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Filosofia

Gorgia
Un’altra figura importante della sofistica è Gorgia che rispetto a Protagora
presenta una dottrina più negativa sulle possibilità conoscitive e pratiche
dell’essere umano. Le opere più importanti di Gorgia sono l’Encomio di Elena e
Sul non essere. Quest’ultima è ritenuta la più importante e dentro di essa
Gorgia espone 3 tesi fondamentali su cui si basa la sua dottrina:
-nulla esiste;
-se anche qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile per gli esseri umani;
-se anche fosse conoscibile, sarebbe incomunicabile.
Gorgia dimostra che niente esiste in questo modo: se qualcosa esiste, esso
sarà o l’essere o il non essere o l’essere e il non essere insieme. Ora il non
essere non c’è, ma neanche l’essere c’è perché se ci fosse sarebbe o eterno o
generato o eterno e generato insieme. Se l’essere è eterno, non ha alcun
principio e non avendo alcun principio è infinito ed essendo infinito non è in
nessun luogo e non essendo in nessun luogo non esiste. Ma neanche generato
può essere l’essere perché se fosse nato sarebbe nato o dall’essere o dal non
essere. Ma non è nato dall’essere perché se è essere non è nato, ma è già; né
dal non essere perché il non essere non può generare.
Se le cose pensate non si può dire che siano esistenti, sarà vero anche
l’inverso cioè che non si può dire che l’essere sia pensato. Da ciò si deduce che
se il pensato non esiste, l’essere non è pensato. E che le cose pensate non
esistono è chiaro, infatti se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate
esistono comunque le si pensino, ma ciò non è possibile. Se il pensato non
esiste, il non esistente non potrà essere pensato perché ai contrari toccano
attributi contrario. Ma ciò è assurdo perché si pensa anche a figure mitologiche
come la Chimera e molti altri mostri.
Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e di esse le visibili sono
percepibili per mezzo della vista e le udibili per l’udito e non viceversa, come
faranno ad esprimersi a vicenda?
Lo scritto di Gorgia è stato anche interpretato in base all’affermazione di
nichilismo filosofico (cioè di una dottrina che nega uno o più elementi
significativi della realtà o dell’esistenza) oppure come un semplice scherzo
attraverso il quale l’autore si sarebbe burlato dei filosofi precedenti. Dietro il
tono provocatorio delle tesi gorgiane è però riconoscibile tutta la sua
importanza.
Gorgia quando sostiene che nulla esiste, non intende far sparire la realtà
percepita dai nostri sensi, bensì negare la possibilità di una sua
concettualizzazione filosofica. Quindi Gorgia intende probabilmente negare la
possibilità logica e il valore ontologico dell’essere in generale e di quella
struttura metafisica di cui i vari pensatori presofisti erano andati alla ricerca,
ossia la natura e il principio originale e indiveniente oltre le cose.
Poi per sostenere che l’essere non è pensabile, Gorgia afferma che se una
realtà esistesse, noi non la potremmo conoscere perché per farlo dovremmo
presupporre che la nostra mente sia una fotografia esatta di ciò che esiste. Ma
non è così, infatti noi pensiamo a cose inesistenti e ciò significa che il pensiero
non sempre rispecchia la realtà.
Poi quando afferma che se anche la realtà fosse riconoscibile, non sarebbe
spiegabile a parole, Gorgia dice che anche il linguaggio non corrisponde alla
realtà.

Lo scetticismo
Secondo Gorgia Dio o non esiste o è inconoscibile o è inesprimibile.
La prima affermazione è una negazione radicale dell’esistenza di Dio;
La seconda e la terza sono invece su un piano di scetticismo metafisico e
agnosticismo teologico in quanto sono assimilabili alla prospettiva secondo cui
l’uomo non ha prove né dell’esistenza né della non esistenza di Dio.
In realtà anche la prima affermazione si va a collocare nell’ambito di
scetticismo e agnosticismo perché vuol dire che Dio non esiste “per noi”.
Quindi il messaggio più profondo di Gorgia è lo scetticismo metafisico cioè
l’impotenza dell’uomo di parlare di Dio. In altre parole, Gorgia esprime la sua
sfiducia nelle possibilità conoscitive della nostra mente.
Con Gorgia troviamo la prima messa in discussione della metafisica.
Gorgia intende investire il pensiero e il linguaggio che perdono il loro valore di
strumenti di verità. Infatti, per Gorgia se nulla è vero, tutto è falso, siamo
davanti quindi allo scetticismo gnoseologico. Per Gorgia, l’unica cosa che conta
è la potenza delle parole.

La visione tragica della vita


Un altro aspetto importante del pensiero gorgiano è la concezione tragica del
reale. Gorgia ritiene che l’esistenza sia qualcosa di fondamentale irrazionale e
misterioso. Lui è convinto che le azioni dell’uomo sono guidate dalla menzogna
e dal destino. Questo è in parte il significato del suo scritto “L’Encomio di
Elena” in cui prende le difese di Elena che viene considerata la causa dello
scoppio della guerra di Troia. Per Gorgia, Elena è senza colpa perché la sua
volontà fu soggiogata da forze divine e dal destino a cui non poteva resistere.
Anche l’Encomio di Elena è stato considerato come un solo sfoggio di bravura
retorica di cui Gorgia stesso si vanta, ma in realtà nasconde un significato più
profondo e parla della consapevolezza della fragilità e della nullità umana e del
sentimento tragico dell’esistenza.

