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Emile Durkheim (1858-1917)

Nello scenario francese, una figura importante è quella di Emile Durkheim. Durkheim per
sintonizzarci col suo pensiero ci chiede di uscire da noi stessi. A partire da Durkheim parliamo di
antropologia sistematica. Avviene in quel periodo anche il matrimonio che sembra riuscito tra
antropologia e linguistica. Ciò sfocia nell’opera di Levi Strauss. Egli si laureò in filosofia, fu la
guida di quella che venne chiamata poi la scuola sociologica, destinata ad influenzare la riflessione
francese in campo sociologico e etno-antropologico. Egli divenne sociologo ed etnologo. La prima
opera di Durkheim è “La decisione del lavoro sociale” del 1893, che rappresentava la sua tesi di
dottorato. Egli definì il concetto di “coscienza collettiva”, definita come l’insieme delle credenze e
dei sentimenti comuni alla media dei membri di una società. Questo concetto rinviava ad un livello
sovraindividuale indipendente dalle coscienze singole ed era applicabile a tutte le società piccolo o
grandi che siano. Invero, per l’autore tutte le società possedevano una coscienza collettiva e perciò
erano comparabili. Durkheim crede molto nel metodo comparativo, la stessa sociologia era un
sapere comparativo che doveva procedere in considerazione più società possibili per raggiungere la
conoscenza delle leggi della vita sociale. In questa prospettiva comparativa che la sociologia di
Durkheim si apre all’etnologia e si evince già in questa prima opera. Egli introduce un altro
concetto, quello di solidarietà. Mette in relazione l’intensità con cui la coscienza collettiva si
manifestava nelle diverse società con il tipo di solidarietà vigente fra i membri di esse. Il concetto fa
riferimento all’armonia tra le parti, in questo caso della società che devono essere solidali tra loro e
costituire così una relazione di armonia solidale.
Durkheim distingue la solidarietà meccanica e la solidarietà organica. La solidarietà meccanica è
tipica delle società definite semplici in cui la vita sociale occupa ogni spazio della vita del singolo,
determinando le scelte e i sentimenti. Il singolo interiorizza il volere collettivo come volere interiore
dominante, infatti, la coscienza collettiva riflette l’esistenza di una solidarietà di tipo meccanico,
cioè diretta che lega tra loro i singoli individui. Vige un principio di dipendenza diretta tra i
membri: diventerà contadino anche suo figlio. L’individuo fa sue le attese dominanti nel gruppo. La
solidarietà organica è tipica delle società che Durkheim definisce complesse, quelle industriali in
cui prevale la tendenza del singolo individuo a differenziarsi rispetto al gruppo. Gli individui si
riconoscono nella comunità grazie ad atti internazionali rispondenti a un’adesione volontaristica, la
coscienza collettiva occupa spazi più ristretti e perciò è una solidarietà non diretta, organica. Le
parti minime sono in relazione, ma non direttamente, C’è dipendenza, ma non diretta.
Durkheim utilizza quindi una prospettiva collettiva in cui non è importante il significato che ogni
individuo attribuisce a un evento, ma è importante la collettività e l’ordine che si stabilisce nella
società che per il singolo è inconsapevole. Durkheim è considerato uno strutturalista (prospettiva
antistorica) perché definisce il concetto di struttura nell’ambito dell’organizzazione sociale. Infatti,
nella prima opera, definisce le varie strutture della società (organica/ meccanica). Ma egli è
considerato anche un funzionalista perché vede la società come un insieme di parti interconnesse tra
loro, e le relazioni che intercorrono fra le parti sono di tipo funzionale (ogni elemento svolge un
compito e solo con l’unione dei compiti si raggiunge l’equilibrio). Sempre nella stessa opera infatti,
egli afferma che ogni fatto individuale è connesso ad un fatto comunitario.
Un altro libro scritto da Durkheim è “Il suicidio. Studio di sociologia” del 1897 in cui tratta del
suicidio, caso in cui il singolo rinuncia al bene della vita (il suicidio sembrava mettere in
discussione la sua teoria della coscienza collettiva). L’autore si interroga e dice che se il suicidio
fosse qualcosa di incomprensibile, irrazionale, non dovrebbero esserci regolarità. Ma perché i single
e i protestanti sono più inclini al suicidio? Inoltre, i casi di suicidio aumentano anche nei casi di
trasformazione della società. Durkheim giunge a sostenere che anche questa scelta individuale può
essere studiata come fenomeno eminentemente collettivo, poiché ci sono queste regolarità.
Distingue tre tipi di suicidio:
- Egoistico: tipico delle società complesse, in cui l’individuo singolo ha delle ambizioni a cui
non c’è limite. Più c’è libertà di desiderare e più c’è anche la possibilità di insuccesso. Più
illusioni creano più delusioni. L’individuo deluso, dal suo punto di vista egocentrato, è più
incline a divenire deluso dalle sue stesse aspettative. Nelle società semplici, questo suicidio
quasi non esiste poiché il figlio del contadino fa il contadino e vive in quello stesso luogo,
dunque non ci sono elevate ambizioni.
