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Il crimine è un «fatto sociale»

L’anomia
Émile Durkheim

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

Il crimine è un fatto sociale

Nel corso del XIX secolo emerge una visione (un paradigma sociale) che
considera la devianza, come ogni altro comportamento, un prodotto sociale,
un “fatto sociale”*.

Il paradigma sociale, rifiutando la spiegazione utilitarista, individua le radici


del comportamento deviante in quelle condizioni (sociali, materiali e
ambientali) che gli individui non possono controllare e che li predispongono a
certi comportamenti.

*‘Fatto sociale’ «Qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull'individuo una
costrizione esteriore; o anche (un modo di fare) che è generale nell'estensione di una data società pur
possedendo una esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali» (Le Regole del
Metodo Sociologico, 1895).

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Il crimine è un fatto sociale normale

La devianza, la criminalità, nella misura in cui “non sorpassi un certo livello”, è


un fenomeno sociale “normale” poiché è presente in ogni tipo di società.

Per D. non esistono società in cui la devianza non sia presente, laddove esistono
delle regole ci sarà sempre qualcuno che le viola.

“La causa determinante di un fatto sociale deve essere cercata tra i fatti sociali
antecedenti e non già tra gli stati della coscienza individuale”.

Il contributo teorico di Durkheim/1

Nei suoi tre testi fondamentali D. analizza tre aspetti che sono centrali nelle
nostre riflessioni:

1. “La divisione del lavoro sociale” (1893) solidarietà


meccanica/solidarietà organica

2. “Le regole del metodo sociologico” (1895)  il crimine è un fatto


sociale normale

3. “Il suicidio” (1897)  concetto di anomia

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Il contributo teorico di Durkheim/2

Della complessa e vasta opera di Durkheim a noi interessa essenzialmente


sottolineare tre aspetti

1. l’elaborazione di un concetto fondamentale come quello di anomia

2. l’analisi del diritto nel quadro dell’analisi complessiva delle strutture


sociali viste nella loro evoluzione e con attenzione alle loro funzioni

3. lo studio del suicidio

1. Anomia

Il concetto di anomia è da collocare nella prospettiva di quello che è l’oggetto


principale della sociologia di Durkheim, l’influenza della coscienza collettiva
(e delle rappresentazioni collettive che ne sono il prodotto) sulla natura del
legame sociale o della solidarietà.

Nella prospettiva evoluzionistica - che caratterizza tutta la prima sociologia - il


discorso di D. focalizza l’attenzione sulle modificazioni del legame connesse
alla divisione del lavoro e in particolare sul passaggio dalle forme di
solidarietà meccanica a quelle di solidarietà organica.

3
Mantovan C., Teorie dell’anomia e della tensione, in Dino e Rinaldi (a cura di) Sociologia della devianza e del
crimine, Mondadori, 2021, p. 125

In questa trasformazione si determinano fenomeni di perdita di forza della


coscienza collettiva, di disgregazione dei valori, di perdita di punti di
riferimento comuni, di riduzione dell’incidenza delle relazioni sociali sulla
condotta individuale: è questa l’anomia che caratterizza le società moderne
(nelle quali mentre aumenta la densità materiale e quella sociale, non
aumenta invece la densità morale).

Se il crimine è un fatto sociale normale, poiché non può esistere una società nella
quale gli individui non divergano più o meno dal tipo collettivo, ciò che deve
essere considerato un fatto sociale patologico è il rapido incremento dei tassi
di criminalità.

L’anomia è il fatto sociale che spiega l’aumento del tasso della devianza.

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Secondo Durkheim gli uomini sono esseri viventi i cui desideri non sono limitati
né dalla costituzione organica (come gli animali) né da quella psicologica.

La società è la sola “potenza” che può porre dei limiti alle inclinazioni egoistiche
degli individui consentendo loro di coesistere pacificamente.

Quando una società non agisce più come potere che regola il comportamento dei
suoi membri e non è più in grado di imporre loro alcun limite, si cade in una
condizione di anomia.
“La società non è una semplice somma di individui; al contrario, il sistema formato dalla loro associazione
rappresenta una realtà specifica dotata di caratteri propri. Indubbiamente nulla di collettivo può prodursi se
non sono date le coscienze particolari: ma questa condizione necessaria non è sufficiente. Occorre pure che
queste coscienze siano associate e combinate in una certa maniera; da questa combinazione risulta la vita
sociale, e di conseguenza è questa che la spiega. Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali
danno vita ad un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere”.
(Le regole del metodo sociologico, V, p. 102)

2. Concezione del crimine e del diritto

Il delitto viene considerato come fatto sociale, ossia come fatto inevitabile,
presente in ogni struttura sociale, elemento normale in ogni società dato un
certo tipo e grado di sviluppo

Un fatto è sociale quando incidenza e regolarità sono condizionate dal contesto sociale e
variano con il contesto sociale.

