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MEDIA E COMUNICAZIONE

1.
Tutti gli esseri viventi stabiliscono un continuo scambio con l’ambiente nel quale conducono la propria
esistenza: piante, animali ed esseri umani. Non è solo uno scambio di sostanze, ma anche di informazioni.
Ad esempio, le radici delle piante raccolgono un continuo flusso di dati dal terreno mentre i pollini e le foglie
lasciano tracce, oltre che sostanze possibilmente fecondanti e nutrienti, che verranno raccolte da altri esseri
viventi.

Vivere è (anche) comunicare


Facciamo un esempio. Molti animali, insetti ma anche mammiferi, hanno un manto particolarmente vistoso.
Molti altri hanno invece un manto che si mimetizza nell’ambiente. Nel primo caso, l’animale manda delle
informazioni (per esempio, agli animali della stessa specie con cui intende accoppiarsi o ad altri animali a cui
vuole risultare poco appetibile come preda, oppure ancora nasconde attraverso il mimetismo la sua natura).
In tutti questi casi abbiamo un meccanismo che é stato elaborato nel corso di molti anni, che si definisce
anche attraverso lo scambio di informazioni con l’ambiente. Vivere é adattarsi con l’ambiente, ma anche
assimilare l’ambiente a sé stessi. Questo riguarda le risorse, il cibo, i liquidi, l’aria medesima, ma anche le
informazioni. 

Diverse specie animali hanno sviluppato forme di comunicazione complesse, come la danza di molte api. La
specie umana nel corso della sua evoluzione si è dotata di strumenti suoi propri, a cominciare dalla parola,
che consente di designare anche oggetti assenti, e quindi di evocare il passato, di prefigurare il futuro, di
costruire mondi immaginari. Impossessandosi della parola l’essere umano amplia e consolida un sistema di
relazioni sociali.
È grazie alla loro abilità tecnica ma anche alla socialità, sorretta dallo scambio di parole e messaggi, che gli
umani si sono diffusi in tutto il pianeta.

L’essere umano é una specie caratterizzata dalla capacità di costruirsi e utilizzare strumenti, ma anche
dall’utilizzare uno strumento del tutto particolare che é il linguaggio. A che cosa si deve la parola? 
La parola si deve innanzitutto al fatto che gli esseri umani hanno un apparato vocale complesso e articolato,
capace quindi di emettere suoni molto diversificati e di renderli comprensibili e distinguibili. La parola é un
privilegio della specie umana. Altre specie hanno forme complesse di comunicazione: il linguaggio delle api
ha cominciato ad essere appena decifrato per esempio, ma la specie umana con la parola dispone di
moltissimi segni di cui le altre specie non dispongono.

Gli esseri umani sono creature sociali perché sono comunicanti ma è vero anche l’opposto: in quanto
creature sociali, ci aspettiamo sempre messaggi dai nostri simili anche in assenza di parole. Tendiamo a
interpretare il silenzio, i gesti e le espressioni anche involontarie, gli abiti. Per cercarvi se non altro indizi di
quello che l’altra persona pensa, o intende fare.

Una scuola psicologica statunitense ha sintetizzato questa realtà tipica della nostra specie nella frase: 
 Non si può non comunicare

Di fronte ad un altro essere umano, anche sconosciuto, siamo portati sempre ad interpretare la faccia, i
movimenti, le stesse espressioni di base del volto. Anche il silenzio, quando si stabilisce tra persone che
stanno comunicando normalmente, può dire anche molto di più di altre parole. Può significare in certi
momenti distacco, lontananza ed in altri momenti può significare al contrario anche una vicinanza che le
parole non esprimerebbero con chiarezza. Non si può non comunicare vuol dire che, in quanto esseri
comunicanti, sentiamo il bisogno di interpretare i nostri simili.
 
Nel corso della sua storia l’umanità ha affiancato alla parola anche molti altri strumenti utili ad ampliare la
sua capacità di comunicare. Sono i media che permettono di produrre nuovi messaggi, trasmettere i
messaggi a distanza, riceverli e anche conservarli nel tempo. La produzione di questi strumenti è cominciata
in tempi antichissimi per esempio con la creazione di immagini di caccia nelle caverne ed è continuata
attraverso la scrittura, la stampa, e moltissime altre tecnologie, visive sonore e anche rivolte a diversi sensi
insieme, fino alla grande moltiplicazione degli ultimi anni.
 
Che strana parola Media. É una parola latina anche se ci é arrivata dalla sociologia inglese e americana.
Che cosa indica? Indica dei mezzi, degli strumenti, ma anche qualcosa che sta in mezzo, che fa da tramite
tra le persone, tra noi, il nostro passato e a volte il nostro stesso futuro. Ci sono media detti di massa, che si
rivolgono da un’emittente a una grande quantità di riceventi, ma anche media detti personali, che collegano
singoli individui.

Come comunica chi non è dotato della parola, ad esempio gli animali o i bambini piccoli? L’espressione
“comunicazione non verbale” ci fa pensare ai gesti o ai versi di animali simili a noi, prima di tutto le scimmie
ma anche altri mammiferi. O al pianto dei neonati. Ma ci sono altre forme di comunicazione non verbale di
cui solo da poco cominciamo a comprendere le caratteristiche, come il canto di molti uccelli o la complessa
danza con cui le api mellifere fanno circolare le informazioni sui luoghi più ricchi di nutrimento.

La comunicazione animale ovviamente non é fatta di parole, essendo queste privilegio degli esseri umani.
Ma questo non significa assolutamente che sia una comunicazione povera. A parte le danze delle api, per
esempio si sta cominciando a studiare la funzione reale del canto degli uccelli e della sua meravigliosa
musicalità notata fin dai tempi antichi, per accorgersi che contiene una quantità straordinaria di informazioni
destinate ad altri uccelli della stessa specie, ma anche ad altre specie differenti. 

Ma la comunicazione non verbale esiste, e ha una grande importanza, anche tra coloro che invece della
parola dispongono. E’ un aspetto essenziale della comunicazione umana.
A volte sostituisce la parola come accade quando dobbiamo farci capire a gesti perché non possiamo farci
sentire, in una situazione di rumore troppo forte o in una situazione di emergenza.

Lo sappiamo tutti, anche se spesso non ci facciamo abbastanza caso, che nel nostro comunicare con gli altri
esseri umani utilizziamo moltissimi strumenti, anche inconsapevoli. La nostra comunicazione é fatta di gesti,
di movimenti, di espressioni, di lievi mutamenti nella posizione dell’occhio che costituisce un ammiccamento
per dire, o di sollevamenti di un dito di una mano che spesso inconsapevolmente anch’esso dà
un’indicazione. 

A volte la comunicazione non verbale serve a solennizzare una dichiarazione, come accade in un
giuramento o nella stretta di mano che avvia o conclude un accordo di pace.
Tutti i riti umani, religiosi o civili, accompagnano le formule verbali con gesti e azioni del corpo, quasi a
ricordarci che le parole non bastano.

I gesti possono servire a volte a sostituire le parole, ma a volte servono anche ad una  propria funzione
specifica. La comunicazione umana a volte é una comunicazione corrente, normale, magari scherzosa, ma a
volte deve assumere un livello particolare di solennità, come quando si fa un giuramento o quando si fa un
gesto di benedizione, maledizione o ancora una stretta di mano, come segno di pace. Si fanno questi gesti,
non solo per sottolineare il significato delle parole, ma per dare alle parole un valore che va aldilà del loro
significato. 

Molto spesso integra la comunicazione verbale, arricchendola, sfumandola, articolandola ulteriormente.


Quando parliamo con una persona stiamo attenti a seguire le espressioni del volto e i movimenti del corpo
con cui il nostro interlocutore segue le nostre parole, o accompagna le sue. 
Lo facciamo spesso in modo non del tutto consapevole. Non pensiamo esplicitamente “questa espressione
indica un certo sentimento” ma reagiamo con il nostro stesso volto econ il nostro corpo. Sorridiamo a chi ci
sorride, ci tendiamo in difesa di fronte ad atteggiamenti più ostili, e così via. L’insieme di comunicazione
verbale e non verbale fa sì che la comunicazione vada oltre la pura trasmissione di contenuti e assuma un
aspetto empatico.

Pensiamo a quante espressioni possa fare la nostra faccia, che dispone di una muscolatura vastissima ed
estremamente articolata. É un gioco che fanno i bambini piccoli fin da quando cominciano a capire che uno
specchio riflette la loro immagine e cominciano appunto a rispecchiarsi nelle loro più varie espressioni,
divertendosi anche rispetto alla loro varietà.
Questa molteplicità di espressioni, come del resto l’articolazione di quella dei suoni della parola, é una parte
essenziale della comunicazione umana, anche perché, e questo non dobbiamo dimenticarlo, é importante
l’espressione con cui accompagniamo quello che diciamo, ma é anche fondamentale l’espressione del
nostro interlocutore dalla quale deduciamo come sta seguendo le nostre parole.
Anche per questo, è difficile spiegare esattamente “che cosa ci dicono” i gesti e le espressioni del volto. Da
molti secoli sono stati tentati veri e propri dizionari, sempre insoddisfacenti. Va ricordato del resto che si
tratta di forme di comunicazione radicate nelle nostre origini animali e che nell’umanità cominciano a
manifestarsi prima dell’apprendimento della parola. 
Lo aveva intuito da Charles Darwin in un libro intitolato The Expression of the Emotions in Man and Animals,
1872.

I gesti e le espressioni delle persone possono variare da un popolo all’altro e da una cultura all’altra. Ci sono
sicuramente delle espressioni tipiche dell’Italia meridionale, per esempio dei gesti tipici di una zona che in
altre regioni d’Italia risultano meno immediatamente comprensibili. Oppure ci sono dei gesti tipici di popoli
lontani da noi e così via.
Ma non é possibile ridurre tutto a dizionari, come pure si é tentato di fare. Prima di tutto perché i gesti non
hanno un significato immediatamente traducibile in parole, sennò non si userebbero le parole stesse. E poi
perché la ricchezza e la complessità di quei gesti nasce anche dal loro uso spesso non del tutto
consapevole. Tutto questo perché noi abbiamo cominciato a gesticolare e a esprimere le nostre emozioni
con il viso prima di cominciare a parlare, ma anche nella comunicazione animale ci sono espressioni e gesti
che precedono la comunicazione umana.

La comunicazione in presenza è inoltre fatta di tanti altri elementi, come i toni e le inflessioni della voce, le
pause tra una frase e l’altra. Sono, come le espressioni del volto e i gesti, elementi che aggiungono altre
informazioni e condizionano quelle che ci arrivano dalla parola.

Inoltre, in uno scambio verbale orale, cioè a voce, noi seguiamo le parole dell’altro anche per mezzo di quel
che noi stessi diciamo, ponendo domande per capire meglio, esprimendo simpatia o dubbi, o anche
semplicemente sottolineando che ascoltiamo.
L’oralità non è fatta solo di parole  ed è basata sullo scambio

Pensiamo ad esempio al telefono. Noi stiamo al telefono con un’altra persona, stiamo parlando.
Di norma al telefono si parla a turno perché altrimenti non ci si capirebbe. Eppure, mentre l’altra persona ci
sta dicendo qualcosa e la discussione va per le lunghe, noi siamo portati istintivamente a dire di tanto in
tanto: «sì, uhm, certo che e così via…». Queste sono espressioni interlocutorie che sottolineano la nostra
presenza che non é caduta la linea, ma anche il fatto che abbiamo qualcosa in comune con la persona che
ci sta parlando. Comunicare viene da: “mettere in comune”. La comunicazione non verbale é importante
anche perché sottolinea la comunanza tra gli interlocutori. Pensiamo sempre al telefono, al fatto che noi
cerchiamo di decifrare non avendo a disposizione le espressioni del viso, i gesti ecc… E cerchiamo di
decifrare con più attenzione la voce, i toni, e (importantissimo) anche le pause. Una comunicazione esitante
fatta di molte pause spesso ci insospettisce… Una comunicazione troppo diretta dove non c’è nessun dubbio
può insospettirci per un motivo opposto, perché sembra preparata.

Parlare è un’attività universale. Non esistono popolazioni senza parole. Ci sono persone che non parlano: i
bambini prima di avere imparato a farlo, e le persone con specifiche difficoltà. Anche coloro che non
possono articolare i suoni con la voce trovano altri modi per esprimersi.
Le lingue parlate sono attualmente 6.000, anche se si tratta di statistiche incerte. Ogni anno molte lingue
scompaiono, perché le persone che le parlavano muoiono o sono assorbite da altri gruppi linguistici. Nei
prossimi 50 anni le lingue parlate nel mondo potrebbero ridursi alla metà.

Non ci sono popolazioni senza parole. Un pregiudizio razzista ha pensato che ci potessero essere delle
popolazioni umane così poco umane da non disporre della parola, ma é assolutamente falso. Se una
popolazione é umana ha un proprio linguaggio. Questo risulta evidente per esempio nel momento in cui
vengono individuate delle piccole tribù sconosciute che vivono ad esempio nella foresta vergine. Quando la
civiltà occidentale viene a contatto con loro si scopre che parlano una lingua propria. 
Quando la civiltà occidentale viene a contatto con loro, questa lingua rischia di sparire, perché può essere
schiacciata dagli idiomi occidentali stessi o anche perché, nel momento in cui muore l’ultimo uomo che ne
ricorda il vocabolario e le regole, questa non c’é più e quindi la lingua rischia di essere persa. La diversità
linguistica é una fra le grandi ricchezze dell’umanità. La riduzione della diversità linguistica é uno dei grandi
rischi della fase attuale della storia.

Per il bambino imparare a parlare é un’attività:


•      ambientale, perché si impara dai suoni che si sentono attorno a sé;
•      relazionale, perché si impara parlando con altri, a cominciare generalmente dalla madre.
Anche gli adulti adattano man mano il loro parlare all’ambiente, e sono condizionati dagli accenti, dalle
intonazioni, anche dal vocabolario di coloro con i quali dialogano.

La lingua parlata non viene appresa come potremmo essere tentati di pensare parola dopo parola, verbo
dopo verbo. Viene appresa sentendola attorno a sé. É un mondo di suoni che noi facciamo propri e
riproduciamo con i nostri organi vocali. Ma é anche un mondo di suoni che facciamo propri comunicando con
altri, mettendoli in comune con altri. Il bambino la fa prima di tutto parlando con la madre e poi con le altre
persone che lo circondano. Ma noi continuiamo a cambiare il nostro modo di parlare in relazione all’ambiente
e alle relazioni in cui siamo immersi. Per questo, tante volte ci accorgiamo che cambiando regione o
cambiando paese, dopo un pò il nostro accento e i nostri toni si modificano. 

La scrittura non è altrettanto universale della parola: esistono nel mondo (anche se in quantità sempre
minore) popolazioni prive di scrittura; esistono in ogni paese persone che non sanno leggere e scrivere.

Non sanno farlo generalmente i bambini sotto l’età scolare, che generalmente ha inizio verso i sei anni. E
non sanno farlo gli analfabeti, che però rappresentano una percentuale sempre più ristretta della
popolazione dei paesi sviluppati. Insegnare a leggere e scrivere è fin dall’Ottocento uno dei compiti che si
sono assunti gli stati moderni.
Ci sono varie forma di scrittura, che possono presentare diverse difficoltà di apprendimento.

La nostra é una scrittura alfabetica, basata cioè sulla diretta corrispondenza tra i suoni e le lettere. Ci sono
invece scritture ideografiche che sono invece basate sulla corrispondenza tra un gruppo di lettere, ma
soprattutto un significato e un segno. La scrittura alfabetica é generalmente considerata la più semplice da
apprendere, perché appunto il numero dei segni da imparare é più ristretto e perché la corrispondenza
suono segno é più diretta. Questo non significa in alcun modo che sia superiore, perché delle scritture
ideografiche hanno delle potenzialità espressive ed estetiche totalmente diverse. La scrittura viene appresa
da prima storicamente dalle classi superiori o da professionisti della scrittura. É un fenomeno relativamente
recente nella storia quello dell’istruzione universale, per cui una specifica istruzione, la scuola, insegna a
leggere e a scrivere alla totalità possibilmente della popolazione. 

L’apprendimento della scrittura è differente ed é:


• graduale (seguendo un processo programmato negli anni);
• basato su un rapporto di autorità tra chi insegna e chi impara;
• lineare (una lettera dopo l’altra).

L’apprendimento della scrittura é un processo enorme nella storia, perché ha riguardato milioni di persone
che sono state messe in grado prima di tutto di leggere e scrivere e poi, attraverso la capacità di leggere e
scrivere, di imparare nozioni di storia, di geografia ecc… Avendo una formazione che in precedenza le
persone analfabete non potevano avere. L’apprendimento della scrittura é comunque un apprendimento
molto differente da quello della parola parlata. Non ha niente di spontaneo. Non nasce dall’ambiente, dalle
relazioni. É un apprendimento organizzato dove ci sono dei professionisti dell’insegnamento che
contemporaneamente hanno una forma di autorità sui loro allievi e dove i primi seguono dei loro programmi
specifici. 

La differenza fra oralità e scrittura inizia già dalla diversa modalità di apprendimento, meno regolata nel
primo caso, più sistematica nel secondo.
L’oralità ha caratteristiche maggiormente espressive perché congiunge la parola ad altri elementi
comunicativi quali: il volto, i gesti o i toni della voce, che introducono nello scambio verbale aspetti tipici della
comunicazione non verbale.
La scrittura è maggiormente standardizzata, tanto più dopo l’avvento della tecnica della stampa, e
soprattutto più duratura nel tempo.
Tutto questo si è comunque modificato nel corso del ‘900, con lo sviluppo dei media visivi e audiovisivi in cui
l’oralità non è più volatile. E con le forme di scrittura legate alla rete in cui domina la simultaneità.

Fino al nostro secolo, il mondo dell’oralità e quello della scrittura erano due universi complementari ma
separati, non solo perché esistevano una grande quantità di persone che parlavano ma non sapevano
leggere e scrivere, ma anche perché si trattava di due forme comunicative nettamente distinte. L’oralità é
una forma comunicativa spontanea, espressiva e fino al ‘900 volatile. Il proverbio latino é Verba volant,
scripta manent. La scrittura aveva tra le sue caratteristiche fondamentali l’essere conservabile, duratura nel
tempo e anche il seguire alcuni standard fondamentali, sia dal punto di vista proprio delle forme grafiche
(soprattutto con l’avvento della stampa), sia dal punto di vista che essere più grammaticalmente più curata e
accurata di quanto sia l’oralità. Molte persone che scrivono un perfetto italiano nell’oralità possono usare
espressioni dialettali, possono usare espressioni scarsamente accurate sotto il piano grammaticale. Nel
corso del ‘900 cos’é successo? 
Prima di tutto é stato possibile dare una durata anche all’oralità con: la registrazione sonora, il fonografo, il
disco, il registratore. Lo stesso accade successivamente, con la registrazione audiovisiva tramite: il film
sonoro e poi anche il video, fino alle forme di registrazioni attuali che si possono fare semplicemente con un
telefonino.
Ma d’altra parte noi abbiamo sempre di più, soprattutto nel linguaggio di una rete un sovrapporsi di oralità e
scrittura: ad esempio quando si scrive un messaggio SMS o WhatsApp si scrive un messaggio che é scritto,
perché ovviamente la sua forma é scritta ma ha la velocità e spesso la casualità di una comunicazione orale.

Gli strumenti di comunicazione come ogni tipo di strumento possono non funzionare perfettamente.
Ci possono essere varie cause per cui una comunicazione viene interrotta o crea difficoltà di comprensione
reciproca. Una di queste può essere guasto tecnico del canale, come accade quando si interrompe la linea
telefonica o si creano dei disturbi che rendono difficile la decodificazione del messaggio da parte di chi
ascolta o legge. Ci possono essere dei motivi di incomprensione legati ai significati dei messaggi.

Non sempre la comunicazione funziona. Questo é un aspetto che dovremmo sempre considerare quando
parliamo della comunicazione umana. Prima di tutto, non sempre la comunicazione funziona per motivi
materiali, oggettivi.
Pensiamo ad un persona resa afona da un forte raffreddore, che cerca lo stesso di parlare, ma le altre
persone non capiscono cosa sta dicendo. O pensiamo ad una situazione in cui due persone parlano in una
condizione di forte rumore o pensiamo sempre alla condizione in cui siamo al telefono con qualcuno e cade
la linea.
Sono tutte situazioni oggettive e tecniche di interruzione della comunicazione. Ma non ci sono solo queste.
Ci possono essere forme di difficoltà della comunicazione che sono dovute piuttosto a quello che si sta
dicendo e non a come lo si sta dicendo. 

Secondo la definizione di un vocabolario, il malinteso è un equivoco provocato da un errore di valutazione o


interpretazione, a cui si collegano i sinonimi di fraintendimento e qui pro quo.
Il malinteso si verifica quando colui o colei che riceve il messaggio lo interpreta in modo diverso da quello
che intendeva chi lo ha inviato.
Ma di chi è la responsabilità?
Il saggista Michel Montaigne diceva: «la parola è per metà di chi la dice e per metà di chi l’ascolta».
 Non è detto che la responsabilità sia del primo o del secondo, a volte è di entrambi, a volte del fatto che
senza rendersene conto si fa riferimento a un vocabolario in parte diverso, o di altri motivi ancora. 

Parliamo del malinteso. Ci sono altre espressioni per questo concetto, come ecc… Il malinteso si verifica
quando due persone non si capiscono: quando una persona intende dire qualcosa e una persona la intende
in modo differente.
É sbagliato ragionare sul malinteso nei termini in cui sono spesso usati di chi si é espresso male, ovvero chi
ha capito male.
Tante volte, dopo il malinteso, il passaggio successivo che crea molti malintesi é: «non hai capito!Non sei tu
che ti sei espresso bene!! Ecc…
Il malinteso si crea semplicemente perché le parole non sono necessariamente dotate dello stesso
significato o dello stesso contesto, per chi le dice o per chi le ascolta. 

Che nella comunicazione si generino a volte dei malintesi è inevitabile. Le parole, le espressioni, i gesti, non
hanno mai significati assoluti e certi.Varie cause possono condurre a un fraintendimento.
Nella comunicazione in presenza possono pesare i problemi di udibilità della voce, o i rumori di ambiente,
o anche la mancata coerenza reale o apparente tra cose dette e le espressioni del volto.
Ma il malinteso può essere anche connesso alla scrittura, con errori dovuti alla fretta o alla difficoltà di
decifrazione: si vedano i messaggi inviati tramite sms o WhatsApp. La fretta in generale può favorire la
cattiva comprensione.

Il malinteso non é sopprimibile in modo totale nella comunicazione umana. É sempre possibile ed é parte
della comunicazione considerare i malintesi e il cercare di affrontarli, anche perché la comunicazione umana,
in particolare la comunicazione orale, si svolge su più livelli: un livello per esempio é caratterizzato dalla
parola in quanto tale, ma un altro livello é rappresentato dal gesto, dal tono e così via.
Una persona può dire una certa frase con un tono che l’altra persona interpreta come ironico e questo porta
a far sì che alla frase sia dato un significato del tutto diverso dal significato letterale, ma magari l’altra
persona non intendeva essere ironica e questa impressione é stata solo di chi l’ha ascoltata. Ma anche nella
scrittura si creano malintesi, spesso anche solo per la fretta con cui i messaggi sono mandati, che quindi può
provocare la caduta di spazi tra le parole oppure errori di battitura e così via. Tutto questo, come sappiamo
dalla nostra normale esperienza, può creare malintesi fino a sbagliare luogo di appuntamento o un’ora di
appuntamento come sarà capitato a ciascuno di voi sicuramente. 

Il malinteso può essere occasione di divertimento fra giovani e adulti proprio per le assurdità o situazioni
paradossali che ne derivano.

Ma in molti casi ne derivano conseguenze meno piacevoli e non soltanto legate alla comunicazione in lingua.
Tutto ciò è connesso sia a livello di pratiche comportamentali (es. cattiva comprensione di segnali stradali)
che di tipo relazionale: come accade spesso all’interno dei rapporti affettivi, soprattutto di tipo amoroso.
Spesso da un malinteso può nascere anche una catena di malintesi successivi, dovuti al risentimento o al
fatto che ciascuno pretende sia l’altro a riconoscere il proprio errore.

Spesso i malintesi danno luogo anche ad effetti comici. La storia del cinema comico, per esempio é piena di
soluzioni di malintesi, compreso un film celeberrimo come Luci della città di Charlie Chaplin, che é tutto
fondato sulla storia di una persona cieca che confonde un vagabondo con un riccone e da lì si svolge tutto il
film.
Ma i malintesi possono dar luogo a situazioni molto più complesse, anche a situazioni sgradevoli. Più è
emotivamente carica una situazione, più é facile che si verifichino dei malintesi.
Per esempio, nei rapporti amorosi si verificano sempre dei malintesi e uscirne é un aspetto complicato,
perché molto spesso ad ogni malinteso ne seguono altri, fatto per cui si crea una catena e ciascuno di quelli
che sono coinvolti può provare verso l’altro delle forme sempre più di risentimento o pretendere che sia
l’altro a riconoscere l’errore senza voler riconoscere quello che noi stessi abbiamo fatto.

Uscire da un malinteso è una delle esigenze che si presentano spesso nella comunicazione tra le persone,
perché non capirsi o capirsi male è frequente. A volte lo scioglimento è relativamente semplice, e può
avvenire con una risata, quando gli interlocutori si rendono conto delle cause del fraintendimento. A volte
richiede uno sforzo più articolato, anche sul piano delle relazioni: per esempio la disponibilità a scusarsi, per
essere stati possibili responsabili del fraintendimento, e quella a porre rimedio alle eventuali conseguenze
negative.
Come tutte le cose umane la comunicazione può avere delle conseguenze. Non solo i malintesi.
 
Come si possono creare delle catene di malintesi, così si possono creare dei processi di uscita del
malinteso. Non possiamo pensare che sia semplicemente il fatto di dire qual è il significato giusto delle
parole che sono state dette.
In molti casi il malinteso crea non solo una situazione di incomprensione sulla parola, sulla frase ecc… Ma
anche una situazione di incomprensione che ne tira in ballo altre precedenti o semplicemente le differenze
che sono inevitabili tra gli esseri umani e che nelle situazioni di malinteso si propongono con particolare
evidenza.
Sciogliere il malinteso é uno fra gli aspetti più delicati della comunicazione umana. A volte può avvenire in
modo semplice e spontaneo con una risata, ma a volte richiede dei gesti prima di tutto di presa di distanza
dal proprio comportamento passato: chiedere scusa o delle azioni alfine di  porre rimedio a quello che c’è
stato di negativo.
Tutta la comunicazione umana é piena di possibili conseguenze: il malinteso ne é solo un esempio.

2.
Medium è una parola latina, anche se ci è arrivata dalla lingua inglese. Significa mezzo di comunicazione,
strumento che ci permette di veicolare un messaggio, o anche di produrlo, di riceverlo, di conservarlo. 
Così per esempio la scrittura è un medium, e ci permette di produrre un testo, di passarlo da una persona
all’altra, e anche di preservarlo per il futuro.
Molti mezzi di comunicazione sono il frutto di invenzioni tecnologiche: per esempio la stampa, o il telefono, o
la radio. Ma il medium non é necessariamente uno strumento tecnico. Ci sono dei media e forme di
comunicazione che fanno addirittura parte del nostro corpo, come: i gesti, le espressioni del volto, o che
comunque vengono da dentro il nostro corpo come la voce, che ci permette naturalmente di parlare,
comandata dal cervello che elabora la parola parlata.

Una parola latina. Per questo è più corretto dire mèdium e non, come molti fanno, “midium”.
Il plurale è, secondo la declinazione latina, media. La parola viene usata al plurale più spesso che al
singolare, per ricordarci la varietà degli strumenti di comunicazione esistenti. 
La comunicazione umana ha sempre usato una varietà di media, che negli ultimi secoli, ha continuato a
crescere.

 Perché la comunicazione umana ha bisogno di più media?

• Perché comunicare significa agire su diverse facoltà, intellettuali ed emotive;


• Perché ogni mezzo di comunicazione non solo veicola i messaggi diversamente, ma veicola
messaggi diversi; 
• Perché i mezzi di comunicazione agiscono su sensi differenti. 

La comunicazione umana non é monomediale, é sempre stata multimediale, anche se questa parola é
diventata di moda negli ultimi anni. 
É sempre stata multimediale perché i diversi mezzi divengono complementari tra di loro, oltre che differenti,
perché per esempio, se io mentre parlo gesticolo, uso due mezzi: quello espressivo proprio della
gesticolazione, e quello più articolato relativo alla parola. Ma la persona riceve il messaggio sia dalla vista
che gli permette di osservare i miei gesti, sia dall’udito che gli fa ascoltare le parole. 

“Il medium è il messaggio”. Il canadese McLuhan espresse così, quasi con uno slogan, la sua idea più nota.
Ogni mezzo di comunicazione non si limita a trasferire contenuti da un soggetto a uno o più altri, ma veicola
propri messaggi.
Possiamo dire le stesse parole attraverso mezzi diversi: a voce, scrivendole su un biglietto, stampandole,
inviandole con un messaggino. Anche se le parole restano identiche, il messaggio non è lo stesso. Se
vengono dette a voce sono generalmente parte di uno scambio, e acquistano significato anche dal dialogo.
Se sono stampate sono invece fissate anche nel tempo e acquistano l’autorità propria del mezzo-stampa.
Gli studi sulla comunicazione si erano fino ad allora concentrati sui linguaggi usati, sui soggetti interessati,
sui contenuti dei messaggi; McLuhan spostò l’attenzione sul canale (il medium) e anche sull’ambiente (il
contesto).

Il mezzo non é indifferente. Non é il semplice portatore di un contenuto, che, se é lo stesso in termini di
parole dette, é identico anche in termini di contenuto. Se noi diciamo ad una persona una frase a voce, la
diciamo spesso come parte di una conversazione e questa frase rimarrà anche nella memoria di chi la
ascolta come parte della conversazione.
Se noi mandiamo un messaggino, si tratta di una frase unilaterale a cui magari si replicherà con un altro
messaggino, ma non sarà esattamente la stessa cosa, perché questa frase scritta resterà anche nel tempo e
per esempio, riandando sui messaggini, la persona la ritroverà e le attribuirà un significato diverso rispetto a
quello che aveva in origine. Sono esempi molto semplici del fatto che media diversi veicolano messaggi
diversi. Questa importanza del medium nel definire il messaggio é stata la scoperta più importante di
Marshall McLuhan.

Sempre secondo McLuhan i media sono estensioni degli organi umani. Il loro sviluppo nasce dall’esigenza di
potenziare le funzioni del nostro corpo, estendendole nello spazio ma anche nel tempo.
Così per esempio il telefono “estende” la nostra voce nello spazio permettendoci di raggiungere anche
grandi distanze: oggi, grazie ai satelliti, tutto il pianeta. Così il registratore “estende” la nostra voce nel
tempo, e grazie a questo medium oggi possiamo ascoltare le voci di persone morte anche da molto tempo.

