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Apuleio

Il demone
di Socrate
a cura di Bianca Maria Portogalli Cagli
con testo a fronte

Letteratura universale Marsilio


Esistono potenze divine
che dimorano
tra il cielo e la terra:
i Greci le chiamavano "demoni"

ISBN 88-317-6963-4

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9 788831 769631
Apuleio nasce in Africa, a Madaura, nel 125 d.C.
Compie gli srudi a Cartagine e ad Arene, esercita
la professione di avvocaro a Roma. Nel 158,
a Sàbrara, viene processaro per magia e assolro
dopo un'abile aurodifesa. Tornaro a Cartagine,
muore dopo il 170 d.C.
Inrellerruale versatile, orarore brillanre, ha lasciaro
opere quali ApoLogia (l'orazione di autodifesa),
Florida (un'anrologia di discorsi), gli scrirri
filosofici Platone e la sua dottrina (De Platone
et eius dogmate), L'universo (De mundo),
e il romanzo in undici libri Le metamorfosi
o L'asino d'oro.

In copertina: Edward Burne-Jones,


Amore nella nebbia, 1905.
Neuss, Clemens-Sels-Museum.
esistono alcune potenze divine intermedie,
<< . . .

che dimorano... fra la sublime altezza del cielo


e la vile bassezza terrena ... hanno ricevuto
dai Greci il nome di "demoni"».
La domina demonologica, che ha il suo nucleo
originario nel Simposio platonico - dove
confluiscono peraltro credenze popolari
e speculazioni filosofiche ameriori - riceve
una sistemazione in questo breve uarrato
di Apuleio, che può essere considerato
una delle più complete ed esaurienti sintesi
della storia della demonologia. In esso Apuleio
espone la natura e le caratteristiche dei demoni,
la loro funzione mediatrice fra la divinità suprema
e gli uomini, stabilisce la loro collocazione
nell'aria- intermedia fra cielo e terra-, ne distingue
le categorie identificandoli con le anime
che vivono nel corpo, con quelle che hanno
abbandonato il corpo e infine con gli spiriti
che non hanno mai avuto contarti materiali.
Turra l'esposizione della domina converge verso
la parre finale, dove il riferimento al <<demone
di Socrate>> diventa pretesto per esaltare
nella figura del f1losofo l'ideale dell'uomo perfetto
e del perfetto sapiente.

BIANCA MARIA PORTOGALLI CAGLI, allieva

di Giorgio Colli e di Eduard Fraenkel


alla Normale di Pisa, studiosa
del medio-plaronismo, ha curato un'edizione
del Corpus Hermeticum presso la Biblioteca
di Autori Classici della Boringhieri, e un'antologia
della Lerreratura Latina presso la Zanichelli.
Apuleio
Il demone di Socrate
a cura di Bianca Maria Portogalli Cagli

con testo a fronte

Marsilio
Traduzione dal latino
di Bianca Maria Cagli

© 1992
®
BY MARSILIO EDITORI
IN VENEZIA

ISBN
88-317-6963-4
INDICE

9 Socrate e il suo demone


di Bianca Maria Cagli

25 IL DEMONE DI SOCRATE

71 Note al testo

83 Riferimenti bibliografici
SOCRATE E IL SUO DEMONE

In tutti i medioplatonici troviamo una particolare


riluttanza a parlare di Dio: la divinità è considerata
ineffabile, «liQQTJ'tOV», e la scienza del divino un «arca­
num» cui solo pochi iniziati possono attingere. Paralle­
lamente a questa nozione del divino si ha la tendenza a
definire Dio col maggior numero di attributi possibili.
Apuleio ci presenta la sua concezione della divinità
suprema, unica e assoluta, creatrice dell'universo, in
quattro passi, che non mostrano una sostanziale diffe­
renza: Platone e la sua dottrina v, 86; Apologia 64, 72;
Il demone di Socrate III, 124; le Metamorfosi XI, 25.
Da questi passi possiamo enucleare tre motivi fonda­
mentali che sono presenti più o meno in tutti i medio­
platonici:
l) la trascendenza della divinità suprema, sulla base
dei seguenti motivi: a) l'impossibilità di localizzare Dio
nel luogo e nello spazio; b) Dio non ha bisogno di niente
e non è soggetto al fluire delle cose sensibili: «sciolto da
ogni vincolo del patire e dell'agire, mai costretto all'e­
sercizio di qualche funzione ... » (Il demone diSocrate III,

9
124); c) la sua essenza è lontana dalla materia, «immune
[ ... ] da ogni contatto corporeo» (m, 123);
2) Dio non ha forma, non è circoscritto da alcun limite,
è «incorporeo» (m, 123);
3) Dio è inconoscibile e ineffabile: la divinità somma
non è oggetto della conoscenza dei sensi, ma in quanto
trascendente non è conoscibile neanche mediante l'in­
telletto. Il motivo è ripreso da Platone, Parmenide 142
a, e diviene centrale nel medioplatonismo e nel neopla­
tonismo: è comune ad Apuleio, Albino, Massimo di
Tiro, Filone, Plotino e all'ermetismo (Festugière, IV,
pp. 6 1 ss.). Apuleio sottolinea come «solo questo essere
non può, per una incredibile ed ineffabile grandezza
della sua maestà, essere definito, neppure imperfetta­
mente... » (m, 124) e afferma che la possibilità di cono­
scere Dio è affidata a mezzi del tutto irrazionali. La
condizione indispensabile è un'elevazione dello spirito
umano al di sopra del sensibile, una momentanea libe­
razione dell'animo dai legami corporei, che si può
realizzare solo per il filosofo, per il saggio, il quale,
vivendo una vita casta e virtuosa, è in un certo senso
simile a Dio, modello di virtù, e quindi può conoscerlo:
«a mala pena i saggi, quando con il vigore dello spirito
sono riusciti a distaccarsi dal corpo, per quanto è possi­
bile, arrivano a comprendere questo dio, quasi a tratti,
come una luce abbagliante che lampeggia con istanta­
neo sfavillio fra le più fitte tenebre» (m, 124).
La teologia e l'etica a questo punto si confondono,
guidate da una conoscenza intuitiva, la gnosis di gnosti­
ci, ermetici e neoplatonici, che costituisce l'unico mez­
zo per raggiungere Dio. L'uomo virtuoso si uguaglia a
Dio e in tale condizione può conoscerlo. La vicenda
dell'uomo-asino nelle Metamorfosi costituisce un'alle­
goria di tale concezione religiosa: la trasformazione

lO
esteriore del protagonista è l'indice del cambiamento,
della metànoia o «conversione», e della benevolenza di
Dio per il fedele virtuoso che viene chiamato a una
nuova vita e può cosi contemplare la divinità.
Strettamente connessa con la concezione teologica,
anzi parte integrante di questa, è la demonologia di
Apuleio. Nel Demone di Socrate Apuleio afferma l'esi­
stenza dei demoni, dopo aver sottolineato la profonda
differenza e la incolmabile lontananza che intercorre
fra la natura divina e la natura umana («gli dei sono
separati da noi ed estranei alla nostra esistenza») e
l'impossibilità di un diretto rapporto fra le due nature
(VI, 132). Ai demoni è quindi attribuita una funzione
mediatrice fra uomini e dei: «esistono alcune potenze
divine intermedie, che dimorano in codesto spazio
aereo, fra la sublime altezza del cielo e la vile bassezza
terrena, e che comunicano agli dei i nostri desideri e i
nostri meriti. Hanno ricevuto dai Greci il nome di
"demoni" ... » (ibidem).
Apuleio ci presenta la dottrina dei demoni in una
forma che appare sistematica; pur essendo confluiti in
essa elementi propri di altri culti, è facile individuare il
fattore fondamentale nella funzione mediatrice dei de­
moni stessi. I testi di Platone e gli accenni che in essi si
trovano alle divinità intermedie, sono ovviamente il
costante riferimento di Apuleio come dei medioplato­
nici, ma è discutibile che si possa considerare Platone
come il padre della demonologia. Nei suoi dialoghi
troviamo piuttosto un vario assortimento di nozioni
comuni, riprese dalle credenze popolari o anche deri­
vanti da speculazioni filosofiche anteriori, dove non
mancano diverse contraddizioni. Nelle opere più tarde,
però, particolarmente nel Timeo, sembra che egli stesso
abbia sentito la necessità di colmare il dualismo creato

11
f1 .t il mondo intelligibile, il divino, e il mondo sensibile,
l'umano.
È probabile che verso la fine della sua vita il filosofo,
spaventato dal progredire dell'empietà, influenzato
dalle dottrine dell'Oriente, abbia ammesso per sé e
inculcato nei suoi seguaci una teologia dove hanno
trovato posto gli astri, gli altri dei e i demoni.
Non possono certo servire a dimostrazione di questa
tesi i passi di: Apologia 27 d-c, Crati/o 398 a-c, Leggi
7 13 c-e, che riprendono la tradizionale concezione
esiodea. Quanto al passo del Fedone 107 d, esso è
strettamente legato con le credenze negli spiriti protet­
tori: il demone inteso come un essere divino, posto al
fianco di ogni uomo per sorvegliarlo e proteggerlo
durante la vita e testimoniare per lui davanti al tribuna­
le divino dopo la morte.
Il passo fondamentale, ed anche il primo, in cui si
presenta il nucleo centrale della demonologia è senz'al­
tro il passo platonico del Simposio 202 c. Nel discorso
di Diotima il fulcro è costituito dalla ricerca della
natura di Eros, che si presenta come elemento media­
tore fra l'umano e il divino, ed è di conseguenza
definito come un demone. Sulla base della natura di
Eros, semidio, si passa poi a definire la natura dei
demoni. Attraverso l'abusivo collegamento di questi
dati nasce, come dice Beaujeu (p. 189) la «carta» della
demonologia.
Senocrate, Filippo di Opunte, e, per altri aspetti,
Posidonio, sono da considerare i primi divulgatori di
una dottrina sistematica dei demoni. In particolare
Senocrate e Filippo di Opunte, hanno sottolineato la
funzione mediatrice dei demoni e hanno sviluppato
particolarmente la dottrina demonologica in questo
senso per soddisfare l'esigenza di porre una continuità

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assoluta nell'universo, colmando la distanza fra il mon­
do umano e divino propria già della tradizione classica;
ma già in queste prime forme sistematiche la demonolo­
gia aveva accolto in sé elementi estranei, mitici e filoso­
fici. Sappiamo che Senocrate riteneva che l'anima uma­
na, separata dal corpo, fosse dotata delle stesse facoltà
dei demoni e risoJveva così il problema della vita dell'a­
nima nell'aldilà. E lui che introduce nel pensiero filoso­
fico la distinzione fra i demoni buoni e cattivi e che
attribuisce ai cattivi quelle che Beaujeu definisce le
«fables dégradantes» della mitologia (Beaujeu, p. 192).
Posidonio e la speculazione stoica hanno accentuato
l'identità demone/anima ritenendola valida anche per
l'anima che si trova nel corpo umano ed è soggetta alla
vita mortale. Accanto a questo processo d'identificazio­
ne delle anime con i demoni, intesi come esseri media­
tori e artefici della divinazione, si ha anche un processo
di identificazione dell'anima umana con il demone inte­
so come spirito protettore. L'origine di questo processo
è da ritrovarsi nuovamente nel sistema stoico. I nuovi
stoici, in particolare Seneca, Epitteto, Marco Aurelio,
mescolano l'idea di un essere divino che protegge l'uo­
mo dal di fuori, con l'idea di un essere divino che abita
nell'uomo stesso. Così il demone indica ciò che di
divino è nell'uomo, si identifica con le sue buone dispo­
sizioni morali; il «culto» dei demoni diviene quindi il
culto del proprio animo, e consiste nel mantenere il
demone interno a noi libero da ogni genere di turba­
mento e di passione. Si ha così uno spostamento dal
piano religioso al piano puramente etico (cfr. Il demone
di Socrate, xxi, 167).
Attraverso questo processo di elaborazione e di con­
taminazione, la demonologia viene accolta in forma
definitiva dai medioplatonici ed assume una particolare

13
importanza per Apuleio, - come l'aveva avuta poco
prima per Plutarco.
Apuleio accetta la demonologia, così com'era in voga
fra i medioplatonit:i del suo tempo- che si rifanno tutti
in gran parte a un filosofo del n secolo di nome Gaio, la
cui opera è andata del tutto perduta- senza presentare
grandi differenze.
Il demone di Socrate, mentre da un lato lascia scorge­
re la sua originaria dipendenza da Platone, dall'altro
cerca di distinguere questa dottrina negli elementi fon­
damentali che hanno contribuito a formarla. La distin­
zione dei demoni in diverse classi ne è una prova.
Fino al capitolo vn l'esposizione si ricollega stretta­
mente col Simposio e mette in rilievo l'origine, la neces­
sità e il carattere fondamentale della demonologia. Una
volta stabilita la generale attività dei demoni, si passa
subito a precisare le loro funzioni particolari (vr, 133 ):
«Platone afferma nel Simposio che sono proprio loro a
determinare tutte le rivelazioni e a regolare i diversi
prodigi della magia e i presagi di ogni genere». Si
enumerano poi i mezzi di cui essi si servono per esplica­
re queste funzioni: « .. .foggiare sogni, sezionare viscere,
regolare voli di uccelli, ammaestrare nel canto uccelli
augurali, ispirare vati, lanciare fulmini, trarre dalle nubi
corruschi bagliori, e in breve tutto il resto che ci per­
mette di conoscere il futuro».
Si sa che Apuleio, nell'estrema versatilità dei suoi
interessi culturali, non ha escluso dalla sua esperienza
di vita e di studi la magia, che, in questo passo, è
collegata strettamente alla demonologia. Si trattò però
di un momento passeggero, in quanto Apuleio si rese
ben presto conto della sostanziale differenza fra il ritua�
le magico, costituito spesso da superstizioni, e la serietà
dei culti misterici, che tendevano a realizzare in modo