- Anomico: suicidio senza regole. E’ connesso a momenti di rapide trasformazioni di carattere
economico, sociale. Il soggetto ha un’attrezzatura morale ideale che non è adatta a quel
nuovo mondo che ne richiede immediatamente un’altra. Queste trasformazioni pongono il
singolo in uno stato di anomia, disorientamento.
- Altruistico: tipico delle società di piccole dimensioni, semplici. Il singolo si sacrifica per il
bene della collettività.
Il libro di Durkheim che più di tutti risentì delle suggestioni etnologiche è “Le forme elementari
della vita religiosa” del 1972. Egli tentò di elaborare una teoria generale della religione e della
società attraverso l’individuazione di quegli elementi che entrano a far parte di tutti i sistemi
religiosi e sociali, cioè le forme elementari della religione. Per la sua indagine prende in
considerazione i popoli più primitivi, infatti il sottotitolo del testo è “I sistemi totemici in
Australia”. Parte quindi dallo studio del semplice per arrivare al complesso, studia la religione nei
fatti minimi. Utilizza il termine “fatto religioso”, dando alla religione una dimensione fattuale e non
morale. Secondo l’autore, il fenomeno religioso costituiva un fatto sociologicamente universale:
alcune religioni possono essere dette superiori alle altre nel senso che mettono in gioco funzioni
mentali più elevate, ma se si considerano le religioni semplici, ci si accorge che esse rispondono alle
stesse necessità, assolvono la stessa funzione, dipendono dalle stesse cause. Quindi le religioni sono
comparabili tra loro in quanto, indipendentemente dal loro grado di complessità: alla base di tutti i
sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci un certo numero di rappresentazioni fondamentali e di
atteggiamenti rituali che rivestono lo stesso significato oggettivo e adempiono alle stesse funzioni
ovunque. Le forme elementari che compongono tutte le religioni sono i riti e le credenze. Si chiede
se esistono delle religioni storicamente date che non abbiano queste due caratteristiche e la risposta
è no.
Prendendo in considerazione le società più semplici, egli assunse che la religione nel suo stato
originario fosse rappresentata da queste società. Il totemismo degli aborigeni australiani era una
forma di religione in cui un gruppo si identificava con un animale, una pianta o un fenomeno
naturale, il quale rappresentava il simbolo del gruppo e l’antenato da cui il gruppo credeva di
discendere. Il totem era oggetto di culto per i membri del gruppo. Durkheim arriva a sostenere che
gli esseri umani opererebbero una specie di spostamento simbolico, facendo del totem un oggetto di
culto quando in realtà, è la società (in questo caso il clan) che essi inconsapevolmente rispettano e
adorano
RITI: impegnano il corpo e la parola: sono azioni, gesti che non hanno un fine immediatamente
pratico. Rituali di danza, canti in cui, ad esempio, nel caso delle religioni totemiche, imitano
l’animale dal quale credono di discendere. I gesti sono significativi per chi li compie perché si
accompagnano a CREDENZE, che si possono anche definire miti.
Ciò che viene venerato attraverso riti non è un certo animale o pianta, ma è la società stessa che
mantiene vivo il senso di dipendenza dal momento che essa ha una natura diversa dalla nostra
natura di individui e persegue scopi particolari. Durkheim, quindi, fa coincidere religione e società.
Le religioni introducono una frattura, temporalmente e spazialmente, tra ciò che è sacro e ciò che è
profano. C’è una soglia che ci dice che è un luogo sacro differente dagli altri luoghi all’interno dei
quali bisogna avere un certo comportamento, bisogna sottostare a certe interdizioni o tabù, che
delineano cosa non è possibile fare e adeguarsi agli elementi prescrittivi, cioè cosa si debba fare.
Ogni società fa a modo suo quest’opposizione. Ad esempio, nella società primitiva degli Agni
Bonà, società non monumentale, si fa in modo che sotto un certo albero non cresca vegetazione in
modo tale da renderlo differente dagli altri, costruendo una soglia tra cosa da non toccarsi perché
sono sacre. Il sacro, dice l’autore, è la preservazione delle relazioni collettive rispetto all’invadenza
del singolo. La società sacralizza se stessa nelle relazioni. Durkheim voleva sottolineare il dominio
esercitato dalla dimensione sociale, collettiva, sul comportamento e il pensiero individuale che è
intrinseco poiché il singolo è inconsapevole (tendenza metaforica del pensiero). Il dominio che la
società esercita sugli individui non è solo di natura coercitiva: al contrario, la società, con le sue
regole e le sue leggi, s’impone attraverso l’esercizio della morale, un potere al quale gli individui
obbediscono talvolta, andando contro i propri interessi, come nel caso del sacrificio per il bene
comune. Questo rispetto è la conseguenza di norme, regole sociali, il riconoscimento delle quali da
parte degli individui, produce un sentimento di appartenenza a una società. La religione appare
quindi come un sistema di credenze e riti attraverso cui gli individui sono partecipi collettivamente
di quest’entità provvista di una forza soprannaturale, che è il corpo sociale.
