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Piergiorgio Donatelli

Piergiorgio Donatelli

Wittgenstein, l’etica e la filosofia antica

1.

Mi sembra che nella tradizione analitica sotto l’influenza della filosofia di


Wittgenstein, e nell’ambito di quella che possiamo chiamare una concezione
alternativa dell’etica analitica1, si profili una contestazione di linee importanti
dell’etica moderna che consente di tornare in modi interessanti all’etica antica.
La contestazione è rivolta alla centralità del concetto moderno di obbligo, a cui
avevano dedicato i loro trattati i grandi classici nel Seicento e nel Settecento,
con l’importante eccezione di Hume. È un attacco lanciato da autori tanto lon-
tani – nel temperamento intellettuale – quanto lo sono Elizabeth Anscombe2
e Bernard Williams3. Anscombe critica l’autosufficienza del concetto di dovere
morale – che individua in particolare nella dottrina di Kant – per attaccare la
modernità liberale incapace di procedere sulle sue gambe senza il conforto del
quadro teologico. Perciò ella torna al concetto di virtù aristotelico e tomista per
recuperare il quadro della tradizione premoderna di cui ancora poteva trovare
riscontro nel cattolicesimo nonostante i cambiamenti introdotti dall’esperien-
za conciliare contro i quali lanciava i suoi strali. Williams lavora invece nella
prospettiva progressista e la sua critica all’autosufficienza del dovere morale,
che estende al concetto novecentesco di teoria morale e quindi in particolare
all’utilitarismo contemporaneo, è funzionale alla ricostruzione delle basi non
razionalistiche dell’etica che sono quelle dell’identità personale dove motiva-
zioni, lealtà e ideali molto diversi sono impastati insieme. La sua critica è rivolta
quindi al carattere moralistico di correnti importati della cultura morale moder-
na e contemporanea che nascondono le basi ampie, sentimentali e storiche, della
morale dietro dispositivi normativi apparentemente semplici e onnipotenti.

1
Per l’idea di una tradizione alternativa dell’etica analitica rimando a P. Donatelli, Il lato ordina-
rio della vita. Filosofia ed esperienza comune, il Mulino, Bologna 2018, pp. 24, 57, 80. Per il canone della
tradizione analitica cfr. J. Conant - J. Elliott (eds.), The Norton Anthology of Western Philosophy. After
Kant. The Analytic Tradition, W.W. Norton and Company, New York 2017.
2
Cfr. G.E.M. Anscombe, La filosofia morale moderna, in «Iride» xxi, 53 (2008), pp. 47-67.
3
Cfr. B. Williams, Sorte morale, tr. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1987.

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Come accennato, l’idea moderna di obbligo va assieme a un’idea novecen-


tesca molto influente, che è quella di teoria morale. L’idea di obbligo concentra
la moralità nell’azione e nei criteri normativi che la governano, in un dispositivo
normativo che lascia fuori il tessuto più ampio della vita personale e sociale. In
questa prospettiva, la forza della moralità risiede nel potere di concentrarsi in
un unico punto, in cui l’obbligo opera sulla volontà che sceglie quale corso di
azione compiere. Nel momento della deliberazione e della scelta la morale fa
sentire la sua forza, costringendo la volontà con il suo motivo puro che è solo
quello della ragione e che esclude qualsiasi altra considerazione. La morale è in-
teramente raccolta nel momento della scelta in cui l’agente determina un corso
di azione. Iris Murdoch, con cui Anscombe intrattenne rapporti molto fitti e
filosofa (oltre che scrittrice) che ebbe un influsso importante su Williams, ha
descritto molto efficacemente questa scena:
«Siamo stati spinti ad adottare un metodo di descrivere la moralità in base
al quale tutti gli agenti morali abitano uno stesso mondo di fatti, e dove non
siamo in grado di distinguere i diversi tipi di moralità se non attraverso dif-
ferenze di atti e di scelte. Mentre a mio parere possono esistere anche radicali
differenze di visione morale e di prospettiva»4.