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più compiuto l'aspirazione degli uomini a riscattarsi
dagli impedimenti corporei e ad assurgere fino alla
divinità (cfr. Barra, pp. 83, 84).
La stessa evoluzione nell'esposizione della demono­
logia si ritrova in alcuni passi di Plutarco, contenuti nei
trattati Iside e Osiride e Il Genio di Socrate. Come
Apuleio, anche Plutarco sottolinea la lontananza degli
dei dal mondo umano e l'impossibilità di raggiungerli
direttamente; afferma che non sono gli dei, bensì i
demoni a occuparsi delle cerimonie, delle feste, della
divinazione. Essi sono considerati i ministri degli dei e
usufruiscono di riti particolari, riferiti unicamente a
loro. Presiedendo inoltre agli oracoli e determinando i
presagi, fanno conoscere agli uomini la volontà degli
dei. A questo si appunta l'interesse dei due filosofi: la
conoscenza è intesa come rivelazione attraverso mezzi
irrazionali.
Nel cap. XIII, 148, Apuleio dà la definizione più
completa dei demoni: «.. .i demoni sono, quanto alla
specie, esseri animati, dotati di facoltà razionali, il loro
animo è soggetto alle passioni, il loro corpo è d'aria, la
loro vita eterna. Di queste cinque qualità, or ora ricor­
date, hanno in comune con noi le prime tre, la quarta è
propria della loro specie, l'ultima è in comune con gli
dei immortali dai quali però si distinguono, perché
suscettibili di passioni. Se io li ho definiti con ragione,
credo, suscettibili di passioni, è perché, come noi, sono
soggetti ai turbamenti interiori».
Conseguente alla natura umana presente nei demoni
risulta la distinzione della loro attività in base a un
giudizio morale, per cui si hanno i demoni buoni e i
demoni malvagi. Ecco come Apuleio definisce questi
ultimi: «. altri invece per i loro misfatti sulla terra non
..

possiedono alcuna dimora e sono condannati ad errare

15
in balia del caso, come in esilio, vano spauracchio per
gli uomini buoni, un flagello per i malvagi, e a questi si
dà _generalmente il nome di Larve» (cap. xv).
E molto accentuata in Apuleio, come in Plutarco,
l'identificazione dei demoni con l'anima umana, anche
quando questa dimora nel corpo umano. Apuleio svi­
luppa questo concetto nella celebre favola di Amore e
Psiche, in cui Eros rappresenta il demone nella sua
condizione più alta, poiché libero da ogni legame cor­
poreo (anche nel Demone diSocrate Eros è incluso fra i
demoni di genere superiore perché libero «da catene e
legami corporei», XVI, 152); Psiche è invece il demone­
anima, soggetto alle debolezze umane, perché legato al
corpo.
Le fonti di tale concezione possono ritrovarsi da un
lato nelle credenze orfiche e pitagoriche, che accentua­
no il concetto del corpo come prigione per l'anima,
dall'altro nell'idea stoica dell'identità demone/anima
anche quando l'anima si trova nel corpo umano. Per
Apuleio l'anima umana è senz'altro un demone degra­
dato dalla sua natura divina, ma capace in taluni mo­
menti di ritornare un essere divino anche durante la
vita terrena, purché viva in modo puro e sia dedito in
ogni istante alla ricerca di Dio e alla sua conoscenza:
«<n un certo senso anche l'anima umana, quando anco­
ra dimora nel corpo, può essere definita demone» (xv,
150) e più esplicitamente: «sono definite eudaimones le
persone felici, che possiedono un buon demone, cioè
un'anima perfettamente virtuosa. Nella nostra lingua si
può dare a questo demone il nome di Genio, ... poiché
questo dio che per ciascun uomo è la propria anima,
sebbene immortale, è in qualche modo generato insie­
me all'uomo» (xv, 150).
La conseguenza più importante di questa teoria è per

16
Apuleio la possibilità che l'uomo ha di entrare in con­
tatto diretto con la divinità, attraverso la mediazione
della propria anima. Questa possibilità è però preroga­
tiva di pochi privilegiati: per Apuleio solo il filosofo ne
è capace. Il termine filosofo assume in questo caso un
significato tutto particolare: è un iniziato, la cui natura
è superiore a quella dei comuni mortali, perché egli
solo è capace di attingere la verità; la filosofia non è una
costruzione sistematica dello spirito, ma lo sforzo di
penetrare in quei segreti che il linguaggio umano non
può riferire; la conoscenza è una vera «gnosis». In
questo senso la figura di Socrate, a cui la tradizione ha
attribuito facoltà soprannaturali e un continuo contat­
to con la divinità, è stata considerata come il modello
del filosofo ideale: «C'è dunque da meravigliarsi se
Socrate, uomo veramente perfetto, e - come Apollo ci
attesta- saggio fra tutti, ha conosciuto e onorato questo
suo dio personale? E se per questo motivo il suo guar­
diano... (a lui) ha dato in anticipo tutti gli avvertimenti
necessari?» (xvn, 157). Socrate infatti coltivando il suo
animo, cioè il suo demone, lo manteneva puro e lonta­
no dalle passioni corporee (Plutarco, Il genio di Socrate
582 d). La concezione del demone socratico assume
quindi una fondamentale importanza per la demonolo­
gia posteriore e accoglie in sé tutti gli altri motivi ed
elementi della dottrina.
Nei capitoli XIV, xv, XVI Apuleio tenta una classifica­
zione dei demoni; essi sono divisi in due grandi classi:
la prima contiene tutti quelli che in qualche modo
hanno o hanno avuto legami corporali: Geni, Lemuri,
Larve, Lari, Mani; la seconda quelli «molto superiori in
dignità, di una specie più elevata e più nobile», che
sono stati sempre liberi da tali legami. Apuleio fa rien­
trare in questa seconda classe gli spiriti protettori dati a

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ciascun uomo: «da questa superiore categoria, dunque,
secondo Platone, provengono quei demoni che sono
stati assegnati ai singoli uomini come testimoni e custo­
di nella vita quotidiana» (XVI, 155). Il demone socrati­
co, sia per Apuleio, sia per Plutarco, appartiene a
quest'ultimo genere, ma al tempo stesso si confonde
con l'anima umana interna all'uomo, come si deduce
chiaramente dall'affermazione apuleiana secondo la
quale coltiva,re il proprio animo significa rendere onore
al demone. E continua l'oscillazione fra considerare il
demone come esterno all'uomo o identificarlo con la
sua anima e quindi come l'uomo stesso, inteso nella sua
essenza razionale.
La concezione che identifica l'anima umana con i
demoni permette di uguagliare l'uomo a Dio, di realiz­
zare quindi il fine ultimo della speculazione filosofica e
dell'attività morale: l'identificazione con Dio. I demoni
non hanno importanza per se stessi, ma solo in quanto
permettono il passaggio dall'uomo a Dio: l'anima è un
demone, l'uomo, astraendosi il più possibile dalla natu­
ra corporea, diviene un demone, il demone a sua volta
diviene un dio, l'uomo quindi può divenire Dio. Qui
sta il nucleo fondamentale della filosofia apuleiana: i
demoni sono al centro della teologia e si confondono
con gli dei stessi. La demonologia salva il politeismo
tradizionale, conservando la superiorità e la trascen­
denza della divinità suprema, ma questi dei pratica­
mente hanno una realtà solo quando sono definiti come
demoni (Vallette, pp. 258 ss.).
In questo particolare momento storico, il n sec. d.C.,
il misticismo ha soppiantato l'antico razionalismo, la
teologia non si distingue dalla filosofia e tutti gli inte­
ressi speculativi convergono verso un unico fine: la
conoscenza di Dio. Apuleio interpreta magistralmente

18
l'esigenza della nuova religiosità mistica e irrazionale
propria del suo tempo e del suo ambiente culturale.
Secondo gli studiosi di Apuleio Il demone di Socrate
assume una posizione centrale nell'ambito della filoso­
fia del medioplatonismo. P. Vallette (Parigi 1908)
dopo aver esaminato l'evolversi della dottrina demo­
nologica nelle varie correnti filosofiche e i diversi
elementi che in essa sono confluiti, considera quest'o­
pera come un tentativo di sistemazione finale e defini­
tiva della demonologia. G. Barra (pp. 67 ss.) sottolinea
giustamente la serietà e la sofferta partecipazione con
cui il filosofo madaurense affronta il problema demo­
nologico inserendolo in quello più vasto del divino,
«preoccupato di tracciare all'uomo incerto e smarrito
la via della verità». E questa serietà non era sfuggita,
afferma il Barra, agli antichi, dal momento che S.
Agostino (La città di Dio VIII, 14) pur confutando
l'opera di Apuleio, ne riconosceva l'importanza e af­
fermava che Apuleio per primo aveva composto un'o­
pera organica sul demone socratico raccogliendo ed
organizzando in modo unitario le notizie sui demoni
sparse qua e là nelle opere degli autori precedenti. Lo
stesso merito gli riconosce F. Andres nel suo articolo
«Daimon» (pp. 267-322), che ancor oggi può conside­
rarsi per la ricchezza dell'informazione una delle più
complete ed esaurienti sintesi della storia della demo­
nologia. In particolare l'Andres sottolinea la superiori­
tà del Demone di Socrate su tutti gli altri trattati di
demonologia pervenutici dall'antichità classica. Il me­
rito di Apuleio consiste proprio nell' organicità con cui
ha trattato l'argomento inserendolo in una più ampia
concezione cosmologica e teologica che giustifica la
funzione mediatrice dei demoni. Su un analogo piano
di apprezzamento senza riserve si muove il discorso,

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particolarmente competente e chiarificatore, di J.
Beaujeu (pp. 5 ss.) dove si afferma che «il piano seguito
da Apuleio è netto e assai ben equilibrato, va dal gene­
rale al particolare; dopo aver tracciato il quadro cosmo­
logico e teologico, Apuleio espone una teoria generale
dei demoni, poi tratta del demone di Socrate, infine egli
trae in qualche modo la conclusione pratica del suo
studio... [Il demone di Socrate] è una specie di manuale
di ciò che un uomo illuminato deve sapere sui demoni,
più conciso e sistematico del Genio diSocrate di Plutar­
co, più elegante e più ricco delle Dissertazioni di Massi­
mo di Tiro».
Permane comunque, e non a torto, il dubbio da parte
di alcuni studiosi moderni, sul valore rigorosamente
speculativo delle opere filosofiche di Apuleio; in parti­
colare per quanto riguarda Il demone di Socrate, il
dubbio è alimentato dal carattere e dallo stile retorico
di questo trattato, che vuol essere prima di tutto la
brillante conferenza di un retore di professione, dotato
di consumata abilità oratoria, capace di un linguaggio
ornato e poetico tale da assicurare un sicuro successo di
pubblico. «Certo non bisogna lasciarsi ingannare dal
termine "filosofia" ... La filosofia di questa conferenza
apuleiana, pur non mancando di una certa chiarezza
espositiva, è quella che gli studiosi tedeschi son soliti
definire "filosofia popolare": un atteggiamento cultu­
rale che ha poco di filosofico in senso stretto, ma
attinge di preferenza, entro un quadro monotono di
luoghi comuni della filosofia morale, a elementi lettera­
ri, eruditi storici, aneddotici, pseudoscientifici» (C.
Mqreschini, Apuleio e il Platonismo, p. 19).
E probabile che nell'opera di Apuleio coesistano
entrambi gli aspetti, la conferenza brillante e la specu­
lazione filosofica impegnata: in questo consiste l'origi-

20
nalità e il carattere singolare del trattato sul demone
socratico.

Cenni biografici. Mricano di Madauro, Apuleio nac­


que intorno al 125 d.C. da una famiglia benestante;
studiò prima retorica a Cartagine, si recò in seguito ad
Atene per perfezionare i suoi studi soprattutto in
ambito filosofico. Ebbe l'ambizione di conseguire una
cultura universale ed enciclopedica, unendo la retorica
alla filosofi!!, com'era stato un tempo costume degli
antichi Sofisti, e sempre vantò la sua capacità di tratta­
re ogni genere letterario, in prosa e in poesia, in latino e
in greco, ma più di tutto desiderò raggiungere una
chiara fama di filosofo, «platonico», come egli stesso
amava definirsi.
Dopo il periodo ateniese intraprese una lunga serie
di viaggi, spinto dal suo temperamento inquieto e da
una insaziabile curiosità per ogni nuova forma di espe­
rienza e di sapere. Fu a Roma, dove esercitò la profes­
sione di avvocato conquistandosi una grande notorie­
tà. In seguito tornò in Mrica, ad Oea conobbe e sposò
la ricca vedova Pudentilla attirandosi l'accusa di magia
da parte dei parenti della moglie, quasi avesse plagiato
con arti magiche e incantesimi di vario genere la volon­
tà della vedova inducendola a sposarlo. La causa si
tenne a Sabratha, al tempo di Antonino Pio, probabil­
mente fra il155 e il 158 d.C.: in questa occasione fu lui
stesso a pronunciare in tribunale la sua autodifesa, Pro
se de magia liber, o Apologia, ottenne l'assoluzione e
consolidò ancor di più la sua fama di brillante confe­
renziere.
Negli anni seguenti Apuleio arricchi le sue cono­
scenze in campo scientifico, naturale e filosofico, si
interessò di magia, di demonologia e di culti misterici,

21
fu sacerdote del dio Asclepio, si interessò probabil­
mente all'ermetismo, senza trascurare anche altri culti
misterici di carattere iniziatico, la cui diffusione era a
quei tempi particolarmente estesa nel mondo greco­
romano. Visse i suoi ultimi anni a Cartagine sempre
circondato dall'ammirazione generale, continuando
con successo la sua attività di retore-conferenziere e
ricoprendo importanti cariche religiose.
Le sue opere, numerose e di vario genere, retoriche,
filosofiche, religiose, letterarie, scientifiche, scritte in
latino e in greco, sono andate in parte perdute. A noi è
pervenuta solo una parte di questa vasta produzione: i
trattati filosofici: Platone e la sua filosofia (De Platone et
eius dogmate), Il demone di Socrate (De dea Socratis), Il
mondo (De mundo); le opere retoriche: Apologia (pro se
de magia liber), Florida; il romanzo intitolato Metamor­
fosi o L'asino d'oro.
Platone e la sua filosofia appartiene a una tradizione
di filosofia scolastica, di testi divulgativi e manualistici
che miravano a illustrare e diffondere la dottrina di
Platone, contaminandola con altre dottrine filosofiche
e religiose.
Il mondo è una traduzione o un rifacimento in lingua
latina di un trattato pseudo-aristotelico, llEQÌ. XO<Jf.A.OU,
redatto fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.; consiste in
un'esposizione piuttosto sommaria della cosmologia e
della teologia aristoteliche, ma attinge altresl ad altre
dottrine filosofiche.
Della produzione oratoria, oltre al de magia, ci è
pervenuta una piccola antologia di ventitrè brani tratti
da orazioni e conferenze, intitolata Florida.
Nessuna opera però ci dà pienamente la misura della
cosiddetta «apuleianità» di Apuleio quanto le Meta­
morfosi: in questo capolavoro confluiscono infatti tutti

22
i contrastanti aspetti della personalità e dell'arte del­
l'autore.

