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F A C O LT À T E O L O G I C A DEL TRIVENETO

Origene e Proclo:
la preghiera come dono e
come forma di filosofia

Camilla FIOR
Seminario filosofico 2013-2014 La preghiera come dono

1. LA PREGHIERA: UN’ESIGENZA DELL’UOMO


Diverse discipline, come la filosofia della religione e la psicologia, ci presentano

l’uomo come un essere istintivamente aperto e alla ricerca di un di più, di un dio al

quale rivolgersi per scoprire il senso della propria esistenza. A partire dalla modernità

questa caratteristica unica dell’uomo è stata sempre meno considerata, ma nel mondo

antico la religione svolgeva un ruolo fondamentale per la società oltre che per il singolo

individuo, come è chiaro se si pensa al mondo greco e a quello romano nei quali la

preghiera non ha quasi mai carattere personale: in questi contesti prevaleva infatti il

carattere pubblico della religiosità umana. Generalizzando molto si può infatti affermare

che la religione in quelle società aveva il compito di creare coesione e formare l’identità

delle popolazioni: dovere del buon cittadino è sacrificare agli dei della tradizione,

secondo l’usanza, per il bene di tutti.1

In un simile ambiente il cristianesimo causò dei cambiamenti in questo panorama, ad

esempio incentivando la riflessione specifica su questo tema: gli autori cristiani

riconoscono i benefici che una simile elaborazione può avere sulla vita religiosa dei

fedeli. Nei primi secoli si moltiplicarono infatti i trattati sul tema: tra il II e il V secolo

ricordiamo Tertulliano, autore di un testo intitolato De oratione; Clemente Alessandrino,

che ne parla negli Stromati; Cipriano di Cartagine, che ne parla nell’opera catechetica

De dominica oratione; Afraate, che riflette soprattutto a partire dal testo biblico nella

1
Per questo motivo, ma non solo, i romani vedono il cristianesimo emergente come un pericolo: questa
superstitio infatti aveva il carattere prevalente del monoteismo e quindi il dio cristiano non poteva essere
semplicemente aggiunto all’interno del flessibile Pantheon romano. I seguaci di Cristo quindi erano
considerati come la causa dei problemi di Roma poiché non innalzavano le dovute preghiere alle divinità
tradizionali, causando l’ira degli dei romani, che, si pensava, quasi per ripicca, non proteggessero più
Roma. Su questo tema si legga G. JOSSA, Il cristianesimo antico. Dalle origini al Concilio di Nicea,
Carocci, Roma, 20083, p. 83-88.
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sua IV Esposizione; Evagrio Pontico che oltre a produrre il testo specifico Sulla

preghiera più volte torna sul tema con i suoi scritti dedicati alla vita dei monaci;

possediamo poi un’opera di Gregorio di Nissa intitolata Omelie sul Padrenostro; ed

infine Agostino, del quale ci sono giunti alcuni sermoni sulla Preghiera del Signore2.

Tra questi testi spicca il De oratione di Origene: l’autore in questo scritto non si

concentra sugli aspetti spirituali o catechetici legati al tema, ma sull’atto stesso con il

quale l’orante prega, fondando il suo lavoro sulla Sacra Scrittura. Quest’opera in

particolare sprigiona la sua ricchezza se confrontato con gli Inni di Proclo, autore greco,

esponente di spicco della Scuola ateniese.

2. GLI INNI DI PROCLO: LE PREGHIERE DEL FILOSOFO

Proclo Licio Diadoco, uno dei maggiori esponenti della Scuola di Atene, visse nel V

secolo tra la Licia e la città di Alessandria per poi stabilirsi ad Atene, dove, dopo a

morte di Siriano, che fu suo maestro, fu scelto come suo Diadoco, cioè successore, nella

conduzione della Scuola. Il suo pensiero ha influenzato il platonismo per quasi

cinquant’anni dopo la sua morte, nel 485 d.C circa. La gran parte delle informazioni

sulla vita di questo filosofo le ricaviamo da un’opera a lui dedicata dal suo allievo più

illustre, Marino di Neapoli, intitolata Vita di Proclo: l’ obiettivo di questo testo è

