Il demone
di Socrate
a cura di Bianca Maria Portogalli Cagli
con testo a fronte
ISBN 88-317-6963-4
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9 788831 769631
Apuleio nasce in Africa, a Madaura, nel 125 d.C.
Compie gli srudi a Cartagine e ad Arene, esercita
la professione di avvocaro a Roma. Nel 158,
a Sàbrara, viene processaro per magia e assolro
dopo un'abile aurodifesa. Tornaro a Cartagine,
muore dopo il 170 d.C.
Inrellerruale versatile, orarore brillanre, ha lasciaro
opere quali ApoLogia (l'orazione di autodifesa),
Florida (un'anrologia di discorsi), gli scrirri
filosofici Platone e la sua dottrina (De Platone
et eius dogmate), L'universo (De mundo),
e il romanzo in undici libri Le metamorfosi
o L'asino d'oro.
Marsilio
Traduzione dal latino
di Bianca Maria Cagli
© 1992
®
BY MARSILIO EDITORI
IN VENEZIA
ISBN
88-317-6963-4
INDICE
25 IL DEMONE DI SOCRATE
71 Note al testo
83 Riferimenti bibliografici
SOCRATE E IL SUO DEMONE
9
124); c) la sua essenza è lontana dalla materia, «immune
[ ... ] da ogni contatto corporeo» (m, 123);
2) Dio non ha forma, non è circoscritto da alcun limite,
è «incorporeo» (m, 123);
3) Dio è inconoscibile e ineffabile: la divinità somma
non è oggetto della conoscenza dei sensi, ma in quanto
trascendente non è conoscibile neanche mediante l'in
telletto. Il motivo è ripreso da Platone, Parmenide 142
a, e diviene centrale nel medioplatonismo e nel neopla
tonismo: è comune ad Apuleio, Albino, Massimo di
Tiro, Filone, Plotino e all'ermetismo (Festugière, IV,
pp. 6 1 ss.). Apuleio sottolinea come «solo questo essere
non può, per una incredibile ed ineffabile grandezza
della sua maestà, essere definito, neppure imperfetta
mente... » (m, 124) e afferma che la possibilità di cono
scere Dio è affidata a mezzi del tutto irrazionali. La
condizione indispensabile è un'elevazione dello spirito
umano al di sopra del sensibile, una momentanea libe
razione dell'animo dai legami corporei, che si può
realizzare solo per il filosofo, per il saggio, il quale,
vivendo una vita casta e virtuosa, è in un certo senso
simile a Dio, modello di virtù, e quindi può conoscerlo:
«a mala pena i saggi, quando con il vigore dello spirito
sono riusciti a distaccarsi dal corpo, per quanto è possi
bile, arrivano a comprendere questo dio, quasi a tratti,
come una luce abbagliante che lampeggia con istanta
neo sfavillio fra le più fitte tenebre» (m, 124).
La teologia e l'etica a questo punto si confondono,
guidate da una conoscenza intuitiva, la gnosis di gnosti
ci, ermetici e neoplatonici, che costituisce l'unico mez
zo per raggiungere Dio. L'uomo virtuoso si uguaglia a
Dio e in tale condizione può conoscerlo. La vicenda
dell'uomo-asino nelle Metamorfosi costituisce un'alle
goria di tale concezione religiosa: la trasformazione
lO
esteriore del protagonista è l'indice del cambiamento,
della metànoia o «conversione», e della benevolenza di
Dio per il fedele virtuoso che viene chiamato a una
nuova vita e può cosi contemplare la divinità.
Strettamente connessa con la concezione teologica,
anzi parte integrante di questa, è la demonologia di
Apuleio. Nel Demone di Socrate Apuleio afferma l'esi
stenza dei demoni, dopo aver sottolineato la profonda
differenza e la incolmabile lontananza che intercorre
fra la natura divina e la natura umana («gli dei sono
separati da noi ed estranei alla nostra esistenza») e
l'impossibilità di un diretto rapporto fra le due nature
(VI, 132). Ai demoni è quindi attribuita una funzione
mediatrice fra uomini e dei: «esistono alcune potenze
divine intermedie, che dimorano in codesto spazio
aereo, fra la sublime altezza del cielo e la vile bassezza
terrena, e che comunicano agli dei i nostri desideri e i
nostri meriti. Hanno ricevuto dai Greci il nome di
"demoni" ... » (ibidem).
Apuleio ci presenta la dottrina dei demoni in una
forma che appare sistematica; pur essendo confluiti in
essa elementi propri di altri culti, è facile individuare il
fattore fondamentale nella funzione mediatrice dei de
moni stessi. I testi di Platone e gli accenni che in essi si
trovano alle divinità intermedie, sono ovviamente il
costante riferimento di Apuleio come dei medioplato
nici, ma è discutibile che si possa considerare Platone
come il padre della demonologia. Nei suoi dialoghi
troviamo piuttosto un vario assortimento di nozioni
comuni, riprese dalle credenze popolari o anche deri
vanti da speculazioni filosofiche anteriori, dove non
mancano diverse contraddizioni. Nelle opere più tarde,
però, particolarmente nel Timeo, sembra che egli stesso
abbia sentito la necessità di colmare il dualismo creato
11
f1 .t il mondo intelligibile, il divino, e il mondo sensibile,
l'umano.