Durkheim si chiese se religione e magia fossero divisibili. Bisogna ammettere, dice, che, se si
considerano i riti e le credenze, cioè le forme elementari della vita religiosa, anch’esse sono tipiche
della magia. La magia non ha un luogo, non si organizza in relazioni sociali, è parassitaria. Nel
momento in cui il mago si organizza in società gerarchica smette di essere mago e diventa religione.
Grazie alla sua opera, i fenomeni quali la religione, le istituzioni giuridiche, le norme etiche non
poterono più essere considerati come il risultato di un progresso intellettuale che aveva origine nelle
impressioni soggettive.
Altro libro di Durkheim del 1895 è “Le regole del metodo sociologico”, in cui delinea il concetto di
“fatto sociale” (qualsiasi elemento sociale che influenza l’individuo), che Mauss riprenderà e
complessificherà., Durkheim considerava i fatti sociali, che per lui costituivano l’oggetto specifico
della sociologia, come azioni e rappresentazioni identificabili sulla base del potere che essi avevano
di esercitare una costruzione sugli individui; sono idee che vengono inculcate nel singolo individuo
della società e che sembrano esistere indipendentemente dal singolo soggetto. Un rito, una
credenza, un obbligo, la lingua sono tutti fatti sociali ed erano ciò che determinava dall’esterno il
comportamento dei membri della società. Essi erano ciò che, attraverso il meccanismo impersonale
dell’obbligazione e della norma, imponeva agli individui l’adesione alle regole della società. “Le
forme elementari della vita religiosa” ribadiva questa idea e la sviluppava in relazione ad un “fatto
sociale” come la religione, facendoci capire che i concetti sono sociali e che la religione è il modo
in cui la società li fornisce e impone il loro potere sugli individui.
Le strade dell’etnologia di Durkheim si intrecciano con quelle della linguistica di De Saussure. Essi
utilizzavano un metodo comune, infatti, anche De Saussure è considerato uno strutturalista. Per gli
strutturalisti, in un sistema, tutti gli elementi sono collegati e non è importante di cosa sia fatto un
elemento, ma i rapporti che ha con gli altri. Se si sposta un solo elemento, tutto il sistema cambia.
De Saussure insegnava fatti della linguistica che studia l’evoluzione di una lingua e delle sue
componenti (insegnava fatti della linguistica storica, che lui chiamerà diacronica). Ad esempio, gli
studiosi notano una parentela tra l’indiano, sanscrito, latino e greco. questa parentela non può essere
ridotta a derivazioni dirette (sanscrito non deriva da latino ecc,), per cui si ipotizza una protolingua
(indoeuropeo): si crea una discussione intorno all’europeo a cui partecipano linguisti, etnologi e
antropologi. Sia Durkheim che De Saussure cercano gli elementi in comune: Durkheim cerca gli
elementi comuni alle religioni, De Saussure gli elementi alla base di tutte le lingue. Invece, la
linguistica sincronica si interessa allo stato e alla struttura di una lingua in un determinato momento:
crea, per così dire, un’istantanea.
De Saussure introduce alcune definizioni e opposizioni fondamentali per la linguistica: la prima è
quella tra LANGUE e PAROLE. La langue rappresenta l’aspetto sociale del linguaggio, il sistema
che è comune a tutti, quindi le regole. Un insieme di significati e significanti condivisi che
permettono gli atti di parola (e che si sono formati grazie alla continua esposizione agli atti di
parole). La langue è la cosa più reale, ma astratta. La parole rappresenta l’aspetto individuale del
linguaggio, fa riferimento alla singola esecuzione. Quello della parole è il campo delle singole
fonazioni (nessuna è mai uguale all’altra) e dei singoli sensi (che variano sempre in qualche aspetto,
anche se minimo). La parole è l’atto irripetibile che il singolo compie nell’utilizzare la lingua. La
langue sarebbe la mens collettiva di Durkheim. DeSaussure, parafrasando Durkheim, dice che
langue si oppone a parole come collettivo e individuale. De Saussure distingue tra SIGNIFICANTE
e SIGNIFICATO. Il primo fa riferimento all’aspetto fisico delle parole, cioè le onde sonore. Il
significato è quello che è attribuito a un significante. Se, quando si parla, c’è una comprensione
reciproca, è perché si fa corrispondere a un significante un dato significato, cioè quello che si ha in
testa, la rappresentazione mentale di quella cosa. L’unità tra significante e significato De Saussure
la chiama “segno”. E’ la relazione presente tra le due entità, che è di natura arbitraria,
convenzionale, non necessaria; non sono relazioni assolute. La relazione è arbitraria perché è
stabilita dalla società e determinata dai contesti socio-culturali. Ad esempio, casa: il significante
varia in base alla lingua, cioè in francese è maison, inglese home/house, nonostante la
rappresentazione mentale sia pressoché identica, cioè il significato. Quindi, in questo senso, la
relazione è arbitraria. Così come accade per significato e significante, le credenze rappresentano il
significato che viene dato ai riti (gesti, azioni, tutto ciò che si può percepire a livello dei sensi, la
parte fisica, il significante). E’ importante effettuare una distinzione tra PARADIGMA e
SINTAGMA. Il paradigma è la classificazione generale in categorie degli elementi della lingua, ad
esempio, aggettivi, nomi, verbi ecc; il sintagma ha a che fare con l’elemento specifico, è costituito
da elementi che vengono messi insieme per dare senso alle frasi. Il parlante si esprime attraverso
sintagmi nel suo enunciato.