Il testo. Il demone di Socrate è pervenuto a noi sotto il


nome di Apuleio insieme ad altri opuscoli sempre di
argomento filosofico, quali Platone e la sua dottrina e Il
mondo (a questi fu aggiunto in epoca antica il trattato
ermetico Asclepius), mentre le altre opere retorico-let­
terarie, l'Apologia, i Florida, le Metamorfosi, hanno
avuto una tradizione manoscritta diversa. Solo a parti­
re dal XIV secolo troviamo in alcuni codici l'opera
intera riunita. Esistono circa 20 codici delle tre opere
filosofiche, 12 del solo Demone di Socrate. Il miglior
codice del Demone di Socrate è il Corbeiensis del VII
sec., che purtroppo contiene solo pochi frammenti.
Goldbacher, Rohde e Thomas hanno diviso in tre
gruppi i manoscritti che contengono le opere filosofi­
che: a, b, ç.
Le edizioni più importanti dei testi filosofici sono
dovute a A. Goldbacher (Vienna 1876), P. Thomas
(Lipsia, Teubner, 1908), G. Barra eU. Pannuti (Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia, Napoli, x, 1962-63,
p. 8 1- 14 1) e J. Beaujeu (Parigi, Les Belles Lettres,
1973). Il testo su cui è condotta la presente traduzione
si fonda sull'edizione di J. Beaujeu.
Dal 1907 al 1930 il testo dei trattati filosofici è stato
molto studiato dal punto di vista critico: un elenco di
questi studi si trova nell'Index Apuleianus di W.A.
Oldfather, H.V. Canter e B.E. Perry (pubblicato dal­
l'American Philological Association m, Middletown
1934, p. xv ss.).
Esistono numerose traduzioni francesi, fra cui ricor­
diamo quella di V. Bétoland (Parigi, Garnier, 1861), di
H. Clouard (Parigi, Garnier, 1933), di}. Beaujeu (Pari-

23
gi, Les Belles Lettres, 1973). Fra le traduzioni italiane,
notevole quella di G. Barra e U. Pannuti, con testo
latino a fronte (in Ann. Fac. Lett. Filos., Napoli, x,
1962-63, p. 8 1- 14 1).
Il Demone di Socrate è l'unico dei trattati filosofici di
cui non è mai stata discussa l'autenticità, mentre è stata
oggetto di discussione la data di composizione e il rap­
porto cronologico con le altre opere. La data non può
essere stabilita con precisione, ma il fatto che il testo sia
stato redatto per essere pronunciato di fronte ad un
uditorio di lingua latina, come l'autore stesso dichiara
nel cap. XIV, 150 («sarà preferibile trattare in latino
delle varie specie di demoni... » ) e in altri passi (VI, 133;
XI, 145), ha indotto a ritenere che Apuleio l'abbia com­
posta durante un suo soggiorno a Rotna, dopo gli anni
di studi filosofici trascorsi ad Atene. E però altrettanto
probabile, come sostiene il Beaujeu (p. xxxv) che egli
l'abbia scritta e pronunciata a Cartagine circa nel 160
d.C., per i numerosi punti di contatto, sia nello stile che
nel contenuto, che questo testo mostra con i Florida e
con le Metamorfosi. Secondo quanto sostiene Barra
(pp. 7 1-72) è opportuno rifarsi all'unica opera di cui
abbiamo una datazione sicura, cioè l'Apologia. La data
di questa è da collocare tra il 155 e il158 d.C. Il Demone
di Socrate si presume posteriore soprattutto per un mo­
tivo: nell'Apologia non si fa alcuna menzione del tratta­
to sul demone socratico, nonostante ci sia un passo, il
cap. 43, in cui si parla di demonologia. Se Il Demone di
Socrate fosse stato scritto precedentemente, probabil­
mente Apuleio avrebbe fatto riferimento a questa sua
opera che trattava in modo specifico tale argomento.

BIANCA MARIA CAGLI

24
IL DEMONE DI SOCRATE1

DE DEO SOCRATIS
I. Plato omnem naturam rerum, quod eim; ad 115
animalia praecipua pertineat, trifariam diuisi t
censuitque esse summos deos. Summum, medium et
infimum fac intellegas non modo loci disclusione
uerum etiam naturae dignitate, quae et ipsa neqw�
uno neque gemino modo sed pluribus cernitur.
Ordiri tamen manifestius fuit a loci dispositione.
Nam proinde ut maiestas postulabat, diis inmorta- 116
libus caelum dicauit, quos quidem deos caelites
partim uisu usurpamus, alios intellectu uestigamus.
Ac uisu quidem cernimus

... uos, o clarissima mundi


lumina, labentem caelo quae ducitis annum;

nec modo ista praecipua : diei opificem lunamque,


solis aemulam, noctis decus, seu corniculata seu 117
diuidua seu protumida seu piena sit, uaria ignium
face, quanto longius facessat a sole, tanto largius
conlustrata, pari incremento itineris et luminis,
mensem suis auctibus ac dehinc paribus dispendiis
aestimans ; siue illa proprio sed perpeti candore
pollens , ut Chaldaei arbitrantur, parte luminis
conpos, parte altera cassa fulgoris, pro circumuer-

26
L Platone, considerando l'insieme della natura in relazio­

ne agli esseri superiori che vi dimorano, l'ha divisa in tre parti


e ha posto gli dei al di sopra di tutto2• I termini sommo,
medio e basso si devono intendere non solo in relazione alla
diversità delle sedi, ma anche alla dignità della natura, la
quale a sua volta, si riconosce non sulla base di una o due
caratteristiche, ma di molte. Tuttavia per Platone risultò più
chiaro cominciare dalla definizione delle diverse sedi. Così,
come la loro dignità richiedeva, egli dedicò il cielo agli dei
immortali; fra questi dei celesti alcuni li cogliamo con la
vista, altri li ricerchiamo con l'intelletto'.
E certamente distinguiamo con la vista:

<< .
. voi, o radiose luci del mondo,
.

che guidate la fuga dell'anno attraverso il cielo»,

e non vediamo solamente questi astri supremi: il sole, artefi­


ce del giorno, e la luna, emula del sole, splendore della notte,
ora a foggia di corno, ora mezza, ora crescente, ora intera,
fiaccola dalla varia luminosità, tanto più illuminata, quanto
più è lontana dal sole, che con costante progressione del suo
cammino e della sua luce misura il mese crescendo e poi
calando in ugual misura; sia che brilli di luce propria, ma in

27
tal caso continua, come ritengono i Caldei, e che, luminosa
da una parte, priva di luce dall'altra, mille volte muti il suo
aspetto in rapporto al volgersi del suo volto dal colore diver­
so, sia che totalmente priva di luce propria e dipendente da
un'altra fonte luminosa, assorba come uno specchio con la
sua massa opaca, ma liscia, i raggi del sole, ora obliquo, ora di
fronte, e per usare le parole di Lucrezio:

«emani dal suo corpo una luce non sua»'.

11. Qualunque di queste due teorie sia vera - questo

problema lo esaminerò in seguito- tuttavia nessuno, greco o


barbaro, potrebbe facilmente dubitare che la luna e il sole
siano dei; e non solo noi vediamo questi dei, come ho già
detto, ma anche cinque stelle, che, pur chiamate volgarmen­
te «erranti» dalle persone ignoranti, tuttavia con un corso
immutabile, determinato e costante, descrivono in eterno
orbite quanto mai ordinate, seguendo divini awicendamen­
ti. Infatti nonostante l'apparente diversità del loro cammino,
la velocità è sempre costante ed uguale; e sembrano compie­
re con mirabile awicendamento ora progressioni e ora inve­
ce retrocessioni in rapporto alla disposizione, all'inclinazio­
ne ed all'ordinamento delle loro orbite, che conosce a fondo
chiunque ha esperienza del sorgere e del tramontare degli
astri. In questa stessa categoria degli dei visibili - se sei
d'accordo con Platone- devi collocare anche tutti gli altri
astri:

«Arturo, le piovose Iadi ed entrambe le Orse>>

e tutti gli altri dei sfavillanti di cui vediamo ornato e coronato


il coro del cielo, quando il tempo è sereno, nelle notti adorne
di severo fascino, di grave bellezza, se solleviamo lo sguardo
verso questo perfetto scudo del mondo, come dice Ennio, ad
ammirare le cesellature variopinte di mirabili fulgori. C'è poi
un'altra categoria di dei, che la natura ha sottratto alla nostra
vista, ma che tuttavia possiamo contemplare con la nostra

29
mente attraverso una minuziosa esplorazione, quando più
acutamente indaghiamo con lo sguardo penetrante dell'in­
telletto. Fra questi si trovano quei dodici, di cui Ennio ha
costretto, con una particolare disposizione, i nomi in due
versi:

«Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte,


Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo»

e tutti gli altri dei della stessa categoria, i cui nomi sono ormai
da tempo familiari alle nostre orecchie, mentre i loro poteri
sono compresi dal nostro spirito, una volta percepiti nel
corso della vita gli svariati vantaggi che essi ci procurano,
ognuno di loro in relazione a quelle cose di cui ha cura.

III. Tuttavia la folla degli ignoranti, non iniziata alla filo­

sofia, priva di purezza e di vera capacità di discernimento,


sprovvista di senso religioso e incapace di verità, non ha
riguardo per gli dei, o praticando un culto troppo ossequien­
te o atteggiandosi ad un troppo insolente disprezzo, pavidi
gli uni nella loro superstizione, presuntuosi gli altri nel loro
disprezzo. Infatti tutti questi dei che hanno la loro dimora
nelle sublimi altezze dell'etere, separati e lontani da ogni
contatto umano, sono venerati dalla maggior parte degli
uomini, ma non nel modo dovuto; tutti li temono, ma per
ignoranza, pochi li negano, ma per empietà. Platone conside­
ra questi dei esseri incorporei, animati, senza inizio né fine,
ma eterni nel futuro e nel passato, immuni per la loro stessa
natura da ogni contatto corporeo, destinati per la loro innata
perfezione alla suprema beatitudine, non partecipi di alcun
bene esterno, ma buoni di per se stessi, pronti a realizzare
tutto ciò che si conviene loro con facilità, semplicità, libertà,
da nulla condizionati. Perché dunque tentare adesso di defi­
nire il loro padre, signore e autore di tutte le cose', sciolto da
ogni vincolo del patire e dell'agire, mai costretto all'esercizio
di qualche funzione, quando Platone con la sua celeste
eloquenza e con una dialettica degna degli dei immortali,

31
ribadisce continuamente che solo questo essere non può, per
una incredibile ed ineffabile grandezza della sua maestà,
essere definito, neppure imperfettamente, con nessun gene­
re di discorso6, data la pochezza del linguaggio umano? A
mala pena i saggi, quando con il vigore dello spirito sono
riusciti a distaccarsi dal corpo, per quanto è possibile, arriva­
no a comprendere questo dio, ed anche ciò solo a tratti, come
una luce abbagliante che lampeggia con istantaneo sfavillio
fra le più fitte tenebre.
Lascerò dunque da parte questo argomento, poiché non
solo a me, ma neppure a Platone, mio maestro, fu possibile
trovare parole adeguate alla sua grandezza; dal momento che
la materia supera di troppo le mie modeste possibilità, batte­
rò in ritirata e alla fine ricondurrò il discorso dal cielo alla
terra. Qui l'essere superiore è l'uomo, ma ciò nonostante la
maggior parte degli uomini, trascurando la vera dottrina, si è
lasciata corrompere da errori e nefandezze di ogni genere, si
è macchiata di delitti, e, rifiutando la mitezza naturale della
propria specie, è divenuta così mostruosamente feroce che
nessun animale può sembrare in terra più in basso dell'uo­
mo'. Ma adesso non è il momento di illustrare le colpe
dell'uomo, bensì la suddivisione della natura.

IV. Questi, dunque, gli uomini, abitanti della terra: orgo­

gliosi della loro ragione, forti della loro parola, con anima
immortale e membra mortali, leggeri e inquieti nello spirito,
pesanti e fragili nel corpo, diversissimi per i costumi, ma
simili negli errori, di ostinata audacia, di tenace speranza, dai
vani travagli, dall'instabile sorte, mortali come individui, ma
immortali nell'insieme, se si considera la totalità della specie,
in continuo rinnovamento per il succedersi delle generazio­
ni; per loro vola rapido il tempo, tardi giunge la saggezza,
presto la morte, la vita è piena di pianto•.
Per ora conoscete due generi di esseri viventi: gli dei molto
diversi dagli uomini per la sublime altezza della loro dimora,
l'eternità della loro vita, la perfezione della loro natura, privi
di qualsiasi contatto diretto con noi, giacché smisurata è la

33
distanza che separa le dimore più alte dalle più basse: lassù la
forza vitale è eterna ed invariabile, quaggiù fragile e caduca;
la natura divina è sollevata fmo alla più sublime beatitudine,
mentre la nostra è sprofondata fmo alla più bassa miseria.
Che dire allora? La natura dunque non si è legata intimamen­
te con alcun vincolo? Si è lasciata separare in due parti, la
divina e l'umana, e in qualche modo indebolire da questa
frattura? In effetti, come dice ancora Platone, nessun dio si
mescola agli uomini ed è proprio questo il segno evidente
della loro sublime altezza, che nessun rapporto con noi li
contamina. Alcuni di loro solamente si lasciano percepire dal
nostro debole sguardo, le stelle ad esempio, e gli uomini
ancora discutono della loro grandezza e dei loro colori;
quanto agli altri, invece, solo l'intelletto è in grado di cono­
scerli e non senza difficoltà. Sarebbe proprio fuor di luogo
meravigliarsene, trattandosi degli dei immortali; dal momen­
to che anche fra gli uomini colui che la splendida generosità
della fortuna ha innalzato al di sopra degli altri e sollevato
fino al trono vacillante di un regno e ad un seggio instabile, di
rado si lascia avvicinare e, lontano da ogni estraneo, trascorre
i suoi giorni in un certo senso nel santuario della sua grandez­
za, giacché la familiarità genera disprezzo, la riservatezza
procura ammirazione.

v. E allora in questo caso che cosa mi resta da fare, oratore


-potrebbe obiettare qualcuno di voi-alla luce di questa tua
teoria senz'altro sublime, ma quasi disumana, se è vero che
gli uomini, inesorabilmente respinti lontano dagli dei im­
mortali, sono relegati in questo Inferno terreno al punto che
è loro negato ogni genere di rapporto con gli dei celesti, e
nessuno fra gli abitanti del cielo li assiste, come fa il pastore
con le pecore, il palafreniere con i cavalli, il bovaro con i
buoi, per frenare i più riottosi, curare gli ammalati, aiutare
quelli che hanno bisogno? Nessun dio, tu affermi, interviene
nelle faccende umane: a chi dunque rivolgerò le mie preghie­
re? A chi farò un voto? A chi sacrificherò una vittima? Chi
invocherò durante tutta la mia vita per aiutare i miseri, per

35
proteggere i buoni, per contrastare i malvagi? Chi infine
prenderò, cosa che molto spesso succede, come testimone ai
miei giuramenti?• Forse dirò come l'Ascanio di Virgilio:

«lo giuro per la mia testa, per la quale mio padre


era solito un tempo giurare».