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Le funzioni specifiche del crimine (1)

Il crimine può talvolta «predeterminare la forma che i sentimenti collettivi


prenderanno», ad esempio afferma D. «la libertà di cui godiamo oggi non
avrebbe mai potuto essere proclamata se le regole che la vietavano non fossero
state violate prima di essere solennemente abrogate»

Il crimine rende le società aperte al mutamento sociale:


«Quante volte, infatti, il reato non è altro che un’anticipazione della morale
futura, il primo passo verso ciò che sarà!»

Le funzioni specifiche del crimine (2)

Il mantenimento della coesione sociale.

Il crimine, o meglio la reazione sociale ad esso, permette di rafforzare la


coscienza collettiva attraverso la sanzione penale. In realtà per D. la vera
funzione della pena non è tanto quella di punire o rieducare il colpevole,
quanto piuttosto quella di ribadire e rinsaldare i valori comuni che
sostanziano la coscienza collettiva.

La punizione non serve (o serve solo secondariamente) a «correggere il colpevole


o intimorire i suoi possibili imitatori», poiché la sua vera funzione è quella di
«mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune
tutta la sua validità».

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3. Il suicidio

Perché quest’opera di D. ancora oggi è considerata un classico degli studi sul


suicidio?

L’approccio al tema sotto il profilo metodologico, ovvero la rigorosa analisi, con


finalità di tipo esplicativo, fondata sull’utilizzo di dati quantitativi (le statistiche
ufficiali)

La strettissima dipendenza di tale approccio dalla impostazione teorica di tutto il


lavoro (e più in generale della concezione durkheimiana della devianza), per la
quale il suicidio, atto apparentemente individuale per antonomasia, è invece
un fatto sociale, che ha le sue cause nella società ed in particolare nell’anomia

Il contenuto dell’opera, tesa a dimostrare le relazioni tra andamenti dei suicidi


(che suddivide in egoistici, altruistici e anomici) e fattori sociali (età, sesso,
professione, religione, situazione famigliare, andamento del ciclo economico,
situazione politica, ecc.), ipotizzati come cause della propensione individuale a
togliersi la vita

A partire dall’individuazione di alcuni meccanismi sociali alla base della scelta di


suicidarsi, elabora una tipologia ormai classica:

il suicidio egoistico varia in ragione inversa al grado di integrazione dei


gruppi sociali di cui fa parte l’individuo (società religiosa, familiare, poltica);

il suicidio altruistico  (la spiegazione del suicidio risiede in un eccesso di


attaccamento al gruppo);

il suicidio anomico  (i membri della società sono più esposti a questo tipo
di suicidio quando il potere delle norme sociali, che dovrebbero regolare la
loro condotta, si affievolisce).

A questi tre tipi di suicidio D. ne aggiunge un quarto (s. fatalistico) che ha una ricorrenza
molto più rara degli altri.

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La Scuola di Chicago

Rosalba Altopiedi
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Le radici storiche e intellettuali dell’approccio ecologico

Le radici storiche e sociali della prospettiva ecologica allo studio del crimine e
della devianza sono rintracciabili in alcuni studi condotti a partire dalla fine
del XVIII secolo che hanno raccolto e sistematizzato dati demografici, sociali,
economici al fine di comparare la distribuzione di alcuni fenomeni sociali in
diversi paesi.

Uno dei precursori fu l’economista François Quesnay, esponente della Scuola


Fisiocratica che nel 1758 pubblica il Tableau économique, un lavoro che
mette in luce le interdipendenze strutturali del sistema economico e le
relazioni tra i diversi settori che lo compongono.

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Gli statistici morali

◦ Del 1831 è il primo lavoro pubblicato da Adolphe Quetelet, Research on the


Propensity for Crime at Different Age, seguito nel 1842 da A Treatise on Man and
Development of his Faculties;
◦ Del 1833 è invece il testo di André-Michel Guerry Essai sur la statistique morale de
la France.