È probabile che verso la fine della sua vita il filosofo,
spaventato dal progredire dell'empietà, influenzato
dalle dottrine dell'Oriente, abbia ammesso per sé e
inculcato nei suoi seguaci una teologia dove hanno
trovato posto gli astri, gli altri dei e i demoni.
Non possono certo servire a dimostrazione di questa
tesi i passi di: Apologia 27 d-c, Crati/o 398 a-c, Leggi
7 13 c-e, che riprendono la tradizionale concezione
esiodea. Quanto al passo del Fedone 107 d, esso è
strettamente legato con le credenze negli spiriti protet
tori: il demone inteso come un essere divino, posto al
fianco di ogni uomo per sorvegliarlo e proteggerlo
durante la vita e testimoniare per lui davanti al tribuna
le divino dopo la morte.
Il passo fondamentale, ed anche il primo, in cui si
presenta il nucleo centrale della demonologia è senz'al
tro il passo platonico del Simposio 202 c. Nel discorso
di Diotima il fulcro è costituito dalla ricerca della
natura di Eros, che si presenta come elemento media
tore fra l'umano e il divino, ed è di conseguenza
definito come un demone. Sulla base della natura di
Eros, semidio, si passa poi a definire la natura dei
demoni. Attraverso l'abusivo collegamento di questi
dati nasce, come dice Beaujeu (p. 189) la «carta» della
demonologia.
Senocrate, Filippo di Opunte, e, per altri aspetti,
Posidonio, sono da considerare i primi divulgatori di
una dottrina sistematica dei demoni. In particolare
Senocrate e Filippo di Opunte, hanno sottolineato la
funzione mediatrice dei demoni e hanno sviluppato
particolarmente la dottrina demonologica in questo
senso per soddisfare l'esigenza di porre una continuità
12
assoluta nell'universo, colmando la distanza fra il mon
do umano e divino propria già della tradizione classica;
ma già in queste prime forme sistematiche la demonolo
gia aveva accolto in sé elementi estranei, mitici e filoso
fici. Sappiamo che Senocrate riteneva che l'anima uma
na, separata dal corpo, fosse dotata delle stesse facoltà
dei demoni e risoJveva così il problema della vita dell'a
nima nell'aldilà. E lui che introduce nel pensiero filoso
fico la distinzione fra i demoni buoni e cattivi e che
attribuisce ai cattivi quelle che Beaujeu definisce le
«fables dégradantes» della mitologia (Beaujeu, p. 192).
Posidonio e la speculazione stoica hanno accentuato
l'identità demone/anima ritenendola valida anche per
l'anima che si trova nel corpo umano ed è soggetta alla
vita mortale. Accanto a questo processo d'identificazio
ne delle anime con i demoni, intesi come esseri media
tori e artefici della divinazione, si ha anche un processo
di identificazione dell'anima umana con il demone inte
so come spirito protettore. L'origine di questo processo
è da ritrovarsi nuovamente nel sistema stoico. I nuovi
stoici, in particolare Seneca, Epitteto, Marco Aurelio,
mescolano l'idea di un essere divino che protegge l'uo
mo dal di fuori, con l'idea di un essere divino che abita
nell'uomo stesso. Così il demone indica ciò che di
divino è nell'uomo, si identifica con le sue buone dispo
sizioni morali; il «culto» dei demoni diviene quindi il
culto del proprio animo, e consiste nel mantenere il
demone interno a noi libero da ogni genere di turba
mento e di passione. Si ha così uno spostamento dal
piano religioso al piano puramente etico (cfr. Il demone
di Socrate, xxi, 167).
Attraverso questo processo di elaborazione e di con
taminazione, la demonologia viene accolta in forma
definitiva dai medioplatonici ed assume una particolare
13
importanza per Apuleio, - come l'aveva avuta poco
prima per Plutarco.
Apuleio accetta la demonologia, così com'era in voga
fra i medioplatonit:i del suo tempo- che si rifanno tutti
in gran parte a un filosofo del n secolo di nome Gaio, la
cui opera è andata del tutto perduta- senza presentare
grandi differenze.
Il demone di Socrate, mentre da un lato lascia scorge
re la sua originaria dipendenza da Platone, dall'altro
cerca di distinguere questa dottrina negli elementi fon
damentali che hanno contribuito a formarla. La distin
zione dei demoni in diverse classi ne è una prova.
Fino al capitolo vn l'esposizione si ricollega stretta
mente col Simposio e mette in rilievo l'origine, la neces
sità e il carattere fondamentale della demonologia. Una
volta stabilita la generale attività dei demoni, si passa
subito a precisare le loro funzioni particolari (vr, 133 ):
«Platone afferma nel Simposio che sono proprio loro a
determinare tutte le rivelazioni e a regolare i diversi
prodigi della magia e i presagi di ogni genere». Si
enumerano poi i mezzi di cui essi si servono per esplica
re queste funzioni: « .. .foggiare sogni, sezionare viscere,
regolare voli di uccelli, ammaestrare nel canto uccelli
augurali, ispirare vati, lanciare fulmini, trarre dalle nubi
corruschi bagliori, e in breve tutto il resto che ci per
mette di conoscere il futuro».