Il processo e la condanna di Socrate


Nel 404 a.C. finisce la guerra del Peloponneso con la sconfitta di Atene. Sparta
impone un governo oligarchico, incaricando i trenta tiranni di scrivere una
nuova costituzione. Tra i tiranni e i loro sostenitori ci sono anche due amici di
Socrate che cercano di coinvolgerlo nella vita politica. Secondo la
testimonianza di Socrate nel suo scritto “Apologia di Socrate” gli viene ordinato
di arrestare un uomo che si opponeva al nuovo governo, ma si rifiutò.
Poco più tardi il regime dei Trenta tiranni viene rovesciato e viene riportato il
partito democratico al governo. La restaurata democrazia mostra subito una
forte avversione contro Socrate che però è sempre stato democratico. Nel 399
a.C. un poeta sconosciuto di nome Meleto accusa Socrate di non riconoscere gli
dèi che il popolo riconosce e chiede per lui la pena di morte. Nonostante
Socrate confuti tutte le accuse contro di lui al tribunale, viene considerato
colpevole e deliberano la sua condanna a morte. La legge di Atene prevede che
il condannato può scegliere una pena alternativa a quella richiesta, per
esempio l’esilio, ma Socrate non si avvale di questo diritto e afferma che se
dovesse chiedere ciò che davvero gli spetta, dovrebbe pretendere di essere
mantenuto a spese dello stato nel Piratanèo. Davanti a questa sfida è
inevitabile la pena di morte che verrà compiuta con un preparato velenoso a
base di cicuta.

L’ora della morte


Quando viene pronunciata la condanna, sbarca dal porto del Pireo la nave
consacrata a Teseo che commemora la liberazione di Atene dal giogo del
Minotauro. La tradizione vuole che durante questo viaggio le pene di morte
siano sospese, ma Socrate non approfitta nemmeno di questo piano escogitato
dall’amico Critone, preferendo morire rispettando le leggi della sua città. Anche
l’ultimo momento della sua vita diventa per lui un momento per discutere,
comprendere e ricercare, infatti egli nell’atto di attraversare le porte dell’Ade
dice che potrà discutere con i grandi personaggi del passato.

Un personaggio complesso
La figura di Socrate aveva qualcosa di strano e affascinante. La sua apparenza
fisica urtava contro l’ideale ellenico dell’anima saggia rinchiusa in un corpo
bello e armonioso, infatti egli assomigliava a un sileno. Per questo motivo
Socrate seminava il dubbio e il turbamento nell’animo delle persone che lo
incontravano.

La scelta di non scrivere


Socrate, nonostante abbia dedicato tutta la sua vita alla filosofia, non scrisse
nulla. Probabilmente Socrate non scrisse nulla perché riteneva che la ricerca
filosofica non potesse essere continuata dopo di lui da uno scritto. Il motivo
della sua mancata attività di scrittore si può riscontrare nel Fedro di Platone, in
cui Socrate narra il cosiddetto mito di Teuth grazie alla quale vuole far capire
che la filosofia è un esame incessante di sé e degli altri, nessun testo scritto
può suscitare il filosofare. Uno scritto può forse comunicare una dottrina, ma
non suscitarne la ricerca.

Le nuvole di Aristofane
L’unica testimonianza che risale ai tempi in cui Socrate era ancora vivo è
contenuta nella commedia “Le nuvole” del commediografo Aristofane che è
stata presentata ad Atene nel 423 a.C. Aristofane accomuna Socrate ai filosofi
della natura e ai sofisti e lo presenta come un chiacchierone che propina
insegnamenti corruttori ai giovani negando gli dèi della città.
Questa testimonianza è in buona parte una contraffazione polemica e satirica.
Aristofane dice che Socrate è il peggiore sofista e individua in lui l’esponente
più emblematico della nuova cultura. La commedia di Aristofane fornisce anche
una preziosa fotografia del clima storico-culturale dell’Atene socratica.

Il rapporto di Socrate con i sofisti e Platone


Le matrici originarie del pensiero di Socrate non possono essere rintracciate
soltanto in una posizione anti-sofista dal momento che la riflessione socratica
affonda le sue radici culturali nell’illuminismo greco di cui questi filosofi furono i
maggiori rappresentanti.
Socrate è legato alla sofistica dai seguenti aspetti:
- l’attenzione per l'essere umano e il disinteresse per le indagini intorno al
cosmo;
- la tendenza a cercare nell'essere umano, e non al di fuori di esso, i
criteri del pensiero e dell'azione;
- l'atteggiamento spregiudicato e la mentalità razionalistica,
anticonformistica e antitradizionalistica, che induce a mettere tutto in
discussione e a non accettare nulla che non abbia superato il vaglio
critico della ragione e il confronto dialogico;
- l’inclinazione verso la dialettica e il paradosso.
Gli elementi che invece allontanano Socrate dai sofisti sono invece:
- un più sofferto amore della verità e il rifiuto di ridurre la filosofia a vuota
retorica, o a esibizionismo verbale fine a sé stesso;
il tentativo di andare oltre lo sterile relativismo conoscitivo e morale in cui si
era avviluppata la sofistica. Anche in Socrate vi è infatti l'esigenza di fare
alcune "verità comuni", che possano avvicinarli intellettualmente tra loro.
Tutto questo vuol dire che Scorate è figlio e avversario della sofistica. Per
questo non bisogna né accentuare troppo il distacco di Socrate dai sofisti né
sottolineare troppo il suo legame con loro.
Lo schema interpretativo che avvicina e allontana Socrate e i sofisti
consente di pensare in modo più adeguato anche il rapporto tra Socrate e
Platone. Tale schema, infatti, permette di evidenziare ciò che li distanzia
(cioè l'umanismo del primo), evitando così di "ridurre" Socrate a Platone. In
sostanza, fissare in maniera precisa il rapporto triangolare sofisti-Socrate-
Platone è anche un modo per storicizzare veramente la figura e l'opera di
questo filosofo.