L’importanza di questi pionieristici lavori sta nelle intuizioni, nella particolare


postura teorica assunta dai ricercatori e nei risultati ottenuti.

Non solo il crimine varia in ragione di alcune caratteristiche


sociodemografiche quali l’età, il sesso, l’educazione, la professione, ecc., ma
lo stesso si distribuisce in modo differente nelle diverse aree geografiche

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Gli statistici morali

L’analisi condotta da Quetelet e Guerry sull’andamento dei crimini a livello


dei singoli départements – che rappresentano in Francia un livello territoriale
intermedio tra le regioni e i comuni – pone in evidenza che il crimine non è
equamente distribuito ma si concentra in determinate aree e rimane
relativamente costante nel tempo.

Da queste osservazioni Quetelet elabora la c.d. legge della costanza del


crimine
la società in se stessa racchiude il germe di tutti i delitti che verranno
commessi. Essa, in un certo modo, li prepara, e il colpevole non è che lo
strumento per compierli.

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Gli statistici morali

In Inghilterra John Glyde pubblica nel 1856 sul «Journal of the Statistical of
London» l’articolo Localities of crimes in Suffolk nel quale presenta gli esiti
delle ricerche sulla distribuzione spaziale del crimine nelle diverse città della
contea di Suffolk.
Tra le cause della criminalità, Glyde focalizza l’attenzione sul contesto di vita
del criminale piuttosto che su sue caratteristiche personali o su
caratteristiche del luogo in cui il crimine è commesso
Una circostanza confermata anche in successivi studi come quello condotto
sempre in Inghilterra da Cyril Burt (1925). Le aree di Londra con i tassi di
criminalità più elevati sono quelle collocate nelle adiacenze del quartiere
centrale degli affari, mentre quelle con i tassi più bassi sono quelle
periferiche.

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Questa messe di studi e ricerche avrà un impatto rilevante sugli approcci


successivi

In particolare ha un’influenza importante oltreoceano nella nascente


sociologia americana.

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Chicago una città in trasformazione

Gli anni a cavallo tra i due secoli sono il momento nel quale gli Stati Uniti effettuano
la transizione da paese prevalentemente agricolo-rurale a prima economia
industriale del mondo. Un processo di industrializzazione che porta con sé fenomeni
quali l’urbanizzazione spinta e l’immigrazione (sia interna che straniera).

Un flusso migratorio proveniente dall’Europa meridionale e orientale che va ad


aggiungersi a quello più vecchio proveniente da Germania, Polonia e Irlanda e alle
migrazioni interne, soprattutto della popolazione di colore dal Sud verso il Nord-Est
industrializzato.

Chicago, con le sue fabbriche e il suo essere centro nevralgico del sistema dei
trasporti ferroviari e fluviali, rappresenta un laboratorio sociale di questi
stravolgimenti. In poco meno di un decennio, la città sperimenta una crescita
vertiginosa: da piccolo centro si trasforma in una metropoli industriale (la seconda
per dimensioni negli Stati Uniti), con una popolazione di più di tre milioni di persone

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Chicago una città in trasformazione

La città con le sue contraddizioni rappresenta un barometro della stessa


condizione umana, una sorta di laboratorio sociale dove analizzare le
contraddizioni delle moderne società industriali.
La popolazione di Chicago è costituita da individui che giungono da luoghi
diversi e che hanno usi e costumi profondamente differenti. Ciò rende la città
un contesto urbano complesso e conflittuale. La complessità è ulteriormente
aggravata dal declino nella richiesta di manodopera non specializzata che
contribuisce ad alimentare la povertà, le condizioni di marginalità sociale e di
illegalità.
Il sogno americano mostra il suo lato oscuro: il melting pot si trasforma in un
crogiuolo di problemi sociali, i quartieri sono, di fatto, zone della città che
non comunicano tra loro e segregati dal punto di vista etnico-razziale.

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Il contesto intellettuale

Sono tre i fattori più rilevanti nella nascita della Scuola di Chicago:

1. l’era «progressiva» (1890-1910)  combinazione di movimenti di riforma laici


e cristiani (specialmente protestanti) ispirati dalle classi medie professionali
(avvocati, medici, insegnanti, ecc.) e progettati per migliorare la sorte dei poveri
sulla scia dei problemi associati agli effetti negativi dell’industrializzazione e
dell’urbanizzazione;
2. la rapida espansione tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1915 del sistema
universitario negli Stati Uniti e l’istituzionalizzazione delle scienze sociali e della
statistica nelle università d’élite (Columbia, Johns Hopkins, Yale, Harvard e la
stessa Chicago);
3. il riconoscimento da parte del governo, tra il 1865 e il 1905, di nuove
associazioni accademiche, tra cui l’American Social Science Association,
l’American Economic Association, l’American Historical Association e l’American
Sociological Society, e anche la pubblicazione di riviste scientifiche di settore
come l’«American Journal of Sociology» pubblicato proprio a Chicago.