Si sa che Apuleio, nell'estrema versatilità dei suoi
interessi culturali, non ha escluso dalla sua esperienza
di vita e di studi la magia, che, in questo passo, è
collegata strettamente alla demonologia. Si trattò però
di un momento passeggero, in quanto Apuleio si rese
ben presto conto della sostanziale differenza fra il ritua�
le magico, costituito spesso da superstizioni, e la serietà
dei culti misterici, che tendevano a realizzare in modo
14
più compiuto l'aspirazione degli uomini a riscattarsi
dagli impedimenti corporei e ad assurgere fino alla
divinità (cfr. Barra, pp. 83, 84).
La stessa evoluzione nell'esposizione della demono
logia si ritrova in alcuni passi di Plutarco, contenuti nei
trattati Iside e Osiride e Il Genio di Socrate. Come
Apuleio, anche Plutarco sottolinea la lontananza degli
dei dal mondo umano e l'impossibilità di raggiungerli
direttamente; afferma che non sono gli dei, bensì i
demoni a occuparsi delle cerimonie, delle feste, della
divinazione. Essi sono considerati i ministri degli dei e
usufruiscono di riti particolari, riferiti unicamente a
loro. Presiedendo inoltre agli oracoli e determinando i
presagi, fanno conoscere agli uomini la volontà degli
dei. A questo si appunta l'interesse dei due filosofi: la
conoscenza è intesa come rivelazione attraverso mezzi
irrazionali.
Nel cap. XIII, 148, Apuleio dà la definizione più
completa dei demoni: «.. .i demoni sono, quanto alla
specie, esseri animati, dotati di facoltà razionali, il loro
animo è soggetto alle passioni, il loro corpo è d'aria, la
loro vita eterna. Di queste cinque qualità, or ora ricor
date, hanno in comune con noi le prime tre, la quarta è
propria della loro specie, l'ultima è in comune con gli
dei immortali dai quali però si distinguono, perché
suscettibili di passioni. Se io li ho definiti con ragione,
credo, suscettibili di passioni, è perché, come noi, sono
soggetti ai turbamenti interiori».
Conseguente alla natura umana presente nei demoni
risulta la distinzione della loro attività in base a un
giudizio morale, per cui si hanno i demoni buoni e i
demoni malvagi. Ecco come Apuleio definisce questi
ultimi: «. altri invece per i loro misfatti sulla terra non
..
15
in balia del caso, come in esilio, vano spauracchio per
gli uomini buoni, un flagello per i malvagi, e a questi si
dà _generalmente il nome di Larve» (cap. xv).
E molto accentuata in Apuleio, come in Plutarco,
l'identificazione dei demoni con l'anima umana, anche
quando questa dimora nel corpo umano. Apuleio svi
luppa questo concetto nella celebre favola di Amore e
Psiche, in cui Eros rappresenta il demone nella sua
condizione più alta, poiché libero da ogni legame cor
poreo (anche nel Demone diSocrate Eros è incluso fra i
demoni di genere superiore perché libero «da catene e
legami corporei», XVI, 152); Psiche è invece il demone
anima, soggetto alle debolezze umane, perché legato al
corpo.
Le fonti di tale concezione possono ritrovarsi da un
lato nelle credenze orfiche e pitagoriche, che accentua
no il concetto del corpo come prigione per l'anima,
dall'altro nell'idea stoica dell'identità demone/anima
anche quando l'anima si trova nel corpo umano. Per
Apuleio l'anima umana è senz'altro un demone degra
dato dalla sua natura divina, ma capace in taluni mo
menti di ritornare un essere divino anche durante la
vita terrena, purché viva in modo puro e sia dedito in
ogni istante alla ricerca di Dio e alla sua conoscenza:
«<n un certo senso anche l'anima umana, quando anco
ra dimora nel corpo, può essere definita demone» (xv,
150) e più esplicitamente: «sono definite eudaimones le
persone felici, che possiedono un buon demone, cioè
un'anima perfettamente virtuosa. Nella nostra lingua si
può dare a questo demone il nome di Genio, ... poiché
questo dio che per ciascun uomo è la propria anima,
sebbene immortale, è in qualche modo generato insie
me all'uomo» (xv, 150).
La conseguenza più importante di questa teoria è per
16
Apuleio la possibilità che l'uomo ha di entrare in con
tatto diretto con la divinità, attraverso la mediazione
della propria anima. Questa possibilità è però preroga
tiva di pochi privilegiati: per Apuleio solo il filosofo ne
è capace. Il termine filosofo assume in questo caso un
significato tutto particolare: è un iniziato, la cui natura
è superiore a quella dei comuni mortali, perché egli
solo è capace di attingere la verità; la filosofia non è una
costruzione sistematica dello spirito, ma lo sforzo di
penetrare in quei segreti che il linguaggio umano non
può riferire; la conoscenza è una vera «gnosis». In
questo senso la figura di Socrate, a cui la tradizione ha
attribuito facoltà soprannaturali e un continuo contat
to con la divinità, è stata considerata come il modello
del filosofo ideale: «C'è dunque da meravigliarsi se
Socrate, uomo veramente perfetto, e - come Apollo ci
attesta- saggio fra tutti, ha conosciuto e onorato questo
suo dio personale? E se per questo motivo il suo guar
diano... (a lui) ha dato in anticipo tutti gli avvertimenti
necessari?» (xvn, 157). Socrate infatti coltivando il suo
animo, cioè il suo demone, lo manteneva puro e lonta
no dalle passioni corporee (Plutarco, Il genio di Socrate
582 d). La concezione del demone socratico assume
quindi una fondamentale importanza per la demonolo
gia posteriore e accoglie in sé tutti gli altri motivi ed
elementi della dottrina.
