come ad esempio quelli pertinenti alla prossemica (i comportamenti, cioè che riguardano
le distanze spaziali alle quali si collocano i partecipanti all’interazione comunicativa), quelli
della cosiddetta paralinguistica (cioè i tratti intonazionali e ritmici), quelli pertinenti alla
fisiognomica (cioè la presunta e normalmente stereotipa attribuzione di tratti caratteriali di
un individuo a partire dalla configurazione fisica e specialmente del volto), ecc.
Se ci spostiamo sulla prospettiva diacronica, possiamo osservare che gli studi sul
comportamento non verbale, in epoca moderna, iniziano nella seconda metà
dell’Ottocento in area antropologica, con il celebre testo di Charles Darwin, L’espressione
delle emozioni nell’uomo e nell’animale (1872), nel quale il comportamento non verbale
viene elevato a dignità scientifica e vengono forniti al suo studio dei presupposti che
ancora oggi trovano un riscontro di validità. Darwin in quel saggio mette a confronto
l’uomo e l’animale in relazione all’espressione corporea ed elabora l’importante principio
secondo cui i gesti non sono innati, ma sono prodotti dalle circostanze; osserva
contemporaneamente che i gesti, con il permanere della loro utilità, in seguito divengono
specifici di una determinata specie animale, ma non dei singoli appartenenti ad essa, che
li devono acquisire autonomamente. Inoltre, per primo Darwin traccia una lista di emozioni
fondamentali che possono, per l’appunto, essere manifestate in forma corporea, attraverso
modifiche, cioè, di quella superficie malleabilissima che è il corpo. Alcune di esse sono
comuni ad uomini ed animali (gioia, affetto, dolore, collera, stupore, spavento). Altre sono
tipiche soltanto dell’uomo (pianto, riso, rossore). Nel caso dell’uomo, naturalmente, si deve
aggiungere che le emozioni possono essere espresse anche attraverso una forma
linguistica, mentre nel caso degli animali questa possibilità, ovviamente, non c’è . 3
Naturalmente che i gesti fossero dei segni - e che in questa prospettiva comunicativa
potessero essere considerati – era cosa ben nota anche agli antichi. Forse il primo
accenno preciso alla dimensione significativa della gestualità lo troviamo in un famoso e
oggi molto celebrato dialogo platonico, il Cratilo, dedicato appunto al linguaggio . In quel 4
testo due personaggi, Ermogene e Cratilo, si confrontano sotto la guida di Socrate sulla
natura del linguaggio, chiedendosi se esso si organizzi su base naturale o su base
convenzionale, chiedendosi, cioè se la relazione che c’è tra le espressioni linguistiche e gli
oggetti a cui esse rimandano, sia una relazione necessaria, naturale, motivata (questa è la
posizione di Cratilo), oppure se questa relazione è di tipo convenzionale, cioè priva di una
sua necessità intrinseca, non motivata da nessuna caratteristica dell’oggetto (posizione di
Ermogene). Nel corso del dialogo ci si chiede anche che cosa vuol dire che tra cose e
nomi ci potrebbe essere una relazione necessaria e motivata; e una risposta è che le
parole potrebbero essere come i gesti. Socrate fa presente ai suoi interlocutori (Cratilo ed
1 Questo titolo riecheggia quello dato da Daniele Gambarara alla sua premessa al volume su “gesto e
comunicazione” di Nico Lamedica (1987), che suonava appunto “Una semiologia in costruzione”.
2 Viene definito “comunicazione non verbale” ogni tipo di sistema comunicativo che non poggia sul canale
vocale linguistico per la produzione e interpretazione del senso.
3 Cfr. Lamedica, 1987: 17 sgg.
4 Cfr. Manetti, 2003.
1
Ermogene) che le parole potrebbero configurarsi proprio come i gesti nei confronti degli
oggetti a cui si riferiscono. Viene dunque istituita una fortissima analogia tra i gesti e le
espressioni linguistiche dal punto di vista della loro natura semiotica:
Vedremo che non tutti i gesti hanno questo tipo di relazione (naturale e mimetica) con
gli oggetti a cui si riferiscono; ma è interessante questo spunto che ci viene da Platone per
vedere come una riflessione sui gesti nasca proprio all’interno di una riflessione sul
linguaggio in generale e ne costituisca una sorta di paragone per analogia.
Tuttavia la più ampia trattazione dei gesti effettuata nell’antichità è quella fatta da
Quintiliano nel libro XI delle Institutiones Oratoriae, a partire da III, 66 fino a III, 149, dove
vengono descritti i gesti ed i movimenti mimici che devono accompagnare un efficace
discorso oratorio, e in cui si passano minuziosamente in rassegna i vari movimenti
significativi in un ordine sistematico che parte dalla testa per arrivare alle estremità:
posizione della testa, sguardo e movimento degli occhi, movimento delle palpebre e delle
sopracciglia, movimenti della fronte, delle narici e delle labbra, espressione del volto,
movimenti del collo, della gola, delle spalle, delle braccia, delle mani, dei fianchi e delle
gambe.
aspetto interessante del testo è anche la polemica che Bonifacio intrattiene con la
Fisiognomica di Giovan Battista Della Porta del 1583. Mentre lo scopo dell’indagine
dellaportiana consiste nella ricerca di un significato fisso da attribuire ad una determinata
configurazione della fisionomia umana, per Bonifacio i gesti sono indicatori di una più
ampia mobilità dell’animo: fatto che induce Bonifacio ad una ricerca più ampiamente
5Una interessante e penetrante presentazione del testo di Bonifacio si può trovare nel recente saggio di
Martone (2004).
2
descrittiva, lasciando da parte la dimensione che parta dai gesti per interpretare la
presunta indole del soggetto che li produce.