Estensione dei sensi: estensione dell’umanità. Questo é per Marshall McLuhan il medium, che può essere
compreso soltanto collegandolo con le facoltà di cui rappresenta un potenziamento, ma anche un
prolungamento. Voi adesso state ascoltando la mia voce, in un momento diverso in cui parlavo, perché
questa voce é conservata attraverso la registrazione ed é ritrasmessa attraverso il computer, ma é
comunque l’estensione della voce di una persona. Voi riconoscete comunque una persona e la sua voce
arriva verso di voi attraverso dei mezzi tecnici che le permettono di andare oltre i suoi limiti naturali.
Un mezzo di comunicazione o medium è fatto di tanti elementi. Spesso pensiamo che l’unica cosa che conta
sia la tecnologia ma non è vero. 

Pensiamo che cosa sarebbe accaduto se lo sviluppo della stampa non fosse stato sorretto, negli ultimi tre
secoli, dalla crescita dell’istruzione, fino all’obbligatorietà della scuola di base.

La tecnologia della stampa permetteva la produzione di massa di libri e giornali, ma solo la diffusione
dell’istruzione ha creato un pubblico di massa.
La tecnologia non avrebbe cambiato molto, senza i lettori.
Quando si parla di media, il primo contatto, la prima associazione che facciamo é con una tecnica, per cui la
radio é la tecnologia scoperta da Marconi del trasferimento dei segnali sulle onde dell’etere; mentre il
cinema, é legato alla tecnologia messa in campo dai fratelli Lumière, dell’immagine in movimento. Ma un
mezzo non é mai fatto solo di una tecnologia, anche se essa é importantissima. Per esempio, la stampa ha
avuto bisogno della scuola, e la televisione é stata resa possibile oltre che dalla tecnologia televisiva, dal
fatto che nelle case di milioni di persone (incluso il proletariato, cioè il ceto che lavorava senza avere grandi
redditi) é stato possibile  tramite l’elettricità stabilire collegamenti, motivo per cui la televisione é diventata
uno dei tanti elettrodomestici. Se la televisione non fosse stata un elettrodomestico tra gli altri, con la
lavatrice, o il frigorifero, la situazione sarebbe stata molto differente. 
Quindi, non solo la tecnologia, ma anche il contesto sociale e culturale sono determinanti per un mezzo di
comunicazione.

Quanti tipi di media esistono?


I media di cui oggi disponiamo sono in grande numero. E’ quindi importante stabilire delle distinzioni, e
anche classificarli in tipi differenti, in modo da orientarci in questo complesso universo.
Anche perché a diversi tipi di media si possono applicare regole differenti: per esempio per la posta e il
telefono vale nel nostro stato un principio, quello della riservatezza: il nostro diritto a inviare e ricevere
messaggi privati senza che altri possano interferire. Regola che non si applica ad esempio alla televisione,
perché i messaggi che invia sono per definizione pubblici.

Oggi ci sono moltissimi mezzi di comunicazione e continuano a nascerne di nuovi. Pensate a queste forme
di comunicazione nate da quando avete cominciato a comunicare 15 o 18 anni fa. L’espansione, la quantità
e la varietà dei media rendono necessario, per chi vuole studiarli, cominciare a stabilire delle distinzioni di
base. Queste distinzioni sono di varia natura. Sono di natura tecnologica, culturale ed anche di natura
giuridica. Ci sono dei media sottoposti a regole differenti, per esempio i mezzi atti a trasportare nostri
messaggi personali (posta o telefono) che sono soggetti al principio della privacy o della riservatezza, che
non vale per mezzi differenti.

Generalmente si parla di “media di massa” che portano a un grande pubblico i messaggi inviati da singoli
emittenti, e di media “personali”, che ci fanno comunicare tra singole persone. Sono media di massa il
giornale, il cinema, la TV, ecc. Sono media personali la posta, il telefono, oggi le messaggerie tipo sms.
L’opposizione tra mass media e personal media è molto radicata nel senso comune, e generalmente quando
si dice “i media” si parla soprattutto degli strumenti per la comunicazione di massa: la stampa, il cinema, la
radio, la televisione e, adesso, genericamente Internet. E’ un uso diffuso come quello della parola
“mediatico” per dire di qualcosa che ha acquistato visibilità grazie ai media di massa. Ma è un uso spesso
schematico.

Le parole medium e media sono arrivate soprattutto dall’inglese (da cui l’espressione mass media): mezzi di
comunicazione di massa. Quando si dice i media o il potere dei media, si pensa generalmente a loro. In
particolare, i media più potenti e diffusi, a cominciare dalla televisione, sono oggi anche alcuni dei canali
diffusi via internet. Ma non ci sono solo i mezzi di comunicazione di massa, ma anche quelli di
comunicazione personali che invece si suppone parlino da persona a persona, da piccolo gruppo a piccolo
gruppo. Questa tra mezzi di massa e mezzi personali è una delle distinzioni principali tra i media.

Ci sono solo media di massa e personali? Questa opposizione non tiene conto di altre possibilità:
- la comunicazione da uno a molti;
- la comunicazione da molti a molti.
Mentre la comunicazione “di massa” è rivolta a un numero potenzialmente illimitato di lettori/spettatori, ci
sono forme di comunicazione rivolte a pubblici più ristretti, ma comunque da un solo emittente a una pluralità
di destinatari. Come accade in un’aula di lezione, o in una conferenza.

Ci sono forme di comunicazione diverse dalla comunicazione di massa, ma che ne hanno alcune
caratteristiche. Prendiamo ad esempio una lezione in un’università o una scuola media. 
C’è una persona che parla ed altre persone che eventualmente, col consenso di chi parla, cercano di fare
qualche domanda e di intervenire; ma comunque resta chiara la differenza fra un pubblico e una persona
che ha diritto alla parola. Però, questo pubblico non è di massa, ma oggettivamente limitato dai muri stessi
dell’aula in cui si trova. Parleremo in questo caso da una comunicazione da uno a molti e non di una
comunicazione di massa come succede per la televisione.
E ci sono forme di comunicazione che prevedono un gran numero di emittenti e insieme di destinatari.
Ad esempio, Facebook può essere definita “da molti a molti” perché, a differenza di un programma
radiofonico o televisivo (“di massa”), permette a tutti di partecipare senza filtri ma, a differenza di una
comunicazione interpersonale, i suoi contenuti sono aperti a un gran numero di persone, che possono a loro
volta rispondere.  Un mio messaggio può raggiungere anche migliaia di persone, o poche decine, ma al
tempo stesso tramite lo stesso canale io sono potenzialmente destinatario di altri messaggi
In generale la comunicazione via Internet sfida alcune distinzioni classiche tra i media.

Prendiamo per esempio una manifestazione per strada. Ci sono tante persone che sfilano e comunicano
messaggi con gli slogan che gridano (magari con le canzoni che cantano), gli striscioni, i cartelli. Sono molti
che comunicano e comunicano a molti, agli stessi manifestanti, ma anche alla folla che si raduna attorno. E
magari lanciano anche un messaggio di massa, che é anche quello che viene ripreso dalle televisioni, dai
giornali e che viene trasmesso attraverso questi media. In linea di massima si tratta però di una
comunicazione da molti a molti. 

Anche Facebook é una forma di comunicazione da molti a molti. Io, essendo parte di quella che viene
chiamata la comunità di Facebook, posso lanciare i miei messaggi anche a pubblici che vanno da poche
unità a centinaia, migliaia o milioni, e, al contempo, ricevere messaggi di singoli amici o di massa.
Facebook é un mezzo da molti a molti, ma in realtà Internet é un mezzo che complessivamente tiene
insieme forme di comunicazione molto differenti tra di loro (oralità e scrittura, mezzi di comunicazione orali e
personali e da molti a molti).

Un’altra distinzione fra tipi di media, molto discussa ma molto attuale, è quella introdotta sempre dal critico
letterario canadese McLuhan, per il quale due tipi di media, quelli cool o “freddi” e quelli hot o “caldi”, i
primi più aperti alla partecipazione di tutti, i secondi basati su una netta distinzione tra emittente e
destinatario. E’ un medium freddo il telefono, che ha bisogno della partecipazione di tutti gli interlocutori,
caldo il libro, che divide nettamente il ruolo dell’autore da quello del lettore.

La distinzione gli venne suggerita da due tipi diversi di jazz, quello tradizionale, hot jazz, e quello moderno,
cool jazz.
Lo hot jazz riprende un brano e lo elabora conservandone la struttura di fondo.
Il cool jazz può partire da un brano ma lo esegue ogni volta diversamente, lasciando tutti i musicisti liberi di
improvvisare.
Per McLuhan, i media “caldi” fissano stabilmente i loro contenuti, chi riceve il messaggio può ovviamente
elaborarlo mentalmente ma non interagisce apertamente.
I media “freddi” danno spazio al pubblico per modificare i messaggi, che sono ogni volta diversi grazie alla
sua partecipazione.

Negli anni ’50 e ’60, quando McLuhan cominciò ad elaborare la sua teoria dei media, tuttora molto influente,
si parlava molto di cool jazz, di un nuovo tipo di musica jazz (sempre ricordando che questa é una delle più
importanti innovazioni musicali del ‘900 ed ha modificato un pò tutti i modi di pensare la musica). Negli anni
’50, questo genere fu rivoluzionato da alcuni musicisti che introdussero una forma di musica più
improvvisata, variata, molto meno fedele alle melodie originali di quanto fosse stato lo stesso Jazz negli anni
e nei decenni precedenti.

Ispirandosi al cool Jazz, McLuhan parla di mezzi di comunicazione freddi, che richiedono cioè non
semplicemente il ripetere nella nostra mente e il nostro suonare il jazz, ma a ricostruirlo, dandogli un senso
completamente differente.
I media ad alta definizione che ci danno contenuti completi capaci di assorbire tutta la nostra attenzione,
sono “caldi”. Quelli a definizione più bassa richiedono invece la nostra partecipazione, così come i media
interattivi, dal computer al videogioco.
Il cinema, che ci mostra immagini ad alta definizione, è “caldo”, al contrario della televisione, le cui immagini
vengono integrate dalla nostra mente, perché lo schermo ci trasmette sempre solo una parte delle
informazioni, che siamo noi stessi a completare. Come accade in molti schermi elettronici.

La distinzione tra media caldi e freddi è legata anche a un aspetto a cui spesso non si presta sufficiente
attenzione: la definizione. Questa é il rapporto tra un messaggio e la quantità di informazioni che ce lo
veicolano. Se un messaggio ci viene veicolato a partire da una bassa quantità di informazioni, é definito a
bassa definizione, che arriva spesso incompleto, con degli elementi di vaghezza e con caratteristiche tali che
solo il nostro intervento mentale permette di coglierne tutto il senso. Il messaggio ad alta definizione ci arriva
invece molto carico di informazioni. Non si tratta di quali delle due forme sia più bella o più brutta. Troppo
spesso si tende a pensare che la musica ad alta “fedeltà” sia più bella di una musica a bassa “fedeltà”. In
realtà si tratta di due modi diversi di comunicare e la bassa definizione ci invita più a partecipare di quanto
non faccia l’alta definizione.

La stessa distinzione tra “caldo” e “freddo” si applica anche alle epoche storiche. In tutte le epoche
convivono media di diverso tipo, ma ci sono epoche dominate dalla comunicazione “calda”, per esempio l’età
in cui la forma di comunicazione più autorevole è stata la stampa: 
Con la televisione e poi con il computer siamo entrati in un’epoca “fredda”: questo ci ha portati
paradossalmente a forme di comunicazione e civiltà che possono sembrare, ma con tecnologie e cultura
moderne: “un villaggio globale”, dove l’informazione non viene “coltivata” in modo sistematico come nel
tempo del libro e delle biblioteche, ma raccolta quando serve.

La distinzione tra caldo e freddo non riguarda solo i singoli media, ma anche la storia della comunicazione
nel suo complesso e i diversi periodi storici che la compongono. Ci sono state epoche calde, come l’epoca
della stampa, dal ‘400 all’invenzione della televisione ed oltre. Che cos’ha di caldo quest’epoca? Non il fatto
che ci siano solo forme di comunicazione calde come la stampa. Ci sono sempre forme di comunicazione
fredde: la gente continua a conversare, cosa che comporta la compartecipazione di tutti. La gente continua
da un certo momento in poi a usare media per definizione freddi, come può essere il telefono ecc… Però la
stampa, con la sua notevole autorevolezza, con la sua forza regolativa, rimane il medium di riferimento e
l’epoca é calda, dominata dai media caldi. Ci sono epoche invece per definizione fredde come le civiltà prima
dell’invenzione della scrittura, non hanno forme di comunicazione che definiscono distinzioni nette fra
emittente e destinatario. Il paradosso per McLuhan é che noi siamo tornati oggi, ma con la potenza di
tecnologie sempre più avanzate, a forme di comunicazione fredde, anzi, a un’epoca fredda dove a dominare
tutto sono media partecipativi, a cominciare nel nostro tempo da Internet.

Un medium è fatto di tanti elementi: generalmente una tecnologia, ma anche un sistema organizzativo, e le
abitudini di uso del pubblico. L’affermarsi di un nuovo medium passa attraverso tutti questi aspetti, ed è un
processo complesso che spesso richiede parecchi anni.

Proviamo ora a raccontare lo sviluppo di un medium importantissimo per la nostra civiltà, la fotografia. Nel
1982 prima dell’affermarsi dei media digitali, come il computer e poi il cellulare, si calcolava che si
scattassero nel mondo due miliardi di foto l’anno. Oggi la cifra è difficilmente calcolabile, ma sicuramente
molto superiore.
Quante fotografie vediamo in un giorno? Come si è affermato questo medium?
La fotografia è stata inventata circa 180 anni fa e poi si è progressivamente moltiplicata, tanto che oggi
vengono prodotti molti miliardi di fotografie ogni anno e oggi ciascuno di noi vede ogni giorno, magari senza
rendersene conto, senza farci caso, molte centinaia di fotografie.
Le fotografie a volte sono oggetto di una grande attenzione. Ci sono fotografie che osserviamo
analiticamente, che riguardano qualcosa di significativo per la nostra vita, ma possono essere qualcosa di
uno sfondo che può esserci indifferente. Come si suol dire, le vediamo con metà del nostro occhio. 
 
L’idea della fotografia si basa su un incontro di due elementi. Uno é molto antico, per cui, guardando in un
foro praticato in un supporto, si vede l’immagine rovesciata del mondo che abbiamo davanti. É la tecnica
detta della “camera obscura”, che conoscevano anche gli antichi greci e che viene messa a punto nel
Rinascimento, ma l’immagine della camera oscura é volatile. Sostanzialmente c’è quando noi guardiamo.
Quello che invece accade con l’invenzione della fotografia nell’800 in Francia, é che viene inventato uno
strumento di tipo chimico per fissare l’immagine della “camera obscura” e mantenerla nel tempo.
Inizialmente, questa tecnica si chiama dagherrotipo, che viene brevettata dal suo inventore Auguste
Daguerre e poi messa a disposizione all’intera umanità dal senato francese, dopo aver acquistato a sua
volta dallo stesso Daguerre il suo brevetto, diffondendosi comunque all’interno di uno stretto gruppo di
persone che conosceva la chimica e questa tecnologia.
Ma il dagherrotipo era complesso e costoso, perché erano costosi i materiali che usava, perché i tempi di
realizzazione di un’immagine erano lenti e richiedevano lunghi periodi di posa, perché bisognava avere
nozioni di fisica e di chimica. Inoltre ogni “scatto” produceva una sola immagine, che spesso veniva
indossata come un gioiello. A praticare la nuova tecnica furono inizialmente in pochi: artigiani o in qualche
caso persone di grandi mezzi che ne fecero un hobby. 
Qualche anno dopo una nuova tecnica, detta “calotipo” venne introdotta da un inventore inglese, William
H.Fox Talbot. Nasceva il “negativo” fotografico con la possibilità di stampare molte copie di una stessa
immagine, ma la tecnica era ancora molto complessa.

Inizialmente, il dagherrotipo messo a disposizione dell’umanità dal senato francese era comunque uno
strumento relativamente per pochi. O se ne faceva un mestiere, creando uno studio fotografico in cui un
artigiano che ne aveva imparato le tecniche, a pagamento produceva dagherrotipi per altre persone (veniva
usato soprattutto per il ritratto), oppure erano pochi aristocratici o alti borghesi che potevano praticare come
hobby questo tipo di medium.
Solo successivamente, nell’Inghilterra degli anni ’50 dell’800 vengono inventate nuove tecniche fotografiche
che hanno una caratteristica molto importante, cioè, creano un negativo da cui si possono stampare tanti
positivi tutti fedeli all’originale. La tecnica della fotografia si incontra con la stampa ed è possibile riprodurre
quelle “riproduzioni” tecniche della realtà che sono le fotografie, ma è ancora una tecnologia riservata a un
numero limitato di persone.

Nel 1888 un imprenditore statunitense, George Eastman, lanciò una macchina completamente nuova. Si
chiamava Kodak, un nome di fantasia scelto perché facile da pronunciare in diverse lingue, e lo slogan era
“Voi schiacciate il bottone, Kodak fa il resto”. In questo modo la macchina fotografica diventava possibile da
usare anche per persone senza particolari competenze.
Un mezzo costoso e riservato a pochi cominciava a diffondersi tra milioni di utenti, e le fotografie
cominciavano ad affiancare l’informazione giornalistica.
Tra l’altro é interessante notare che la Kodak introdusse insieme con questa novità (diciamo pure
commerciale) delle innovazioni tecnologiche che avrebbero influenzato il futuro, come ad esempio la
pellicola (con essa nacque la possibilità del cinema) e l’istantanea, cioè la fotografia scattata in una frazione
di secondo, che permette alle persone di farsi fotografare senza stare in posa a lungo com’era necessario in
precedenza.
La fotografia diventa così un fenomeno assolutamente diffuso e la macchina fotografica diventa, dopo la
macchina da cucire, il primo strumento tecnologico complesso ad entrare nelle case di milioni di persone.

Quando nascono dei media innovativi, la tendenza è pensare: “beh, è la morte di quelli precedenti”. Ad
esempio, perché la gente dovrebbe continuare ad ascoltare la radio quando ci sono le immagini? Perché la
gente dovrebbe continuare a utilizzare il telefono quando esistono forme di comunicazione successive e più
“evolute”? In realtà le cose non vanno del tutto così ma è difficile estirpare questo modo di pensare dal
senso comune. 
Analogamente, oggi si discute sulla “morte” della televisione grazie al trionfo di Internet e così via.
In realtà le cose non sono mai così semplici: per esempio, il più grande successo di questi ultimi venti anni è
stato un incontro tra due “vecchi” media: radio (1895) + telefono (1878) = telefono mobile. Poi telefono
mobile (anni 1970) + personal computer (anni 1980)= smart phone.
Tra i diversi mezzi si stabiliscono forme di interdipendenza oltre e più che di competizione.

La comparsa di un nuovo medium non corrisponde necessariamente alla morte dei precedenti, perché i
media non esistono nel vuoto che separa l’uno dall’altro. Esistono anche in un gioco continuo di
interdipendenze e possiamo dire anche di fecondazioni reciproche. Molti mezzi che sono nati nel corso del
tempo sono nati dall’incrocio di mezzi precedenti. Lo stesso cinema che noi conosciamo è nato dalla
fotografia, animata e diventata in movimento, peraltro grazie alla pellicola Kodak e ad altre innovazioni, ma
anche dall’incontro tra la fotografia e una forma tradizionale di spettacolo che rappresentava la proiezione
dell’immagine sullo schermo. Quindi, la possibilità che un nuovo medium sopprima il vecchio spesso è
pensata non tenendo conto del fatto che i nuovi media spesso sono fatti di vecchi media che si incrociano e,
così facendo, si rinnovano. 

Per molto tempo si pensò che la televisione avrebbe preso il posto del cinema. 
Chi sarebbe uscito di casa per vedere un film che poteva vedere comodamente a casa?
Nel 1936 la TV era ai suoi timidi esordi e già Hollywood girava un film con un grande attore dell’orrore, la
televisione veniva presentata come terribile e minacciosa.
 
Ad esempio, inizialmente Hollywood e, in generale, l’industria del cinema in tutto il mondo, si sentivano
minacciati dalla televisione. Si pensava che, a furia di poter vedere film a casa, la gente non si sarebbe
mossa per vedere i film al cinema. La stessa cosa, del resto, è successa con le partite di calcio: la
televisione si sentiva minacciata. Pensate però oggi che, se non ci fosse la televisione, quella a pagamento
in particolare, le società di calcio sarebbero tutte fallite.  La stessa cosa accade per il cinema, e, infatti,
l’industria cinematografica si sentiva talmente minacciata dalla televisione che, a metà degli anni ’30, uscì il
film “La televisione uccide” o “Assassinio per mezzo di televisione” girato da Hollywood proprio per
sottolineare quanto  essa temesse il muovo mezzo e quanto cercasse di scoraggiare gli spettatori.

In effetti, quando una quindicina di anni dopo la TV si affermò realmente negli USA, il cinema rispose
cercando di attirare il pubblico nelle sale con i film a colori che la TV ancora non poteva trasmettere, con
nuovi formati spettacolari possibili solo nelle sale e con i primi esperimenti di cinema in 3D. 
Ma ben presto nacquero generi televisivi che venivano prodotti proprio a Hollywood, come Le avventure di
Rin Tin Tin,  e tra cinema e televisione si stabilì una sorta di divisione del lavoro: in Italia la RAI trasmetteva
film solo in quelle sere in cui le sale cinematografiche non temevano la concorrenza (es. il lunedì). Peraltro,
quando nel 1955 Lascia o raddoppia ottenne un successo inatteso, fu spostato dal sabato al giovedì per le
proteste dei gestori dei cinema: il sabato era la sera di maggiore afflusso.  

All’inizio, tra cinema e televisione sembrava che ci fosse concorrenza e, in effetti, una delle misure a cui
ricorse il cinema del tempo fu di cercare nuove tecnologie, possibili solo nelle sale cinematografiche, che
facessero sentire agli spettatori la differenza tra cinema e televisione. Per esempio il cinemascope, che
diventò il formato progressivamente standard del cinema, per esempio il cinema a colori, quando la
televisione era ancora solo in bianco e nero, e anche i primi esperimenti di cinema in 3D. Del resto anche
oggi, davanti alla moltitudine di immagini via internet, il lavoro sul 3D e sugli effetti speciali è tipico del
cinema contemporaneo. 
Però non andò così. In realtà, la televisione e il cinema si fecero concorrenza solo per poco, poi
cominciarono anche a collaborare. Lo iniziarono a fare attraverso la produzione da parte della stessa
industria cinematografica delle serie televisive, che diventarono uno dei generi di maggior successo e poi la
collaborazione nacque anche a livello di accordi tra le due industrie, come il non trasmettere film o
programmi di grande successo che tengono la gente a casa nelle sere in cui era abituata ad andare la
cinema. Il sabato sera la televisione aveva programmi di varietà anche di grande richiamo, ma il film restava
rigorosamente nelle sale.

La vera e propria “morte” di un medium è stata relativamente rara. Un esempio è quello del telegrafo, che
dopo avere convissuto a lungo con il telefono sembra ora veramente superato, in quanto i mezzi capaci di
trasportare messaggi a velocità maggiore e a un costo molto inferiore sono ormai a disposizione di tutti.
Eppure in Italia il telegramma non è sparito completamente. La tecnologia del telegrafo non si usa più da
tempo, ma il telegramma, messaggio solenne e recapitato a casa, continua a essere usato, per esempio per
occasioni particolari come matrimoni e funerali. Anche il “vecchissimo” telegramma conserva la sua
funzione…

Ci sono dei mezzi che effettivamente sembrano del tutto superati. Non si usa più il telegrafo. Non si usa più
da molti decenni. É stato sostituito da tecnologie successive come la telescrivente e, adesso, decisamente
dalla rete e quindi si potrebbe dire “è morto”. Però il telegrafo non era semplicemente il mezzo elettrico che
trasmetteva messaggi in codice da un punto all’altro. Era anche un rituale. Il fatto che questo mezzo
trasmettesse dei messaggi che arrivavano, venivano recapitati da speciali fattorini nelle case e che venivano
percepiti come solenni o urgenti. E questo, in particolare nel nostro paese, non è morto. Esiste ancora: un
servizio telegrammi e un numero speciale di Telecom per lo stesso servizio. Provate a chiamarlo. Vi dirà:
“per i telegrammi di condoglianze digitate 1, per tutti gli altri digitate 2”. E’ come dire per un certo tipo di rito,
che è caratteristicamente quello funebre, che i telegrammi sono considerati tutt’ora una forma di messaggio
particolarmente adeguata non per la tecnologia, non per la celerità, ma per la solennità che l’accompagna.

3.
Se confrontiamo i mezzi di comunicazione di cui oggi disponiamo con quelli di cui disponevano gli abitanti
delle società più economicamente sviluppati di due secoli fa, la differenza è sorprendente. 

All’inizio dell’Ottocento, un abitante di una grande città come Parigi o Milano, che sapesse leggere e
scrivere, e che avesse a disposizione un reddito adeguato, poteva accedere:

-alla stampa (libri e giornali)  per quanto riguarda la parola scritta;

-al teatro di prosa e operistico per lo spettacolo.


La posta non era ancora un servizio pubblico accessibile a tutti ed era molto costosa.
Pensiamo di essere trasportati dalla solita macchina del tempo in una città di due secoli fa. Siamo nel 1817 e
ci troviamo a: Parigi, Milano, Londra o  Napoli. La cosa che ci sorprende più di tutti é la mancanza di qualche
cosa. Sui muri ci sono poche scritte, pochi manifesti. Non ci sono in giro tanti giornalai, tanti librai e così via.
A comprare i giornali e i libri erano davvero in pochi e non ci sono tantissime altre cose che ci aspettiamo di
vedere in una città perché i media allora erano veramente scarsi di numero.

Tra il 1830 e il 1850 nacquero:


-la fotografia;
-la posta moderna con l’invenzione del francobollo;
-il telegrafo elettrico;
-il giornalismo moderno con le agenzie di stampa; 
-il settimanale illustrato
e si ebbero le prime Esposizioni Universali, grandi spettacoli pubblici della modernità.

La vera rivoluzione fu tra il 1830 e il 1850. Nacquero molti differenti media e forme di comunicazione sul
terreno del visivo, della comunicazione personale (posta e telegrafo) e anche della comunicazione di massa.
Per esempio, nacquero i settimanali illustrati e le forme di romanzo a puntate nei giornali o vendute
separatamente. 

A questi si aggiunsero, tra il 1875 e il 1895:


-il telefono;
-il fonografo che poi diede luogo al grammofono;
-la fotografia istantanea (Kodak);
-il cinematografo appunto;
-la radiotelegrafia.

In realtà ci sono moltissimi mezzi nuovi che compaiono in due ondate tra la fine degli anni ’70 dell’800 e lo
straordinario 1895, anno dell’inaugurazione del cinema, dei primi fumetti ed anno in cui Marconi dimostrò
che le onde elettromagnetiche possono trasferire segnali. 

Nel corso del Novecento ci sarebbe stata una vera e propria moltiplicazione dei media, e oggi siamo
letteralmente circondati dagli strumenti di comunicazione, personali e di massa, “caldi” e “freddi”.
Per renderci conto di questa esplosione pensiamo soltanto al cinema e alle forme di comunicazione che ne
sono nate.
Fino all’ultimo decennio dell’Ottocento non esistevano le immagini in movimento e fino al 1926-27 erano solo
mute. 
Oggi, per il solo campo dell’audiovisivo abbiamo:
-il cinema di sala;
-la televisione classica (oggi digitalizzata);
-la televisione satellitare;
-il DVD;
e, in Internet: Netflix, You Tube, più numerosi altri canali video in rete.

Se noi ci guardiamo intorno, in particolare dopo l’esplosione di Internet, ci sono varie possibilità di accedere
a una sola forma di comunicazione: l’immagine in movimento, che sono notevolmente moltiplicate non solo
rispetto a più di un secolo fa, ma anche relativamente a tempi recenti. Un tempo si poteva andare al cinema,
poi si è potuto guardare la televisione e quello che la tv offriva. Successivamente, a partire dagli anni’ 70
inoltrati c’è stata la possibilità di acquisire le videocassette, diventate poi DVD. Oggi basta andare in rete e
abbiamo una serie di canali che ci offrono video. On demand è la parola d’ordine, perché possiamo
richiederla e ottenerla istantaneamente. 

Pensiamo anche ai tanti modi che abbiamo di ricevere uno stesso messaggio: per esempio, uno stesso
video può essere guardato in sala, sul televisore, sullo schermo del computer, sullo schermo del cellulare. 
Può essere seguito in locali appositi, destinati al grande pubblico, dove vediamo un film insieme con una
folla in gran parte sconosciuta. Può essere seguito nella nostra abitazione, come parte di un flusso di
programmi o per mezzo di un “lettore”. Può essere guardato sulla nostra scrivania, o anche su un mezzo
pubblico.

Non solo si è moltiplicata l’offerta di video e immagini in movimento, ma questa offerta ci raggiunge in molti
luoghi e modi diversi. É ovviamente diverso vedere un film in compagnia di decine o centinaia di altre forme
che non conosciamo, con spettatori che magari ridono simultaneamente a noi e vederlo poi magari sul
nostro cellulare, mentre siamo in una situazione tipo l’attesa di un treno.
Sono tanti i media di cui ci serviamo, e ce ne sono anche tanti che comunque esistono sebbene nella vita
ordinaria non siano molto visibili. 
Per esempio il RADAR, introdotto nella seconda guerra mondiale come strumento di guerra, è tuttora
essenziale per il controllo del traffico aereo. E moltissimi dei programmi informatici esistenti sono destinati a
scopi strettamente professionali, ma sono comunque parte dell’universo informatico in cui viviamo, e
possono passare prima o poi da un uso specialistico a un uso generalizzato. E’ il caso di alcuni programmi
per il montaggio dei film o dell’audio, che oggi sono diventati di utilizzo comune, facendo del montaggio una
pratica diffusa.

UNA MAPPA DEI MEDIA

Non tutti i media di cui disponiamo sono media che vediamo immediatamente in giro, sul nostro cellulare e
così via.
Il radar è stato inventato per la guerra aerea alfine di individuare i velivoli che si stavano avvicinando per fermarli con la batteria
contraerea o altri mezzi. Adesso il radar è di uso generalizzato e strettamente professionale. Si vede ad es nella torre di controllo degli
aeroporti per controllare il traffico aereo. Però esiste ed è parte del nostro sistema dei media, così come sono parte dei nostri sistemi di
comunicazione i programmi che servono per scopi professionali, che noi generalmente non abbiamo neanche sentito nominare. 

Poi può succedere che un programma come Première, che era nato per un uso essenzialmente
professionale diventi di uso comune, così una pratica strettamente professionale com’era una volta il
montaggio adesso sta diventando alla portata di molti, anche di voi che mi ascoltate.