Nei capitoli XIV, xv, XVI Apuleio tenta una classifica
zione dei demoni; essi sono divisi in due grandi classi:
la prima contiene tutti quelli che in qualche modo
hanno o hanno avuto legami corporali: Geni, Lemuri,
Larve, Lari, Mani; la seconda quelli «molto superiori in
dignità, di una specie più elevata e più nobile», che
sono stati sempre liberi da tali legami. Apuleio fa rien
trare in questa seconda classe gli spiriti protettori dati a
17
ciascun uomo: «da questa superiore categoria, dunque,
secondo Platone, provengono quei demoni che sono
stati assegnati ai singoli uomini come testimoni e custo
di nella vita quotidiana» (XVI, 155). Il demone socrati
co, sia per Apuleio, sia per Plutarco, appartiene a
quest'ultimo genere, ma al tempo stesso si confonde
con l'anima umana interna all'uomo, come si deduce
chiaramente dall'affermazione apuleiana secondo la
quale coltiva,re il proprio animo significa rendere onore
al demone. E continua l'oscillazione fra considerare il
demone come esterno all'uomo o identificarlo con la
sua anima e quindi come l'uomo stesso, inteso nella sua
essenza razionale.
La concezione che identifica l'anima umana con i
demoni permette di uguagliare l'uomo a Dio, di realiz
zare quindi il fine ultimo della speculazione filosofica e
dell'attività morale: l'identificazione con Dio. I demoni
non hanno importanza per se stessi, ma solo in quanto
permettono il passaggio dall'uomo a Dio: l'anima è un
demone, l'uomo, astraendosi il più possibile dalla natu
ra corporea, diviene un demone, il demone a sua volta
diviene un dio, l'uomo quindi può divenire Dio. Qui
sta il nucleo fondamentale della filosofia apuleiana: i
demoni sono al centro della teologia e si confondono
con gli dei stessi. La demonologia salva il politeismo
tradizionale, conservando la superiorità e la trascen
denza della divinità suprema, ma questi dei pratica
mente hanno una realtà solo quando sono definiti come
demoni (Vallette, pp. 258 ss.).
In questo particolare momento storico, il n sec. d.C.,
il misticismo ha soppiantato l'antico razionalismo, la
teologia non si distingue dalla filosofia e tutti gli inte
ressi speculativi convergono verso un unico fine: la
conoscenza di Dio. Apuleio interpreta magistralmente
18
l'esigenza della nuova religiosità mistica e irrazionale
propria del suo tempo e del suo ambiente culturale.
Secondo gli studiosi di Apuleio Il demone di Socrate
assume una posizione centrale nell'ambito della filoso
fia del medioplatonismo. P. Vallette (Parigi 1908)
dopo aver esaminato l'evolversi della dottrina demo
nologica nelle varie correnti filosofiche e i diversi
elementi che in essa sono confluiti, considera quest'o
pera come un tentativo di sistemazione finale e defini
tiva della demonologia. G. Barra (pp. 67 ss.) sottolinea
giustamente la serietà e la sofferta partecipazione con
cui il filosofo madaurense affronta il problema demo
nologico inserendolo in quello più vasto del divino,
«preoccupato di tracciare all'uomo incerto e smarrito
la via della verità». E questa serietà non era sfuggita,
afferma il Barra, agli antichi, dal momento che S.
Agostino (La città di Dio VIII, 14) pur confutando
l'opera di Apuleio, ne riconosceva l'importanza e af
fermava che Apuleio per primo aveva composto un'o
pera organica sul demone socratico raccogliendo ed
organizzando in modo unitario le notizie sui demoni
sparse qua e là nelle opere degli autori precedenti. Lo
stesso merito gli riconosce F. Andres nel suo articolo
«Daimon» (pp. 267-322), che ancor oggi può conside
rarsi per la ricchezza dell'informazione una delle più
complete ed esaurienti sintesi della storia della demo
nologia. In particolare l'Andres sottolinea la superiori
tà del Demone di Socrate su tutti gli altri trattati di
demonologia pervenutici dall'antichità classica. Il me
rito di Apuleio consiste proprio nell' organicità con cui
ha trattato l'argomento inserendolo in una più ampia
concezione cosmologica e teologica che giustifica la
funzione mediatrice dei demoni. Su un analogo piano
di apprezzamento senza riserve si muove il discorso,
19
particolarmente competente e chiarificatore, di J.
Beaujeu (pp. 5 ss.) dove si afferma che «il piano seguito
da Apuleio è netto e assai ben equilibrato, va dal gene
rale al particolare; dopo aver tracciato il quadro cosmo
logico e teologico, Apuleio espone una teoria generale
dei demoni, poi tratta del demone di Socrate, infine egli
trae in qualche modo la conclusione pratica del suo
studio... [Il demone di Socrate] è una specie di manuale
di ciò che un uomo illuminato deve sapere sui demoni,
più conciso e sistematico del Genio diSocrate di Plutar
co, più elegante e più ricco delle Dissertazioni di Massi
mo di Tiro».