Un’altra tappa importante nello studio del gesto è poi costituita dal volume di Andrea
de Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano (1832) un testo mai 6
dimenticato, ma che sicuramente aveva avuto nel secolo appena trascorso vita
abbastanza difficile. De Jorio, procidano di origine, napoletano di adozione, ma con una
propensione già allora decisamente internazionale. Appassionato studioso d’arte antica,
de Jorio era in contatto con le più importanti personalità del mondo della ricerca
archeologica a lui coevo. E proprio confrontandosi con l’ambito della difficile ricostruzione
e interpretazione delle opere d’arte dell’antichità classica, de Jorio matura l’esigenza di
individuare un metodo per poter restituire pienezza di leggibilità semantica agli antichi testi
pittorici e figurativi in genere, il cui senso in molti casi era reso enigmatico dalla frattura di
tanti secoli.
L’idea che de Jorio persegue con convinzione e meticolosità è che l’osservazione dei
gesti a cui il popolo napoletano ricorre in un’infinità di situazioni comunicative sia da
prendere come base per costruire un’analogia di significato rispetto ai gesti rappresentati
nella pittura vascolare o tombale del mondo antico. Il progetto in sé presta il fianco a molte
critiche. La principale è quella secondo cui anche i codici gestuali sono sottoposti a
variazione diacronica, se partiamo dal presupposto che anche quella dei gesti sia una
lingua e che le lingue variano. Ma de Jorio, proprio attraverso il suo dubbio presupposto,
se non proprio grazie al suo errore, scopre un modernissimo campo di indagine -
diremmo, per serendippità, cioè per una di quelle fortunate e luminose situazioni casuali
(proprio come avvenne a Fleming con la scoperta della penicellina dalla circostanza per
cui certe colture batteriche “avevano preso la muffa”): de Jorio scopre l’etnografia del
gesto. La sua è la prima moderna, minuziosa descrizione del linguaggio dei gesti indagata
in un alveo geografico-culturale ben delineato, con specifica e dichiarata esclusione della
validità universale del gesto.
I gesti infatti si organizzano in codici che hanno un ambito di uso limitato, per quanto
ampio; e molti se ne potrebbero ricordare, a partire dal linguaggio ASL (American Sign
Language, cioè il linguaggio dei sordomuti), fino a quello che prende il nome di CISL
(Cistercian Sign Language, cioè il linguaggio gestuale dei monaci Cistercensi, che insieme
ai Cluniacensi e Trappisti osservano dei periodi quotidiani di silenzio a fini spirituali, ma
non si astengono per questo dalla comunicazione). Quello che ne risulta è ciò che in altro
ambito (quello del mimo) Cassiodoro descriveva, nel VI secolo, con una serie mirabolante
di ossimori e di metafore: silentium clamosum, expositio tacita, linguosi digiti,
loquacissimae manus.
I codici gestuali hanno un’altra caratteristica che non sfugge a de Jorio, rendendo il
suo testo modernissimo: quello di organizzarsi per opposizioni significative. E così egli
descrive la variazione del senso dei gesti attraverso l’opposizione di certi tratti pertinenti
del livello espressivo. E va infine ricordato un ultimo tratto di modernità: l’affermazione
ripetuta - che dal testo risulta con chiarezza e sistematicità – in base alla quale il senso del
linguaggio gestuale emerge solo dalla sua esecuzione in un contesto dato e definito.
3. Mimica e fisiognomica
6 Recentemente Adam Kendon ha effettuato la traduzione in inglese del volume di Andrea de Jorio,
corredata da un ampio saggio introduttivo. Come primo e fondamentale merito, la sua traduzione rende il
testo di de Jorio disponibile anche ad un pubblico internazionale; inoltre, corredata com’è da un’introduzione
di oltre cento pagine, facilita molto la comprensione della vera portata culturale del progetto di de Jorio.
3
Ritornando all’epoca contemporanea, occorre ora procedere a stabilire alcune
precisazioni circa le relazioni tra due tipi di segni, entrambi leggibili sul volto umano, ai
quali abbiamo fatto cenno nei paragrafi precedenti: la mimica e la fisiognomica. Gli
studiosi contemporanei tendono ad includere all’interno della cinesica (nome della
disciplina che studia i movimenti espressivi del corpo) anche la mimica, che riguarda
specificamente quei movimenti che vengono compiuti articolando i muscoli facciali, mentre
ne escludono un’altra fonte dell’espressività corporea, cioè l’espressività fisiognomica.
Vale la pena di soffermarci un attimo sulle differenze. La mimica si occupa di
ricostruire il sistema attraverso cui si organizza la rete di significati connessi con i muscoli
facciali quando attraverso un determinato movimento producono una precisa
configurazione, tale che da essa i partecipanti all’interazione comunicativa possano trarre
delle informazioni sull’emozione del soggetto che quei movimenti mimici produce.
Al contrario, la fisiognomica è un ambito di indagine parascientifico, che si propone di
inferire i caratteri psicologici e morali degli individui a partire dalla interpretazione delle
linee del volto quando i muscoli sono in stato di riposo. Insomma, la fisiognomica si
oppone alla mimica facciale come i tratti del volto in riposo si oppongono ai tratti mobili. La
mimica facciale è un codice che funziona perché i muscoli del volto si mettono in
movimento. La fisiognomica invece si occupa di ricostruire un codice che riguarda la
configurazione fissa e complessiva del volto. Secondo i trattatisti che si sono occupati di
fisiognomica (molti nella storia del pensiero dopo Aristotele, tra cui, solo per fare alcuni
nomi, Giovanbattista Della Porta e Johann C. Lavater; ma la tradizione può essere seguita
fino ai trattati di antropologia criminale di Cesare Lombroso), si possono dunque inferire
caratteri morali interni dell’uomo a partire da segni che si leggono sul fisico ed in
particolare sul volto, e spesso è proprio nella tradizione fisiognomica che possono esssere
rintracciati certi aspetti del pregiudizio contemporaneo e, allo stesso tempo, di certe
idealizzazioni dei divi mediatici.
Ogni giorno ciascuno di noi produce una grande quantità di “giudizi fisiognomici”,
per usare una espressione manzoniana , attribuendo caratteri “morali”, cioè concernenti la
7
natura interiore sia delle persone con cui ci capita di avere relazione di interscambio
comunicativo reale, sia dei personaggi fittizi che ci vengono proposti dai diversi media.