Un altro esponente fondamentale della linguistica del 900 è Roman Jakobson, la cui opera sarà
importante per Levi-Strauss. La linguistica si libera del dato empirico. Jakobson scompone la lingua
e ricerca l’unità minima, non ulteriormente scomponibile, cioè il fonema, nozione che introdurrà
questo autore. Dice Jacobson, che tutte le lingue hanno dei fonemi, dei suoni che vengono
selezionati come opportuni. Questi suoni sono l’unità minima della lingua di per sé, però, sono
sprovvisti di significato. Jakobson spiega come si passa dal suono al senso: in tutte le lingue,
vengono messi in contrapposizione due suoni, infatti un fonema serve a distinguere un significato
da un altro significato. Questo è il DATO REALE per Jakobson.
Marcel Mauss (1872-1950)
Marcel Mauss fu allievo di Durkheim, di cui era anche il nipote. Benché non abbia mai compiuto
ricerche sul terreno, fu un promotore della ricerca etnografica. La sua produzione ha toccato vari
punti della riflessione etnologica e sociologica, invero, gli ambiti d’interesse sono lo studio della
magia, della religione; il lavoro sulle forme di classificazione della realtà sociale e naturale, o sulla
moneta; ricerche sulla morfologia sociale e i suoi studi classici sul dono e sul sacrificio.
Uno dei primi lavori di Mauss, in collaborazione con Durkheim, fu “Su qualche forma primitiva di
classificazione” del 1901-1902, che si proponeva di mostrare come la classificazione dell’universo
naturale non dovesse essere considerata come l’effetto di un’attitudine spontanea della mente
umana perché gli esseri umani non raggruppano istintivamente in categorie gli oggetti ed esseri
animati che fanno parte della loro esperienza, ma li raggruppano avendo in mente la ripartizione
degli stessi esseri umani in gruppi sociali. I due autori considerarono gli aborigeni australiani come
società poiché era ritenuta una delle più primitive della terra.
Le società australiane erano divise in classi matrimoniali, gruppi esogamici fondati non sulla
discendenza, ma su altri criteri di assegnazione sociale. Durkheim e Mauss cercarono di stabilire
come la classificazione delle persone, degli animali e delle cose avvenisse secondo criteri analoghi,
corrispondenti alla divisione della società in classi matrimoniali: ad ogni totem veniva fornito un
nome di un animale a cui era associata una serie di fenomeni naturali, di animali e di oggetti. Il
mondo era in tal modo ordinato, classificato in categorie direttamente legate alla suddivisione delle
loro società. A società strutturate secondo un principio organizzativo semplice (classi matrimoniali
australiane) corrispondeva un sistema di classificazione altrettanto semplice, mentre ad un gruppo
sociale strutturato sulla base di un modello più complesso corrispondeva un sistema di
classificazione altrettanto complesso. Le modificazioni del sociale lo spingono a modificare l’ordine
concettuale delle cose poiché costituiscono per l’uomo l’esperienza più immediata dal punto di vista
emotivo (in virtù della coscienza collettiva). L’elemento rilevante di quest’opera è rappresentato
dall’idea di un’OMOLOGIA STRUTTURALE tra la dimensione sociale e la dimensione simbolica,
con la preminenza della prima sulla seconda. Dall’ipotesi di omologia strutturale, Mauss si poté
spingere verso la ricerca di quegli elementi del sociale che erano capaci di coinvolgere nel loro
accadere, la pluralità complessiva dei livelli sociali. Mauss riprese la nozione di Durkheim di “fatto
sociale”e la ampliò aggiungendo il termine “totale”, quindi “fatto sociale totale”. Esso è un evento
in cui la società si autorappresenta, mettendo in scena la totalità delle relazioni che la costituiscono
(ha a che fare con tutti gli aspetti economici, politici, religiosi, sentimentali, ecc.). Questa nozione
di fatto sociale totale rende il rito e la sua spiegazione un documento interessante per entrare nelle
relazioni a 360° che la società incamera. Alcune cerimonie sono fatti sociali totali (come ad
esempio il matrimonio), perché vengono messi in scena i valori, gli obblighi, i vincoli in cui una
società si riconosce. Il matrimonio, ad esempio, è un contratto basato sulla parola, fabbricato da
essa: la parola e il gesto del sacerdote non descrivono un evento ma realizzano una realtà.
