di
valutare l'impatto psicologico rispetto alle variabili organizzative che invece non sono di natura psicologica, permette
anche di esaminare gli aspetti sia soggettivi che oggettivi dell'organizzazione e, infine, serve per individuare i fattori
connessi al problema e i livelli su cui agire per effettuare un cambiamento efficace.

La nascita: l’AOM è un metodo elaborato dalla psicologa Donata Francescato e viene utilizzato sia come uno
strumento diagnostico che come una tecnica di formazione, aumentando la comprensione dei partecipanti sulla
complessità della loro organizzazione. Si tratta di una modalità di check-up organizzativo che di solito viene richiesto
soltanto quando l’organizzazione sta attraversando una fase di crisi o quando la direzione vuole attuare dei
programmi di cambiamento, quando sappiamo essere già presente una problematicità al suo interno.

Il consulente: può essere interno o esterno all'organizzazione e in entrambi i casi abbiamo dei vantaggi e degli
svantaggi. Il consulente svolge un ruolo di facilitatore e conoscitore di un modello di diagnosi e di intervento e lo
possiamo definire come un esperto, ma non in generale, bensì di un modello di lettura della realtà organizzativa. Nel
momento in cui entrerà in contatto con quell'organizzazione, sarà premura del consulente andare ad esplicitare il tipo
di approccio che intende utilizzare e richiedere anche il consenso e la collaborazione dei presenti, esplicitando poi i
principi utilizzati. Il fine, naturalmente, è quello di aumentare il benessere dell'organizzazione.

Consulenza organizzativa partecipata: possiamo definire l’AOM


proprio come una specifica modalità di consulenza organizzativa, che
parte dal confronto tra saperi, conoscenze, competenze e
soggettività da tutte le componenti dell’organizzazione stessa e si
attiva attraverso la partecipazione di tutti i membri presenti durante
tutte le fasi dell'organizzazione. Per quanto riguarda la ricerca-
intervento in generale, l'AOM è una forma di ricerca partecipata.
All'interno dell'analisi organizzativa multidimensionale sono studiate
le 4 dimensioni fondamentali, mettendo in atto un vero e proprio
percorso metodologico che approfondisca le varie fasi di analisi della
consulenza organizzativa:

1) Dimensione Strategico-Strutturale: è rappresentata dagli aspetti giuridici, economici, politici e architettonici


dell'organizzazione. In particolare, l'origine, la prima mission, i primi servizi offerti dall’organizzazione, i valori e le
norme che sono rimasti costanti nel tempo. Gli eventi significativi e i maggiori cambiamenti che sono avvenuti con
successi e fallimenti, gli scopi e le ideologie rimasti invariati nel tempo, il territorio e il contesto all'interno del quale
l'organizzazione sorge, e quindi le sue risorse e i suoi vincoli, e la distribuzione del potere e della ricchezza all’interno
dell’organizzazione. Le fonti da cui si attingono i dati, sono legislative (le leggi nazionali e regionali, le normative
locali, gli atti notarili e associativi, come lo statuto e le modifiche ad esso apportato nel corso del tempo),
economiche, statistiche e sociali (il conto del profitto e delle perdite, il bilancio e il rapporto con il mercato), oppure
ancora di politica sociale (rapporti con enti, amministratori e politici e la presenza dei finanziamenti) e
architettoniche (l'adeguatezza dei beni mobili o immobili, gli impianti e gli strumenti tecnologici utilizzati per
raggiungere gli scopi all'interno dell'organizzazione).

2) Dimensione Funzionale: include tutte le attività da svolgere per raggiungere gli obiettivi dell'organizzazione.
Secondo il modello funzionale del ricercatore Mario Tancredi, ogni organizzazione è vista come un organismo inserito
nell’ambiente ed è costituito da tre sistemi fondamentali, che interagiscono tra loro e con l’ambiente, che sono:
a) Sistema di controllo di gestione: include tre azioni fondamentali, la pianificazione (comprende le attività di analisi
ambientale, la progettazione degli scopi e delle strategie aziendali e la definizione dei programmi), l’organizzazione
(comprende la definizione dell’assetto strutturale dell’organizzazione) e il controllo (comprende le attività di verifica
dell’efficienza del sistema operativo, valutando i risultati delle attività).
b) Sistema operativo: include le funzioni collegate al processo di produzione ed erogazione dei servizi. Tancredi
distingue questo sistema in altri tre sottosistemi, a cui si aggiungono tutte le modalità di selezione del personale o del
recupero dei finanziamenti esterni, ovvero l’acquisizione (le materie prime), la trasformazione e la collocazione delle
risorse (le ultime due riguardano, per esempio, i processi di marketing).
c) Sistema informativo: racchiude tutte le funzioni di raggruppamento delle informazioni e comprende alcune fasi, tra
cui la raccolta, la trasmissione, l’archiviazione e l'elaborazione dei dati relativi ai risultati ottenuti, fornendo un quadro
sull’andamento produttivo dell’organizzazione.

3) Dimensione Psicodinamica: considera come l'organizzazione viene vissuta dal singolo individuo in modo inconscio
e razionale. Ogni organizzazione è vissuta, da parte del membro, in modo ambivalente, in parte buona e in parte
cattiva. È buona perché permette la realizzazione personale e il soddisfacimento dei propri bisogni attraverso il
recupero dello stipendio, ma è anche cattiva perché non sempre risponde effettivamente ai propri bisogni e perché
spesso si è considerati all'interno dell'organizzazione soltanto in relazione al ruolo che si svolge. Secondo P. L. Muti, è
tra l'uomo e l’organizzazione che vi è un rapporto ambivalente, che richiama un po' il rapporto con il materno. Infatti,
egli sostiene che: “il rapporto che lega l’uomo all’organizzazione è di tipo contraddittorio, e nella sua profonda
ambivalenza esso richiama alla mente la relazione originaria dell’uomo con un unico oggetto, la madre” (1986).
Il rapporto capi-dipendenti: nel momento in cui a un individuo viene assegnato un ruolo, da una parte ha il desiderio
di assumersi tutte le responsabilità che quel ruolo comporta, ma dall'altra anche la volontà di rinuncia, quindi
respingere questa responsabilità. Anche in questo c'è un'ambivalenza che porta ad un conflitto intrapsichico e che di
solito produce la messa in atto di meccanismi difensivi di tipo primitivo. A un livello dirigenziale, nel capo possiamo
trovare tre conflitti intrapsichici:
- Conflitto tra fantasie di onnipotenza e impotenza;
- Conflitto tra la volontà di dominio e il senso di colpa ad esso associato;
- Conflitto tra il desiderio di comando e la sensazione di dipendenza dai propri collaboratori.
Le strategie difensive più utilizzate rispetto a questi tre conflitti possono essere:
- Rinuncia della propria posizione di potere;
- Delega sui collaboratori;
- Svolgimento di compiti che non necessitano l’esercizio di autorità;
- Messa in atto dei comportamenti di estrema autorità.
Per quanto riguarda i conflitti intrapsichici nei dipendenti, di solito sono:
- Lotte e competizione tra colleghi (il capo è il caregiver, quindi fonte di accudimento o emanatore di cure);
- Coalizioni tra colleghi contro il capo, vissuto come negativamente;
- Desiderio di ricevere semplicemente protezione e cure da parte del capo.
Le tecniche utilizzate per esplorare i vissuti psicodinamici istituzionali sono di tipo proiettivo e soggettivo:
- Tecnica del disegno e delle libere associazioni individuali e di gruppo: viene richiesto ai membri che partecipano
all'analisi organizzativa multidimensionale di produrre dei disegni che possano rappresentare l'organizzazione di cui
fanno parte. Segue, poi, una valutazione in gruppo dei disegni di tutti e l'attivazione di un pensiero critico su questo;
- Tecnica dello sceneggiato: si chiede di realizzare uno sceneggiato con trama, personaggi, titolo e di rappresentarlo;
- Tecnica del romanzo lavorativo: viene scritta proprio la storia dell'organizzazione, dalla macro-storia con gli eventi
significativi, fino al racconto della storia individuale, per vedere il tipo di appartenenza rispetto alla storia collettiva.

4) Dimensione Psico-ambientale (psicosociale): è la dimensione che si occupa dell’insieme di relazioni e di fenomeni


realmente osservabili all'interno dell'organizzazione tra le persone che la compongono. Le variabili studiate:

- Fenomeni di gruppo: gruppo visto come un sistema


composto da parti, da individui, che sono assolutamente
interdipendenti tra loro e reciprocamente influenzabili (per
esempio i fenomeni sul conformismo e l'etichettamento);
- Stili di leadership: individuare il comportamento più adatto di
chi occupa mansioni di dirigenza;
- Comunicazione: la struttura degli scambi comunicativi, i ruoli
e gli atteggiamenti messi in atto nella comunicazione;
- Bisogni, motivazioni e atteggiamenti;
- Grado di accordo psicosociale.
Scala Likert: un questionario che valuta quattro tipi di modalità di direzione: autoritaria (il potere è distribuito a
seconda della posizione gerarchica occupata), partecipativa (il potere è distribuito in base alle mansioni che vengono
effettuate e ai risultati ottenuti), paternalistica (il potere è distribuito a seconda delle alleanze e dei rapporti personali
che tra i membri intercorrono) e democratica (il potere è distribuito senza controllo).

Check-up organizzativo di Spaltro: è un questionario realizzato dallo psicologo italiano Enzo Spaltro, composto da
otto scale che vanno a valutare tutti i diversi aspetti della vita organizzativa: la scala di speranza di soluzione dei
problemi, la scala degli stili di comando, la scala di credibilità dei protagonisti, la scala del sentimento di potere, la
scala di stress organizzativo, la scala di motivazione verso l’organizzazione e la scala di concretezza.

Test di Automotivazione: composto da 28 domande, esso va a valutare il livello di predisposizione che la persona
dimostra di avere verso il compito o le relazioni, all'interno dell'organizzazione.

La diagnosi globale: l'analisi di queste quattro dimensioni è fondamentale perché soltanto grazie ad essa si possono
introdurre degli interventi mirati. Quindi, dall'intreccio e dallo studio di queste quattro dimensioni l'operatore può
raggiungere effettivamente una diagnosi globale, chiamata multipla proprio perché è multi-determinata e permette
di identificare le aree di miglioramento dell'organizzazione, le priorità di cambiamento e le azioni necessarie per
raggiungere questi obiettivi. In seguito, si programmano le fasi di lavoro specifiche. Prevista poi, naturalmente, anche
una fase di verifica o di follow-up che, attraverso l’uso di indicatori specifici, dà la misura dell’obiettivo prefissato.

Gli ambiti di applicazione: l’ AOM è stato uno strumento molto utilizzato in diversi contesti ed è stato sperimentato
sia nel sistema socio-sanitario che all'interno di cooperative sociali e associazioni o onlus (attività di volontariato) che
erogano diversi servizi per la comunità, offrendo servizi sociali e socio-sanitari quali centri residenziali per persone
diversamente abili, anziani, pazienti psichiatrici, centri diurni per immigrati e senza fissa dimora. Oppure, all'interno
delle organizzazioni scolastiche ma anche all'interno di diverse imprese, a livello generale o in singole divisioni o
reparti operanti in settori diversi, oppure ancora in alcuni sindacati.

LE FINALITÀ

Formazione-intervento: nell’ambito di corsi di formazione e di aggiornamento sugli aspetti organizzativi. Partecipare


a questi incontri permette un cambiamento nelle rappresentazioni mentali che si hanno sull’organizzazione stessa, e
quindi indirettamente un cambiamento nei comportamenti organizzativi;
Consulenza organizzativa: obiettivo di realizzare un check-up organizzativo e aiutare a gestire i momenti di criticità;
Autodiagnosi organizzativa: chi propone il metodo è un membro interno dell’organizzazione che ha conosciuto e
imparato a gestire l’AOM durante corsi di formazione specifici.

