Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
di Serge Moscovici
sunto
Cosa sono le rappresentazioni sociali?
Il concetto di rappresentazioni sociali ci è provenuto da Durkheim. Proseguendo poi con gli
studi di Piaget (psicologo e pedagogista svizzero) siamo arrivati a conclusioni significative: le
rappresentazioni sociali sono un modo specifico di comprendere di comunicare ciò che già
sappiamo. Sono rappresentazioni che nascono socialmente, dalle relazioni con altre persone (in
primis, la famiglia). Si basano su un insieme di teorie, ideologie che esse – le rappresentazioni –
trasformano in realtà condivise.
Le rappresentazioni sociali (definite anche collettive), si riferiscono ad una classe generale
di idee e credenze (scienza, mito, religione, ecc..), per noi esse sono fenomeni che necessitano di
essere descritti e di essere spiegati. Essi sono fenomeni specifici correlati ad un modo particolare
di comprendere e comunicare – un modo che crea sia la realtà, sia il senso comune. È per porre
enfasi su tale distinzione che l'autore usa il termine sociali anziché collettive.
La scienza e le rappresentazioni sociali sono differenti tra loro, ma tuttavia così complementari. Il
mondo in cui viviamo e il mondo del pensiero non sono proprio lo stesso mondo, ma non possiamo
fare a meno di desiderare un singolo, identico mondo e di sforzarci per raggiungerlo.
Contrariamente a ciò che si credeva il secolo scorso, ora sono le scienze a generare tali
rappresentazioni. Quando le teorie, l'informazione e gli eventi si moltiplicano, essi devono essere
duplicati e riprodotti ad un livello più immediato ed accessibile; in altre parole esse sono trasferiti
all'universo consensuale, circoscritti e ri-presentati.
-» In passato la scienza era basata sul senso comune e rendeva il senso comune meno
comune; ma adesso il senso comune è la scienza resa comune.
Ancorare. Quindi vuol dire classificare, dare un nome a qualcosa. Le cose che non sono classificate
e sono prive di un nome sono aliene, inesistenti e, nello stesso tempo, minacciose.
Quando classifichiamo una persona fra i nevrotici, gli ebrei o i poveri, ovviamente non stiamo
semplicemente enunciando un fatto, ma la stiamo valutando ed etichettando.
Non solo, classificare qualcosa significa che noi la limitiamo ad un set di comportamenti e di
regole. Quando appunto classifichiamo una persona come marxista, pescatore o lettore di "The
Times", la imprigioniamo in una serie di limitazioni linguistiche, spaziali e comportamentali, e in
certe abitudini. Faremo pesare la nostra influenza su di lui, formulando specifiche richieste relative
alle nostre aspettative.
Categorizzare qualcuno o qualcosa equivale a scegliere uno dei paradigmi immagazzinati nella
nostra memoria e stabilire una relazione positiva o negativa con esso. Se è vero che noi
classifichiamo e giudichiamo persone e cose confrontandole ad un prototipo, è anche vero che
inevitabilmente tenderemo a selezionare quelle caratteristiche che sono le più rappresentative di
questo prototipo. Il prototipo ci offre – nel momendo del suo recupero e confronto – delle opinioni
belle e fatte e generalmente porta a decisioni frettolose. Queste decisioni sono raggiunte in uno di
questi due modi: generalizzando, o particolarizzando. A volte un'opinione bella e fatta viene in
mente di colpo, e noi ci sforziamo di trovare l'informazione o il particolare che meglio le si adatta;
altre volte abbiamo in mente un dato particolare e ci sforziamo di darne un'immagine precisa.
Generalizzando, riduciamo le distanze, selezioniamo una caratteristica a caso e la usiamo
come categoria: l'ebreo, il malato mentale, il gioco, la nazione aggressiva, ecc... La caratteristica
viene, come dire, estesa a tutti i membri di questa categoria. Quando è positiva noi esprimiamo la
nostra accettazione, quando è negativa il nostro rifiuto.
Specificando, manteniamo invece la distanza e consideriamo l'oggetto in esame come
qualcosa di divergente dal prototipo. Allo stesso tempo cerchiamo di scoprire quale caratteristica,
quale motivazione o quale atteggiamento lo rende diverso.