Durkheim e Mauss si differenziano perché il primo mette in relazione un fatto sociale con un altro,
mentre Mauss mette in scena la totalità delle relazioni e degli aspetti sociali, poiché alcuni momenti
organizzativi della vita sociale indicano la totalità.
Il tema dei fatti sociali totali è presente nel lavoro “Saggio sul dono” del 1923-1924, il cui
sottotitolo è “forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche”, che era costruito, in gran parte,
nei lavori etnografici di Boas sul potlatch e di Malinowski sullo scambio cerimoniale kula,
caratteristica di alcune isole della Melanesia e ancora su alcuni studi etnografici europei e
americani. Tali lavori sembrarono indicare l’esistenza, anche presso società primitive, di fenomeni
complessi e articolati di scambio e di circolazione dei beni materiali, che fino a quel momento erano
stati ignoranti. Mauss interpretò questi fenomeni come tipici esempi di fatto sociale totale, poiché
essi erano strettamente legati ad altri aspetti della vita di queste popolazioni. Mauss, inoltre, cercava
di spiegare questi fenomeni sulla base del principio in base al quale la società, come aveva
sostenuto Durkheim, impone agli individui di comportarsi in base a delle regole, obblighi che
sfuggono ai suoi stessi membri. Secondo Mauss, quando si riceve un dono, si crea un vincolo.
Dell’elemosina, ciò che è umiliante è la responsabilità di ricambiare e allora si fa riferimento alle
cose ultraterrene (“Che Dio ti benedica”). Quando si riceve un dono, c’è la necessità di ricambiare,
infatti tre sono le regole secondo l’autore, che sono alla base del fenomeno del dono e cioè: DARE-
RICEVERE- RICAMBIARE. Era grazie ad esse che si strutturava il principio della reciprocità.
Allora qual è la differenza tra acquistare un bene autonomamente e avere uno scambio di doni con
l’altro? Quando c’è uno scambio di doni, c’è uno scambio emotivo tra le persone: quando non c’è
restituzione, il soggetto perde prestigio sociale. Mauss allora si chiede quale sia la norma di diritto e
di interesse che, nella società di tipo arretrato o arcaico, fa sì che il donatore sia obbligatoriamente
ricambiato? La teoria indigena.
Mauss dà una spiegazione emica, cioè che deriva dal significato che la popolazione studiata dà a
quell’evento. Egli giunge a sostenere che negli oggetti scambiati c’è una qualità intrinseca, una
qualità che li assimilava a chi li aveva posseduti e che permaneva in essi, anche dopo averla donata.
Questa qualità intrinseca è han, teoria che era presente tra i Maori (Nuova Zelanda). Secondo questo
popolo, lo han è lo spirito di debito nei confronti del donatore e lo obbliga quindi a ricambiare per
restaurare una specie di “equilibrio delle forze”, alterato dall’atto del donare. La credenza
nell’esistenza di questa qualità e l’azione da essa esercitata, metteva in moto il sistema delle
prestazioni reciproche, in quanto la mancata restituzione degli oggetti donati, avrebbe prodotto
l’interruzione dello scambio, che sarebbe stato un danno, perché la qualità della cosa era suscettibile
di vendicarsi sul trasgressore. Queste forme di scambio basate sulla reciprocità valevano sia per gli
individui e sia per i gruppi, anche se la natura del dono come fatto sociale totale appariva soprattutto
in occasione di fenomeni complessi come quelli descritti da Boas e Malinowski. Secondo Mauss, in
questi casi, gli individui recitavano la parte di attori, mentre le unità sociali erano i gruppi più vasti
come le famiglie, clan, tribù. Queste pratiche vennero assimilate da Mauss al fenomeno del dono,
rappresentavano delle variazioni nella direzione di un commercio di ordine mobile per stabilire
relazioni pacifiche (kula) o di un atto che ha come obiettivo acquisire prestigio (potlatch). Levi-
Strauss criticherà Mauss poiché ha dato una spiegazione dello scambio riferendosi ad una teoria
indigena, sostenendo che la ragione dello scambio è lo han, ma per Levi-Strauss, ciò non è
accettabile. Lo han costituisce la forma cosciente sotto cui gli uomini hanno colto una necessità, ma
la vera ragione dello scambio sta altrove, secondo Strauss, cioè, i principi inconsci che sarebbero
alla base del principio di reciprocità, principio che regola, oltre al dono, anche lo scambio
matrimoniale.