LAVORARE PER LA COMUNITÀ: I LIVELLI DI AZIONE DELLO PSICOLOGO DI COMUNITÀ

Per prima cosa, l’intervento sull’individuo, che è volto a potenziare i comportamenti e gli aspetti individuali che
aumentano il livello di benessere della persona, rafforzando i legami con gli altri. Gli interventi utilizzati, in questo
senso, sono due:

Training: basa la sua efficacia sul fatto che le persone apprendono quotidianamente delle abilità e acquisiscono delle
conoscenze entrando in relazione con l'altro. L'apprendimento non è altro che una modifica del nostro pattern
comportamentale, rispetto agli stimoli che dall'esterno riceviamo di volta in volta. I training modificano soprattutto i
seguenti aspetti: le conoscenze (le nozioni che l’individuo ha su un certo tema), le abilità (apprendere nuove modalità
di azione e nuove competenze, come la capacità di problem solving o la capacità di comunicazione, ma soprattutto le
abilità sociali, grazie alle quali si ha la capacità di mettersi in relazione con l'altro in maniera efficace). Un tipo di
training che viene utilizzato in questo senso è il "life skills training", un percorso strutturato per minori adolescenti
delle scuole primarie e secondarie per la prevenzione all'uso delle sostanze, in cui oltre a dare informazioni sugli
effetti negativi relativi al loro uso, i ragazzi vengono stimolati a utilizzare alternative comportamentali al
comportamento problematico (gruppo target). Il “life skills training” mette insieme sia abilità personali che abilità
sociali, lavorando sia sulle emozioni e i vissuti della persona, sia sulla propria possibilità di entrare in contatto con
l'altro in maniera più efficace e positiva, per uno sviluppo positivo del sé e della propria personalità. Infine, gli
atteggiamenti (profondamente legati alla personalità dell'individuo perché connessi alle credenze soggettive o
semplicemente alla storia di vita e ai vissuti dell'individuo stesso). Per modificare gli atteggiamenti, bisogna agire su
qualcosa di inconscio ed è necessario attivare degli interventi a più livelli, soprattutto di tipo esperienziale e pratico.
Lo psicologo può decidere di fare un training direttamente con il target interessato, oppure in modo indiretto con
non-professionisti che metteranno in atto dei comportamenti e delle azioni per modificare il comportamento degli
altri (per esempio, gli insegnanti), o ancora con professionisti che gestiranno direttamente gli interventi nel sociale,
appunto i “training for trainers”. I limiti dei training sono l'incompetenza dello psicologo, un’errata valutazione
rispetto ai bisogni del gruppo target o un’incapacità di stipulare un adeguato contratto formativo.

Mentoring: le attività che coinvolgono dei minori affiancati, nello sviluppo, all’interno di una relazione a uno a uno da
persone più mature (i mentor) in un arco di tempo definito. L'intervento è volto a favorire uno sviluppo positivo
all’interno di una relazione di supporto e d’aiuto non professionale e alcuni studiosi ne parlano come di espressione
della community care. Questo significa che si sfruttano delle risorse interne alla comunità per favorire il benessere e
lo sviluppo positivo di altre persone all'interno di stessa. Lo sviluppo di questa relazione promuove anche dei
cambiamenti in tre aree importanti dell'individuo; in primis, c'è uno sviluppo sociale ed emotivo, in quanto la
relazione con il mentor è una “relazione correttiva” rispetto ad esperienze di relazioni deficitarie avute nella propria
vita, con altri adulti di riferimento. Il mentor diventa un modello positivo e all'interno di questa relazione si favorisce
una comunicazione altrettanto positiva, riportata poi anche all'esterno della relazione perché l'apprendimento di essa
viene naturalmente generalizzato. Il mentor aiuta il mentee a conoscere, gestire e regolare meglio le proprie
emozioni, aumentando il proprio senso di autoefficacia. In più, nella relazione con il mentor vengono rielaborate le
relazioni precedenti e i vissuti che, se dolorosi, vengono rivisti in una nuova ottica di arricchimento generale della
propria personalità o come un'opportunità di cambiamento. Poi, avviene uno sviluppo cognitivo, in cui aumentano le
capacità di problem solving e le nuove forme di ragionamento. C'è un miglioramento dei voti scolastici, sia perché c'è
una nuova capacità di ragionare, con modalità di coping più efficaci, sia perché c'è un miglioramento della relazione
con l'insegnante, influenzando il proprio andamento scolastico. Infine, uno sviluppo dell'identità, poiché il mentor
sostiene la costruzione di un'immagine positiva di sé e valorizza le risorse presenti all'interno dell'individuo e quelle
che può apprendere. Nella relazione col mentor, spesso si fa riferimento alle aspirazioni sul futuro e si prefigurano le
possibili scelte da fare rispetto alla propria carriera lavorativa o le scelte di vita in generale. Questo aspetto aumenta
la sensazione di potere e la consapevolezza di poter gestire le cose che accadano e di conseguenza la capacità di
empowerment. In generale, il mentoring prevede diversi ambiti di efficacia: sfera motivazionale, sociale relazionale,
psicologica emotiva, scolastica, comportamentale e fisica (sia mentor che mentee traggono beneficio da questa
relazione positiva). In questo tipo di intervento, il mentoring ha bisogno di alcune fasi:

1) Fase preliminare: si individuano gli obiettivi, le pratiche e le attività che verranno utilizzate;
2) Elezione e screening dei mentors e dei mentees: si identificano i candidati che volontariamente scelgono di
riservare parte del loro tempo ad una relazione di mentoring. Si valuta l'affidabilità, la credibilità e la responsabilità
del mentor attraverso un'informazione sugli obiettivi e le pratiche che verranno adottate. Rispetto alla selezione dei
mentees, è importante che siano chiari gli obiettivi del programma;
3) Formazione dei mentors: dare ai mentors tutte le informazioni necessarie sul programma e su come gestire la
relazione con il mentees, soprattutto riguardo gli scopi, gli obiettivi, le attività che si andranno a praticare e renderli
più consapevoli del loro ruolo. È una formazione che avviene non soltanto attraverso delle lezioni teoriche o di
informazione, ma anche attraverso delle vere e proprie attività esperienziali, in cui il mentor può sperimentare i
propri vissuti, aspirazioni o aspettative rispetto a questo ruolo, elaborarle e renderle più chiare a sé stesso;
4) Formazione delle coppie mentor-mentee: favorire l'incontro del mentee con il mentor più adeguato e l'instaurarsi
di una relazione positiva, che è alla base dell'intervento stesso;
5) Incontri mentor-mentee e lo sviluppo della relazione: le attività e la durata degli incontri variano a seconda del
programma attuato, ad esempio le attività prettamente scolastiche, di tipo sociale, di tipo ricreativo oppure volte alla
conoscenza del proprio territorio;
6) Monitoraggio del programma: durante il programma si prevedono incontri di supervisione e di monitoraggio per i
mentors. Fondamentale è sostenere la motivazione del mentor, lungo tutto il suo percorso;
7) Valutazione del programma: riguarda tutte le fasi del programma e coinvolge tutte le persone con differenti
metodologie.

GLI INTERVENTI SUL MICROLIVELLO: LAVORARE CON LE FAMIGLIE

I training e i mentoring sono fondamentali come interventi rispetto all'individuo, ma uno dei contesti fondamentali è
anche quello familiare. Un intervento pratico all'interno delle famiglie è il parent training, ovvero dei percorsi
formativi rivolti ai genitori che hanno l’obiettivo di modificare i loro atteggiamenti, le loro conoscenze e i loro
comportamenti, modificando anche la gestione della relazione con i figli. Come azione preventiva possiamo definirla
indicata (quando si rivolge a specifiche categorie di genitori, per esempio quelli con figlio portatore di handicap),
selettiva (per i genitori che stanno affrontando dei cambiamenti importanti, per esempio quelli che attraversano una
fase difficile come un divorzio o un lutto) e universale (tutti i genitori che hanno l’obiettivo di rendere più positiva la
relazione con il figlio). Anche in questo caso parliamo di un intervento di community care perché si utilizzano le risorse
interne alla comunità per migliorare il benessere degli altri. All'interno di questo tipo di attività il trainer non è un
detentore di conoscenze assolute, bensì un conoscitore degli aspetti teorici, ma non di quelli pratici realmente vissuti
dalla famiglia. Il tutto avviene sempre in un setting gruppale, il posto privilegiato per favorire la crescita reciproca.

INTERVENTI SUL MICROLIVELLO: LAVORARE SULLA RETE SOCIALE

Oltre che con la famiglia, lo psicologo di comunità può lavorare sul microlivello (microsistema) come quello del
gruppo dei pari, che produce cambiamenti nei comportamenti e negli atteggiamenti. Tale cambiamento può
espandersi anche ad altri livelli, perché attraverso le relazioni quotidiane si diffondono gli apprendimenti. Avviene
attraverso due interventi, cioè i gruppi di auto-aiuto e la "Peer Education", una modalità che si svolge soprattutto tra
i giovani e usa i pari come un modello positivo da seguire per la costruzione e il consolidamento di comportamenti
positivi, collegati alla salute e al benessere. La Peer Education è una strategia educativa che attiva un processo
spontaneo di educazione o un passaggio di conoscenze, di condivisione di emozioni o esperienze da parte di membri
di un gruppo ad altri membri di pari status. Oggi è molto utilizzata in Italia in ambito scolastico, ma la Peer Education
nasce all'interno delle comunità gay americane e in seguito alla diffusione delle malattie infettive e dell'AIDS. Quello
che si capì all'epoca, ed è ancora veritiero oggi, è che bisognava fare una critica ai modelli preventivi allora esistenti,
soprattutto il modello di comunicazione verticale, in cui il target era considerato oggetto passivo di intervento,
l’accentuazione del termine “categoria a rischio” veniva criticata e il linguaggio, le emozioni e le preoccupazioni del
target di riferimento spesso non erano presi in considerazione. La Peer Education è la risposta alla questione della
“prevenzione dal basso”, riconoscendo ai pari le naturali competenze relazionali, interpretative e sociali. I tre livelli
all'interno degli interventi dove la Peer Education si attua sono: informare (rischi, rimedi e stili di vita corretti e i peers
utilizzati come fonti credibili), aiutare le persone ad evitare le situazioni di rischio/pericolo (dare indicazioni e
riconoscere subito le situazioni che espongono al rischio) oppure promuovere una partecipazione dell’individuo e dei
gruppi e lo sviluppo del capitale sociale (l’obiettivo è lavorare sull’identità del gruppo, rafforzare le tutele collettive e
favorire la partecipazione di tutta la comunità ad una reale azione preventiva).

LE FASI DELLA PEER EDUCATION

1. Reclutamento dei peers: di solito questa prima fase è anticipata da una di promozione del progetto;
2. Formazione dei peers: simulazioni, riflessioni teoriche, conoscenze di varie tecniche, modalità della gestione dei
gruppi e raffronto su temi relativi all’immagine personale, ai valori, alle credenze e alle preoccupazioni personali;
3. Azione dei peers: le azioni avvengono in setting diversi in base a obiettivo, target e fasi di evoluzione del progetto;
4. Sostegno e monitoraggio: i peers esperti fanno un’opera di supervisione e di sostegno tecnico e sociale, che si può
estendere anche agli altri partecipanti del progetto. Sono particolarmente importanti nelle fasi di avvio del progetto;
5. Valutazione: riguarda sia l’esito, cioè l’efficacia sui ragazzi a cui l’intervento è rivolto (verificando il raggiungimento
degli obiettivi controllando l’esistenza di una riduzione dei comportamenti a rischio), sia gli stessi peers.

GLI INTERVENTI SUL MACROLIVELLO

Gli interventi di macrolivello (macrosistema) prendono in considerazione l'organizzazione intera o la comunità totale.
A questi livelli lo psicologo di comunità si attiva per apportare dei cambiamenti di tipo strutturale (modificazione degli
spazi, un miglioramento dei servizi offerti dal territorio, una modifica degli spazi urbani), relazionale (miglioramento
dei rapporti con la valorizzazione degli individui) e legislativo (può portare a nuove norme e leggi).

Il lavoro di rete: un intervento di macrolivello in cui si lavora in rete, permettendo ad ogni istituzione di uscire da una
situazione di isolamento e di autoreferenzialità e lavorare in un'ottica di collaborazione e di interdipendenza in cui
ogni istituzione, organizzazione e servizio possa mettere il proprio contributo, le proprie risorse e le competenze per
affrontare il problema della collettività. Tale intervento prevede diverse forme di collaborazione possibili:

- Scambio di informazioni utili al loro lavoro;


- Segnalazione di un problema;
- Collaborazione su un caso: coordinarsi per attivare iniziative per risolvere il problema riscontrato;
- Collaborazione su un problema: coordinare gli sforzi e affiancare le attività presenti con le altre;
- Realizzazione congiunta dei progetti: si identificano modalità, obiettivi, tempi, risorse e strategie da mettere in atto.
SETTORI TRADIZIONALI DI INTERVENTO DELLO PSICOLOGO DI COMUNITÀ: TRE FASI STORICHE

1) Fase pre-professionale (dagli anni ‘45 al ’68)


Negli anni ‘40 la psicologia trova spazio nelle aziende per la selezione del personale e nei centri medico-pedagogici, in
cui la finalità è sempre quella diagnostica. Dopo il 1960 nascono i primi centri specializzati per la riabilitazione dei
minori devianti, oppure i centri di orientamento scolastico e professionale, dove aumenta il bisogno di specialisti in
psicologia e l’attività dello psicologo rimane legata a finalità prettamente diagnostiche o di prevenzione secondaria.
2) Fase di professionalizzazione pre-istituzionale (dal ’68 al 79)
Questa fase è caratterizzata dal movimento anti-istituzionale e dai movimenti sociali e politici, ma allo stesso tempo
aumenta anche l’interesse per alcuni aspetti della psicologia. Nel 1971 nasce il corso di Laurea e si aprono molti
dibattiti che focalizzano l’attenzione sul divario esistente tra la ricerca e i bisogni presenti nella realtà sociale.
3) Fase di legittimazione (dal 1980 in poi)
In questo periodo aumenta in maniera esponenziale il
numero degli psicologi, parallelamente all’aumento delle
richieste di aiuto. Rispetto alle figure professionali, iniziano
a delinearsene due: gli psicologi universitari, che
preferiscono come ambiti del proprio intervento quello
della ricerca scientifica e della riflessione teorica, e gli
psicologi dei servizi socio-sanitari, che si ritengono
specialisti dell'intervento terapeutico, che può svilupparsi
su più livelli ed è rivolto al singolo oppure sulla collettività
e che operano in collaborazione con altri professionisti.