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Apparato teorico e concetti analitici della prospettiva


ecologica della Scuola di Chicago

Nella prospettiva dell’ecologia sociale, gli esseri umani sono esseri sociali,
plasmati dalla loro interdipendenza reciproca, dalla comune dipendenza dalle
risorse del loro ambiente e dalle funzioni che svolgono per il sistema
all’interno delle loro comunità.

L’ipotesi teorica centrale è che l’organizzazione umana emerga come esito di


queste interazioni. Un ordine sociale che si presenta come sintesi delle
interazioni anche conflittuali tra individui che competono per assicurarsi le
risorse, scarse, dell’ambiente.

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Apparato teorico e concetti analitici della prospettiva
ecologica della Scuola di Chicago

Uno dei primi lavori della Scuola è lo studio di Ernest W. Burgess Juvenile
Delinquency in a Small City (1916) che, riprendendo l’impianto metodologico
del pionieristico lavoro dell’inglese Glyde (1856), focalizza l’attenzione sui
fattori geografici, mediati dalle condizioni economico-sociali, quali cause
della crescita dei tassi di criminalità negli adolescenti.

Ad influenzare il comportamento degli adolescenti (e dunque anche a


produrre comportamenti devianti o criminali) non è una qualche
caratteristica individuale, ma il loro contesto di vita, la casa in cui abitano, il
quartiere che frequentano, le relazioni che vivono, in una parola il loro spazio
ecologico.

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Apparato teorico e concetti analitici della prospettiva


ecologica della Scuola di Chicago

L’impronta tipica della sociologia d’oltre oceano è il suo carattere di sociologia


empirica orientata allo studio dei social problems, ispirata da principi riformistici.
La metafora ecologica, adottata dai sociologi di Chicago, applica alla comunità
umana (la città) alcuni concetti dell’ecologia, la scienza che studia le relazioni
spaziali tra varie specie di organismi viventi.

Non diversamente da quanto avviene per le altre specie viventi, anche la


comunità umana può essere studiata come un insieme di individui
interdipendenti che sono modellati dalle loro interazioni e dalla dipendenza
dall’ambiente nel quale vivono.
Adottando un modello ecologico della vita urbana, si può analizzare il processo di
sviluppo della città, i diversi contesti sociali e culturali che la caratterizzano come
anche i differenti stili di vita degli abitanti.

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La città
(Park, Burgess e Mackenzie, 1938)

La città è il luogo in cui è più evidente il venir meno del controllo sociale
primario, più estese sono le modificazioni dei rapporti, più gravi i problemi
sociali. Si riprende il tema durkheimiano dei vincoli e dei legami di solidarietà,
si guarda alle singole specifiche aree del tessuto urbano e alle costanti
trasformazioni.

Le aree naturali della città si caratterizzano per effetto di processi di selezione


naturale, lo spazio urbano è terreno di lotta e di dinamiche di predominio
territoriale, gli individui si aggregano in ragione delle similarità e della
condivisione di codici (sub)culturali.

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La città
(Park, Burgess e Mackenzie, 1938)

La città, come ogni sistema ecologico, non si espande in modo casuale, ma segue
un modello di sviluppo naturale basato su processi di invasione e dominio.

La zonal hypothesis theory formulata da Burgess (1916), secondo la quale la


crescita della città segue un modello a zone concentriche, fornisce ai Chicagoans le
basi per interpretare il crimine e la devianza.

Quando gli usi caratteristici di una zona interna sconfinano in una adiacente zona
esterna si verifica un’invasione e quel territorio diviene meno desiderabile per chi
lo abita. I processi di invasione e dominio contribuiscono a definire all’interno della
città delle vere e proprie organizzazioni ecologiche (aree naturali), che possiedono
ognuna una propria identità sociale, culturale o etnica dominanti del territorio
all’interno di ogni zona.

