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Le tesi di Nietzsche nella Nascita della tragedia 10/03/20, 16)04

LE TESI DI NIETZSCHE SU APOLLINEO E DIONISIACO NELLA NASCITA


DELLA TRAGEDIA

Ogni vera arte è o apollinea o dionisiaca o risultato di entrambe: si tratta di impulsi o tendenze
artistiche antitetici, dalla cui modulabile combinazione scaturisce in ogni tempo l'opera d'arte.
Apollineo e dionisiaco costituiscono gli unici veri impulsi artistici: l'arte apollinea per eccellenza è
la scultura, quella dionisiaca la musica (almeno nelle sue forme più elevate). La tragedia è il
classico esempio di perfetta sintesi dei due impulsi.
Tuttavia apollineo e dionisiaco trovano espressione anche a livello elementare nel sogno
(apollineo) e nell'ebbrezza (dionisiaco): nel sogno il mondo viene plasmato dal soggetto,
nell'ebbrezza è invece il soggetto che viene plasmato dalla natura. In questo senso l'arte
apollinea è gioco con il sogno, quella dionisiaca gioco con l'ebbrezza, con l'estasi. L'artista
apollineo gioca con la realtà nella propria ideazione creativa, gioca con il sogno nella propria
traduzione produttiva. L'artista dionisiaco, invece, da un lato si abbandona all'ebbrezza, dall'altro
si spia in quello stato: così nella sua creazione si intrecciano sobrietà e ebbrezza.
Ma, allora, Apollo è davvero il dio solare della forma e della bellezza, dell'equilibrio e della
armonia; Dioniso, invece, il dio della perdita di ogni individuazione e dell'esperienza mistica della
coalescenza nel tutto della natura.
La fase più antica della cultura greca (omerica) si sviluppò sotto il dominio esclusivo dell'apollineo
(nell'epica, appunto). Il dionisiaco era allora appannaggio dei culti selvaggi del Vicino Oriente: la
loro progressiva penetrazione in Grecia produsse la reazione ancora riscontrabile
nell'irrigidimento apollineo dell'arte dorica. Dal compromesso scaturì il culto greco di Dioniso,
raffinato rispetto ai precedenti asiatici, e simbolicamente collegato a quello di Apollo proprio nel
centro della venerazione apollinea, a Delfi.
Con il culto di Dioniso si diffuse potentemente in Grecia anche la musica. Il flauto e il ditirambo
caratterizzarono il culto del nuovo dio: in alternativa alla musica apollinea, eseguita con la lira, e
al suo ritmo, la musica dionisiaca introdusse la potenza emotiva della tonalità, della melodia e
della armonia.
La religione dionisiaca fu una religione misterica: al centro del suo culto si ritrovano la
rievocazione della dolorosa lacerazione della unità primordiale nella molteplicità propria della
individuazione e la aspirazione degli iniziati alla sua ricostituzione, nella perdita della personale
identità. Così nel ditirambo la potenza della musica dionisiaca, coniugata ai movimenti della
danza, ne riproduceva simbolicamente agonia e gioia.
La religione olimpica suggerisce una piena adesione e fruizione della vita, in tutti i suoi aspetti, a
dispetto di preoccupazioni d'ordine morale o della spiritualità propria di una religione della
trascendenza. Tuttavia ai Greci non sfuggiva il volto orrido dell'esistenza: la verità dionisiaca
rivelava lo sfondo tragico della vita, la irrisolta contraddizione, il dolore e l'eccesso che la
caratterizzano, come maledizioni della individuazione. Ne sono ancora evidenze i risvolti oscuri
della mitologia e la sapienza di Sileno. In questo senso la religione olimpica (con l'arte a essa
connessa) incarnò la reazione a quello strato di credenze pre-elleniche: il terrore titanico precede
la vittoria della gioia olimpica.
Il mondo olimpico fu insomma la creazione dell'istinto apollineo per la bella illusione: il terrore
richiedeva il superamento nella gioia, allo scopo di rendere sopportabile l'esistenza.
Così nel mondo greco arcaico la tendenza apollinea risultò dominante, coprendo con il gusto per
la misura e l'equilibrio ogni accenno di eccesso o di deformità, come pure ogni spinta alla
esagerata autoaffermazione, riferibili in qualche modo allo scenario preellenico. E la successiva
diffusione del culto di Dioniso produsse la risposta dorica. La tragedia attica costituì una ulteriore
fase, di correlazione tra le due tendenze.
La tragedia nacque dalla lirica. Essa a sua volta si era delineata come genere con Archiloco (VII
sec. A.C.). La sua natura non sarebbe stata soggettiva, come tradizionalmente accettato: in essa,
come in ogni vera arte, si deve invece riscontrare la presenza della oggettività, come
azzeramento della volontà individuale. Il lirico è in primo luogo un compositore e, in quanto tale,
artista dionisiaco che abbandona la propria soggettività individuale per identificarsi con la vera
realtà metafisica e esprimerla nella musica. Sotto l'influenza apollinea egli riesce a simbolizzare la
musica in idee e linguaggio specifici. La musica precede l'idea.