Le mansioni dello psicologo nei servizi territoriali: così come previsto dalla legge 56 del 1989, gli psicologi svolgono
attività di prevenzione, diagnosi, abilitazione, riabilitazione e sostegno alla persona, alla famiglia, al gruppo e alla
comunità stessa. Sono presenti all'interno dei servizi e nei dipartimenti di salute mentale, nel dipartimento materno
infantile, nei consultori familiari o nei servizi per le tossicodipendenze.

Gli interventi dello psicologo nei servizi territoriali: lo psicologo partecipa alla programmazione generale degli
interventi per favorire una funzionalità maggiore dei servizi offerti, oltre che per progettare e realizzare l'attività di
interventi e strutture alternative a quelle assistenziali. All'interno dei servizi socio-sanitari, si occupa di dare un
contributo specifico alla formazione degli altri operatori e fornisce un sostegno ai gruppi spontanei o informali. In più,
svolge attività di ricerca (obiettivo: ricerca-azione/action research), si impegna nel funzionamento del lavoro di
equipe, analizzando la dinamica dei processi decisionali, crea programmi di educazione alla salute e, infine, ottiene la
riduzione o la trasformazione delle grandi istituzioni totali. Come previsto dalla legge sulla deistituzionalizzazione di
Franco Basaglia, lo psicologo lavora anche e soprattutto all'interno di interventi preventivi in ambito scolastico,
proprio per migliorare il dialogo, la collaborazione tra la scuola e gli altri servizi presenti sul territorio e favorire e
sviluppare una vera e propria “cultura della salute mentale”. L’azione di prevenzione non si situa soltanto
sull'individuo, bensì anche sul gruppo, come all'interno di un ospedale; infatti, lo psicologo permette l’uso del gruppo
come strumento per l'intervento stesso, poiché il gruppo permette ai servizi di mettere in pratica i principi della
interdisciplinarietà e della compartecipazione dei cittadini alla promozione e il mantenimento dello stato di salute e
della prevenzione, come ad esempio i gruppi terapeutici, il lavoro di equipe e il gruppo nella formazione e negli
interventi di rete. Inoltre, vi è la promozione e l’uso dei gruppi di auto-aiuto, nell’ottica di prevenzione secondaria e
terziaria, i gruppi terapeutici, i training group, il gruppo di lavoro e il lavoro di gruppo. Vi è poi l’utilizzazione di risorse
diverse da quelle psichiatriche, rafforzando la rete informale e semi-formale (sacerdoti, volontari nelle associazioni e
nelle cooperative sociali). Vi è la conoscenza e l’uso del territorio, dove i servizi territoriali devono imparare a
valorizzare e a confrontarsi con esso. Infine, vi è la promozione del lavoro di rete tra i diversi servizi preposti alla
prevenzione e alla cura della popolazione.

LO PSICOLOGO NELLE STRUTTURE OSPEDALIERE

All'interno dell'ospedale, lo psicologo assolve a diverse funzioni, sia rispetto alla cura o alla presa in carico del
paziente, sia rispetto alla presa in carico dell'equipe e dell'organizzazione in generale. Esso apporta sostegno alle
persone che hanno una problematica psicologica che non si rivolgono direttamente ai servizi di salute mentale, riduce
la sovrautilizzazione dei servizi medici, permette un passaggio dal “curare” al “prendersi cura” e sostiene gli operatori
del servizio, trasmettendo le competenze e le conoscenze psicologiche che permettono una presa in carico più
efficace. Quello dello psicologo non è solo un intervento di stampo prettamente clinico e psicoterapeutico, ma
abbraccia altre attività psicologiche (intervento ad ampio raggio), proprio perché si occupa della formazione,
dell'attivazione dei processi di empowerment, della valutazione della qualità del servizio stesso, della diffusione delle
conoscenze psicologiche, del sostegno al lavoro di gruppo dell’equipe, della facilitazione della comunicazione tra le
varie figure professionali e la promozione, di conseguenza, della salute e del benessere degli operatori. Seguendo,
dunque, il “modello integrato”, lo psicologo opera contemporaneamente su tre livelli: la formazione degli operatori,
l’assistenza a paziente e familiari e l’organizzazione del lavoro, rendendo il servizio adeguato alle richieste dell’utenza.

I PUNTI DI DEBOLEZZA E DI FORZA DELLA SCUOLA ITALIANA

La scuola è l'agenzia di formazione e socializzazione predisposta all’apprendimento, secondaria soltanto alla famiglia,
motivo per cui vi è un alto interesse da parte degli psicologi. La maggior parte degli interventi, soprattutto di
prevenzione primaria o proattiva, avvengono all'interno della scuola, in una fase di cambiamenti che la scuola stessa
sta vivendo. In primis, l’obiettivo dello psicologo è lavorare sulla dispersione scolastica, che può avere varie
motivazioni e comprende vari fattori, come l'organizzazione inadeguata, un background familiare problematico,
caratteristiche personali degli studenti come bassa autostima e scarsa motivazione e scarse relazioni con i pari o
relazioni conflittuali con gli insegnanti. Per quanto riguarda i punti critici della scuola, possiamo dire che le istituzioni
scolastiche non riescono a reggere il passo con i grandi cambiamenti sociali che stanno avvenendo, non formano
neanche la persona adeguatamente rispetto al mondo del lavoro e non sono in connessione con un sistema lavorativo
successivo, né tantomeno con le altre agenzie del territorio. Uno dei punti critici che più si evidenzia è sicuramente
l'isolamento dell'istituzione scolastica, rispetto ad altre agenzie del territorio. Ma ci sono anche dei punti di forza, cioè
una maggioranza di docenti motivati e preparati, delle buone sperimentazioni rispetto alle diverse realtà scolastiche e
la giovane età dei ragazzi all'interno delle scuole, che li rende persone potenzialmente recuperabili.

GLI INTERVENTI DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

Nell’insieme dei cambiamenti che la scuola sta affrontando negli ultimi anni, il modello formativo è profondamente
cambiato perché si è passati da una formazione di tipo frontale (rapporto docente/alunno unidirezionale) ed erano
esclusi interessamenti della sfera emotiva o relazionale, ad una di tipo circolare (rapporto docente/alunno circolare),
in cui i vissuti emotivi e relazionali assumono una grande rilevanza, anche se all'interno di un contesto didattico. Gli
interventi dello psicologo di comunità riguardano l’orientamento scolastico e lavorativo, la facilitazione
dell'apprendimento e la gestione dei disturbi dell’apprendimento, l’integrazione di alunni portatori di handicap,
l’educazione alla salute e sessuale, attività di prevenzione delle devianze (come il bullismo, comportamenti violenti,
pedofilia), la prevenzione dell’insuccesso e della
dispersione scolastica, la prevenzione del disagio stesso
(come i disturbi alimentari, il fumo, l’abuso di alcool e
droghe), la consulenza individuale ad allievi e insegnanti, la
formazione del personale direttivo, docente e
amministrativo, l’esecuzione di attività di ricerca, la
collaborazione all’individuazione dei bisogni formativi
(come il POF - piano dell’offerta formativa), l’attivazione di
un lavoro di rete e l’attivazione di interventi di diagnosi-
cambiamento-miglioramento dell’organizzazione scolastica.

Analisi storica degli interventi: i primi interventi in ambito scolastico nascono negli anni ‘70 in relazione a due eventi
fondamentali, la diffusione delle droghe tra i giovani e l'inserimento con, obbligo pedagogico, dell'integrazione di
alunni portatori di handicap nelle classi normali. Purtroppo, però, la psicologia, nella scuola, ha dato spazio più
all’aspetto patologico, che a quello preventivo. Negli anni ‘90 c'è una maggior attenzione ai grandi cambiamenti che
avvengono in ambito economico e produttivo e vi sono due grandi innovazioni nel sistema scolastico, le prime
proposte di sperimentazione dell'autonomia scolastica e l’introduzione della “Carta dei Servizi”, ovvero iniziative che
impongono la necessità di una collaborazione tra scuola e psicologia. Successivamente, avviene la costruzione e il
consolidamento dei centri di consulenza psicologica all'interno della scuola con la presenza dello psicologo, come i CIC
(Centro Informazione Consulenza), ovvero dei centri che hanno l’obiettivo di individuare e intervenire precocemente
sul disagio giovanile, oltre ad offrire consulenza agli insegnanti e agli alunni e attivare subito un intervento adeguato e
che hanno come unico limite il fatto di essere rivolti soltanto all'individuo e non ai gruppi. In seguito, la psicologia
scolastica tenta di integrare l’approccio centrato sul singolo con quello centrato sul contesto. Secondo la psicologia di
comunità, i problemi delle istituzioni scolastiche sono complessi e multideterminati e richiedono strategie integrate,
in grado di cogliere sia gli aspetti soggettivi che oggettivi, oltre alle variabili contestuali.
LE NUOVE STRATEGIE DI INTERVENTO

1) Educazione socio-affettiva: in primis, aumenta l’autostima, l’autoefficacia sociale ed è volta a facilitare i processi di
autonomizzazione del ragazzo. In seguito, permette di riconoscere i propri sentimenti e le proprie emozioni, di
ragionare ed essere più consapevoli delle proprie emozioni e quelle degli altri e, infine, insegna ai bambini, ai genitori
e agli insegnanti ad aumentare i comportamenti pro sociali, cioè saper chiedere aiuto e saper riconoscere l'aiuto
dell'altro, oltre a saperlo dare. L’educazione socio-affettiva si configura come un modello integrato che ha tre
modalità al suo interno e che possono essere usate insieme o separatamente, centrandosi su un particolare aspetto.
La prima di queste modalità è il metodo Gordon (migliorare il rapporto insegnante-classe), inizialmente proposto
dallo psicologo americano Thomas Gordon, il padre del concetto di empatia. Gordon si propone di creare una
relazione efficace con gli studenti e di impostare delle strategie per aumentarne l'efficacia, ponendosi come obiettivo
l’insegnare ai docenti ad incoraggiare e stimolare maggiori responsabilità nei giovani a loro affidati, facendo crescere
in maniera positiva il ragazzo. Propone, quindi, dei procedimenti che portano l’insegnante a “trasformare sé stesso”
nel modo di trattare i suoi allievi. Le tecniche per impostare una relazione efficace tra l’insegnante e l’alunno sono
l'ascolto attivo (si basa sull’accettazione dell’altro, evitando tutti i comportamenti che potrebbero costituire una
barriera comunicativa e permette all’insegnante di entrare in comunicazione empatica con lo studente che ha un
determinato problema ed accetta di parlarne, mandando messaggi come “io sono interessato a te” e “io ho fiducia di
te”), il messaggio dell’io (permette confronti positivi poiché sollecita la volontà di cambiamento, riduce al minimo la
valutazione negativa dello studente e non pregiudica il rapporto) e il metodo del problem solving. La seconda modalità
è il Circle Time/Cerchio del Tempo (migliorare il rapporto tra i compagni in classe), ovvero degli incontri di 30 minuti
in cui i ragazzi sono riuniti in cerchio per discutere un argomento scelto da loro e dall’insegnante, confrontandosi tra
loro come avviene all'interno di una normale dinamica gruppale e stimolando il senso di appartenenza e coesione,
una conoscenza reciproca più approfondita (un aumento dei rapporti interpersonali, e quindi di conseguenza un
maggiore senso di appartenenza al gruppo stesso) e lo scambio di opinioni su argomenti diversi. Infine, come terza
modalità abbiamo gli esercizi psicomotori, che aiutano l'individuo ad entrare in contatto con le emozioni, soprattutto
quelle negative come la rabbia e la tristezza, attraverso una consapevolizzazione e una catarsi che, invece di defluire
in un comportamento antisociale, viene elaborata e incanalata in una modalità più funzionale.