Contrariamente a quello che si potrebbe immaginare per una materia così fluida, i giudizi
emessi dai soggetti sociali sono in genere fortemente omogenei: tutti riconoscono – o
credono di riconoscere – a colpo sicuro “il cattivo”, l’”infido”, l’”astuto”, il “mite”, il “timido”,
lo “stolido”, semplicemente basandosi su segni della configurazione statica del volto di una
persona (fisiognomica) e in generale della sua figura corporea.
Per spiegare questo fenomeno di uniformità nella competenza inconscia dal punto
di vista interpretativo si deve ricorrere ad un sapere fisiognomico, mai appreso
esplicitamente, ma sedimentato in forma stabile in una tradizione antichissima che trova
una sua prima espressione pratica nei testi della medicina ippocratica e viene
successivamente sistematizzato in forma teoricamente compiuta in alcune delle opere del
corpus aristotelico.
In Aristotele (Analitici Primi, II, 70b e Fisiognomica, attribuita al maestro, ma
sicuramente della sua scuola) viene tra l’altro fondato il paradigma per cui i segni fisici
dell’espressione umana non sono in sé sufficienti a rendere conto dei contenuti interiori di
un individuo, data l’estrema differenziazione che si riscontra, sia dal punto di vista fisico,
sia da quello psichico, nei membri della specie umana. E’ necessario quindi ricorrere ad un
termine di mediazione, rappresentato dalla morfologia animale: gli animali della stessa
specie sono (agli occhi di Aristotele) tutti simili tra loro e tutti caratterizzati da una
7 Si veda il capitolo XVI, 6 dei Promessi sposi, “Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisiognomici, prima di
trovare la figura che gli paresse a proposito”. Manzoni, come noto, era stato lettore della Fisiognomica di
Lavater; cfr. Magli, 1989: 117.
4
medesima indole caratteriale: pertanto la presenza in un uomo di tratti fisici analoghi a
quelli presentati da un animale di una determinata specie, implicherà (trattandosi, appunto,
di un “segno fisiognomico”) una comunanza anche sul piano della disposizione dell’animo,
nella misura in cui questi aspetti fisici sono riconducibili a delle caratteristiche proprie degli
animali.
8 Nella doppia data, il primo numero si riferisce all'anno della prima apparizione del saggio e il secondo a
quello della sua ripresa nel volume a cura di J. Umiker-Sebeok e Th. A. Sebeok (1987).
5
La prima categoria è quella dei gesti autistici, cioè quei gesti personali che sono
direttamente legati al parlato, all'intonazione melodica e alle altezze di tono e servono per
marcare i tratti grammaticali e ad esprimere una parte di significato (spesso emozionale)
che non viene codificato verbalmente.
La seconda categoria comprende i gesti indotti culturalmente, cioè quei movimenti
del corpo che sono il prodotto dell'inserimento del soggetto entro una certa cultura. Questi
gesti sono appresi inconsciamente e, altrettanto inconsciamente, riprodotti. Ne fanno parte
certi modi di camminare e di sedere, di inchinarsi e di muovere la testa per fare i cenni del
"si" e del "no". Questi ultimi in particolare sono spesso diversi da cultura a cultura, anche
se, come ha messo in evidenza Jakobson (1971), seguono in ogni cultura un identico
principio strutturale.
La terza categoria è quella dei gesti semiotici (che talvolta sono indicati come gesti
popolari) , costituita da segni che sono i sostituti di espressioni verbali. Si tratta di gesti che
9
hanno significato solo all'interno di una determinata cultura, mentre il loro apparire in un
ambito culturale diverso può essere completamente sprovvisto di significato, o,
accidentalmente, avere un significato diverso. Non sono, cioè, universali.
La quarta categoria, infine, è quella dei gesti tecnici, che formano dei sistemi
specifici di gruppi particolari, i quali li utilizzano professionalente quando la comunicazione
verbale è impossibile, interdetta o inadatta. Tra questi vengono classificati i codici gestuali
dei monaci di clausura, quelli dei sordomuti, degli indiani d'America e degli Aborigeni
australiani. Inoltre, appartengono a questo gruppo tutti i sistemi professionali: quelli dei
venditori d'asta, degli arbitri, dei camionisti, dei lavoratori delle segherie dell'Oregon, dei
mercanti, ecc.
La seconda classificazione “universale” è quella elaborata da La Mont West (1960,
citato da Sebeok e Sebeok, 1987: IX sgg.), che individua innanzitutto sette sistemi gestuali
costituenti, secondo La Mont West, dei "veri e propri linguaggi di segni", suddivisi
ulteriormente in relazione a tre tipi di intento funzionale (comunicativo, drammatico,
formulaico ovvero rituale): ad essi l'autore attribuisce, non sempre giustificatamente,
anche la caratteristica della doppia articolazione quale si ritrova nel linguaggio verbale . 10
9 La definizione di questo tipo di gesti come "semiotici" appare inadeguata ed imprecisa, in quanto tutti i
movimenti significativi potrebbero essere definiti come "semiotici", cioè portatori di un significato. In effetti la
specificità dei gesti di questo gruppo sembra consistere nella triplice caratteristica di essere codificati,
artificiali e, contemporaneamente, non limitati nell'uso a situazioni particolari, come è il caso della categoria
successiva dei gesti tecnici. In un certo senso la loro definizione come gesti popolari appare presentare
meno inconvenienti.
10 Riprendiamo, con qualche lieve adattamento, la tabella proposta dall’autore.
6
Comunicazione Narrazione / Rito
Rappresentazione
7
A commento dello schema precedente può essere aggiunto qualche cenno su
alcune delle categorie elencate. I linguaggi di segni degli Indiani d'America nacquero come
lingua franca, cioè come mezzo attraverso il quale comunicavano popoli che parlavano
lingue mutualmente incomprensibili. Si sono dimostrati utili anche per la comunicazione
intratribale durante la caccia, l'esplorazione, la guerra e il racconto di storie. Comprendono
centinaia di segni, usati da soli o in combinazione ed hanno una sintassi semiindipendente
da quella del linguaggio verbale.