Nell’insieme, i media che ci circondano interagiscono e si integrano tra loro, costituiscono un sistema: il
ruolo di ciascuno di essi è definito non solo dalle sue caratteristiche intrinseche ma anche dalle sue
relazioni con gli altri media. 
Così lo sviluppo del telefono ha inciso sulla posta, riducendone l’uso più corrente, e riservandola per le comunicazioni a maggiore
distanza e per i lunghi messaggi, e oggi l’uso del telefono cellulare sta incidendo sull’uso di quello fisso.

Quando arriva un nuovo mezzo di comunicazione l’effetto che ha non é tanto quello di sopprimerne
uno preesistente, ma quello di cambiarne il ruolo.
Tutti continuiamo a tenere nelle case il telefono fisso, perché comunque un numero sull’elenco telefonico costituisce un modo di
renderci raggiungibili, però il telefono nelle case è usato sempre più raramente. Anche nella nostra stessa abitazione tendiamo ad usare
il cellulare che è diventato “il telefono”, ma non ha soppresso quello domestico: lo ha semplicemente ridimensionato, affidandogli in
parte compiti differenti. 

Un’idea complessiva del sistema?

Diversi studiosi hanno provato a creare una vera e propria mappa dei media, che indica le posizioni degli uni
rispetto agli altri sulla base di alcune caratteristiche fondamentali che li riguardano tutti.
La mappa a cui faremo riferimento è stata elaborata prima della rivoluzione del pc, nel 1980, ed è nota come
“mappa di McLaughlin”, anche se a elaborarla furono in realtà due studiosi di un gruppo di ricerca di
Harvard, John McLaughlin e Anne Louise Antonoff.

Visualizzare una situazione complessa in cui si trovano molte realtà differenti che però reagiscono tra di loro
non è assolutamente facile, però a volte é indispensabile, anzi, con la complessità crescente dei nostri tempi
sta diventando un bisogno sempre più forte: avere una resa grafica delle situazioni complesse. Il sistema dei
media, che é un sistema di crescente complessità può essere anch’esso visualizzato. É quanto hanno fatto
questi due studiosi con una mappa tuttora utilissima.

Il sistema dei media risulta suddiviso in quattro diversi comparti, basati su due assi cartesiani:
• in quello verticale da media fornitori di prodotti a media che erogano servizi;
• in quello orizzontale da fornitori di supporti a fornitori di contenuti.

Hanno potuto collocare i diversi media in diversi comparti rispetto al centro di questo diagramma cartesiano
e lo hanno fatto sulla base di una semplice distinzione, che è tra: prodotti e servizi e tra supporti e contenuti. 

In basso a destra contenuti-prodotto, cioè quei media che erogano contenuti (testuali, sonori, audiovisivi) in
forma di oggetti, per esempio: i libri, i dischi, i dvd, ma anche i giornali. Lo chiameremo il settore editoriale.
In alto a destra contenuti-servizio, cioè quei media che erogano contenuti in forma di servizio (sonori,
audiovisivi o informazione web). Lo chiameremo settore del broadcasting.

In alto a sinistra supporti-servizio, cioè i media che offrono strumenti per la comunicazione tra le persone. Lo
chiameremo settore dei vettori, o delle reti.

In basso a sinistra supporti-prodotto: per esempio la carta, o gli strumenti professionali come le cineprese, o
gli apparecchi a diffusione di massa come i televisori o i telefoni cellulari. 
Lo chiameremo settore dell’hardware.

EDITORIA

L’editoria è l’attività economica che garantisce la produzione e la distribuzione commerciale di prodotti come
libri o giornali, o anche i dischi o altri contenuti che vengono acquistati.
L’editoria produce i suoi redditi vendendo degli oggetti, il cui prezzo include non solo il costo fisico ma
anche i diritti dell’autore e appunto il profitto dell’editore, o vendendo i giornali, che vengono pagati dal
pubblico ma sono finanziati anche, spesso soprattutto, dalla pubblicità.
Il primo settore di cui parliamo, che definiamo normalmente editoriale, ha la caratteristica di vendere degli
oggetti fisici. Il giornale, il libro e il disco sono degli oggetti fisici che però non valgono tanto per il loro valore
materiale (es. la carta su cui sono stampati), ma per i contenuti che sono dentro di loro. Quindi, devono
produrre reddito per autori, editori e coloro che convogliano questo contenuto dentro quegli oggetti. 

La più antica industria editoriale è quella che produce libri: dapprima riservati al ristretto pubblico
capace di leggere, poi negli ultimi due secoli indirizzati al pubblico di massa. Il libro è il più tipico prodotto
della tecnologia della stampa. L’editore coordina diverse professionalità: quella dell’autore che elabora il
testo, quella del tipografo che stampa le pagine del volume e le rilega, quella del distributore che fa arrivare il
libro nei punti-vendita. Fino al libraio, presso il quale il lettore si rifornisce.
La produzione e distribuzione dei dischi hanno seguito a lungo lo stesso modello. 

Si racconta una volta che un editore avesse incontrato una signora nel treno, e lei gli chiese: «che mestiere
fa?». 
Lui rispose: «l’editore di libri». 
La signora continuò: «che affascinante, chissà quanti libri ha scritto…». 
Lui: «no, io non scrivo, quello lo fa l’autore».
Lei: «allora stampa!».
Lui: «no, quello lo fa il tipografo…».
Lei: «allora li vende?».
Lui: «no, quello lo fa il libraio».
Lei: «ah ho capito… lei li porta dallo stampatore al libraio…».
Lui: «no, quello lo fa il distributore».
La signora rimase molto interdetta e chiese: «li legge almeno?».
Lui replicò: «qualche volta».

Il lavoro dell’editore è quello di coordinare tante professionalità diverse. Non è quello di realizzare
fisicamente il libro e neanche di scriverlo, ma è quello di fare in modo che un certo testo ideato da un editore
arrivi fino al lettore, avendo l’intuizione di capire quale dei libri scritti o pensati dagli autori possano avere
prospettive di guadagno e quali no. É un’impresa commerciale a tutti gli effetti, vendendo però
contenuti e non semplicemente prodotti.

Quello della produzione cinematografica è in parte simile: anche il produttore coordina diverse
professionalità, e soprintende alla nascita di un oggetto, il film, che viene poi messo in distribuzione. Solo
che, almeno fino alla nascita dello home video, gli spettatori non acquistavano il film ma il diritto di vederlo
nella sala. E il produttore cinematografico realizza molti dei suoi redditi anche attraverso la circolazione del
film sulle reti televisive, come del resto l’editore discografico attraverso i diritti pagati dalle radio.
In sostanza, la produzione di film è simile al lavoro dell’editore, per certi versi è anche più complessa.
Disse una volta quel grandissimo autore cinematografico che risponde al nome di Orson Welles: «lo
scrittore lavora con la penna e il produttore cinematografico con un esercito». Queste vanno dalle
persone che pensano la sceneggiatura del film, fino a coloro che lo promuovono presso le sale o anche in
altra forma. Il produttore cinematografico non vendeva inizialmente film al pubblico… Ha iniziato a farlo con
le videocassette e poi con i DVD negli anni ’70/’80, però il produttore cinematografico fa comunque circolare
un oggetto che è il film attraverso altri soggetti che sono gli esercenti della sala cinematografica, oppure
attraverso le reti televisive e poi adesso anche nei dvd. 

Il giornalismo rappresenta da due secoli e mezzo un elemento cruciale del sistema dei media. Alexis de
Tocqueville nel primo libro della Democrazia in America, nel 1835 scriveva:
“Lo spirito del giornalista, in America, consiste nello stimolare grezzamente, senza garbo né arte, le passioni
del suo pubblico, nel trascurare i princìpi per impadronirsi degli uomini, seguirli nella vita privata e metterne a
nudo le debolezze e i vizi”.
Sembra una condanna senz’appello.

Il giornalismo esiste da molto tempo, diciamo, nella sua forma moderna i primi tentativi risalgono al ‘600 e
nella seconda metà del ‘700 cominciamo ad avere dei giornali simili a quelli che abbiamo oggi, ma ci sono
state opinioni variabili sulla funzione del giornalismo. Un autore importante, Alexis de Tocqueville, visita gli
Stati Uniti nel 1831 e scrive due volumi su La Democrazia in America. 

Nel primo di questi volumi (1835), il giudizio sul giornalismo è molto duro: il giornalismo americano è in
sostanza qualcosa che fa i soldi frugando nella vita delle persone. 
Nel secondo libro (1840) torna sul tema cambiando il punto di vista:
«Quando gli uomini non sono più legati tra loro in modo solido e permanente, non si può ottenere che molti
di essi agiscano in comune senza persuadere ognuno di quelli, la cui cooperazione è necessaria, che il suo
interesse l’obbliga a unire volontariamente i suoi sforzi  agli sforzi degli altri.

Ciò non si può fare abitualmente e comodamente che per mezzo di un giornale, solo un giornale può
inculcare contemporaneamente in molti cervelli uno stesso pensiero».
I giornali diventano dunque più necessari via via che gli uomini sono più uguali e l’individualismo diventa  più
temibile. Credere che essi servano solo a garantire la libertà sarebbe sminuire la loro importanza. “Essi
salvano la civiltà stessa”.
Il giudizio di Tocqueville cambia totalmente,  non perché lui non fosse convinto che in effetti molti giornalisti
facevano i soldi frugando nella vita delle persone… Però, adesso il suo sguardo è diverso: quello che gli
interessa è capire la funzione complessiva dei giornali nella società, non come il giornalista fa i soldi.
Dice che noi siamo di fronte ad una società individualistica, dove le persone sono separate una dall’altra,
dove le persone non hanno i legami tradizionali che richiamano il villaggio o la chiesa. Potrebbero veramente
essere atomi senza connessioni. Allora c’è bisogno di organismi che li connettano: il giornale è fra questi uno
dei principali, se non il principale. Dunque i media sono essenziali agli individui. 

Nel corso del tempo il giornalismo ha assunto forme sempre nuove.


Ai giornali su carta si sono affiancati quelli cinematografici, radiofonici, televisivi, e oggi
l’informazione on line. Ma il compito essenziale è rimasto: permettere ai lettori, ascoltatori e
spettatori di collegarsi con gli eventi del mondo giorno dopo giorno e poi anche ora dopo ora. 
E il giornale è il primo medium ad avere assunto la caratteristica di un’abitudine: il quotidiano e anche i
settimanali raggiungono il loro pubblico in modo regolare, sono oggetto di una lettura che segue più o meno
lo stesso andamento.

P.es., quando fu introdotto per la prima volta il telegiornale sulle serie televisive Mediaset (1992), ci fu la discussione relativa a che ora
mettere il telegiornale e un grande uomo di televisione come Mike Buongiorno disse: «va trasmesso alle 8 perché il telegiornale deve
essere come una messa, una funzione che la gente rispetta».

Questa caratteristica della tv, della radio e dei giornali a stampa é utilizzata da parte dei pubblicitari, perché
la pubblicità inserisce i suoi annunci dentro altra informazione e quanto più è abitudinario l’uso del mezzo
(in particolare del giornale), tanto più è facile far penetrare la seconda informazione, ovvero quella della
pubblicità in mezzo alla prima (quella che la gente legge per suo interesse o diletto).

BROADCASTING

Broadcasting = “diffusione ad ampio raggio”, come chi semina con un largo gesto delle mani.
In italiano si dice “diffusione circolare” quando la radio e la tv inviano i loro messaggi direttamente agli
apparecchi collocati nelle case di milioni di utenti, senza l’intermediazione di negozi o edicole.
Lo fanno sulle onde dell’etere, sulla base della scoperta di Guglielmo Marconi (1895) per cui le onde
elettromagnetiche possono essere usate per trasmettere segnali.
Siamo di fronte a una emittente o un piccolo nucleo di emittenti per tantissimi destinatari: questo è il concetto
di fondo del Broadcasting, che non passa attraverso la mediazione della stampa dei negozianti, ma arriva
direttamente nelle case. 

Sono caratteristiche del broadcasting 


• la programmazione, cioè il diffondere non singoli contenuti ma un flusso di trasmissioni lungo un arco di
tempo che è lo stesso per tutti gli ascoltatori;
• la simultaneità, ovvero la “diretta”, che è impossibile per mezzi come il libro o il disco.

Il Broadcasting non si limita a dare dei contenuti: ha alcune caratteristiche particolari.


- Il tempo è lo stesso, nel senso che la programmazione arriva nelle case delle persone nello stesso
momento. Questo permette alla radio e alla televisione la diretta, cioè la trasmissione degli eventi mentre
si verificano (es. eventi sportivi o grandi riti religiosi e così via).
- Questo si collega però anche alla caratteristica di programmare, come fornire una serie di contenuti ma
programmando il tempo in cui gli ascoltatori radiofonici o gli spettatori televisivi si sintonizzeranno su
questi contenuti e potranno ascoltarli o vederli. 

Come si finanziano le emittenti?

La forma più antica è il “canone”, una tariffa detta di abbonamento ma che è diventata con il tempo una vera
e propria tassa, in cambio del servizio pubblico radio-televisivo. È nato molto tempo fa, sostanzialmente un
secolo fa, con le prime grandi radio-televisioni pubbliche, come la BBC in Gran Bretagna ma anche la stessa
URI, divenuta poi EIAR ed infine Rai in Italia.

La forma più diffusa e importante sono le inserzioni pubblicitarie. La radio, e soprattutto la tv, sono i mezzi
privilegiati per la promozione dei prodotti, perché sono seguiti anche per molte ore con un ascolto spesso
distratto. È la tv commerciale, che negli USA nacque prima della tv pubblica. La radio e la tv commerciale
funzionano solo sulla base degli introiti pubblicitari, che privilegiano radio e tv perché sono mezzi riascoltati
in modo ancora più abitudinario rispetto a quanto si legge il giornale. Quindi, è più facile prevedere quando ci
sarà un certo pubblico da ascoltare ed è ancora più facile inserire la pubblicità, perché spesso l’ascolto è
distratto ed entra nella mente del pubblico senza che se ne renda conto. 

E poi c’è la tv a pagamento, più recente, alla quale si può versare il costo di un abbonamento vero e proprio,
o quello per seguire una singola trasmissione, generalmente un grande evento.

In gran parte d’Europa la forma a lungo dominante è stata la radio, e poi la TV, di servizio pubblico, il cui
primo modello è stata la British Broadcasting Corporation (1920).

In Italia, la tv pubblica nasce nel 1924 e si è chiamata:

- fino al 1927 Unione Radiofonica Italiana, U.R.I.; trasmetteva sono il regime fascista.
- nel 1927 Ente Italiano Audizioni Radiofonico (E.I.A.R.); arriva insieme alla fine della guerra italiano, ma
tutti la ricollegavano comunque al fascismo.
- nel 1944 RAI, che all’inizio voleva dire Radio Audizioni Italia;
- nel 1954 RAdiotelevisione Italiana;
- infine RAI per tutti.
Il monopolio é continuato fino al 1974, quando per effetto della Corte Costituzionale le cose sono cambiate.

Mentre la BBC riscuote la tassa di abbonamento e non inserisce pubblicità nei programmi, l’azienda
pubblica italiana ha fin dalle origini un finanziamento misto: canone e pubblicità. E’ un’azienda di proprietà
quasi esclusiva dello Stato, con un consiglio di amministrazione nominato dalle forze politiche presenti in
Parlamento.
Che cosa si intende per “servizio pubblico”? In teoria, una programmazione diversa da quella strettamente
commerciale, che dà ampio spazio all’educazione e all’informazione. Ma in una radio e in una tv che sono
finanziati insieme dal canone e dalla pubblicità dove finisce il servizio pubblico e dove comincia la ricerca dei
profitti? E’ un tema su cui si discute ormai da molti decenni.

La RAI riscuote un consistente reddito dal canone, cioè da una tassa che paghiamo con la bolletta della luce per rendere la cosa ancora
più obbligatoria e per sopprimere l’evasione che era un fenomeno molto diffuso in Italia. É una tassa quindi, ma per che cosa la
paghiamo? La logica é che la paghiamo per una tv strettamente diversa da quella commerciale. Questo è in effetti il modello della
British Broadcasting Corporation, che continua a non avere inserzioni commerciali nei suoi programmi.
Ma il modello della Rai invece mescola trasmissioni a carattere commerciale con trasmissioni che dovrebbero essere di servizio
pubblico. Dove comincia uno e dove finisce l’altro?

La tv strettamente commerciale si finanzia solo per mezzo della pubblicità: secondo una nota metafora,
l’emittente “vende le teste” dei suoi spettatori ai pubblicitari. Come si sa quanti sono gli spettatori? Una volta
si facevano interviste, o si chiedeva a un certo numero di famiglie di tenere nota di quello che vedevano. 
Oggi in molti paesi esiste un apposito sistema, in Italia chiamato Auditel, basato su apparecchi collocati
presso un campione di famiglie, che rilevano i programmi su cui sono sintonizzati i televisori.
Sostanzialmente si seleziona un piccolo numero di famiglie che corrisponde a un campione molto più vasto
di ascoltatori e sulla base di questo campione si indica quanti sono stati gli spettatori di questo programma in
un certo giorno.
Una cosa che bisognerebbe sempre ricordare é che si vende la pubblicità per i programmi di una stagione a
partire dal successo che quei programmi hanno avuto nelle stagioni precedenti o a partire dalle previsioni
basate sulle stagioni precedenti.

La posta è il più antico servizio che permette di inviare e ricevere messaggi. E’ nata con i grandi imperi
antichi, dalla Cina alla Persia a Roma, dove era riservata allo stato e a privati che potevano pagarne gli alti
costi.
Nell’Europa moderna ha cominciato a diffondersi l’uso della posta sia a fini commerciali sia anche per la
comunicazione tra le persone. Nel Settecento l’importanza sociale della lettera come strumento di relazione
anche affettiva era diventata tale che ebbero grande fortuna i romanzi detti “epistolari”, nei quali la
narrazione si svolgeva sul filo delle lettere scambiate tra diversi personaggi: come nella Pamela di Samuel
Richardson (1740), uno dei primi best seller della storia, o nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo
(1802).
La lettera è in realtà una forma di comunicazione molto antica. Si possono annoverare le Lettere di Cicerone
e, nella letteratura cristiana, le lettere di San Paolo a diverse comunità di cristiani. Ma come circolavano
queste? Per un tempo molto lungo sono state forme di comunicazione molto costose e riservate a ceti
privilegiati perché bisognava sostanzialmente passare attraverso vettori (cioé corrieri che servivano i singoli
o erano parte di un servizio dello stato). Come ha scritto uno storico, c’è voluto del tempo a passare dalla
posta del re alla posta di tutti. 

Lo sviluppo dei sistemi postali fu grandemente accelerato dall’introduzione nel 1839 del francobollo, che
permetteva di semplificare la circolazione delle lettere. Con questo sistema è il mittente, cioè colui che invia il
messaggio, a pagare una tassa che lo “affranca”, cioè lo rende libero di circolare fino all’arrivo a
destinazione, mentre un timbro da parte dell’ufficio postale “annulla” il francobollo rendendo impossibile
utilizzarlo per altre lettere. 
Il funzionamento dei servizi postali era a questo punto una delle funzioni principali degli stati moderni,
unitamente alla raccolta delle tasse, al reclutamento degli eserciti, e anche all’educazione. Del resto
l’istruzione di massa è stata essenziale a rendere la lettera un mezzo a larga diffusione.

Che cosa facciamo quando spediamo una lettera oggi? Voi direte che se ne mandano sempre meno anche
grazie all’uso del telefono cellulare, ma se ne spediscono ancora molte di più di quanto sembrerebbe. Cosa
facciamo? Ci rechiamo presso un venditore autorizzato di bolli e il tabaccaio, oltre che venditore di tabacco e
di tante altre cose è il venditore di bolli, quindi di marche da bollo e di francobolli che apponiamo sulla busta
per poi imbucarla. Per una, due o tre volte al giorno, le lettere verranno prelevate oppure verranno portate ad
un ufficio postale come si fa in molti paesi e a questo punto la lettera comincia a circolare affrancata, cioè
non deve pagare altre tasse per circolare. 

Il primo ufficio postale presso cui passa la lettera opera il cosiddetto “annullo”, cioè significa che il francobollo
è affrancato, ma solo per quell’operazione lì e non può essere riutilizzato da qualcuno.
Quindi abbiamo la lettera che circola e che verrà recapitata a casa nostra dal postino.

Nel 1844 Samuel Morse introdusse un nuovo servizio, quello telegrafico: il primo medium elettrico della
storia (usava la velocità dell’elettricità che è la velocità della luce).
La novità del telegrafo consisteva nella velocità di trasmissione, ma anche nell’introduzione di uno speciale
codice, che permetteva di tradurre le parole in impulsi elettrici. Un impiegato inviava il messaggio così
codificato battendo su uno speciale apparecchio, dall’altra parte della linea un altro impiegato lo traduceva di
nuovo in lettere, per la consegna rapida al destinatario. Negli USA il monopolio del servizio telegrafico fu
assunto da una compagnia privata, in Europa si affiancò alle poste come compito dello stato.
Il telegrafo, mezzo elettrico e quindi più veloce di qualsiasi veicolo, permise anche lo sviluppo delle reti
ferroviarie.

Mentre il telegrafo congiungeva due uffici, il telefono, introdotto negli anni Settanta dell’Ottocento
dall’americano Bell dopo alcune importanti intuizioni dell’italiano Meucci, arrivava direttamente nelle
abitazioni e nelle imprese. Come dice il nome si tratta di un mezzo di trasmissione della voce, dapprima a
brevi distanze poi con lo sviluppo tecnologico a distanze sempre più ampie, fino alla telefonia
intercontinentale.
Alla base del sistema telefonico c’è la commutazione, che rende possibile collegare ogni singolo
apparecchio della rete con ogni altro mantenendo la conversazione privata. La commutazione è stata
dapprima manuale poi meccanica, poi elettronica. 
Le reti telefoniche hanno avuto per oltre un secolo il carattere di monopoli, pubblici o privati. Solo negli ultimi
trent’anni si sono aperte alla concorrenza.
La comunicazione simultanea, quella vera, è arrivata alcuni decenni dopo il telegrafo con il telefono. Mentre
il telegrafo trasmette segnali scritti, il telefono trasmette direttamente suoni (in particolare la voce). Il telefono
è stato un mezzo da prima locale, poi intercomunale, nazionale e internazionale, fino a diventare
intercontinentale. Oggi abbiamo la teleselezione intercontinentale, per cui possiamo parlare senza
neanche accorgercene con il cellulare (tranne per poi vederlo sulla bolletta) con paesi lontanissimi. 
La forza del telefono sta nel fatto di poter raggiungere le persone ovunque si trovino. 

Sempre negli ultimi trent’anni ha avuto rapidissimo sviluppo un nuovo tipo di telefonia, quella mobile, detta
“cellulare” per il particolare sistema di commutazione basata sulla suddivisione dello spazio in cellule
corrispondenti al luogo in cui si trova ogni apparecchio.  Dal 1992 oltre la voce i telefoni mobili hanno
cominciato a inviare SMS (short message service) cioè brevi messaggi scritti.
A partire dal 2007 si è avuta la congiunzione tra il telefono cellulare e il computer, con la nascita dello smart
phone, capace di collegarsi non solo alla rete telefonica ma anche a Internet.
Il telefono cellulare, che dal 2007 si è connesso all’uso della rete e del web, è stata una rivoluzione radicale
sin dal 1980, dal momento che il numero di cellulare è un segno distintivo come il nostro nome e cognome, e
oggi possiamo raggiungere molte persone in qualunque luogo e in qualunque momento.

Una parte molto importante del sistema dei media è quella che riguarda gli strumenti utilizzati per
comunicare, che possono sembrare puri supporti senza contenuto. Ma vale la pena di ricordare che alcune
delle massime aziende della comunicazione, a cominciare dalla Apple, senza dimenticare imprese asiatiche
come la Sony e la Samsung sono prima di tutto produttrici di apparecchi.
Alcune delle maggiori innovazioni nei media vengono da questo settore: così la Kodak che rivoluzionò tutta
la fotografia, così l’introduzione del grammofono a disco che fece della fonografia un mezzo di
comunicazione di massa, fino ai produttori di personal computer.
Normalmente, quando noi pensiamo ai grandi media rischiamo di dimenticarci che, per arrivare fino a noi,
questi grandi media hanno bisogno di apparecchiature, non solo di reti, per esempio: il televisore, non la rete
e i programmi televisivi, il telefono come apparecchio e non semplicemente la rete telefonica. Questo settore
ha in realtà una funzione storica fondamentale. Ricordiamoci sempre che le grandi innovazioni sono arrivate
generalmente proprio da scoperte in questo campo. Faccio l’esempio di Daguerre per la fotografia, che
prese il brevetto per un sistema tecnico. Quando Kodak rinnovò radicalmente la fotografia, lo fece con un
altro tipo di apparecchiatura e un nuovo supporto come la pellicola.
Ricordiamoci che, ancora oggi, una multinazionale come la Apple produce sia strumenti informativi come
App, ma anche strumenti fisici che ci serviranno a veicolare qualunque tipo di messaggio.

Quando si introduce una nuova tecnologia, come si fa a proteggere chi l’ha introdotta? Questo é interesse di
tutti, perché stimola all’innovazione l’intera società. Se io ho la speranza di poter ottenere un utile
consistente attraverso un’invenzione, io sono più stimolato a cercare nuove innovazioni rispetto a quando lo
faccio solo per il mio divertimento. 
Il brevetto (dall’inglese “patent”) è un sistema generalizzato in tutto il mondo di protezione della proprietà
intellettuale che è diverso dal diritto d’autore o copyright, che riguarda invece i contenuti che circolano. Il
brevetto consente a chi introduce un’innovazione anche una sorta di monopolio temporaneo sull’innovazione
stessa.
Negli ultimi anni molte aziende di diversi settori hanno cominciato a produrre proprie apparecchiature per
rafforzare la propria presenza sul mercato:
• Amazon ha prodotto un proprio apparecchio per la lettura elettronica;
• Microsoft una propria piattaforma di videogiochi, Xbox;
• Google ha sperimentato apparecchi per la cosiddetta “realtà aumentata”.

Non dobbiamo pensare che il settore dell’hardware e gli altri settori del sistema dei media siano del tutto
separati e isolati tra di loro. Non lo sono mai stati. Pensiamo che per moltissimi decenni i telefoni venivano
forniti dalle stesse compagnie telefoniche o che la Sony o la Nintendo hanno prodotto sia i videogiochi che le
piattaforme per i videogiochi. Ma negli ultimi tempi, soprattutto con lo sviluppo del web, la tendenza di molte
aziende a produrre apparecchi, oltre che i propri servizi, si è rafforzata ulteriormente. Il caso dell’apparecchio
chiamato Kindle, che Amazon ha introdotto per la lettura dei libri e per indurre le persone a scaricare solo
libri Amazon su Kindle, è un caso di grandissimo successo come la X Box di Microsoft; mentre altre aziende
hanno provato a creare un loro hardware o apparecchiature di nuovo tipo.
Un esempio è stato da parte di Google di creare occhiali appositi per la realtà aumentata, anche se questo
tentativo per ora è stato accantonato.

4.
Finora abbiamo parlato dei diversi comparti della mappa di McLaughlin e Antonoff.
Ma che cosa succede con l’arrivo di Internet? I comparti che abbiamo segnalato restano ancora rigidamente
distinti, nelle regole e nell’economia?

Allora dobbiamo parlare di un unico grande medium che li assorbe tutti? 


Ma un momento, Internet è un medium? 

Sicuramente, l’arrivo della rete, che concentra insieme diverse forme di comunicazione, ha creato qualche
scompiglio nella mappa del Sistema dei Media. La domanda che ci possiamo fare é se non ci sia un unico
grande medium, ma il quesito che ci dobbiamo porre ancora più fortemente é se Internet sia un medium.
No! Perché contiene dentro di sé molti di quelli che un tempo erano media separati: film, giornali, libri,
telefonia. Muovendoci nel web passiamo da un medium all’altro.
No! Perché è accessibile da diversi media: il computer, il tablet, lo smart phone, perfino alcuni tipi di
televisione (smart TV). E allora? Internet é un ambiente informativo.

Dobbiamo parlare non tanto di un medium, perché semmai sarebbe un inter-medium: un medium che
collega tra di loro molti media diversi, ma forse è più facile ragionare come ambiente nel quale ci muoviamo
per mezzo di vari strumenti di comunicazione come possono essere tra l’altro i personal computer o il
cellulare. 

Il web permette fin dai primi anni Novanta di muoverci in Internet come una possibile successione-
connessione di schermate prima di tutto grafiche e verbali. I motori di ricerca permettono di muoverci verso
le informazioni che ci interessano servendoci di parole-chiave. I social network ci indirizzano alle
informazioni a partire dai suggerimenti che ci vengono dalla nostra rete di relazioni.
Non ci troviamo di fronte a contenuti ordinati come accade nei libri o nei film, e neppure a flussi programmati
come accade nella televisione. Ci troviamo di fronte a una grande quantità di informazioni tra le quali ci
costruiamo, più o meno consapevolmente, i nostri percorsi.

Conviene pensare al web non tanto come medium o come una pura somma di media, ma come un vero e
proprio ambiente. Quello che conta é come ci muoviamo, da dove partiamo e da dove arriviamo. Per
esempio, due delle operazioni di maggiore successo nella rete, quella dei motori di ricerca a partire da
Google, o quella dei social network a partire da Facebook, sono state operazioni basate sull’indirizzarci
verso l’informazione che ci interessa e magari da questa verso altre informazioni. Noi ci muoviamo nella rete,
che è quindi paragonabile ad un ambiente

Pensiamo a quello che facciamo tutti i giorni nella e con la rete. Prima di tutto “entriamo” nella rete
accendendo il computer, attivando la connessione e il browser che in origine viene definito con un termine
preso dal libro: “to browse”= sfogliare.

Del resto, si continua a parlare di “pagine”, no?


Ma quel che facciamo non è sfogliare: è crearci ininterrottamente percorsi tra le informazioni a partire da
alcune domande iniziali, ma stimolati man mano dalla nostra curiosità, da nuove domande, da nuove
suggestioni.
L’esperienza di tutti i giorni é che noi non abbiamo di fronte a noi un medium che ci dà dei contenuti che
possono essere esauriti. Un libro ad esempio si può finire. Un giornale si può finire quando si sono lette tutte
le informazioni significative. La rete é inesauribile, ma non é neanche programmata come la televisione. 
La rete é una sorta di luogo ricco di informazioni nel quale ci muoviamo progressivamente. 

Un giornale si comincia a leggere e prima o poi si “finisce”, senza leggerlo tutto ma ritenendo di avere
assorbito tutte le informazioni che ci interessano. Il web non finisce mai, smettiamo di muoverci nella rete
quando non abbiamo più tempo, siamo stanchi o abbiamo altro da fare.
Possiamo tornare così al pensiero di McLuhan secondo cui nelle epoche calde l’informazione è “coltivata” e
organizzata in modo strutturato, suddivisa in: libri, biblioteche e musei.