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Il contributo particolare di Archiloco fu quello di introdurre il canto popolare in letteratura: come


nella lirica, anche in quel caso l'elemento dionisiaco (musica) risulta originario rispetto alla
simbolizzazione verbale (apollinea).
La tragedia greca avrebbe avuto originariamente, secondo la tradizione che risale a Aristotele,
una connessione con il culto di Dioniso: allestita all'interno delle celebrazioni dionisiache ad
Atene, sarebbe sorta dal ditirambo dionisiaco. In questo senso un ruolo centrale avrebbe avuto il
coro tragico, cui si riduceva in origine l'intera recita. Il coro rappresentava il corteo dei seguaci
del dio, che, nell'estasi, si coglievano trasformati in satiri. La sua funzione primitiva sarebbe
dunque stata quella di esprimere con quelle figure semibestiali il sentimento secondo cui in fondo
alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e
gioiosa. Alla presenza di quel coro la comunità poteva riporre la propria veste civile e recuperare
il senso dell'unità con il tutto della natura: una esperienza consolatoria resa necessaria dall'estasi
dionisiaca, con la quale si era gettato uno sguardo sull'essenza dolorosa dell'esistenza. I Greci
trovarono nella mediazione artistica del coro satiresco il riscatto dalla nausea radicale della
ebbrezza dionisiaca.
Nella loro condizione estatica i seguaci di Dioniso si vedevano trasformati in satiri: questo
sarebbe dunque stato il punto di partenza del dramma tragico. A differenza di quella del poeta
epico, la visione del coro non implicava distacco e esteriorità, ma piena partecipazione e fusione
con le figure dell'estasi. Tuttavia tale visione dionisiaca necessitava di una seconda esperienza
visionaria, per poter realizzare la scena originaria del dramma: la rappresentazione apollinea del
dio da parte di un attore, che affiancava il coro. Ciò comportò anche la ulteriore frattura nel
seguito degli adoratori di Dioniso, tra coro e spettatori. Il coro aveva allora il compito di
commuovere gli spettatori, così che essi non vedessero un attore in scena, ma la figura visionaria
che l'attore intendeva rappresentare. In questo lo spettatore doveva ancora partecipare della
visione del coro.
La tradizione antica attesta il nesso tra le prime forme tragiche e i miti relativi alle sofferenze di
Dioniso, il suo sbranamento a opera dei Titani e la sua rinascita. La dottrina misterica alla base
della tragedia consiste appunto in quanto alluso nel mito: l'unità fondamentale di tutte le cose, la
individuazione come colpa, la speranza della reintegrazione nell'unità.
La accettazione del culto pubblico di Dioniso nella seconda metà del VI sec. A.C. coincide con lo
sviluppo del coro ditirambico in vero e proprio dramma: così anche la sapienza dionisiaca finì per
servirsi della mitologia olimpica per esprimere la propria visione del mondo, intrecciando il mito
dionisiaco con quello della tradizione epica. Dioniso rimaneva tuttavia l'unico eroe originario,
sempre in scena, dietro la maschera dei diversi eroi della mitologia popolare olimpica. In questo
senso lo scadimento della religiosità olimpica trovò nella musica dionisiaca uno strumento di
catarsi, la sua corrente trivializzazione si riscattò nella profondità del pessimismo dionisiaco.

www.liceovoltacomo.it/ipertesti/dioniso/nascita.htm

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