2) Profili di comunità e il lavoro di rete: la scuola conosce quello che esiste all'interno del territorio e ha la possibilità
di instaurare un vero e proprio lavoro di rete che rompe l'isolamento e rende più efficace il raggiungimento degli
obiettivi. Conoscere i profili delle comunità, in cui la scuola è inserita, può aiutare a rompere l’isolamento strategico e
territoriale, di cui spesso soffre, e rendere più semplice ed efficace il raggiungimento degli obiettivi prefissati, grazie
all’attivazione di reti con le diverse agenzie del territorio.

3) Gruppi di auto-aiuto: in abbinamento al Circle Time, è uno strumento che favorisce la formazione di un clima di
sostegno reciproco tra gruppi di insegnanti, gruppi di genitori e tra gruppi misti di insegnanti e genitori, agevolando la
partecipazione dei genitori alla vita scolastica, alla condivisione dei compiti e alle responsabilità educative.

4) Analisi organizzativa multidimensionale (AOM): permette un emersione dei punti critici dell'organizzazione e di
quelli di forza, oltre alle risorse su cui puntare per migliorare l'offerta formativa o l'efficacia del proprio intervento.
L’AOM è una strategia che permette di diagnosticare in modo più efficace i problemi di una realtà scolastica,
riconoscere il peso delle dimensioni strutturali, relazionali e funzionali nella determinazione del successo scolastico e
della qualità formativa e riconoscere e programmare obiettivi didattici e educativi mirati. L’AOM permette, dunque, di
individuare le aree di criticità condivise e dedurne le possibilità di cambiamento.

I NUOVI SETTORI DI APPLICAZIONE DELLA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ

I nuovi settori della psicologia di comunità sviluppatisi negli ultimi anni sono in relazione ai fattori socioculturali
esistenti e la psicologia di comunità nasce proprio per trovare una soluzione ai disagi che l'individuo prova all'interno
del contesto in cui è inserito. Il terzo settore, ad esempio, è quel complesso di istituzioni che si collocano tra lo Stato e
l'ambito privato, ma non sono riconducibili né all'uno né all'altro. Sono soggetti organizzativi di natura privata ma volti
alla produzione di beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva, con una natura interna burocratica di tipo
privato, ed erogano servizi e beni per la collettività. Il terzo settore ha delle caratteristiche fondamentali, cioè
l’assenza di distribuzione dei profitti (si tratta di attività senza scopo di lucro), una natura giuridica privata,
un’erogazione di servizi a favore della collettività, la disposizione di un atto di costituzione formale oggetto di un
contratto formalizzato o di un accordo esplicito tra gli aderenti, l’essere basato sull’autogoverno, quindi
un'autogestione, la disposizione di una certa quota di lavoro volontario e una base democratica.
Cooperative sociali: sono delle imprese a carattere privato,
ma con un'impronta sociale. Fondamentalmente rispondono
a due bisogni fondamentali della comunità, ovvero superare
il blocco delle assunzioni nell'ambito pubblico e rispondere in
maniera più organizzata e collaudata con il sistema formale
di cura. Esse perseguono obiettivi aderenti agli interessi delle
comunità in cui sono inseriti, sono senza fini di lucro, hanno
un’esplicita finalità sociale, che garantisce l’aderenza ai
bisogni del territorio in cui sono presenti, la gestione è
democratica e partecipativa e sperimentano nuove tipologie
di servizi. Nell’ambito delle tre categorie di cooperative
sociali descritte a fianco, il Welfare State è il cosiddetto Stato Assistenziale, cioè l'insieme degli interventi, a livello
legislativo ma non solo, che lo Stato mette in atto per incentivare un’equa distribuzione delle risorse, riducendo le
disuguaglianze all'interno della comunità, sia dal punto di vista sociale che economico. Oggi, i vecchi modelli entrano
in crisi, a favore di una forma di Welfare Mix che coniuga sia un piano pubblico assistenziale, sia uno privato. Per
quanto riguarda i servizi gestiti dalle cooperative sociali, essi sono molto flessibili e innovativi e riguardano il pronto
intervento sociale (attività di intervento sulla crisi in atto, dietro segnalazione, sulle situazioni problematiche o
multiproblematiche, come ad esempio l’emarginazione o il maltrattamento), l’inserimento sociale (servizi e attività
per la formazione professionale di minori, anziani, persone con handicap, stranieri e tossicodipendenti), l’assistenza
domiciliare (servizi domiciliari rivolti ad anziani, persone con handicap, minori e adulti in condizioni di emarginazione,
indigenza o rischio di salute) e il telesoccorso (attività di pronto soccorso telefonico che riguarda diverse categorie di
bisognosi, come ad esempio gli anziani soli o le persone disabili). All'interno delle cooperative sociali, lo psicologo di
comunità aiuta il percorso di crescita, permette la risoluzione di momenti di crisi e agevola il passaggio attraverso le
fasi di cambiamento. Di seguito, gli strumenti della psicologia di comunità nelle cooperative sociali.

Volontariato: rientra sempre all'interno del terzo settore ed è libera e gratuita, svolta per ragioni di solidarietà e
giustizia sociale. Esistono vari tipi di associazioni di volontariato, ma tutte nascono dalla spontanea volontà dei
cittadini di fare fronte ai problemi che non sono stati risolti o non sono stati affrontati e rimanda ad un concetto
nuovo di cittadinanza attiva, partecipe e desiderosa di cambiare la propria comunità. Il volontariato si rivolge a
persone in difficoltà, alla conservazione del nostro patrimonio artistico o culturale o alla tutela dell'ambiente, della
natura e degli animali. In Italia, il volontariato è legittimato dalla legge 266 del 1991, che regola il volontariato
organizzato, istituisce delle strutture come i Centri di Servizi per il Volontariato, stabilisce la gratuità assoluta delle
prestazioni fornite dall'associazione, non prevede una retribuzione (nemmeno per gli operatori soci) e indica la
necessità di una struttura democratica dell’associazione. Dalle valutazioni fatte dai sociologi Mary Jo Hatch e Ivo
Colozzi, rispetto all'origine di tali associazioni, il gruppo sembra derivare da un’aggregazione volontaria, mentre
rispetto alla gestione, il gruppo è autogestito e decide autonomamente statuto, finalità, prestazioni e destinatari. Dal
punto di vista del finanziamento, almeno una parte dei fondi ha una provenienza volontaria e, per quanto riguarda lo
scopo, come il terzo settore e le cooperative sociali, tali gruppi non hanno fini di lucro, pertanto sono delle ONLUS. La
prestazione del volontariato dovrebbe essere gratuita e il lavoro su base volontaria, ma nel quotidiano, nella maggior
parte delle associazioni di volontariato, vi è una situazione mista, dove troviamo sia persone che svolgono in modo
gratuito la propria prestazione, sia professionisti altamente qualificati. Inoltre, la convivenza è il frutto di un delicato
equilibrio e il rischio è che quest’equilibrio si rompa, snaturando o il carattere volontario o quello di organizzazione
strutturata. Lo psicologo di comunità collabora alla sensibilizzazione del territorio, contribuisce alla selezione dei
volontari, facilita l’accoglienza e il senso di appartenenza dei nuovi membri, contribuisce a far crescere funzionare il
piccolo gruppo, promuove rapporti di collaborazione e facilita la comunicazione tra auto-aiuto e sistemi formali di
cura, sostenendo il leader in gestione del gruppo e attivazione di interventi di prevenzione del burn-out.
Il mondo del lavoro e il ruolo dello psicologo: lo psicologo di comunità e la psicologia in generale non si sono
interessati molto all'ambito del lavoro prima degli anni ’70-’80, proprio perché l'attenzione era focalizzata più sul
profitto o sulla competizione. Dagli anni ’70-‘80 in poi, si inizia a pensare al contesto lavorativo come un contesto che
è fonte di benessere o malessere per il lavoratore e compaiono i primi interrogativi. Si assiste a una rivalutazione dei
contesti lavorativi, finalmente considerati determinanti per il benessere di coloro che ci lavorano, e i primi argomenti
di studio trattati dagli psicologi sono il rapporto tra la disoccupazione e il disagio mentale e la prevenzione delle
malattie e degli incidenti sul lavoro. Inoltre, molti altri psicologi hanno iniziato anche a lavorare direttamente con i
sindacati, per garantire e facilitare il loro insediamento sul territorio e garantire una proficua attività di tutela del
lavoratore. Inizialmente il lavoratore doveva essere dipendente e passivo rispetto all'organizzazione e distaccato
emotivamente, la sua unica responsabilità era quella di rispondere agli obblighi e alle mansioni che venivano a lui
assegnate. Successivamente, si vede come è sempre più importante motivare le persone, non più viste come
dipendenti succubi dell'organizzazione, bensì dotate di motivazione, responsabilizzazione e coinvolgimento emotivo.
L’obiettivo diventa il valorizzare la persona nei contesti lavorativi, attraverso l’uso di strategie di empowerment che
aumentano le competenze sociali e interpersonali.

Vi sono tre tipi di strategie di empowerment, ovvero quelle centrate sui singoli individui o sui gruppi di individui,
quelle che mirano ad intervenire contemporaneamente sul singolo e sull’organizzazione e, infine, quelle sull'intera
rete. Le prime sono attività di formazione-intervento, ovvero programmi che aiutano e migliorano le capacità
comunicative, di entrare in relazione con l'altro, di entrare all'interno di un gruppo, di gestire un gruppo da parte del
lavoratore. Oppure corsi di stress management, valutazione dell'ansia e miglioramento della loro gestione sul lavoro.
Infine, i servizi di counseling aziendale, gli interventi anche individuali di supporto psicologico e di brevi psicoterapie
per garantire alla persona il superamento del momento problematico. Le seconde sono interventi o strategie più
complesse che mirano a coinvolgere i lavoratori nei processi decisionali, per rendere più orizzontale la struttura
dell’organizzazione. Sono interventi che modificano la struttura organizzativa interna delle aziende in generale; da
verticistica (o verticale) diventa più democratica e orizzontale. I lavoratori diventano parte attiva e sono motivati ad
assumersi più responsabilità e ad avere maggiore autonomia decisionale, ma per fare questo un ruolo fondamentale
è quello del leader, che beneficerà di un percorso di maturazione che gli garantirà una modifica del suo stile di
leadership in senso più democratico e di sostegno del lavoratore. Le terze strategie di empowerment, quelle di rete,
hanno invece l'obiettivo di promuovere le relazioni e gli scambi tra le organizzazioni lavorative, i sindacati, i servizi
socio-sanitari e ricreativi e le istituzioni. Quindi, favorendo i rapporti tra le organizzazioni lavorative e il territorio,
questi interventi, da quelli semplici ai più complessi, danno la possibilità di sviluppare il capitale sociale e il senso di
comunità all'interno di un territorio condiviso.

Politica europea, politica sociale e sviluppo del lavoro: da un punto di vista di politica europea, l'interesse è quello di
aumentare la crescita, l'occupazione e le pari opportunità dei cittadini e possiamo distinguere l'intervento dello
psicologo di comunità in due ambiti diversi, quelli della politica sociale e quelli dello sviluppo del lavoro. Nella politica
sociale l'obiettivo dello psicologo di comunità è aumentare e favorire lo sviluppo dell'empowerment delle minoranze
etniche e sociali, garantendo degli interventi che ridistribuiscano le risorse e aumenti l'empowerment delle fasce
deboli. I compiti dello psicologo di comunità sono la conoscenza del territorio (per individuarne le debolezze e
promuoverne lo sviluppo), lo sviluppo di comunità locali (attraverso iniziative comunitarie, per favorirne
l’empowerment), l’individuazione di esigenze specifiche di alcune categorie e lo sviluppo della cultura d’impresa. Dal
punto di vista dello sviluppo del lavoro, invece, gli obiettivi sono tutti quegli interventi che mirano a combattere la
disoccupazione, attraverso delle strategie per l'occupazione che mirano a promuovere le pari opportunità a tutti,
indipendentemente dal sesso o dalla provenienza, favorire l'inserimento nel mondo del lavoro dei disabili e
l’inserimento nel mercato del lavoro dei giovani, l’istruzione e la formazione.