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La città
(Park, Burgess e Mackenzie, 1938)

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La città
(Park, Burgess e Mackenzie, 1938)

Al centro della città vi è la zona degli affari (zona I) con i più elevati valori immobiliari.

Il secondo cerchio comprende la «zona di transizione», caratterizzata dalla presenza di


uffici e industria leggera. Ciò la rende poco attraente per la maggior parte degli
abitanti che fuggono verso le aree residenziali più esterne. Nella zona di transizione si
trovano i bassifondi e le terre aride con le loro miserabili regioni di povertà,
degradazione, malattia; qui si trovano i quartieri dove risiedono gli immigrati quando
giungono in città, in quanto riescono ad affittare camere a un costo contenuto. Si
tratta di una zona contraddistinta da un’elevata mobilità residenziale.

La III zona, abitata da operai specializzati, è un’area di insediamento degli immigrati di


seconda generazione che sono riusciti a lasciarsi alle spalle le abitazioni degradate e la
povertà che caratterizza la zona di transizione.

La IV zona è quella residenziale dove mirano a trasferirsi gli operai una volta che
vedono migliorata la loro situazione.

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La città
(Park, Burgess e Mackenzie, 1938)

I processi continui di invasione e di assestamento tra le varie zone della città, danno
forma a delle aree ciascuna con una propria identità culturale, sociale ed etnica. Alcune
aree rappresentavano delle comunità razziali (come Little Italy, Black Belt, il Ghetto o
Chinatown), altre sono caratterizzate da un punto di vista socio-economico (individui
con reddito simile, stesso gruppo professionale, ecc.).

Il concetto di contagio sociale (Park, 1938) è utile per comprendere attraverso quale
meccanismo i devianti finiscano per concentrarsi prevalentemente in alcune zone della
città «finendo per enfatizzare i caratteri che li accomunano e sopprimendo quei caratteri
che li avvicinano ai tipi normali che li circondano».

Questa segregazione urbana permette ai ricercatori di analizzare l’andamento e la


distribuzione di alcuni problemi sociali (povertà, alcolismo, abbandono scolastico,
disoccupazione, malattia mentale, ecc.) nelle diverse zone della città.

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La disorganizzazione sociale
Juvenile Delinquency and Urban Areas (Shaw e McKay, 1942; 1969)

Shaw e McKay utilizzano l’approccio ecologico per studiare l’associazione tra le


caratteristiche socio-economiche e la devianza giovanile. Le loro ricerche esaminano
come alcune caratteristiche ecologiche delle diverse aree naturali della città producano
livelli diversi di criminalità.

Tre le dimensioni:
1. le caratteristiche fisiche dei quartieri: la presenza di industrie, la mobilità dei
residenti e il numero di case sfitte o deteriorate.
2. la relazione tra caratteristiche economiche di queste aree e tasso di criminalità: i tassi
più elevati di criminalità si registrano in quelle aree che sono caratterizzate da livelli
più bassi di affitti e di case di proprietà.
3. le caratteristiche sociodemografiche dei residenti: ad esempio la percentuale di
popolazione afroamericana e il numero di residenti nati all’estero.

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La disorganizzazione sociale
Juvenile Delinquency and Urban Areas (Shaw e McKay, 1942; 1969)

Analizzando serie storiche di dati di fonte secondaria, Shaw e McKay affermano che la
variazione dei tassi di criminalità (che sono costantemente più elevati in alcune zone)
non può essere spiegata facendo riferimento alle caratteristiche degli individui, poiché
nelle diverse zone, e in particolare nella cosiddetta «zona di transizione» che registra i
tassi più elevati, vi è un costante ricambio della popolazione residente.

Pertanto la spiegazione deve basarsi sulle caratteristiche dei diversi contesti territoriali:
è il livello di disorganizzazione sociale della zona di transizione che determina tassi di
criminalità e di devianza più alti.

Con il termine «disorganizzazione sociale» si indica una situazione caratterizzata dalla


«diminuzione dell’influenza delle regole sociali di comportamento esistenti sui membri
individuali del gruppo» (Thomas e Znaniecki, 1968, p. 12) e dall’assenza di nuovi modelli
normativi e nuove istituzioni in grado di sostituire le regole esistenti.