La filosofia come ricerca dell’essere umano


Sembra quasi certo che Socrate, abbia seguito con interesse le ricerche
degli ultimi filosofi della natura appartenenti alla scuola di Anassagora.
Ben presto Socrate si scopre deluso delle sue indagini e si convince che alla
mente umana sfuggono i perché ultimi delle cose e che non le he dato di
conoscere l’essere e l’origine del mondo.
Socrate inizia poi a intendere la filosofia come un’indagine in cui l’essere
umano tenta di chiarire sé a sé stesso rintracciando il significato profondo
del proprio essere uomo. Per questo motivo Socrate fa proprio il motto
dell’oracolo delfico cioè “Conosci te stesso” vedendo in esso la missione del
filosofo. Secondo Socrate l’essenza profonda di essere umani è il rapporto
con gli altri. La sua filosofia assume i caratteri di un dialogo interpersonale
in cui ognuno affronta le questioni relative alla sua umanità. In questo
soliloquio Socrate pone il valore dell’esistenza convinto che una vita senza
ricerca non è degna di essere vissuta.

Il non sapere
Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo è la conoscenza
della propria ignoranza. Infatti, Platone narra che quando fu proclamato
l’uomo più sapiente dall’Oracolo di Delfi, si auto-dichiarò ignorante e disse
che il vero sapiente è colui che sa di non sapere.
Per comprendere questa tesi bisogna cogliere dell’agnosticismo metafisico di
Protagora e di Gorgia e una polemica contro i filosofi della natura. Infatti,
sostenere che il vero sapiente è colui che sa di non sapere, è un modo per
dire che il filosofo autentico è colui che ha compreso che intorno alle cause
e alle strutture ultime del Tutto non si può dire niente con certezza.
Questa osservazione non implica però un'interpretazione di Socrate in
chiave scettica. Da una parte il motto delfico-socratico assume il significato
di una denuncia polemica di tutte quelle categorie di individui che
pretendono di conoscere a fondo la natura umana, credendosi in possesso di
salde certezze sulla vita, ma dall'altra parte esso non esclude la possibilità
di una ricerca sull'essere umano, anzi la incoraggia, costituendone una
condizione preliminare, dal momento che soltanto chi sa di non sapere cerca
di sapere, mentre chi si crede già in possesso della verità non sente il
bisogno di cercarla. In altre parole, la tesi socratica del non sapere, se da
un lato funge da richiamo ai limiti della ricerca umana, dall'altro lato vuol
essere un invito a indagare i problemi fondamentali dell'essere umano. La
coscienza del non sapere configura come una fruttuosa scintilla, capace di
accendere il grande dialogo interumano della filosofia.
Nel "non sapere" socratico, infine, va colta un'esplicita presa di distanza dai
sofisti: questi si dichiaravano "sapienti", tanto da arrogarsi il diritto di
insegnare la loro arte e l'oggetto della loro conoscenza, Socrate è il primo a
dichiararsi "filosofo", cioè, "amante della sapienza", ovvero "in cerca
sapere". L'autentica sapienza viene così a identificarsi con il "desiderio" o
l'amore del sapere, cioè di qualcosa di cui si avverte la mancanza, come un
vuoto da colmare.

Il dialogo: momenti e obiettivi


Il metodo dell'indagine filosofica usato da Socrate è il dialogo, ovvero lo
scambio e il confronto con l'altro attraverso la parola. La ricerca di Socrate
coincide con il suo continuo porre e porsi domande senza considerare mai
definitive le risposte raggiunte. Ma non si tratta di un parlare vuoto o privo
di direzione, in quanto il dialogo socratico presenta una struttura ben
precisa, in cui si possono distinguere due momenti: l'ironia e la maieutica.

L’ironia
Nell'esame a cui Socrate sottopone gli altri, la sua prima preoccupazione è
di rendere i propri interlocutori consapevoli della loro ignoranza. A questo
scopo egli si avvale dell'ironia ovvero di un gioco di parole attraverso il
quale riesce a mettere a nudo le coscienze di coloro che gli stanno di fronte.
Loro inizialmente appaiono soddisfatti delle loro formule cristallizzate e delle
loro certezze usando però l’ironia Socrate ne mostra il sostanziale non
sapere. L’ironia è quindi lo strumento utilizzato da Socrate per svelare
all’interlocutore la sua ignoranza. Socrate facendo finta di non sapere
usando l’ironia chiede all’interlocutore un illustre maestro di qualche arte e
dopo un po’ comincia a fargli molte domande. Utilizzando poi la tecnica del
dubbio e manovrando la tecnica della confutazione, Socrate smonta tutte le
risposte ottenute. In questo modo provoca in lui vergogna e lo costringe ad
ammettere di non avere opinioni solide sull’argomento in questione. In
questo senso il momento ironico del dialogo socratico è stato definito
dialettico-zenoniano in base alla somiglianza con il metodo usato da Zenone
per mostrare l’insostenibilità logica delle tesi sul movimento e sulla
molteplicità dell’essere.
In questo modo Socrate raggiunge il proprio scopo, ossia quello di
invogliare alla ricerca del vero. L’ironia è quindi una sofistica che purifica e
libera la menta dalle malfondate convinzioni del vivere quotidiano instillando
nell’uomo il dubbio e la sete di convinzioni autentiche.

La maieutica
Dopo aver fatto il "vuoto" nella mente del discepolo, Socrate non si propone
di riempirla subito con una propria verità, come se lo scopo della sua ironia
fosse una sorta di lavaggio del cervello che prepara il terreno per imporre
un determinato sistema di idee. Egli intende soltanto stimolare l’ascoltatore
a ricercare dentro sé stesso una sua personale verità. Esattamente in ciò
consiste la maieutica, cioè l'arte di far partorire di cui parla Platone dicendo
che Socrate aveva ereditato dalla madre la professione di ostetrico. Come
Fenatete aiutava le donne a partorire i bambini, così Socrate, ostetrico di
anime, aiutava gli intelletti a partorire il loro genuino punto di vista sulle
cose. In queste parole del Socrate ironico e maieutico, si è anche visto uno
dei principi fondamentali della pedagogia: la vera educazione è sempre
auto-educazione, ossia un processo in cui il discepolo viene aiutato dal
maestro a maturare e a formarsi in maniera autonoma, partendo dalle
proprie inclinazioni interiori.