Nella nostra epoca fredda stiamo tornando a un modello apparentemente più primitivo, quello della caccia e
raccolta, solo che l’oggetto della caccia e della raccolta è diverso.
“We have become like the most primitive Paleolithic man, once more global wanderers, but information
gatherers rather than food gatherers”. M. McLuhan Understanding Media, 1964.

M. McLuhan ha avuto un’intuizione che io reputo di grande interesse, non a proposito della rete, perché é
avvenuta molto prima dell’invenzione della stessa e del personal computer, ma a proposito di quello che
stava succedendo nel rapporto fra l’umanità e l’informazione.  Spesso, noi pensiamo che la storia
dell’umanità sia divisa in due fasi, una paleolitica, in cui l’umanità si muove alla ricerca del cibo, e la fase
successiva in cui l’umanità coltiva sistematicamente il terreno e alleva gli animali, il Neolitico. Ora, diceva Mc
Luhan, che in fondo noi per molto tempo con l’informazione ci siamo comportati come nel Neolitico: abbiamo
coltivato l’informazione mantenendola in luoghi riconoscibili e separati, mantenendola in oggetti specifici. Il
libro è un luogo dove si coltiva l’informazione e la biblioteca lo fa in senso ancora più ampio, così come gli
archivi o i musei. Noi oggi, per l’abbondanza e le caratteristiche dell’informazione che ci circonda, abbiamo
ricominciato a vagabondare, ma non in cerca di cibo bensì d’informazione. 
Abbiamo ricominciato a diventare cacciatori e raccoglitori, avendo quindi un comportamento che non è più
assimilabile a quello del Neolitico, pertanto un comportamento tipico di un’epoca fredda.

In Internet si trovano libri, giornali, canzoni, film, ma anche forme di comunicazione affini al giornale, come i
blog e anche giornali creati solo per la rete. Fra le forme di comunicazione affini al broadcasting la più
recente è Netflix, ma ce ne sono molte altre dalle web radio alla stessa YouTube. Poi ci sono forme di
comunicazione di tipo interpersonale che fanno diretta concorrenza ai servizi telefonici, come Skype o
WhatsApp. 
Quindi Internet è un inter-medium, che fa parte del sistema e insieme lo sintetizza.
Il panorama mediatico di internet è davvero vastissimo perché di fatto in esso si sono trasferite una serie di
forme di comunicazione preesistenti. Ad esempio, pensate alla possibilità che abbiamo con alcuni semplici
software di sentire direttamente via internet le radio di tutto il pianeta, oppure di scaricare la versione non
cartacea dei giornali, a pagamento o gratuitamente. Ci sono però anche forme parzialmente e totalmente
nuove. Per esempio, le prime imitano in parte le forme di comunicazione preesistenti come il blog, che non è
un giornale ma una forma di giornalismo di nuovo tipo; oppure Netflix, che non è una rete televisiva ma
programma in maniera affine ad essa; o ancora Skype, che non è una rete telefonica ma ci permette una
comunicazione affine e per certi versi anche più complessa di quella tradizionale del telefono. 

Inoltre, si trovano forme di comunicazione mista come:

- Facebook, che è un modello di comunicazione insieme personale e collettivo; 

- Spotify, che si presenta insieme nella forma di un’audioteca e di un’emittente radiofonica; 


- molti servizi geolocalizzati che forniscono informazione e al contempo ci offrono la possibilità di metterci in
relazione con il luogo in cui l’utente si trova, personalizzando l’informazione stessa. 

Ci sono anche nuove forme di comunicazione che spesso nascono dall’intreccio di forme  preesistenti. Il
caso di Facebook, ne abbiamo parlato più volte, è particolarmente complesso. Non a caso è uno dei grandi
successi della storia della rete, ma possiamo citare anche il caso dei servizi geolocalizzati. Questi ultimi ci
dicono delle cose del tipo “a che ora passerà il bus”. Funzionano come un orario del tram ma sono
personalizzati e per di più collegati. La rete lo può fare naturalmente, mentre un libro dove ci sono scritti gli
orari non può farlo. Ci dicono non solo a che ora passa il tram, ma a che ora passa nel luogo in cui siamo.  
In internet si possono ritrovare servizi purtroppo antichi come il gioco d’azzardo e nuovi, come il riferimento
di un trasporto a pagamento o in scambio gratuito o di un alloggio. L’informazione congiunge direttamente
l’accesso al servizio e, nel suo insieme, internet è un inter-medium che fa parte del sistema e insieme lo
sintetizza. 

Ecco, se dobbiamo definire internet come un medium, lo possiamo identificare come un inter-medium, cioè
la sua natura sta nel fatto di collegare tra di loro tanti diversi sistemi, ma facendo anche parte del sistema.
Possiamo dire che, rispetto alla mappa di  McLaughlin e Antonoff, si trova al centro.
L’aspetto interessante è che, oltre all’informazione pura che in internet abbonda, stanno cominciando a
fiorire servizi che forniscono informazione e, appunto, servizio insieme. Il caso di Start-up che forniscono
alloggi per affitti brevi è un caso molto interessante. Che poi, dal punto di vista legale sia del tutto giusto lo si
può discutere. Ci sono servizi che ci danno insieme un’informazione su dove si trovano gli appartamenti che
ci possono interessare e la possibilità di accedere direttamente agli stessi. Le informazioni sui ristoranti ci
danno generalmente la possibilità di prenotare lo stesso ristorante senza staccarci dal collegamento. È un
nuovo tipo di informazione, un nuovo tipo di servizio e consiste in un medium che funziona come tanti media
messi insieme e, appunto, come un ambiente.

Se internet è al centro del sistema dei media è anche perché non è solo la somma di media diversi, ma il
luogo del continuo accesso da una forma di comunicazione all’altra. Possiamo passare da informazioni simili
a libri e immediatamente dopo ad altre simili a programmi televisivi  e così via ininterrottamente. Quello che
conta più dei contenuti sono i percorsi. 

Ecco, questo è il punto essenziale. Se internet è al centro del sistema dei media, è perché rappresenta il
punto dove tutti i diversi comparti che abbiamo descritto nella lezione precedente si intrecciano e si
incrociano. Noi possiamo passare ininterrottamente dal primo al secondo e così via. Possiamo passare da
un libro che stiamo leggendo a un’enciclopedia (e siamo ancora nel comparto dell’informazione scritta), ma
possiamo passare anche da un libro che stiamo leggendo e che ci parla magari di un film, alla visione diretta
di questo film stesso. Possiamo passare anche da quel libro all’acquisto dello stesso film che ci interessa,
quindi un altro tipo di atto comunicativo completamente diverso.

Molti rappresentano internet come un insieme di pagine e ci parlano di quali siano più o meno visitate. Anche
il mercato pubblicitario della rete si basa su questo. I siti di massa praticano il cosiddetto click baiting, che
cerca di incuriosire il visitatore e di farlo soffermare un attimo su un’immagine o su un video. Oltre che una
pratica pubblicitaria scorretta, è anche basato su una presupposto sbagliato. 

Ecco, molto spesso i pubblicitari, che sono molto interessati alla rete che oggi è l’ambiente informativo in
maggior crescita, si chiedono: “come facciamo a calcolare quanta gente vedrà effettivamente la nostra
pubblicità accedendo alla pagina o al luogo in cui è posizionata?”. La risposta è sostanzialmente simile a
quella della tradizione televisiva, cioè conta quanti ascoltatori ci sono stati (in tal caso si può capire
direttamente e questo è un vantaggio) e quindi, sulla base di questo, si conteranno quante persone
vedranno questa pubblicità. Però attenzione, c’è un doppio problema. Il primo è che molto spesso si crea
una distorsione della comunicazione. Il cosiddetto click baiting significa sostanzialmente cercare di attirare le
persone verso la pagina attraverso cose che incuriosiscono o magari eccitano, come la pornografia e così
via. I giornali si stanno riempiendo sempre di più di video banali di: cani, gatti, animali di tutti i generi per
cercare di indurre le persone a cliccare e poi a questo punto dire ai pubblicitari: “guardate quanti hanno
cliccato”. È scorretto dal punto di vista informativo perché significa sostanzialmente che testate anche
gloriose stanno diventando sempre più volgari, ma è anche basato su una premessa scorretta. 

Il fatto che clicchiamo una pagina non vuol dire che questa ci attiri effettivamente, che questa attiri la nostra
attenzione; quello che conta è spesso soprattutto come ci arriviamo e che cosa facciamo dopo averla vista.
Nei percorsi che facciamo ininterrottamente sulla rete, quello che conta sono le informazioni che raccogliamo
ma anche quelle che lasciamo lungo la nostra strada. Non è un caso che le maggiori aziende del settore
sono quelle che sorvegliano i nostri percorsi e in grado di tracciare il nostro profilo per venderlo ai
pubblicitari. 

Il fatto che noi, lungo la rete ci imbattiamo in una pagina, poi in un’altra ecc… non è di per sé significativo.
Quello che è veramente significativo sono i percorsi che facciamo tra una pagina e l’altra. Ed è questo che
interessa ai maggiori operatori economici della rete, perché i vari Google o Facebook non vendono il numero
di pagine cliccate (come fanno i giornali, ecc..), ma vendono profili che noi stessi permettiamo di creare,
poiché, man mano che ci muoviamo sulla rete, lasciamo tracce e informazioni sulla strada che abbiamo
percorso. 
La rete è un insieme di percorsi. Possiamo definirla come il percorso di Pollicino (secondo la favola), solo
che invece di briciole di pane che poi spariscono, noi lasciamo sassolini che rimangono e che qualcuno altro
raccoglie e vende ai pubblicitari. 

Nonostante viviamo in una società mercantile nella quale tutto può essere merce, nella rete ci attendiamo
un’informazione gratuita o a un prezzo così irrilevante da non accorgerci quasi di spendere. Per questo in
internet la difesa del copyright è molto ardua. In queste condizioni, è sempre più debole difendere il vecchio
modello economico dell’editoria: lo si è visto prima di tutto nel campo della musica leggera.

Ecco, c’è un paradosso nell’economia della rete. Questo sta nel fatto che noi siamo una società dove il
principale sistema di circolazione di tutto è il mercato, dove tutto deve avere un prezzo, ma al centro di
questa società e di questo sistema c’è una rete che si presenta come gratuita o quasi, perché se ci dicono:
“spendi 0.99 euro  per ottenere questo risultato”, quello che ci viene detto è che non spendo 0.99 euro, ma
una cifra talmente ridicola che non ci si deve neanche fare caso. Allora il punto è: come si concilia il sistema
mercantile che domina il nostro mondo con l’apparenza o la quasi gratuità della rete?
Vecchie forme di economia come i copyright sono sulla difensiva e molto indebolite perché nella rete
circolano gratuitamente molti contenuti che in teoria sarebbero protetti da copyright, ma che diventa più
costoso andare a perseguitare nei tribunali di quanto sia il lasciarli correre. Però i soldi in qualche modo
bisogna farli, in caso contrario non si capisce come mai alcune delle aziende più importanti del mondo
vivano di internet.  

Quindi, tutto il sistema economico dell’informazione è stato rivoluzionato e tutte le regole giuridiche sono
continuamente in discussione. Eppure alcune delle massime aziende del pianeta oggi vivono direttamente o
indirettamente di internet. 
Alcuni esempi: 

• Amazon si comporta come un venditore di libri, cd e altri prodotti fisici e sempre più anche come un
venditore di tutto, entrando nel campo delle apparecchiature con Kindle, contando sulla riduzione dei
costi di intermediazione per offrire sconti e mantenendo profitti elevati. 
• Google ottiene i suoi proventi dalla pubblicità anche attraverso YouTube, una pubblicità più mirata di
quella della televisione grazie appunto ai profili degli utenti. 
• Facebook invece congiunge, come sappiamo, un servizio di connettività che per certi aspetti è lo
sviluppo degli elenchi del telefono, ma a questo aggiungono contenuti e produce ricchezza con i
servizi Premium e  ancora con la pubblicità. (su moodle su i percorsi del web, slide 7, nel testo
manca “e ancora con la pubblicità” e poi si blocca l’audio e la presentazione)

Se riprendiamo in mano la vecchia mappa di McLaughlin, potremmo dire che Internet in parte la
scompagina, ma dall’altro lato può essere capito meglio se consideriamo Amazon parte di un settore che
abbiamo definito editoriale. E infatti, non a caso ha cominciato con la vendita di libri, dischi e così via, per
conquistare il centro del sistema attraverso la commercializzazione di prodotti, ma anche tramite il
collegamento con il settore delle apparecchiature e la vendita sempre crescente di informazioni in quanto
tali, di informazioni senza prodotti fisici.          

Google ottiene anche attraverso YouTube i suoi proventi dalla pubblicità, però, come in modo superiore alla
televisione, lo fa profilando gli utenti e quindi dicendo: “noi diamo di più della televisione perché vi diamo le
persone e non semplicemente la massa”, per di più una massa immaginata attraverso un campione
demografico. 
Facebook uno strano fornitore di connessione. Non a caso, il termine Facebook ricorda i libri del liceo dove
c’erano i nomi e le fotografie dei vari compagni di scuola. Ci indica come connetterci con le persone che ci
interessano, dandoci la possibilità di raggiungere gli altri con i nostri messaggi, ma in più trasforma questa
forma di comunicazione, originariamente da uno a uno, in una forma di comunicazione, come abbiamo detto,
da molti a molti. 

Nessuna di queste aziende esisteva prima del 1994. Ora, i loro proprietari sono tra i più ricchi del mondo.
L’economia delle rete, come tutti gli altri aspetti della vita di internet, conosce cambiamenti rapidissimi, difficili
da regolare anche sul piano strettamente legislativo. Per esempio, le aziende che abbiamo ricordato
agiscono quasi tutte in condizioni di monopolio, ma la normativa detta anti trust raramente viene applicata
nei loro confronti.
Ecco, questo è un aspetto che dobbiamo ricordare. La forza economica dei giganti della rete sta nel fatto che
spesso ci chiedono di pagare pochissimo (quasi niente) o praticano, rispetto al mercato tradizionale, degli
sconti che ci possono sembrare straordinari. In che cosa sta la loro forza? Consiste nella massa immensa di
consumatori che raggiungono. Un costo anche piccolissimo di 0.99 euro moltiplicato per centinaia di milioni
di utenti diventa un reddito gigantesco.

Ora, che cosa c’è di strano in tutto questo? Che Google ha quasi il monopolio del servizio “motori di ricerca”,
Facebook ha quasi il monopolio di tutti i social network e Amazon ha quasi il monopolio (che difende con le
unghia e con i denti) del tipo di servizi che pratica. 
Ci sono delle leggi contro i monopoli e altre che non sono nate per difendere semplicemente i concorrenti,
ma per difendere tutto il sistema, contro cui si ripercuote il monopolio stesso. Ma queste leggi, nel caso della
rete, vengono applicate pochissimo permettendo anche di raggiungere livelli di profitti molto elevati.

In generale, la rapidità del cambiamento, tecnologico ma anche comportamentale, nel tempo della rete è
forse senza precedenti. 

Basti ricordare che tra il 2003 e il 2015 la quantità di informazioni che circolano in rete si è moltiplicata per
540.000, e che, secondo dati Google, ogni minuto vengono caricati su You Tube più di 400 ore di nuovi
contenuti video.
Questa straordinaria velocità ha a che fare anche con il crescere ininterrotto della potenza di calcolo dei
microprocessori, che permette a un normale PC di operare con una quantità di informazione che è quasi un
milione di volte quella di un PC di trent’anni fa.

La velocità di questo cambiamento è sconcertante e dobbiamo sempre tenerla presente, compresa la


velocità del potenziamento dei computer. I primi pc messi in circolazione dalla Apple erano di 512K di
memoria. Oggi un normale computer è affiancato da un hard disk portatile da 2 terabyte che sono quattro
milioni di volte quei 512K. Ricordiamoci questi dati perché sono impressionanti, così come è impressionante
il potenziamento delle informazioni che circolano in rete e la quantità di nodi che crescono della rete stessa.
Probabilmente, iviamo in un mondo che cambia con una velocità senza precedenti nella storia umana.        

Da questo punto di vista, espressioni spesso usate come “web 2.0” sono suggestive ma anche ingannevoli.
E’ vero che in una prima fase, tra gli anni Novanta e la fine degli anni Duemila, circolavano in rete solo
parole e immagini fisse, e successivamente hanno cominciato a circolare video anche ad alta definizione,
ma non si è trattato di un salto unico e definitivo. 
La crescita è continua, ed è un elemento costitutivo della vita della rete. Pianificare il cambiamento in questa
situazione è una parte essenziale del lavoro di chi comunica.

Non c’è stato un salto nella storia della rete come ci fa credere l’espressione WEB 2.0. Adesso, poi si parla
di 2.0, 3.0, 4.0 in qualunque campo perché il cambiamento è continuo. Il raddoppio della potenza di calcolo
dei microprocessori è stato, dagli anni ’50 in poi, assolutamente continuo. Ogni due anni (anche meno) la
potenza di calcolo di un microprocessore raddoppia. La crescita della quantità di informazioni che circolano
in rete è stata assolutamente continua: ogni minuto vengono caricate più di 400 ore di nuovi contenuti su
YouTube. È la continuità che va considerata, non semplicemente il salto. È una continuità esponenziale e
quindi una continuità che per certi versi evoca la crescita radicale e il salto, ma è continua.        

Una delle conseguenze più inattese di questa rapidità sta nel fatto che si sono venuti affermando proprio
nella rete modelli di comunicazione che non erano prevedibili anche solo quindici-venti anni fa, come il
nuovo universo “da molti a molti” di Facebook.
O anche come il modello di comunicazione didattica detto e-learning, di cui questo corso è un esempio.

Ecco, pensate a quello che state facendo in questo momento. Vi siete collegati alla rete e state in pratica
seguendo un corso universitario. Per moltissimo tempo, il corso universitario è stato basato sulla parola
dell’insegnante e sui libri, sui manuali, ecc… e poi, successivamente anche su altri supporti (es. la lavagna,
le slide e così via). Però non si era mai pensato di sostituire del tutto o per buona parte la parola
dell’insegnante. Questa è una delle possibilità offerte dalla rete. Che sia un bene o un male, anche questo si
può discutere.      
Un aspetto spesso non sufficientemente considerato della crescita sta nella penetrazione anch’essa
rapidissima delle tecnologie di comunicazione in tutto il pianeta. Oggi, paesi anche molto poveri dispongono
sia di connessione cellulare generalizzata che di connessioni Internet. 
Sempre di più la rete sta diventando un ambiente globale sia nel senso di avvolgere e toccare l’intero
pianeta che nel senso unitario.

Ecco, pensate a un dato che io trovo veramente abbastanza sconcertante. Oltre il 50% degli abitanti delle
Filippine, che è un paese molto povero dell’Asia, dispone della connessione a internet. Oltre il 50%! Un paio
di anni fa Timbuktu, un film (a mio parere molto bello) di Sissako, ci descriveva gli abitanti di una zone al
confine del deserto del Sahara che si muovevano anche dentro il deserto per cercare il punto dove avevano
la migliore connessione del telefono cellulare. La rete telefonica e la rete internet, che del resto avanzano
insieme perché sono strettamente collegate, stanno avvolgendo tutto il pianeta sia nel senso che sono
geograficamente presenti ovunque, sia nel senso che oggi molte persone che fanno fatica a permettersi
anche consumi che noi consideriamo elementari, cominciano a considerare del tutto impossibile fare a meno
consumi legati alla rete e al telefono cellulare. È una rete globale, ma non vuol dire solo che riguarda tutto il
globo, anche se al contempo è un insieme unitario che avvolge tutto il pianeta.            
E in questo quadro nascono continuamente nuove forme di comunicazione non previste poco tempo fa.
Basti pensare alle app che sono nate negli ultimissimi anni per i telefoni cellulari o alla diffusione dei
cosiddetti tutorial su You Tube, o anche alle forme di comunità e gruppi per esempio via Whatsapp.

Si può essere tentati di inseguire le ultime novità, che del resto sono spesso abilmente promosse dalle
aziende interessate e “fanno notizia” sui grandi media, ma il rischio è di trovarle prestissimo superate da altre
ancora. 
Capire la comunicazione nel tempo del cambiamento significa capire anche le trasformazioni di lunga durata
che hanno toccato e toccano i media.

La spinta che noi troviamo nell’informazione diffusa, anche per abili azioni di propaganda spesso delle
singole aziende interessate, è a rincorrere le novità, in particolare per quanto riguarda internet. Che cosa c’è
adesso di più nuovo? Magari parleremo di WhatsApp o dei tutorial su YouTube che non esistevano fino a
pochissimi anni fa e che oggi spopolano, e così via. Sono tutte cose molto importanti ed è bene seguire le
novità, ed è bene, non appena finito questo corso, per gli studenti cominciare a guardarsi intorno da questo
punto di vista. Però, proprio in un’epoca di rapidissimo cambiamento, guardare le tendenze di lungo respiro
è più importante ancora rispetto a epoche più statiche, perché è la capacità di vedere le tendenze di lungo
respiro che ci fa distinguere il piccolo cambiamento effimero da quello che potrà avere una grande portata. È
la capacità di capire le tendenze di lungo respiro che ci fa avere un pensiero strategico su quello che
riguarda la comunicazione, non solo un pensiero immediato, puramente tattico. 
Naturalmente questo significa avere uno sguardo generale sui media e la comunicazione come quello che
questo corso sta cercando di darvi.

5.
Prima di entrare nel merito della lezione, è opportuno rispondere a due domande: che cos’è un prodotto
audiovisivo? In particolare, un prodotto audiovisivo che si esprime prima di tutto attraverso l’immagine in
movimento, eventualmente accompagnata da suoni, rumori e musiche. La seconda domanda é: Che cos’è il
cinema? 
Produzione audiovisiva e cinema, quindi non sono la stessa cosa. I film sono un prodotto audiovisivo, ma
non tutti i prodotti audiovisivi sono film. Sono prodotti audiovisivi per esempio: uno spot, un videoclip, le
riprese in diretta dal festival di Sanremo, l’episodio di una serie televisiva. Proviamo allora a interrogarci,
prima di tutto, su quali sono gli elementi, gli aspetti che accomunano un film di Tarantino, uno spot di Chanel
o un videoclip di Madonna. 

Un elemento comune sicuramente a tutti i prodotti audiovisivi é la mediazione di uno schermo, anzi, di un
display. Ne consegue che le immagini sono bidimensionali perché si distendono su una superficie (lo sono
anche quando andiamo a vedere un film in 3D). Lo schermo può essere quello di una sala cinematografica,
di uno smartphone, di un notebook, di una tenda e così via.

Un secondo elemento comune a tutti i prodotti audiovisivi é la separazione fisica tra: lo spazio, il mondo
dell'immagine (display disconnected) e lo spazio/mondo in cui quest’immagine viene vista. Questa
separazione fisica non vale per esempio nel caso di un concerto, di un reading, di uno spettacolo teatrale. La
separazione fisica, bene inteso, non esclude l’interazione tra i due mondi (pensiamo all’interattività che
caratterizza l’esperienza del videogame).
Quando compaiono, a fine ottocento, le prime immagine fotografiche animate, il pubblico non è abituato
ancora a questa disconnessione fisica tra mondi. Si ha la sensazione che il mondo degli spettatori e il mondo
delle immagini possano essere la stessa cosa. Si spiegano allora le reazioni di disorientamento, se non
addirittura di panico davanti alle immagini de:

L'arrivo di un treno alla stazione (dei fratelli Lumiere), quando il pubblico ha la sensazione che il treno possa
appunto uscire dallo schermo ed entrare nello spazio della sala. 
https://www.youtube.com/watch?v=1yv02Lzq5kg  (da sito SNCF)
(funzione pedagogica: creare delle regole)

Un ulteriore elemento in comune con i prodotti audiovisivi é l’impressione di movimento, anzi la possibilità
che questo movimento venga percepito. 

Nei prodotti audiovisivi, il movimento é nello stesso tempo la traslazione di oggetti nello spazio (cioè,
movimento di cose o persone all’interno all'interno di un quadro), ma é anche una trasformazione
dell’insieme, cioè un movimento non nel quadro, ma del quadro e il punto di vista che si può mettere in
movimento esplorando e facendo suo il mondo.
Il movimento infine può essere determinato dalla successione delle immagini, quindi non solo movimento di
cose dentro le immagini, non solo movimento delle immagini, ma anche movimento  dettato dal ritmo della
successione delle immagini.

Un altro elemento condiviso nei prodotti audiovisivi é l’adesione ad una serie di regole serie di regole della
comunicazione audiovisiva. Le immagini dei prodotti audiovisivi non sono ovviamente tutte uguali. Progettare
un’immagine, o una serie di immagini, vuole dire: lavorare con dei codici, adottare determinate modalità di
composizione oppure trasgredirle. Insomma, fare comunicazione audiovisiva significa scegliere tra un
insieme di possibilità alternative oppure rompere gli schemi, trasgredendo le regole stesse. 

Abbiamo cercato di individuare gli elementi comuni a tutti i prodotti della comunicazione audiovisiva. A
questo punto dobbiamo fare un ulteriore passo in avanti, chiedendoci che cos’è il cinema? Che cosa
differenzia l’esperienza dell’andare al cinema dall’esperienza di vedere lo stesso prodotto audiovisivo su un
tablet?
Proviamo a cercare una risposta, tornando alle origini del cinema stesso, alla fine dell’Ottocento, ai tempi dei
fratelli Lumière.

Una semplicistica convenzione storica attribuisce ai fratelli Louis e Auguste Lumière di Lione l'invenzione del
cinema, e individua nella data della prima proiezione pubblica a pagamento tenutasi 28 dicembre 1895 a
Parigi, la simbolica data di inizio della storia del cinema. 

In realtà l'inven zione del cinematografo è un fenomeno internazionale che coinvolge tutti i paesi
economicamente più avanzati (Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra). Però la sera, in un Caffé parigino i
fratelli Lumière organizzano la prima proiezione pubblica a pagamento della storia.

Nasce, insomma il cinema come forma di comunicazione sociale, come esperienza spettacolare egemone
nell’economia del tempo libero elle classi sociali del primo ‘900.
Quella sera del 28 dicembre 1895 si configurano già delle modalità di costruzione dell'esperienza
cinematografica che resteranno sostanzialmente invariate sino ad oggi e che costituiscono alcuni elementi
identitari dell'esperienza cinematografica. 

Vediamo quali sono:

1. Proiezione su grande schermo (in altri termini la proiezione di immagini di grandi dimensioni su una
superficie);
2. Spazio pubblico e collettivo;
3. Pagamento di un biglietto;
4. Alta definizione, o quantomeno la migliore trasmissione del segnale visivo e sonoro;
5. Esperienza immersiva (il pubblico in sala é al buio e in una condizione di semi-immobilità).

https://www.youtube.com/watch?v=1IXrdzKWuxI

Provate ora a guardare una sequenza tratta da Blow Out, un film di Brian De Palma del 1981
interpretato da John Travolta.

Blow out è  la storia di un fonico (i fonici si occupano di registrare i suoni e dopo di mixarli con le immagini).

Travolta assiste ad un incidente la sera dopo che si é recato in un bosco per registrare alcuni suoni. Una
macchina sfonda un parapetto e cade in un fiume. Travolta stessa si tuffa in acqua salvando una
passeggera, mentre il conducente muore. Solo più tardi si scoprirà che il conducente era un candidato alla
presidenza degli Stati Uniti. Travolta si insospettisce pensando che l’incidente sia in realtà un omicidio. Inizia
allora a riascoltare la registrazione del suono di quella sera e associa quelle immagini a dei suoni, perché in
realtà quella notte era presente anche un operatore cinematografico in quel posto, che aveva ripreso tutta la
scena. I fotogrammi delle immagini registrate dal cine-operatore sono pubblicate su un settimanale comprato
da Travolta che ritaglia i fotogrammi, li  sviluppa, li stampa e ricostruisce letteralmente il film, associandoli ai
suoni che lui ha registrato. Attraverso questa associazione, Travolta scopre l’esistenza di un puntino
luminoso, quasi certamente la fiammata di un’arma da fuoco che corrisponde esattamente al suono dello
sparo che lui aveva registrato.

Che cosa possiamo imparare sul cinema dallo studio di questa sequenza?
Intanto che il cinema:

• si basa sull’illusione di movimento. Travolta ricostruisce il movimento  a partire dalla messa in


successione di immagini statiche. Quindi, il movimento nel cinema deriva dalla successione di istanti
immobili;
• esige una forte mediazione tecnologica nettamente superiore a quella che esige la comunicazione
orale o scritta;
• prevede la possibilità di manipolare la realtà, agendo sul tempo e nascondendo la manipolazione
stessa;
• è un'esperienza audiovisiva (senza l'aiuto dei rumori Travolta non avrebbe capito il significato del
puntino luminoso). Il suono ha un’importanza rilevante tanto quanto l’immagine. Per esempio, tutti i
film muti erano in realtà muti, ma commentati da musiche che li accompagnavano e spesso
enfatizzavano il valore emotivo delle immagini;
• può essere un'esperienza di conoscenza e di rivelazione della realtà. Che cosa fa Travolta facendo
cinema, costruendo cinema? Fa qualcosa che prima non aveva visto, non aveva capito. Capisce la
verità di quella sera attraverso il cinema stesso.

Come tutti i prodotti audiovisivi, anche i film vengono progettati e realizzati sulla base – abbiamo detto – di
norme più o meno codificate e di scelte tra determinate soluzioni alternative.  
Nella prospettiva di tali scelte, la progettazione di un’immagine cinematografica si deve muovere come
minimo su due livelli distinti e complementari:

1. il primo livello è definito dall’inquadratura


2. il secondo livello è invece definito dalla sequenza, ossia da un insieme unitario, delimitato, di
inquadrature.

Lavorare a livello dell’inquadratura significa rispondere ad alcuni interrogativi. Per esempio: che cosa metto
dentro un’immagine? Come organizzo ciò che ho messo dentro l’immagine, in che modo lo rendo visibile? 

Passando alla sequenza invece, adottare delle regole o trasgredirle, a livello di sequenza, invece, significa
rispondere ad altri interrogativi: 
come metto in relazione una immagine con quelle che la precedono e la seguono? In questa sotto-sezione
cercheremo di rispondere ad alcune di queste domande e di individuare alcuni degli elementi costitutivi nella
parte di progettazione di un'immagine, di un’inquadratura.

L'inquadratura, come si è già anticipato, è l’unità di espressione minima, della comunicazione filmica: l'unità
di base. 