La concezione novecentesca della teoria normativa offre il quadro filosofi-


co dove questo concetto di morale può operare. Le teorie morali, come l’utilita-
rismo e le varie forme di kantismo, si occupano di delineare lo spazio delle ragio-
ni che tengono in piedi l’edificio normativo al riparo dalle vischiosità della vita
comune, dai sentimenti, dai modi specifici in cui nel linguaggio, nei gesti e negli
atteggiamenti sono segnalate differenze, accordi, distanze, silenzi, momenti di
rottura: quelle che Murdoch chiama differenze di visione e di prospettiva. La
teoria morale offre la struttura delle ragioni che si applicano alla situazione e che
offrono la direzione normativa su come agire: esse circoscrivono una situazione
e dall’esterno offrono i criteri normativi della condotta, lasciando in ombra il
contesto più ampio dove quella particolare situazione è diventata problematica
per noi. Il senso della rilevanza e dell’importanza delle circostanze che troviamo
problematiche, e che sollevano scrupoli morali, viene sottratto dalla descrizione
della realtà e ricondotto esclusivamente alle ragioni; parallelamente l’intreccio
brulicante della vita dove qualcosa è importante per noi è annullato nella mera
descrizione fattuale di una situazione che è stata impoverita (o semplificata) al
punto da rendere possibile alla teoria delle ragioni di potervisi applicare.

4
I. Murdoch, Etica e metafisica, in Ead., Esistenzialisti e mistici. Scritti di filosofia e letteratura, ed.
it. a cura di P. Conradi, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 88-102, qui p. 98.

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Wittgenstein ha ispirato con la sua filosofia una critica a questa concezione


della morale e della riflessione filosofica. La direzione in cui è andata la critica è
stata quella di ripensare la morale dal punto di vista degli sfondi più ampi, delle
forme di vita, in cui la morale si colloca o di cui è, come dovremmo dire meglio,
un prodotto, una particolare opera5. La morale è un’opera delle forme di vita nel
senso duplice che essa è un modo in cui diamo forma alla nostra vita individuale
e nel senso che è un modo in cui gli esseri umani danno una forma riconoscibile
(che sono molte forme) alla vita nelle società. La morale è un modo di descrivere
le forme della convivenza degli esseri umani ed è anche un modo di descrivere
come gli esseri umani danno personalmente forma alla propria vita. Questo ca-
rattere duplice ci aiuta a mettere in campo un primo contrasto importante che
consente di tornare alla filosofia antica ma anche, come voglio subito suggerire,
alla filosofia medioevale.

2.

Anscombe smonta la centralità del concetto kantiano di dovere tornando


ad Aristotele che legge come un autore che non concentra la morale in qualche
dispositivo normativo separato e lontano dalla vita. Nello specifico, ella critica la
vuotezza del concetto di dovere e quindi l’intera costruzione kantiana che imma-
gina che il soggetto trascendentale possa fare tutto da solo. Nel suo celebre saggio
La filosofia morale moderna, scrive che il concetto di dovere è un’espressione che
sopravvive alla scomparsa di un intero sfondo teologico che collegava il dovere
alla legge di Dio. Caduto quello sfondo già con la Riforma, è rimasta la nozione
di dovere (l’espressione linguistica), la quale sembra esercitare una forza concet-
tualmente articolata, sembra avere un potere di costrizione normativa, mentre si
tratta solo di una suggestione psicologica che deriva dall’associazione tra dovere
e azione che è valsa per molti secoli. Caduto lo sfondo cristiano dove era effetti-
vamente operante la legge di Dio, nel senso che l’intera vita della società era pla-
smata da questa idea, la nozione di dovere è tipicamente pronunciata con enfasi e
si accompagna a sentimenti particolari ma non si collega a un quadro concettuale
realmente esistente. È come se il concetto di crimine fosse sopravvissuto dopo la
scomparsa del sistema penale, dei tribunali, dei magistrati, delle pene e così via.
Conserverebbe una forza enfatica negativa ma non indicherebbe alcun giudizio
preciso e concettualmente articolato, e avrebbe solo il potere di evocare atteggia-

5
Per l’uso specifico della nozione di sfondo (e per la discussione di Anscombe) rimando a P.
Donatelli, La vita umana in prima persona, Laterza, Roma - Bari 2012.

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menti di rigetto di qualche azione o persona. Dobbiamo pensare alla nozione di