La ricerca delle definizioni


Ma che cosa fa "partorire" Socrate ai propri interlocutori? Su questo punto è
soprattutto Platone a rispondere. Nella struttura a spirale del dialogo
socratico, la molla dell'intero processo è l'interrogativo "che cos'è?" ossia la
richiesta di una definizione precisa di ciò di cui si sta parlando. A queste
domande, ad esempio all'interrogativo "che cos'è la virtù?", l'interlocutore
risponde solitamente con un catalogo di casi virtuosi: virtuoso è chi onora le
leggi, virtuoso è chi rispetta i genitori ecc. Ma Socrate non si accontenta di
uno sterile elenco, perché a lui non interessano "esempi" di virtù, bensì la
definizione della virtù "in sé stessa".

Trai lunghi discorsi preferiti dai sofisti detti macrologie e i discorsi brevi detti
brachilogie, fatti di battute corte e veloci che obbligano l'avversario a dare
risposte precise, Socrate predilige i secondi. Questo perché una tale
dialettica demolisce l'antagonista, che sotto i colpi delle provocazioni scopre
la vacuità superficialità delle proprie convinzioni e si dispone a una ricerca
più attenta e consapevole. La domanda "che cos'è?" rivela dunque un
duplice volto: uno negativo, indirizzato a mettere in crisi l'interlocutore e a
spogliarlo delle formule acriticamente accettate; l'altro positivo, teso a
condurlo verso una definizione soddisfacente dell'argomento trattato, su cui
possa esserci un accordo linguistico concettuale tra le menti.

Induzione, concetti e verità


Aristotele attribuisce a Socrate la scoperta dell’induzione e del concetto.
L’induzione è un ragionamento che dall’esame di un certo numero di casi o
di affermazioni particolari risale a un’affermazione generale o universale.
Per Aristotele questa è la definizione cercata da Socrate attraverso il
dialogo: ciò che esprime il concetto di una certa cosa (il che cos’è). Ad
esempio, si può risalire alla definizione di giustizia come rispetto delle leggi
in generale.
Alcuni studiosi mettono in dubbio la validità della testimonianza di Aristotele
perché la vedono come un metodo per aristotelizzare Socrate proprio come
avevano fatto con Platone. In realtà è difficile che questi due abbiano
stravolto il pensiero essenziale di Socrate perché senza di esso Socrate
sarebbe in realtà un normale sofista. È vero che Platone accentua l’idea di
una scienza definitoria e universale, però è anche vero che ci fa
comprendere come Socrate non si sia contenutisticamente sforzato di
tradurre un tale sapere in realtà. Infatti, molti dei dialoghi socratici di
Platone ci danno un’immagine di Socrate fedele alla propria missione di
pungolatore di anime anziché quella del possessore di una conoscenza
definitiva.
Qui si può capire in modo più chiaro il rapporto tra Socrate e i sofisti e tra
Socrate e Platone. Contro i sofisti, Socrate prospetta la necessità di una
precisazione linguistica dei concetti che permette agli uomini di intendersi
meglio. Con Socrate inizia così a delinearsi quella reazione al relativismo
linguistico e morale della peggior sofistica portata avanti da Platone.
Tuttavia, Socrate non costruisce una scienza delle definizioni, intende la
definizione come una forma di sapere assoluto, capace di rispecchiare entità
metafisiche eterne. Per lui le definizioni e il concetto si pongono come
esigenze o direzioni della ricerca.

L'etica
Anche l'etica socratica affonda in realtà le proprie radici nel tessuto
culturale dell'Atene del V secolo a.C., pur giungendo a esiti nuovi originali.

La virtù come scienza


Il punto-chiave della morale di Socrate è la sua nuova concezione della
"virtù“. Con questo termine (in greco areté) i Greci intendevano il modo
ottimale di essere qualcosa: ad esempio, la velocità era la virtù del
ghepardo e la forza era quella del leone. Riferito alle persone, il concetto di
virtù indicava il modo migliore di comportarsi nella vita (incarnato nei valori
del coraggio in battaglia, della vigoria fisica e dell'onore). Tradizionalmente,
la virtù veniva considerata come qualcosa dato dalla nascita o dagli dèi. I
sofisti invece avevano sostenuto che la virtù è un valore o un fine che deve
essere umanamente cercato e conquistato con impegno. Virtuosi non si
nasce, ma si diventa attraverso la paidéia, cioè attraverso l'educazione e la
cultura. In questo stesso universo mentale si colloca Socrate, affermando
anch'egli che la virtù non è un dono gratuito, ma una faticosa conquista.
Socrate sostiene inoltre che la virtù è sempre "scienza", cioè una forma di
sapere. Socrate tenta di sottoporre la vita concreta al dominio dell'intelletto.
Egli è convinto che, per essere uomini nel modo migliore, sia indispensabile
riflettere, cercare e ragionare, è quindi indispensabile fare filosofia nel senso
più vasto del termine, ossia riflettere criticamente sull'esistenza. Infatti,
secondo Socrate non esistono il Bene e la Giustizia come entità metafisiche
perché il bene e il giusto sono valori umani, che scaturiscono di volta in
volta dal nostro lucido ragionare. Il sapere di cui parla Socrate è sapere
quando è bene fare questa o quella azione.
Questa concezione della virtù come scienza e della vita come avventura
disciplinata dalla ragione rappresenta il senso profondo dell'etica socratica,
che per questo motivo è stata riconosciuta come una forma di razionalismo
morale.
La virtù socratica può essere insegnata e comunicata a tutti e deve
costituire il patrimonio di ogni uomo. Secondo Socrate bisogna che ciascuno
impari bene anche il mestiere di vivere, ossia la scienza del bene e del
male.
Virtù, felicità e politica
Dalla propria concezione della virtù Socrate trae alcune conclusioni di fondo.
In primo luogo, la virtù è unica, in quanto quelle che gli uomini chiamano le
virtù non sono altro che modi di essere al plurale di quell'unica virtù al
singolare che è la scienza del bene poiché comportarsi da giusti e da
coraggiosi, ad esempio, significa sapere quando e come è bene esserlo. In
secondo luogo, Socrate tende a far coincidere il campo delle virtù
propriamente umane con i valori dell'interiorità e della ragione, ovvero con
quella sfera che Platone chiamerà «anima». La tendenza di Socrate a
esaltare i valori dell'interiorità e del sapere, in antitesi ai valori mondani
dell'esteriorità, non autorizza tuttavia un'interpretazione "ascetica" del suo
messaggio etico, secondo l'immagine di un Socrate "moralista", che avrebbe
svalutato l'istinto, la gioia di vivere e tutti quei valori che li incarnano, come
la salute, la bellezza, la forza ecc.: la virtù socratica non è un modo di
essere che mira all'utilità e alla felicità. In questo senso la morale di Socrate
è una forma di eudemonismo poiché vede nel conseguimento della felicità lo
scopo ultimo e il movente di ogni azione umana. In altre parole, per Socrate
la virtù non è un potenziamento tramite la ragione finalizzato a rendere
migliore e più felice la nostra vita. Tant'è vero che soltanto il virtuoso è
felice, mentre il non virtuoso si abbandona a istinti che alla lunga lo rendono
infelice. Di fronte al caos degli istinti, Socrate ha voluto sottoporli alla
disciplina della ragione. Infine, la virtù di cui parla Socrate tende a risolversi
nella politicità, poiché l'arte del saper vivere, essendo l'uomo un essere
sociale, si identifica e concretizza nell'arte del saper vivere con gli altri.
Tuttavia, una politica così intesa è per Socrate quel "ragionare insieme"
sulle cose della città per farne scaturire il bene comune.