Certamente però tuo padre, o Iulo, poteva ricorrere a


questo giuramento fra i Troiani, legati a lui dalla stirpe, o
magari anche fra i Greci conosciuti in battaglia, ma fra i
Rutuli, che da poco hai conosciuto, se nessuno avrà fede
nella tua testa, quale dio risponderà di te? Forse, come per il
fiero Mesenzio, la tua destra e il tuo giavellotto? Poiché egli
confidava solo in queste due cose con cui combatteva:

«la mia destra è per me un dio e il dardo, che sto per lanciare».

Allontana dei tanto cruenti, la destra stanca di stragi e il


dardo arrugginito dal sangue: né l'una, né l'altro meritano
d'essere invocati nei giuramenti, non giurare per cose come
queste, giacché tale onore spetta solo al dio supremo. Infatti
la parola stessa <<giuramento», «ius iurandum», significa
«promessa di Giove», «lovis iurandum», come dice Ennio.
Che pensi dunque? Giurerò per «Giove-pietra», secondo il
più antico rito romano? Eppure, se è vera l'opinione di
Platone, che un dio non ha mai contatti con l'uomo, sarò
certo più facilmente ascoltato da una pietra che da Giove.

VI. Non fino a tal punto - potrebbe rispondere Platone


per bocca mia a chiarimento della sua dottrina - non fino a
tal punto sostengo che gli dei sono separati da noi ed estranei
alla nostra esistenza, che neppure le nostre preghiere possa­
no giungere fino a loro. Non penso infatti che non si curino
delle faccende umane, ma solamente che non vi partecipino
direttamente. Del resto esistono alcune potenze divine inter­
medie che dimorano in codesto spazio aereo, fra la sublime
altezza dell'etere e la vile bassezza terrena, e che comunicano
agli dei i nostri desideri e i nostri meriti. Hanno ricevuto dai

37
Greci il nome di «demoni» e fra gli abitanti della terra e
quelli del cielo fanno da messaggeri per le preghiere di
quaggiù, per i doni di lassù; avanti e indietro portano di qui
le richieste, di là i soccorsi, interpreti per gli uni e salvatori
per gli altri. Platone afferma nel Simposio10 che sono proprio
loro a determinare tutte le rivelazioni e a regolare i diversi
prodigi della magia e i presagi di ogni genere. E a questa
categoria appartengono quei demoni che, singolarmente,
hanno precise funzioni, ciascuno nell'ambito che gli è stato
assegnato: foggiare sogni, sezionare viscere, regolare voli di
uccelli, ammaestrare nel canto uccelli augurali, ispirare vati,
lanciare fulmini, trarre dalle nubi corruschi bagliori, e in
breve tutto il resto che ci permette di conoscere il futuro.
Certamente dobbiamo ritenere che tutti questi fenomeni
dipendono dal volere, dalla potenza e dall'autorità degli dei,
ma è per merito dell'obbedienza, dell'opera, della funzione
intermediaria dei demoni, che si realizzano.

VII. Infatti è compito loro, e di questo si devono occupare

e prender cura, che, per esempio, Annibale" sia minacciato


in sogno della perdita di un occhio, che le viscere preannun­
cino a Flaminio il pericolo della disfatta, che gli auspici
rivelino ad Atto Navio il prodigio della pietra da affilare, e
così pure che ad alcuni uomini giungano i segni premonitori
del regno futuro, che a Tarquinio Prisco un'aquila copra con
la sua ombra la corona regale, che una fiamma illumini la
testa di Servio Tullio; infine tutte le profezie degli indovini, i
riti espiatori degli Etruschi, la consacrazione di luoghi per­
cossi dalla folgore, gli oracoli in versi delle Sibille. A tutto
ciò, come ho detto, provvedono alcune potenze intermedie
fra gli uomini e gli dei. Infatti non si converrebbe alla maestà
dei celesti, che qualcuno di loro foggiasse un sogno per
Annibale o predisponesse una vittima per Flaminio, o gui­
dasse il volo di un uccello per Atto Navio, o mettesse in versi
gli oracoli per la Sibilla, o volesse togliere a Tarquinio il suo
regale copricapo per poi restituirglielo, o facesse ardere la
fronte di Servio, senza però bruciargliela. Non devono gli dei

39
supremi abbassarsi a cose del genere; questo è il compito
toccato in sorte alle divinità intermedie, che abitano gli spazi
aerei vicini alla terra e al tempo stesso confinanti con il cielo12,
così come gli altri esseri animati hanno la propria dimora in
una regione della natura: nell'etere quelli che volano, nella
terra quelli che camminano.

VIII. Dal momento che esistono quattro elementi ben noti

a tutti", come se la natura fosse stata divisa in quattro grandi


regni, la terra ha dunque i suoi esseri animati, così l'acqua ed
anche il fuoco - secondo Aristotele nelle fornaci ardenti
volteggiano alcuni animali dalle ali minuscole che trascorro­
no tutta la loro vita nel fuoco, nascendo e morendo con
questo-, inoltre una grande varietà di stelle è visibile, come
già ho detto prima, lassù nell'etere, cioè proprio dove il
fuoco arde più puro; perché dunque solamente questo quar­
to elemento, l'aria, che, posta in mezzo, occupa una così
grande estensione, sarebbe stata lasciata vuota dalla natura e
privata dei suoi abitanti? Perché non dovrebbero nascere
anche qui esseri aerei, come ve ne sono di ardenti nel fuoco,
di fluidi nell'acqua, di terreni sulla terra? Infatti attribuire gli
uccelli all'aria, sarebbe certamente un errore, poiché non c'è
alcun uccello che superi nel suo volo la cima dell'Olimpo. E
questo monte, se pure sia considerato il punto più alto della
terra, con la sua altezza massima, misurata verticahnente,
non raggiunge i dieci stadi, secondo le affermazioni dei
geometri, mentre un'immensa massa d'aria si estende fino al
più basso cerchio della luna, che a sua volta costituisce il
punto di partenza delle superiori regioni dell'etere. Che dire
allora di questa immensa massa d'aria, compresa fra la più
bassa !Jrbita della luna e la più alta vetta dell'Olimpo? Che
dire? E possibile che sia priva dei suoi esseri viventi? E sarà
quindi questa parte della natura morta e sterile? Anzi, se tu
rifletti bene, più giustamente definirai anche gli stessi uccelli
animali terrestri, piuttosto che aerei. Infatti si trova sempre
sulla terra tutto ciò che serve alla loro vita: sia il cibo, sia il
nido; l'aria che attraversano volando, è solamente quella più

41
vicina alla terra. Infine la terra è per loro come un porto,
quando hanno stanco il remo dell'ala.

IX. Se quindi di fronte all'evidenza, la ragione ci costringe

ad ammettere anche nell'aria l'esistenza di specifici esseri


animati", non �i resta che discutere infine quali essi siano e di
quale natura. E certo che in nessun modo possono essere di
materia terrena- altrimenti il loro peso li trascinerebbe verso
il basso- né tantomeno di fuoco, perché dal calore sarebbero
spinti verso l'alto. Bisogna dunque immaginare una natura
intermedia, idonea al luogo intermedio in cui dimorano, in
modo che il carattere del luogo si rifletta in quello dei suoi
abitanti. Allora dunque immaginiamo e creiamo col pensiero
corpi di tale struttura, che non abbiano né la pesantezza delle
creature terrestri, né la leggerezza di quelle eteree, ma siano
in qualche modo diversi dalle une e dalle altre, oppure al
contrario misti di ambedue, a seconda che si elimini, oppure
si regoli la mescolanza dei due elementi, ma certamente sarà
più facile concepirne la combinazione piuttosto che l'esclu­
sione. Ne consegue che i corpi di questi demoni avranno una
certa pesantezza, per non salire troppo in alto, ed anche una
certa leggerezza, per non precipitare troppo in basso.

x. E perché non pensiate che io inventi cose incredibili,

alla maniera dei poeti, vi darò subito un esempio di questa


equilibrata condizione intermedia1': qualcosa di non molto
lontano da questa leggerezza corporea noi possiamo osserva­
re nelle nubi che si addensano, che se fossero così leggere
come le sostanze assolutamente prive di peso, mai potrebbe­
ro raccogliersi dense sotto le cime montuose, come spesso le
vediamo fare, cingendo, quasi fossero rotonde collane, la
vetta di un alto monte. D'altra parte se fossero per loro
natura troppo dense e pesanti, senza la mescolanza di alcun
principio di leggerezza capace di sollevarle in alto, certamen­
te cadrebbero di colpo per il loro peso, come una massa di
piombo o una pietra, e si infrangerebbero al suolo. Invece,
sospese e mobili, vagano sospinte dai venti ora qua, ora là,

43
come navi, attraverso il grande mare dell'aria, e mutano
impercettibilmente d'aspetto con l'avvicinarsi o con l'allon­
tanarsi. Quando sono gonfie di una certa quantità di acqua,
si abbassano come per dare alla luce il proprio parto. Così le
nubi cariche d'acqua si muovono radenti al suolo, cupa
schiera dal lento procedere, le più asciutte invece corrono
più in alto, simili a fiocchi di lana, bianca schiera dall'agile
volo. Non avete mai sentito i bei versi di Lucrezio sul tuono?

«Prima è squassato dal tuono l'azzurro del cielo,


perché volando in alto le eteree nubi
irrompono in mezzo alle lotte dei venti».

XI. Se si librano in alto le nubi, che pure hanno origine


solo dalla terra ed alla terra ritornano alla fine della loro
esistenza, che pensare dei corpi dei demoni formati da un
aggregato molto più sottile?16 Effettivamente non sono costi­
tuiti, come le nubi, da impuri vapori e umida nebbia, ma
dall'elemento più puro dell'aria, il più limpido, il più sereno,
e perciò sono invisibili a tutti gli uomini, a meno che non vi
sia un motivo importante o che la volontà divina non li spinga
a mostrarsi spontaneamente, poiché non hanno alcuna terre­
stre opacità, che abbia preso il posto dalla luce, e che possa
opporre un ostacolo ai nostri occhi e arrestare i nostri sguar­
di, quando inevitabilmente vi si imbattono; la trama dei loro
corpi è così trasparente, luminosa e sottile, che lascia passare
tutti i raggi della nostra vista attraverso la sua trasparenza, li
riflette con la sua lucentezza, e li vanifica con la sua sottigliez­
za. A questa specie appartiene la famosa Minerva america,
che si introduce fra i Greci radunati per trattenere Achille. Se
avete pazienza un attimo vi traduco in latino il verso greco­
eccolo qui di seguito: Minerva dunque, come ho già detto,
arriva per ordine di Giunone a calmare Achille:

«Solo a lui è visibile, nessun altro la vede»

45
Sempre a questa specie appartiene anche la famosa Giu­
turna di Virgilio, che si aggira in mezzo alle migliaia di soldati
per portare aiuto al fratello,

«E si mescola ai guerrieri e da nessuno si lascia vedere»

proprio come il soldato di Plauto vanta gli effetti del suo


scudo

«che abbaglia gli occhi dei nemici)>.

XII. Per non continuare più a lungo nella mia enumerazio­

ne, dirò che a questo genere di demoni'7 solitamente si


ispirano i poeti per rappresentare, senza allontanarsi affatto
dalla verità, alcuni dei avversi ed altri favorevoli a determina­
ti uomini: dei che perseguitano e abbattono gli uni, che
favoriscono e innalzano gli altri, che provano anche compas­
sione, indignazione, angoscia, gioia, e tutti i sentimenti del­
l'animo umano, e, come noi, ad ogni ondeggiare di pensieri
sono sballottati dalle emozioni del cuore e dai turbamenti
dello spirito, turbamenti e tempeste che sono del tutto lonta­
ni dalla serenità imperturbabile degli dei celesti. Tutti gli
abitanti del cielo godono di una condizione dello spirito
sempre uguale e di una calma eterna, mai si lasciano trascina­
re dal dolore o dal piacere fuori dei propri confini, o deviare
dalla loro condotta costante verso qualche atteggiamento
improvviso, né per una costrizione esterna - perché niente
esiste di più potente di un dio-, né di loro spontanea volontà
- perché niente esiste di più perfetto di un dio. D'altra parte,
come si potrebbe considerare perfetto un essere che abban­
donasse la sua precedente condizione per un'altra migliore?
Nessuno da sé cerca situazioni nuove, se non è insoddisfatto
delle passate. Un simile mutamento di atteggiamento non
può verificarsi senza il rifiuto del passato. Perciò un dio non
deve provare alcuna temporanea affezione di odio o di amo­
re, né quindi lasciarsi toccare da sdegno o da pietà, né
stringere da alcuna angoscia, né entusiasmare da alcuna

47
gioia: libero da ogni passione non deve mai soffrire, né gioire
un istante, né volere o rifiutare all'improvviso qualcosa.

XIII. Tutte queste emozioni invece e le altre dello stesso

genere ben si addicono alla condizione intermedia dei demo­


ni'". Essi si trovano infatti a mezza strada fra noi e gli dei, sia
per la sede che occupano, sia per la natura del loro spirito:
hanno in comune con gli esseri superiori l'immortalità, con
quelli inferiori le passioni. Come noi possono provare tutto
ciò che appaga o che stimola l'animo: sono eccitati dall'ira,
piegati dalla pietà, allettati dai doni, inteneriti dalle preghie­
re, irritati dalle offese, placati dagli onori, e, come noi,
soggetti a tutti gli altri mutamenti dell'animo. Per darne una
definizione: i demoni sono, quanto alla specie, esseri anima­
ti, dotati di facoltà razionali, il loro animo è soggetto alle
passioni, il loro corpo è d'aria, la loro vita eterna. Di queste
cinque qualità, or ora ricordate, hanno in comune con noi le
prime tre, la quarta è propria della loro specie, l'ultima è in
comune con gli dei immortali, dai quali però si distinguono,
perché suscettibili di passioni. Se io li ho definiti con ragione,
come credo, suscettibili di passioni, è perché come noi sono
soggetti ai turbamenti interiori.