Il termine “inquadratura” non è facilissimo da definire. Diciamo però che assume due significati congiunti,
uno spaziale e l’altro temporale: dal punto di vista temporale, l’inquadratura è identificabile con un frammento
di tempo che lo spettatore percepisce come continuo, senza alcuna interruzione, come una porzione di film
ininterrotta, compresa tra uno stacco e un altro. Dal punto di vista spaziale invece, l’inquadratura è definibile
come lo spazio compreso all’interno del frammento temporale continuo. 
Sul piano spaziale l’inquadratura è definita dal campo (lo spazio visibile che noi vediamo al suo interno) e dal
quadro (ossia la cornice, per lo più quadrangolare, che delimita questo spazio).
Realizzare un’inquadratura comporta numerose operazioni. Significa comporre gli elementi visivi (oggetti,
corpi, luoghi ecc…) all’interno del quadro. Significa scegliere un determinato punto di vista; stabilire una
certa distanza tra questo punto di vista e ciò che viene ripreso; programmare un certo tipo di illuminazione
che renda visibile il campo nella sua interezza o solo in parte. Ma progettare un’inquadratura vuol dire
valutare che cosa mettere dentro il campo e che cosa invece lasciare fuori. Oppure significa se mantenere
fisso il punto di vista da cui inquadro o se invece metterlo in movimento. 

Progettare un’inquadratura significa innanzitutto pianificarne la composizione. In altre parole, è necessario


organizzare i rapporti tra gli elementi all'interno del quadro (corpi, oggetti, luoghi ecc…). Questi elementi, se
li guardiamo dal punto di vista esclusivamente visivo, sono essenzialmente delle linee (i contorni delle cose e
dei corpi) o dei volumi (lo spessore materiale delle cose, la profondità di uno spazio per esempio). 
Lavorare sulla composizione di un’inquadratura, allora, significa regolare il livello delle linee e dei volumi,
coordinando i loro rapporti all'interno del campo.

Queste operazioni di composizione, che il cinema condivide in parte con altre forme di espressioni visive
come: la pittura, la fotografia, il fumetto, sono condizionate da alcune caratteristiche peculiari del modo di
vedere le immagini da parte degli occidentali. Quando noi vediamo un’immagine, non la percepiamo mai in
modo neutro, operiamo già delle scelte percettive sulla base delle nostre aspettative e delle nostre abitudini.
Per esempio tendiamo a guardare un’immagine:
• da sinistra a destra; 
• dall’alto in basso;
• di solito vediamo più ciò che sta davanti rispetto a ciò che sta dietro;
• siamo più attirati dai colori caldi che da quelli freddi;
• Così, come siamo più attirati dalle immagini rispetto alle zone scure.

Le immagini che invece hanno campi vuoti, attirano meno rispetto alle immagini che hanno campi pieni, che
sono saturi di cose e di oggetti; così come il nostro occhio é più attento all'interno dell’immagine a ciò che si
muove rispetto a ciò che sta fermo.

Distanze 
Inquadrare significa individuare un punto di vista. Quest’ultimo istituisce l'immagine e significa anche
scegliere dove posizionarlo, a quale distanza collocarlo rispetto a ciò che viene filmato. Ogni variazione di
questa distanza, tra il punto di vista e ciò che riprendo implica diversi tipi di inquadrature, dal particolare al
primo piano, dal campo totale al campo lunghissimo. Grazie alla variazione di distanze, il punto di vista si
modifica ed anche questa variazione porta il cinema a differenziarsi dal teatro, dove gli spettatori vedono gli
attori e le scenografie ad una distanza sempre uniforme e costante.

Angolazione e inclinazione

Inquadrare significa anche scegliere come angolare e inclinare il punto di vista rispetto a ciò che viene
filmato. L’oggetto che viene ripreso è sempre lo stesso ma, a seconda di dove si posiziona la cinepresa, le
connotazioni che emergono sono molto diverse.

Per quanto riguarda l’angolazione, si può scegliere di riprendere qualcosa frontalmente, lateralmente (da
destra o sinistra), dall’alto o dal basso. Si può persino arrivare a scegliere la cosiddetta angolazione a
piombo, come se la macchina da presa posizionata in alto fosse unita a ciò che riprende da un immaginario
filo perfettamente perpendicolare. 
Per quanto riguarda l’inclinazione, questa può essere orizzontale, ossia parallela all’orizzonte di ciò che
viene filmato, ma può anche essere verticale, diagonale o addirittura rovesciata.

Un ulteriore elemento chiave nella progettazione di un’inquadratura è l’illuminazione. La luce è prima di tutto
una condizione tecnica, nel senso che, senza la luce, l'immagine cinematografica non esisterebbe, o,
quantomeno, non sarebbe visibile. Potremmo dire che il cinema ha bisogno di luce, come le piante hanno
bisogno di acqua. Ma la luce non è solo un fattore tecnico, è anche uno strumento espressivo e
comunicativo. In materia di illuminazione, le scelte possibili sono molteplici, e possono condizionare la
comprensione di un’immagine dal punto di vista narrativo, emotivo o simbolico. Per esempio, nel caso di una
scena drammatica, si può predisporre un’illuminazione contrastata, fatta di nette divisioni tra chiari e scuri. In
una scena romantica invece si può adottare un’illuminazione più morbida, uniforme. Se si vuole valorizzare il
volto di un attore o un’attrice celebri si può scegliere di illuminarne frontalmente il volto, lasciando in ombra o
fuori fuoco tutto il resto. Oppure, se si vuole conferire a un volto un aspetto minaccioso, come capita spesso
in un film horror, allora lo possiamo illuminare dal basso. 

Il punto di vista che istituisce un’inquadratura può essere statico o dinamico. Nel primo caso la macchina da
presa è fissa, nel secondo caso invece viene messa in movimento. Esistono diversi tipi di movimento di
macchina. Si va da quelli semplici come la panoramica, in cui la macchina da presa si muove sul proprio
asse, a movimenti più complessi e dinamici, come il carrello, il dolly o la steadycam, un dispostivo che
consente di realizzare movimenti con la macchina a mano molto stabili e fluidi (lo si vede nel celebre film
Shining di Stanley Kubrick). I movimenti di macchina svolgono diverse funzioni comunicative ed espressive:
possono far conoscere allo spettatore uno spazio, possono simulare il punto di vista dinamico di un
personaggio all’interno del film, possono scoprire dei particolari, isolandoli all’interno di un insieme, oppure
possono mettere in relazione un dettaglio con l’insieme che lo comprende.

• Ogni inquadratura implica sempre una operazione di inclusione/esclusione del visibile. In altri
termini, le inquadrature esistono non solo per quello che fanno vedere, ma anche  per quello che
nascondono.
• Per definizione ogni inquadratura attiva sempre il cosiddetto spazio fuori campo, ossia quella
porzione di spazio che lo spettatore non vede in un dato momento, ma della cui esistenza è più o
meno consapevole.
• Guardate per esempio il primo piano di questo volto. Bene, questa inquadratura attiva
immediatamente almeno sei porzioni di spazio fuori campo: il fuori campo si estende infatti ai quattro
lati del quadro, ma anche nello spazio che si trova davanti all’inquadratura, oppure che si nasconde
dietro ciò che stiamo vedendo.

Esistono tanti modi per far capire allo spettatore la presenza di un mondo che include le immagini che sta
vedendo. Lo spettatore può percepire l’esistenza di ciò che sta oltre i limiti dell’inquadratura attraverso, per
esempio, un’ombra, o tramite qualcosa che si riflette nello specchio, o tramite un suono che proviene da una
fonte invisibile, oppure attraverso lo sguardo di un personaggio che sta guardando qualcosa di non visibile
direttamente in campo. O ancora fuori campo, può essere attivato facendo uscire o entrare un personaggio.
Tra il campo e il fuori campo insomma c’è sempre un confronto costante e un dialogo continuo ed é compito
dello spettatore, nonché suo piacere, costruire nella propria mente un mondo possibile fatto al tempo stesso
di cose visibili e non visibili.

Nella sotto-sezione precedente abbiamo approfondito la conoscenza dell’inquadratura come unità


espressiva di base della comunicazione filmica. Tuttavia, questa comunicazione per funzionare a pieno
regime deve  mettere in relazione fra loro le inquadrature, progettando la loro successione all’interno di
un’unità più ampia e articolata che abbiamo chiamato sequenza. La sequenza è definibile come un insieme
di inquadrature che identifica nel suo complesso un episodio compiuto di durata variabile: per esempio un
litigio  tra fidanzati in una commedia romantica, un omicidio o una rapina in banca in un film poliziesco o
l’inseguimento di una gazzella da parte di un leone in un documentario sugli animali.  
Questa operazione di messa in serie delle inquadrature viene chiamata “montaggio”. Il montaggio è stato a
lungo considerato nella teoria del cinema come il vero elemento specifico dell’espressione cinematografica,
ma, in realtà, non è così vero. I primi brevi film dei fratelli Lumière, ad esempio quelli proiettati nella sera del
28 dicembre 1895 a Parigi, erano costituiti da una sola inquadratura che durava circa 60 secondi. Ancora
oggi esistono film realizzati con una sola inquadratura: pensiamo per esempio ad Arca russa, di Sokurov, o
Victoria, di Sebastian Schipper. Il montaggio inteso come messa in serie di inquadrature, quindi è una
possibilità del cinema, non il suo elemento specifico. É una possibilità che si inizia a sperimentare sin dalle
origini del cinema stesso.  

1. Reale (set): continuità

2. Riprese (inquadrature): discontinuità

3. Montaggio: ricomposizione artificiale della continuità


La realtà nella quale noi viviamo la nostra quotidiana esperienza è una dimensione spazio-temporale
continua. Realizzare un’inquadratura significa – lo abbiamo ripetuto più volte – fare delle scelte. Queste
scelte producono nel flusso continuo della realtà una discontinuità. Il montaggio è un'operazione che
mettendo in rapporto le inquadrature punta a ricomporre la continuità del reale frammentata dalle
inquadrature stesse. Ma, questa operazione di ricostruzione, di ricomposizione, é di tipo artificiale,
manipolando il tempo e lo spazio. Per esempio il montaggio può dare la sensazione che due piazze siano
molto vicine; mentre sono molto lontane. Oppure il montaggio può contrarre la durata degli eventi.
Prendiamo per esempio un film come 127 ore di Danny Boyle, la drammatica storia di un alpinista che
rimane intrappolato in un burrone per cinque giorni. Queste vicende sono raccontate in un film che dura poco
più di un’ora e mezza. La continuità delle azioni che noi vediamo in un film è una continuità apparente
costruita del montaggio. Il montaggio in fondo è un pò come la cucitura di un vestito: quando un vestito è
cucito bene sembra un pezzo unico, ma se poi lo guardiamo con più attenzione capiamo che è composto da
più pezzi di stoffa. Una sequenza, in fondo, è proprio come un vestito: un insieme in apparenza unitario,
composto in realtà di tanti frammenti cuciti accuratamente l’uno con l’altro. 

Qualsiasi lavoro di montaggio implica almeno quattro operazioni:


1. La prima fase è quella della selezione delle inquadrature: non tutte le inquadrature girate durante la
lavorazione di un film saranno poi scelte per l’edizione finale del film stesso. Ci sono dei registi che
realizzano diverse versioni di una stessa inquadratura e poi ne scelgono una, o addirittura non la
scelgono affatto, la scartano. Ci sono altri registi che invece preferiscono lavorare velocemente,
scegliendo quasi sempre la prima versione di un’inquadratura. 
2. Nella seconda fase si determina la durata delle inquadrature; non è detto infatti che la durata
dell'inquadratura scelta coincida con la durata della inquadratura originaria, perché il montatore può
deciderne di tagliare la parte iniziale o la parte finale dell’inquadratura stessa.
3. La terza fase è quella dell’assemblaggio delle inquadrature. Le inquadrature che sono state scelte e
di cui si è definita la durata devono essere messe quindi in successione l’una con l'altra. Il montatore
deve quindi progettare un ordine lineare di apparizione delle singole inquadrature. Nel montaggio
digitale quest’ordine lineare diventa visibile sullo schermo tramite la cosiddetta time line. 
4. Nella quarta fase le inquadrature disposte sulla time line devono essere raccordate, ossia,
agganciate reciprocamente, in modo da dare l’idea di un insieme coerente e coeso.

Nel cucire in successione le inquadrature all’interno di una sequenza, il montaggio segue normalmente
alcune regole di collegamento, o meglio, di raccordo, tra una inquadratura e l’altra. Per esempio, esiste il
raccordo di sguardo, che unisce due inquadrature attraverso il punto di vista di un personaggio. Nella prima
inquadratura si riprende il personaggio che guarda qualcosa, nella seconda invece si inquadra quello che sta
guardando. Oppure esiste il raccordo di direzione: se nella prima inquadratura un personaggio esce dal
campo da sinistra, nell’inquadratura seguente lo stesso personaggio dovrà allora entrare in campo da destra.
Non si tratta, attenzione, di regole rigide e obbligatorie, come possono esserlo invece – per esempio – le
regole ortografiche, grammaticali o sintattiche della lingua italiana. Si tratta piuttosto di convenzioni che
appartengono a una consolidata tradizione, interessata a produrre messaggi audiovisivi intellegibili, coerenti
e perlopiù funzionali allo sviluppo di un racconto. In questo tipo di montaggio fondamentalmente narrativo,
ogni stacco da un’inquadratura all'altra e ogni raccordo fra le inquadrature sono sempre motivati sul piano
del racconto.  

Comunemente si ritiene che il montaggio serva soprattutto a raccontare qualcosa, a costruire una narrazione
complessa. Si tratta di una visione non scorretta ma sicuramente riduttiva perché il montaggio non ha solo
una funzione narrativa, non serve soltanto a raccontare. Cerchiamo di capire in sintesi allora quali sono le
altre principali funzioni del montaggio. 

Ne possiamo individuare almeno quattro. Oltre alla funzione narrativa, certamente egemone nel corso della
storia del cinema, il montaggio può anche svolgere una funzione: descrittiva, ritmica o concettuale. 

Nella funzione descrittiva, il montaggio intende semplicemente esplorare uno spazio al cui interno non si
sviluppano eventi narrativi particolari o non si muovono personaggi. Allora, i rapporti tra le inquadrature, in
questo caso, si fondano allora soprattutto sulla prossimità spaziale tra i diversi frammenti della sequenza. Il
montaggio descrittivo è usato spesso, per esempio, nei documentari paesaggistici, oppure all’inizio di un film
narrativo, quando si vuole presentare allo spettatore quello che sarà lo scenario del film. Si pensi per
esempio all’inizio del celebre film Casablanca di Michael Curtis. Nelle prime immagini si descrive la città, per
poi isolare il Ricks’ Bar, principale luogo degli eventi del film. 

Nella funzione ritmica, la cadenza delle inquadrature, la velocità della loro successione, il gioco metrico delle
loro durate, diventa quasi più importante del contenuto visivo delle immagini. Si pensi per esempio ai
videoclip, dove il principale fattore che guida le scelte di montaggio non è sempre il fatto di raccontare una
storia. Molto più importanti invece sono le relazioni ritmiche tra la musica e le immagini, o i rapporti tra le
linee, i colori, le curve, le superfici e così via. Oppure, per ritornare al cinema, si pensi alla celebre sequenza
dell’omicidio nella doccia di Psycho (di Hitchcock). Qui il regista non si limita a raccontare un evento, ma
vuole trasmettere una sensazione di angoscia, di orrore, e lo fa lavorando sull’accelerazione del ritmo delle
immagini. Infatti, ci sono molte inquadrature brevi nelle scene delle inquadrature della doccia, alcune quasi
impercettibili, che servono per creare una tensione spasmodica e per amplificare la drammaticità
dell'evento. 
Un’ulteriore funzione del montaggio é la cosiddetta funzione concettuale o intellettuale. La possibilità del
cinema di comunicare dei concetti è stata sperimentata soprattutto a partire dagli anni Venti del Novecento in
Unione Sovietica. In quel contesto, l’esigenza di comunicare al pubblico valori ed emozioni che fossero
funzionali all’ideologia e ai programmi politici della rivoluzione bolscevica spinse alcuni registi a riflettere sulla
possibilità da parte del cinema di propagandare concetti. Il regista più impegnato a verificare concretamente
tale possibilità è stato Sergej Michailovic Eizesntein. Secondo Eizenstein l’accostamento, per contrasto o per
analogia, tra due inquadrature produce un significato nuovo, che non é presente nei significati delle due
inquadrature considerate singolarmente. Da due immagini concrete, insomma, si genera un significato
astratto. In uno dei film più celebri di Eizenstein, Sciopero, le immagini di una rivolta operaia soffocata nel
sangue dalla polizia zarista sono messe in relazione diretta con le immagini della macellazione di una
mucca. Da questo accostamento nasce così una similitudine di natura concettuale ed astratta: gli operai
sono vittime innocenti, mentre i soldati sono dei macellai.

Nelle sotto-sezioni precedenti abbiamo dimostrato come realizzare un’inquadratura o progettare una
sequenza di inquadrature significhi adottare delle scelte, prima di tutto formali. Tuttavia, occorre precisare
che queste scelte non sono sempre state le stesse, ma hanno una storia, nel senso che si sono trasformate
nel tempo anche in rapporto a più ampie trasformazioni tecnologiche (pensiamo all’introduzione del sonoro
alla fine degli anni Venti), culturali, sociali ed economiche. 

Per avere la percezione immediata di come sia cambiato il cinema nel corso della sua storia, basta mettere a
confronto due film tratti dallo stesso romanzo, il celebre Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.
Il primo film è stato realizzato in Gran Bretagna nel 1903, ed è un film muto, in bianco e nero di 10 minuti;
mentre il secondo è stato realizzato più di cento anni dopo, nel 2010, da Tim Burton ed è un film a colori,
ricchissimo di effetti speciali tecnologicamente molto avanzati e ne esiste anche una versione in 3D di quasi
due ore. Si tratta, come è evidente, di due film molto diversi, ma non bisogna cadere nel facile errore di
vedere nel film di Burton un prodotto migliore, o quanto meno più evoluto di quello realizzato 100 anni prima.
Così come sarebbe un errore vedere nel film del 1903 un prodotto ancora primitivo, ingenuo. Infatti, ogni film
va collocato nel suo tempo e nel suo contesto storico di appartenenza. Quando il film del 1903 fu proiettato
al pubblico, sicuramente apparve come qualcosa di totalmente nuovo, come l’espressione più avanzata della
modernità. 

Insomma, il cinema ha una storia come tutti gli altri mezzi di comunicazione, una storia che inizia a fine
Ottocento e arriva sino ad oggi, passando attraverso alcune fasi. Possiamo provare a individuarle avendo
però sempre presente il fatto che dividere la storia in periodi è un’operazione certamente utile, ma che si
espone sempre al rischio della schematizzazione e semplificazione dei processi.

Nei primissimi anni della sua storia ultra-centenaria, il cinema propone al pubblico non dei racconti ma più
semplicemente delle cose da vedere. Quali cose? Sostanzialmente di tutto: da eventi molto semplici come
l’arrivo del treno in una stazione a piccoli spettacoli di ballo, da giochi di prestigio a incontri di pugilato, da
vedute di paesaggi pittoreschi a numeri acrobatici, come si può vedere – per esempio – nei primi film prodotti
dal celebre inventore americano Thomas Alva Edison. La fotografia animata della realtà quindi coesiste con
lo spettacolo magico, straordinario e pirotecnico. 
La storiografia più recente definisce questa prima fase della storia del cinema come cinema delle attrazioni
proprio per questo motivo: perché realtà e fantasia concorrono insieme a produrre piccoli spettacoli che
attraggono il pubblico, destano stupore, curiosità e meraviglia. In questa prima fase delle origini, le attrazioni
non raccontano, non inventano mondi possibili, ma fanno vedere, sollecitano le passioni e i desideri
dell’occhio dello spettatore. 

Tuttavia, già nei primi anni del Novecento, il pubblico inizia ad abituarsi alla novità del cinema. La semplice
curiosità di vedere immagini che si muovono o il piacere di assistere alle più diverse attrazioni non sembrano
più essere un motivo sufficiente per pagare un biglietto ed entrare in una sala. Gli spettatori hanno bisogno
anche di seguire delle storie e così il cinema inizia a orientarsi verso quella dimensione narrativa che
eserciterà una costante egemonia sulla produzione cinematografica di tutto il Novecento e anche oltre. 
I film tendono allora a diventare più lunghi: dalla manciata di secondi dei primi film di Edison e Lumière si
passa, dal 1904 in avanti, a film di dieci minuti, per poi arrivare negli anni Dieci al vero e proprio
lungometraggio, che può durare anche due ore e oltre. 
Lo spettacolo cinematografico propone racconti via via sempre più elaborati. La produzione cinematografica
si organizza ormai su scala industriale, e le principali case produttrici – in particolare in Francia, in Italia, e
soprattutto negli Stati Uniti si muovono sul mercato internazionale. I film iniziano ad essere prodotti in serie e
cominciano a differenziarsi per generi.

Per capire quanto siano veloci le trasformazioni nel modo di raccontare il cinema di questi anni, può essere
sufficiente che guardiate due film narrativi realizzati a distanza di pochi anni. Il primo, più giocato sulle
attrazioni e sui trucchi, è Viaggio sulla Luna, di George Méliès, un mago, illusionista, uomo di teatro che dalla
fine dell’Ottocento sceglie di dedicarsi al cinema, realizzando film visionari, fiabeschi e  fantascientifici. Il
secondo film invece, molto più narrativo, con un racconto che in dieci minuti si sviluppa lungo diversi anni, è
Unchanging Sea, del 1910, diretto dall’americano David Wark Griffith, considerato dagli storici come uno dei
padri del racconto cinematografico. 

Dalla seconda metà degli anni Dieci inizia a svilupparsi una nuova fase della storia del cinema chiamata per
convenzione cinema classico. Dopo la fine della prima guerra mondiale, il cinema americano inizia ad
affermare la propria egemonia nel mondo. L’industria di Hollywood, molto bene organizzata e ricca di risorse
finanziarie e tecnologiche, diventa una seducente fabbrica di racconti, di generi, di attori e attrici celebri che
diventano vere e proprie star. Ma Hollywood propone anche e soprattutto una nuova relazione con lo
spettatore. Se nel cinema delle attrazioni lo spettatore assisteva a uno spettacolo, ora invece questo stesso
spettatore, anche grazie alla sua identificazione con i personaggi che si muovono sullo schermo, viene
assorbito all’interno dello spettacolo stesso, ossia all’interno del film. Il film prende lo spettatore per mano,
anzi, possiamo dire che lo prende per lo sguardo e lo porta all’interno del suo mondo narrativo, come se si
trattasse di un sogno ad occhi aperti.

Perché lo spettatore possa essere totalmente coinvolto e assorbito nel mondo della finzione, questo mondo
deve apparire credibile, ovvero non deve essere percepito come un mondo fittizio e illusorio. In altre parole,
tutte le scelte di cui abbiamo parlato nelle sotto-sezioni precedenti, nel cinema classico devono essere
trasparenti, percepite dallo spettatore come qualcosa di naturale.  Ecco perché, ad esempio, si parla nel
caso del cinema classico, di montaggio invisibile: gli stacchi e i raccordi tra un’inquadratura e l’altra non
devono mai essere evidenziati, tutto deve sembrare fluido, continuo, coeso e senza strappi.
Lo spettatore insomma non deve avere la sensazione di essere al cinema ma deve credere di trovarsi in un
mondo che esiste veramente. 

Dalla fine degli anni Cinquanta, i modelli di racconto e di rappresentazione del cinema classico iniziano ad
essere messi in discussione soprattutto in Europa. Gradualmente si entra così in una nuova fase che gli
storici chiamano “cinema della modernità”. Le parole d’ordine di questo cinema sono trasgressione e
innovazione. Tutte le regole tradizionali sono contestate: se il montaggio invisibile del cinema classico non
voleva far percepire gli stacchi tra un’inquadratura e l’altra, il cinema moderno invece vuol far sentire la
discontinuità, quasi lo strappo tra le diverse immagini di una sequenza. Se il cinema classico prevedeva
un’illuminazione efficace, raffinata e ben calibrata, capace di far capire allo spettatore che cos’era più
importante e che cosa lo era meno, il cinema moderno propone invece una luce quasi sporca, disomogenea,
poco funzionale alla piena comprensione di ciò che viene fatto vedere. Ancora: se il cinema classico si
fondava su racconti compatti, serrati, ricchi di azione, il cinema moderno propone invece racconti dai tempi
più dilatati, frantumati, con frequenti digressioni e sospensioni dell’azione. Il cinema moderno, insomma, non
vuole assorbire lo spettatore all’interno della finzione, come accadeva nel cinema classico; al contrario, vuol
far capire allo spettatore che il film è finzione. Al pubblico non si offrono più sogni ad occhi aperti ma
esperienze più impegnative, quasi disorientanti, che esigono una costante attenzione critica, che richiedono
un coinvolgimento non solo emotivo, come nel cinema classico, ma anche e soprattutto intellettuale.

Dalla seconda metà degli anni Settanta si apre nella storia del cinema una fase di profonde trasformazioni
ancora oggi in pieno corso. 
I cambiamenti sono molteplici: prima di tutto si modificano i rapporti di forza nel sistema della comunicazione
audiovisiva: l'industria del cinema perde la sua egemonia, che già era stata insidiata dalla televisione sin
dagli anni Cinquanta. Il cinema diventa un tassello di una più ampia industria integrata dell'intrattenimento,
fatta di reti televisive, case discografiche, fumetti, gadget, videogame, piattaforme telematiche ecc… I film
non si vedono più soltanto in sala o in tv, ma anche, dagli anni Ottanta, su supporti domestici, o, in anni più
recenti, in web streaming.

Dal punto di vista linguistico e narrativo, il cinema contemporaneo si confronta con il cinema che l’ha
preceduto, e lo fa con una tale intensità da diventare quasi una riflessione sul cinema stesso, sui suoi
meccanismi e sul suo rapporto con la realtà. Senza dubbio il cinema contemporaneo recepisce le
innovazioni della fase precedente, del cinema della modernità, sviluppando sperimentazioni narrative (si
pensi alle strutture temporali complesse dei film realizzati da Tarantino, Lynch o Nolan). Inoltre, il cinema
contemporaneo intensifica anche le innovazioni stilistiche del cinema moderno sul piano del montaggio, per
esempio, che si fa sempre più intenso e accelerato, oppure sul piano dei movimenti di macchina sempre più
virtuosi ed esibiti. Il cinema contemporaneo però recupera anche molte cose dal cinema classico: ritornano
in parte i racconti fluidi e compatti, incentrati sull’identificazione tra spettatore e personaggio (si pensi a molti
film di Spielberg). Come vedremo nella prossima sezione ritornano i generi e soprattutto ritorna, più
ampiamente, il bisogno di offrire al pubblico un piacere della visione, un piacere che spesso si colore di tinte
ludiche e ironiche.

Inoltre, il cinema contemporaneo vive una rivoluzione tecnologica la cui portata epocale è analoga a quella
prodotta dall’introduzione del sonoro dalla fine degli anni Venti. Naturalmente, sto parlando del passaggio
dalla pellicola ai pixel, ossia dall’immagine analogica all’immagine digitale. L'immagine cinematografica
analogica era un’impronta di quanto veniva filmato, e questa impronta veniva rilasciata dalla luce sulla
superficie fotosensibile della pellicola. L'immagine digitale è invece una traduzione della realtà filmata in
informazioni codificate a partire da serie numeriche binarie (il termine “Digitale” deriva d’altronde dall'inglese
“Digit” = cifra). Nell’immagine digitale, questa differenza implica un aumento esponenziale nelle possibilità di
modificare la realtà di partenza o addirittura è possibile inventarne una realtà non esistente, eppure quasi
reale. Lo sviluppo degli effetti speciali digitali ha portato a film come Matrix o Avatar, dove la creazione di
mondi possibili raggiunge livelli di autenticità stupefacenti. Per il cinema, nato nell’Ottocento e cresciuto nel
Novecento, si annuncia così un nuovo secolo ancora pieno di innovazioni e di immagini visionarie.

6.
Nell’unità precedente, lo ricorderete, abbiamo  parlato anche dei generi cinematografici. In particolare si è
visto come i generi emergano sin dai primi anni della storia del cinema, per poi svilupparsi in un vero e
proprio sistema ricco e articolato nel periodo del cinema classico, soprattutto a Hollywood, ma non solo. Non
ci siamo preoccupati, però, di porci una domanda fondamentale:  che cosa sono i generi cinematografici? 
Sono delle etichette attribuite a certi gruppi di film dalla produzione? Sono delle formule funzionali alla
fabbricazione industriale di film in serie? Oppure sono delle strutture normative che regolano il
funzionamento dei testi? O ancora: sono il frutto di un accordo, di un patto, tra certi tipi di film e il pubblico? 
Forse i generi sono tutto questo allo stesso momento. E anche qualcosa in più. Di sicuro, comunque, i generi
cinematografici sono più facili da riconoscersi che da definirsi. Tutti noi infatti siamo in grado di distinguere,
sul piano intuitivo, tra una commedia e un film drammatico, tra un musical e un western, tra un film di guerra
e un film d’amore, e tutti sappiamo che cosa aspettarci quando andiamo a vedere un film di fantascienza o
un horror. 

Questa nostra capacità di distinguere in modo intuitivo tra un genere e l’altro si spiega con fatto che i film di
genere raccontano storie che il pubblico riconosce, come se le avesse già viste pur vedendole per la prima
volta. Non si tratta però di un paradosso. Perché infatti una storia sia collocabile in un genere piuttosto che in
un altro è necessario che in essa siano sempre presenti determinati e peculiari elementi ambientali, narrativi,
tematici e così via. Sono proprio tali elementi a costituire l’identità e la riconoscibilità sociale di un
determinato genere. Un film western, per esempio, esige la presenza di cowboy e di pistole; in un film di
guerra ci deve essere qualcuno che combatte con le armi contro qualcun altro; una detective story ha
bisogno di un mistero da risolvere e di atmosfere cupe, plasmate da luci contrastate e da ombre taglienti,
mentre non può esistere una commedia romantica senza una storia d’amore a lieto fine. 

I generi quindi propongono storie che tendono a ripetersi, ogni volta naturalmente con delle variazioni più o
meno significative. Ripetizione e differenza, costanti e varianti, dunque. Tra questi due poli si configurano le
cosiddette regole dei generi, ovvero un insieme di convenzioni narrative, tematiche, visuali, formali,
ideologiche, le quali si sono ovviamente trasformate nel tempo, eventualmente sintonizzandosi anche con i
cambiamenti culturali, politici, tecnologici della società. Il cinema di fantascienza, per esempio, ha saputo
quasi sempre intercettare le trasformazioni tecnologiche, dando forma anche alle paure indotte da queste
trasformazioni. Oppure si pensi a come è cambiata la visione degli indiani nei film western: se nel western
classico i nativi americani erano rappresentati in prevalenza come nemici selvaggi e aggressivi, a partire
dalla fine degli anni Sessanta, grazie a film come Soldato blu o Il piccolo grande uomo per arrivare fino a
Balla coi lupi,  il western riconosce la barbarie colonizzatrice perpetrata dai bianchi nella progressiva
conquista della frontiera. 
Anche i generi, quindi, hanno una storia: nascono, crescono, maturano, e alcuni persino muoiono, o quanto
meno invecchiano. Per esempio,  il musical è stato un genere fondamentale nel cinema classico
hollywoodiano mentre oggi, pur ispirando occasionalmente film interessanti come  Moulin Rouge o La La
Land, ha una rilevanza molto più marginale.  Inversamente ci sono anche dei generi che risorgono, come nel
caso dei kolossal ambientati nel mondo antico, che in genere cominciano ad andare di moda negli anni Dieci
del Novecento, ma recentemente ritornati in auge dopo il grande successo del Gladiatore, diretto da Ridley
Scott nel 2000. 