Pubblica amministrazione: altro ambito di intervento dello psicologo di comunità, in cui negli ultimi anni vi sono state
delle criticità perché vi è un’insoddisfazione dei cittadini, la crescita esagerata di norme e regolamenti, risorse umane
demotivate e situazioni di insoddisfazione generale che determinano l’esigenza di ricorrere a cambiamenti radicali. I
cambiamenti da realizzare riguardano un'amministrazione centrifuga, che sia in grado di favorire un'equa
distribuzione delle funzioni, passando da un'amministrazione per procedure ad una invece più per risultati, centrata
sull’efficienza e sulla coerenza tra obiettivo e azione. Un'amministrazione che non sia più autoreferenziale, ma di
servizio, centrata e progettata sui bisogni della comunità. In definitiva, un'amministrazione con un sistema
organizzativo di risorse umane motivate e professionali valorizzate. La psicologia di comunità può adoperare i suoi
strumenti, costrutti e conoscenze per accompagnare questo processo di cambiamento. Per fare questo, tutti gli
strumenti in mano allo psicologo di comunità sono l'analisi organizzativa multidimensionale (AOM), il lavoro di
consulenza, il lavoro di gruppo, il piccolo gruppo o i gruppi di lavoro, la formazione e il lavoro di rete.
Istituzioni politiche: in un epoca di profonda sfiducia e diffidenza nei confronti della politica, da parte della
popolazione, nelle amministrazioni locali vi è una crescente richiesta di strumenti che siano in grado di riattivare un
collegamento e un dialogo, dare un certo potere decisionale e propositivo ai nuclei di base, ridare vita ai processi
partecipativi e mobilitare le risorse informali. Lo psicologo di comunità può intervenire per aumentare i processi
partecipativi della comunità, mobilitarne le risorse informali, riattivare un dialogo e un collegamento con la
popolazione e dare potere decisionale ai nuclei di base della politica stessa.

Formazione: se ne possono distinguere due tipologie,


un vecchio modello e un nuovo modello. La formazione
all'interno della psicologia di comunità è molto simile al
nuovo modello formativo, per cui abbiamo degli
interventi che coinvolgono le persone che lavorano
all'interno di uno stesso ambiente, anche se con
mansioni, professionalità e specializzazioni diverse. Un
modello formativo empowering, che valorizza le reali
esperienze di lavoro, volto ad un'integrazione delle
componenti emotive e cognitive e che ha come
obiettivo il migliorare l'accordo psicosociale.

L’INTERVENTO SULLA CRISI E LA RELAZIONE CON LO STRESS

Il termine crisi deriva da "krinein" che significa decidere/giudicare e è un'occasione per scegliere un potenziale di
opportunità di cambiamento. La sua valutazione come evento positivo o negativo dipende dalla drammaticità o
violenza dell’evento e dalle risorse disponibili o attivabili, nell’individuo e nell’ambiente, per affrontarla. Secondo la
definizione data dallo psicologo sociale Gerard Caplan, la crisi è: “uno stato che si verifica quando la persona si trova a
fronteggiare un ostacolo che le impedisce il raggiungimento di importanti obiettivi vitali: questo è, per un certo lasso
di tempo, insormontabile tramite l’utilizzo dei metodi abituali di risoluzione dei problemi. Ne consegue un periodo di
disorganizzazione, un periodo di sconvolgimento, durante il quale vengono fatti molti tentativi verso la soluzione del
problema, che però abortiscono. Alla fine, viene raggiunta una qualche forma di adattamento, che può rivelarsi o
meno come la soluzione più utile per la persona e per chi le sta vicino” (1961).

Eric Lindemann: psichiatra e studioso della crisi, partendo dagli studi sull'elaborazione del lutto studiò le reazioni
successive ad un incendio in un night club di Boston in cui morirono 493 persone. Le reazioni che vide nei familiari o
nelle persone lì presenti, durante l'evento traumatico, vennero classificate e studiate non come reazioni
psicopatologiche della persona, ma come reazioni alla difficoltà di elaborare l'evento. Lindemann mette in luce che la
patologia non è espressione di una problematica intrapsichica, bensì influenzata dalle caratteristiche degli eventi
esterni, soprattutto se questi risultano stressanti o traumatici per l'individuo.

Kenneth Terkelsen: psichiatra ed esperto di crisi, sostiene che gli eventi critici, per essere affrontati, necessitano la
messa in atto di meccanismi di adattamento. Egli si occupò soprattutto delle crisi presenti nell’ambito degli studi
psicologici sulla famiglia, in cui osservò che l'evento critico riportava una sua ristrutturazione cognitiva e strutturale,
proprio per garantire l'adattamento. Successivamente, distinse gli eventi critici in normativi e paranormativi, a
secondo della loro prevedibilità. Gli eventi normativi sono tutti gli eventi prevedibili o previsti dagli individui in
determinati periodi della loro vita. Si definiscono anche crisi evolutive poiché associate alle transizioni da uno stadio di
sviluppo all’altro, che gli studiosi della famiglia vedono come momenti cruciali in cui emergono le principali patologie
(es. l’ingresso nella scuola, nel mondo del lavoro, il fidanzamento, il matrimonio, la nascita del primo figlio, il distacco
di un figlio adolescente, il pensionamento). L'orientamento rispetto all'intervento è di tipo preventivo (prevenzione
primaria). Gli eventi paranormativi, invece, sono tutti quegli eventi rari, accidentali, inaspettati (es. le morti a causa di
incidenti o per malattie improvvise, invalidità, rapine o sequestri, gravidanze indesiderate, licenziamenti, disastri
ambientali) e si distinguono in due tipi, quelli naturali e quelli tecnologici. Gli eventi naturali, come i cataclismi e i
terremoti, sono eventi in cui non c'è da parte del soggetto la percezione del controllo dell'evento stesso, e quindi
l'evento è assolutamente incontrollabile. Gli eventi tecnologici sono i disastri ambientali, per esempio quelli su cui
l'uomo stesso agisce e si differenzia dal primo tipo perché in questo caso c'è una perdita del controllo sugli eventi.
Poiché si tratta di eventi imprevedibili, le crisi vengono chiamate crisi situazionali, cioè dipendono dalle situazioni che
accadono. Anche qui l’orientamento rispetto all’intervento è di tipo preventivo e di formazione sulle patologie più
associate perché, rispetto agli eventi catastrofici, molte persone sviluppano una problematica psicopatologica rispetto
al disturbo post traumatico da stress, su cui è importante intervenire rapidamente.
Thomas Holmes e Richard Rahe: questi due psichiatri esaminano le connessioni tra la qualità e la frequenza dei
cambiamenti esistenziali e il rischio o la probabilità di ammalarsi, arrivando alla conclusione che le situazioni più
stressanti sono le morti, in particolare la morte di un coniuge, il divorzio e la carcerazione. Il divorzio e la morte hanno
a che fare con la separazione dagli affetti, in cui viene meno il sostegno emotivo che la famiglia, il coniuge o il partner
comporta, ma anche perché portano ad una situazione di crisi economica della persona (es. padri divorziati). Nel
divorzio vi è inoltre un aumento significativo di problemi di salute, incidenti stradali o comportamenti a rischio tra i
coniugi nel semestre che segue la separazione. La carcerazione è un momento in cui la persona perde il contatto con
la propria famiglia e le proprie possibilità di sostegno esterne ed entra all'interno del circuito della situazione sociale
deleterio che il carcere comporta, rispetto alla possibilità del soggetto di svolgere le sue azioni, secondo la propria
autonomia e libertà di scelta. A queste possiamo aggiungere la disoccupazione, con tutte le conseguenze sul piano
economico, di perdita di status e ruolo.

Gerard Caplan: definisce l’evoluzione della crisi in quattro stadi fondamentali, un iniziale aumento di tensione in
seguito all’influenza di un evento esterno, un aumento di tensione, sensazione di inefficacia e turbamento, come
un’inadeguatezza della modalità di affrontare la situazione e l’influenza continuativa dell’evento; la mobilitazione di
altre risorse personali e/o ambientali e la tensione crescente fino a una crisi vera e propria, se nessuna strategia ha
successo. L'aumento di tensione si accompagna spesso a una possibilità di messa in pratica delle proprie strategie di
coping e di problem solving e la situazione ritorna ad uno stato precedente; oppure, se queste strategie sono
assolutamente inadeguate, si accompagna ad una sensazione di inefficacia, che comporta poi la mobilitazione di altre
energie o risorse che, se funzionali, portano addirittura ad una situazione di miglioramento, di sensazione quasi di
acquisizione di empowerment. La situazione di crisi tende a diminuire dopo alcune settimane, in quanto vengono
trovati una risposta e un nuovo equilibrio. La crisi è uno stato acuto che si risolve generalmente entro 4-6 settimane,
le persone non tollerano alti livelli di disorganizzazione per lunghi periodi di tempo. Dopo un certo periodo,
l’instabilità lascia il posto a un nuovo equilibrio, più o meno positivo, e da ciò si deduce che il tempo utile per
intervenire in modo adeguato è limitato.

IL RAPPORTO TRA CRISI E STRESS

Lo stress, secondo il medico austriaco Hans Selye, è “una reazione non specifica, esibita dall’individuo, quando deve
affrontare un’esigenza o adattarsi ad una novità”. Per reazione non specifica intendiamo uno stato di attivazione del
sistema nervoso vegetativo e del sistema neuroendocrino che interviene di fronte a stimoli stressanti di diversa
natura, quindi attraverso una modificazione degli stati fisiologici della persona stessa. Quindi lo stress è una reazione
psicologica adattiva caratteristica della vita. Lo stress, così come la crisi, non è una reazione psicopatologica ma
un'attivazione dell'individuo rispetto ad un evento esterno che porta ad un nuovo adattamento, ad un nuovo
equilibrio. Quindi possiamo definire la crisi come quella condizione di disorganizzazione psicologica che subentra
come conseguenza di stress acuti o di una serie di stress meno intensi, ma frequenti e ripetuti, causati dai cosiddetti
stressor, cioè eventi che producono stress. E distinguiamo anche un distress, collegato proprio a un turbamento e a
una fase di difficoltà dell'individuo, ed eustress, che invece ha a che fare con la mobilitazione delle risorse, delle
energie della persona, rispetto a stressor gestibili, meno intensi o comunque di una frequenza limitata nel tempo. Le
fasi di reazione fisiologica allo stress sono la reazione di allarme (comprende lo shock iniziale di fronte all’evento
stressante e la successiva mobilitazione dei meccanismi fisici di difesa), la resistenza (si tenta di ristabilire un nuovo
equilibrio e un nuovo adattamento alla situazione stressante) e l’esaurimento (l’individuo è sopraffatto da stress
ripetuti e/o cronici e non è più in grado di reagire con meccanismi di allarme).

IL MODELLO INTEGRATO DELLA TEORIA DELLA CRISI

Diversi autori, che si sono occupati del tema della crisi, hanno spesso dato letture che tendevano a privilegiare le
dimensioni individuali o quelle ambientali. La psicologa sociale Barbara Dohrenwend propone un modello nel quale
integra i diversi elementi individuali e contestuali e ipotizza un processo di attivazione e risoluzione della crisi
multideterminato e multidimensionale, in cui i fattori psicologici sono veri e propri mediatori tra la crisi e la sua
risoluzione. Tra i mediatori psicologici troviamo innanzitutto le caratteristiche psicologiche, per esempio
l'introversione, la difficoltà alla socializzazione, la chiusura su sé stessi, il nevroticismo, quindi la tendenza ansiosa o al
turbamento emozionale. Passando poi al livello di istruzione, il sistema dei valori, le aspirazioni e le abilità di coping,
che sono le strategie comportamentali e mentali che la persona mette in atto rispetto ad un evento esterno. Rispetto
alla situazione di crisi o di stress, le strategie iniziali di coping funzionali sono, per esempio, quelle di evitamento o di
ritiro, proprio perché inizialmente non si sa come fronteggiare la situazione di crisi e di stress. Successivamente,
queste strategie di coping devono lasciare il posto a delle strategie più attive che, attraverso l'elaborazione e
l'accettazione dell'evento, possono portare la persona a fronteggiarlo meglio e a gestirlo. Infine, abbiamo
l'orientamento del locus of control, che è la consapevolezza di poter controllare gli eventi e valutarli come qualcosa
che dipendono dal proprio comportamento, e il grado di empowerment. Quest’ultimo è un processo dinamico e
multidimensionale, collegato alla tendenza fatalistica, cioè se si ha la percezione che tutto ciò che accade è frutto di
un evento, un fato o un destino e non dipende da quello che si fa, sicuramente la capacità di azione sarà molto
limitata perché la valutazione degli eventi sarà fatta rispetto all'incontrollabilità. Dall'altra parte, invece, in maniera
del tutto opposta rispetto alla tendenza fatalistica, si trova il positivismo realistico, ovvero la sensazione di
invulnerabilità della persona e la concezione che qualsiasi cosa accada, accadrà ad un altro ed è molto pericoloso
perché può portare alla sottovalutazione dei rischi. Vengono poi considerati i mediatori situazionali che hanno a che
fare con la fase di ciclo vitale che la persona si trova a vivere. Uno stesso evento critico può avere delle ripercussioni
sulla qualità della vita della persona a seconda dei momenti storici diversi in cui capita; ad esempio, una gravidanza
sarà diversa se capiterà ad un adolescente o ad una donna adulta da poco sposata e in cerca di un figlio. Oppure le
caratteristiche della rete sociale del soggetto in difficoltà, all'interno della quale l'individuo si trova ed è diversa o
funzionale a seconda dell'evento critico; ad esempio, un evento critico che ha a che fare con un lutto troverà una
maggiore rispondenza in una rete che è molto densa, in cui i legami affettivi sono molto stretti e la persona si sentirà
accolta e sostenuta, mentre una crisi che necessita un cambiamento troverà invece come funzionale una rete più
ampia, meno densa, meno coesa, proprio per garantire la possibilità di un maggior contatto con altri contesti da parte
della persona e aumentare le possibilità di rappresentarsi in modo diverso. Infine, le risorse del contesto, come le fonti
di sostegno formale e informale realmente presenti nella dimensione spazio-temporale della persona (questo fattore
si interseca col precedente), che danno la possibilità di ricevere sostegno dalle istituzioni o dalla rete vicina.
Successivamente, Dohrenwend arriva alla conclusione che l’evoluzione della crisi può portare a tre esiti diversi, ovvero
un ripristino della situazione precedente, una crescita psicologica o una reazione disfunzionale persistente (patologia).
È importante, quindi, soprattutto riguardo il terzo esito, quello peggiore, intervenire in termini preventivi sulle
possibili situazioni di crisi, individuando gruppi a rischio e rafforzando sia i mediatori psicologici, che quelli situazionali.