«dimostrare come nella vita di Proclo, assurto al ruolo di personaggio portavoce delle

convinzioni dell’autore, si fosse pienamente realizzata l’ ευδαιμονια»3. Marino di

2
Per un’analisi approfondita dei testi citati si rimanda a L. PERRONE, La preghiera secondo Origene.
L’impossibilità donata, Morcelliana, Vago di Lavagno (VR), 2011, p. 511-644.
3
MARINO DI NEAPOLI – R. MASULLO (a cura di ), Vita di Proclo, M. D’Auria Editore, Napoli, 1985, p. 19
(successivamente il testo di Marino di Neapoli verrà indicato con VP).
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Neapoli quindi idealizza il suo maestro, ma questo non diminuisce, se non solo

parzialmente, il valore della sua testimonianza: l’autore riesce ad esprimere chiaramente

quale sia il rapporto di Proclo con la preghiera e le divinità. Questa relazione è

ulteriormente specificata dagli Inni prodotti dal filosofo stesso: il vero pensatore fa

filosofia «indagando i rapporti che intercorrono tra le entità metafisiche astratte che

costituiscono l’elaborata struttura della metafisica neoplatonica»4. Per Proclo però

queste entità, che poi coincidono con le divinità della mitologia greca, non sono

semplici esseri astratti: il vero filosofo infatti può entrare in contatto con essi, attraverso

la preghiera in forma di inno, appellandosi alla loro identità personale. Questa

consapevolezza ha caratterizzato tutta la Scuola di Atene, come è evidente dall’uso

tipico che in essa viene fatto del verbo υμνειν che diviene quasi un sinonimo per

esprimere il fare filosofia circa il divino. Il sostantivo υμος, che deriva direttamente dal

verbo, indica genericamente una preghiera cantata, ma nel contesto greco un inno è una

lode ad una divinità che non necessariamente è cantato e che non necessariamente

contiene una preghiera. Per i filosofi neoplatonici però questa definizione è incompleta:

per gli esponenti della Scuola di Atene infatti gli inni sono un mezzo attraverso il quale

compiere un movimento di ritorno al divino, poiché il modo più opportuno per onorare

una divinità è rassomigliarle il più possibile. Lavorando su questo concetto, questa

scuola filosofica è arrivata ad affermare che lodare la divinità attraverso inni è un modo

di fare filosofia, anzi, è la forma di filosofia più alta5.

4
R.M. VAN DEN BERG, Proclus’ himns. Essay, translation, commentary, Brill, Leiden (Olanda), 2001, p.4
(questa e le successive citazioni sono tradotte da me).
5
Ibidem, p. 27-31.
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Alla luce di tutto questo siamo invitati ad avere nei confronti dei testi degli Inni

di Proclo un atteggiamento che permetta di comprenderli nella loro complessità: sono

canti, preghiere, trattati filosofici e testi autobiografici allo stesso tempo poiché sono

espressione della filosofia neoplatonica ateniese, e fanno riferimento alla vita personale

dell’autore, terminano solitamente con una preghiera, e potevano essere cantati con un

accompagnamento musicale.

Un contributo ulteriore per la comprensione dei testi di Proclo ci viene dall’opera già

richiamata di Marino di Neapoli nel quale troviamo riferimenti alla vita religiosa del

filosofo, che si considerava il sacerdote comune del mondo intero:

Si purificava ogni mese secondo i riti sacri della Gran Madre, celebrati dai Romani e già prima dai
Frigi; osservava i giorni nefasti degli Egizi più degli stessi Egizi; digiunava in certi giorni particolari,
a causa di qualche apparizione divina. Ogni ultimo giorno del mese si asteneva dal cibo, senza aver
cenato la sera prima. Con quale magnificenza e pietà celebrasse i noviluni e come, sacrificando
secondo l’antico costume, perseverasse nell’osservanza delle feste, per così dire, particolarmente
significative di ogni popolo e delle patrie istituzioni di ciascuno, considerandole occasioni non, come
altri, di ozio o di soddisfacimento dei sensi, ma di preghiere assidue, di canti sacri e di pratiche
consimili, lo rivela la materia dei suoi inni, la quale non solo contiene le lodi delle divinità venerate
presso i Greci, ma celebre anche Marna Gazeo, Esculapio Leontuco di Ascalona, Tiandrite, altra
divinità molto onorata presso gli Arabi, Iside tuttora venerata a File e, in breve, tutti gli altri dei.
Quell’uomo piissimo aveva sempre sulle labbra un pensiero che egli così riferiva: «Al filosofo si
conviene non di prendersi cura d’una sola città né delle patrie istituzioni di talune genti soltanto, ma di
essere in generale il gerofante di tutto il mondo»6. Così, puramente e santamente, egli aveva acquisito
7
la piena padronanza di sé.

In questo stesso paragrafo si fa menzione della produzione innica di Proclo, della

quale sono giunti a noi solo sette testi, e nello specifico l’inno a Elios, ad Afrodite, alle

Muse, un Inno Comune agli Dei, ad Afrodite Licia, ad Ecate e Giano e ad Atena

6
Questo non è un riferimento ad una mescolanza di culti o ad una confusione di tipo religioso: per questi
filosofi infatti le religioni esprimono tutte una medesima verità universale sul divino e scopo delle
speculazioni della Scuola di Atene è dimostrare che i diversi culti sono in armonia tra loro e soprattutto
con la filosofia di Platone.
7
MARINO DI NEAPOLI, VP 19.
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Polymetis8. Dai testi che ci sono pervenuti è comunque possibile ricavare tracce

dell’idea di preghiera di questo filosofo. Secondo Proclo le divinità, che sono entità

metafisiche, hanno inserito in ciò che hanno creato dei synthemata (συνθηματα), dei

simboli che spingono le creature9 a compiere un movimento di ritorno al creatore, detto

epistropè10. Questo ritorno si può compiere attraverso la filosofia e, più precisamente,

attraverso la forma più illustre del filosofare, cioè gli inni, il cui scopo è rivolgere

l’uomo verso la divinità e, allo stesso tempo, far si che il dio invocato guardi verso

l’uomo che lo invoca. Alla base degli Inni si trova quindi un doppio movimento

verticale, dell’uomo da un lato (movimento ascendente, detto estasi), e del divino

dall’altro (movimento discendente innescato dall’attrazione generata dalle parole usate

dall’orante), entrambi scaturiscono dal legame di sympatheia, intesa come

partecipazione e non come semplice condivisione di emozioni: questo reciproco

rivolgersi dell’uomo e del divino è realizzato da Proclo attraverso l’uso di riferimenti

mitologici nei suoi testi, che hanno proprio la funzione di innescare il movimento11.

Dopo aver provato a chiarire in quale modo si realizzi l’approssimarsi dell’uomo a

Dio e viceversa, è opportuno capire in che modo questi testi venissero utilizzati. Dagli

8
Da questi nomi derivano i titoli con i quali da secoli si indicano gli Inni di Proclo: questi titoli sono però
successivi all’autore. Per questo motivo si preferisce indicare i singoli testi con la lettera H seguita da un
numero romano progressivo secondo l’ordine appena riportato: l’Inno ad Elios, ad esempio sarà indicato
con H I.
9
Il termine “creatura” non è da intendersi qui in senso immediatamente cristiano, e per questo è privo
della ricaduta antropologica per la quale l’uomo creatura è dipendente in ogni cosa dal Dio Creatore.
10
Questo ritorno (epistrophè ) è diverso da una conversione in senso cristiano ed è lessicalmente più ricco
di un semplice cambiamento (metastrophè).
11
Abbiamo due esempi nei testi di questo meccanismo: in H III 11 si legge «e furor sacro ispiratemi con
le rivelazioni intellettuali dei sapienti(νοεροις με σοφων βακχευσαπε μυθοις)»; in H VII 33-36 Proclo
scrive: « dona all’anima la luce pura delle tue sante parole, e sapienza e amore; e all’amore ispira forza
tanta e tale, quanta dai terrestri abissi di nuovo mi trarrà verso l’Olimpo, nella dimora del potente padre
(απ’ ευιερων σεο μυθων)».
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Inni stessi possiamo dedurre che alcuni di essi siano stati prodotti per un uso personale