La storia dei generi cinematografici è caratterizzata non solo dall’incessante ripetizione differenziata delle
convenzioni ma anche da una certa tendenza alla trasgressione delle regole, particolarmente frequente
soprattutto a partire dal cinema della modernità. Ne sono un esempio le provocatorie decostruzioni del
gangster movie o del musical operate da Jean-Luc Godard negli anni Sessanta o, in altro contesto, le
rivisitazioni del thriller hitchcockiano da parte di Brian De Palma, oppure del cinema horror da parte di Wes
Craven, soprattutto con il ciclo di Scream. O, ancora, si pensi alla demitizzazione proposta nel cinema
americano degli anni Settanta, con film come Il Grinta di Henry Hathaway, o Il lungo addio di Robert Altman,
dove gli eroi archetipici dei grandi generi hollyowoodiani appaiono disillusi, intristiti, invecchiati, e anche
scossi da pulsioni di morte.

Una strategia particolare e molto frequente di trasgressione dei codici di genere è la parodia. In questo
caso, i codici tipici di un genere “serio” (per esempio il poliziesco o l’horror) vengono riletti e stravolti in
chiave comica. Il fenomeno della parodia è antico quasi quanto il cinema, ma si è intensificato molto dopo la
crisi del cinema classico.  Uno dei primi registi a proporre un’ampia e divertente parodia dei generi è stato,
negli anni Settanta, Mel Brooks con film come Mezzogiorno e mezzo di fuoco (parodia del western) o Balle
spaziali (parodia di Guerre stellari). Ovviamente, il capovolgimento parodistico funziona solo se lo spettatore
conosce bene i meccanismi e le convenzioni tipiche di un genere: per divertirsi nel caso di film come Scary
Movie o Una pallottola spuntata, per esempio, bisogna aver visto tanti film horror o polizieschi. 

La parodia, tuttavia, è solo una forma specifica, tra le tante possibili, di un fenomeno più ampio e radicato
non solo nella storia del cinema, ma anche in quella ben più ampia della cultura occidentale, almeno sin dai
tempi del Romanticismo: l’ibridazione tra generi.  Infatti, i generi si mescolano sin dai tempi del cinema
muto: Cabiria, per  esempio, uno dei primi kolossal della storia del cinema italiano, è un film storico sulle
guerre puniche, ma anche un film di avventura che racconta una storia d’amore. Come avviene nella
parodia, nel caso della contaminazione fra generi il fenomeno appare sempre più evidente nel cinema
contemporaneo. Il sistema dei generi, giunto alla piena maturazione ed efficienza nel periodo classico e poi
decostruito nel cinema moderno, recupera nel cinema contemporaneo la sua capacità di orientare la
produzione ma, al tempo stesso, rende più flessibili le distinzioni interne tra i vari generi, incoraggiando il
gioco delle combinazioni e citazioni spesso divertente, anche se non sempre molto raffinato. Uno dei registi
più inventivi nel contaminare e ibridare i generi è Quentin Tarantino. In Kill Bill, per esempio, Tarantino
mescola elementi di generi diversi: il  film asiatico di arti marziali, il thriller, lo splatter movie, il revenge movie
(un sotto-genere incentrato sulla dinamica narrativa e psicologica della vendetta), ma anche il dramma
sentimentale.

Secondo Rick Altman, uno dei maggiori studiosi internazionali di generi cinematografici, i generi iniziano ad
esistere soprattutto quando gli spettatori li riconoscono come tali, ovvero se cominciano a rendersi conto che
certi film si assomigliano molto fra loro e che le somiglianze sono più rilevanti delle differenze. In altri termini,
non può esistere un genere se la proposta produttiva di questo genere non viene riconosciuta e legittimata
come tale da un pubblico. È quanto avvenuto in anni recenti, per esempio, con la rapida affermazione
planetaria di un nuovo sotto-genere del film d’azione, ossia il film di super eroi ispirato a personaggi dei
fumetti, un sotto-genere in realtà presente sin dagli anni Quaranta del Novecento, ma esploso soprattutto
negli anni 2000, anche come elemento fondamentale di una più ampia catena di merchandising.

Sino ad ora abbiamo cercato di capire che cosa sono i generi e come si trasformano. Adesso però dobbiamo
porci una domanda diversa e più complessiva: come mai i generi sono stati così importanti nella storia del
cinema e ancora oggi svolgono un ruolo fondamentale, condizionando anche altri prodotti audiovisivi che al
cinema devono molto come le serie tv o i videogame? 
I generi ovviamente non sono una peculiarità del cinema. Sono apparsi ben prima, sin dall’antichità, in
letteratura, nel teatro, nelle arti figurative e nella musica, e nel corso del Novecento hanno condizionato la
produzione di altri media moderni come l’editoria popolare, la radio, la televisione, il fumetto. Eppure il
cinema, nella storia del Novecento, è riuscito a tenere conto di tutte queste tradizioni  e ha saputo conferire
ai generi un ruolo sociale di assoluto rilievo, superiore a quello di tutte le altre forme di comunicazione. 
Le ragioni di questo successo sono molteplici e investono aspetti diversi della comunicazione audiovisiva.
Ne esamineremo due: la prima è legata alla funzione economica dei generi, la seconda alla loro funzione
sociale.  
Prima di tutto dobbiamo considerare il lato economico della questione, tenendo presente che il cinema nasce
come industria votata al profitto. I generi, da questo punto di vista, offrono alle industrie cinematografiche più
solide e organizzate, prima fra tutte quella hollywoodiana, un modello per razionalizzare la produzione in
serie o in cicli, in modo da risparmiare sui costi di progettazione, realizzazione, e soprattutto per fidelizzare
il pubblico. Le grandi case di produzione, pur sfidandosi tra loro su un numero ampio di generi, tendono
però spesso ad associare il loro marchio a un certo tipo di genere: è il caso della Warner per il gangster
movie, della Paramount per le commedie, della Universal per l’horror e così via. In particolare, la
fidelizzazione del pubblico nel sistema hollywoodiano viene garantita dalla saldatura tra un determinato tipo
di genere e una certa star. Greta Garbo, per esempio, era legata negli anni Trenta ai drammi sentimentali
non di rado in costume, Humphrey Bogart alla detective story e al noir, John Wayne al western, Cary Grant
alla commedia, ecc. Questo nesso tra generi e divismo è ancora oggi ben presente: Julia Roberts è la star
delle commedie romantiche, mentre Sylvester Stallone dei film di azione.

La funzione economica dei generi non può però spiegare da sola le ragioni del loro successo. Molto
importante è anche la loro funzione sociale, ossia la capacità di proporsi come espressione culturale,
morale, ideologica, persino identitaria, di una comunità. Questa capacità è stata al centro di valutazioni molto
diverse, quasi contrapposte: secondo alcuni studiosi, ispirati per esempio dalle riflessioni della Scuola di
Francoforte sulla produzione culturale di massa, i generi svolgerebbero una funzione reazionaria, quasi
repressiva, manipolerebbero il pubblico imponendo attraverso convenzioni narrative e temi stereotipati i
valori e i modelli comportamentali delle classi dominanti. Molto diversa è, invece, la posizione di quegli
studiosi che attribuiscono ai generi cinematografici una sorta di funzione mitopoietica, cioè i generi
sarebbero ancora capaci di riproporre in chiave moderna personaggi, situazioni, simboli, valori e immagini
legati ai grandi miti. Il western, la detective story, il gangster movie, la fantascienza, l’horror e così via,
consentirebbero quindi alla complessa e controversa realtà contemporanea di relazionarsi con i temi e gli
interrogativi incessantemente rilanciati dalla grande tradizione mitica occidentale. 
Nelle prossime sotto-sezioni, dedicate all’approfondimento di tre generi, la detective story, il gangster movie
e il fantasy, cercheremo di approfondire anche queste relazioni.

Uno dei prodotti più fortunati e durevoli messi a punto dal cinema hollywoodiano classico è  sicuramente il
film di ambientazione criminale, il cosiddetto crime movie. Questa espressione identifica però una categoria
ampia, che include generi diversi. In questa sotto-sezione e nella successiva  isoleremo due di questi generi
legati al crime movie, a nostro avviso i più significativi e influenti nella storia del cinema: il gangster movie e
la detective story.  Da un lato si tratta di due generi non solo diversi ma quasi antitetici, a partire dal fatto
che il protagonista del primo genere, il gangster, è un criminale, mentre il protagonista del secondo genere,
l’investigatore privato o il poliziotto, si scontra con il crimine. Ciò che li rende non così distanti non è solo
l’ovvia centralità narrativa dei  fatti criminosi o l’individualismo che caratterizza sia il gangster che il
detective, ma anche e soprattutto la stessa diffusa e disperata tensione che attraversa i film di entrambi i
generi. Si tratta di una tensione che, per citare una celebre studio del grande critico americano Robert
Warshow, dedicato proprio alla figura cinematografica del gangster e che potete trovare nel book della
sezione, coglie senza dubbio il lato oscuro dell’ottimismo americano, una sorta di propaganda reiterata delle
felicità ad ogni costo amplificata dalla produzione culturale di massa, e in particolare dai film a lieto fine
dell’industria hollywoodiana degli anni Trenta e Quaranta. 

Questa tensione che possiamo cogliere sia nei capolavori del gangster movie classico dei primi anni Trenta
come Piccolo Cesare, con Edward G. Robinson, così come nelle grandi detective story  hollywoodiane degli
anni Quaranta, come Il grande sonno di Howard Hawks, fonda il suo sviluppo narrativo e simbolico sul
confronto tra coppie oppositive: volontà incontenibile di trasgressione e punizione inevitabile di questo
eccesso, ascesa e caduta, ambizione e disillusione, ordine e caos, povertà e denaro, individuo e società, e
così via.  Si tratta peraltro di una tensione ambivalente, nel senso che molto spesso, nei film riconducibili a
questi due generi, i termini che abbiamo appena evocato si oppongono solo in apparenza e possono
rovesciarsi l’uno nell’altro.  Il gangster, per esempio, soprattutto quello rappresentato nei primi anni Trenta, è
un personaggio che si contrappone alla società con violenza ma, al tempo stesso, è una figura che esprime
le contraddizioni della società moderna e, in particolare, del mito capitalista dell’uomo che si è fatto da solo.

Il gangster movie è uno di quei pochi generi cinematografici in cui il criminale è rappresentato con una certa
ambivalenza: da un lato il gangster è un personaggio violento e pericoloso che fa sempre una brutta fine,
quindi ha connotazioni negative; dall’altro lato però è un delinquente che esprime spesso un particolare
fascino. Si tratta però di un fascino diverso rispetto a quello dei fuorilegge dei film western, come Billy the
Kid e Jesse James, perché diversi sono i loro generi di appartenenza. Il western, infatti, trae origine dalla
prateria, cioè da un luogo dove non ci sono ancora leggi, il gangster movie invece è legato alla città, un
ambiente già molto regolamentato, in cui i le azioni dei singoli paiono spesso dettate dall’alto. Il gangster
sprigiona fascino proprio perché si contrappone con violenza e con un’incontenibile sete di potere alle regole
della società costituita, partendo da una situazione di svantaggio e quasi sempre da ambienti poveri.
Naturalmente però, questa parabola di contrapposizione e di ascesa se da un lato affascina il pubblico,
dall’altro lo preoccupa: ecco perché lo spettatore viene sempre rassicurato, nei finali dei film, dalla morte del
gangster, colpevole  di non essersi fermato al momento giusto o di essersi spinto laddove il normale
spettatore arriva solo con la fantasia. 

Il film di gangster ha nella storia del cinema una lunga tradizione. Nasce presto, pochi anni dopo l’affacciarsi
del cinema sulla scena pubblica: una delle prime produzioni riconducibili al genere, è The Musketeers of
Pigs Alley, del 1912, diretto da Griffith, ambientato nei bassifondi di New York. L’età d’oro del gangster
movie hollywoodiano, però, coincide con l’ultima drammatica fase del proibizionismo negli Stati Uniti, ossia i
primi anni Trenta. Fra il 1930 e il 1932 escono tre capolavori: Piccolo Cesare, Nemico Pubblico e Scarface.
In tutti e tre i film si racconta la tragica e fatale ascesa di tre criminali, tutti di umili origini, accecati
dall’ambizione sfrenata di affermare un dominio smisurato, di conquistare con la forza non tanto la ricchezza
quanto il potere. Pur raccontando eventi immaginari, i soggetti di questi tre film alludono a personaggi del
tempo resi celebri dalla stampa: tra questi, e primo fra tutti, Al Capone (il cui soprannome era proprio
Scarface). Come però ha osservato il professore Ortoleva in un importante studio sul genere gangster che
potete trovare nel book di questa sezione, in questi film il personaggio del gangster si distacca dalle notizie
dei giornali per proiettarsi in un destino tragico o in una mostruosità disumana. 

Dopo la straordinaria stagione degli anni Trenta, il genere gangster si stabilizza nei decenni successivi sino
alla grande svolta degli anni Sessanta e Settanta, quando vengono realizzati film di gangster molto innovativi
come America 1929 sterminateli senza pietà/Boxcar di Martin Scorsese, The Grissom Gang di Robert
Aldrich, Il clan dei Barker di Roger Corman, Gang di Robert Altman e soprattutto Gangster Story di Arthur
Penn.  Gli elementi di novità introdotti da questi film sono molteplici. In primo luogo, dopo che negli anni
Quaranta e Cinquanta avevano prevalso i gangster movie di ambientazione contemporanea, con questi film
si ha un ritorno al passato, all’epoca mitica del gangsterismo, gli anni del Proibizionismo e della grande
depressione. In questo ritorno al passato però non c’è nostalgia per quel periodo e per il cinema classico,
quanto l’intenzione di ripensare in modo critico ai valori costitutivi della società americana. 

Un altro elemento nuovo, che riscontriamo con chiarezza per esempio in Gangster Story di Arthur Penn è,
come osserva sempre il professore Ortoleva, la romanticizzazione del gangster, un processo che ha
almeno due facce: da un lato, in questi nuovi film, il criminale è romantico perché è capace di provare
passioni, cosa che invece non accadeva nelle pellicole classiche degli anni Trenta, e queste passioni
vengono al tempo stesso esaltate e bruciate dalla morte (si pensi al tragico finale di Gangster Story);
dall’altro lato, anche in coerenza con i crescenti movimenti di contestazione globale che investono
l’Occidente tra gli anni Sessanta e Settanta, il gangster è romantico perché si ribella a un sistema fondato
esso stessa sulla violenza e ha il coraggio di farlo nonostante sappia che il sistema non può essere battuto e
che quindi la sua scelta, per molti aspetti legittima, è destinata al fallimento. 

Negli anni Settanta un’ulteriore novità nel gangster movie è rappresentato dal successo dei primi due episodi
della saga de Il Padrino, di Coppola. Questi e altri film successivi come Quei bravi ragazzi di Scorsese, o
serie televisive come I Soprano, sono incentrati sulla figura del mafioso, da un lato molto simile al gangster,
dall’altro invece molto diversa. Quali sono le differenze tra i gangster cinematografici degli anni Trenta e i
mafiosi della famiglia Corleone, protagonisti de Il Padrino? Il mafioso, in questi film, non è uno smisurato
individualista  animato da una volontà di potenza autodistruttiva come Scarface o Piccolo Cesare, ma è un
professionista che fa affari e soprattutto vive in una famiglia, in una organizzazione, con delle regole, con
una tradizione non di rado etnica (e molto spesso di matrice italiana). Il mafioso si confronta, e si scontra,
con questa tradizione che, in fondo, è anche culturale. 

Dagli anni Ottanta in poi, il gangster movie americano ha saputo ulteriormente rinnovarsi, continuando però
sempre a confrontarsi con la tradizione. Una prova superba di questa dialettica innovazione/tradizione
l’abbiamo nel 1983, quando Brian De Palma realizza un remake di Scarface con Al Pacino protagonista. Si
racconta, come nel leggendario film di Hawks, la storia di un immigrato povero, ignorante e grossolano, che
vuole diventare ricco e potente: non più italo-americano però (come nel fil di Hawks), ma cubano. Inoltre alla
cupa Chicago degli anni Trenta, centro del contrabbando di alcolici, si sostituisce la colorata Miami degli anni
Ottanta, capitale del traffico della droga. 
Un altro film epocale che si confronta con il gangster movie classico è C’era una volta in America (1984). Il
regista, l’italiano Sergio Leone, che sin dagli anni Sessanta si era misurato con le mitologie del genere
western, ora incentra quello che purtroppo resterà il suo ultimo film proprio sulla messa a distanza del
gangster movie classico. Si tratta di un’operazione complessa, raffinata, che racconta non la storia di un
titanico individualista divorato da una smisurata volontà di potenza, ma la vita fallimentare di un piccolo
criminale che crede più all’amicizia tra compagni di strada che al sogno americano del farsi da soli.  

Il genere del gangster movie, a più di un secolo dalla sua nascita, oggi manifesta una piena vitalità, capace
di far sentire la sua influenza anche sulla produzione di serie televisive europee di successo come Romanzo
criminale e Gomorra, ispirate, come i classici del genere, a fatti e personaggi reali (la banda della Magliana
nel primo caso, le guerra tra clan camorristi nel secondo). L’esempio di queste eccellenti fiction italiane ci fa
capire, peraltro, quanto sia riduttivo pensare al genere gangster solo in termini hollywoodiani. Il gangster
movie, infatti, è uno dei generi più globalizzati, capace di esprimersi ogni volta con diverse peculiarità nelle
varie cinematografie nazionali o regionali. Si pensi, per esempio, al cosiddetto "poliziottesco" italiano degli
anni Settanta, a suo tempo svalutato dalla critica e oggi, invece, oggetto di culto, oppure ai numerosi
gangster movie asiatici, in particolare hongkonghesi, dove la brutalità dell’azione e il montaggio dal ritmo
serratissimo si sovrappongono spesso ai toni emotivi più dilatati e sofferenti del mélo.

In questa sotto-sezione, come già anticipato, ci occuperemo di un particolare tipo di crime movie, ossia la
detective story. Proprio come nel caso del film di gangster, anche questo genere ha una lunga tradizione le
cui radici risalgono già ai tempi del cinema muto. Si tratta di un genere che ha conosciuto ampia fortuna ed è
ancora oggi molto vitale, non solo nel cinema ma anche, e forse ancora di più, nelle serie televisive. 
Nella detective story ci devono sempre essere almeno due elementi collegati fra loro: un delitto (o un fatto
criminoso) e un’indagine, una detection, condotta da un investigatore, che può essere un poliziotto (per
esempio il celebre commissario Maigret inventato da Simenon), un investigatore privato (come Marlowe, il
protagonista dei romanzi di Chandler) oppure una persona senza ruoli ma dotata di spiccate capacità
investigative (come Sherlock Holmes o Jessica Fletcher de La signora in giallo). Naturalmente però, come
tutti i generi, anche la detective story conosce numerose varianti e si è trasformata molto nel corso dei
decenni. 

Nella lunga storia di questo genere cinematografico possiamo individuare almeno due modelli di racconto e
di messa in scena particolarmente significativi, e molto diversi fra loro: il mistery e la detection noir
(termine francese che significa nero). Entrambi i modelli hanno una forte derivazione letteraria. Il mistery
cinematografico discende da una tradizione narrativa che risale all’Ottocento (ai racconti polizieschi di Edgar
Allan Poe aventi per protagonista l’investigatore Auguste Dupin e alle opere di Conan Doyle incentrate sulle
indagini di Sherlock Holmes). La tradizione letteraria del mistery è soprattutto anglofona e prosegue con
successo anche nella prima parte del Novecento (si veda la fortuna cinematografica e televisiva di
personaggi letterari come Poirot e Miss Marple, inventati da Agatha Christie). La detection noir, invece, ha
origini letterarie un po’ più recenti, che risalgono agli anni Venti del Novecento e ancora di più al decennio
seguente (agli anni Trenta), e sono in origine legate a una narrativa gialla più realista e aggressiva rispetto a
quella del mistery, incentrata sull’azione violenta e di ambientazione metropolitana. I principali esponenti di
questa narrativa sono Dashiel Hammett e Raymond Chandler, creatori dei due detective privati più celebri
del noir americano: rispettivamente Sam Spade e Philip Marlowe. 

Nella storia del cinema le prime detective story, realizzate già negli anni Dieci del Novecento, sono legate al
mistery classico, mentre la detection noir è un fenomeno che si afferma più tardi, negli anni Quaranta,
durante e subito dopo la II guerra mondiale (il film che apre l’epoca del noir è Il mistero del falco di John
Huston, del 1941, tratto proprio da un romanzo di Hammett). Prima di approfondire la conoscenza di questo
importante sotto genere del crime movie, la detection noir appunto, è opportuno chiarire che cosa sia il noir.
Impresa non semplice, perché il noir non è un genere nettamente connotato, con delle regole precise e
stabili. Il termine, introdotto in Francia nel dopoguerra e poi solo negli anni Settanta adottato dalla critica
americana, identifica piuttosto una tendenza che può attraversare generi diversi, dal gangster movie alla
detective story, dal thriller al mélo. È una particolare atmosfera, al tempo stesso fisica e psicologica, ed è
anche uno stile figurativo e narrativo. In sostanza un’atmosfera noir è caratterizzata dalla presenza di delitti,
passioni fatali, spazi chiusi e soffocanti di città buie e pericolose, rappresentati con una fotografia spesso
molto contrastata. Più in generale il noir chiama in causa il lato oscuro dell'esistenza e della società
attraverso il crimine.
Mettiamo ora da parte, ma solo per poco, il noir. Pensate invece a crime movie che con il noir non hanno
nulla a che fare, come il recente Assassinio sull’Orient Express di Kenneth Branagh, oppure a telefilm della
serie Colombo o La signora in giallo. Questi sono esempi tipici di mistery classico. Nel mistery, il detective
parte dall’enigma, dal mistero, e attraverso una serie di deduzioni logiche e speculazioni intellettuali svolge
un’indagine che lo conduce in modo lineare e quasi inesorabile alla risoluzione, alla scoperta del colpevole.
La verità è sempre ristabilita. Le indagini condotte da Auguste Dupin, da Sherlock Holmes, da Ellery Queen 
(tutti grandi detective del mistery) chiudono sempre il cerchio. Lo spettatore esce da questi film o telefilm
sempre rassicurato, non soffre ma si diverte, mettendosi quasi in competizione con il detective per capire
prima di lui chi è il colpevole. 

Nei gialli noir di Chandler e Hammett, invece, il mistero da risolvere è solo un mistero iniziale. Anzi, come
scrive lo studioso francese Marc Vernet, è un mistero primario apparente, sotto cui se ne nascondono altri
più importanti e inquietanti. Marlowe (ne Il grande sonno) all'inizio deve solo risolvere un facile caso di
ricatto. Sam Spade (ne Il mistero del falco) sempre all’inizio del film riceve nel suo ufficio una donna
fascinosa che gli chiede di ritrovare la sorella. L’indagine del detective, insomma, dovrebbe condurre alla
scoperta di una sola verità e il mistero parrebbe risolvibile. In questi film però il detective finisce sempre per
scoprire altre cose che hanno ben poco a che fare con il mistero dell’inizio. E’ come se l’indagine
scoperchiasse una sorta di vaso di Pandora (in Chinatown dietro un caso di presunta infedeltà coniugale si
nasconde una gigantesca macchinazione politico-finanziaria e una sconvolgente vicenda d’incesto). Nella
detection noir, insomma, la conclusione non ritorna mai al mistero da cui si era partiti. Il mondo che resta alla
fine di questi film è un mondo persino peggiore, segnato dal caos e dal male. 
Tutti questi cambiamenti hanno ovviamente delle conseguenze. Ne vogliamo ricordare qui almeno due: 
- La prima conseguenza è la progressiva umanizzazione del detective; 
- La seconda è il netto complicarsi della struttura narrativa della detection noir rispetto al mistery.

Partiamo dal primo punto, ossia la progressiva umanizzazione del detective. Nel mistery tradizionale il
detective (pensiamo a Sherlock Holmes) è spesso una figura molto controllata, razionale, quasi sempre
sicura di sé, a volte un po’ fredda, che ostenta la sua superiorità intellettuale rispetto alle miserie umane. Il
detective del noir è, invece, sin dagli anni Quaranta, sin dai tempi di Bogart, un eroe fallibile, avvelenato
dall’amarezza e persino un po’ ambivalente: da un lato è un cinico incattivito e misantropo (non di rado
misogino), dall’altro è anche un uomo capace di provare passioni e di compiere gesti generosi; da una parte
vorrebbe solo osservare la scena da fuori e raccogliere indizi, dall’altra parte però non esita a entrarvi, a
compiere azioni concrete, spesso anche ai margini della legalità, per arrivare al suo obiettivo. Ed è proprio la
piena disponibilità del detective noir all’azione a segnare un’ulteriore differenza rispetto al detective del
mistery: le indagini del noir sono sempre più piene di azioni violente e i delitti si assommano. Il legame tra
detection e azione cresce esponenzialmente nella detective story contemporanea (si pensi, per fare un
esempio, alla saga di Arma letale, oppure al poliziesco noir di Hong Kong, il cui fascino si basa quasi sempre
sulla coreografia delle sparatorie). La forza di questo legame tra detection e azione nel cinema di oggi si
coglie anche nel recente ciclo su Sherlock Holmes: il freddo e impassibile investigatore di Conan Doyle
diventa, nell’interpretazione di Robert Downey Jr, una sorte di super eroe ante litteram, capace di compiere
incredibili performance fisiche.

Tra il mistery e la detection noir cambia quindi il grado di coinvolgimento del detective rispetto alla sua
indagine. Il detective del mistery solo di rado corre dei rischi. Nella detection noir, invece, il detective è
vulnerabile (il socio di Spade, ad esempio, ne Il mistero del falco, rimane ucciso, mentre a Jake Gittes, in
Chinatown, subisce il taglio del naso). Ma non è tutto: il detective del noir non é solo un personaggio che
spesso si fa male, ma può persino arrivare a cogliere l’inutilità della sua investigazione, come Spade alla fine
de Il mistero del falco, oppure può addirittura fallire, come gli investigatori che in Zodiac di Fincher non
riusciranno mai a scoprire l’identità di un terrificante serial killer. Ad emergere con sempre maggior
chiarezza,  quindi, via via che la detection noir attraversa i decenni per arrivare ai nostri giorni, è il fatto che
l’indagine condotta dal detective diventa sempre un’indagine su stesso, sul suo passato, sulla sua
personalità e i suoi fantasmi. Si pensi, ad esempio, a Il silenzio degli innocenti, dove la detective Clarence da
investigatrice diventa quasi una paziente dello psichiatra serial killer Hannibal Lecter. Oppure, caso estremo
ma emblematico, si veda Ascensore per l’inferno di Alan Parker, dove il detective, interpretato da Mickey
Rourke, alla fine scoprirà di essere lui l’autore dei delitti su cui sta indagando. 

Passiamo ora al secondo punto di divergenza tra il mistery e la detection noir: l’intreccio di quest’ultima
spesso si aggroviglia sino a diventare pressoché incomprensibile. È interessante notare come durante le
riprese del Il grande sonno, Humphrey Bogart, protagonista del film nel ruolo del detective Marlowe, confessi
di non capire nulla della vicenda che sta interpretando. Gli fa eco, per certi versi, Howard Hawks, il regista,
quando dichiara: «Era la prima volta che facevo un film decidendo di non spiegare i fatti. Cercai solo di fare
delle buone scene». Facciamo attenzione a questa espressione usata del regista: “buone scene”.  Il
racconto nella detection noir diventa un assemblaggio di "scene": la coerenza dello sviluppo narrativo è
meno importante delle singole buone scene, ossia di ciò che si mette in scena, di ciò che si fa vedere. 

Mettere in scena, ancor prima di "raccontare", vuol dire mostrare, ma non solo. Vuol dire mostrare da un
certo punto di vista. Proprio il punto di vista costituisce nella detection noir una questione centrale. In
questo sottogenere cinematografico, infatti, gli eventi del racconto sono quasi sempre percepiti dal punto di
vista  del detective. Molto spesso peraltro questi eventi non sono soltanto visti ma anche raccontati dal
detective: il cinema riprende questo modo di raccontare dai già citati Hammett e Chandler, i cui romanzi
sono molto di frequente narrati in prima persona proprio dalla voce del detective. In non poche detection noir
cinematografiche, spesso ispirate direttamente a questi romanzi, la voce del protagonista narra i fatti mentre
noi spettatori li vediamo, e li commenta. 
Tra il punto di vista del detective e lo spettatore si instaura quindi un rapporto complesso di complicità e
insieme di tensione, si apre un confronto serrato che è davvero tipico di questo sottogenere cinematografico.
Ecco perché nei film con detective le questioni del vedere e dello sguardo sono spesso centrali: si pensi a un
film come Vertigo, la donna che visse due volte di Hitchcock, o al più recente Blade Runner di Ridley Scott,
che prima di essere un film di fantascienza è senza dubbio una indimenticabile detection noir.

Se pensate a film come La storia infinita, Il signore degli anelli o Le cronache di Narnia, nessuno di voi,
presumo, avrebbe difficoltà a definire queste produzioni come opere fantasy. Più difficile, tuttavia, è definire
che cosa sia il fantasy in quanto genere. La parola inglese fantasy può avere molti significati: fantasia,
immaginazione, fantasticheria, visione, illusione... Solo nel corso del Novecento, però, il termine è diventato
rappresentativo di un genere prima di tutto letterario e poi anche fortemente intermediale, con diramazioni
non solo nel cinema e nella televisione ma anche nel fumetto, nei giochi di ruolo, nei videogame, nella rete e
così via. Va anche subito precisato, però, che non esiste una definizione univoca e condivisa del fantasy
come genere. Possiamo provare a individuare alcuni elementi, prima di tutto narrativi, che ricorrono nelle
opere più o meno apertamente riconducibili al fantasy.