dovere in modo analogo, sostiene Anscombe: essa ha conservato un’atmosfera
morale che non corrisponde però ad alcun pensiero intellegibile.
Accanto alla critica del concetto di dovere, Anscombe lavora sul concet-
to di bene e introduce assieme a Peter Geach6 la nozione attributiva di buono
anziché quella predicativa che G.E. Moore aveva messo al centro nei Principia
Ethica. Buono è attributivo e non predicativo secondo Geach. Sono predicati-
vi gli aggettivi che possiamo separare dall’oggetto a cui sono riferiti e rendere
dei predicati: quando diciamo che questo libro è rosso possiamo anche dire che
c’è qualcosa che è un libro e che quella cosa è rossa. Il “libro rosso” può essere
spezzato in due predicazioni. Non vale lo stesso per buono. Quando diciamo
che questa è una buona automobile, non possiamo spezzare “buona automo-
bile” dicendo che c’è qualcosa che è un’automobile e che è buono, perché non
abbiamo alcuna informazione sulla bontà che sia indipendente dal fatto che è
attribuita all’automobile. Non c’è un oggetto che è buono e che è un’automo-
bile. Il significato di buono dipende dal fatto che è attribuito a un’automobile
e avrebbe un significato completamente diverso se fosse riferito a una scarpa
(“una buona scarpa”).
Moore aveva presentato la proprietà della bontà intendendola in senso pre-
dicativo e aveva sostenuto che essa è non naturale e sui generis rispetto a come
stanno le cose nel mondo, mentre se “buono” è inteso in senso attributivo, pos-
siamo trattare la bontà in modo descrittivo: essa riguarda la descrizione delle
cose. Una conoscenza di cosa significa guidare un’automobile comporta anche
una conoscenza di cosa sia una buona automobile. Inoltre, così come un’auto-
mobile è buona in relazione alle varie prestazioni in vista delle quali è stata pro-
gettata e costruita possiamo arrivare a considerare i diversi manufatti e spingerci
poi agli organismi viventi in questa luce. Questa sembra essere precisamente la
prospettiva finalistica che troviamo in Aristotele e in base alla quale possiamo
dire che gli esseri umani sono buoni in relazione all’esercizio eccellente delle
funzioni che li caratterizzano. La morale (non faccio qui distinzioni terminolo-
giche con il termine “etica”) emerge quindi nei modi in cui le funzioni caratteri-
stiche dell’umano sono esercitate in maniera eccellente.
In questo senso, Anscombe sostiene che dobbiamo abbandonare il concet-
to di dovere e di obbligo e tornare al concetto di virtù il quale indica l’esercizio
eccellente delle funzioni che caratterizzano gli organismi umani come tali. La

6
Cfr. P. Geach, Good and Evil, in «Analysis» xvii (1956), pp. 32-42. Bernard Williams ha
ripreso questa impostazione nel suo La moralità. Una introduzione all’etica, tr. it. di M. Reichlin,
Einaudi, Torino 2000.

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forma di vita umana è esibita nelle funzioni dell’anima. Tali funzioni trovano
espressione in modalità che sono frutto dell’educazione, della socialità e della
cultura. Potremmo dire che la forma umana si vede all’opera nella condizione
educata dell’umanità, una tesi che Aristotele sostiene nell’Etica Nicomachea e
che Anscombe sottoscrive. Tuttavia, va precisato che per Anscombe in quella
condizione riconosciamo la forma dell’umano che è la forma che ci caratterizza,
eterna e immutabile, come sostiene Tommaso. Anscombe (e dopo di lei Philip-
pa Foot, nell’ultima fase del suo lavoro rappresentata dal volume La natura del
bene7) parte da Aristotele ma nei fatti ripresenta Tommaso, che propongo di
leggere come un autore che non ha veramente uno spazio per la dimensione au-
tonoma della cultura morale, per la prospettiva genuina dei virtuosi, che ricon-
duce da una parte al quadro finalistico inscritto nella natura che la ragione può
svelare e dall’altra al comando che promana dalla legge di Dio8. La virtù si vede
all’opera in circostanze dove l’educazione ha raggiunto i suoi scopi, ma esibisce
eccellenze e quindi una forma che è immutabile e che fonda il piano della cul-
tura morale. Per Tommaso c’è un modo di leggere la forma umana alternativo
a quello offerto dalla prospettiva dei virtuosi ed è quello del finalismo, che egli
spiega a sua volta dal punto di vista di Dio creatore: è il Tommaso naturalista
metafisico che offre l’impostazione che troviamo in Anscombe e Foot.
Possiamo invece provare a sostenere che per Aristotele la prospettiva dei
virtuosi è cruciale e non aggirabile, e che il finalismo non consente di arrivare a
comprendere la forma umana della vita da solo, in quanto tale: non è possibile
derivare l’etica dalla metafisica, per usare un’espressione tradizionale. Questa è
la posizione sostenuta da John McDowell nei termini sia dell’interpretazione di
Aristotele sia dell’elaborazione della sua posizione personale in cui riprende le
linee di fondo della filosofia di Wittgenstein.
L’appello al finalismo, nelle sue parole, è truistico. Non offre veramente un
argomento indipendente e autosufficiente; aiuta invece a tornare alla prospetti-
va dei virtuosi, alle loro argomentazioni che sono espresse sin dall’inizio in ter-
mini valutativi. L’appello al finalismo, e quindi ai fini e all’eccellenza umana in
quanto tale, è vuoto: i significati di “fine” e di “eccellenza” sono fissati dai criteri
valutativi che sono offerti dai virtuosi attraverso un appello interno alle forme
educate della vita individuale e sociale. Come scrive, riferendosi ad Aristotele,