Ci sono due modi, o per meglio dire due ipotesi scientifiche, su come viene vista la classificazione.
1. Un'operazione analitica, che implica una sorta di lista di caratteristiche separate – il colore
della pelle, la qualità dei capelli, la forma della testa e del naso, e così via, sempre se è una
questione di razza.
2. La classificazione vista come un processo attraverso cui noi facciamo sì un confronto con il
prototipo, se in relazione ad esso è normale o anormale in relazione ad esso e cerchiamo di
rispondere alla semplice domanda è o non è come dovrebbe essere?
--
È impossibile classificare senza, nello stesso tempo, dare un nome, e tuttovia, queste sono
due attività distinte. Ma nella nostra società, dare un nome, concedere un nome a qualcosa o a
qualcuno, ha un significato molto speciale: nel momento in cui assegniamo un nome a qualcosa, noi
la liberiamo dall'anonimità, collocandola nella matrice d'identità della nostra cultura.
Cio che è anonimo, innominabile, non può divenire un immagine comunicabile o essere
prontamente collegato ad altre immagini.
In generale classificare ed assegnare un nome sono due aspetti di questo ancoraggio delle
rappresentazioni.
La teoria delle rappresentazioni comporta due conseguenze:
1. Esclude l'idea di un pensiero o di una percezione senza un àncora. Non esiste alcun bias nel
pensiero o nella percezione, ma solo una differenza nella prospettiva tra individui e gruppi
all'interno di una società.
2. I sistemi di classificazione e assegnazione, nonostante svolgano anche questo compito, il
loro obietivo principale è di facilitare l'interpretazione delle caratteristiche, la comprensione
delle interazioni e delle motivazioni dietro le azioni delle persone, e di fatto, formare
opinioni.
Oggettivare. Satura di realtà l'idea della non familiarità, la trasforma nella vera e propria essenza
della realtà. Percepita in un rpimo momento – questa idea – in un universo remoto, puramente
intellettuale, essa appare davanti ai nostri occhi poi fisica ed accessibile. D'altro canto la
materalizzazione di un'astrazione è una delle caratteristiche più misteriose del pensiero e del
linguaggio. Si divide più o meno in due fasi principali:
Una prima fase durante la quale si scopre la qualità iconica di un'idea, noi dobbiamo solo
comparare Dio ad un padre, e ciò che era invisibile divene istantaneamente visibile alle nostre menti
come una persona alla quale possiamo obbedire come tale; dal momento che le parole non parlano
di niente, siamo costretti a legarle a quacolsa, a trovare per loro equivalenti non verbali; tuttavia non
tutte le parole sono riconducibili a immagini, piuttosto per alcune di esse troveremo un nucleo
figurativo, ovvero un complesso di immagini che riproduce visibilmente un complesso di idee. (Ad
esempio il modello della psiche – ereditato dalla psicanalisi – è diviso in due, l'inconscio e il
conscio, e che richiamano alla mente dualità molto più comuni, come involontario-volontario,
anima-mente, interno-esterno...
Una seconda fase durante la quale l'immagine è totalmente assimilata e ciò che è percepito prende
il posto di ciò che è concepito. Se le immagini esistono, se esse sono essenziali per la
comunicazione e la comprensione sociale, ciò è perché esse sono, e non possono rimanere, senza
realtà. Dal momento che esse devono avere una realtà – in primis, per scopi meramente
comunicativi – noi ne troviamo una per loro, e non importa quale.
In questi processi un ruolo importare lo assume la memoria. Le esperienze e i ricordi non sono né
inerti né morti: essi sono dinamici e immortali. Ancoraggio e oggettivazione sono modi di
manipolare la memoria: il primo la mantiene in moto, continuamente immette e toglie oggetti,
persone ed eventi, che classifica secondo il tipo e che etichetta con un nome; il secondo processo
(oggettivazione) invece trae da essa concetti ed immagini per mescolarli e riprodurli nel mondo
esterno, per decifrare attraverso ciò che è già noto le cose che bisogna conoscere.