I linguaggi di segni degli Aborigeni australiani sono impiegati quando è imposto il
silenzio nel caso di lutto o durante la caccia, situazione altrettanto gravata di significato
rituale. Si tratta di linguaggi che superano anche quello degli Indiani d'America in termini di
dimensioni del lessico (gli Warlpiri usano oltre 1500 segni) e di complessità delle stringhe
di segni. Questi linguaggi si sono sviluppati in connessione con l'usanza delle donne in
lutto di rimanere in silenzio e di utilizzare il linguaggio dei segni per oltre due anni
continuativamente, come unica forma di comunicazione con le altre parenti del deceduto e
con le sorelle. Tendono tuttavia a seguire la sintassi del linguaggio parlato.
Il linguaggio dei sordo-muti secondo una tradizione mitografica nascerebbe da
quello dei codici monastici, basandosi sul fatto che nel 16° secolo in Spagna si registrano
casi di bambini sordi, appartenenti all'aristocrazia, educati nei monasteri. Questo mito,
come mostra William Stokoe (1978/1987: 326) non ha basi razionali, e nasce dalla
presunta somiglianza tra i due sistemi - quello dei gesti monastici e quello dei sordo-muti -
poggiando inoltre sul presunto carattere di universalità del linguaggio gestuale. In effetti un
sistema metodico di segni gestuali che poteva costituire un linguaggio sufficiente per
esprimere il pensiero da parte dei sordo-muti fu inventato nel 1750 da Charles Michel,
Abbé de l'Epée. Si deve tuttavia osservare che il linguaggio dei segni monastico ha poche
possibilità di essere considerato la sorgente del moderno sistema di segni dei sordo-muti
per vari motivi. (i) I mondi di riferimento dei due sistemi sono profondamente diversi: gli
oggetti della vita monastica, basata sulla regola di San Benedetto, in un caso, e l'ampia
gamma dei fenomeni del mondo, nell'altro. (ii) I sistemi di segni monastici dipendono in
gran parte per la sintassi dal linguaggio nativo della comunità di monaci: per esempio,
francese per Cluny e anglo-americano per la comunità di St. Joseph a Spencer, nel
Massachussets. (iii) Statisticamente si rileva solo una rassomiglianza di 1 a 7 tra gesti del
CSL (Linguaggio di segni dei Cistercensi) e l' ASL (Linguaggio dei segni americano, usato
dai sordo-muti). In definitiva il linguaggio dei segni dei sordo-muti, quando sia usato
costantemente da una comunità per comunicare in una serie molto ampia di situazioni,
può essere considerato altrettanto ricco di quello parlato sia nella possibilità di esprimere
concetti, sia nella presenza di sfumature morfologiche e sintattiche.
Per quello che riguarda il linguaggio dei segni Armeno, in questi ultimi decenni
dobbiamo registrare la sua scomparsa senza che gli studiosi abbiano avuto la possibilità di
analizzarlo approfonditamente.
Infine i sistemi di segni a funzione estetica, come la pantomima, il balletto e la
danza Indu sono organizzati in maniera tale da combinare insieme un livello narrativo con
la musica, nel primo caso, la danza nel secondo ed entrambi nel terzo.
Accanto ai sette sistemi di segni, che considerava "vere lingue", West individuava
due ulteriori categorie di gesti, i cui sistemi componenti non avrebbero la caratteristica di
essere delle vere e proprie lingue. La prima è la categoria dei linguaggi di segni marginali,
che comprendono numerosi sistemi di gesti associati con rappresentazioni teatrali, con
l'oratoria (per esempio l'oratoria greca e romana), con le tradizioni religiose, con le sette
segrete (Massoni), con la gestualità dei gruppi etnici di tutto il mondo (gesti napoletani e
siciliani; gesti usati dagli zingari). La seconda è la categoria dei sistemi limitati di gesti
professionali, comprendente vari codici escogitati per superare diversi ostacoli. Per
esempio problemi di distanza (acrobati, atleti, agenti di borsa, arbitri sportivi, marinai,
8
agrimensori, camionisti, ecc.); livello di rumore (operatori delle segherie, pompieri, piloti di
aerei, ecc.); quando è richiesto il segreto (esercitrazioni ed esplorazioni militari, ecc.);
quando è richiesto il silenzio (direttori d'orchestra, conduttori di programmi radiofonici,
addetti a dirigere la clacque, ecc.). La classificazione di West presenta alcuni
inconvenienti, soprattutto di carattere glottocentrico, che sono stati rilevati da una serie di
studi negli ultimi decenni.
Recentemente è stata proposta una diversa classificazione da parte di Adam
Kendon (1987), che divide i gesti complessivamente in due categorie. La prima categoria
è quella dei linguaggi di segni alternanti (alternate sign languages), che comprende quei
sistemi di segni che sono stati sviluppati dagli utenti per scopi particolari in occasioni
speciali o in particolari periodi quando il parlare è interdetto per ragioni rituali oppure reso
difficile dalle circostanze. Rientrano in questa categoria i linguaggi di segni degli Indiani del
Nord America, quelli degli Aborigeni australiani, i linguaggi di segni monastici, i linguaggi di
segni occupazionali, quelli della rappresentazione scenica (pantomima del balletto
classico europeo, danza Indù).
La seconda categoria è quella dei linguaggi di segni primari (primary sign
languages). Essa include i linguaggi che servono come mezzo principale di
comunicazione piuttosto che come un'alternativa al linguaggio parlato, come è il caso del
sistema gestuale dei sordo-muti.