7
Cfr. P. Foot, La natura del bene, tr. it. di E. Lalumera, il Mulino, Bologna 2007. Si noti però che
il titolo originale è Natural goodness (Bontà naturale).
8
Ho proposto una mia lettura di questo tipo di contrasti nella storia dell’etica nel mio Etica. I
classici, le teorie, le linee evolutive, Einaudi, Torino 2015.

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«non siamo autorizzati a prendere i discorsi sull’ergon di un essere umano


come se alludessero a una teleologia generale. La nozione dell’ergon di un X è
solo la nozione della condotta che si addice a un X. [...] Se gli fosse chiesto di
dirci che cosa si addice all’essere umano, non c’è ragione per supporre che non
offrirebbe nient’altro che il tipo di risposte che dà su questioni simili in altri
luoghi, deludendo sempre quelli che pensano che prometta di validare la sua
concezione etica a partire dai principi primi: direbbe che le cose stanno così
come le vede una persona virtuosa o chi è in possesso della ragione pratica.
Ciò che Aristotele realizza invocando l’ergon di un essere umano è solo
questo: gli consente di formulare la sua tesi secondo cui il bene per l’uomo
è l’attività in accordo con la virtù umana intesa come caso specifico di una
connessione generale tra il buono e la virtù, o l’eccellenza. Egli sfrutta il nesso
concettuale tra il fatto che un X agisca in un modo che gli si addice e il fatto
di possedere l’eccellenza che è propria degli X. Il nesso concettuale è truisti-
co, e lascia completamente aperta la questione di quale sfondo valutativo o
normativo fissi la base delle applicazioni delle nozioni di ergon ed eccellenza
in una qualsiasi esemplificazione particolare di tale connessione generale»9.

Per comprendere cosa sia giusto fare e come ci si debba comportare bi-
sogna comprendere come le persone sono educate alla vita morale e impara-
no ad andare avanti da sole, autonomamente. I criteri normativi non sono dati
indipendentemente dalla comprensione dell’educazione e della vita morale10.
Abbiamo qui due modi di collegare l’etica alle forme di vita. Nel primo caso si
tratta di collegare l’etica a quella che si considera la forma di vita propria dell’u-
manità: la forma dell’etica è quella della vita secondo l’argomento finalistico.
Nel secondo, la forma è intesa invece come formazione, come Bildung, che è poi
l’immagine preferita da McDowell11. Le due prospettive costituiscono anche
due modi di pensare all’etica della virtù.
Tommaso e Aristotele, a cui tornano Anscombe e McDowell, offrono per-
ciò due versioni indipendenti dell’etica della virtù. Al centro vi sono vite intere,
nel primo caso ricondotte alla forma della vita e nel secondo alla formazione,
vale a dire all’educazione della vita. Entrambi gli autori contemporanei pensano
all’etica come ad una forma intellettuale e pratica (descrive azioni e situazioni,
dà forma al ragionamento pratico, governa la condotta) che viene data alla vita
in modo affidabile e sicuro al riparo dagli scossoni che recano le circostanze. An-

9
J. McDowell, Eudaimonism and Realism in Aristotle’s Ethics, in Id., The Engaged Intellect.
Philosophical Essays, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2009, pp. 29-30.
10
Per una posizione vicina a questa in relazione ad Aristotele cfr. E. Berti, Le ragioni di Aristotele,
Laterza, Roma - Bari 1989, cap. iv.
11
Cfr. J. McDowell, Mente e mondo, tr. it. di C. Nizzo, Einaudi, Torino 1999.

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Piergiorgio Donatelli

scombe pensa che l’etica rispecchi la forma umana della vita; McDowell ritiene
invece che risponda ai criteri offerti dall’interno della comunità la quale è frutto
di educazione e vita sociale.

3.