I paradossi dell’etica socratica


Dalla concezione socratica della virtù come scienza derivano due "paradossi"
che rimarranno celebri nella storia del pensiero morale. Il primo è l'idea
secondo cui nessuno pecca volontariamente, perché chi fa il male lo fa per
ignoranza del bene. Socrate intende dire che nessuno compie male
consapevolmente poiché chi opera il male è soltanto un individuo che ignora
quale sia il vero bene. Quando si agisce, infatti, si fa sempre ciò che si
ritiene essere per noi un bene, e se si scambia un vizio per un bene, ciò è
dovuto all'ignoranza, che non consente di cogliere la futura realtà di
patimento alla quale essa porterà. A causa dell'equazione tra virtù e
conoscenza e, di conseguenza, tra vizio e ignoranza, Socrate è stato
accusato di sopravvalutare la funzione dell'intelletto nel comportamento
umano, dimenticando il ruolo della volontà e la forza della parte istintivo-
affettiva della nostra psiche. Egli sembrerebbe ignorare quel dato di
esperienza per cui talvolta si sa lucidamente quale sia bene, ma poi si
agisce male: per questo è stato ripetutamente tacciato di "intellettualismo
etico", poiché, non distinguendo tra intelletto e volontà avrebbe esagerato
la potenza della ragione. Qualche studioso ha tentato di scagionare Socrate
da questa accusa.
Un altro paradosso del socratismo è la massima secondo cui è preferibile
subire il male che commetterlo. Questo principio, che è sembrato di sapore
pre-cristiano, si connette in realtà al "vangelo laico" di Socrate, basato sulla
convinzione che soltanto la virtù e la giustizia rendono felici, mentre
l'immoralità e l'ingiustizia portano esclusivamente brutture e infelicità.

Il demone, l'anima e la religione


Socrate tende a dare alla propria opera un carattere religioso. Egli, infatti,
considera il filosofare come una missione affidatagli dalla divinità. A questo
proposito egli parla di un dèmone che lo consiglia tutti i momenti decisivi
della vita, invitandolo a non fare certe cose. Questo demone è stato spesso
interpretato come la voce della coscienza che risuona nell'intimità della
persona. Ma esso è probabilmente qualcosa di più della semplice voce della
coscienza: è il sentimento di ciò che trascende l'uomo, è la guida
trascendente e divina della condotta umana. Il demone è dunque un
concetto religioso, non semplicemente morale.
Il demone di Socrate può essere considerato come la personificazione
dell’anima individuale. Nella concezione socratica dell’anima confluiscono
due visioni:
- la dottrina dell’anima prigioniera del corpo, nel quale sarebbe deceduta a
causa di una colpa originaria;
- la concezione dell’anima come sede della vita intellettuale.
Questi fattori portano all’idea dell’immortalità dell’anima.
Socrate presta agli dèi della religione popolare un ossequio formale, perché
ai suoi occhi ciò rientra negli obblighi del buon cittadino. Il fatto che parli di
"dèi“ significa che egli non è estraneo al politeismo del suo tempo; tuttavia,
ammette gli dèi soltanto perché ammette una divinità superiore della quale
gli dèi sono manifestazioni. È dunque a questa divinità che egli fa appello,
riconoscendola sia come garante dell'ordine del mondo sia come forma
suprema di intelligenza e di bene. Secondo Socrate soltanto l'uomo è
capace di rapportarsi alla divinità. L'intelligenza umana, il suo carattere
rigoroso e la generalità dei risultati che riesce a ottenere, così come
l'organizzazione razionale e ordinata del cosmo, mostrano che tutto ciò non
può essere opera del caso, bensì, per l'appunto, di una superiore mente
ordinatrice, di un essere supremo che governa l'universo intero. In accordo
con tale concezione sembra essere anche la critica socratica ad Anassagora,
il quale, pur avendo intuito la presenza del noús (l'intelligenza ordinatrice),
aveva poi spiegato i singoli fenomeni naturali ricorrendo soltanto a cause
meccaniche. Oltre a tenere insieme l'universo, la divinità socratica è anche
custode del destino degli uomini, presidio dei valori morali.