Per capire come è fatto un codice gestuale specifico e per cogliere le differenze tra i
vari tipi di gesti di cui si compone è necessario affrontare una questione preliminare: quella
di stabilire quale tipo di relazione i segni gestuali intrattengano con ciò che indicano, cioè
con i loro significati e/o referenti. Abbiamo visto infatti che alcuni gesti imitano l’oggetto che
intendono indicare (come quando facciamo il gesto della silhuette di una donna formosa
per indicare appunto “bella ragazza”, mentre altri non hanno alcuna relazione di
somiglianza con ciò a cui rimandano, come quando eseguiamo il gesto del saluto agitando
la mano; in questo secondo caso non c’è alcuna relazione diretta tra gesto e significato;
questo fatto è ulteriormente confermato dal dato per cui, in culture diverse, lo stesso
significato è indicato da gesti differenti (ad esempio: le dita che si chiudono sulla palma
rivolta verso l’interlocutore, contro la palma rivolta verso il soggetto che esegue il gesto.
Una classificazione delle possibili relazioni tra un segno e il suo referente è quella
normalmente accettata in ambito semiotico, che risale a Charles Sanders Peirce (1839-
1914, filosofo americano, considerato uno dei padri fondatori della disciplina semiotica).
Peirce suddivide i segni in 3 categorie, che risultano particolarmente utili per la
classificazione dei gesti:
1. Simboli o segni simbolici (hanno una relazione arbitraria con il referente, come la
stragrande maggioranza delle espressioni linguistiche).
2. Indici o segni indicali (hanno una relazione di contiguità con l’oggetto al quale si
riferiscono: si tratta di una relazione che consiste in un contatto o in una vicinanza
fisica, come è il caso per es. del dito puntato, oppure di causa-effetto, come è il
caso della banderuola la cui direzione viene causata da quella del vento).
3. Icone o segni iconici (hanno relazione di somiglianza con l’oggetto, per esempio
tutte le immagini, fino ai ritratti e alle caricature che mantengono una somiglianza
molto vaga , sotto un qualche rispetto o parametro).
9
5.2. I segni monastici
Per dare un’idea di come i tipi di relazione tra segno e referente (e/o significato)
appena illustrati possono essere articolati nel caso di un codice gestuale prenderemo
come esempio i segni gestuali monastici. Una interessante classificazione dei gesti in
base alle loro relazioni rispetto al referente è quella di Robert A. Barakat (1975/1978), che
analizza il linguaggio gestuale dei Cistercensi usato nell'abbazia di St. Joseph, Spencer,
Massachusetts. L’autore individua cinque tipi di segni diversificati appunto su questa base
e organizzabili secondo la seguente tabella:
10
Tipi di segni Definizione Sottocategorie
(c) combinano le
precedenti caratteristiche
per simbolizzare i referenti
4. Segni parzialmente Usano alcuni tratti del (a) segni con
dipendenti dal linguaggio linguaggio approssimazioni fonetiche
nel linguaggio
Il primo gruppo, formato dai segni pantomimici, comprende gesti che richiedono un
movimento simile al movimento imitato o una descrizione manuale di un referente. Si
tratta di segni di tipo iconico. Essi costituiscono la base di molti repertori di segni,
compresi quelli dei sordo-muti e degli Indiani d'America. Questi segni pantomimici sono
stati anche talvolta designati come "universali", in quanto possono essere compresi da
soggetti appartenenti a culture differenti. Designano azioni molto generali. Per esempio
camminare, che si esegue stendendo l'indice e il medio dal pugno chiuso e muovendoli
l'uno di fronte all'altro in avanti; oppure mangiare, eseguito mettendo l'indice e il medio sul
pollice e muovendo la configurazione avanti e indietro verso la bocca; oppure ancora
dormire, che si esegue piazzando la palma di una o delle due mani su un lato della testa e
poi reclinando la testa su un lato come su un guanciale.
Tuttavia, come fa notare Barakat (1975/1987:100) la natura imitativa di certi gesti
non è necessariamente legata ad un presunto carattere di "universalità". Ad esempio, il
gesto di indicare qualcosa a distanza si trova eseguito in certe culture con il dito puntato,
11
in altre con la punta delle labbra. Ugualmente il gesto di salutare è eseguito in Grecia e
nel medio Oriente, inclusi molti paesi arabi, ponendo la palma della mano di fronte a se
stessi e muovendo avanti e indietro le dita unite; in Inghilterra e negli Stati Uniti la palma
guarda in avanti e le dita sono mosse in avanti, o unite o rapidamente una dopo l'altra.
Anche i gesti per il "si" e il "no" variano considerevolmente: in India il gesto per
l'affermazione è simile a quello occidentale per la negazione.
I segni come camminare, mangiare, dormire, come pure spalare (stendere la mano
destra di fronte al corpo e poi abbassarla), pregare (mani giunte intrecciate), ecc. fanno
parte della prima sottoclasse di questo gruppo, composto di segni che imitano una
specifica azione. Questi segni possono essere usati sia con la funzione di nomi che di
verbi.
La seconda sottoclasse è composta da gesti che descrivono manualmente un
oggetto. Ne fanno parte segni come libro (tenere le palme chiuse insieme, poi aprirle,
tenendo unite le estremità basse delle palme), come paniere (descrivere con l'indice della
mano destra un cerchio davanti al corpo e poi sollevare i pugni chiusi delle due mani),
come gancio (curvare l'indice destro e portare la mano sopra la spalla destra).
Il secondo gruppo, quello dei segni puri, è composto da gesti che non hanno alcuna
relazione di motivazione rispetto ai referenti. Si tratta, cioè, di segni di tipo arbitrario o
simbolico (secondo la terminologia di Peirce). Sono spesso impiegati per designare
oggetti peculiari della vita monastica. Nella maggior parte dei casi segni di questo tipo
sono stati inventati per designare cose per le quali non esiste alcun segno naturale. Per
esempio si trova in questo gruppo il segno per abate (porre le punte dell'indice e del
medio sulla fronte, in maniera che puntino verso l'alto). Priore (tenere il pollice destro in
alto sul pugno chiuso). Sottopriore (stesso gesto che per priore, ma con la differenza di
estendere anche il mignolo, per indicare un diminutivo). Presidente (estendere il medio dal
pugno della mano destra, con la parte posteriore della mano che guarda il corpo).