Entrambi gli approcci si rappresentano il dare forma alla vita secondo


l’immagine degli artigiani che con competenza fanno dei vasi o degli edifici,
che è l’immagine delle arti così importante per Platone e Aristotele per pensare
alla virtù. Naturalmente Platone si premura di distinguere tra le tecniche degli
artigiani rivolte agli oggetti e ai manufatti e quelle rivolte al corpo e all’anima,
come Socrate spiega chiaramente nel Gorgia. Tuttavia, l’immagine dell’anima
buona è quella dell’ordine e dell’armonia in analogia a una casa ordinata e ar-
monica. Potremmo però volere criticare questa immagine. La vita umana non
è come un vaso o un edificio, non solo perché ci sono funzioni animali e razio-
nali chiamate in causa, ma perché la vita umana non è mai un prodotto finito,
per così dire. È l’attività stessa del dare forma che può essere messa al centro,
assieme alle sue peripezie.
Questa idea secondo cui l’etica consiste nell’attività del dare forma, più
che nel suo risultato, sposta l’attenzione da una prospettiva fondata sulle vir-
tù, che indicano condizioni conseguite eccellenti (per quanto richiedano una
manutenzione continua) a un’altra che enfatizza l’esercizio e la trasformazione.
Anche queste sono idee legate alla filosofia di Wittgenstein. La vita, intesa come
un oggetto a cui dare forma attraverso un lavoro su di sé, e la filosofia, con-
cepita come l’attività del dare forma trasformando e perfezionando la propria
vita, appartengono alla prospettiva di Wittgenstein e consentono al contempo
di tornare all’etica antica. Si apre qui un altro arco di posizioni e una regione
del pensiero filosofico che per quanto conversi con la prospettiva delle virtù
è indipendente da questa e ne è per molti versi lontana. Gli autori cruciali che
incontriamo sono Michel Foucault e Pierre Hadot ai quali possiamo accostare
Stanley Cavell. Arnold Davidson è stato il primo a collegare la conversazione
che coinvolse Hadot e Foucault con la prospettiva di Cavell, la cui impostazio-
ne proviene da un’originale meditazione della filosofia di Wittgenstein. Come
scrive Davidson,

«[s]e gran parte della filosofia morale moderna trova che l’idea dell’etica
come esercizio spirituale sia strana, a dir poco, sbaglieremmo a concludere
che queste problematizzazioni etiche scompaiono dalla storia della filosofia

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Wittgenstein, l’etica e la filosofia antica

dopo gli antichi. La tematica che Stanley Cavell identifica con il nome di per-
fezionismo morale costituisce una continuazione di questa storia dell’etica.
Quando Cavell rappresenta la fiducia in se stessi di Emerson come “il modo
in cui il sé si relaziona a se stesso” o quando descrive le Ricerche filosofiche di
Wittgenstein come un’opera che esibisce “nel modo più puro di qualsiasi al-
tra che conosca il filosofare come un combattimento spirituale”, lavora nella
direzione di una concettualizzazione dell’etica che condivide con Foucault e
Hadot l’idea che ciò che è in gioco non è solo un codice di buona condotta
ma un modo di essere che tocca ogni aspetto della propria anima»12.

In questa prospettiva il dare forma è visto come un’attività continua, come


un esercizio che si applica su di un materiale che è la vita stessa, che tende ad as-
sopirsi, a dimenticarsi di se stessa e delle sue potenzialità. È un esercizio che non
va pensato come la manutenzione di una condizione raggiunta, di capacità pos-
sedute in modo pieno, bensì come un rivolgimento, un riaffiorare alla superfice
dagli abissi profondi tornando a respirare. Platone è l’autore che offre questo
tipo di immagini e che presenta modelli dell’etica coerenti con questa prospetti-
va, lavorando in modi diversi sulla filosofia come riorientamento della vita, che
esplora attraverso il racconto della caverna nella Repubblica, sul tema dell’eros
nel Simposio e nel Fedro e da ultimo quando riflette sul perfezionamento che è
possibile verificare solo dal punto di vista del tragitto verso la vita ultraterrena,
nel Gorgia e nella Repubblica. Sono modelli diversi e importanti dell’etica, uniti
dall’idea della trasformazione e che vanno separati dall’altro modello fonda-
mentale che emerge nelle opere di Platone, a cui abbiamo accennato, che è quel-
lo che lavora invece sul paragone con le arti, tramite il quale arriva a focalizzare
l’etica sulle funzioni essenziali dell’anima, come farà poi anche Aristotele.
A partire da Platone, però, possiamo elaborare due concezioni che vanno
tenute distinte: l’arte della vita di Foucault e Hadot e il perfezionismo morale
di Cavell13. Il lavoro di Davidson, sulla scia di questi tre filosofi novecenteschi,
è stato fondamentale proprio allo scopo di precisare l’individuazione di una re-
gione coerente dell’etica filosofica, che non è possibile rappresentare se teniamo
presente da una parte la linea centrale della modernità, che è quella dei doveri e
delle conseguenze, e dall’altra quella fondata sulla virtù, che dal punto di vista
moderno è stata considerata come la linea centrale nell’antichità. Doveri, conse-