XIV. Da ciò deriva che le diverse pratiche religiose e le

innumerevoli varietà di sacrifici meritano ugualmente fede19•


Sicuramente fra questi esseri divini c'è chi si rallegra di essere
onorato di notte e chi di giorno, chi in pubblico e chi in
segreto, chi nell'allegria e chi nella tristezza, con vittime, o
con cerimonie, o con altri riti: così per esempio le divinità
egiziane amano le lamentazioni, quelle greche di solito le
danze, quelle barbare il rumore dei cimbali, dei timpani e dei
flauti. Altrettanto, secondo i paesi, i riti sacri presentano
anche negli altri aspetti una gran varietà: lunghe e solenni
processioni, il silenzio dei misteri, le funzioni dei sacerdoti, le
regole da osservare nei sacrifici; lo stesso per le immagini e gli
ornamenti delle divinità, le consacrazioni e le collocazioni
dei templi, l'uccisione e il colore delle vittime. Tutto questo è

49
stato sancito dalla tradizione di ogni paese con riti solenni ed
immutabili, poiché spesso sogni, predizioni e oracoli ci fanno
sapere che gli dei frequentemente si adirano, quando è
commessa qualche negligenza nella celebrazione del culto,
per trascuratezza o presunzione. In questo campo ho esempi
in gran quantità, ma talmente noti e ripetuti, che, a volerli
ricordare, si rischia di tralasciarne assai più di quanti se ne
potrebbe enumerare.
Perciò non indugerò per ora a parlare di questi argomenti,
che se non riscuotono sicuro credito presso tutti, a quasi tutti
sono però almeno noti. Sarà preferibile trattare in latino delle
varie specie di demoni citate dai filosofi20, perché acquisiate
una conoscenza più chiara e più completa intorno alla pre­
scienza (senso di presentimento) di Socrate e al nume che
aveva am1co.

xv. In un certo senso anche l'anima umana, quando anco­


ra dimora nel corpo, può essere definita demone'1•

« . Sono forse gli dei, o Eurialo, ad ispirare questo ardore nel mio
..

animo oppure ciascuno fa un dio del suo funesto desiderio?»22

Così dunque un buon desiderio dell'animo è un buon dio.


Da qui alcuni ritengono- come ho già detto sopra- che sono
definite eudaimones le persone felici, che possiedono un
buon demone, cioè un'anima perfettamente virtuosa. Nella
nostra lingua si può dare a questo demone il nome di Genio:
questa è una traduzione personale, forse non proprio felice,
di cui comunque mi assumo completamente il rischio: poi­
ché questo dio, che per ciascun uomo è la propria anima,
sebbene immortale, è in qualche modo generato insieme
all'uomo; così le preghiere rivolte al Genio e alle ginocchia
mi sembrano una prova della nostra doppia e complessa
natura, in quanto comprendono in queste due parole il corpo
e l'anima, dalla cui stretta unione siamo costituiti.
In un secondo significato fa parte dei demoni anche l'ani­
ma umana, che, compiuta la militanza di vita terrena, si

51
distacca dal corpo2}; questa, nell'antica lingua latina, la trovo
comunemente definita Lemure. Fra questi Lemuri, dunque,
a quelli che hanno avuto in sorte il compito di vegliare sui
propri discendenti, e che con la loro potenza pacifica e
tranquilla governano la casa, si dà il nome di Lari familiari,
altri invece, per i loro misfatti sulla terra, non possiedono
alcuna dimora e sono condannati ad errare in balia del caso,
come in esilio, vano spauracchio per gli uomini buoni, ma
flagello per i malvagi, e a questi si dà generalmente il nome di
Larve. Quando poi è incerto quale compito abbiano avuto in
sorte, se siano cioè Lari o Larve, allora si dà loro il nome di
dei Mani; ovviamente l'epiteto di dio è a titolo onorifico,
perché di questa categoria si chiamano dei solo quei demoni,
che, dopo aver condotto con giustizia e saggezza il corso
della loro vita, sono stati considerati dagli uomini come
esseri divini e in seguito onorati di templi e di riti, che tutti
possono vedere: così Anfiarao in Beozia, Mopso in Mrica,
Osiride in Egitto, chi in un paese, chi in un altro, Esculapio
ovunque.

XVI. Questa classificazione riguarda però solo i demoni

che hanno avuto un tempo dimora in un corpo umano. Ve ne


sono altri, per niente inferiori di numero, molto superiori di
dignità, di una specie più elevata e più nobile2', sempre liberi
da catene e legami corporei, che curano determinate funzio­
ni. Tali sono il Sonno e l'Amore, che esercitano poteri con­
trari: l'Amore tiene svegli, il Sonno fa dormire. Da questa
superiore categoria, dunque, secondo Platone, provengono
quei demoni che sono stati assegnati ai singoli uomini come
testimoni e custodi nel corso della vita, invisibili a tutti,
continuamente presenti come spettatori di ogni nostra azio­
ne ed anche di ogni nostro pensiero. Quando poi alla fine
della vita, bisogna prendere la via del ritorno, quello stesso
demone, che ci fu assegnato, subito ci porta via e trascina la
nostra persona come un suo prigioniero dinanzi al tribunale
e là ci assiste durante il nostro processo, se mentiamo ci
riprende, se diciamo la verità ci sostiene: insomma è la sua

53
testimonianza che determina la sentenza. Così dunque voi
tutti, che ascoltate la divina dottrina di Platone attraverso le
mie parole, sappiate bene, nel disporre il vostro animo ad
ogni azione e pensiero, che con tali guardiani l'uomo non
può avere alcun segreto, né all'interno del suo cuore né fuori:
il demone prende parte a tutto con curiosità, indaga su tutto,
tutto intende, e, come fosse la coscienza, si aggira nei più
profondi recessi della nostra anima. Questo guardiano per­
sonale, di cui parlo, che sorveglia ogni singolo uomo, lo
assiste da vicino, lo protegge individualmente, lo conosce nel
profondo, lo osserva assiduamente, inseparabile spettatore e
inevitabile testimone, che biasima il male e approva il bene,
se a lui dedichiamo tutta la nostra premurosa attenzione ed
un vivo interesse a conoscerlo, se lo onoriamo con profonda
religiosità, come Socrate ha onorato il suo demone con la
giustizia e la purezza dell'animo, sarà per noi un consigliere
nelle situazioni incerte, una guida profetica nelle difficoltà,
un protettore nei pericoli, un aiuto nelle necessità, che può
intervenire, ora con sogni, ora con segni premonitori, ora
anche palesemente, se il bisogno lo richiede, per allontanare i
mali e promuovere il bene, sollevare l'animo abbattuto e
sorreggerlo, se incerto, illuminarlo nel buio, guidare la buo­
na fortuna e correggere la cattiva.

XVII. C'è dunque da meravigliarsi, se Socrate, uomo vera­

mente perfetto e - come lo stesso Apollo ci attesta - saggio


fra tutti, ha conosciuto e onorato questo suo dio personale?"
E se per questo motivo, il suo guardiano, che io chiamerei
quasi Lare familiare e domestico, ha allontanato da lui tutti
gli ostacoli da rimuovere, ha preso tutte le precauzioni da
prendere e ha dato in anticipo tutti gli avvertimenti necessa­
ri? Questo accadeva quando, divenuta insufficiente la fun­
zione della saggezza, Socrate aveva bisogno, non di un consi­
glio, ma di un presagio e voleva l'appoggio della divinazione,
se l'incertezza lo faceva vacillare. Molti in effetti, molti sono i
casi in cui anche i saggi ricorrono agli indovini e agli oracoli.

55
Forse non vedi chiaramente in Omero, come in un immen­
so specchio, questa separazione fra i due compiti, da una
parte quello della divinazione, dall'altra quello della saggez­
za? Quando la discordia divampa fra i due eroi che sono i
pilastri di tutto l'esercito, Agamennone, il re potente, e
Achille, il forte guerriero, e si cerca un uomo ammirato per la
sua eloquenza e celebre per la sua saggezza, che plachi
l'orgoglio dell'Atride e freni il furore del Pelide, che impon­
ga a tutti e due la sua autorità, li spinga a riflettere valendosi
di qualche esempio, li plachi c�m le sue parole, chi mai, in tale
circostanza, si alza a parlare? E l'oratore di Pilo, dall'eloquio
affascinante, dalla consumata esperienza, dalla venerabile
vecchiaia; il suo corpo - tutti lo sapevano - era indebolito
dagli anni, ma il suo spirito era vigoroso per la saggezza, le
parole erano piene di dolcezza.

XVIII. Altrettanto, quando in una situazione critica e -di­

sperata bisogna scegliere degli esploratori che nel cuore della


notte si introducano nel campo nemico, non vengono forse
scelti Ulisse e Diomede, perché incarnano il pensiero e
l'azione, la mente e il braccio, l'intelligenza e la spada? Ma
quando invece i Greci, bloccati nei pressi di Aulide, costretti
all'inattività e prossimi a cedere allo scoraggiamento, devono
valutare le difficoltà della guerra, le possibilità di traversata,
la calma del mare e la clemenza dei venti dai presagi delle
viscere, dal volo degli uccelli e dal pasto dei serpenti, allora
tacciono entrambi, queste due cime della saggezza greca, il re
di Itaca e quello di Pilo; è Calcante, il più illustre degli
indovini, che, osservando gli uccelli, l'altare e l'albero, riesce
immediatamente, grazie alla sua arte divinatoria, ad allonta­
nare la tempesta, a far salpare la flotta e a profetizzare
l'assedio di dieci anni. Non diversamente succede nel campo
troiano, quando le circostanze impongono di ricorrere alla
divinazione: tace quel senato così saggio, nessuno ha il corag­
gio di dire una parola, né lcetaone, né Lampone, né Clizio,
ma tutti in silenzio ascoltano le sgradite predizioni di Eleno o
le profezie di Cassandra, destinate a non essere mai credute.

57
Nello stesso modo anche Socrate, quando si presentava un
problema di natura estranea alla filosofia, in quel caso sentiva
il bisogno di ricorrere al potere profetico del suo demone; ne
seguiva però scrupolosamente gli ammonimenti e si rendeva
in tal modo tanto più gradito al suo dio.

XIX. Perché questo demone cercasse soprattutto di tratte­

nere Socrate da talune azioni e mai di spingerlo ad agire in


qualche modo, l'ho già spiegato prima. Socrate infatti, uomo
perfetto tra tutti26, sempre pronto a compiere i suoi doveri,
non aveva mai bisogno di sproni, ma piuttosto di freni,
soprattutto se qualche rischio poteva nascondersi in una
delle sue azioni: bisognava ammonirlo a stare attento e ad
abbandonare i suoi disegni per il momento, per riprenderli
in considerazione in seguito e affrontarli per altra via con
maggior sicurezza.
In simili occasioni egli asseriva di udire «una specie di voce
di origine divina»- così leggiamo in Platone-, ma evitiamo
di credere che Socrate andasse raccogliendo presagi dalle
labbra di chiunque. Anzi, una volta in cui si trovava solo con
Fedro, fuori le mura della città, sotto l'ombra di un folto
albero, presente nessun altro, awertl quel segno premonito­
re, che gli raccomandava di non attraversare l'esigua corren­
te dell'Ilisso prima di aver placato, con il canto di una
palinodia, Amore, sdegnato per le sue invettive; inoltre se
egli avesse dato ascolto ai presagi, talora ne avrebbe ricavato
anche delle esortazioni, come si vede capitare ai più, che, con
eccessiva superstizione nei confronti degli oracoli, si lasciano
guidare dalle parole altrui piuttosto che dal proprio animo: si
aggirano nelle viuzze, vanno raccogliendo consigli dalle voci
degli altri e, se così si può dire, pensano non con la mente, ma
con le orecchie.

xx. In ogni caso certamente queste persone, quando si

tratta di presagi verbali, ascoltano la voce di un indovino, dal


suono familiare alle loro orecchie, e non possono dubitare un

59
istante che provenga da una bocca umana. Socrate, invece,
non ha detto che egli percepiva <mna voce», bensì <mna
specie di voce»; da questa precisazione si capisce perfetta­
mente che egli non voleva parlare di una voce comune,
umana. In tal caso <mna specie di» sarebbe stata una aggiunta
superflua ed egli avrebbe piuttosto detto «una voce>> o tutt'al
più <da voce di qualcuno» come la cortigiana di Terenzio:

«Mi è parso di sentire la voce del mio soldato».

Ma quando si dice di aver udito «una specie di voce», o si


ignora donde provenga, o si dubita della sua realtà, o si
sottolinea in quella la presenza di qualcosa di strano e di
misterioso, come per la voce di cui parlava Socrate, che-egli
diceva-proveniva a lui dagli dei al momento opportuno. Io
credo d'altra parte che egli percepisse i segni del suo demone
non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi, perché assai
spesso gli si manifestava-secondo le sue dichiarazioni-non
una voce, bensì un segno divino27• Questo segno avrebbe
potuto essere l'apparizione del demone stesso, visibile a
Socrate solamente, come Minerva lo era per l'Achille di
Omero. Credo che la maggior parte di voi esiti a credere ciò
che ho appena detto e si meravigli molto del fatto che
qualche volta questo demone si sia mostrato a Socrate nel
suo aspetto. I Pitagorici, d'altra parte - lo afferma un testi­
mone particolarmente autorevole, io penso, come Aristotele
-si meravigliavano spesso assai di chi diceva di non aver mai
visto un demone. Se dunque chiunque può avere la possibili­
tà di contemplare una figura divina, perché un tale privilegio
non poteva capitare a Socrate, che la sublime saggezza aveva
reso uguale alle più grandi divinità?2" Niente c'è infatti di più
simile e di più caro ad un dio di un uomo dall'animo perfetto,
di tanto superiore a tutti gli altri uomini, quanto egli stesso è
lontano dagli dei immortali.