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La disorganizzazione sociale
Juvenile Delinquency and Urban Areas (Shaw e McKay, 1942; 1969)

La criminalità e la devianza sono «in un certo senso la misura del mancato


funzionamento delle organizzazioni della... comunità» (Mckenzie, 1999, p. 95).
La diminuzione dell’influenza delle regole sociali sugli individui può avere intensità
diversa: da un’infrazione isolata di una regola particolare da parte di un individuo fino
alla decadenza generale di tutte le istituzioni del gruppo.

Forme di disorganizzazione sociale producono forme di disorganizzazione personale,


ossia la perdita di efficacia nell’organizzazione personale dell’individuo a causa del
declino del suo gruppo primario, un processo che lo priva di responsabilità e della
sicurezza di poter appartenere a qualcosa. In qualche modo il soggetto risponde
naturalmente a condizioni ambientali disorganizzate (Rinaldi e Saitta 2017, p. 100)

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Chicago Area Project
Juvenile Delinquency and Urban Areas (Shaw e McKay, 1942; 1969)

Shaw e McKay applicarono le loro teorie nella realizzazione di un programma di


prevenzione della devianza e della criminalità giovanile: il Chicago Area Project.

Il progetto promosse una serie di iniziative che avevano lo scopo di riorganizzare i


quartieri. Furono realizzate attività ricreative per i ragazzi, campagne per sensibilizzare i
residenti sulla necessità di migliorare le condizioni di vita della comunità e di aiutare i
giovani che erano a rischio di devianza o che avevano avuto problemi con la giustizia.
Il progetto era gestito da comitati locali coadiuvati da uno staff di consulenti.
Attraverso le sue attività il progetto cercò di sviluppare un positivo interesse dei
residenti per la loro comunità e di promuovere un attivo coinvolgimento degli stessi
nella gestione dei problemi della zona in cui vivevano (a questo scopo, nel lavoro sul
campo furono impiegati operatori che appartenevano alla comunità stessa).

Rosalba Altopiedi
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Le carriere criminali
Shaw (1930; 1931; 1938)
La correlazione tra forme di devianza o crimine e spazio ecologico è al centro anche degli
studi di Shaw sulla strutturazione delle carriere criminali.
La raccolta di storie di vita di giovani devianti consente allo studioso di evidenziare che
esiste una connessione specifica tra devianza e ambiente sociale.
Perché:
• gli individui che adottano comportamenti criminali non si distinguono dagli altri per
caratteristiche personali;
• nelle aree con tassi di criminalità più elevati i legami e il controllo sociale informale sono
minori a causa del livello di disorganizzazione che è lì presente;
• queste aree offrono maggiori opportunità illegali e incoraggiano poco il coinvolgimento in
attività convenzionali;
• in queste aree i ragazzi sono coinvolti sin dalla più giovane età in attività illegali, anche come
parte del gioco di strada;
• i valori e le norme, così come le tecniche, che regolano le attività illegali sono trasmesse dai
ragazzi più vecchi ai più giovani;
• la carriera criminale si struttura quando il ragazzo inizia a identificare se stesso con il mondo
criminale e ad assumere nel proprio stile di vita i valori prevalenti nel gruppo di riferimento;
un processo che sarà ulteriormente rafforzato dalla stigmatizzazione e dalla reazione delle
istituzioni di controllo.

Rosalba Altopiedi
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Teoria della trasmissione culturale della devianza
Shaw (1930; 1931; 1938)

L’osservazione che i giovani che vivono nelle aree in cui si sviluppano e si consolidano
tradizioni culturali devianti hanno una maggiore possibilità di interagire con soggetti
devianti e criminali rispetto ai loro coetanei che risiedono in altri contesti territoriali è alla
base della teoria della trasmissione culturale della devianza.

Il meccanismo per la trasmissione culturale dei valori devianti è individuato nel processo di
apprendimento degli stessi.

Rosalba Altopiedi
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Teorema di Thomas
Thomas (1923)

I fenomeni sociali (dunque anche la criminalità e la devianza) hanno sempre una causa
composita: un elemento soggettivo (un particolare orientamento dell’individuo) e un
elemento oggettivo (le condizioni strutturali e di contesto) in grado di influenzare
dall’esterno le azioni degli individui.
Ogni azione è sempre preceduta da un atto di valutazione in cui l’attore definisce la propria
situazione. In virtù di questa valutazione, il comportamento degli individui non dipende
esclusivamente dalle caratteristiche oggettive della situazione in cui si trovano, ma anche
dal significato che vi attribuiscono.

«Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze»
(Thomas 1923, pp. 41-43).