12
A.I. Davidson, Ethics as Ascetics: Foucault, the History of Ethics, and Ancient Thought, in G.
Gutting (ed.), The Cambridge Companion to Foucault, Cambridge University Press, Cambridge 1994,
p. 131.
13
Cfr. P. Donatelli, Il lato ordinario della vita, cit., cap. iii.

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Piergiorgio Donatelli

guenze e virtù indicano i tre concetti chiave che arrivati alla riflessione più prossi-
ma a noi sono messi al centro dalle tre opzioni proposte dall’etica filosofica intesa
come impresa normativa: il kantismo, l’utilitarismo e l’etica della virtù. Il model-
lo della teoria normativa, che era originariamente l’obiettivo critico di coloro che
tornavano all’idea della virtù (da Anscombe a Williams), è arrivato a includere la
prospettiva delle virtù come un’ulteriore opzione della teoria normativa.
In questo quadro, l’etica come modo di vivere e come esercizio su di sé non
costituisce una quarta opzione ma si ricava uno spazio indipendente e differente
che contesta sin da principio la rappresentazione che la teoria normativa si fa
dell’etica. Essa indica quindi una diversa problematizzazione dell’etica, collega
assieme e circoscrive altri aspetti della vita. Una volta acquisita questa diversa
tematizzazione dell’etica possiamo esaminare però diverse concezioni concor-
renti che si situano nella medesima rappresentazione dell’etica come modo di
vivere e di essere e come lavoro trasformativo su di sé.
Come abbiamo visto, l’idea che le accomuna è quella della trasformazio-
ne o, più precisamente, dell’esercizio trasformativo del proprio sé. L’etica della
virtù aristotelica di McDowell non è interessata alla trasformazione dell’io ma
alla sua affidabilità. Nella prospettiva che McDowell difende, la virtù forma il
carattere in maniera affidabile così che esso possa rispondere alle circostanze in
modo appropriato. Invece, nella linea platonica che emerge nel racconto della
caverna ma anche nel ruolo dell’amore, l’io scopre di dover cambiare postu-
ra e orientamento, scopre che era assopito e che deve risvegliarsi alla realtà, si
ritrova confuso e cerca chiarezza, ha bisogno di trovare un senso di direzione
nella vita. L’io si guarda dal punto di vista di uno stadio ulteriore e migliore e
da quel punto di vista scopre la propria inadeguatezza e ha interesse e desiderio
di migliorarsi, di perfezionarsi. In questa diversa prospettiva non c’è mai un ca-
rattere ben formato per il quale si possa dire che l’educazione è riuscita, ma c’è
invece l’esigenza di un lavoro continuo, del pungolo costante, come dice Socrate
nell’Apologia. Da questa idea di vita morale attraversata da un’interrogazione
critica continua partono varie linee filosofiche e ne possiamo sottolineare due,
come abbiamo detto. Una è l’idea della cura di sé e dell’arte della vita che trovia-
mo elaborata in Foucault e Hadot, in modi peraltro piuttosto diversi14. Un’altra

14
Non ci soffermeremo su queste differenze anche se va fatto notare che esse complicano in
modo interessante la geografia di questo tipo di concezioni e rendono conto di un’articolazione ricca
di questo modello dell’etica, che non rappresenta perciò una visione così omogenea come potrebbe
apparire a prima vista dal confronto con il modello della teoria normativa. Sul confronto tra Foucault
e Hadot, cfr. G. La Rocca, Soggettività e veridizione nell’ultimo Foucault, Sapienza Università Editrice,
Roma 2018, in particolare cap. 3.

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Wittgenstein, l’etica e la filosofia antica

è quella tematizzata da Cavell ma che possiamo ritrovare anche in Iris Murdoch.