XXI. Perché piuttosto, sull'esempio e nel ricordo di Socra­


te, non proviamo anche noi ad elevarci dedicandoci al bene-

61
fico studio della filosofia e cercando di somigliare come lui
alla divinità?>" Non so quale ragione ce lo impedisca. E niente
mi meraviglia più di questo: tutti gli uomini desiderano
vivere nel modo migliore, tutti sanno che solo l'anima è la
vera fonte di vita e che è impossibile vivere nel modo miglio­
re senza coltivare la propria anima, eppure non la coltivano.
D'altra parte chiunque vuole avere una vista acuta deve
prendersi cura degli occhi, che servono per vedere; chi vuole
correre velocemente deve necessariamente aver cura dei
propri piedi, che gli servono per correre, altrettanto chi
vuole essere un pugile gagliardo, deve rafforzare le braccia
con le quali si danno i pugni. Lo stesso deve essere per tutte
le altre parti del corpo: ognuno deve curarle in base alle
proprie aspirazioni. Questo facilmente tutti gli uomini lo
capiscono con chiarezza; perciò io non posso fare a meno di
chiedermi, e giustamente con stupore, perché non curano
con l'aiuto della ragione anche la propria anima. Questo
criterio razionale di vita è ugualmente necessario per tutti,
mentre non è la stessa cosa per quanto riguarda i criteri della
pittura o della musica, che qualunque uomo onesto può
trascurare senza rischio di biasimo, onta e vergogna. Non so
suonare il flauto come Ismenia, ma non mi vergogno di non
essere un flautista; non so dipingere con i colori, come
Apelle, ma non mi vergogno di non essere un pittore; così
per le altre arti, per non enumerarle tutte, tu puoi ignorarle
senza arrossire di vergogna.

XXII. Al contrario prova a dire: «non so vivere bene, come

hanno vissuto Socrate, Platone, Pitagora'", né mi vergogno di


non saperlo fare»; non oserai mai dirlo. Questo particolar­
mente fa meraviglia: che gli uomini trascurino proprio quel­
l'arte, che non vogliono a nessun costo sembrare di ignorare,
e ne disprezzino al tempo stesso sia lo studio, sia l'ignoranza.
Facciamo dunque il conto dettagliato delle loro spese quoti­
diane: troverai un grande spreco di denaro senza che abbia­
no acquistato niente per se stessi, voglio dire per il culto del
proprio demone", culto che altro non è, se non l'iniziazione

63
alla filosofia. Certo, essi costruiscono lussuose case di cam­
pagna, ornano le loro abitazioni di città con gran sfarzo, si
circondano di uno stuolo innumerevole di servi. Ma in mez­
zo a tutti questi splendori, a tutta questa abbondanza di beni,
nulla c'è che susciti vergogna tranne il padrone stesso, e a
ragione: infatti queste persone hanno cumuli di ricchezze a
cui dedicano un culto assiduo, mentre loro stesse se ne vanno
in giro selvagge, ignoranti e incolte. Guarda dunque in che
cosa hanno profuso il loro patrimonio: dimore piacevolissi­
me, eleganti e di grandi dimensioni, ville così ampie da
competere con una città, case ornate come templi, servi
innumerevoli e riccioluti, una suppellettile fastosa, e tutto
abbondante, tutto opulento, tutto raffinato, eccetto il padro­
ne di casa: lui solo, come Tantalo, è bisognoso, povero,
misero, in mezzo alle sue ricchezze, e se pure non cerca di
afferrare quell'onda fuggente e non ha sete dell'acqua ingan­
nevole, ha fame e sete della vera felicità, cioè di una vita felice
e di una ricca saggezza. Non capisce che bisogna valutare i
ricchi come si acquistano i cavalli al mercato.

XXIII. Quando noi infatti compriamo un cavallo, non

consideriamo i pendagli della bardatura, né i lucenti orna­


menti del pettorale, né la ricchezza degli accessori che ador­
nano il collo, neppure stiamo a guardare se pendono monili
variegati d'oro, d'argento e di gemme, o se finimenti lavorati
con arte cingono la testa e il collo, se il morso è cesellato, la
sella purpurea, le cinghie dorate. Al contrario, fatte togliere
tutte queste bardature, osserviamo il cavallo in sé, nudo, solo
il suo corpo e la sua indole, che sia bello d'aspetto, vivace per
la corsa, vigoroso per il tiro. Si comincia dal corpo e guardia­
mo se l'animale ha:

«Sottile la testa, snello il ventre e la groppa ben piena,


e il focoso petto di bell'animale si gonfia di muscoli»";

inoltre se per i lombi corre duplice la spina dorsale: voglio


infatti una cavalcatura dolce e non solo veloce.

65
Lo stesso dev'essere quando si esamina un uomo: non
tenere alcun conto di quegli elementi che non gli sono
propri, ma considera l'uomo in se stesso, fin nel fondo del
suo essere, povero come il mio Socrate". Io chiamo estranei
all'uomo quei privilegi che sono procurati dai genitori o
elargiti dalla fortuna; nessuno di questi io confondo con i
meriti del mio Socrate: né nobile nascita, né lignaggio, né
antica origine, né ricchezze invidiabili. Tutte queste cose,
come ho detto, non sono proprie dell'uomo. Abbastanza
gloria possiede il figlio di Portaone": egli fu tale che il nipote
non dovette arrossire di lui. Allo stesso modo potrai conside­
rare elementi estranei all'uomo tutti questi privilegi: «è nobi­
le)>, tu fai l'elogio dei suoi genitori, «è riccm), non mi fido
della fortuna. Né tengo più conto di questi che seguono: «è
robustm), una malattia può indebolirlo; «è veloce)>, in vec­
chiaia non si muoverà; «è bellm>, aspetta un po' e non lo sarà
più. «Ma è erudito alle buone arti e educato alla virtù, è
saggio ed esperto del bene per quanto ad un uomo è possibile
esser tale)>, finalmente lodi l'uomo in se stesso. Questi meriti
infatti non sono ereditati dal padre, né dipendono dal caso,
né si guadagnano per un anno in seguito ad un voto, non
sono deperibili insieme al corpo, né mutevoli con l'età.
Questi meriti il mio Socrate li possedeva tutti, per questo
disprezzò il possesso di quegli altri".

XXIV. Perché dunque non ti dedichi anche tu, e in fretta,

allo studio della saggezza? Così almeno non ti sentirai lodare


per meriti a te estranei, e chi ti vorrà rendere famoso dovrà
lodarti nello stesso modo in cui Accio ha lodato Ulisse nel
suo Filottete, all'inizio di quella tragedia:

«0 illustre eroe, nato da un'umile patria,


potente per il celebre nome e il nobile
cuore, guida delle flotte achee,
vendicatore terribile per la stirpe dardania,
figlio di Laerte? . )>"
. .

67
Il padre è nominato solo alla fine. Hai sentito tutte le lodi
rivolte a quell'eroe: niente di queste può rivendicare a sé o
Laerte, o Antichia, o Arcisio": tutto in questo elogio, come
vedi, appartiene solo ad Ulisse". E niente altro ti insegna
Omero, sempre a proposito di Ulisse, dandogli come compa­
gna inseparabile la prudenza, che, secondo l'usanza dei poe­
ti, ha chiamato Minerva. Sempre con questa per compagna
Ulisse ha affrontato le cose più spaventose ed ha superato
tutte le avversità. Infatti con il suo aiuto entrò nella caverna
del Ciclope, ma anche ne uscì, vide i buoi del Sole, ma non li
toccò, scese agli Inferi e ne risalì; sempre con la saggezza per
compagna passò davanti a Scilla con la sua nave senza essere
da lei rapito, si trovò in mezzo al vortice di Cariddi, ma non
ne rimase prigionero, bevve la coppa di Circe, ma non fu da
questa trasformato, approdò alla terra dei Lotofagi, ma non
vi rimase, udì le Sirene, ma non si avvicinò.

69
NOTE AL TESTO

1 Apuleio intitola il suo trattato sul demone socratico usando il termine


deus (dio) per indicare il demone. Se esaminiamo l'uso che Apuleio fa dei
termini deus e daemon in alcuni passi del Demone di Socrate, vediamo che
sono intercambiabili (dr. XVII, 157; XVIII, 162; XIX, 162; xx, 166). L'uso
della parola deus può essere giustificato dal fatto che ha un significato più
vasto e più generale ed include anche il termine demone, in quanto Apuleio
inserisce i demoni fra gli dei e li considera pur sempre esseri divini, anche se
di natura inferiore agli dei veri e propri, perché intermedi. Ci può essere
però anche un altro motivo: il pubblico di lingua latina a cui è rivolta
l'orazione doveva conoscere poco o niente la dottrina sui demoni e l'uso del
termine demone, che era proprio dei Greci: «Hanno ricevuto dai Greci il
nome di demoni... » (vi, 133), quindi la scelta della parola deus risultava più
accessibile e chiara.
2 La divisione della natura in tre parti è collegata alla gerarchia degli esseri
ed è riferita a Platone, ma secondo Beaujeu (p. 203) niente di simile si ritrova
in Platone, mentre tale collegamento è presente nei suoi discepoli, l'autore
dell'Epinomis e Aristotele; soprattutto la tripartizione apuleiana: cielo, aria,
terra, è simile ad un'altra versione della cosmologia pitagorica, dove le tre
parti del cosmo sono assegnate rispettivamente agli dei, ai demoni e agli
uomini. Risulta pertanto evidente che Apuleio non attinge direttamente a
Platone, ma utilizza testi posteriori e non si preoccupa di citare rigorosa­
mente le sue fonti, come non è rigorosa la sua dipendenza da Platone
neppure quando il riferimento è esplicito.
' Nella classificazione delle divinità (I, II, III, 116-124) Apuleio non è
molto chiaro e coerente. La prima distinzione è fra dei visibili- gli astri-, e
dei invisibili. Gli dei visibili sono, oltre il sole e la luna (cfr. anche Florida
10), gli altri cinque pianeti, <<le cinque stelle ... chiamate volgarmente
erranti>>, e tutte le stelle fisse, «gli altri astri>>, che con le loro luci sfavillanti

71
abbelliscono la volta del cielo nelle notti serene. Troviamo una ricchezza di
citazioni poetiche, da Virgilio, Georgiche, l, 5; Eneide, III, 516; Lucrezio, La
natura, v, 575. Gli dei invisibili «che tuttavia possiamo contemplare con la
nostra mente» sono gli dei della mitologia. Apuleio elenca i dodici dei
canonici della tradizione, e a questi genericamente aggiunge <<tutti gli altri
dei della stessa categoria», la cui conoscenza da pane nostra è basata
essenzialmente sulla costatazione dei loro effetti, cioè <<gli svariati vantaggi
che essi ci procurano». Ma allora sono piuttosto demoni che dei, perché gli
dei «che hanno la loro dimora nelle sublimi altezze dell'etere (sono) separati
e lontani da ogni contatto umano» (III, 123) ed è invece competenza dei
demoni provvedere agli uomini, proteggerli, far conoscere loro il futuro con
prodigi di vario genere. D'altra parte se confrontiamo III, 123 e III, 124,
notiamo una cena confusione anche fra gli dei invisibili e il dio supremo e
trascendente. I confini che dovrebbero definire nettamente le differenze
interne alla gerarchia degli dei, fra dio supremo, dei subalterni e demoni
sono dunque abbastanza vaghi ed imprecisi.
La contraddizione di fondo fra il concetto di un dio trascendente, inattin·
gibile, inconoscibile, ineffabile e la presenza degli dei del politeismo tradi·
zionale definiti anch'essi come <<separati e lontani da ogni contatto umano»
e relegati nelle sublimi altezze del cielo, è risolta da Apuleio attraverso la
dottrina del Timeo 41 a ss., per cui il dio trascendente, unico, è definito
parens di tutti gli altri dei.
4 A proposito del riassunto astronomico che occupa i paragrafi da 116 a
121, Rathke (p. 23 ss.) e Beaujeu (p. 206) osservano che è strutturato nello
stesso modo di un celebre passo del De natura deorum (La natura degli dez)
di Cicerone (n, 19, p. 49 ss.); penanto si suppone o che i due testi derivino
da una fonte comune, forse stoica, o che Apuleio si sia rifatto a Cicerone
stesso direttamente, come avviene per il passo relativo alle fasi della luna che
si ispira a Lucrezio (v, 705 ss.) e a cui segue la citazione testuale dal De rerum
natura (v, 575).
' L'interesse conoscitivo di Apuleio è chiaramente tutto rivolto verso
questo dio parens, «omnium rerum dominator atque aucton> (signore e
autore di tutte le cose), che per l'ineffabile ed incredibile grandezza della sua
maestà, non può essere definito, neppure imperfettamente, con nessun
genere di discorso. Ma come può essere conoscibile un dio che trascende il
mondo sensibile, che è «sciolto da ogni vincolo del patire e dell'agire, mai
costretto da alcuna legge all'esercizio di qualche funzione...»? Cenamente
non mediante i sensi, ma neppure con l'intelletto: la possibilità di conoscere
Dio è un privilegio di pochi ed è affidata a mezzi del tutto irrazionali.
L'elemento indispensabile è costituito da un'elevazione dello spirito umano
al di sopra del sensibile, una momentanea liberazione dai legami corporei,
che si può realizzare solo per il filosofo, il saggio, il quale, vivendo una vita
casta e vinuosa, è in un certo senso simile a Dio e può quindi conoscerlo: <<a
mala pena i saggi ... arrivano a comprendere questo dio, e quasi a tratti,
come si vede una luce abbagliante...»; questo passo mette in luce il carattere
mistico della conoscenza del divino. La fonte di tale concezione è in alcuni
passi del Fedone 64 e 66 d.
-