Il significato filosofico della morte di Socrate


La morte di Socrate riveste un alto significato ideale ed esistenziale perché
testimonia la piena fedeltà di Socrate a sé stesso e ai propri princìpi teorici.
Platone nei suoi dialoghi presenta Socrate come un uomo che avendo
insegnato per tutta la vita la giustizia e il rispetto delle leggi, non poteva
sottrarsi alla legislazione ateniese fuggendo in esilio e smentire così la propria
opera di maestro.
Secondo Socrate l’essere umano può ritenersi tale soltanto all’interno di una
società. Per Socrate l’uomo emerge dall’animalità primitiva e si auto-costituisce
come essere umano soltanto in un contesto comunitario retto da leggi. Dire
che l’uomo è società equivale a dire che l’uomo è uomo in quanto figlio delle
leggi. Infatti, chi disobbedisce alle leggi non può considerarsi uomo.
Questa tesi di Socrate ci fa capire il perché egli abbia scelto la condanna al
posto della fuga.

La giovinezza e il declino delle pòlis


Platone è il discepolo più celebre di Socrate. Egli è nato ad Atene nel 427
a.C. e in realtà il suo vero nome è Aristocle, ma viene chiamato Platone per via
della sua fronte ampia. Durante la giovane età egli assiste, durante la guerra
del Peloponneso, alla mutilazione delle erme e alla distruzione della flotta
ateniese da parte di Siracusa. Dopo la fine della guerra si instaura ad Atene
l’oligarchia dei trenta tiranni alla quale partecipa Crizia, parente di Platone.

L’incontro con Socrate e la rinuncia alla politica


Durante questo periodo Platone incontra Socrate, ma nel 399 a.C. Socrate
viene processato e condannato dai governanti democratici appena tornati al
potere e questo evento provoca in Platone un dolore profondo che cambierà la
sua vita, orientando in modo determinante anche la sua riflessione filosofica.
Platone si chiede come è possibile che Socrate sia stato processato e questo
quesito lo porterà alla critica della democrazia e alla ricerca di una nuova via
per costruire uno Stato giusto e alla rinuncia definitiva alla carriera politica.
Un laboratorio politico fuori Atene
Dopo la morte di Socrate i filosofi ad Atene sono guardati con sospetto.
Impaurito e minacciato Platone è costretto all’esilio: si rifugia prima a Mègara
presso il socratico Euclide, poi a Cirene in Egitto e poi a Saracusa in Sicilia
dove conosce Dionisio il Vecchio che è il tiranno della città e si illude di poterlo
educare alla pratica di politica giusta. Mentre Dione, cognato del tiranno, si
lascia conquistare dagli insegnamenti di Platone e diviene suo discepolo,
Dionisio dimostra irritazione per le parole che Platone dice contro il regime
siracusano. Dall’esperienza siracusana, Platone ricava la convinzione che le
leggi non sono sufficienti a garantire la giustizia di una società se i governatori
sono privi di rettitudine. Servono educazione morale, impegno e senso del
servizio della società.

Il rientro ad Atene e la fondazione dell’Accademia


Dioniso, indispettito dalle parole di Platone, richiede che sia venduto come
schiavo nell’isola di Egina dove viene però riscattato da un discepolo di Socrate
di nome Annicèride di Cirene che lo aiuta a rientrare ad Atene. Annicèride poi
compra per Platone un giardino fuori dalle mura della città dove nel 387 a.C.
fonderà la sua scuola chiamata Accademia. Questa Accademia è una sorta di
comunità religiosa ed è diretta da uno scolarca eletto a vita dai membri della
comunità e ospita allievi di una sorta di scuola di alta formazione per formare
una classe dirigente capace di governare lo stato. Lo scopo dell’Accademia è
quello di educare alla politica che viene chiamata scienza regale. L’Accademia
per la sua fama attrae molti giovani ed entra in concorrenza con la scuola
ateniese di Isocrate che metteva al centro del suo progetto pedagogico la
formazione retorica e letteraria.

La resa dei conti con la tirannide


Vent’anni dopo la fondazione dell’Accademia, Platone riceve una lettera da
Dione che dice che il vecchio tiranno è morto e che il nuovo tiranno Dionisio II
detto “Il Giovane” mostra interesse per un’educazione filosofica come quella
che Platone immagina per i reggitori degli stati. Allora Platone decide di
abbandonare le sue ricchezze e fa un secondo viaggio a Siracusa, confidando di
creare un laboratorio politico in cui dare concretezza alla speranza dei filosofi.

La teoria delle idee

Le dottrine socratiche pur essendo riportate con amore dal suo allievo,
vengono già filtrate alla luce degli interessi del giovano Platone. Platone da
molta importanza al metodo socratico delle definizioni interpretandolo come il
primo passo verso il sapere assoluto. È proprio nell’ambito di questa battaglia
che Platone sviluppa la teoria delle idee. Qui Platone entra nella sua seconda
fase dove non dipende più dagli insegnamenti del suo maestro Socrate, ma
elabora un proprio specifico pensiero. La teoria delle idee è il cuore del
platonismo maturo. Infatti, Platone pensò di aver risolto tutti i massi problemi
della filosofia solo dopo averla elaborata.

La genesi della teoria


Platone ritiene che la scienza debba avere i caratteri della stabilità e
dell’immutabilità. Egli è convinto che la mente sia uno specchio o una
riproduzione di qualcosa che esista. In base a questo concetto di realismo
gnoseologico, il filosofo si chiede quale sia l’oggetto proprio della scienza intesa
come conoscenza di qualcosa di esistente e stabile. Platone si propone di
trovare un oggetto esistente e stabile corrispondente alla definizione cercata
dal suo maestro Socrate. Del resto, si dovrà per forza ammettere l’esistenza di
un suo contenuto specifico. E anche per Platone questo contenuto non può
essere costituito dalle cose del mondo percepite dai sensi perché sono
imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente forma di conoscenza
imperfetta che Platone chiama opinione. Per Platone l’oggetto proprio della
scienza sono le idee, per Platone il termine idea indica un’entità immutabile e
perfetta che esiste per proprio conto e che insieme alle altre idee forma una
zona dell’essere diversa da quella in cui viviamo. Platone chiama questa zona
iperuranio che significa al di là del cielo e sembra che indichi una regione a-
spaziale e immateriale. Per Platone le cose sono copie o imitazioni imperfette
delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esistono tante cose più o meno belle
o giuste, invece nel mondo delle idee esistono la bellezza e la giustizia
perfette. L’idea platonica è quindi il modello unico e perfetto delle cose
imperfette di questo mondo.