Rosalba Altopiedi
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Il conflitto culturale
Culture, Conflict and Misconduct (Wirth, 1930)

Louis Wirth concentra l’attenzione sulle seconde generazioni di immigrati. Questi vivono in
un contesto caratterizzato da una doppia cultura (dual cultural milieu): il giovane
immigrato, soprattutto se è nato in America, non possiede legami esclusivi e duraturi con la
cultura del gruppo di appartenenza originario a cui sono emotivamente legati i genitori.
Per il giovane assumono un valore maggiore i legami che stabilisce nel gruppo dei pari e
con individui che sperimentano la sua stessa situazione.
I comportamenti devianti o criminali dei ragazzi delle seconde generazioni sono molto più
simili a quelli dei loro coetanei autoctoni rispetto ai loro genitori.

I processi di trasmissione dei codici devianti avvengono nei gruppi primari ai quali questi
giovani si sentono legati dal punto di vista emotivo.
In questa situazione l’appartenenza a un gruppo e la lealtà imposta ai partecipanti sono i
motivi principali di conflitto culturale o con la famiglia di origine (nel caso dei giovani) o con
la comunità in generale.

Rosalba Altopiedi
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Il conflitto culturale primario e secondario


Sellin (1938)

A partire dall’originale lavoro di Wirth, Thorsten Sellin propone un’analisi che ruota attorno
al concetto di «norma di condotta» e di «conflitto culturale»: si concentra sui tassi di
criminalità più elevati tra gli immigrati di seconda generazione e afferma che i diversi gruppi
sociali posseggono diverse convinzioni su ciò che è definibile come comportamento
appropriato o meno.
Le definizioni legali su ciò che è criminale e ciò che non lo è sono relative poiché mutano
come risultato dei cambiamenti nelle norme di condotta che regolano il comportamento
degli individui nella loro quotidianità. Il loro contenuto varia da cultura a cultura, pertanto i
conflitti culturali tra i gruppi sono conflitti tra codici di condotta.

Sellin individua la fonte del conflitto nello scarto esistente tra norme culturali della cultura
dominante e quelle prodotte dalle culture subordinate; in particolare il conflitto tra «norme
di condotta legale» e «norme di condotta non legale» produce ciò che legalmente viene
definito come «crimine».

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Il conflitto culturale primario e secondario
Sellin (1938)
I due «tipi» di conflitto

1. il «conflitto culturale primario» che si riferisce ai casi in cui le norme di una cultura
subordinata sono considerate criminali nella cultura dominante: tra i possibili esempi,
un padre siciliano migrato negli Stati Uniti che uccide il seduttore della propria figlia
seguendo le norme tradizionali dell’onore e si sorprende quando lo arrestano; oppure
nel caso della poligamia, legale in alcuni paesi e illegale in altri
2. il «conflitto culturale secondario» si riferisce a quei casi in cui segmenti della stessa
popolazione, e dunque della stessa cultura in termini più vasti, non accettano nella
stessa misura le norme di condotta; dunque un gruppo definisce qualcosa come
criminale e, invece, l’altro come un comportamento non criminale o «normale»: è il
caso, ad esempio, di una subcultura che definisce come normale un comportamento o
delle condotte che gli altri membri considerano devianti (i poliamorosi, ad esempio,
considerano accettabile una relazione che non si regga sulla monogamia; i fumatori di
marijuana considerano questa condotta come «normale»).

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

La metodologia di ricerca

L’analisi e l’elaborazione dei dati forniti dalle istituzioni cittadine e dalle agenzie del
controllo formale, si accompagna all’utilizzo di tecniche di ricerca qualitativa e ai
metodi dell’etnografia sociale, privilegiando gli studi di caso, l’osservazione
partecipante, la raccolta di storie di vita, l’analisi documentale, ecc.

L’elaborazione dei dati prodotti dalle diverse amministrazioni pubbliche (censimenti della
popolazione, dati riferiti alla salute e alla sicurezza sociale, alla condizione lavorativa e
abitativa di coloro che risiedevano nelle diverse zone della città, dati sulla distribuzione
del crimine, ecc.), consentono di testare la correlazione tra la prevalenza di alcuni
problemi sociali e l’andamento del tasso di criminalità.
L’approccio biografico consente di documentare gli effetti della disorganizzazione sociale
sulla vita dei soggetti (The Polish Peasant in Europe and America di W.I. Thomas e
Florian Znaniecki del 1918; The Jack-Roller di Clifford Shaw del 1930); le varie etnografie
urbane prevedono un’osservazione diretta dei soggetti e delle loro relazioni nei loro
contesti naturali (come nel caso di The Hobo di Nels Anderson del 1923 e The Taxi-
Dance Hall di Paul G. Cressey) e consentono di restituire un’idea più fondata
dell’organizzazione di mondi sociali tra loro eterogeni e uno sguardo dal di dentro del
mondo deviante.