72
6 In questo passo domina il concetto d'ineffabilità del dio supremo, che è
strettamente connesso con il concetto dell'inconoscibilità. Tale motivo,
ripreso da Platone, Parmemde 142 a e Timeo 28 c, è centrale nel medioplato­
nismo e nel neoplatonismo: è comune ad Apuleio, Albino, Massimo di Tiro,
Numenio, Filone, Plotino e all'ermetismo (Festugière, p. 61 ss., esamina tale
concezione nelle diverse interpretazioni di questi �utori). Di conseguenza si
cerca in qual modo si possa conoscere la divinità. E classica del medioplato­
nismo la teoria delle tre vie: via negationis, via analogiae, via eminentiae,
delle quali la prima è strettamente legata con la concezione negativa di Dio,
per cui Dio non si può definire. In Apuleio non troviamo alcun accenno alla
dottrina delle tre vie, prevale invece il concetto che conoscere Dio è un
privilegio di pochi, affidato a mezzi del tutto irrazionali.
7 La definizione dell'uomo è contraddittoria: in un primo momento viene
definito l'essere superiore sulla terra, in un secondo momento si insiste sulla
sua negatività in modo assai marcato con una terminologia che non lascia
dubbi: nefandezze, delitti («è divenuto così mostruosamente feroce che
nessun animale può sembrare in terra più in basso dell'uomo>> , m, 125).
Beaujeu (p. 212) sottolinea che il primo motivo (l'uomo come il migliore di
tutti gli esseri animati) è ripreso da Platone, Leggi VI, 765 e e x, 902 b, mentre
il secondo, l'enumerazione di tutti i suoi difetti risale ad Aristotele (Politica 1,
2, 1253 a). Come sempre Apuleio attinge a fonti diverse e· mescola concetti
altrettanto diversi con grande disinvoltura.
8 L'assoluta separazione fra uomini e dei è un punto fermo nel mediopla­
tonismo in generale e nel pensiero di Apuleio in particolare: è essenziale
infatti porre e sottolineare questo concetto per introdurre la dottrina demo­
nologica, affermare quindi l'esistenza dei demoni e il loro ruolo di interme­
diari. Il passo di IV, 127 descrive a forti tinte e con angosciosa partecipazione
da parte dell'autore la dolorosa condizione dell'uomo, abitante della terra,
sprofondato nella più bassa miseria, in contrasto con la beata condizione
degli dei, eterni, perfetti, sollevati fino alla più sublime beatitudine, per
giungere alla conclusione che non esiste alcun contatto fra gli uni e gli altri;
perché, come dice Platone (Simposio 203 a 2), «nessun dio si mescola agli
uomini». Apuleio impiega tutta la sua abilità oratoria per rendere partecipe
emotivamente il pubblico che l'ascolta alla sua sconsolata e drammatica
visione, sapendo di colpire un punto debole, proprio della sensibilità del suo
tempo: l'ansia diffusa di una religiosità più profonda, il bisogno impellente
di sentire la divinità vicina all'uomo, presente nella sua vita quotidiana,
partecipe delle sue vicende. Beaujeu ha dimostrato (La politique religieuse
des Antonins, Paris 1955, p. 408 ss.) fino a qual punto il problema della
Provvidenza preoccupava gli animi di quei tempi: «Tacito, Marco Aurelio,
Epitteto espongono ognuno le teorie che si disputano su questo punto i
suffragi del pubblico; il mondo è retto dal caso, da un destino inesorabile ...
dagli dei attenti solo al cammino dell'universo o all'umanità in generale, o a
ciascun individuo?>> (p. 214).
' Se gli dei sono del tutto separati dagli uomini, come potranno pronun­
ciarsi i giuramenti, chi sarà garante dellafides che è la base del giuramento
stesso? Apuleio riporta, come esempi di giuramento, i versi di Virgilio,

73
Eneide IX, 300 e x, 773, e li contesta affermando che <<tale onore spetta solo
al dio supremo>> e, riferendosi ad un verso di Ennio citato da Cicerone (De
o/ficiis III, 29, l 04), afferma che l'etimologia della parola iusiurandum
(giuramento) è lavis iurandum = promessa di Giove; ma non c'è alcun
rapporto etimologico fra ius e lavis. Infine troviamo il giuramento per
Giove-Pietra; si tratta di un antico rito romano; a Giove-Pietra (jupiter
Lapis) era dedicato un tempio in Roma sotto il nome di ]upiter Feretrius (cfr.
SeiVio a Virgilio, Eneide VIII, 641; Pesto alla voce Feretrius, p. 68; Aulo
Gellio, Le notti attiche I, 21; Cicerone, Epistole ai familiari 12, 7, Polibio
Storie III, 25).
10 Platone nel famoso brano del Simposio 202 d 203 a, getta le basi della
-

dottrina demonologica greca e romana; defmisce l'Amore non un dio, non


un mortale, bensì un intermediario fra l'immortale e il mortale: un grande
demone; spiega che tutto ciò che è demoniaco svolge il ruolo di intermedia­
rio fra il dio e il mortale, in particolare tale ruolo si esplica nel trasmettere
agli dei ciò che proviene dagli uomini e agli uomini ciò che proviene dagli dei
(<<avanti e indietro portano di qui le richieste, di là i soccorsi, interpreti per
gli uni o salvatori per gli altri»), nel colmare in sostanza il vuoto che separa
questi da quelli, cosl da costituire il vincolo che tiene legata intimamente la
natura evitando che sia separata in due parti, la divina e l'umana. I demoni
presiedono alla divinazione, ai sacrifici, alle iniziazioni, ai vaticini in genera·
le, e alla magia: «sono prop rio loro a determinare tutte le rivelazioni e a
regolare i diversi prodigi della magia e i presagi di ogni genere» (vi, 133). La
divinità non si mescola all'uomo e pertanto i demoni permettono agli dei di
avere rapporti con gli uomini.
Dai motivi presenti nel brano del Simposio attingono i medioplatonici nel
formulare la dottrina demonologica.
11
Una serie di esempi famosi tratti dalla storia romana chiarificano i
compiti e gli inteiVenti propri dei demoni: Annibale (Cicerone, La divina·
zione, I, 24, 28), Flaminio (Livio XXI, 63, 13), Atto Navio (Livio I, 36,
Cicerone, La divinazione I, 17), Tarquinia Prisco (Livio I, 34, 8), SeiVio
Tullio (Livio I, 39 e Valerio Massimo I, 6, 1). Dopo questo elenco, Apuleio
precisa che tali azioni «non si converrebbero alla maestà dei celesti», perché
«non devono gli dei abbassarsi a cose del genere>> .
12 I
demoni vengono definiti «potenze intermedie fra gli uomini e gli dei>>,
«divinita intermedie, che abitano gli spazi aerei vicini alla terra e al tempo
stesso confinanti con il cielo» (VII, 137). La medietas, ossia la condizione di
esseri intermedi, è la caratteristica specifica dei demoni, caratteristica che si
collega chiaramente alla loro precipua funzione di stabilire un contatto fra
gli dei immortali e gli uomini. In questo passo la medietas dei demoni è
collegata al concetto che la loro dimora, l'aria, è intermedia, posta cioè in
mezzo fra cielo e terra. Questo collegamento è un punto fisso nella dottrina
demonologica apuleiana; per Apuleio la dimora intermedia è in un certo
senso causa della natura intermedia dei demoni, (cfr. rx, 140).
La natura è stata divisa in quattro regni: la terra, l'acqua, il fuoco, l'aria
(la cui parte più pura è l'etere), e ognuno dei primi tre elementi possiede i
suoi esseri animati: perché dunque l'aria, che si trova in mezzo, dovrebbe

74
essere priva dei suoi abitanti? E chiaro che anche qui vivranno degli esseri,
aerei, che non sono gli uccelli- Apuleio dimostra che gli uccelli sono esseri
terrestri (VIII, 138 e 140) -, bensì i demoni. Nel cap. XI di Platone e la sua
filosofia questo concetto è già presente: «l generi degli esseri animati, per
pane loro, sono divisi in quattro specie, di cui l'una ha la natura del fuoco,
tale quale noi vediamo nel sole, la luna e gli altri astri, la seconda è la natura
aerea - questa egli (Platone) la chiama anche "la specie dei demoni" - la ,

terza è composta d'acqua e di terra... >>. Nella tradizione filosofica i demoni


erano già collocati nell'aria; troviamo infatti un ragionamento simile a quello
di Apuleio in Filone di Alessandria (De Gigantibus e De somnits). Il tipo di
ragionamento per analogia (se cioè ogni elemento della natura mostra la
presenza- verificata dall'esperienza- di esseri viventi propri, si deduce la
stessa cosa per l'aria e per l'etere) è comunissimo, si trova in Aristotele e in
Cicerone, applicato all'etere e agli dei, in Posidonio e in generale negli stoici;
la considerazione che gli uccelli non possono ritenersi esseri aerei sembra
invece presente solo in Apuleio.
" Dal fatto che la sede dei demoni è nell'aria, elemento intermedio, si
deduce che intermedia è la loro natura. Il Beaujeu (p. 222) osserva che la
deduzione della natura dei demoni dalla natura della loro sede è fondata
sulla fisica stoica e deriva probabilmente da Posidonio. La conclusione di
Apuleio è che la struttura dei corpi dei demoni non può avere né la
pesantezza delle creature terrestri, né la leggerezza di quelle eteree, perciò si
può ipotizzare o la diversità dalle une e dalle altre, oppure la mescolanza di
ambedue. Apuleio propende per la seconda ipotesi: «sarà più facile conce­
pirne la combinazione piuttosto che l'esclusione>>.
" Apuleio spiega la natura mista dei corpi dei demoni con questo <<esem­
pio di equilibrata condizione intermedia>> : le nubi (x, 142-143) che se
fossero così leggere, come le sostanze prive assolutamente di peso, non
potrebbero raccogliersi dense sotto le cime dei monti, come talvolta accade;
se fossero d'altra pane troppo dense e pesanti cadrebbero per il loro peso al
suolo -, invece la loro equilibrata condizione intermedia permette che
vaghino <<attraverso il grande mare dell'aria>>, sospese e mobili.
16
La sostanza dei demoni non è impura come quella delle nubi, ma al
contrario è costituita dal l'elemento più puro dell'aria. Appare contradditto­
rio il fatto che essi non abbiano <<alcuna densità materiale>> con quanto detto
prima (Ix, 141), a proposito della mescolanza fra la pesantezza delle creature
terrestri e la leggerezza di quelle eteree. Definita la sostanza immateriale, di
cui i corpi dei demoni sono costituiti, Apuleio passa ad illustrarne il caratte­
re di invisibilità: <<sono invisibili a tutti gli uomini ... perché la trama dei loro
corpi è così trasparente, luminosa e sottile, che lascia passare tutti i raggi
della nostra vista attraverso la sua trasparenza>>. L'invisibilità è dunque un
carattere generale dei demoni, fatta eccezione per qualche caso particolare
<<a meno che non vi sia un motivo importante o che la volontà divina non li
spinga a mostrarsi spontaneamente>> (cfr. xx, 166). Come esempio ricorda
Minerva-Atena che appare ad Achille (Omero, Iliade I, 198) e Giuturna che
si mostra a Enea (Virgilio, Eneide I, 440). In ambedue gli esempi si tratta di
divinità vere e proprie, quelle divinità della mitologia che caratterizzano il

75
politeismo tradizionale, ma il loro comportamento è tipico dei demoni, in
quanto si manifestano ad esseri umani, anche se eccezionali come Achille ed
Enea. Appare quindi nuovamente evidente la contraddizione che caratteriz­
za la distinzione fra dei subalterni e demoni. Il terzo verso citato è Plauto,
Miles gloriosus 4: questo si riferisce al fatto che la trama dei corpi dei demoni
riflette con la sua lucentezza i raggi della nostra vista. Il Beaujeu osserva (p.
225) che in questo capitolo Apuleio sviluppa una teoria dei demoni vicina
alle credenze popolari: i demoni sono esseri indipendenti, dotati di un corpo
translucido e invisibile, ma materiale e brillante, intervengono in persona
nella vita degli uomini, possono rendersi visibili a chi vogliono. Ritroviamo
lo stesso concetto a proposito del demone di Socrate (XVI, 156 e xx,
166-167).
17 Per Apuleio ci sono alcuni caratteri fondamentali che distinguono i
demoni dagli dei; il primo di questi è costituito dal fatto che, mentre i
demoni provano sentimenti come quelli umani e sono soggetti ad emozioni,
turbamenti, passioni, gli dei sono assolutamente imperturbabili, hanno una
condizione spirituale sempre uguale e una serenità eterna. Apuleio rappre­
senta quindi gli dei in modo simile alla dottrina epicurea; il Barra (p. 111) ha
ritrovato molte somiglianze a questo proposito fra il testo di Apuleio e il
poema di Lucrezio. E però scontato che l'attribuzione agli dei della aequabi­
litas e dell'àn:a-fre�a è comune a tutti i sistemi filosofici, dallo stoicismo
all'epicureismo. La soggezione alle passioni è invece un carattere che acco­
muna i demoni agli uomini e si spiega con la loro condizione intermedia.
18
Il cap. Xlii ci offre una deftnizione completa dei caratteri propri dei
demoni; il tema dominante è tuttavia quello della medietas fra dei e uomini:
delle cinque qualità che i demoni possiedono, le prime tre sono in comune
con gli uomini, una è loro propria, mentre la quinta, cioè l'immortalità è
comune con gli dei. Il testo base di riferimento è sempre quello del Simposio
(202 e) che sottolinea appunto la medietas dei demoni. Per quanto riguarda
l'immortalità che Apuleio afferma decisamente, sappiamo che non tutti
l'attribuivano ai demoni, sembra che Socrate la negasse e Plutarco non è
preciso su questo punto (cfr. Beaujeu, p. 228).
19 Secondo Apuleio l'esistenza dei demoni, il loro ruolo e la loro natura di
intermediari fra dei e uomini conferiscono validità e legittimano tutti i tipi di
culti, cerimonie, sacrifici, pratiche religiose private e pubbliche, la cui
varietà è giustiftcata appunto dalla molteplicità di gusti, se così si può dire, di
questi esseri divini: «c'è chi si rallegra di essere onorato di notte e chi di
giorno, chi in pubblico e chi in segreto.. ». Osserva giustamente il Beaujeu
.