Sono linee che lavorano attorno all’esigenza di ritrovarsi rispetto all’esperienza
di una perdita, di ritessere il filo dell’io dopo una lacerazione.
Per semplificare molto, la linea dell’arte della vita, che troviamo sviluppata
in modo classico nello stoicismo romano, si occupa di fornire delle istruzioni che
consentono di avvicinarsi alla perdita, alla rovina e all’abisso senza mai sperimen-
tarli davvero, sperimentando forse i piaceri della rovina che ci rappresentiamo
nella mente ma non la rovina stessa che non arriva a toccarci e della quale pro-
viamo solo i brividi (come in Seneca). Al livello più di fondo e strutturale, l’arte
della vita offre una dottrina per non perdersi e nell’offrire una dottrina la colloca
al di fuori delle avventure del sé. Invece, nella linea wittgensteiniana esplorata
da Cavell l’io si perde, perde davvero l’orientamento nel rapporto con sé, con
le proprie parole, con gli altri, con la comunità – che è il tema dello scetticismo
in Cavell e Wittgenstein15. Il sé si riscopre all’interno del tragitto di perdita e
ritrovamento, che incontra come esperienze reali, senza l’aiuto di una dottrina
che rimanga salda e intatta. La critica alla dottrina, alla teoria, è un tema cruciale
in Wittgenstein, dal Tractatus alle Ricerche filosofiche. La filosofia intesa come
strumento etico accompagna la vita, nella forma di un testo, della conversazione
con un amico: in un tipo di rapporto con le parole che condivide con le opere
immaginative. La filosofia ascolta e risponde ma non parla per prima, come nelle
Ricerche filosofiche di Wittgenstein, che cominciano con un breve testo di Agosti-
no e proseguono commentando parole che vengono spontanee agli interlocutori
che si alternano nel libro, le parole della vita comune, della strada, rispetto alle
quali la filosofia costituisce una torsione, una flessione, che stabilisce la scena di
un nuovo incontro con esse, il ritrovamento delle parole comuni che avevamo
allontanato e reso irriconoscibili. Come scrive Wittgenstein: «Noi riportiamo
le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano»16.
Questa è anche la lezione di Ralph Waldo Emerson, per come l’ha svol-
ta Cavell, che valorizza ciò che è comune e familiare, «la letteratura dei po-
veri, i sentimenti del bambino, la filosofia della strada, il significato della vita
domestica»17. È il lato ordinario della vita che abbiamo rifiutato, abbagliati da
ciò che è alto e sublime, e a cui possiamo fare ritorno, riappropriandoci in modo

15
Cfr. S. Cavell, The Claim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality and Tragedy, Oxford
University Press, Oxford 1979; tr. it. (parziale) di B. Agnese, La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo
scetticismo, il tragico, Carocci, Roma 2001.
16
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, i,
116, p. 59.
17
R.W. Emerson, The American Scholar, in Id., The Major Prose, eds. R.A. Bosco - J. Myerson,
Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2015, p. 105.

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Piergiorgio Donatelli

nuovo e trasfigurato della nostra esperienza comune, diradati i fumi della sua
ovvietà, liberata dall’opprimente senso comune. La filosofia non offre una guida
sicura al riparo dai rovesci della vita e del pensiero. Il suo compito è invece quel-
lo di entrare in conversazione con l’insoddisfazione cupa del sé offrendo parole
ed esempi in cui esso possa riconoscere, come scrive Emerson, i propri «stessi
pensieri rigettati» che ritornano «con una certa maestà alienata»18. La conver-
sazione filosofica ha la capacità di selezionare le parole e gli esempi in cui pos-
siamo riconoscere le parti del nostro sé che avevamo rifiutato e nascosto e che
ci ritornano sotto l’aspetto di strade non intraprese, possibilità della vita non
esplorate – dimensioni dell’esistenza che ci sono estranee ma che sono anche le
nostre e che hanno perciò il potere strano (la stranezza di ciò che al contempo
ci è estraneo e ci appartiene intimamente) di attrarci, di smuoverci e di dissipare
l’atmosfera di silenziosa melanconia, offrendo un motivo per cambiare il nostro
modo di vedere, per cambiare la vita. La vita comune a cui ritorniamo è di nuo-
vo un luogo di interesse e di motivazione. Lo scetticismo che aveva investito la
vita, il mondo e gli altri trova risposta non in una confutazione filosofica ma nel
riguadagnare agio nella vita comune, come risultato però del lavoro filosofico.
Sono in campo quindi due concezioni della filosofia, quando ci immaginiamo
che lo scetticismo che ci separa dal mondo e dalla nostra stessa esperienza possa
essere superato attraverso la confutazione di una teoria e quando ci immaginia-
mo che esso possa essere addomesticato (mai vinto del tutto) cambiando la vita.
In questa linea wittgensteiniana che punta sul ritorno alla vita comune, in-
teso come svolta e rivoluzione – e che ritroviamo in autori diversi ed eterogenei
che si dispongono tra Ottocento e Novecento – affiora forse, accanto ad altri
motivi, e con tutte le distanze e le differenze, lo scetticismo pirroniano di Sesto
che poneva nell’antichità il tema del rifiuto di avvalersi di dottrine – il rifiuto
dell’arte della vita – per operare un ritorno, realizzato per via filosofica, alla vita
ordinaria19.
Dall’idea di filosofia come trasformazione – da intendersi come vita (filo-
sofica ed etica) segnata dal movimento della trasformazione anziché da quello
della iniziazione a forme stabili del carattere e delle relazioni in una comunità