Alfred Radcliffe-Brown (1881-1955)
Un’altra figura importante che risentì dell’influenza di Durkheim è l’antropologo Radcliffe-Brown
della Gran Bretagna. E’considerato uno struttural-funzionalista, poiché poneva l’accento sulla
struttura sociale (e non sulla cultura) come entità funzionalmente integrata e indaga i fenomeni
sociali e i meccanismi che operano all’interno della società, i quali costituiscono la struttura della
società stessa. Secondo l’autore, è possibile comparare questi meccanismi perché solo
apparentemente sono unici ma, in reaktà, hanno alla base qualcosa in come, la differenza è soltanto
di superficie. Nelle società ci sono delle regolarità che lo studioso può cogliere (influenza di
Durkheim). Egli pubblicò nel 1922 l’opera “Gli isolani delle Andamane” che scrisse dopo
un’attenta analisi di questa popolazione dell’Oceano Indiano. Radcliffe-Brown si pose il problema
di definire l’oggetto dell’antropologia a partire dalla formulazione di un metodo che potesse
giustificare una tale definizione. Seguendo Durkheim, egli tentò di circoscrivere il campo
dell’antropologia allo studio dei fenomeni sociali. Propose un metodo che consisteva
nell’identificazione dei meccanismi che operano all’interno della società, che ne consentono il
funzionamento, successivamente si effettua una comparazione, giungendo alla formulazione di
leggi valide generalmente. Il metodo dell’antropologia designava l’oggetto di quest’ultima,
costituito dalle leggi che determinano il funzionamento delle società e i processi che rendono
possibile la riproduzione delle forme sociali. Tutto ciò spiega perché Radcliffe-Brown preferiva il
termine antropologia sociale rispetto ad antropologia culturale. La definizione e l’oggetto
dell’antropologia consentì all’autore di effettuare la distinzione tra antropologia ed etnologia,
quest’ultima aveva come oggetto di studio la cultura e la storia dei popoli primitivi.
Le condizioni di scientificità nello studio di popoli primitivi erano per Radcliffe-Brown
rappresentate dalla possibilità di fondare l’antropologia sociale su un metodo induttivo,
caratteristico delle scienze naturali: tutti i fenomeni sono sottoposti alle leggi della natura, di
conseguenza è possibile, applicando metodi logici, scoprire e provare alcune leggi generali.
L’antropologia sociale era dunque una scienza naturale delle società, che indaga i fenomeni
appartenenti a uno specifico ordine di realtà, i fatti sociali, e che sono irriducibili ad altri di natura
differente.
Nozioni essenziali dell’opera di Radcliffe-Brown sono tre: struttura sociale, funzione sociale e
processo sociale. Grazie al concetto di struttura sociale, l’antropologia britannica si distinguerà da
quella statunitense, poiché quest’ultima si focalizzava sullo studio della cultura e per Radcliffe-
Brown ciò si traduceva nello studio del comportamento individuale e dell’adattamento del singolo
individuo alla società, al quale egli opponeva lo studio analitico dei rapporti sociali che costituivano
la struttura sociale. Essa rappresenta lo scheletro di una società, la trama dei rapporti realmente
esistenti tra gli individui membri di una società. Nelle società occidentali, i rapporti sono regolati
dal parlamento, dalla magistratura, dai ministeri che definiscono e applicano la legge comune. Nelle
società di piccole dimensioni, non ci sono leggi scritte, ma esse hanno comunque una struttura,
quale? Ci si accorge, osservando, quali sono i sistemi di diritti e di doveri incamerati implicitamente
che permettono alla società sopravviva. Il compito dell’etnologo è quindi attraverso la
documentazione idiografica di cercare di trovare queste istituzioni stabili, che permettono in
qualche modo di regolare il contenzioso, pur non esistendo il diritto di famiglia, le leggi esplicite
ecc. C’è un sistema di diritti incamerati implicitamente. Ad esempio, se due soggetti litigano, vanno
da un terzo soggetto che media il conflitto, una sorta di giudice.
La funzione sociale designa il rapporto tra la struttura e il processo vitale, è il rapporto che una
forma di attività sociale (ad esempio un rito, un tipo di transizione economica ecc.) ha con la
struttura sociale alla cui esistenza e continuità porta un contributo.
Il processo sociale indica la moltitudine di azioni degli esseri umani e, in particolare della loro
interazione e azione congiunta. I rapporti all’interno di una struttura sociale sono regolati attraverso
i processi sociali, idee acquisite del comportamento sociale. All’origine di questa immagine del
sociale come insieme coordinato di attività, come struttura organizzata, sta l’analogia biologica con
l’organismo vivente. Tale analogia rimaneva per Radcliffe-Brown una metafora metodologica
adottata allo scopo di pensare il piano sociale come una struttura organica che dipende, per la
continuazione della propria vita, dai fenomeni che garantiscono l’insieme dei processi vitali.