MODALITÀ DI INTERVENTO PER LE CRISI IMPREVEDIBILI

Slaikeu: lo psicologo americano Karl Slaikeu distingue gli interventi in primo ordine e secondo ordine. L'intervento di
primo ordine comprende quelli di primo aiuto o di pronto soccorso, offerti nelle ore immediatamente successive alla
manifestazione della crisi, e ha lo scopo di fornire sostegno, ridurre la pericolosità, limitare l’insorgenza della
confusione e incanalare l’energia di chi è affetto da crisi. Gli interventi di secondo ordine, invece, sono quegli
interventi definibili come terapia della crisi o intervento sulla crisi, condotta dal personale specializzato appartenente
a servizi istituzionali e articolata in più incontri nell’arco di alcune settimane, finalizzata a sostenere e orientare il
cliente in crisi e stimolare e facilitare una risoluzione costruttiva. La terapia della crisi o l’intervento sulla crisi in atto
può essere considerato come una forma di prevenzione secondaria, in quanto può limitare gli effetti degli eventi
stressanti subito dopo il loro impatto.

Psicologia dell’Emergenza: secondo lo psicologo e psicoterapeuta Michele Cusano: “la finalità della psicologia
dell'emergenza è quella di preservare l’equilibrio psichico delle vittime, dei parenti e dei soccorritori dell’azione
psicolesiva degli eventi shock e poi di ripristinarlo se compromesso, nonché quella di facilitare la riparazione del
tessuto sociale lacerato, il recupero dell’identità e della sicurezza collettiva e l’intervento degli organismi pubblici e
privati. Il raggiungimento di queste finalità si perviene attraverso lo studio, la prevenzione e il trattamento dei processi
psichici e dei fenomeni sociali che vengono a determinarsi nelle persone e nella collettività colpita dall’evento
traumatico” (2002). Le caratteristiche dell'intervento sono il focus astorico (non si va indietro nel tempo a scoprire le
ragioni delle difficoltà dell'individuo scavando nella storia ma è focalizzato sul qui ed ora), l’acquisizione di nuove
capacità di risolvere quel problema specifico, un intervento limitato nel tempo e la necessità di operatori più attivi. In
Italia il primo evento significativo della psicologia
dell’emergenza è stato quello della fondazione
dell'Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (ISIG),
in seguito al terremoto in Friuli nel 1976. L’ISIG si occupò
di mettere in atto interventi di informazione (rendere
consapevoli le varie comunità dei rischi presenti nel loro
territorio e della possibilità di ridurli) e di formazione
(possibilità di sviluppare nel sistema sociale quelle
competenze che possono rendere la persona e la
collettività in grado di reagire adeguatamente al
verificarsi di una situazione di emergenza).
Un'altra realtà, rispetto alla psicologia dell'emergenza, è quella della psicologa Maura Mauri e dell’Unità psicologica
di crisi (UPC) di Roma. Tutti i quadri clinici, cioè tutte le risposte disadattive che chiedono di essere gestite, possono
riguardare il singolo come la collettività quando questa è sottoposta a stress dovuto a calamità naturali o eventi
eccezionali. Mauri distingue quattro fasi dell'elaborazione emozionale, rispetto ad un evento traumatico:
1. Fase eroica: comprende il momento del disastro o le ore immediatamente successive, in cui le emozioni sono forti
e le persone sono spinte a mettere in atto azioni eroiche;
2. Fase della luna di miele: va da una settimana fino a due mesi dopo l'evento, i sopravvissuti hanno una forte
sensazione di aver condiviso con gli altri un’esperienza estremamente pericolosa e di essere riusciti a superarla;
3. Fase di disillusione: va da due mesi a due anni dopo l’evento ed è caratterizzata da rabbia, risentimento, amarezza
per la mancata soddisfazione delle promesse di aiuto e vi è la perdita del senso di condivisione comunitaria;
4. Fase di ricostruzione: dopo circa due anni dall’evento, c'è la consapevolezza di doversi far carico, in prima persona,
della risoluzione dei propri problemi.

Cooperative sociali: rispetto alle loro attività d’intervento, possiamo riferirci alla Gestione dei Servizi di Pronto
Intervento Sociale (SPIS), attivi 24 ore su 24. I cittadini possono telefonare e parlare del proprio evento e gli operatori
definiscono direttamente la possibilità di intervenire o meno. Le equipe funzionali negli SPIS sono multi-professionali
e sono composte dallo psicologo, l'assistente sociale, l'educatore professionale e due assistenti domiciliari.

Prevenzione della cronicizzazione o dei danni di sintomatologie post-traumatiche in territori a rischio: li possiamo
dividere in interventi di pre-evento (dedicati a tutta la popolazione per informare su cosa è e come si struttura una
reazione d’ansia, oppure cosa è possibile fare per evitare comportamenti a rischio ad essa correlati) e interventi di
post-evento (attivati dopo che l’evento traumatico è accaduto, si tratta di trattamenti precoci e rapidi che, attraverso
il gruppo, prevengono la strutturazione e la cronicizzazione di quadri clinici trascurati, sottovalutati o male
diagnosticati).

Interventi di gruppo: utilizzati soprattutto sui bambini, come per esempio agli interventi predisposti da cooperative
come Save the Children. Gli strumenti più usati sono le interviste di gruppo e la produzione di disegni. L’intervista
fornisce l’opportunità di discutere del “loro racconto” in un setting di gruppo, ovvero facilita la partecipazione e
l’ascolto delle strategie di coping degli altri bambini, così da ampliare la conoscenza di alternative costruttive.

Analisi di comunità: uno degli strumenti privilegiati di questa disciplina, perché consente di conoscere in modo
approfondito le realtà territoriali, le risorse, le carenze e i bisogni prevalenti, oltre che facilitare la programmazione di
interventi mirati a stimolare la partecipazione delle persone promuovendo la competenza nell’identificare i propri
bisogni e attivare la costituzione di reti tra le agenzie formali e informali del territorio.

MODALITÀ DI INTERVENTO PER LE CRISI PREVEDIBILI

Preparare gruppi o individui ad affrontare eventi stressanti eccezionali, inevitabili e prevedibili: l’obiettivo di
quest’intervento è quello di incrementare la capacità del paziente di affrontare la situazione; in ambito sanitario,
vengono attuati interventi in area oncologica per facilitare la gestione dell’evento traumatico, favorire lo sviluppo nel
paziente di un comportamento di compliance, facilitare l’adattamento del malato e della sua rete familiare alla nuova
condizione di vita in tutti i suoi diversi stadi della malattia.

Ridurre l’impatto negativo delle principali transizioni di vita e crisi evolutive: riguardano eventi stressanti come, per
esempio, la gravidanza, la preparazione al parto e l'esperienza scolastica. L’obiettivo è quello di mirare alla
preparazione, sul piano delle informazioni e su quello delle emozioni anticipabili, di eventi e crisi specifiche.

Potenziare una serie di competenze: interventi volti ad aumentare le capacità e le potenzialità del soggetto, ovvero i
mediatori psicologici della persona, cioè aumentare la capacità di problem solving, l'intelligenza emotiva o l'aumento
dell'autostima e del senso di autoefficacia. Gli interventi hanno lo scopo di potenziare una serie di competenze, come
la creatività e la duttilità nell’assunzione dei ruoli, la definizione del problema, l’analisi e la scelta di alternative (quindi
la capacità di problem solving), l’aumento dell’autostima e del livello di aspirazione (cioè l’achievement), lo sviluppo
delle competenze emozionali (quindi l’intelligenza emotiva) e la capacità di mediazione.

Potenziare i volontari: l’obiettivo è l’azione di formazione per le persone che, senza le qualifiche accademiche, si
trovano in relazione con i membri della comunità in situazioni di crisi.
LA TOSSICODIPENDENZA

DSM-IV: la tossicodipendenza è una modalità patologica d’uso di una sostanza che conduce ad una menomazione o
ad un disagio clinicamente significativo, come manifestato da tre (o più) delle condizioni seguenti, che ricorrono in
qualunque momento dello stesso periodo di 12 mesi: tolleranza (bisogno di dosi sempre più elevate), astinenza
(psicologica e fisica), assunzione per tempi più lunghi ed in quantità maggiori di quanto previsto dal soggetto, il
desiderio persistente o i tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza, una gran quantità di tempo
spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza, ad assumerla o a riprendersi dai suoi effetti, l’interruzione o la
riduzione d’importanti attività sociali, lavorative o ricreative e un uso continuo della sostanza nonostante la
consapevolezza di avere un problema persistente o ricorrente fisico o psicologico. Le sostanze:

1) Oppio (derivati: eroina e morfina): benessere, estraniazione dall’ambiente e minore percezione di dolore;
2) Alcool: una delle sostanze più utilizzate perché più facilmente accessibili, produce una percezione irrealistica delle
proprie capacità e un aumento dell’aggressività, ma soprattutto disinibisce e diminuisce l’autocontrollo;
3) Cocaina: aumenta tutti gli stati percettivi della persona, della fiducia nelle proprie possibilità e una riduzione della
fatica fisica e mentale. Provoca uno stato di euforia e allegria persistente, una sensazione di potenza e di benessere;
4) Anfetamine: spariscono le barriere e le inibizioni;
5) Extasy (MDMA): utilizzata soprattutto tra i giovani, dove vi è un aumento dell’autostima, della capacità empatica e
delle capacità socializzanti gli altri. Inoltre, vi è un potenziamento anche delle sensazioni e delle percezioni;
6) Psicofarmaci (benzodiazepine): ansiolitici, vengono spesso usati o da soli per alleviare il proprio dolore interno o in
concomitanza con sostanze come l'eroina, per aumentarne l'effetto, o la cocaina e l'alcol, per ridurre e smorzare
l'effetto. Aumentano gli effetti sedativi degli oppioidi o controllano gli effetti negativi della cocaina e dell’extasy;
7) Allucinogeni (LSD): produce un'alterazione proprio della percezione e uno stato quasi parallelo a quello di vita
normale, con visioni spesso paradisiache o terrificanti. Modificano le percezioni sensoriali e lo stato di coscienza;
8) Cannabinoidi (marijuana, hashish): tra i giovani aumentano le sensibilità sensoriali e la capacità di socializzazione;
9) Inalanti (popper): potenzia il desiderio e le prestazioni sessuali;
10) Nicotina e Caffeina: verranno inseriti come sostanze da dipendenza nel DSM V.

DSM V: apporta delle differenze rispetto al DSM IV, fondamentalmente viene eliminato il concetto di abuso e
vengono considerati, su un continuum, tre livelli di dipendenza, ovvero lieve, moderato e grave. Rispetto agli indici, i
criteri sono 11 e l'unica differenza è che vengono eliminati i criteri di astinenza e di tolleranza, mentre viene
introdotto il craving, cioè l'impulso istantaneo e immediato verso la sostanza. Vengono introdotte la sindrome da
astinenza da cannabinoidi, il disturbo da uso di tabacco e il disturbo da astinenza da caffeina. La sindrome da
astinenza da cannabinoidi insorge per un uso prolungato degli stessi e comporta sia delle difficoltà psicologiche, come
l'irritabilità, l'insonnia, la perdita di peso, quanto anche fisiche, come cefalee, disturbi gastrointestinali, tremori. Il
disturbo da uso di tabacco si è riscontrato proprio rispetto all'uso della nicotina e del tabacco in generale. Invece il
disturbo da astinenza da caffeina si manifesta intorno a 24 ore dopo l'interruzione dell'assunzione della sostanza e
presenta sempre gli stessi sintomi, sia psicologici che fisici-clinici, dell'astinenza da cannabinoidi. Una grande novità
del DSM V è l'introduzione dei disturbi da dipendenza del gioco d'azzardo.