Invitatore (porre la punta del pollice destro tra l'indice e il medio e tenerlo per un pò). In
maniera curiosa questi due ultimi gesti sono simili a gesti conosciuti in ambito laico e
molto diffusi nel mondo; rispettivamente quello definito solitamente come social finger e
come mano fica, anche se sono stati assunti all'interno del sistema gestuale cistercense
con un significato completamente diverso.
Il terzo gruppo è quello dei segni qualitativi, così chiamati perché assegnano qualità
del referente al gesto. In altre parole i referenti vengono designati con un gesto che
esprime una sua qualità o, in altre parole, una sola marca semantica rispetto alla globalità
del semema. Si tratta di designazioni attraverso trasformazioni retorico-tropiche. Ogni
referente è espresso attraverso un gesto che esprime le caratteristiche associate dai
monaci con questo referente. Si suddividono in vari sottogruppi.
(1) Il primo sottogruppo comprende gesti che assegnano al referente delle marche
astratte, come avviene con designazioni di nazionalità, città, personaggi, eventi e luoghi
biblici. Esempi di nazionalità: gli Italiani sono identificati con il gesto per spaghetti; gli
Irlandesi con i gesti per mangiatori e patate; gli Inglesi con i gesti per mangiatori e biscotti.
Ci sono poi esempi di paesi come Africa designata con i gesti nero + paese, o Russia,
indicato come rosso + paese. Esempi di città: Roma è designata come Papa + paese.
(2) Il secondo sottogruppo è composto di segni che assegnano tratti concreti ai loro
referenti. Per esempio Cistercensi è indicato con i gesti bianchi + monaci; Benedettini con
i gesti neri + monaci. Ugualmente sidro, con i gesti mele + acqua.
(3) Il terzo sottogruppo è composto da segni che combinano le caratteristiche dei
precedenti due sottogruppi. Talvolta includono segni con la descrizione di una azione o di
un elemento, come i segni pantomimici. Tra questi, ad esempio, Processione, che si
esegue con i segni croce + andare; per designare penna si eseguono i gesti ala +
scrivere.
12
Il quarto gruppo raccoglie i segni parzialmente dipendenti dal linguaggio. Questi
segni sono spesso collegati al linguaggio verbale per il fatto che ne utilizzano alcuni tratti
specificamente fonetici. Essi dipendono specificamente dalla lingua parlata dalla comunità
di frati che li usano. Così perdono di significato se trasportati da una comunità di frati
americani ad una comunità francese. Questo fatto è legato con la caratteristica di non
essere di lunga vita. Si suddividono in due sottogruppi.
(1) Il primo sottogruppo comprende segni che hanno equivalenti fonetici
approssimativi nella lingua inglese: Ceylon è segnato come c + long; ugulmente Dakota è
eseguito come d + coat + a.
(2) Il secondo sottogruppo è composto da segni che si riferiscono a suffissi con un
equivalente fonetico, come ad esempio -ing o -er : per esempio going è eseguito come go
+ n; allo stesso titolo singer è eseguito come sing + r. Un altro caso è dato dall'utilizzo del
segno per ginocchio (in inglese knee) (toccare il lato del ginocchio destro con la mano
destra) per formare gli aggettivi, come con funny eseguito come fun + knee.
Il quinto gruppo contiene i segni interamente dipendenti dal linguaggio, aventi, cioè
esatti equivalenti fonetici nei suoni del linguaggio. Questi gesti sono usati per indicare
referenti diversi a seconda dei contesti in cui compaiono. Così, ad esempio, il gesto per
cervo in inglese deer (eseguito mettendo i pollici ai lati della testa e poi aprendo le dita) è
usato anche per caro, in inglese dear. Il gesto per two è usato anche per to e per too.
Curioso è il caso del gesto per la città di Cincinnati, eseguita come sin (=”peccato”,
battendosi il petto con la mano destra) + sin + a + t.
Tra le classificazioni “particolari” dei gesti una delle più diffuse e più ampiamente
accettate è quella proposta da Paul Ekman e Wallace Friesen , che, rielaborando 11
l’importante materiale di Efron (1972), si occupa di ordinare le diverse categorie dei gesti
che possono occorrere nell’ambito dell’interazione comunicativa quotidiana, così come si
manifesta soprattutto all’interno della cultura occidentale.
I due autori premettono alla classificazione vera e propria dei gesti tre serie di
distinzioni che risultano di grande importanza per cogliere come il senso viene abbinato
alle espressioni materiali e concrete dei gesti.
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una cultura (o comunque ad una sottocomponente di essa, come ad esempio una cultura
gergale, come quella della devianza malavitosa o la cultura giovanile).
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6.3. Tipi di codifica
La terza serie di distinzioni ha a che vedere con il tipo di codifica a cui sono
sottoposti i gesti e riguarda la relazione che si stabilisce tra il gesto e ciò a cui rinvia
(ovvero il suo significato e/o il suo referente). Ritroviamo qui in parte la distinzione
proposta da Peirce, in quanto i gesti vengono suddivisi in atti codificati arbitrariamente, atti
codificati iconicamente e atti codificati intrinsecamente.
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vengono eseguiti anche quando vi è un impedimento nella comunicazione orale, dovuto
ad esempio a condizioni organiche (mutismo), rumore (cacciatori, lavoratori con macchine
che producono frastuono, ecc.), distanza (segnalazioni navali), ecc. o anche in seguito a
condizioni culturali di autoimposizione (gesti dei monaci, ecc.).
Gli emblemi sono i comportamenti non verbali più comprensibili, in quanto sono
fortemente codificati all’interno di una cultura. Possono essere arbitrari, come è il caso
dell’agitare la mano per significare la partenza, ma anche essere iconici, come il passarsi
la mano sotto la gola, per indicare di avere la gola tagliata, metafora per dire che qualcosa
è andata male, oppure descrivere la silhouette di una donna per indicare una bella
ragazza; infine possono essere intrinsecamente codificati, come l’atto di agitare il pugno
per minacciare di compiere la stessa azione.