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

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Applicazioni e sviluppi contemporanei

Concetto di efficacia collettiva Sampson, Raudenbush e Earls (1997)


L’EC indica la capacità percepita di una zona (un quartiere) di risolvere autonomamente i problemi
sociali presenti.
Due elementi:
◦ Disponibilità dei residenti di agire per il bene comune
◦ Combinazione tra coesione e fiducia reciproca tra i residenti

-----------------------------

Concetto di capitale sociale  Sampson e Graif (2009)

Il capitale sociale rappresenta una misura del buon funzionamento di una comunità Investimento
nelle relazioni sociali, nelle reti di impegno civico favoriscono un impegno sociale maggiore che si
traduce in un più elevato di partecipazione dei residenti in organizzazioni civiche e sociali. Il tutto
migliora la capacità della comunità di agire controllo sociale informale e ridurre i livelli di
devianza e criminalità

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

I limiti e le critiche

Scarsa attenzione alla dimensione strutturale dei problemi e appiattamento sugli


interventi di natura tecnico-amministrativa che non mettono in discussione la
dimensione politica degli stessi.
Una fiducia ingenua nei dati prodotti dalla agenzie di controllo formale
Scarsa consapevolezza del prodotto dei processi di selettività del controllo
Fallacia ecologica distorsione prodotta dall’uso di dati aggregati per spiegare le
azioni individuali, un’operazione che presenta rischi sia dal punto di vista teorico che
dell’analisi empirica

….

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

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Le politiche

Secondo l’approccio che abbiamo presentato sono le condizioni sociali e culturali in cui
vivono gli individui che producono devianza.

Nei contesti sociali e culturali caratterizzati dalla disorganizzazione sociale si sviluppa


una tradizione delinquenziale che viene trasmessa ai più giovani (disorganizzazione
sociale)

I processi di urbanizzazione e immigrazione hanno contribuito a creare contesti sociali


caratterizzati dalla convivenza di persone che abbracciano differenti tradizioni culturali
(Sellin - conflitto culturale).

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

Le politiche

Se la società “produce devianza” quando:

◦ diminuisce l’influenza delle norme sociali che dovrebbero regolare il


comportamento dei suoi membri;
◦ nei contesti sociali e culturali caratterizzati dalla disorganizzazione sociale si
sviluppa una tradizione delinquenziale che viene trasmessa ai più giovani;
◦ c’è presenza di conflitti culturali insieme all’indebolimento delle relazioni sociali
primarie.

La devianza si previene e si controlla intervenendo sulla società o su parti di essa, non


sui singoli individui, realizzando:
1. programmi che abbiano lo scopo di riorganizzare le condizioni di vita in particolari
contesti territoriali per rafforzare i legami sociali e rendere più efficace il controllo
sociale informale;
2. programmi che rimuovano o riducano il conflitto culturale, favorendo
l’integrazione degli immigrati nella società in cui vivono.

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

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Le politiche

1. Lo sviluppo di programmi per rafforzare i legami sociali.


Si ispirano alle teorie ecologiche e della disorganizzazione sociale tutte quelle iniziative
che hanno lo scopo di rendere più efficace il controllo sociale informale intervenendo:
◦ sulle condizioni che consentono di rafforzare i legami sociali tra i membri di una
stessa comunità;
◦ sulle capacità di empowerment della comunità;
◦ sull’ambiente fisico, riorganizzando gli spazi di vita dei membri della comunità.

2. Se la devianza è il prodotto di un conflitto culturale, la persona che viola la legge


non percepisce la propria azione come deviante, ma la considera conforme alle
norme di condotta della propria cultura. In questo caso le politiche finalizzate ad
affrontare il conflitto culturale devono promuovere il processo di integrazione tra
differenti culture e/o subculture, promuovendo l’acquisizione dei valori e delle
norme di condotta della cultura dominante.

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

Edwin Sutherland e la teoria dell’associazione differenziale

Rosalba Altopiedi
rosalba.altopiedi@unito.it

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