L’impianto dualistico
Per Platone esistono due grandi fondamentali della conoscenza, l’opinione e
la scienza alle quali fanno riscontro due tipi d’essere distinti, cioè le cose e le
idee. La verità imperfetta dell’opinione dipende dal carattere mutevole delle
cose percepite dai sensi. La verità perfetta della scienza invece, dipende dalle
idee. La scienza, quindi, costituisce una conoscenza stabile e perfetta perché la
realtà che essa indaga è stabile e perfetta.
La filosofia platonica è una sorta di integrazione tra l’eraclitismo e
l’eleatismo. Da Eraclito accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno
della mutevolezza, mentre da Parmenide accetta la convinzione che l’essere
autentico sia immutabile. L’idea di Platone è infatti immutabile, eterna e
perfetta anche se l’essere platonico è molteplice perché è formato da una
pluralità di idee. Dall’eleatismo Platone deriva anche il dualismo gnoseologico
tra sensibilità e ragione, e il dualismo ontologico tra l’essere delle cose e
l’essere autentico.

Il rapporto tra le idee e le cose


Se da un lato Platone afferma la distinzione tra idee e cose, dall’altro lato ne
sostiene lo stretto legame. Il rapporto tra idee e cose si configura in una
duplice direzione perché le idee sono:
- criteri di giudizio delle cose perché noi per formulare i nostri giudizi sugli
oggetti non possiamo fare a meno di riferirci alle idee. Per esempio,
diciamo che due cose sono uguali in base all’idea dell’uguaglianza. In
questo senso possiamo dire che le idee sono la condizione della
pensabilità degli oggetti.
- cause delle cose perché gli individui “sono” in quanto imitano le idee o
partecipano, sia pure imperfettamente, di esse. Per esempio, le realtà
che diciamo belle, sono belle perché partecipano all’idea di bellezza, che
rappresenta quindi la causa per cui esse sono ritenute belle. Con questa
prospettiva possiamo dire che le idee sono la condizione dell’esistenza
degli oggetti.
Platone però non ha definito bene il rapporto idee-cose, perché rimane
piuttosto oscillante e incerto sulla questione. Nella sua vecchiaia Platone
riprenderà a cimentarsi su questo problema tentando di risolverlo, senza però
arrivare mai ad una conclusione.

Le idee: quali sono


Nel pensiero di Platone le idee si distinguono in due tipi:
- le idee-valori che corrispondono ai princìpi etici, estetici e politici come la
bellezza e il bene,
- le idee matematiche che corrispondono ai princìpi dell’aritmetica e della
geometria. Nella realtà, infatti, non troviamo mai l’uguaglianza perfetta,
ma soltanto copie imperfette di essi.
Oltre a questi due tipi di idee, Platone parla anche delle idee di cose naturali e
delle idee di cose artificiali.
L’idea platonica finirà per configurarsi come la forma unica e perfetta di
qualsiasi gruppo di cose che vengono designate con uno stesso nome e che
possono essere fatte oggetto di scienza.
Le idee costituiscono una trama di essenze che hanno un ordine gerarchico-
piramidale con le idee-valori in cima e l’idea del Bene al vertice. Alcuni
interpreti hanno assimilato a Dio l’idea del Bene. Ma nei testi platonici una
figura del genere risulta assente

Le idee: dove e come esistono


Le idee sono trascendenti perché esistono oltre la mente e le cose in una
dimensione ulteriore rispetto al nostro mondo sensibile. Qualcuno ha inteso
l’iperuranio come un paradiso cristiano o l’empireo dantesco. Ma il mondo
platonico delle idee non deve essere interpretato come un universo di super-
cose collocabili in qualche cielo metafisico, ma soltanto come un eterno di
forme o valori ideali, che, come tali, non esistono in alcun luogo. Stando ai
dialoghi di Platone le idee costituiscono una zona dell’essere diversa da quella
delle cose.

Le idee: come si conoscono


Le idee costituiscono l’oggetto di una visione intellettuale, ossia di uno sguardo
della mente in grado di cogliere l’idea come forma esemplare comuna a una
pluralità di oggetti. Ma da dove proviene questa visione intellettuale? Per
risolvere questo problema Platone ricorre al mito della reminiscenza. Egli
afferma che l’anima prima di calarsi nel nostro corpo, ha vissuto nel mondo
delle idee dove, tra una vita e l’altra, ha potuto contemplare gli esemplari
perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro corpo, l’anima conserva un
ricordo sopito di ciò che ha visto. In questo senso, conoscere è ricordare in
quanto dentro di noi portiamo tutte le idee. La gnoseologia di Platone
rappresenta una forma di innatismo in quanto si fonda sul principio secondo cui
la conoscenza deriva da metri di giudizio innati, cioè preesistenti nel nostro
intelletto. Secondo Platone però, l’uomo non possiede già, tutt’intera la verità,
ma neanche la ignora completamente, infatti la porta dentro di sé a titolo di
ricordo. Secondo Platone quindi noi partiamo da una sorta di pre-conoscenza
da cui dobbiamo tirare fuori la conoscenza vera e propria.