18
Id., Self-Reliance, in Id., The Major Prose, cit., p. 127.
19
Cfr. E. Spinelli, La distruzione dei valori: il pirronismo antico e l’etica come problema, in S. Ba-
cin (ed.), Etiche antiche, etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna 2010, pp. 21-45. Nella
modernità è Hume a riprendere esplicitamente il collegamento tra scetticismo e vita comune nel Trat-
tato sulla natura umana. Cfr. altresì alcune mie considerazioni in P. Donatelli, Etica, cit., pp. 310-314.
Tuttavia, una volta impostata la questione dello scetticismo in questo modo, vale a dire in relazione alla
concezione della filosofia come vita filosofica, l’intera tradizione scettica diventa un campo di studio da
riesaminare.

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Wittgenstein, l’etica e la filosofia antica

– possono seguire perciò due linee teoriche distinte. La tradizione dell’arte della
vita insiste sull’esercizio e sulla cura di sé mettendo in luce un campo di mobili-
tazione dell’io che non è preso in esame dalla tradizione delle virtù. Essa tutta-
via condivide con le etiche della virtù l’aspirazione a fornire una guida della vita
che è più solida delle sorti a cui va incontro l’esperienza, una dottrina su come
è giusto comportarsi che non condivide fino in fondo le avventure del sé. Una
diversa tradizione, che nell’antichità sembra assente e la cui presenza può essere
avvertita forse nella linea pirroniana dello scetticismo, è quella che rifiuta il con-
forto della dottrina, dell’arte della vita. Essa svela altre dimensioni dell’io dove
la perdita e il disorientamento sono al contempo rischi reali e reali occasioni
per ritrovare la direzione, che hanno l’aspetto però di addomesticamenti della
crisi che ha interrotto un ritmo vitale, compensazioni di perdite, miglioramenti
di una situazione che sarà meno dolorosa, mai pienamente felice, lontano da-
gli abbagli della vita perfettamente buona, eccellente, magnifica. Se insistiamo
sul contrasto tra perfezione e vulnerabilità, le due linee, che ho chiamato per
semplificare arte della vita e perfezionismo morale, appaiono nella loro grande
diversità e inconciliabilità, anche se promanano dalla stessa radice comune che
contesta l’immagine dell’etica come educazione dell’umanità a una seconda na-
tura, salda e motivante come la prima.
In conclusione, possiamo apprezzare il quadro ricco che si dipana all’inter-
no della tradizione alternativa dell’etica analitica che promana da Wittgenstein
e che consente di tornare all’antichità distinguendo queste diverse quattro linee.
È un fatto degno di nota che possano essere tutte rappresentate come versioni
di un’etica che trae ispirazione da questo classico della filosofia del Novecento
che è Wittgenstein.
Piergiorgio Donatelli
Sapienza, Università di Roma - piergiorgio.donatelli@uniroma1.it

Abstract

The article proposes a reading of various perspectives in contemporary ethics, all


connected to Wittgenstein’s philosophy, offered as ways of continuing certain lines of
thought broached by the ancients. Wittgenstein inspired a criticism of a theoretical
conception of ethics embraced by diverse authors. The authors selected here for
analysis are Cavell and Foucault: the former directly offering his notion of moral
perfectionism as an interpretation of Wittgenstein’s philosophy, whereas Foucault’s
perspective on the self as an object of work and care may be usefully connected to

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Piergiorgio Donatelli

Cavell’s approach. While Foucault’s inspiration goes back to the tradition of the
art of life, Cavell is mistakenly considered as a theorist of the art of life, given his
emphasis on the skeptical adventures faced by the self in its prospect of progress.

Keywords: Wittgenstein, Theory, Stanley Cavell, Moral Perfectionism

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