LE NEW ADDICTIONS

I nuovi comportamenti relativi alla dipendenza vengono chiamati “new addictions” e riguardano la dipendenza non
più da una sostanza ma da un comportamento quotidiano, normalmente accettato e, in alcuni casi, valorizzato dalla
cultura stessa in cui si vive, con un suo uso patologico. I comportamenti additivi riguardano condotte quotidiane lecite
e culturalmente accettate o incentivate e per poter riconoscere l'addiction è necessario valutare tre criteri:
l'impulsività (tentazione ad agire alla ricerca di piacere), la compulsione (messa in atto di comportamenti o pensieri
per ridurre l’ansia o allontanare le sensazioni spiacevoli) e l'ossessione (pensieri, immagini o impulsi intrusivi, che
portano a rivivere mentalmente la situazione di dipendenza).

Gioco d’azzardo: è un comportamento accettato e aiuta i processi di socializzazione e sana competizione ma diventa
problematico quando è rigido e ripetitivo; alcune ricerche valutano che l'80% della popolazione italiana, almeno una
volta, abbia giocato ai giochi d'azzardo come le slot-machine o le scommesse. Il gioco d’azzardo è più pericoloso degli
altri giochi perché in questa tipologia il limite tra la fantasia e la realtà diventa ancora più labile, la scommessa diviene
un rifugio della mente e permette all'individuo di avere una fantasia illusoria, di modificare il corso della propria vita.
L'onnipotenza diventa ancora maggiore e, di conseguenza, ancora maggiore sarà la delusione quando questo non
avviene, in un circuito che si rinforza vicendevolmente e sfocia in patologia in una persona vulnerabile. Possiamo
distinguere il gioco d'azzardo in tre forme, quello non problematico (attività ricreativa e comportamento fisiologico
che porta alla socializzazione e alla sana competizione), quello problematico (comportamento che mette a rischio la
salute psicofisica e sociale dell’individuo, aumenta il tempo dedicato al gioco e le spese relative) e quello patologico (il
comportamento è intensivo, sono presenti il craving e sentimenti di inquietudine quando non si può giocare, oltre alle
spese elevate che generano debiti. Ad oggi, non ci sono ancora degli interventi specifici per il gioco d'azzardo, né
tanto meno un intervento legislativo adeguato. Rispetto all'intervento e alla cura di questo tipo di patologie, quello
che si è visto, però, è l'importanza di un intervento multidisciplinare.

Dipendenza da tecnologie della comunicazione: l'uso ripetitivo e disfunzionale del pc, della tv, di internet e oggi
potremmo annoverare anche gli smartphone, ovvero una dipendenza comportamentale che implica un'interazione
disfunzionale uomo-macchina e presenta gli stessi aspetti nucleari della dipendenza da sostanze. L’interazione con la
macchina diviene dominante nella mente dell'individuo, tanto che c'è una situazione di irritabilità, irrequietezza e
difficoltà nel momento in cui il soggetto non è collegato in rete e non sa quello che succede in rete. Molto forte è
anche la compromissione delle altre aree funzionali del soggetto, soprattutto quella relazionale, interpersonale, e
sociale. L’uso additivo è finalizzato a regolare gli stati emotivi difficilmente gestibili in altro modo.

Dipendenza sessuale: il soggetto mette in atto continuamente comportamenti, pensieri, fantasie o atti di tipo
sessuale reiterativi per regolare uno stato emotivo interno negativo e per allontanare le emozioni spiacevoli e
difficoltose, con conseguente perdita di controllo e compromissione del funzionamento sociale e lavorativo.

Shopping compulsivo: è un quadro psicopatologico caratterizzato da preoccupazioni e un impulso ad acquistare beni,


spesso superflui o di valore superiore alla propria disponibilità economica. Questo porta il soggetto ad esporsi anche
alla possibilità di accumulare debiti ed entrare all'interno di un circuito delinquenziale. Oltre allo shopping compulsivo
normale, oggi possiamo parlare anche dello “shopping compulsivo in rete”, dove l'acquisto è ancora più facile e più
diretto e non si ha la necessità di rendere conto ai familiari o altro, agendo di nascosto, senza giudizio esterno.

LA LETTURA CLINICA: L’APPROCCIO PSICOANALITICO

Sigmund Freud, da un punto di vista clinico la tossicodipendenza è il risultato di una regressione e fissazione ai primi
stadi dello sviluppo della persona, in particolare alla fase orale. Inoltre, vi è la connessione tra l’uso delle sostanze e le
spinte narcisistiche e gli stati maniacali di tipo ossessivo.

Claude Olievenstein: questo psichiatra francese introduce la “fase dello specchio” in cui, intorno ai 2 anni, il bambino
esce dalla fase di simbiosi con la madre e si accorge dell’esistenza di un sé separato. La madre funziona come uno
specchio, perciò se quest’opera di rispecchiamento funziona il bambino svilupperà in maniera sana. Rispecchiandosi
nella madre, il bambino aumenta la propria identità e la valutazione delle proprie emozioni, dei propri bisogni. Se
questo rispecchiamento non funziona, Olievenstein parla dello “specchio infranto”, in cui ne deriva un senso di
frammentazione del sé, legato al comportamento tossicomanico e alla dipendenza.

Heinz Kohut: quando la relazione con la madre presenta gravi carenze, l’Io del soggetto (nelle fasi successive dello
sviluppo) è indebolito e incapace di tollerare le frustrazioni. La ricerca della droga è funzionale all’allontanamento del
senso di inadeguatezza che il soggetto prova e alla percezione illusoria di serenità.

Otto Kernberg: la tossicodipendenza è causata dal fallimento delle prime esperienze di distacco dalla madre e questo
rapporto diventa fondamentale anche per i teorici dell'attaccamento, poiché un rapporto carente nella prima età
infantile col caregiver produrrebbe una difficoltà di mentalizzare, ovvero riconoscere le proprie emozioni e quelle
degli altri; inoltre, la tossicodipendenza è meccanismo compensatorio e allontana gli stati negativi della mente.

LA LETTURA CLINICA: GLI AUTORI SISTEMICI

Ogni sintomo permette l'omeostasi del sistema familiare ma nelle famiglie con un membro tossicodipendente vi sono
caratteristiche come la sovversione delle gerarchie tradizionali, con coalizioni tra i membri di diverse generazione, una
madre ipercoinvolta, indulgente con il ragazzo e un padre periferico, assente emotivamente. Un concetto molto
importante è quello della “pseudoindividuazione”, proposto dallo psicologo e ricercatore Duncan M. Stanton, per cui
il ragazzo, attraverso il comportamento della dipendenza, tossicomanico in questo caso, vuole manifestare la propria
indipendenza e la propria autonomia attraverso comportamenti oppositori, finendo però per rimanere dipendente
dalla sostanza e dalla famiglia stessa, per via delle difficoltà economiche e di crescita che la dipendenza comporta.
Equipe del centro di Milano (Mara Selvini Palazzoli - psichiatra): evidenzia una precoce carenza di accudimento da un
punto di vista materno, non adeguato alle esigenze del bambino e ha una storia trigenerazionale. I genitori dei
tossicodipendenti hanno vissuto carenze e traumi minimizzati nel loro racconto e non elaborati e questo non
permette loro l’adeguata assunzione del ruolo generazionale di accudimento nel miglior modo possibile.

Le tossicomanie di Luigi Cancrini (psichiatra): la tossicodipendenza come tentativo disperato di autocura


Tossicomania traumatica: nasce dopo un evento che ha una forte risonanza emotiva, come un lutto, una separazione,
per cui la dipendenza serve ad allontanare i pensieri negativi;
Tossicomania di area nevrotica: copertura di una nevrosi attuale in soggetti più predisposti a caratteristiche ansiose o
con un forte turbamento emotivo;
Tossicomanie di copertura/compenso: da disturbi psichici più gravi (es. organizzazioni Borderline di personalità);
Tossicomanie nucleari: la motivazione all’abuso di sostanza va ricercata direttamente nella struttura di personalità
del tossicomane, come ad esempio i disturbi sociopatici.

La lettura sociale: se allarghiamo il campo di osservazione da un punto di vista più sociale, vediamo che un basso
livello socioeconomico influisce molto sull'uso della sostanza o dei comportamenti dipendenti. Un aspetto già visto
nel gioco d'azzardo, in cui l'insicurezza e le difficoltà economiche portano al gioco
compulsivo, ancora di più se parliamo delle vecchie dipendenze, come quelle relative
all'eroina. Estraniarsi da un mondo che non piace, dove ci sono anche difficoltà
socioeconomiche, però, comporta un circolo vizioso perché il comportamento di
dipendenza aumenta l'emarginazione che fa sentire ancora di più lo svantaggio e si
ritorna all'addiction. Secondo l'Osservatorio Europeo delle Droghe, almeno 85 milioni
di europei adulti hanno consumato almeno una volta nella loro vita sostanze illecite.
La maggior parte di questi, cioè 77 milioni, dichiara di aver consumato cannabinoidi,
mentre queste stime sono molto inferiori per coloro che dichiarano di aver consumato
altre droghe.

GLI INTERVENTI DELLO PSICOLOGO DI COMUNITÀ

Da un punto di vista della cura, lo psicologo di comunità deve prendere in considerazione i gruppi di self-help
(permettono di avere una maggiore consapevolezza e una maggiore attenzione sui rischi della dipendenza da
sostanze, creandole basi di una maggiore responsabilizzazione dei singoli) e gli interventi di rete (permettono dei
movimenti cognitivi e pragmatici che producono una ridefinizione e il cambiamento delle rappresentazioni di sé e
degli altri). Da un punto di vista di prevenzione, secondo lo psicologo William Ryan questa è finalizzata a modificare
le componenti sociali che vittimizzano il portatore del problema. Inoltre, vi è una critica ai programmi psicosociali
rivolti ai singoli gruppi di individui portatori di un deficit che, proponendosi in un’ottica comunitaria, non mirano al
mutamento della comunità stessa. Julian Rappaport, invece, individua nell’empowerment lo strumento principale
della prevenzione. Viene fornita una possibilità di cambiamento, a partire dal potenziamento dei propri punti di forza,
e quindi dal “learned helplessness” (impotenza appresa) a “learned helpfullness” (speranza appresa). La prevenzione è
un metodo d’azione che promuove le competenze sociali ed individuali per incrementare il benessere. Inoltre, deve
agire, secondo gli psicologi Bruna Zani e Augusto Palmonari, secondo due orientamenti: prevenzione reattiva (rivolta
ad incrementare le capacità del singolo di far fronte alle situazioni di stress, come le strategie educative e formative e
le promozioni di capacità di coping) e prevenzione proattiva (tende a eliminare i fattori ambientali di stress, come i
programmi di sviluppo del sostegno sociale, le azioni sociali e politiche e le ricerche-intervento).

Gli obiettivi della prevenzione sono il costruire minoranze attive e leadership, che riescano a ridurre la diffusione,
l’attivazione di interventi efficaci in fase precoce, la riduzione dei danni apportati dal fenomeno problematico e
l’attivazione di una politica che agisca in maniera coerente per raggiungere questi obiettivi. Rispetto alla prevenzione,
abbiamo due tipi di interventi, i programmi di prevenzione nelle scuole (attraverso programmi di "Peer Education" che
stimolano direttamente una partecipazione attiva da parte dei ragazzi, promuovendo stili di vita sani e modelli di
gratificazione alternativi) e interventi di riduzione del danno. Gli obiettivi della riduzione del danno riguardano il
limitare le conseguenze sociali correlate all’uso di droghe, il salvaguardare la salute dei soggetti riducendo il
fenomeno dell’overdose, il realizzare il più ampio contatto possibile tra gli operatori sanitari e le relative strutture con
la popolazione dei tossicodipendenti, il raggiungere un gran numero di potenziali pazienti ed avanzare delle proposte
in una prospettiva di un eventuale coinvolgimento in percorsi terapeutici, attraverso l’offerta di alternative credibili e
accettabili.
La riduzione del danno in carcere: i detenuti e gli internati tossicodipendenti rappresentano circa il 30% della
popolazione carceraria, per cui la riduzione del danno deve avvenire anche nell'istituzione penitenziaria. Secondo la
legge 230 del 1999, i detenuti e gli internati tossicodipendenti hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà,
all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di
assistenza.