da parte del filosofo, mentre altri erano destinati probabilmente ad un uso liturgico da

parte di un gruppo, cioè gli allievi della Scuola. In particolare in H V Proclo invoca

Afrodite Licia, in virtù del suo essere nato nella medesima regione (v. 13): questo

riferimento biografico aveva lo scopo di attivare il legame di simpatia tra la divinità e

Proclo; per questo risulta chiaramente che il testo fosse di uso privato del filosofo

poiché per gli allievi non avrebbe avuto senso pregare con simili parole, non essendo

nati in Licia. Anche nell’Inno ad Atena possiamo scorgere un riferimento personale: in

H VII 42 leggiamo «poiché prego d’esser tuo (οτι τεος ευχομαι ειναι)» e dal testo di

Marino di Neapoli sappiamo che Proclo era legato ad Atena in modo preferenziale12. A

eccezione di questi due riferimenti, dei quali solo il primo ha una interpretazione certa13,

non troviamo negli Inni che ci sono pervenuti altre indicazioni di un uso privato, quindi

il resto dei testi aveva probabilmente un uso pubblico a beneficio di una collettività.

3. LA PREGHIERA PER ORIGENE

Origene nacque intorno al 185 ad Alessandria da una famiglia cristiana, e, dopo che

il padre morì martire sotto Settimio Severo, si incaricò di mantenere la famiglia

attraverso l’insegnamento della grammatica. Negli anni della giovinezza iniziò anche a

dedicarsi all’attività catechetica, e abbandonò progressivamente la grammatica per

dedicarsi alla catechesi a tempo pieno e allo studio della filosofia, con l’approvazione

del vescovo Demetrio. Origene si distinse negli studi e divenne sempre più noto, fino a

12
VP 6
13
VAN DEN BERG, Proclus’ hymns, p. 107-108.
6
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diventare guida del didaskaleion di Alessandria (incarico che prima di lui fu di

Clemente Alessandrino, e prima ancora di Panteno). All’interno di questa istituzione

Origene si rivolgeva soprattutto ad un’élite scelta, con la quale poteva parlare

liberamente. È all’interno di questo gruppo di allievi che spicca la figura del ricco

Ambrogio, uno gnostico passato nella chiesa cattolica proprio grazie agli insegnamenti

di Origene: tra i due vi fu sempre una sincera amicizia, e fu grazie all’influenza del

ricco amico che l’Alessandrino avviò e proseguì la sua produzione letteraria14.

L’opera intitolata Perì euches (Περι ευχης), uno dei pochi testi di questo autore che ci

è pervenuto integralmente in greco, senza una traduzione latina, è strutturato in due

parti: nella prima l’autore affronta la questione della possibilità, utilità e modalità della

preghiera, mentre la seconda è dedicata ad una esegesi del Padre Nostro. L. Perrone

inquadra il testo dell’Alessandrino legando la struttura bipartita scelta da Origene ad

esigenze dovute al contesto storico-filosofico: l’ambiente filosofico caratterizzato

dall’indagine circa la legittimità e l’effettiva utilità della preghiera considerata in

un’ottica esclusivamente teorica è all’origine della prima parte; mentre la già citata

letteratura cristiana che si occupa della preghiera intesa come esperienza fondamentale

nella catechesi, per la vita spirituale dei fedeli da avvio alla secondo parte. La struttura

bipartita dell’opera ricalca questi due assi che ne costituiscono il contesto, ma questo

testo non nasce semplicemente come una riflessione autonoma di Origene sul tema:

esso è occasionato da una lettera dell’amico Ambrogio nella quale il convertito chiedeva

al maestro delucidazioni circa la questione filosofica sottostante la tematica della


14
M. SIMONETTI – E. PRINZIVALLI, Storia della letteratura cristiana antica, EDB, Frascati (RM), 2011, p.
140-143.
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preghiera.