Radcliffe- Brown sostiene che le società umane abbiano una continuità strutturale e questa è
dinamica nel senso che gli uomini sono la materia e la forma è il modo in cui essi sono in rapporto
tra loro grazie alle relazioni di tipo istituzionale. Il concetto di continuità strutturale interessava
l’autore nella misura in cui rendeva possibile la comparazione tra strutture sociale.
Radcliffe-Brown introduce due aspetti polemici di correzione a Durkheim. Il primo riguarda il
totemismo. Le religioni totemiche hanno la tendenza ad associare il nome di un animale o di un
vegetale ad un gruppo sociale. I soggetti di questa società si identificano con l’animale o il vegetale
scelto. Durkheim intendeva quest’identificazione come arbitraria o convenzionale (come direbbe
De Saussure). Radcliffe-Brown si oppone a questa visione e sostiene che la scelta del totem già dà
di per sé molte informazioni sulla popolazione. L’adozione di un certo totem la considerava il
risultato di un modo sbagliato di stabilire la relazione rituale tra l’uomo e il totem. L’atteggiamento
rituale verso un animale precede l’uso di questa simbologia. Secondo aspetto che l’autore critica a
Durkheim riguarda le credenze e i riti. La relazione che c’è tra riti e credenze qual è? Secondo
Durkheim, il totemismo esprime l’opposizione di gruppi che sono strutturalmente uniti in una
relazione funzionale, per esempio, lo scambio matrimoniale. Ciò fa sì che la metà del Falco si sposi
con la metà della Cornacchia (e viceversa). Il totem animale rappresenta il gruppo sociale.
Radcliffe-Brown diffida molto dall’interpretazione emica. Per Radcliffe-Brown vengono prima i riti
e poi le credenze. Si mettono in atto delle azioni, si fanno delle cose e poi si spiegano. Radcliffe-
Brown sosteneva che i popoli che adottavano il totemismo effettuavano rituali nei confronti di
animali e vegetali, i quali precedevano l’utilizzazione di questo tipo di simbologia in senso
sociologico, cioè la scelta del totem. I totem non erano oggetto di rituali in quanto simboli (arbitrari)
delle unità sociali, ma diventavano simbolo di quest’ultima perché erano già fatti oggetto di
un’attenzione rituale, in quanto utili agli esseri umani perché determinate specie avevano, nella vita
economica, un’elevata importanza (buoni da mangiare). Radcliffe-Brown fa molta attenzione a
perché si scelga quell’animale come totem poiché per lui la scelta del totem ha un fine pratico
(l’antropologo deve capire come prima cosa perche’ viene scelto quell’animale). Egli sostiene che
le società si fondano su un’azione senza ragione, sul sacrificio di qualcuno o qualcosa che le
persone identificano come minaccia, come male, lo sacralizzano, lo espellono e in questa azione si
costituiscono come insiemi sociali. Attraverso il sacrificio, azione senza ragione, si creano i vincoli
sociali. La coesione sociale avviene attraverso il modulo del sacrificio di qualcuno strutturalmente
debole, ma riempito di elementi di paura e di minaccia (streghe, untori -> gli untori vogliono
portare la peste e uccidere). Le persone riversano tutto su chi è più debole. Radcliffe-Brown non
parla molto del motivo del capro espiatorio (cosa che fa invece Girard), lo fa solo in relazione a
Durkheim.

Franz Boas (1856-1942)


Franz Boas divenne la figura di maggior rilievo dell’antropologia americana dopo Morgan. Tedesco
di religione ebraica, lascia la Germania prima del nazismo, si reca in America dove diventa maestro
di una generazione di antropologi che daranno vita ad un’antropologia “facile”. Una delle opera più
importanti di Boas è “I limiti del metodo comparativo dell’antropologia” del 1896. Esso rappresentò
una rottura decisiva nei confronti della prospettiva antropologica allora dominante in America,
l’evoluzionismo. Boas critica Morgan e l’evoluzionismo, secondo cui i fatti culturali possono essere
studiati come fatti naturali poiché regolati anch’essi dalle stesse leggi che governano la natura. Boas
contesta che ci sia una regolarità nell’evoluzione, nella connessione tra i tratti culturali presi in
considerazione dagli antropologi evoluzionisti. Questi ultimi partivano dal presupposto che
l’origine dei fatti culturali simili osservabili presso popoli distanti tra loro, era dovuta all’unità
psichica del genere umano. Per Boas, sostenere che un fenomeno etnologico si sia sviluppato in
maniera indipendente in un certo numero di luoghi diversi, equivaleva a sostenere che tale
fenomeno avesse avuto uno sviluppo identico in ogni luogo e che avesse la stessa causa. Per
dimostrare la fragilità del ragionamento evoluzionista, Boas presentò un serie di esempi relativi alla
possibile origine differente e al diverso significato che fenomeni culturali simile potevano avere in
contesti culturali diversi. Ad esempio, nel caso della discendenza che in quegli anni sembrava
essere dominante presso i popoli primitivi, quella matrilineare su quella patrilineare, Boas oppose la
dimostrazione del fatto che presso gli Indiani della costa americana del Pacifico settentrionale era
accaduto esattamente il contrario. Anche quest’autore dava per scontato, come gli evoluzionisti,
l’unità psichica del genere umano, ma sosteneva che fosse arbitrario pronunciarsi sull’universale
identità delle cause che avevano determinato i fenomeni culturali apparentemente identici e
appartenevano a culture diverse.