L’immortalità dell’anima
La teoria della reminiscenza postula di per sé l’immortalità dell’anima, che
diviene oggetto di uno dei dialoghi platonici chiamato “il Fedone”. In
quest’opera Platone espone altre prove dell’immortalità dell’anima.
- Una prima prova, detta dei contrari, afferma che, come in natura ogni
cosa si genera dal suo contrario, così la morte si genera dalla vita e
viceversa: l’anima deve quindi rivivere dopo la morte del corpo.
- Una seconda prova, detta della somiglianza, sostiene che l’anima
essendo simile alle idee che sono eterne, anch’essa deve essere eterna.
Infatti, solo ciò che è composto può distruggersi, le cose semplici come le
idee e l’anima invece, non possono né crearsi né distruggersi.
- Una terza prova, detta della vitalità, dice che l’anima è vita e partecipa
dell’idea della vita; quindi, non può accogliere l’idea della morte.
Nel Fedone troviamo anche la dottrina platonica della filosofia come
preparazione alla morte. Infatti, se la conoscenza autentica è quella delle idee,
allora filosofare significa andare oltre i sensi e il corpo e la vita del filosofo
risulta una preparazione alla morte, ossia quel momento in cui l’anima potrà
unirsi alle idee.

L’anima e il destino: il mito di Er


La teoria dell’immortalità dell’anima a Platone serve per chiarire il problema del
destino. Il filosofo ritiene che la sorte di ogni individuo dipenda da una scelta
che la sua anima ha compiuto nel mondo delle idee prima di incarnarsi in un
corpo. Platone illustra questa sua tesi nel mito di Er. Nella narrazione
mitologica di Platone, Er è un guerriero che è morto in battaglia ed è
resuscitato dopo 12 giorni, e racconta agli uomini cosa c’è dopo la morte. Alle
anime malvagie spettano mille anni di sofferenze, mentre a quelle virtuose
mille anni di felicità. Trascorsi questi mille anni tutte le anime si presentano
davanti a Lachesi, una delle tre Moire, per scegliere la loro vita futura, ossia il
loro demone che è una forza divina che presiedeva alla sorte di ciascuno. Una
volta che le anime scelgono il loro destino, ottenendo da Lachesi il demone
corrispondente, Cloto e Atropo, che sono le altre due Moire, lo confermano e lo
rendono definitivo.

La teoria dell’amore e della bellezza


Platone con il termine amore stabilisce il rapporto che c’è tra gli esseri umani e
le idee, e tra gli uomini associati nella comune ricerca. Alla teoria dell’amore
sono dedicati due dialoghi platonici, il Simposio e il Fedro:
- il Simposio considera l’oggetto dell’amore, cioè la bellezza, e mira a
determinarne i gradi gerarchici;
- il Fedro considera invece l’amore dal punto di vista del soggetto, cioè
come aspirazione dell’essere umano alla bellezza ed elevazione
progressiva dell’anima verso il mondo delle idee, al quale la bellezza
appartiene.

Il Simposio
Il Simposio nella tradizione greca era il momento conclusivo del banchetto
dove le persone bevevano il vino e celebravano la poesia e l’amore. Nella sua
opera, Platone descrive un simposio a cui partecipano Socrate e alcune figure
importanti di Atene. Nell’opera ogni persona a turno pronuncia un lungo
discorso in onore di Eros. Questi discorsi sono descrizioni dell’amore di cui
mettono in luce una serie di caratteri che verranno poi unificati e giustificati nel
discorso di Socrate. Il primo a prendere parola è un allievo di Socrate che si
chiama Fedro che elogia Eros. Poi interviene Pausania che distingue tra un Eros
volgare e un Eros celeste. Poi interviene Erissimaco che vede nell’amore una
forza cosmica e generatrice che determina tutti i fenomeni, sia umani sia
naturali. Poi arriva il turno di Aristofane che espone il mito degli andrògini, un
mito in cui si narra che in origine la figura dell’essere umano era doppia e
tonda, cioè composta da due esseri uniti in maniera inscindibile. I generi umani
erano dunque 3: maschio, femmina e androgino. Temendo la forza di
quest’ultimi, Zeus decide di dividere gli esseri umani in due, da allora le due
parti vanno l’una in cerca dell’altra per riunirsi e ricostituire l’essere originario.
Con il racconto di Aristofane, Platone sottolinea che l’insufficienza o
l’incompletezza sono caratteri fondamentali degli umani. Socrate poi, nei suoi
discorsi descrive l’amore come il desiderare qualcosa che non si ha, ma di cui
si avverte il bisogno: l’amore è quindi una mancanza. Secondo il mito, Eros
non è tanto un dio quanto un demone, ossia un essere intermedio tra umani e
divinità. Infatti, mentre gli dèi sono sapienti, Eros non ha sapienza, ma aspira
a possederla, e in questo senso è filosofo. L’amore non ha la bellezza, e la
desidera in quanto bene che rende felici. Eros è desiderio di procreare, che
viene soddisfatto dall’attrazione esercitata dalla bellezza dei corpi. Attraverso
la generazione sia biologica sia spirituale, gli uomini cercano di sanare
un’indigenza originaria che li segna in modo indelebile, ossia il desiderio
dell’immortalità. La bellezza ha gradi diversi. All’inizio si è attratti dalla bellezza
di un singolo corpo che si ritiene bello. Poi ci si accorge che la bellezza è
presente in più corpi; quindi, si passa a desiderare ed amare la bellezza
corporea nella sua tonalità. E al di sopra di questa, si trova la bellezza
dell’anima, poi la bellezza delle istituzioni delle leggi e delle istituzioni e poi, la
bellezza della scienza. Al di sopra di tutto si trova la bellezza in sé, che è
eterna e superiore al divenire e alla morte.
Ai diversi gradi di bellezza derivano diversi gradi di amore, che vanno da quello
corporeo all’amore filosofico. L’amore platonico è dunque una relazione
sentimentale asessuata. Platone ritiene che l’eros, ossia l’amore sensuale, vada
abbandonato per poter arrivare a livelli superiori. L’amore di cui parla Platone
si configura quindi come lo strumento per una conoscenza superiore.

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