Sono normalmente eseguiti in modo meno personale e più standard rispetto ad altri
tipi di gesti.
Sono spesso interattivi, in quanto la loro esecuzione tende ad attirare l’attenzione
dei partecipanti all’interazione ed aumenta la probabilità che ci sia una risposta nel
comportamento di questi ultimi.
La loro origine è da ricercarsi nell’apprendimento (proprio come nel caso del
compostamento verbale) e molto di questo apprendimento è specifico delle diverse
culture.
6.4.2. Illustratori
I gesti illustratori sono atti comportamentali direttamente collegati al discorso;
accompagnano il parlato e servono ad illustrare, o a sottolineare, ciò che viene detto
verbalmente. Sono meno coscienti degli emblemi e meno intenzionali. Sono appresi
culturalmente soprattutto attraverso l’imitazione.
Essi possono essere suddivisi in 6 categorie:
(i) Bacchette, cioè movimenti, soprattutto del braccio o del dito indice, che si ripetono
ritmicamente in corrispondenza di concetti analoghi presentati nella forma di
elenco. Di essi Ekman e Friesen dicono, riprendendo Efron, che “battono il ritmo del
pensiero”.
(ii) Ideografi, cioè movimenti che delineano un ideale direzione del ragionamento.
Sono rappresentati da tutti quei gesti che noi impieghiamo inconsapevolmente
mentre parliamo, e che costituiscono una sorta di direzione d’orchestra del nostro
flusso discorsivo.
(iii) Deittici, cioè quei gesti che vengono impiegati per indicare un deteminato oggetto o
persona che si trova nell’ambiente comunicativo o in quello circostante. Vengono
impiegati in concomitanza (e talvolta in sostituzione) dei pronomi personali e dei
dimostrativi.
(iv) Movimenti spaziali, cioè gesti che descrivono una relazione spaziale, ovvero una
relazione nella quale il movimento indica la distanza tra le persone, o gli oggetti. Un
esempio può essere rappresentato dal mettere le mani vicine per esprimere
l’intimità, o anche dal muovere avanti e indietro la palma posta verticalmente
rispetto alla terra per indicare il significato “tra me e te”.
(v) Cinetografi, cioè movimenti che delineano un’azione del corpo. Ne è un esempio il
movimento del “tagliare la gola” eseguito muovendo avanti e indietro la mano
distesa all’altezza della gola, che è un movimento somigliante a quello che si
eseguirebbe compiendo l’atto effettivo. Anche il pugno agitato in direzione
dell’interlocutore può appartenere a questa categoria.
(vi) Movimenti pittografici, cioè gesti che tracciano una immagine dei loro referenti.
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Ekman e Friesen sottolineano un fatto molto importante rispetto a questi tipi di gesti,
e cioè che, ad eccezione delle prime due categorie (bacchette e ideografi), essi non
escludono l’appartenenza anche ad altre categorie. Infatti le bacchette e gli ideografi non
hanno un significato indipendente rispetto al supporto verbale, mentre tutti gli altri
illustratori possono avere un significato indipendente rispetto alle parole. Questi ultimi
quattro tipi, dunque, quando sono eseguiti in sostituzione del linguaggio verbale vengono
classificati come emblemi, mentre quando vengono eseguiti in concomitanza con il
linguaggio vengono classificati come illustratori.
In generale poi gli illustratori varieranno in dipendenza dell’ambiente etnico a cui
appartiene chi li esegue. Una ricerca effettuata da Efron ha dimostrato che nel caso di
emigrati italiani ed ebrei negli Stati Uniti, gli italiani usavano più cinetografi e gesti
pittografici, mentre gli ebrei usavano più bacchette e gesti ideografici; tuttavia la
generazione successiva, che si era assimilata alla nuova cultura non mostrava più quelle
differenze; tali differenze invece persistevano in coloro che erano rimasti in più stretto
contatto con i costumi tradizionali.
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(ii) Intensificare al massimo la dimostrazione di emozione. Questo si verifica
quando le regole culturali impongono una partecipazione molto esibita ad un
evento, per esempio luttuoso: a questo si può ricollegare il fenomeno delle
“prefiche” nella cultura popolare meridionale italiana, che devono dimostrare
a programma una afflizione pubblica.
(iii) Non dimostrare l’emozione.
(iv) Dissimulare l’emozione, mostrando l’emozione possibilmente opposta (come
quando si ostenta sicurezza avendo, in realtà, timore).
6.4.4. Regolatori
I gesti regolatori servono, appunto, a regolare lo scambio di ruolo fra parlante e
ascoltatore nell’interazione comunicativa. La loro funzione è di segnalare a chi parla di
andare avanti, di affrettarsi, oppure di arrestarsi perché l’interlocutore desidera a sua volta
prendere la parola. Altri gesti appartenenti a questa categoria possono segnalare a chi
parla il calo o l’aumento d’interesse da parte di chi ascolta. Tra i gesti regolatori più comuni
c’è il cenno della testa con cui chi ascolta annuisce; ma anche il protendersi avanti con il
corpo da parte di chi ascolta e alcuni movimenti delle sopracciglia.
I gesti regolatori vengono prodotti al limite inferiore della coscienza. Un aspetto
curioso relativo a questo tipo di gesti è che chi parla ne percepisce l’assenza
nell’ascoltatore, mentre di solito non avverte la loro presenza. In altre parole, siccome chi
parla li ritiene scontati, il fatto di accorgersi che non vengano prodotti può essere motivo di
inferenze.
Spesso questi gesti sono soltanto informativi, come è naturale per il fatto di non
essere emessi in piena coscienza.