In quest’opera Boas definisce i principi generali del metodo storico, staccando l’antropologia del
positivismo e legandola ad una prospettiva storica (che si potrebbe definire particolarismo storico),
che indaga i particolari di una singola società e non riconduce tutto ad un’evoluzione universale
generale. Boas contesta il tentativo nomotetico e produce un’etnologia ciclopica che si sofferma
caso per caso. L’obiettivo fondamentale dell’etnologia, ritiene Boas, è la conoscenza delle cause
storiche che avevano determinato la forma dei tratti culturali specifici di una certa popolazione.
Tale conoscenza era possibile nella misura in cui era circoscritta ai costumi nella loro relazione con
la cultura complessiva della tribù che li pratica, in correlazione con la ricerca della loro
distribuzione geografica tra le tribù limitrofe. Attraverso questo approccio, era possibile, secondo
Boas poter determinare le cause storiche che hanno portato alla formazione dei costumi e dei
processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo. METODO STORICO: studio e
conoscenza delle singole culture.
Il pensiero di Boas fu molto influenzato dal clima culturale del suo paese d’origine, in particolare, il
dibattito filosofico tedesco distingueva tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”. Le
scienze della natura, sede dello sviluppo del sapere nomotetico (ricerca di leggi che regolano
l’accadere dei fenomeni naturali), mentre le scienze dello spirito sono volte alla conoscenza
storiografica e particolare (idiografica) relativa a un’epoca storica e agli uomini che ad essa
appartengono. Quindi, il particolarismo storico di Boas ha tratto ispirazione dalla filosofia storicista
e neokantiana tedesca di fine 800.
Boas, tra il 1894 e il 1895, condusse una ricerca tra i gruppi nativi della costa americana del
Pacifico settentrionale e nel 1897 pubblicò il testo “L’organizzazione sociale e le società segrete
degli Indiani Kwakiutl” , in cui analizzò non solo la vita di queste popolazioni, ma anche
un’istituzione particolare: il potlatch. Questo nome viene dato ad un insieme di pratiche rituali
diffuse tra le popolazioni sull’isola di Vancouver (Canada). Si trattava di rituali di ostentazione che
prevedevano la distruzione di grandi quantità di beni considerati di prestigio, privi di un valore di
uso corrente. Attraverso il potlatch, individui si sfidavano in una gara per acquisire, riacquisire e
affermare il proprio rango o per abbassare quello di un rivale. Oggi si tende a considerare il
potlatch, l’aspetto distruttivo, come un meccanismo grazie al quale si eliminavano i beni che, se
fossero stati immessi nella società, avrebbero provocato un’alterazione del sistema, avrebbero
costituito degli elementi perturbanti nella struttura dei rapporti di potere. Grazie al potlatch, si
manteneva l’equilibrio del sistema. Boas utilizza il potlatch per affermare che la volontà umana, il
sentimento umano, l’idea che ha una persona o un gruppo, ha la meglio sulla regola che dovrebbe
regolare l’agire umano. IL DATO FILOSOFICO DELL’ANTROPOLOGIA FINO AD ORA E’
CHE LA CULTURA SIA UN ELEMENTO DELLA NATURA. CON BOAS LA PROSPETTIVA
E’ OPPOSTA. L’uomo è libero, non c’è una regola generale che determina il comportamento
umano. Boas afferma, consegnandoci un patrimonio ciclopico di notizie, gli uomini agiscono
nonostante la natura, nonostante i vincoli imposti da essa. Inoltre, Boas descrive il potlatch in
termini di investimento, vendita, interesse, capitale, facendo credere di aver a che fare con un
popolo di astuti trafficanti, ma in realtà aveva utilizzato un linguaggio dell’economia di mercato in
un contesto che nulla aveva a che vedere con ciò. Alcuni autori, inoltre, lo criticarono poiché
quell’area studiata da Boas, in quegli anni, era stata caratterizzata dalla morte di molti individui.
Dunque, il potlatch documentato dall’autore rappresentava “il funerale di una società estinta”. Boas
parla di SCHISMOGENESI. Se nel giorno del rituale di travestimento, gli uomini hanno un
atteggiamento opposto, questo significa che il valore di quella società vuole che gli uomini
comandino. Se in quel giorno i figli danno ordine ai padri, questo ci insegna quali sono invece i
valori che ci sono nel quotidiano. Boas fa parte dei culturalisti (è l’uomo che fa la legge contro la
natura) in contrapposizione a Morgan e ai naturalisti (legge che governa natura e cultura).

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