Permane comunque, e non a torto, il dubbio da parte
di alcuni studiosi moderni, sul valore rigorosamente
speculativo delle opere filosofiche di Apuleio; in parti
colare per quanto riguarda Il demone di Socrate, il
dubbio è alimentato dal carattere e dallo stile retorico
di questo trattato, che vuol essere prima di tutto la
brillante conferenza di un retore di professione, dotato
di consumata abilità oratoria, capace di un linguaggio
ornato e poetico tale da assicurare un sicuro successo di
pubblico. «Certo non bisogna lasciarsi ingannare dal
termine "filosofia" ... La filosofia di questa conferenza
apuleiana, pur non mancando di una certa chiarezza
espositiva, è quella che gli studiosi tedeschi son soliti
definire "filosofia popolare": un atteggiamento cultu
rale che ha poco di filosofico in senso stretto, ma
attinge di preferenza, entro un quadro monotono di
luoghi comuni della filosofia morale, a elementi lettera
ri, eruditi storici, aneddotici, pseudoscientifici» (C.
Mqreschini, Apuleio e il Platonismo, p. 19).
E probabile che nell'opera di Apuleio coesistano
entrambi gli aspetti, la conferenza brillante e la specu
lazione filosofica impegnata: in questo consiste l'origi-
20
nalità e il carattere singolare del trattato sul demone
socratico.
21
fu sacerdote del dio Asclepio, si interessò probabil
mente all'ermetismo, senza trascurare anche altri culti
misterici di carattere iniziatico, la cui diffusione era a
quei tempi particolarmente estesa nel mondo greco
romano. Visse i suoi ultimi anni a Cartagine sempre
circondato dall'ammirazione generale, continuando
con successo la sua attività di retore-conferenziere e
ricoprendo importanti cariche religiose.
Le sue opere, numerose e di vario genere, retoriche,
filosofiche, religiose, letterarie, scientifiche, scritte in
latino e in greco, sono andate in parte perdute. A noi è
pervenuta solo una parte di questa vasta produzione: i
trattati filosofici: Platone e la sua filosofia (De Platone et
eius dogmate), Il demone di Socrate (De dea Socratis), Il
mondo (De mundo); le opere retoriche: Apologia (pro se
de magia liber), Florida; il romanzo intitolato Metamor
fosi o L'asino d'oro.
Platone e la sua filosofia appartiene a una tradizione
di filosofia scolastica, di testi divulgativi e manualistici
che miravano a illustrare e diffondere la dottrina di
Platone, contaminandola con altre dottrine filosofiche
e religiose.
Il mondo è una traduzione o un rifacimento in lingua
latina di un trattato pseudo-aristotelico, llEQÌ. XO<Jf.A.OU,
redatto fra il I sec. a.C. e il I sec. d.C.; consiste in
un'esposizione piuttosto sommaria della cosmologia e
della teologia aristoteliche, ma attinge altresl ad altre
dottrine filosofiche.
Della produzione oratoria, oltre al de magia, ci è
pervenuta una piccola antologia di ventitrè brani tratti
da orazioni e conferenze, intitolata Florida.
Nessuna opera però ci dà pienamente la misura della
cosiddetta «apuleianità» di Apuleio quanto le Meta
morfosi: in questo capolavoro confluiscono infatti tutti
22
i contrastanti aspetti della personalità e dell'arte del
l'autore.
23
gi, Les Belles Lettres, 1973). Fra le traduzioni italiane,
notevole quella di G. Barra e U. Pannuti, con testo
latino a fronte (in Ann. Fac. Lett. Filos., Napoli, x,
1962-63, p. 8 1- 14 1).
Il Demone di Socrate è l'unico dei trattati filosofici di
cui non è mai stata discussa l'autenticità, mentre è stata
oggetto di discussione la data di composizione e il rap
porto cronologico con le altre opere. La data non può
essere stabilita con precisione, ma il fatto che il testo sia
stato redatto per essere pronunciato di fronte ad un
uditorio di lingua latina, come l'autore stesso dichiara
nel cap. XIV, 150 («sarà preferibile trattare in latino
delle varie specie di demoni... » ) e in altri passi (VI, 133;
XI, 145), ha indotto a ritenere che Apuleio l'abbia com
posta durante un suo soggiorno a Rotna, dopo gli anni
di studi filosofici trascorsi ad Atene. E però altrettanto
probabile, come sostiene il Beaujeu (p. xxxv) che egli
l'abbia scritta e pronunciata a Cartagine circa nel 160
d.C., per i numerosi punti di contatto, sia nello stile che
nel contenuto, che questo testo mostra con i Florida e
con le Metamorfosi. Secondo quanto sostiene Barra
(pp. 7 1-72) è opportuno rifarsi all'unica opera di cui
abbiamo una datazione sicura, cioè l'Apologia. La data
di questa è da collocare tra il 155 e il158 d.C. Il Demone
di Socrate si presume posteriore soprattutto per un mo
tivo: nell'Apologia non si fa alcuna menzione del tratta
to sul demone socratico, nonostante ci sia un passo, il
cap. 43, in cui si parla di demonologia. Se Il Demone di
Socrate fosse stato scritto precedentemente, probabil
mente Apuleio avrebbe fatto riferimento a questa sua
opera che trattava in modo specifico tale argomento.
24
IL DEMONE DI SOCRATE1
DE DEO SOCRATIS
I. Plato omnem naturam rerum, quod eim; ad 115
animalia praecipua pertineat, trifariam diuisi t
censuitque esse summos deos. Summum, medium et
infimum fac intellegas non modo loci disclusione
uerum etiam naturae dignitate, quae et ipsa neqw�
uno neque gemino modo sed pluribus cernitur.