Partiamo da una questione che in queste sotto-sezioni dedicate ai generi abbiamo sempre considerato come
fondamentale: il rapporto dei generi con i miti. Fra tutti i generi, il fantasy è sicuramente quello più legato
al mito. Le radici del fantasy affondano infatti non solo nella fiaba e negli archetipi delle culture folcloriche ma
anche soprattutto nelle molteplici tradizioni del mito occidentale: la tradizione classica, greca e romana, ma
ancor di più le saghe epiche medievali,  i racconti delle mitologie nordiche e celtiche, così come il ciclo dei
romanzi di Re Artù. Oltre a queste fonti, il fantasy attinge persino al vasto patrimonio dei miti extra europei,
con un’attenzione specifica alle mitologie del Medio e dell’Estremo Oriente. 

Gli elementi che il fantasy riprende da tutte questa tradizioni mitiche sono molteplici, e costituiscono veri e
propri aspetti identitari del genere, ossia componenti che non possono mancare in un ‘opera fantasy. Ne
ricordiamo alcuni:

• la celebrazione  degli eroi (dal capitano Navarre di Ladyhwke a Frodo de Il Signore degli anelli) e
delle loro virtù: coraggio nell’azione, nobiltà d’animo, lealtà;
• la centralità del combattimento e della guerra come valori costitutivi del mondo;
• una certa visione dualistica, fondata cioè sulla distinzione e sulla lotta fra bene e male, quasi sempre
risolta a favore del primo termine;
• l’importanza del viaggio, della quest (ossia della ricerca), dell’avventura in mondi o spazi ignoti
(come la foresta incantata nel film La storia fantastica). Il viaggio di ricerca, che spesso prevede una
serie di prove sempre più difficili da superare, diventa un’esperienza di crescita e di conoscenza;
• l’interazione degli uomini con creature non umane. Questi possono essere animali fantastici come il
drago volante Falkor de La Storia infinita, o l’unicorno di Legend, oppure creature antropomorfe
come i goblin della saga di Harry Potter; 
• La forte rilevanza del meraviglioso, del soprannaturale e del magico svolgono un ruolo
fondamentale. 

Al di là dei singoli aspetti appena ricordati, il fantasy si collega ai miti soprattutto perché è uno dei pochi
generi, forse oggi addirittura l’ultimo, che cerca di far sopravvivere la narrazione epica tipica di quelle
tradizioni antiche. Ben diverso rispetto alla tradizione mitica è però il valore assegnato dal fantasy al mito:
pur aderendo in modo esplicito al modello epico classico, i miti manipolati dal fantasy da un lato esprimono
una  grande capacità di coinvolgimento ludico, dall’altro lato diventano oggetti quasi ordinari di un consumo
generalizzato, di massa, a volte a rischio di banalizzazione. 

La centralità del mito nel fantasy si ritrova anche nella costruzione spaziale e temporale dei racconti tipici
di questo genere. Dal punto di vista degli spazi, il fantasy, almeno nelle sue varianti più pure, implica sempre
la costruzione di un mondo immaginario, completamente diverso dal nostro, non collocabile in nessuna
geografia conosciuta (dall’Isola che non c’è di Peter Pan alla Terra di mezzo de Il Signore degli anelli). I
mondi inventati dal fantasy possono essere continenti scomparsi come Atlantide o paradisi perduti come la
mitica Shangri La (al centro del film Orizzonte perduto di Frank Capra). Alcuni studiosi, però, ritengono
legittimo parlare anche di opere low fantasy, ambientate cioè in un mondo molto simile al nostro ma con
delle rielaborazioni sostanziali: è il caso, per esempio, dell’Inghilterra decisamente fantasiosa che vediamo
nei romanzi e nei film incentrati sul personaggio di Harry Potter, oppure dell’America contemporanea,
raccontata da Neil Gaiman in American Gods,  abitata dalle divinità antiche giunte nel nuovo mondo
attraverso i movimenti migratori. Molto spesso questi mondi immaginari hanno una geografia composita e
anche una complessa cosmogonia, come nel caso, appena citato, di American Gods.

Dal punto di vista temporale, le storie fantasy sono generalmente ambientate in un tempo diverso dal nostro,
del tutto scollegato dai processi storici della nostra realtà. Il tempo del fantasy puro è spesso connotato in
termini vagamente arcaici, riferibili il più delle volte a un’epoca quasi proto-storica, sfondo dei film ispirati ai
personaggi di Conan e di Yado, oppure a un Medio Evo insieme cupo e generico (si pensi, per fare un
esempio recente, alla fortunata serie televisiva Il trono di spade). Il tempo del racconto fantasy, comunque,
non è quasi mai un tempo lineare, progressivo, ma reversibile, quasi onirico, a volte sospeso o dilatato. Il
tempo de Il Signore degli anelli, per esempio, non è quantificabile: gli eventi si svolgono lungo un arco
temporale smisurato. 

Anche il fantasy, come ogni altro genere, ha una storia. I primi casi di una letteratura che solo a posteriori
sarà poi riconosciuta come originaria del fantasy si registrano nella seconda metà del XIX secolo, anche
sulla scia di quel recupero del Medioevo, in chiave fortemente immaginaria, proposto dal Romanticismo, e in
parte anche come reazione di fronte all’avanzare del pensiero scientifico e del razionalismo moderno.
Dall’ultimo Ottocento, e poi ancora di più nel primo Novecento, inizia a intensificarsi la produzione di romanzi
ambientati in tutto o in parte in mondi immaginari: dall’Alice di Caroll al Magico mondo di Oz dei romanzi di
Baum più volte adattati per il cinema. Questa produzione matura nel corso del Novecento, diversificandosi.
Da un lato cresce una narrativa di largo consumo:  nel 1923, per esempio, viene pubblicata la prima rivista
interamente dedicata al fantasy,  Weird Tales. Tra le pagine di questa rivista e di altre riviste Pulp americane
prendono corpo i primi eroi del fantasy moderno, come ad esempio il personaggio di Conan il Barbaro,
protagonista dal 1932 di una serie di racconti e romanzi nati dalla mente dello scrittore statunitense Robert
Ervin Howard e dei suoi continuatori. Dall’altro lato, invece, il fantasy diventa anche un genere letterario
raffinato e di élite, per un pubblico adulto e colto, grazie in primo luogo ai romanzi dello scrittore e filologo
inglese Tolkien, da Lo Hobbit, del 1934, a Il Signore degli anelli, pubblicato negli anni Cinquanta.  

Dagli anni Settanta però, l’immaginario fantasy entra in una fase di assoluta popolarità, ispirando non solo
film e serie tv ma anche innumerevoli produzioni letterarie, giochi di ruolo, fumetti, videogame. 
Perché questa crescente popolarizzazione del fantasy? Sicuramente il fenomeno è potenziato dal
crescente successo planetario dei romanzi di Tolkien e poi dall’incontro, già dal primo episodio di Guerre
stellari, del fantasy con la fantascienza.  Questa fase di grande popolarità del fantasy è ancora oggi tutt’altro
che conclusa. Infatti, oggi il fantasy è uno dei generi più vitali, anche nel cinema e nell’industria audiovisiva:
lo dimostra, per esempio, il successo dell’adattamento per lo schermo della saga di Harry Potter o dei film di
Peter Jackson tratti dai romanzi di Tolkien,  oppure ancora il successo della sopraccitata serie tv Il trono di
spade. 

Come si è detto anche nelle sotto-sezioni precedenti, i generi si specificano molto spesso in sottogeneri,
ossia in varianti tematiche, narrative e iconografiche piuttosto stabili e quindi più facilmente riconoscibili nel
tempo. Il fantasy è particolarmente disponibile alle varianti di sottogenere. Esiste per esempio un fantasy
epico, quello per capirci di Conan il barbaro. Ma esiste anche il fantasy metropolitano, basato sull’innesto
di formule magiche, eventi soprannaturali, creature fantastiche dentro la città contemporanea: un esempio
interessante è il film Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter. Più inquietante invece è il cosiddetto
dark fantasy. Se di norma, come auspicava Tolkien, le storie fantasy hanno sempre un lieto fine e il bene
trionfa sul male, nel dark fantasy, le storie diventano più cupe e non è detto che l’eroe riesca a prevalere.
Una delle fonti più autorevoli di questo sottogenere è senza dubbio l’opera narrativa di Lovecraft, scrittore
visionario tra i padri del fantastico moderno, non riducibile al genere fantasy ma interpretato in questa chiave
soprattutto in tempi recenti. Di grande successo in questi ultimi quindici anni è il romance fantasy o fantasy
sentimentale. La sua caratteristica principale è la presenza di una storia d’amore in cui uno o entrambi i
protagonisti non sono esseri umani. Un esempio celebre è la saga, anche in questo caso letteraria e poi
cinematografica, di Twilight, dove un vampiro e un lupo mannaro, entrambi molto romantici e generosi, si
innamorano di una ragazza normale. Ancora più celebre e fortunato è il sottogenere della science fantasy,
dove gli elementi tipici del genere si innestano con elementi di fantascienza: è il caso, naturalmente, della
lunga saga di Star Wars, collocabile a metà strada tra questi due grandi generi dell’immaginario occidentale.

—“In ogni città americana ci sono bellissimi edifici di scuole elementari e medie... Ma dopo la scuola i
ragazzi vanno al cinema per vedere le avventure dei gangster, sulla strada giocano ai gangster e sparano
senza posa con i revolver e i mitra”    
Ilija Ilf, Evgenij Petrov, Il paese di Dio, 1937  
“Sono uno spettro proiettato da un milione di menti”
frase attribuita ad Al Capone, che l'avrebbe pronunciata al momento dell'arresto
 

1. Tre casi esemplari 


Se nella prima parte del volume abbiamo provato a tracciare dei miti a bassa intensità, a definirne i caratteri
generali, a ricostruire i momenti chiave della loro affermazione, adesso proveremo a penetrare nei miti in
quanto tali, nella loro dimensione narrativa e nei loro universi simbolici. Lo faremo con esplorazioni, studi di
caso, che riprendono in parte ricerche già svolte dall'autore; nel loro insieme mirano a illuminare le diversità
e le convergenze tra alcuni dei principali modelli mitici discussi in precedenza. 
I temi e il metodo In questo capitolo affronteremo un tema che ha attraversato il sistema dei generi e un po'
tutto l'insieme dei miti contemporanei, dal primo Ottocento alla fine di quel secolo, dai “ruggenti anni Venti” (e
soprattutto Trenta) all'avvento recente di nuove figure di delinquente, anche in paesi molto lontani dal
tradizionale occidente. L'interesse che presentano per la nostra ricerca lla figura del criminale e i miti che la
circondanosta anche nella complessa relazione tra la relativa fissità delle formule e la dinamica storica del
fenomeno, nel complesso rapporto tra l'invenzione narrativa con il suo carico di suspense e di fascino, e il
susseguirsi spesso relativamente banale dei fatti di cronaca. Il gangster in quanto parte del sistema dei
generi non potrebbe esistere senza le notizie dei giornali, ma se ne distacca generalmente per proiettarsi in
un destino tragico o in una mostruosità disumana, e per spingere lo spettatore, in alcuni momenti, a
identificarsi con lui, in altri momenti a distanziarsene, tra repulsione e paura.  
Nel capitolo successivo ci troveremo di fronte a una declinazione possibile di uno dei nuclei mitici trasversali
a una grande varietà di racconti della nostra nebulosa: quello del genio, dell'essere umano capace di
trascendere i limiti dell'umanità ordinaria grazie a un “dono” misterioso. Il grande inventore viene presentato
come complementare e insieme opposto al genio artistico: demiurgo dell'utile l'uno mentre l'altro viene
generalmente presentato come artefice di un bello che ha in sé il proprio unico fine. E' un creatore, non però
di opere riservate alla nostra ammirata contemplazione, bensì di oggetti che entrano nella vita di tutti
direttamente o indirettamente nella vita di tutti. Attraverso il racconto della sua vita, l'inventore diviene il
mediatore tra le tecnologie, in sé comprensibili a pochi, e i loro stessi utenti. Eroe della produzione per usare
l'espressione di Leo Loewentahl,  l'inventore si configura anche come  punto d'incontro tra la materialità
insieme inerte e ingegnosa della tecnica e alcune doti tipicamente umane, l'intuito, la perseveranza di fronte
alle difficoltà, la volontà di primeggiare.Con il paradosso che, mentre la storia della tecnica si presenta in
generale nelle vesti del progresso inarrestabile, nel quale ogni nuova tappa si lascia indietro le precedenti, e
ciò che conta è il punto a cui siamo ora arrivati, la narrazione biografica degli inventori ha preservato
dall'Ottocento a oggi, dalle biografie di George Stephenson a quelle di Steve Jobs, una serie di tratti stabili,
ha assunto le caratteristiche di un paradigma narrativo fatto di componenti come vedremo ricorrenti. 
Il sesto capitolo ci parla di una mito politico. Il caso del nazismo è per certi versi estremo, anche nella
dichiarata ricerca di una miticità che riportasse a un tempo “altro” chiudendo con lo “sciocco diciannovesimo
secolo” e con una contemporaneità mediocre e umiliante. Per altri versi, sembra la prova più evidente che
alla bassa intensità, comunque, non si sfugge. Ossessionata dal progetto volontaristico (come è stato
definito) di un proprio universo mitico coerente, unanime ed esaltante, a uno sguardo più approfondito la
narrazione di sé del nazismo risulta molto più magmatica e confusa di quanto ci si potrebbe aspettare; e la
fede dichiaratamente fanatica si presenta in effetti come l'altra faccia del vuoto di contenuti. Il mito del mito.
Lavoro ai fianchi Prima di entrare nei singoli casi una nota di metodo: non cercheremo di “interpretare” i miti.
Ogni interpretazione finisce con il sottometterli a una logica lineare e spesso banalizzata che è loro estranea
perché il mito non è illogico ma ha una sua logica peculiare e distinta (ricollegabile come si è detto alla
“fantastica” intuita da Novalis); e con il cercare di dare loro una coerenza interna, negando un carattere
decisivo di ogni mito che è la sua incompiutezza e almeno parziale inspiegabilità. In queste pagine, come
nell'insieme di questo libro, più che interpretare i miti li lavoreremo ai fianchi, in parte storicizzandoli, in parte
confrontandoli, in parte sottoponendoli a una forma di dubbio metodico, che ne scava la stessa miticità.
Vale ora la pena di notare alcuni aspetti che accomunano i tre casi pur così differenti che tratteremo in
questo e nei due capitoli successivi. 
Innanzi tutto, i tre casi confermano ciascuno a suo modo che nel mondo della bassa intensità, quella che era
una separazione netta tra l'alterità del mondo mitico e la concretezza della vita ha lasciato il posto non solo a
un avvicinamento ma anche a un andirivieni ininterrotto tra i due livelli. Così il gangster, anche quando è
parte di una fiction per la quale vale il principio secondo cui “ogni riferimento a fatti realmente accaduti è
puramente casuale”, nasce comunque dalla cronaca, a cui continua sempre ad alludere in modo più o meno
diretto. Ce lo ricordano le strette parentele del balzacchiano Vautrin con la vita reale del delinquente poi
poliziotto Eugène-François Vidocq, o il nomignolo che lo Scarface del film di Hawks ha letteralmente
prelevato dallo “sfregiato” Al Capone, fino ai diretti riferimenti di una delle maggiori storie italiane di gangster
degli ultimi anni, Romanzo criminale, alle vicende ancora in parte oscure della banda della Magliana. Per
converso, lo stile narrativo spesso semi-epico dei racconti fantastici dedicati ai criminali si è fatto a sua volta
sentire fin dall'Ottocento nelle ricostruzioni giornalistiche, e ha contribuito a dare spesso ai delinquenti “veri”
un'aura che senza il mito letterario poi cinematografico non sarebbe così facile evocare. Le biografie degli
inventori stabiliscono un diverso ma forse ancora più forte collegamento tra la proiezione mitica e la realtà
documentabile:  modellano storie di vite vissute (a volte modificate nei particolari ma  relativamente fedeli
nell'insieme della narrazione) dentro il calco di alcuni modelli ricorrenti. In questo caso non assistiamo alla
fabbricazione di un personaggio immaginario , per quanto ispirato a figure reali, ma all'adattamento
sistematico di vicende documentabili a un paradigma che dà a un'esperienza reale un senso ulteriore e la fa
rientrare in un genere riconoscibile, con il suo gioco del nuovo e del sempre uguale. Da ultimo, l'universo
mitico nazista si è prefisso il fine (non raggiunto e del resto irraggiungibile ma raramente perseguito con
tanta coerenza) non solo di “estetizzare la politica” secono la notissima espressione di Benjamin, ma di
miticizzare oltre alla politica, la vita stessa di un'intera società; di distaccarla dal vivere ordinario per elevarla
in una sorta di mistico altrove, attraverso una trama di rituali inventati e di messaggi idealizzanti oltre che
ideologici affidati ai più vari media. Far convergere mito e storia, o addirittura di passare in modo folgorante
dal vissuto “al millennio attraverso la morte” per riprendere l'efficace formula di Gregory Bateson è stato
l'obiettivo psico-sociale su cui il nazismo ha concentrato la potenza della tecnologia e la potenza totalitaria
degli apparati.
Un secondo aspetto che accomuna i tre casi di cui parleremo in questa parte del volume sta nel fatto che la
bassa intensità sembra non accontentarsi mai completamente di se stessa ma tendere a qualcos'altro, anzi,
a qualcosa di totalmente altro. Questo è particolarmente evidente per il caso del nazismo, carico com'è di
valori eroici e di riti esoterici. Ma ha un ruolo significativo anche nel paradigma ricorrente delle biografie di 
inventori, ad esempio nel fatto che tra i fattori decisivi compare regolarmente quell'elemento che
chiameremo “l'aiuto del caso”, presentato come l'intervento, a sostegno e ispirazione della genialità, di un
fattore esterno, e sempre in qualche misura inspiegabile con l'ordine normale e “naturale” delle cose: un
miracolo nel senso letterale del termine, che sembra comportare la presenza di una forza estranea, della
mano del destino. Per quanto riguarda il mito del criminale, il fascino di questo personaggio non è pensabile
se non si considera il fatto che regna letteralmente su una montagna di cadaveri, si pone non solo al di fuori
della legge ma anche al di sopra di tabù che vanno oltre lo stesso omicidio: come l'incesto che sia pure
alluso e non consumato corona lo scontro del criminale con la società in uno dei film culminanti del genere,
Scarface, o come il cannibalismo e la necrofilia che abbondano in molte storie di serial killer. Se il
delinquente della cronaca raggiunge la forza mitica e si avvicina a Macbeth (quello tra i personaggi
shakespeariani a cui è più accostabile nel misto di ferocia, avidità, volontà di potenza che è l'altra faccia di
un'incapacità di reale controllo) è perché gli attribuiamo almeno per un attimo una natura letteralmente
infernale, quella per usare le parole di Balzac dell'”arcangelo caduto che vuol sempre la guerra”, e che
raggiunge in negativo una natura quasi metafisica: “il negativo, ovvero la libertà, ovvero il crimine” per
riprendere le parole del giovane Hegel.
Alla fine dei tre studi di caso contenuti in questo e nei prossimi capitoli ci troveremo di fronte a uno dei temi
cruciali del libro, su cui torneremo nell'ultima parte: può esistere la “bassa intensità” in forma pura o si
presenta sempre in tensione con un altro da sé, con un'intensità diversa?

2. Il crimine e l'immaginazione
"Le città reali producono solo delinquenti, le città immaginarie producono il gangster: che è ciò che
desideriamo essere, e che abbiamo paura di diventare" scriveva Robert Warshow in The Gangster as Tragic
Hero. Il criminale mitico, di cui  seguiremo l'evoluzione lungo due secoli, nasce nella vita quotidiana delle
città  ma si proietta oltre; riassume e insieme trascende la concreta esperienza di chi le abita. Se queste
asserzioni sono valide per i personaggi del romanzo ottocentesco o per i gangster leggendari degli anni tra
le due guerre, lo sono ancora a maggior ragione per una  delle più tipiche configurazioni che il mito del
criminale ha assunto negli ultimi decenni, il serial killer. Nella realtà si tratta di personalità psicopatiche
spesso al limite dell'idiozia, e di fenomeni nel complesso rari anche se la risonanza delle loro "gesta" riempie
le cronache per mesi o per anni; nel mito che attraversa romanzi, film, serie televisive diventano autentici
superuomini, sacerdoti di una sorta di culto personale fatto di riti sacrificali terrificanti ma a loro modo
solenni.
Quanto siano reciprocamente autonomi il criminale concreto e quello mitico si può verificare (contrariamente
a quanto sostiene H.M. Enzensberger) anche nel caso del più leggendario, forse, di tutti i delinquenti
realmente vissuti, Al Capone: il quale certo aveva capito meglio di quasi tutti i suoi colleghi la natura in parte
fantastica del suo potere, fino a contrattare con Hollywood la possibilità di apparire in un film e a definirsi, a
quanto si dice "uno spettro nato da milioni di menti", ma di quello spettro ha avuto nella vita vera solo la
potenza di incutere timore, non certo il fascino, tanto meno l'ambivalente complessità. Il criminale mitico che
ha attraversato gli ultimi due secoli come un'icona ricorrente, protagonista della vita urbana da Parigi a
Chicago, e più di recente a Hong Kong o anche a Lagos, o nell'urbe per eccellenza, Roma, è il frutto di una
complessa operazione di imitazione+costruzione che poco ha da invidiare a quella che riguarda altre figure
proprie della galassia della bassa intensità come il vampiro o il super-eroe. Di invenzione che si fa strumento
di conoscenza e scoperta, di osservazione che si traduce nell'invenzione.
Diverse domande si pongono, a questo punto. Qual è la dinamica che ha permesso a una figura così
decisamente negativa di assumere una statura mitica tanto superiore alla realtà verificabile? Quali sono i
tratti del criminale leggendario che ne garantiscono la forza e la persistenza proprie di un mito? 

3. La faccia buia della cultura di massa


Partiamo dalla prima domanda: a che cosa si deve il ricorrente radicarsi della figura del criminale nel sistema
dei miti moderni?. Diverse sono le risposte possibili, e tutte almeno in parte vere.
a. Underworld  In primo luogo, se è vero che ogni sistema mitico è dotato, oltre che di dèi celesti o quanto
meno superiori, anche di divinità infere, collocate al di sotto della terra su cui camminiamo, possiamo dire
che il criminale mitico è uno dei lati oscuri, ctòni, della galassia della bassa intensità. Ma lo è in modo diverso
rispetto al vampiro che è letteralmente una creatura satanica, a cui è stato dato il “dono” sinistro di
un'immortalità malefica. E' piuttosto il figlio di un sotto-mondo, che è il lato buio della società, soprattutto
urbana: non a caso la parola inglese underworld ha dato il titolo ad alcune delle più importanti storie di
questo tipo, dal film di Sternberg del 1928 al romanzo di De Lillo del 1997.  Il gangster, almeno nelle sue
rappresentazioni più classiche, è letteralmente l'uomo dei bassifondi. Immigrato o figlio di comunità
comunque non del tutto integrate, scarsamente scolarizzato, incapace di parlare se non in uno slang spesso
fortemente influenzato dalle sue origini, porta sempre con sé l'imprinting del marginale. Ma  non è
rappresentato (se non eccezionalmente, e per un breve periodo come vedremo) nelle vesti del proletario
contro il capitalista, del povero che si ribella al ricco; semmai è colui che è stato povero che poi vediamo
diventare ricco, e appropriarsi per quanto goffamente dei gesti delle classi superiori fin dagli abiti, per poi
incontrare il suo destino. Le storie di criminali immaginari alla fin fine confermano, non sovvertono, le
gerarchie sociali: il sotto rimane sotto, o ci ritorna.
Il criminale mitico è “l'altra faccia”, per alcuni aspetti simmetrica, rispetto alla vita dei cittadini “per bene”. E' il
mondo dei “tredici” di Balzac, che stavano alla Parigi “normale” un po' come il rovescio sta alla trama del
tappeto, permettevano di leggerla per così dire in filigrana e insieme venivano, dal tappeto stesso, nascosti;
erano “abbastanza forti per mettersi al di sopra di tutte le leggi, abbastanza coraggiosi da tentare ogni
impresa, abbastanza fortunati da essere riusciti quasi sempre in quel che tentavano”. Sempre restando a
Balzac, è in questo “rovescio”  della città borghese e aristocratica che vive il criminale dei criminali dell'intera
Comédie humaine, Jacques Collin alias Vautrin detto Trompe-la-Mort, in quale porta in ogni angolo del
vivere sociale, grazie alla sua astuzia e ai suoi travestimenti, il modo di pensare e di agire del forzato, e
insieme sa influenzare di volta in volta il comportamento di persone di tutti i ceti, fino a quando diventa capo
della polizia, fino a quando la Parigi “infera” raggiunge la vetta di quella “normale” anzi le si sovrappone. Un
modello simile vale anche per il criminale che domina la Chicago o la Los Angeles sotterranee e viste da
sotto in su che sono gli ambienti elettivi dei film del genere gangster e dei romanzi neo-polizieschi di
Raymond Chandler: nei quali si racconta “d'un mondo dove i gangsters possono dominare le nazioni e poco
manca non governino le città, di un mondo in cui gli hotel, le case albergo, i ristoranti famosi appartengono a
individui che hanno fatto fortuna con la gestione di bordelli... Non è un mondo profumato, ma è il mondo in
cui dobbiamo vivere" . 
Ma c'è qualcosa nella figura mitica del criminale che va al di là di tutto questo: è una creatura che ha scelto
l'inferno fin dall'inizio, pronto a esserne accolto come nei finali tragici di gran parte delle storie di gangster, o
a svelare la sua più autentica natura in un momento inatteso, come accade ancora in Balzac
aVautrin/Jacques Collin: “In un istante Collin diventò un poema infernale in cui si dipinsero tutti i sentimenti
umani, salvo uno solo, il pentimento. Il suo era lo sguardo dell'arcangelo caduto che vuol sempre la guerra”.
b. Una contro-corrente Una seconda lettura possibile del mito del gangster ha a che fare  con la struttura
profonda della cultura di massa. E' una delle maggiori intuizioni di Warshow, nel saggio che abbiamo già
ricordato: espressa con una formulazione così limpida che il miglior modo di sintetizzarla sta nel riprendere e
montare le sue stesse parole.
“Le moderne società egualitarie, sia che abbiano forma politica democratica sia che abbiano ordinamento
autoritario, si fondano tutte sulla pretesa di rendere più felice la vita delle persone ... la felicità diventa il
principale problema politico -in certo senso l'unico vero problema politico-... Naturalmente, sono soprattutto
gli organi della cultura di massa a portare il peso di questa responsabilità civica”. Mentre nella vita privata (e
a maggior ragione possiamo aggiungere nella psiche individuale), l'infelicità non solo è possibile ma trova
uno spazio riconosciuto, nello spazio pubblico, del quale la cultura di massa è un'espressione decisiva, trova
assai meno spazio, ed è sospetta. Warshow cita a proposito una testimone alla Commissione per le attività
anti-americane che definiva un film “antiamericano perché tetro”. “In un tempo nel quale la vita dei cittadini è
dominata dall'ansia, l'euforia si spande sulla nostra cultura come il sorriso vuoto di un idiota. L'atteggiamento
di fondo verso la vita non è molto diverso in un film 'allegro', che ignora del tutto la morte e la sofferenza, e in
uno 'triste' dove la morte e la sofferenza sono usati come elementi incidentali, al servizio di un più alto
ottimismo”. Solo che per quanto promosso con tutti i mezzi, “questo ottimismo però... in fondo non basta a
nessuno, neppure a coloro che più si sentirebbero disorientati dalla sua mancanza.”. 
Emergono così delle contro-correnti nelle quali trova spazio “ il senso di disperazione e di inevitabile
fallimento che l'ottimismo stesso contribuisce a creare”. Secondo Warshow il film di gangster rappresenta
una di queste controcorrenti, perché costituisce “un'espressione coerente, e straordinariamente compiuta,
del moderno senso del tragico”; ma anche, possiamo aggiungere, perché riprende alcuni dei valori
dell'ordine dominante, a cominciare da quello del successo, e insieme li esaspera e li rovescia,
itrasformandoli in condanna. In altri termini, il mito del criminale fa parte della galassia della bassa intensità
non solo come rovescio infero del mondo valoriale rappresentato dagli eroi, ma anche come risvolto negativo
e tragico di una cultura dominata dall'happy end, elemento indispensabile di una mitologia che, senza di
esso, rischierebbe di suonare vuota.
c. Il cattivo della storia C'è poi una terza possibile lettura della ricorrenza di questi “eroie”-antieroi, che ha a
che fare non tanto con i contenuti e/o il tono emotivo delle vicende leggendarie di criminali quanto con la
dinamica stessa delle narrazioni; e i miti, è bene ricordarlo, sono pur sempre racconti.
"Dove andrebbe a finire una storia se non ci fossero dei personaggi virtuosi?" chiede il capitano Smollett,
uno dei due personaggi di un racconto di Robert Louis Stevenson, The Persons of the Tale, "collocato" tra il
capitolo XXXII e il XXXIII (il penultimo) dell'Isola del tesoro, ma scritto, quasi come un ripensamento, anni
dopo il romanzo. La risposta dell'interlocutore, che è poi l'affascinante pirata Long John Silver, è "Se è di
questo che vogliamo parlare, dove potrebbe cominciare una storia se non ci fossero cattivi [vilains]?".  Nella
logica del romanzo, che sarebbe poi diventata quella del cinema, della televisione, del fumetto, il
personaggio del cattivo (e il criminale è il cattivo, il vilain per antonomasia) non solo costituisce un elemento
d'attrazione, ma ha un ruolo fondativo.
E' in effetti la figura del fuorilegge a fare da punto di partenza per tanta narrazione moderna che scuote la
monotona banalità delle tolstojane "famiglie felici" delle quali non c'è niente da raccontare. E' il criminale
mitico, proiezione fantastica del delinquente dei rapporti di polizia, il vero protagonista delle pagine dei
giornali che seguono l'immortale formula di William Randolph Hearst crime and underwear, morte e sesso:
dove è il delitto che anima la città guidando lo sguardo del lettore da un incrocio all'altro e da un lampione a
un'insegna, in cerca di indizi per individuare il colpevole, o semplicemente di macchie di sangue sul selciato.
O pronto ad appassionarsi alle scene di caccia metropolitana tra gli uomini dell'ordine e quelli del disordine,
facendo consapevolmente il tifo per i primi ma pronto a farsi affascinare dai secondi: dopo tutto nessuno ha
dimenticato il nome di Dillinger o quello di Vallanzasca, mentre  quelli degli agenti che li hanno fermati sono
finiti in generale nell'oblio. Pronto a seguire i moderni ludi gladiatorii, nei quali ci appassioniamo alla morte
reale delle persone tramite la mediazione (che ci evita quel gusto troppo diretto del sangue proprio delle
antiche arene oggi difficile da accettare) del resoconto giornalistico, o alla morte immaginaria tramite lo
spettacolo, anche più “realistico” di quello circense, offerto dal cinema.
La figura del criminale mitico moderno è la continuazione urbana di quella del pirata, o di alcuni personaggi
del western, come Jesse il bandito o Billy the Kid; ma quelli erano letteralmente "uomini senza legge" in un
mondo selvaggio che precedeva la portata ordinatrice della civilizzazione, questo vive invece in un ambiente
apparentemente il più civilizzato immaginabile, la grande città. E svela, violandone e addirittura riscrivendone
sistematicamente le leggi, quanto di selvaggio questa continua a celare. Per Vautrin e quelli come lui,
scriveva Balzac, "Parigi è ciò che la foresta vergine è per le belve”. 