(p. 128) che in questo modo tutto l'edificio del politeismo minato dalla
critica filosofica è consolidato e rinvigorito dalla demonologia.
20 l demoni sono distinti in tre categorie: le anime umane che si trovano in
un corpo, le anime che hanno abbandonato il corpo in cui dimoravano, i
demoni che non hanno mai avuto contatti materiali; questi ultimi costitui­
scono un augustius genus, al quale appartengono: il Sonno, l'Amore, e tutti i
demoni che proteggono ogni singolo individuo, come il demone socratico.
Fra le prime due categorie non c'è un'effettiva differenza, si tratta infatti
comunque di anime, anche se con una diversa condizione momentanea. In

76
Platone le tre categorie di demoni sono: i demoni-anima, il demone di
Socrate e il demone semidio, intermediario fra il divino e il mortale. La
classificazione di Apuleio è quindi leggermente diversa.
11
Risale a Platone (Timeo 90 d) il concetto che l'anima umana, che ancora
dimora nel corpo, è un demone. L'idea, osserva il Beaujeu (p. 231), è passata
in Senocrate e negli Stoici, cosl pure il termine EÙOa(fJ.OJV che indica chi
possiede un buon demone, «cioè un'anima perfettamente virtuosa>> , deriva
da Senocrate ed è fatto proprio dagli Stoici. Apuleio traduce questo termine
greco con la propria latina Genius e ne dà la sua interpretazione: «questo dio
che per ciascun uomo è la propria anima, sebbene immortale, è in qualche
modo generato insieme all'uomo». La concezione romana del Genio indivi­
duale è molto vicina a quella greca del demone individuale. L'usanza di
abbracciare o toccare le ginocchia è determinata dalla posizione di chi prega
cercando di destare sentimenti di pietà e di misericordia (cfr. Servio a
Virgilio, Eneide 3, 607, Plauto, Miles glon'osus 239, Orazio, Epistole I, 7,
94-95 e Plinio, Storia naturale XI, 103, che cerca di spiegarne la ragione nel
fatto che pregando si toccano le ginocchia e si arriva ad adorarle, forse
perché in esse è la vitalità). Il collegamento fra i due termini genua e Genius
dal punto di vista etimologico è arbitrario.
22
Il verso è di Virgilio, Eneide IX, 184-185.
" Segue una classificazione molto precisa e particolareggiata- evidente­
mente legata alla tradizione religiosa romana dell'oltretomba - di quei
demoni-anime che si sono liberati dal corpo: Lemuri, Lari familiari, Larve,
Mani. Anche in un passo dell'Apologta (54) sono citati questi stessi nomi, ma
in quel testo servono solo ad indicare le ombre dei morti in generale nel loro
aspetto terrificante, al di là di ogni intento di classificazione. Nella tradizio­
ne romana, i Lemuri sono essenzialmente malvagi. Apuleio invece li distin­
gue in buoni, cattivi e incerti: Lari, Larve, Mani. Il discorso sui demoni-ani­
me si conclude con l'accenno ad alcuni uomini eccellenti, la cui anima, dopo
la morte, è stata dagli uomini considerata una divinità: sono demoni come
tutti i demoni-anima, in un certo senso demoni superiori, però sempre
demoni in quanto la loro divinizzazione è opera degli uomini: «sono stati
considerati dagli uomini come esseri divini e in seguito onorati di templi e di
riti ... Anfiarao ... Mopso ... Osiride ... Esculapio ... >> (xv, 154).
24 Esaurita la classificazione relativa ai demoni che hanno avuto un tempo
dimora in un corpo umano, Apuleio passa ad illustrare i caratteri di quei
demoni «di una specie più elevata e più nobile>> , che non hanno mai avuto
legami corporei, in ordine il Sonno, l'Amore (cfr. anche Florida 10), i
demoni custodi (a questi ultimi appartiene il demone di Socrate). Il riferi­
mento a Platone riguarda il celebre passo del Simposio (202 d - 203 a) per la
definizione dell'Amore, dove troviamo anche un accenno alle due diverse e
concomitanti funzioni sia dell'Amore, sia del Sonno («durante la veglia
come durante il sonno>> si può avere la comunicazione fra gli dei e gli uomini
per opera della funzione mediatrice del demone); l'Amore possiede la vis
vigilandi, il sonno la vis soporandi. Per i demoni-custodi sono vari i passi
platonici a cui si attinge: Fedone 107 d, Repubblica x, 617 e e 620 d-e, Timeo
90 a. Nel testo di Apuleio comunque il tema viene trattato con notevole

77
ampiezza e gran rilievo, vi si trovano anche alcuni elementi in più, come ad
esempio quello della funzione di testimone che il demone si assume dopo la
mone di fronte al tribunale dell'aldilà. L'intero capitolo XVI è dedicato
all'analisi dettagliata di tutte le funzioni che svolge il demone custode nei
confronti del singolo uomo a cui è stato assegnato: <<questo guardiano
personale ... sotveglia ogni singolo uomo, lo assiste ... lo protegge ... lo
conosce ... lo ossetva ... biasima il male e approva il bene ... », e più avanti
troviamo una serie di epiteti che setvono anch:essi a definirne le funzioni:
consigliere, guida profetica, protettore, aiuto. E chiaro l'intento introdutti­
vo e preparativo di Apuleio che si appresta a inserire nel suo discorso di
carattere generale l'argomento panicolare e centrale del De dea Socratis, il
demone di Socrate, di cui si parlerà subito dopo.
" Il demone di Socrate (XVII, 157-158; xvm, 159-162). Il rappono e la
differenza fra saggezza e divinazione sono al centro del discorso sul demone
socratico: laddove la saggezza, facoltà razionale dell'uomo, non è sufficien­
te, il filosofo ricorre all'appoggio della divinazione, intetvento soprannatu­
rale degli dei. Questo per Socrate. Apuleio cita Omero per trame esempi a
sostegno della sua tesi: Nestore di Pilo è il simbolo della saggezza, dopo di
lui Ulisse ( il pensiero, la mente); Calcante per i Greci, Eleno o Cassandra
=

per i Troiani sono il simbolo della divinazione. La distinzione fra saggezza


umana e intetvento divino risale a Platone (Apologia 22c e Fedro 244 a-d).
26
In questo capitolo si definisce la figura di Socrate <<uomo perfetto fra
tutti>>: Socrate è infatti il paradigma del saggio, la sua precipua caratteristica
è quella della sapientiae dignitas. li «saggio perfettO» è descritto ampiamente
anche in Platone e la sua filosofia xx, 247 XXII, 252 e tale descrizione
-

abbonda di elementi stoici, come è logico, dal momento che l'ideale umano
tipico della filosofia stoica influenzò sicuramente il medioplatonismo nel­
l'ambito dell'etica. Nel Demone di Socrate non troviamo una descrizione
generale del saggio, inteso come ideale di vita morale, bensì l'identificazione
dell'ideale stesso con la figura di Socrate. Apuleio si rivela molto fedele a
Platone, allorché analizza i rapponi di Socrate con il suo demone: nel passo
31 d dell'Apologia, Socrate racconta che fin dall'infanzia gli capitava di
percepire «una specie di voce>> che lo distoglieva da ciò che stava per fare e
mai lo incitava ad agire. Se analizziamo il testo di Apuleio ritroviamo lo
stesso concetto: il demone si rivelava come una specie di voce e mai spingeva
Socrate all'azione, ma sempre lo frenava. Cosl anche il racconto di Apuleio
del celebre episodio del Fedro è molto fedele al testo platonico (Fedro xx,
242 b 249 b).
-

27 Apuleio afferma prima che l'intetvento del demone nella vita di Socrate
si manifestava attraverso un segno percepibile con le orecchie: «una specie
di voce>> (e qui discute a lungo e sottilmente sul valore dell'espressione
citando anche a sostegno della sua tesi un verso di Terenzio, Eunuco 454 in
cui si tratta di una ben diversa voce); poi asserisce che Socrate percepiva <<i
segni del suo demone non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi,
perché assai spes.so gli si manifestava ... un segno divino>>, ribadendo
nuovamente il concetto già espresso nel cap. Xl dell'invisibilità dei demoni,
<<a meno che non vi sia un motivo impanante o che la volontà divina non li

78
spinga a mostrarsi spontaneamente». Anche qui si ripropone il paragone
con Minerva-Atena: il demone sarebbe stato visibile solo a Socrate (con­
traddicendo alle regole generali) come Atena lo era solamente per Achille. Si
tratta quindi di casi eccezionali. Apuleio, temendo di non essere creduto dai
suoi ascoltatori, produce un altro argomento a favore della sua tesi, l'autori­
tà dei Pitagorici, convalidata dalla testimonianza di Aristotele (cfr. V. Rose,
Aristotelis .. ./ragmenta, Lipsia 1886, fr. 193, p. 1571) e da qui conclude che
se chiunque può contemplare una figura divina, <<perché un tale privilegio
non poteva capitare a Socrate>>, data la sua sublime saggezza?
28
Il saggio è assimill!_to alla divinità: questo è un tema caro sia agli Stoici
che ai medioplatonici. E il concetto della ÒI!OLWOLç "t<jl �E<jl, che deriva dal
Teelelo 176b, fine ultimo della vita morale che solo il saggio è capace di
realizzare pienamente (cfr. anche Platone e la sua filosofia XXIII, 127: «il
saggio segue e imita Dio», questo è il senso dell'espressione che ricorre
costantemente: rnou �E<jl =segui Dio). La teologia e l'etica a questo punto
si confondono, come in ogni speculazione di tipo pratico-religioso: la vita
morale è l'unico mezzo per raggiungere Dio. L'uomo vinuoso si eguaglia a
Dio e in tale condizione può conoscerlo. Lo stesso concetto è presente in
Plutarco (lside e Osiride 382 f): lo spirito umano immerso nel corpo non può
conoscere Dio, mentre è possibile al fùosofo una sorta di conoscenza mistica
che permette la partecipazione al divino. In un altro passo (351 f) Plutarco
pone l'accento sull'atteggiamento ascetico del credente ed anche su una
certa benevolenza del dio per il fedele che conduce una vita di austerità e di
astinenza.
" I n questo capitolo, che si apre con una esortazione agli uomini a seguire
l'esempio di Socrate dedicandosi al benefico studio della filosofia, con il fine
ultimo di somigliare come lui alla divinità, ha inizio la parte conclusiva del
Demone di Socrate, diversa, per il tono didascalico e per il prevalente
carattere moralistico e predicatorio, dalle parti precedenti del trattato.
Questa diversità è stata sottolineata da molti studiosi, fra i quali Vallette (p.
249), Rathke (p. 10) ecc. Si tratta della parte meno originale e meno
personale del trattato, «un mosaico di luoghi comuni, presi in prestito alla
predicazione stoico-cinica e presentata nella forma propria del genere
parenetico>> come giustamente la definisce Beaujeu (p. 244) e ricca, per
ragioni oratorie, di richiami letterari. L'aspetto più tipico consiste nell'iden·
tificazione tra filosofia e vita morale (vedi nota 28) e nella prevalenza del
carattere pratico attribuito alla speculazione filosofica.
10
«Socrate, Platone, Pitagora>>: è diffusa nel platonismo la tendenza ad
unire in una comune, devota, ammirazione, le tre figure di Socrate, Platone,
Pitagora, considerati molto simili alla divinità, perché capaci di conoscere
Dio con la loro filosofia.
11
«I l culto del proprio demone>> significa in pratica «il culto della propria
anima», che si realizza con «l'iniziazione alla filosofia>> - più teosofia che
filosofia in questo caso - e la pratica di una vita pura e virtuosa, guidata dai
più elevati valori morali. All'ammirazione per questo modello ideale di vita
si contrappone il disprezzo per tutti i beni materiali, lusso, sfarzo, ricchezze
ecc. Tale disprezzo raggiunge la sua punta massima nel paragone fra i ricchi

79
e i cavalli, che chiude il cap. XXII. La descrizione della sfarzosa e futile vita
dei ricchi è comune alla letteratura stoica, basta pensare a Seneca (ad
esempio Le lettere 84, 11 ss., La tranquillità dell'anima l, 5 ss.).
32 I versi citati sono di Virgilio, Georgiche lll, 80 ss.
" A lungo e con passione Apuleio si sofferma ad illustrare la differenza
fra i veri beni, che danno la misura del valore dell'uomo in se stesso e i beni
esteriori, estranei all'uomo (aliena, come li definisce con un termine partico­
larmente espressivo: non propri della natura dell'uomo). Socrate è l'esem­
pio dell'uomo che ha disprezzato il possesso di questi falsi beni e si è
dedicato invece a coltivare la virtù e il bene, valori essenziali e immutabili ai
fini della vita morale dell'uomo e della più alta espressione della sua
interiore spiritualità: i veri beni (xxm, 174-175). Questa distinzione risale
ad un passç di Platone (Leggi 11, 661 a, ss.) ed è particolarmente cara a tutti
gli Stoici. E evidente la presenza di numerosi luoghi comuni tipici della
tradizione diatribica; però, come giustamente osserva il Barra (p. 89), la
partecipazione appassionata dello scrittore «svela il carattere intimo e l'in­
tento vero del De deo Socratis. Mentre prima era stata illustrata la distanza
infmita che separa Iddio dall'uomo, adesso si intravede e si auspica la
possibilità - tramite la sapientia di riscattarsi dalle miserie della terra e
-

muovere a mete più grandi. L'aspirazione a muovere in alto, che sta alla
base, qui diventa programma di vita che implica più che una speranza, una
fede».
" Sal Porthaonio ... : è la lezione proposta da Beaujeu; il passo è molto
difettoso e le correzioni sono incerte. La parola Porthaonio sembra possa
indicare uno dei figli di Portaone; di questi il più celebre era Oineo, re
dell'Etolia che cacciato in vecchiaia dai figli di suo fratello Agrio, sopportò
coraggiosamente la sua sventura e infme fu ristabilito sul trono dal nipote
Diomede (dr. Beaujeu p. 246, nota 4).
" In queste parole si raccoglie il senso dell'intero elogio di Socrate,
finalizzato a fornire un sicuro insegnamento di vita all'uomo in generale:
infatti l'esempio del filosofo, che dedicò la sua esistenza alla ricerca della
verità e del bene, costituisce in un certo senso un pretesto per un più
generale elogio della fùosofia, intesa come magistra vitae e guida sicura al
bene vivere. Il discorso che si era aperto nel cap. XXI con l'esortazione
«perché piuttosto, sull'esempio e nel ricordo di Socrate, non proviamo
anche noi ad elevarci dedicandoci al benefico studio della filosofia ... » si
chiude nel cap. XXIV con parole pressoché uguali: «perché dunque non ti
dedichi anche tu, e in fretta, allo studio della filosofia?»
" Cfr. Accio, fragm. 520 Ribbeck.
" Arcisius o Arcesius, figlio di Giove e padre di Laerte, il quale, come è
noto, da Anticlea generò Ulisse.
" L'esempio di Ulisse, con cui si chiude il Demone di Socrate, è parallelo a
quello di Socrate; ambedue mostrano chiaramente la loro funzione didasca­
lica e un certo valore simbolico: sia Socrate che Ulisse sono stati considerati
come il modello dell'uomo saggio, sia Socrate che Ulisse hanno avuto al loro
fianco una guida sicura che li ha aiutati a superare le difficoltà della vita;
Socrate il suo demone, Ulisse la saggezza, allegoricamente rappresentata da

80
Atena. La conclusione del trattato è dunque quella cui Apuleio si era
proposto di pervenire: dimostrare che l'uomo, pur relegato in questo
inferno terreno, non è solo e abbandonato a se stesso, inesorabilmente
lontano e separato dal divino, perché interviene la funzione del demone che
lo protegge e lo guida durante la sua vita terrena. La pratica di una vita pura
e virtuosa, il perseguimento dei più alti valori morali costituiscono una
condizione di questo possibile awicinamento dell'uomo alla divinità: «nien­
te c'è infatti di più simile e di più caro ad un dio di un uomo dall'animo
perfetto ...» (xx, 167).

81
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