Ordiri tamen manifestius fuit a loci dispositione.
Nam proinde ut maiestas postulabat, diis inmorta- 116
libus caelum dicauit, quos quidem deos caelites
partim uisu usurpamus, alios intellectu uestigamus.
Ac uisu quidem cernimus
26
L Platone, considerando l'insieme della natura in relazio
<< .
. voi, o radiose luci del mondo,
.
27
tal caso continua, come ritengono i Caldei, e che, luminosa
da una parte, priva di luce dall'altra, mille volte muti il suo
aspetto in rapporto al volgersi del suo volto dal colore diver
so, sia che totalmente priva di luce propria e dipendente da
un'altra fonte luminosa, assorba come uno specchio con la
sua massa opaca, ma liscia, i raggi del sole, ora obliquo, ora di
fronte, e per usare le parole di Lucrezio:
29
mente attraverso una minuziosa esplorazione, quando più
acutamente indaghiamo con lo sguardo penetrante dell'in
telletto. Fra questi si trovano quei dodici, di cui Ennio ha
costretto, con una particolare disposizione, i nomi in due
versi:
e tutti gli altri dei della stessa categoria, i cui nomi sono ormai
da tempo familiari alle nostre orecchie, mentre i loro poteri
sono compresi dal nostro spirito, una volta percepiti nel
corso della vita gli svariati vantaggi che essi ci procurano,
ognuno di loro in relazione a quelle cose di cui ha cura.
31
ribadisce continuamente che solo questo essere non può, per
una incredibile ed ineffabile grandezza della sua maestà,
essere definito, neppure imperfettamente, con nessun gene
re di discorso6, data la pochezza del linguaggio umano? A
mala pena i saggi, quando con il vigore dello spirito sono
riusciti a distaccarsi dal corpo, per quanto è possibile, arriva
no a comprendere questo dio, ed anche ciò solo a tratti, come
una luce abbagliante che lampeggia con istantaneo sfavillio
fra le più fitte tenebre.
Lascerò dunque da parte questo argomento, poiché non
solo a me, ma neppure a Platone, mio maestro, fu possibile
trovare parole adeguate alla sua grandezza; dal momento che
la materia supera di troppo le mie modeste possibilità, batte
rò in ritirata e alla fine ricondurrò il discorso dal cielo alla
terra. Qui l'essere superiore è l'uomo, ma ciò nonostante la
maggior parte degli uomini, trascurando la vera dottrina, si è
lasciata corrompere da errori e nefandezze di ogni genere, si
è macchiata di delitti, e, rifiutando la mitezza naturale della
propria specie, è divenuta così mostruosamente feroce che
nessun animale può sembrare in terra più in basso dell'uo
mo'. Ma adesso non è il momento di illustrare le colpe
dell'uomo, bensì la suddivisione della natura.
gliosi della loro ragione, forti della loro parola, con anima
immortale e membra mortali, leggeri e inquieti nello spirito,
pesanti e fragili nel corpo, diversissimi per i costumi, ma
simili negli errori, di ostinata audacia, di tenace speranza, dai
vani travagli, dall'instabile sorte, mortali come individui, ma
immortali nell'insieme, se si considera la totalità della specie,
in continuo rinnovamento per il succedersi delle generazio
ni; per loro vola rapido il tempo, tardi giunge la saggezza,
presto la morte, la vita è piena di pianto•.
Per ora conoscete due generi di esseri viventi: gli dei molto
diversi dagli uomini per la sublime altezza della loro dimora,
l'eternità della loro vita, la perfezione della loro natura, privi
di qualsiasi contatto diretto con noi, giacché smisurata è la
33
distanza che separa le dimore più alte dalle più basse: lassù la
forza vitale è eterna ed invariabile, quaggiù fragile e caduca;
la natura divina è sollevata fmo alla più sublime beatitudine,
mentre la nostra è sprofondata fmo alla più bassa miseria.
Che dire allora? La natura dunque non si è legata intimamen
te con alcun vincolo? Si è lasciata separare in due parti, la
divina e l'umana, e in qualche modo indebolire da questa
frattura? In effetti, come dice ancora Platone, nessun dio si
mescola agli uomini ed è proprio questo il segno evidente
della loro sublime altezza, che nessun rapporto con noi li
contamina. Alcuni di loro solamente si lasciano percepire dal
nostro debole sguardo, le stelle ad esempio, e gli uomini
ancora discutono della loro grandezza e dei loro colori;
quanto agli altri, invece, solo l'intelletto è in grado di cono
scerli e non senza difficoltà. Sarebbe proprio fuor di luogo
meravigliarsene, trattandosi degli dei immortali; dal momen
to che anche fra gli uomini colui che la splendida generosità
della fortuna ha innalzato al di sopra degli altri e sollevato
fino al trono vacillante di un regno e ad un seggio instabile, di
rado si lascia avvicinare e, lontano da ogni estraneo, trascorre
i suoi giorni in un certo senso nel santuario della sua grandez
za, giacché la familiarità genera disprezzo, la riservatezza
procura ammirazione.
35
proteggere i buoni, per contrastare i malvagi? Chi infine
prenderò, cosa che molto spesso succede, come testimone ai
miei giuramenti?• Forse dirò come l'Ascanio di Virgilio:
«la mia destra è per me un dio e il dardo, che sto per lanciare».