Per rispondere alla richiesta che gli viene fatta, Origene decide di iniziare da un

paradosso: l’Alessandrino esordisce parlando della cose che sono impossibili agli

uomini «per il fatto di essere grandissime e al di sopra dell’uomo e immensamente

superiori alla nostra natura mortale»15, le quali diventano possibili per volontà di Dio

per mezzo di Gesù Cristo. La preghiera quindi per l’Alessandrino è un dono, una grazia

che Dio da agli uomini.

Il motivo all’origine di questa impossibilità è il principio filosofico secondo il quale

solo il simile conosce il simile: essendoci una differenza ontologica tra creatura e

Creatore, per l’uomo Dio rimane sempre inaccessibile, e nell’atto di pregare l’essere

umano deve essere cosciente di questa sua finitezza. Ma è proprio questa stessa norma

ad aprire la possibilità di una conoscenza di Dio e quindi della preghiera: Paolo infatti

insegna che in noi c’è lo Spirito che è da Dio e per questo ci è possibile sapere come si

debba pregare, che cosa dire, e in quali momenti16. Sempre Paolo afferma che «il nostro

intelletto, infatti non può pregare, se prima di esso non preghi lo Spirito»17, e

quest’ultimo prega in noi attraverso gemiti ineffabili essendo i suoni inarticolati pre-

verbali il primo necessario momento della preghiera poiché gli uomini quando pregano

non sanno cosa dire. A chiusura di questo esordio, tutto strutturato sul paradosso

iniziale, Origene afferma con chiarezza che l’atto del pregare è un’opera che coinvolge

la Trinità poiché «c’è bisogno del Padre, che vi faccia luce, e del suo stesso Verbo

15
De Orat. 1.
16
Un simile uso della Sacra Scrittura è normale presso i Padri della Chiesa, che ne facevano un
larghissimo impiego, trovando in essa la prova di autorità a sostegno delle proprie affermazioni.
17
De Orat. 2.3
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primogenito, che insegni, e dello Spirito, che operi affinché abbiamo intellezione e

parliamo degnamente di un tanto argomento»18.

C’è un’idea centrale che percorre il testo e che nelle traduzioni dal greco viene persa:

la parola di preghiera (λογου ευχης) è opera di una creatura razionale (λογικου)19, in essa

c’è quindi un carattere innegabile di razionalità. Oltre a questi richiami semantici interni

al testo, questi termini ci richiamano il Vangelo di Giovanni nel cui prologo Gesù Cristo

è chiamato Verbo-Parola ( λογος ): il nostro essere figli adottivi in Cristo, per grazia, è

ciò che ci permette di pronunciare parole di preghiera.

Queste indicazioni sono poi riprese e approfondite da Origene nel corso di tutto il

testo, nel procedere del quale l’autore prima dà delle chiarificazioni terminologiche (De

Orat. 3-4) e successivamente fronteggia le principali obiezioni che sono mosse da chi

considera la preghiera un’azione inutile sottolineandone in primo luogo lo scopo e

l’utilità (De Orat. 5-13), e secondariamente il contenuto e la modalità (De Orat. 14-17),

queste considerazioni sono seguite dalla riflessione sul Padre Nostro (De Orat. 18-30) e

da alcune indicazioni conclusive (De Orat. 31-34); ma è nell’esordio qui citato che

secondo me si riscontrano le principali indicazioni su cosa sia la preghiera per

l’Alessandrino: essa è un’azione che l’uomo da solo non può compiere, essendo limitato

e segnato dal peccato, ma Dio, nella sua misericordia, ce lo rende possibile.