6.4.5. Adattatori
Il termine “adattatori” viene impiegato per designare i gesti appartenenti a questa
categoria perché probabilmente trovano la loro origine nell’individuo in uno sforzo di
controllare forme di sforzo o di tensione. Frammenti di questi atti vengono conservati poi in
età adulta e nell’uso conversazionale. Si distinguono in tre sottocategorie.
(i) Autoadattatori. Fanno parte di questa sottocategoria tutti quei gesti con i quali noi
entriamo in contatto con il nostro corpo, come ad esempio il gesto di toccarsi o
leccarsi le labbra, grattarsi gli orecchi, stropicciarsi il naso, lisciarsi i capelli, fino ai
gesti considerati maleducati, quali, ad esempio, il mettersi le dita nelle narici. Una
speciale regola sociale, non esplicita, ci porta a ignorare l’adattatore altrui
(specialmente se del tipo maleducato) e distogliere lo sguardo; si segue in questo
modo una regola sociale implicita secondo cui è considerato più maleducato chi
guarda di chi esegue il gesto.
(ii) Eteroadattatori. Sono quei gesti con i quali entriamo in contatto con il corpo degli
altri, come battere una mano sul ginocchio o sulla spalla di un’altra persona.
Appartengono a questa sottocategoria anche i movimenti posturali di
avvicinamento.
(iii) Oggetto-adattatori. Fanno parte di questa sottocategoria i gesti con cui utilizziamo
la manipolazione degli oggetti per alleviare la tensione che si produce in una certa
situazione (ad esempio, giocare con la penna, con gli occhiali, ecc., mentre si
parla).
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7. Conclusioni
Il presente lavoro si è posto l’obiettivo di fornire alcuni elementi minimi e basilari
relativi allo studio della gestualità, che possano essere utili (se non addirittura
imprescindibili) sia nell’ambito della prima informazione didattica, sia nella impostazione di
una ricerca concreta sul gesto nella vita quotidiana.
Si è innanzitutto cercato di mostrare come lo studio della gestualità si inquadri
all’interno di quello più vasto del comportamento non verbale e della espressività corporea
in generale. Poiché a quest’ambito appartiene anche l’espressività facciale, si è distinta la
sfera di interesse del comportamento mimico (relativo alle espressioni derivanti dal
movimento dei muscoli facciali, oggetto di studio di una disciplina pienamente scientifica,
che cerca di mettere in corrispondenza questi movimenti con le emozioni provate dal
soggetto che tali espressioni produce) da quello della fisiogomica, ambito di ricerca
pseudoscientifico che pretende di mettere in corrispondenza i tratti fissi del volto di un
individuo con un presunto carattere fondamentale dell’animo (o psicologico, come si
direbbe oggi). Per quanto non scientifico nei suoi presupposti, il sistema di abbinamento
prodotto storicamente dalla fisiognomica deve essere oggetto di una consapevolezza da
portare pienamente alla luce, perché è alla base di giudizi irriflessi che diamo nel leggere il
volto di una persona (simpatia, affidabilità, doppiezza, mansuetudine, irosità, ecc.),
derivanti da una lunga tradizione culturale ed è spesso alla base del nostro pregiudizio nei
confronti delle persone che non conosciamo.
Si è poi ritenuto utile di mostrare che, per quanto lo studio dell’espressività corporea
abbia il suo battesimo moderno in Darwin, tuttavia un interesse per i gesti risalga
all’antichità classica, a partire dalle intuizioni di Platone fino ad una analisi sistematica dei
gesti dell’oratore fornita da Quintiliano. Abbiamo illustrato anche alcune tappe successive
(gli studi di Bonifacio e di de Jorio) per mostrare come l’interesse per i gesti, pur
perseguendo scopi spuri (come quello di de Jorio, che era finalizzato alla ricostruzione del
significatoo dei gesti nelle pitture vascolari e tombali dell’antichità) possa approdare ad
una descrizione etnograficamente ineccepibile dei gesti di una certa comunità (in quel
caso, la popolazione di Napoli nell’ottocento).
A queste considerazioni preliminari abbiamo fatto seguire alcune riflessioni relative
alla possibile classificazione moderna del gesto, distinguendo tra “classificazioni
universali” e “classificazioni particolari”. Le prime hanno come scopo di mostrare e
relazionare tra loro i vari ambiti di emergenza della gestualità dovunque essa si manifesti,
sia dal punto di vista geografico, sia da quello etnologico, sia da quello della finalità
pratica.
Una classificazione “particolare” ha invece lo scopo di mostrare, in modo analitico,
le distinzioni tra i vari tipi di gesti che si trovano caratteristicamente in un ambito specifico.
A questo proposito abbiamo illustrato la classificazione proposta da Ekman e Friesen che
si concentra sui gesti della vita quotidiana soprattutto nella civiltà occidentale; essa è stata
scelta anche per i suoi caratteri di completezza, chiarezza e generale consenso.
Molte sono le esclusioni degli argomenti relativi alla gestualità che abbiamo di
necessità operato. Innanzitutto non abbiamo trattato un sistema gestuale molto
importante: quello dei sordo-muti. Rimandiamo per esso ad uno studio recente di
Tommaso Russo (2004), nel quale viene presentata un’ampia e lucida sintesi delle
caratteristiche della LIS (Lingua Italiana dei Segni).
Negli ultimi decenni poi sono state proposte molte ricerche che approfondiscono
aspetti particolari nello studio della gestualità e dell’espressività corporea: tra queste
ricerche segnalimo in particolare il volume curato da Adam Kendon (1981), che raccoglie i
saggi usciti sulla rivista Semiotica (organo ufficiale dell’Associazione Internazionale di
Studi Semiotici) fino a quella data. A questo volume devono essere aggiunti i vari articoli
che si occupano di gestualità usciti sulla medesima rivista da quella data ad oggi. In
19
secondo luogo segnaliamo il recente volume di David McNeill (2000), dove sono raccolti
saggi sia sulla configurazione fisica dei gesti, sia sugli aspetti cognitivi che il gesto
coinvolge (essendo quello cognitivo uno dei più recenti indirizzi di ricerca sulla gestualità).
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