Per quanto riguarda la riabilitazione e il reinserimento, è necessaria una rete di collaborazione e di coordinazione tra
le strutture e gli enti sanitari e quelle che si occupano di formazione e di orientamento al lavoro. Lo psicologo può
intervenire costruendo un sistema di valutazione comune sulla formazione professionale e sull’orientamento
finalizzato all’inserimento lavorativo, oppure costruendo sistemi di controllo delle immagini che gli utenti hanno dei
servizi. Quindi lo scopo della riabilitazione e del reinserimento è quello di favorire progetti di formazione e di
inserimento lavorativo. In più, lo psicologo può limitare i processi di distorsione, presenti nell’attuazione delle diverse
strategie, può tenere nella giusta considerazione l’influenza del contesto in cui l’intervento è stato effettuato, può
evitare la natura autoconfermativa delle misure di valutazione dei programmi nel sociale e promuove una modalità di
lavoro interdisciplinare, come il lavoro di gruppo e il gruppo di lavoro.

IL BURNOUT

Il termine burnout deriva dall’inglese "to burn" e significa bruciare/esaurirsi, oppure dal suo participio “burnout” che
può essere tradotto come bruciato. Questa sindrome colpisce gli operatori dell’helping profession, ovvero quelle
professioni che implicano un intenso coinvolgimento emotivo. All'interno di questa tipologia di lavoro, l'incontro con
l'altro parte sempre da un suo disagio che carica di ansia e di preoccupazione l'operatore. Quando la soluzione non è
immediata o facilmente risolvibile, la frustrazione e lo stress aumentano e si può incorrere in questa condizione. La
prima cosa da fare quando parliamo di burnout è prendere in considerazione la relazione con l'evento stressante. Per
stress intendiamo una risposta biologica specifica dell’organismo a un evento ambientale (stressor) e la descriviamo
prendendo spunto dagli studi, già trattati, di Hans Selye e le tre fasi: allarme, resistenza ed esaurimento. Questa terza
fase è tipica delle persone che incorrono in una situazione di burn-out, in cui la sensazione prevalente è quella di non
avere più energie, di non poter più agire, di non poter più imporre la propria competenza, la propria professionalità,
all'interno del proprio contesto lavorativo, ma anche al di fuori di esso, negli altri contesti di vita.

Herbert J. Freudenberger: questo psicologo americano, uno dei primi studiosi di burnout, inserisce la sindrome
all'interno delle scienze sociali, parlandone proprio come una forma di stress cronico. Questo stress cronico è in
relazione con un elevato investimento emotivo, rispetto all’attività del soggetto, ed è influenzato dalla mancanza di
riconoscimento sociale e di gratificazione da parte dell’ambiente, rispetto al lavoro svolto.

Pia Cariota Ferrara e Francesco La Barbera: secondo la definizione data da questi due psicologi italiani, il burnout è
“una particolare tipologia di stress cronico, legata principalmente alle Helping Professions, che comporta uno stato di
sofferenza psicofisica del soggetto, unitamente a sentimenti di inadeguatezza professionale, mancata gratificazione
personale, demotivazione, disinvestimento, risentimento e cinismo rispetto al lavoro e all’utenza” (2006).

I MODELLI TEORICI

Christina Maslach: propone un modello con tre componenti fondamentali che sono sempre presenti quando il
soggetto è sottoposto ad una situazione di stress che sfocia nel burnout. La prima è l'esaurimento emotivo
(sensazione di sentirsi svuotati, inariditi, impoveriti professionalmente e personalmente con una perdita generale
dell'energia dell'organismo per cui si pensa di non poter essere più attivi in nessun modo), collegata poi al sentimento
di depersonalizzazione (lo sviluppo di rapporti lavorativi freddi, impersonali e distanti, caratterizzati da un forte
cinismo nei confronti dell'utenza) e alla ridotta realizzazione personale (decremento dell’autostima e della
gratificazione personale).

Cary Cherniss: parla di “una risposta di coping disadattivo rispetto ad uno stressor” che è una discrepanza tra le
risorse personali di cui il soggetto dispone e le richieste ambientali. La modalità di coping che l'individuo attua rispetto
ad un evento esterno, ad una richiesta ambientale o a uno stressor è disadattiva, in quanto orientata all’evitamento e
induce il professionista ad affrontare la situazione stressante in maniera passiva.

Ayala Malach Pines: il burnout è direttamente proporzionale al livello di aspettativa data dall’investimento cognitivo-
emotivo dell’operatore di dare un senso alla propria vita tramite il lavoro.
Barry A. Farber: propone tre diverse tipologie del burn-out, ovvero quello classico o frenetico (il soggetto, di fronte
allo stress, aumenta la sua attività lavorativa fino all’esaurimento psicofisico), quello da sottostimolazione o
underchallanged (il soggetto è demotivato e insoddisfatto a causa della monotonia e della ripetitività del lavoro) e
quello da scarsa stimolazione o wornout (il soggetto ritiene il proprio lavoro troppo stressante, rispetto al
riconoscimento che lo stesso comporta, e tenta di prevenire l’esaurimento riducendo il proprio ritmo lavorativo).

LE 4 FASI DEL BURN-OUT

Entusiasmo idealistico: l’idealizzazione della scelta professionale, in cui le motivazioni sono accompagnate da
aspettative di “onnipotenza”, di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato. Questa fase è tipica delle
persone che si avvicinano a lavori basati sulla relazione d'aiuto, in cui sono portati ad investire, mossi da una tendenza
vocazionale di base nell'aiutare l'altro, senza che ci sia una valutazione realistica delle difficoltà presenti nella
soluzione del problema portato dall'utente. Il soggetto prende in considerazione soltanto il proprio investimento, il
proprio desiderio di aiutare e di stare vicino all'altro e di risolvere la situazione problematica e questo comporta un
errore di valutazione. In questa fase dell’entusiasmo idealistico, la persona aumenta il proprio orario di lavoro e si
dedica completamente alle sue mansioni, quasi che la vita al di fuori del lavoro perdesse di importanza;
Stagnazione: l’operatore passa da un super investimento iniziale ad un graduale disimpegno, dove il sentimento di
profonda delusione determina una chiusura verso l’ambiente di lavoro e i colleghi. Inoltre, inizia ad esserci una prima
rinuncia rispetto ai propri compiti, le mansioni e le responsabilità che il proprio ruolo comporta;
Frustrazione: la fase più centrale e più critica di tutto il processo, in cui l’operatore crede di non essere più in grado di
aiutare nessuno. I sentimenti predominanti sono la frustrazione e il fallimento e vi è un dubbio sul significato stesso
del proprio valore, oltre ad un vissuto di vergogna e di impotenza per non essere all’altezza del compito. È la fase che
porta ad un bivio, l'instaurarsi della patologia o la capacità di reagire e trovare un nuovo equilibrio in direzione di una
maggiore sanità psichica e psicofisiologica. Inoltre, aumentano i sentimenti negativi di depressione può sorgere l'uso
di psicofarmaci o di alcol per lenirli;
Apatia: il momento del distacco emotivo e relazionale dagli altri e dalla propria attività, in cui viene messa in
discussione la vita personale e possono insorgere disturbi psicosomatici di una certa entità. In questa fase si passa da
una situazione di empatia massima ad una situazione di apatia più totale.

Le figure a rischio: secondo Maslach, la sindrome del burnout è la malattia tipica delle professioni di aiuto (o helping
profession) nelle quali non si utilizzano solo competenze tecniche, ma anche abilità sociali ed energie psichiche.
Parliamo, dunque, di operatori socio-sanitari (psicologi, assistenti sociali, medici e infermieri), gli impiegati del front-
office della Pubblica Amministrazione (persone che quotidianamente devono aiutare l'utente rispetto a un disservizio
proprio specifico e mantenere nello stesso momento un rapporto di lealtà e di vincolo all'amministrazione che è il
datore di lavoro), e gli insegnanti (l'impegno nella gestione dei rapporti con gli alunni, i genitori e i colleghi). Questa
terza categoria, inoltre, anche culturalmente, è caratterizzata da una tipologia di lavoro che ha poco riconoscimento
da parte della società e una gratificazione economica bassa. Ovviamente ci sono degli strumenti che possono essere
utilizzati nella valutazione del burnout, come il "Maslach Burn-out Inventory", un questionario self-report composto
da 22 item che va a valutare proprio le tre caratteristiche: l'esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la
derealizzazione personale. Molto alto, spesso, è il grado di esaurimento emotivo tra il personale infermieristico e
medico, in quanto vi è un sovraccarico lavorativo e difficoltà nella turnazione, oltre a ore di lavoro troppo lunghe e
una vicinanza troppo stretta e intima con la malattia del soggetto, spesso in condizione terminale o a rischio di vita.

Fattori di rischio: esistono fattori personali e contestuali/ambientali che espongono al rischio del burnout. I fattori
personali correlati ad un alto rischio di burn-out sono l’introversione (timidezza, inibizione nelle relazioni sociali), il
nevroticismo (tendenza all’instabilità e al turbamento emotivo in persone caratterizzate da una forte ansia), il locus of
control esterno (tendenza dell'individuo ad attribuire a cause interne o esterne gli eventi della propria vita), il basso
senso di autoefficacia (essere più predisposto per una sintomatologia depressiva o per la sensazione di frustrazione o
di fallimento tipica del burnout) e la poca motivazione. Rispetto alle differenze tra generi, le donne sono più
predisposte a sperimentare un senso di esaurimento emotivo, mentre gli uomini manifestano una maggiore
propensione nei confronti della depersonalizzazione. I fattori contestuali correlati al burnout sono la struttura dei
ruoli lavorativi (sovraccarico di richieste, incompatibilità tra i ruoli, sovrapposizioni e aspettative disattese), la
struttura del compito da svolgere (impossibilità di svolgere un lavoro vario ed interessante, mancanza di stimoli, di
opportunità formative e di feedback da parte dei colleghi) e la struttura di potere dell’organizzazione in cui la persona
lavora (le forme di lavoro sono centralizzate e fondate su una scala gerarchica).
Sintomatologia e conseguenze: i sintomi si possono distinguere in aspecifici (irrequietezza, irritabilità, senso di
stanchezza, esaurimento, apatia, nervosismo e insonnia), somatici (disturbi gastrointestinali, ulcere, cefalee, aumento
o calo di peso, nausea, disturbi cardiovascolari e difficoltà sessuali) e psicologici (depressione, bassa stima di sé, senso
di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro,
indifferenza, negativismo, isolamento, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà
nelle relazioni con l’utenza, cinismo e atteggiamento colpevolizzante nei confronti dell’utenza e dei colleghi). Dal
punto di vista delle conseguenze, il burnout ne ha a tre livelli, quello degli operatori (pagano il burnout in termini
personali, sia fisici che psico-relazionali), quello degli utenti (un contatto con gli operatori sociali, in burnout, risulta
frustrante, inefficace e dannoso) e quello della comunità (vede svanire i forti investimenti nei servizi sociali).

GLI INTERVENTI

Per quanto riguarda gli interventi, dobbiamo pensare a quelli


di tipo preventivo che agiscano prima dell'insorgenza della
sindrome e che si riferiscono alla possibilità di aumentare le
competenze dei soggetti. Nel grafico a fianco sono mostrate
le principali modalità di intervento, quelle sul singolo e quelle
sull’equipe, mentre altri interventi vanno sull'organizzazione
(interventi che rendono il carico di lavoro più gestibile e
rendono più chiari e definiti i ruoli assunti, come ad esempio
la riduzione del carico di lavoro, l’utilizzazione del personale
ausiliario, la riduzione del numero delle ore di lavoro o la
strutturazione dei ruoli, in modo da permettere agli operatori di prendersi periodi di riposo, quando è necessario)
oppure sono strumenti per un check-up, come l’Organizational Check-up Survey, che analizza gli aspetti chiave della
vita organizzativa come il continuum tra disimpegno e investimento, l'isolamento emotivo, la depersonalizzazione, la
derealizzazione personale, la struttura e la gestione all'interno dell'attività lavorativa.

Principali modalità di intervento di Cary Cherniss: fa una classificazione più netta che racchiude un po' tutti i
principali interventi che possiamo utilizzare per affrontare questa sindrome, come lo sviluppo dello staff (per
sviluppare una maggiore conoscenza della sindrome da burnout, con gli strumenti di tipo informativi), gli interventi
sull'organizzazione del lavoro (rendere più gestibile il carico di lavoro e definire meglio i ruoli assunti), lo sviluppo del
management (programmi di formazione per dirigenti e amministratori), la gestione del conflitto organizzativo
(sviluppo di processi decisionali orizzontali e aumento della collaborazione e della compartecipazione) e la definizione
di obiettivi e modelli di gestione (aumentare la consapevolezza rispetto agli obiettivi del proprio lavoro e ridistribuire
in modo congruo e specifico la responsabilità).

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