4. CONFRONTO

Gli autori che qui ho considerato appartengono a due contesti storici e religiosi

18
De Orat. 2.6.
19
De Orat. 2.2.
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differenti, ma sono affini per alcuni tratti del contesto culturale: comune è la matrice

greca, e l’atteggiamento razionale nella ricerca della Verità. Nonostante queste

prossimità è evidente che essi sono distanti nel loro modo di concepire e sperimentare la

preghiera, sia essa individuale o collettiva: per Proclo infatti essa è un modo per l’anima

di realizzare il ritorno alla propria origine, ma soprattutto essa sembra vincolare l’uomo

e la divinità invocata attraverso il legame della simpatia; Origene invece riconosce che

l’essere umano ha una natura creaturale, dipendente e limitata, e per questo l’atto della

preghiera è in realtà l’atto con cui il credente fa parlare in sé lo Spirito di Dio che ha

ricevuto in dono. Queste prime importantissime differenze sono dovute alla diversa

struttura antropologica del neoplatonismo e del cristianesimo: se per il primo è l’uomo a

decidere di rivolgersi alla divinità della quale attira l’attenzione utilizzando una gran

quantità di epiteti e nomi, nel secondo è invece Dio a precedere sempre qualsiasi

iniziativa umana, ad amare per primo, a parlare per primo, a protendersi per primo verso

l’uomo.

L’uomo greco per questo ci appare forse più moderno: indipendente e autonomo, è

capace di sussistere senza bisogno di troppo aiuto esterno. L’uomo cristianamente inteso

però mi sembra più corrispondente al vero: l’essere umano da solo non può fronteggiare

il mondo e trovare in esso un senso. Solo vivere la fede in Cristo gli permette di

realizzarsi pienamente: così scrivevano infatti i padri del Concilio nella Costituzione

pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes al n. 22:

In realtà solamente nel Mistero del Verbo incarnato trova vera luce il Mistero
dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo
Signore. Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il Mistero del Padre e del suo amore
svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione.
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Eppure negli scritti di Proclo, proprio per il desiderio di attrarre l’attenzione del dio,

è più presente la dimensione della lode, che nella pratica cristiana si smarrisce in un

labirinto di richieste e voti: la preghiera del filosofo è quasi sempre la medesima, quella

cioè di divenire sapiente, di essere illuminato dalla luce che le divinità possiedono,

mentre i cristiani corrono il rischio di impoverire l’atto della preghiera aggiungendo

contenuti inappropriati, e sembra che Origene proprio da questo volesse salvaguardare

l’amico Ambrogio rispondendo con questo testo alla sua richiesta.

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BIBLIOGRAFIA

BONADIES NANI A. M., Gli Inni di Proclo, in Aevum anno XXVI/25, Ed. Vita e Pensiero,
p. 385-409.

JOSSA G., Il cristianesimo antico. Dalle origini al Concilio di Nicea, Carocci, Roma,
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MARINO DI NEAPOLI – MASULLO R. (a cura di ), Vita di Proclo, M. D’Auria Editore,


Napoli, 1985.

NORDEN E., Dio ignoto, ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, a cura
di C. O. Tommasi Moreschini, Morcelliana, Brescia, 2002.

ORIGENE, De Oratione, traduzione a cura di Cristina Campo , in


http://www.cristinacampo.it/public/origene,%20la%20preghiera.%20testo%20integra
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PERRONE L., La preghiera secondo Origene. L’impossibilità donata, Morcelliana, Vago


di Lavagno (VR), 2011.

SIMONETTI M. – PRINZIVALLI E., Storia della letteratura cristiana antica, EDB, Frascati
(RM), 2011.

VAN DEN BERG R.M., Proclus’ himns. Essay, translation, commentary, Brill, Leiden
(Olanda), 2001.

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