4. Un'ambigua presenza
Siamo così arrivati alla seconda domanda. Come si spiega il fascino esercitato dallla figura del criminale?
Come si spiega che personaggi in linea di principio oggetto di deprecazione e condanna acquistino un alone
eroico e si ammantino addirittura di una forza seduttiva tale da fare scattare dei meccanismi di
identificazione?  
Good-bad Che tra le matrici delle storie di crimine, dal Vautrin-Jacques Collin di Balzac al proto-detective di
Emile Gaboriau, Monsieur Lecoq, ci sia stata una figura reale, il già ricordato Eugène-François Vidocq, ha un
significato che non va assolutamente sottovalutato. Nato nel 1775,  iniziato ai furti e alle rapine fin da
giovanissimo, inviato ai lavori forzati a 21 anni per contraffazioni e false scritture, più volte evaso e ripreso, a
36 anni divenne il capo della Brigade de Sûreté della polizia, rimanendo per parecchi anni uno degli uomini
più potenti di Parigi anche perché seppe mettere a frutto, dalla parte dell'”ordine”, competenze che traeva
dalla sua esperienza criminale; si dedicò poi a una carriera commerciale, di fatto all'invenzione dei servizi di
polizia privata. Furono le sue Memorie, pubblicate nel 1828, a fare di una vita di per sé sicuramente
avventurosa una sorta di modello: il delinquente che raggiunge il potere. Quasi un nucleo narrativo che
sarebbe stato ripreso e ri-raccontato infinite volte.
Nella figura mitica del criminale, in tutto il corso degli ultimi due secoli, delitto e legalità si sono venuti
regolarmente scambiando le parti, quasi a sottolineare il fondamento comunque violento di ogni potere e di
ogni ordine sociale, e il fatto che, comunque, gli assassini sono tra noi: che non si tratta di figure
antropologicamente diverse dai cittadini per bene ma di persone, alcune delle cui “qualità” (astuzia,
spregiudicatezza, audacia) sono lo specchio oscuro di quelle tipiche degli uomini di potere. Se il Vautrin di
Balzac ripercorreva la carriera di Vidocq, alla fine del Novecento si sono imposti personaggi come Hannibal
the Cannibal nel Silenzio degli innocenti di Thomas Harris e nei suoi seguiti anche televisivi, o Dexter, 
cacciatori di serial killer ma (anzi proprio perché) serial killer essi stessi, e violatori di alcuni dei tabù più
radicati nella nostra cultura. Del resto, anche nel cinema americano contemporaneo i film dedicati alle
carriere di capitalisti di successo, che si chiamino The Wolf of Wall Street o I soldi degli altri, ci presentano
personaggi in fondo non dissimili da quelli classici del gangster anni '30. Se compare in un film un uomo che
sta facendo molti soldi, la prima cosa che siamo subito indotti a pensare è che usa dei mezzi non sempre
leciti, che la sua finalità è un’accumulazione senza scrupoli. Anche nel paese che più di tutti gli altri fa del
capitalismo un sistema senza alternative e della ricerca del successo un imperativo per tutti, nella
rappresentazione degli uomini al vertice del potere, soprattutto finanziario, è spesso presente una
connotazione negativa: è in agguato alla fine la disumanità, la brutalità, l'incapacità di controllarsi e di porsi
dei limiti.
Questa rappresentazione, per certi aspetti speculare, dell'uomo al vertice e dell'uomo dei bassifondi che
corrisponde alle ambivalenze dei lettori/spettatori, che ammirano i primi quanto li invidiano, e temono i
secondi quanto, sotto sotto, finiscono poi con l'ammirarli. Ne viene confermato il sospetto che il crimine sia,
se non il fondamento reale del potere, quanto meno quello che rende possibile il suo esercizio. E un
sospetto più terribile ancora: che il bene e il male siano sempre, in tutto ciò che è umano, inseparabili,
proprio come il bene intenzionato e fragile dottor Jeckyll è inseparabile dal più criminale dei criminali, la sua
creatura artificiale, il dottor Hyde. Da  questa ambiguità di valori viene almeno in parte legittimata l'attrazione
per la condotta trasgressiva: secondo Morin è questo anzi il principale motivo di fascino del gangster,
“l'uomo civilizzato, soggetto ai regolamenti e alla burocrazia... si libera proiettivamente nell'immagine di chi
osa rapinare o possedere, chi osa uccidere”; giustamente il sociologo francese riprende l'intuizione del
giovane Hegel che proietta proprio nel crimine l'espressione più astratta dell'idea di libertà. 
Da questa ambiguità di valori nasce anche un'altra potenzialità di questo universo mitico, che può
ulteriormente coinvolgere lo spettatore: la romanticizzazione del gangster, in termini non solo sensuali ma
anche apertamente sentimentali: come ha dimostrato (nel clima del rovesciamento di valori proprio degli anni
'60) una serie di film a cominciare da quello di Arthur Penn sui nomadi e disperati Bonnie and Clyde, come
continua a dimostrare molto cinema asiatico, in particolare ma non solo di Hong Kong, nel quale il killer
protagonista è insieme vittima umanissima e carnefice spietato e la brutalità dell'azione si sovrappone
spesso ai toni emotivi del mélo.
Gli estremi si toccano Ma la figura del criminale mitico è ambigua anche in un altro senso: è punto di
attrazione reciproca tra poli apparentemente opposti della stratificazione sociale, tra l'underworld e i livelli più
alti di una società divisa in classi. Non è un caso che tra le leggende metropolitane più ricorrenti e diffuse,
puntualmente riprese dalla fiction soprattutto televisiva, ci sia quella secondo la quale il criminale per
antonomasia e il primo dei serial killer, Jack lo squartatore, sarebbe stato un aristocratico o addirittura un
membro della casa reale britannica. Anche nelle storie dei “ladri gentiluomini” di fine Ottocento che come
l'Arsène Lupin di Maurice Leblanc e l'A.J. Raffles di Ernest Hornung gli estremi sociali si toccano fino a dar
vita a figure che possiamo definire bifronti, la notte dedicata alle imprese criminali il giorno all'alta società: a
sottolineare la contraddizione irrisolta tra la pulsione egualitaria che rende questi criminali dei moderni Robin
Hood, e l'esigenza mantenere una stratificazione sociale netta e riconoscibile. 
In questa chiave, che ci porta a leggere il mito del criminale come incontro drammatico, bruciante (e anche
sentimentale), tra egualitarismo e permanenza della stratificazione sociale, può essere letta una singolare
testimonianza che chi scrive ha raccolto nei primi anni Ottanta.  Nel 1981, nel corso di una ricerca sulla radio
negli anni tra le due guerre, mi imbattei in un testimone, che chiameremo qui M. D., il quale  dopo avere
sottolineato la diversità di un'epoca in cui a suo dire le canzoni erano scritte “dai poeti” rispetto a quella in cui
gli autori sarebbero divenuti più banalmente “parolieri”,  recitò a memoria i versi di una canzone che aveva
avuto un certo successo negli anni tra le due guerre.  Parlava di una signora dell'aristocrazia che, per pura
noia, trascina i suoi amici in un locale malfamato: “nella più losca e abominevole gargotte/ tra i fior del male e
i cavalieri della notte/ la bella dama entrò/ lei sola non tremò”. Si tratta di una canzone della metà degli anni
Venti, autore Angelo Ramiro Borella, La java rossa, oggi ricordata soprattutto per essere stata ripresa
successivamente da Ornella Vanoni e da Milva. Quello che rende significativa la testimonianza, al di là dello
stretto contenuto dei versi, è che il signor M.D. aveva ascoltato (chi sa quante volte) La java rossa come si
ascolta una canzone. Ne aveva imparato le parole come si impara a memoria una poesia. E la raccontava
come si racconta un mito, cioè non solo un racconto carico di pathos, ma una storia da condividere, da fare
circolare, ripetendola e insieme adattandola, e una storia che colloca in un mondo “realistico”i grandi temi
dell'amore e della morte, dell'ordine e del disordine.
A colpire il nostro testimone, in quei versi, non era stata, credo, la qualità poetica (in termini letterari è una
canzone come tante), quanto proprio il mythos inteso come intreccio. La “bella dama” infatti incontra un
apache, un uomo dei bassifondi nella colorita definizione che si usava allora per la malavita parigina, con cui
balla una java (una versione particolarmente sensuale del tango), decide di passare una notte con lui, ma
poi mentre lei è assolutamente decisa a restaurare le “normali” distanze sociali il criminale, folgorato dalla
passione, le chiede un ultimo ballo. “E con fulminea mossa/ nel cuor della dama/ piantò la sua lama/ poi la
volle, come folle sulla bocca baciar”. La storia di amore e morte, di impossibile incontro tra i due estremi
della società, si chiude con il saluto dell'apache: “Madama ghigliottina/ un'ultima java m'invita a danzar/ a più
tardi mia damina/ possiamo andar”. 
In questo breve componimento, e nella narrazione del testimone che lo enfatizza e insieme lo trasforma da
canzone in tradizione orale, troviamo il fascino, anche sensuale, che avvolge il criminale proprio per la sua
trasgressività; troviamo il riemergere di um amore  incontro impossibile e in quanto tale fatale e  tragico, che
assume ora le vesti moderne dell'opposizione tra le classi mentre prima aveva indossato quelle dell'amore
fra mondi destinati a odiarsi (Didone ed Enea, Clorinda e Tancredi) o fra tribù in guerra mortale tra loro
(Romeo e Giulietta). E troviamo soprattutto il disordine: quello rappresentato non solo dal crimine in quanto
tale, ma anche dal cadere (sia pur momentaneo)  di barriere sociali insormontabili.  In una semplice vicenda
come quella raccontata da La java rossa lo sconvolgimento delle gerarchie  fa leva esplicitamente sul fattore
per eccellenza di sconvolgimento di ogni regola, il sesso, e insieme assume le vesti perturbanti di un timore
ricorrente, quella che il maschio “inferiore” possa arrivare a impossessarsi della femmina di un ceto o di una
razza “più alta”. Ma è impressionante, d'altra parte, la simmetria tra i due protagonisti, dotati di un coraggio
che è negato a tutti coloro che li circondano, decisi a trasgredire tutte le regole, e a sfidare il destino. 
Il mito del criminale è anche il racconto della falsità (e insieme, e indissolubilmente, dell'inviolabilità) delle
gerarchie sociali.

5. Il potere allo stato puro


Ma a rendere il gangster una figura propriamente mitica è soprattutto la smisurata volontà di potenza. Tutti i 
racconti fondativi del genere, nella loro forma letteraria come in quella cinematografica, sono concentrati in
modo quasi ossessivo su questo tema. Fin dal titolo del primo di loro, con il suo riferimento, sminuito ma
indiscutibile, a una figura classica. Piccolo Cesare.
Machiavelli nei bassifondi  “Sono sicuro” ha scritto l'autore del romanzo, W.R. Burnett, “che il titolo ha avuto
un gran ruolo nel decretarne il successo. Sarebbe difficile trovarne uno più calzante, eppure si può dire che
lo trovai per caso... il titolo iniziale era 'Le Furie', decisamente troppo letterario e in contrasto con il tono del
libro, un romanzo in slang, un romanzo proletario si può dire... [mentre scrivevo] avevo paura di dar vita a un
mostro. Ma poi a consolarmi venne (non so da dove, forse dal subconscio) il pensiero che il mio personaggio
principale, Rico Bandello, assassino e capo di una gang, non era per niente un mostro, ma un piccolo
Napoleone, un piccolo Cesare”. 
Già consapevole di muoversi nel mondo del mito, come dimostrava del resto il primo titolo “Le Furie”, Burnett
si rese conto solo man mano che al centro del suo romanzo c'era, oltre che una catena di delitti, anche la
storia di un'infinita sete di successo, e di un enorme (per quanto transitorio) potere: se ne dimostrava
convinto nella sua prefazione all'edizione postbellica di Piccolo Cesare Gilbert Seldes, che si chiedeva se il
Cesare del titolo non fosse in realtà Cesare Borgia (e alla famiglia Borgia si ispirava di sicuro anche la
sceneggiatura di Scarface) e aggiungeva “come quel Principe per il quale Machiavelli scrisse un libro di
regole politiche, i signori del crimine di Chicago vedevano quanto spreco comportasse un sistema di
competizione aperta”. Volevano il potere, e lo volevano tutto per sé. Per quanto uomo della metropoli
contemporanea, il criminale mitico è insofferente della sua complessità, e sembra voler tornare a modelli
arcaici, che il sistema delle norme e delle mediazioni sociali nasconde ma non sa contenere. 
Del resto anche in questo riferimento a (supposti) modelli rinascimentali il Vautrin di Balzac aveva precorso
da par suo i  dominatori delle metropoli di quasi un secolo dopo: “è bene che sappiate che per me
ammazzare un uomo conta quanto questo” diceva (e accompagnava le sue parole con uno sputo) in una
sorta di autoritratto a uso del suo “discepolo” Rastignac. “Solo che mi sforzo di ammazzarlo come si deve,
quando proprio non se ne può fare a meno. Sono quel che si chiama un artista. Ho letto le memorie di
Benvenuto Cellini, non lo crederete, e anche in italiano. Da quest'uomo, che era un gran buontempone, ho
imparato a imitare la Provvidenza che ci ammazza come vien viene, e ad amare il bello dovunque si trovi”.
Un artista: è anche questa sorta di paradossale, ma innegabile, dimensione estetica che lo lega al suo
pubblico.
L'ambizione e il suo costo In apparenza, il criminale mitico non è leggibile nei termini di una vera e propria
psicologia: o perché si dissimula (come Vautrin) in mille nomi e figure diverse, oppure perché tutta la sua
persona sembra risolversi puramente nell'azione. In realtà, però, è animato da alcune passioni tutt'altro che
banali, che non si riducono solo all'avidità o al brutale desiderio di sopraffazione. 
La passione dominante del criminale mitico è in realtà, ancor più della smania di possesso o di potere, una
quasi astratta ambizione. “Quello che rendeva [Piccolo Cesare] diverso dagli uomini della sua gang era la
sua incapacità di vivere nel presente... per lui il presente era una squallida e sudicia stazioncina; non aveva
occhi che per la meta”, scrive Burnett. Con un paradosso: il gangster che è il rovescio e lo specchio del
capitalista non ha una vera meta finale, ogni punto d'arrivo è un punto di partenza, ogni conquista aumenta
la fame di altre conquiste. Il criminale mitico ha nell'ambizione, come ha chiarito soprattutto Warshow, la sua
hybris, da cui sarà trascinato al tragico destino finale che rappresenta la punizione, non solo e non tanto dei
suoi innumerevoli crimini, quanto dell'aver voluto troppo. 
Potenza di fuoco Se il suo sentimento-guida fosse l'avidità, le storie di gangster ci parlerebbero di denaro, e
del come lo si ottiene e lo si controlla. Ma con poche eccezioni (la più vistosa è il recente Casinò di
Scorsese) questi aspetti hanno un rilievo del tutto marginale. A contare è soprattutto l'espressione più diretta
del potere, l'uso spregiudicato e senza limiti della forza, e del fuoco. Per chi concepisce il mondo in termini di
potere e il potere in termini di pura forza e brutalità le armi sono un oggetto insieme concreto e simbolico.
Anche su questo Vautrin anticipava con sintesi e chiarezza esemplari quasi due secoli di storie di criminali,
quando sempre a Rastignac diceva di investire sì il suo denaro in incontri mondani e in abiti, “ma credete a
me, giovanotto, andate al poligono di tiro”. 

6. Avventure di un mito globale


Non ci sono società senza persone che delinquono, ogni cultura ha le sue regole e chi le viola, figure a cui
possono essere attribuiti ruoli diversi nell'immaginazione narrativo. Si va dai banditi rurali a cui Eric
Hobsbawm ha dedicato un celebre libro e ai quali vengono spesso attribuiti ruoli idealizzati di opposizione al
potere, a coloro che possono essere presentati come i più esclusi fra tutti, e in quanto tali oggetto di
idealizzazione quanto di repulsione (e spesso insieme dell'una e dell'altra): coloro che si pongono fuori
dall'ordinaria convivenza perché dediti a sostanze intossicanti, in particolare all'eroina, sui quali la
cinematografia e la letteratura degli ultimi decenni hanno costruito storie a tratti romantiche e generalmente
tragiche, da Burroughs a Doyle al van Sant di Drugstore Cowboy. Anche in queste storie si ripresenta, e si fa
sentire  nell'ambivalenza in particolare del pubblico adolescente, l'intuizione hegeliana sul "negativo ovvero
la libertà ovvero il crimine". La trasgressione più estrema può essere accolta come la forma più estrema del
rifiuto, e paradossalmente un comportamento che rende schiavi può apparire, almeno per un attimo,
liberatorio.
Il cuore nel mitra Ma per limitarci alla figura del delinquente su cui ci siamo soffermati nel resto del capitolo,
colui che pratica la violenza e infrange le norme per ottenere guadagno e potere, possiamo osservare, dopo
il periodo culminante rappresentato dagli anni della grande depressione negli USA, un processo di
evoluzione e di diversificazione. Mappe delle storie e specificamente dei film di gangster sono state più volte
tracciate, e ci hanno invitato a soffermarci sulle trasformazioni del genere attraverso il noir francese nel
periodo d'oro che va da Dassin a Melville e dopo, o anche nel cosiddetto "poliziottesco" italiano, genere a
lungo trattato in modo spregiativo fin dalla denominazione per poi diventare oggetto di culto, e così via. Ai fini
di questo volume, più che un quadro del genere, mi interessano i passaggi nella vita di un mito; a questo fine
mi concentrerò su tre momenti: il sorprendente revival dei criminali anni Trenta nel cinema statunitense a
cavallo tra anni Sessanta e Settanta; la comparsa sempre negli USA di una figura per alcuni versi
convergenti per altri distinta rispetto al gangster classico, quella del mafioso; e l'inattesa fortuna globale del
cinema asiatico, che possiamo definire di killer più che di gangster in senso proprio.
Per quanto riguarda le storie di gangster americane tra anni Sessanta e Settanta,  dopo il già ricordato
Bonnie & Clyde (in italiano Gangster Story) che fu per molti versi l'iniziatore possiamo ricordare America
1929 sterminateli senza pietà/Boxcar Bertha di Martin Scorsese, The Grissom Gang di Robert Aldrich, Il clan
dei Barker/Bloody Mama di Roger Corman, Gang/Thieves Like Us di Robert Altman. Un aspetto che
accomuna tutti questi film è proprio il ritorno al momento chiave e culminante del mito classico del criminale,
gli anni della grande crisi, che potrebbe far pensare a una nostalgia soprattutto cinefila. Ma sarebbe un
errore: si dovrebbe invece parlare di una riscrittura da un punto di vista totalmente diverso, prima di tutto in
chiave storica. Parallelamente alla svolta del  genere (e del mito) western, su cui torneremo nel cap. 10,
nella quale la frontiera viene per la prima volta guardata dal punto di vista dei popoli sconfitti, anche le storie
di gangster degli anni Sessanta e immediatamente successivi si presentano come parte di un ripensamento
critico dei valori-chiave della cultura americana. I criminali non sono dipinti come imitazioni estreme e in
parte caricaturali del mito del successo, e neppure come dei consapevoli rivoltosi, ma soprattutto come
figure "contro", che invitano lo spettatore a vedere fino in fondo la violenza e l'ipocrisia dell'ordine costituito. 
Questi peculiari "film storici", non si limitano ad ambientare i loro racconti (fin dal vestiario dei protagonisti ) in
un periodo suggestivo e riconoscibile ma ci riportano a un momento chiave, la grande depressione, quasi
alla ricerca, in quel momento di passaggio, del vero volto di un'America che il benessere e i consumi
avrebbero poi nascosto. 
I loro protagonisti non sono, secondo l'espressione di Warshow, "gli uomini della città", ma piuttosto, al
contrario, sono vagabondi in una società ormai stanziale, perfino hobos come la Bertha che ha ispirato il film
di Scorsese: si spostano incessantemente da un luogo all'altro, non solo perché braccati ma almeno
altrettanto perché mossi da un disagio più profondo, e perché di americano hanno soprattutto le automobili
(o i treni) oltre che i mitra. Si tratta pur sempre di eroi tragici, che in un misto di hybris e ingenuità vengono
condotti verso un destino inevitabile; ma a differenza del gangster dei classici film anni Trenta, che non
amava (per lui le donne erano consumo o status symbol, con la possibile eccezione dell'amore incestuoso di
Scarface, conferma estrema del suo porsi contro tutte le regole), molti di questi film hanno al proprio centro
storie d'amore, anzi grandi passioni che la morte al tempo stesso brucia ed esalta. Ed è con questi
sentimenti, non con l'ambizione dei criminali o con la loro provvisoria ascesa, che lo spettatore è invitato a
identificarsi. 
Il mito del gangster diventa in questi film per così dire il grado zero dell'ideale della ribellione, ne esalta la
paradossale legittimità che sta proprio nel contrapporsi a una legge le cui nascoste radici starebbero nella
pura violenza, e insieme ne svela la romantica fragilità. In fondo il nucleo tragico più intimo di queste
narrazioni sta proprio nel fatto che i protagonisti sono condannati non dalla contraddittorietà del mito del
successo, ma dal fatto che il sistema non può essere battuto, che alla fine il ribelle non è tale se non si
dimostra perdente. Nell'idealizzazione, propria della cultura "contro" di quegli anni, della rivolta in quanto
tale, il fascino del mito tragico del gangster sta tutto e solo nella sua parabola di amore e morte. Lo
spettatore è invitato a identificarsi con i belli e dannati un po' come nello stesso periodo faceva coi divi morti
giovani, da James Dean a Jim Morrison.
Il crimine e l'identità Nello stesso periodo, con il successo letterario e poi cinematografico della saga del
Padrino, si afferma una diversa declinazione della figura del criminale, che avrà crescente fortuna nei
decenni successivi anche nelle serie televisive. A differenza dei Piccolo Cesare  il mafioso non è trascinato
da una volontà di potenza inevitabilmente autodistruttiva, ma cerca di conciliare il mestiere della morte con il
rispetto perfino caricaturale delle regole familiari oltre che dei princìpi del business. Quello che conta non
l'individuo-criminale, con la sua smisurata ambizione che lo rende insofferente verso la stessa gang di cui
pure ha bisogno; è l'organizzazione, che pratica la violenza come strumento, di ordine industriale e
tecnologico, e come professione. 
Mentre le storie di mitra e passione si presentavano come rivelatrici degli inganni del sogno americano, in
questo filone emergono alcuni temi più caratteristici di una mentalità in cambiamento. Prima di tutto,
l'emergere di un nuovo valore, quello dell'identità, della ethnicity. Apparentemente, la famiglia Corleone è
italo-americana come i Rico Bandello o i Tony Camonte-Scarface. Ma per i gangster anni Trenta l'origine è
soprattutto uno stigma, il segno di un'esclusione che tutta la loro folgorante "carriera" aspira a cancellare.
Invece per il Padrino e per i suoi è un'appartenenza, di cui non ci si può liberare facilmente ma anche un
patrimonio, che incute anche timore. E rispetto. Un tema questo che torna dal romanzo di Puzo e dal film
che ne è stato tratto, il primo dei tre Padrino di Coppola, a Quei bravi ragazzi di Scorsese fino alla saga
televisiva dei Soprano. Il ruolo che hanno avuto attori e registi italo-americani in questa costruzione
identitaria è troppo ovvio del resto perché sia necessario sottolinearlo ulteriormente. In un'America dove la
diversità e l'identità sono diventati valori, anche alla criminalità vengono attribuiti tratti culturali, che
comunque vanno al di là del fato personale, per trasmettersi come traditio oltre che come eredità familiare.
L'altro tratto distintivo di queste storie sta nella stessa espressione organized crime, una formula resa
popolare nei primi anni Cinquanta dalle inchieste della cosiddetta Commissione Kefauver, le cui udienze
vengono rimesse in scena nel secondo film della saga del Padrino. "Organizzata": è  una criminalità che
sembra seguire le trasformazioni del grande capitalismo, dalla figura del rugged individual capace di farsi da
sé alla grande impresa dove l'anonima efficienza della macchina e della tecnostruttura pesa più di qualsiasi
tratto di audacia o genialità personale; come per molte grandi imprese, anche in questo caso il carattere
familiare appare insieme una garanzia di continuità e una contraddizione irrisolta.  Che cosa resta della
dimensione mitica del criminale? In effetti, la delinquenza organizzata che si impone nel cinema, e nella
televisione, occidentali degli stessi anni e di quelli successivi vira verso una demitizzazione della morte e del
delitto. E il gangster, con la sua cultura etnicamente connotata e con i problemi caratteristici della vita delle
grandi organizzazioni, finisce con il diventare oggetto di un'osservazione quasi etnografica, o con il
precipitare, con tinte a volte drammatiche a volte grottesche, verso il più novecentesco dei mali: la nevrosi. 
Nel mondo dove il delitto dà luogo a mestieri come tanti altri, e all'anonimato degli apparati, la brutalità e il
gusto superomistico del potere che deriva dall'assassinio si spostano nel più solitario e patologico (ma
paradossalmente a suo modo razionale) di tutti i criminali: il serial killer. Lo incontreremo ancora.
Affari infernali Una nuova, inattesa, ondata di storie di gangster ha fatto d'altra parte la sua comparsa, negli
anni Ottanta, in quel cinema di Hong Kong che era stato noto fino ad allora in occidente soprattutto per i film
di arti marziali, e si è diffuso poi in altri paesi asiatici, dalla Corea del sud alla Thailandia, senza dimenticare il
filone Yakuza del cinema giapponese. 
A unire queste narrazioni c'è una tensione diversa da quella che animava le storie di gangster classici: qui
(salvo che per alcuni film, soprattutto di Johnny To, più simili al Padrino) i protagonisti sono tipicamente non
capi ma membri, spesso gregari, delle bande o delle "triadi" cinesi, o addirittura picchiatori di bassa risma.
Uomini presi tra le "regole" d'onore a cui non solo sono tenuti ma si vogliono attenere, regole che assumono
quasi un come tratto identificativo della persona, e il cinismo dei loro capi, del quale i protagonisti stessi sono
in parte consapevoli ma diventeranno alla fine soprattutto vittime. In Infernal Affairs, uno dei più celebri di
questi film (anche per avere ispirato un remake di Martin Scorsese, The Departed), la contraddizione è
portata all'estremo nel doppio gioco di infiltrazioni tra gang e polizia; in tutti, il destino del protagonista, che
potrebbe essere definito ancora una volta tragico se non fosse molto spesso soprattutto melodrammatico, e
lo spettatore può essere prima commosso che affascinato da colui che muore per avere anteposto l'onore
all'interesse, l'attaccamento a una donna o a un fratello alla sua stessa sopravvivenza. 
Che ne è del mito del criminale in questi intrecci di onore e cinismo, di violenza e fragilità, di sentimenti e
insensibilità? Quando culture lontane sembrano parlarci per diretta empatia, quella gladiatoria della violenza
come quella emotiva degli innamoramenti, è sempre in agguato il malinteso, l'illusione di poter comprendere
senza mediazioni mondi dei quali continuiamo a non possedere le chiavi. Possiamo però cercare di
comprendere qual è il modello di criminale da cui noi siamo attratti in queste storie. 
La violenza estrema delle scene, che hanno finito con il definire nuovi standard per il cinema d'azione,
contrasta con la sorprendente fragilità dei criminali: una fragilità che si esprime nei loro dolorosi e spesso
vincolanti legami familiari ma anche in alcuni casi nell'infermità fisica (fino al killer sordomuto di Bangkok
Dangerous dei gemelli Pang), o addirittura nella totale inadeguatezza, che fa scivolare il mélo nel grottesco
come nel sud-coreano Nameless Gangster. La violenza che è la loro professione è l'altra faccia di passioni
amorose singolarmente adolescenziali, a cui questi "duri" si abbandonano con tutti se stessi.
E' questo misto di durezza, debolezza e intensità dei sentimenti che spinge lo spettatore anche occidentale a
un'identificazione emotiva diversa da quella riconosciuta da Warshow, ed essa stessa contraddittoria:
centrata sempre meno sulle imprese del criminale, sulla sua ascesa e caduta, sempre più sulle sue
sofferenze e e sulle sue emozioni. Nell'insieme del cinema di Hong Kong, in particolare, queste storie hard
boiled si trovano per così dire a metà strada in un percorso che conduce dalle arti marziali, dove la violenza
si presenta come un valore in sé fino all'esibizione quasi chirurgica del sangue, al melodramma puro: del
resto, alcuni registi come John Woo sono partiti dai film di lotta per diventare riferimenti del cinema di
gangster asiatico, altri come Wong Kar-wai hanno preso le mosse dalle storie criminali per diventare autori
mélo tra i massimi del cinema contemporaneo.
Un lontano e non riconosciuto modello per il modello "asiatico" del mito criminale si può trovare in un film di
Akira Kurosawa del 1948, L'angelo ubriaco, che non nasconde (come del resto diversi suoi film successivi
tra cui lo straordinario Cane randagio) la volontà di riprendere e in certo senso tradurre nella propria cultura i
modelli statunitensi, tra gangster movie e noir. Al centro, la figura di un delinquente condannato da diversi
punti di vista insieme: in quanto gangster certo, ma anche in quanto fedele a un onore per cui il suo capo
non ha alcun rispetto, e soprattutto in quanto tubercolotico che rifiuta di curarsi proprio in quanto non è
disposto a rispettare regole che lo ricondurrebbero a un'inaccettabile "normalità". C'è già in nuce l'intreccio di
tragedia, violenza e mélo che ricompariranno a partire dagli anni Ottanta nelle storie di gangster di Hong
Kong e di altri paesi orientali. 
Era ancora Warshow a dire che il gangster "porta la sua vita nelle proprie mani come un manifesto, come
uno sfollagente”. Le storie di criminali venute dall'oriente radicalizzano una simile rappresentazione: da un
lato la vita dei loro protagonisti si riduce a una semplice arma (non per niente sono quasi sempre puri killer o
picchiatori, senza progetti propri, anzi esplicitamente senza un futuro), dall'altro è in effetti un manifesto: non
della volontà di successo ma di un bisogno primario di vivere, in un mondo  dove più che mai mors tua vita
mea; e di amare, in un mondo dove non la solitudine, ma l'amore stesso sembra portare dentro di sé una
condanna a morte. Se i gangster venuti dall'est hanno affascinato gli spettatori occidentali è perché ci
parlano (come molto di ciò che ci arriva da quel mondo), non solo di un altrove, ma anche del nostro
possibile futuro.

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