37
Greci il nome di «demoni» e fra gli abitanti della terra e
quelli del cielo fanno da messaggeri per le preghiere di
quaggiù, per i doni di lassù; avanti e indietro portano di qui
le richieste, di là i soccorsi, interpreti per gli uni e salvatori
per gli altri. Platone afferma nel Simposio10 che sono proprio
loro a determinare tutte le rivelazioni e a regolare i diversi
prodigi della magia e i presagi di ogni genere. E a questa
categoria appartengono quei demoni che, singolarmente,
hanno precise funzioni, ciascuno nell'ambito che gli è stato
assegnato: foggiare sogni, sezionare viscere, regolare voli di
uccelli, ammaestrare nel canto uccelli augurali, ispirare vati,
lanciare fulmini, trarre dalle nubi corruschi bagliori, e in
breve tutto il resto che ci permette di conoscere il futuro.
Certamente dobbiamo ritenere che tutti questi fenomeni
dipendono dal volere, dalla potenza e dall'autorità degli dei,
ma è per merito dell'obbedienza, dell'opera, della funzione
intermediaria dei demoni, che si realizzano.
39
supremi abbassarsi a cose del genere; questo è il compito
toccato in sorte alle divinità intermedie, che abitano gli spazi
aerei vicini alla terra e al tempo stesso confinanti con il cielo12,
così come gli altri esseri animati hanno la propria dimora in
una regione della natura: nell'etere quelli che volano, nella
terra quelli che camminano.
41
vicina alla terra. Infine la terra è per loro come un porto,
quando hanno stanco il remo dell'ala.
43
come navi, attraverso il grande mare dell'aria, e mutano
impercettibilmente d'aspetto con l'avvicinarsi o con l'allon
tanarsi. Quando sono gonfie di una certa quantità di acqua,
si abbassano come per dare alla luce il proprio parto. Così le
nubi cariche d'acqua si muovono radenti al suolo, cupa
schiera dal lento procedere, le più asciutte invece corrono
più in alto, simili a fiocchi di lana, bianca schiera dall'agile
volo. Non avete mai sentito i bei versi di Lucrezio sul tuono?
45
Sempre a questa specie appartiene anche la famosa Giu
turna di Virgilio, che si aggira in mezzo alle migliaia di soldati
per portare aiuto al fratello,
47
gioia: libero da ogni passione non deve mai soffrire, né gioire
un istante, né volere o rifiutare all'improvviso qualcosa.
49
stato sancito dalla tradizione di ogni paese con riti solenni ed
immutabili, poiché spesso sogni, predizioni e oracoli ci fanno
sapere che gli dei frequentemente si adirano, quando è
commessa qualche negligenza nella celebrazione del culto,
per trascuratezza o presunzione. In questo campo ho esempi
in gran quantità, ma talmente noti e ripetuti, che, a volerli
ricordare, si rischia di tralasciarne assai più di quanti se ne
potrebbe enumerare.
Perciò non indugerò per ora a parlare di questi argomenti,
che se non riscuotono sicuro credito presso tutti, a quasi tutti
sono però almeno noti. Sarà preferibile trattare in latino delle
varie specie di demoni citate dai filosofi20, perché acquisiate
una conoscenza più chiara e più completa intorno alla pre
scienza (senso di presentimento) di Socrate e al nume che
aveva am1co.
« . Sono forse gli dei, o Eurialo, ad ispirare questo ardore nel mio
..
51
distacca dal corpo2}; questa, nell'antica lingua latina, la trovo
comunemente definita Lemure. Fra questi Lemuri, dunque,
a quelli che hanno avuto in sorte il compito di vegliare sui
propri discendenti, e che con la loro potenza pacifica e
tranquilla governano la casa, si dà il nome di Lari familiari,
altri invece, per i loro misfatti sulla terra, non possiedono
alcuna dimora e sono condannati ad errare in balia del caso,
come in esilio, vano spauracchio per gli uomini buoni, ma
flagello per i malvagi, e a questi si dà generalmente il nome di
Larve. Quando poi è incerto quale compito abbiano avuto in
sorte, se siano cioè Lari o Larve, allora si dà loro il nome di
dei Mani; ovviamente l'epiteto di dio è a titolo onorifico,
perché di questa categoria si chiamano dei solo quei demoni,
che, dopo aver condotto con giustizia e saggezza il corso
della loro vita, sono stati considerati dagli uomini come
esseri divini e in seguito onorati di templi e di riti, che tutti
possono vedere: così Anfiarao in Beozia, Mopso in Mrica,
Osiride in Egitto, chi in un paese, chi in un altro, Esculapio
ovunque.
53
testimonianza che determina la sentenza. Così dunque voi
tutti, che ascoltate la divina dottrina di Platone attraverso le
mie parole, sappiate bene, nel disporre il vostro animo ad
ogni azione e pensiero, che con tali guardiani l'uomo non
può avere alcun segreto, né all'interno del suo cuore né fuori:
il demone prende parte a tutto con curiosità, indaga su tutto,
tutto intende, e, come fosse la coscienza, si aggira nei più
profondi recessi della nostra anima. Questo guardiano per
sonale, di cui parlo, che sorveglia ogni singolo uomo, lo
assiste da vicino, lo protegge individualmente, lo conosce nel
profondo, lo osserva assiduamente, inseparabile spettatore e
inevitabile testimone, che biasima il male e approva il bene,
se a lui dedichiamo tutta la nostra premurosa attenzione ed
un vivo interesse a conoscerlo, se lo onoriamo con profonda
religiosità, come Socrate ha onorato il suo demone con la
giustizia e la purezza dell'animo, sarà per noi un consigliere
nelle situazioni incerte, una guida profetica nelle difficoltà,
un protettore nei pericoli, un aiuto nelle necessità, che può
intervenire, ora con sogni, ora con segni premonitori, ora
anche palesemente, se il bisogno lo richiede, per allontanare i
mali e promuovere il bene, sollevare l'animo abbattuto e
sorreggerlo, se incerto, illuminarlo nel buio, guidare la buo
na fortuna e correggere la cattiva.
55
Forse non vedi chiaramente in Omero, come in un immen
so specchio, questa separazione fra i due compiti, da una
parte quello della divinazione, dall'altra quello della saggez
za? Quando la discordia divampa fra i due eroi che sono i
pilastri di tutto l'esercito, Agamennone, il re potente, e
Achille, il forte guerriero, e si cerca un uomo ammirato per la
sua eloquenza e celebre per la sua saggezza, che plachi
l'orgoglio dell'Atride e freni il furore del Pelide, che impon
ga a tutti e due la sua autorità, li spinga a riflettere valendosi
di qualche esempio, li plachi c�m le sue parole, chi mai, in tale
circostanza, si alza a parlare? E l'oratore di Pilo, dall'eloquio
affascinante, dalla consumata esperienza, dalla venerabile
vecchiaia; il suo corpo - tutti lo sapevano - era indebolito
dagli anni, ma il suo spirito era vigoroso per la saggezza, le
parole erano piene di dolcezza.
57
Nello stesso modo anche Socrate, quando si presentava un
problema di natura estranea alla filosofia, in quel caso sentiva
il bisogno di ricorrere al potere profetico del suo demone; ne
seguiva però scrupolosamente gli ammonimenti e si rendeva
in tal modo tanto più gradito al suo dio.
59
istante che provenga da una bocca umana. Socrate, invece,
non ha detto che egli percepiva <mna voce», bensì <mna
specie di voce»; da questa precisazione si capisce perfetta
mente che egli non voleva parlare di una voce comune,
umana. In tal caso <mna specie di» sarebbe stata una aggiunta
superflua ed egli avrebbe piuttosto detto «una voce>> o tutt'al
più <da voce di qualcuno» come la cortigiana di Terenzio:
61
fico studio della filosofia e cercando di somigliare come lui
alla divinità?>" Non so quale ragione ce lo impedisca. E niente
mi meraviglia più di questo: tutti gli uomini desiderano
vivere nel modo migliore, tutti sanno che solo l'anima è la
vera fonte di vita e che è impossibile vivere nel modo miglio
re senza coltivare la propria anima, eppure non la coltivano.
D'altra parte chiunque vuole avere una vista acuta deve
prendersi cura degli occhi, che servono per vedere; chi vuole
correre velocemente deve necessariamente aver cura dei
propri piedi, che gli servono per correre, altrettanto chi
vuole essere un pugile gagliardo, deve rafforzare le braccia
con le quali si danno i pugni. Lo stesso deve essere per tutte
le altre parti del corpo: ognuno deve curarle in base alle
proprie aspirazioni. Questo facilmente tutti gli uomini lo
capiscono con chiarezza; perciò io non posso fare a meno di
chiedermi, e giustamente con stupore, perché non curano
con l'aiuto della ragione anche la propria anima. Questo
criterio razionale di vita è ugualmente necessario per tutti,
mentre non è la stessa cosa per quanto riguarda i criteri della
pittura o della musica, che qualunque uomo onesto può
trascurare senza rischio di biasimo, onta e vergogna. Non so
suonare il flauto come Ismenia, ma non mi vergogno di non
essere un flautista; non so dipingere con i colori, come
Apelle, ma non mi vergogno di non essere un pittore; così
per le altre arti, per non enumerarle tutte, tu puoi ignorarle
senza arrossire di vergogna.
63
alla filosofia. Certo, essi costruiscono lussuose case di cam
pagna, ornano le loro abitazioni di città con gran sfarzo, si
circondano di uno stuolo innumerevole di servi. Ma in mez
zo a tutti questi splendori, a tutta questa abbondanza di beni,
nulla c'è che susciti vergogna tranne il padrone stesso, e a
ragione: infatti queste persone hanno cumuli di ricchezze a
cui dedicano un culto assiduo, mentre loro stesse se ne vanno
in giro selvagge, ignoranti e incolte. Guarda dunque in che
cosa hanno profuso il loro patrimonio: dimore piacevolissi
me, eleganti e di grandi dimensioni, ville così ampie da
competere con una città, case ornate come templi, servi
innumerevoli e riccioluti, una suppellettile fastosa, e tutto
abbondante, tutto opulento, tutto raffinato, eccetto il padro
ne di casa: lui solo, come Tantalo, è bisognoso, povero,
misero, in mezzo alle sue ricchezze, e se pure non cerca di
afferrare quell'onda fuggente e non ha sete dell'acqua ingan
nevole, ha fame e sete della vera felicità, cioè di una vita felice
e di una ricca saggezza. Non capisce che bisogna valutare i
ricchi come si acquistano i cavalli al mercato.
65
Lo stesso dev'essere quando si esamina un uomo: non
tenere alcun conto di quegli elementi che non gli sono
propri, ma considera l'uomo in se stesso, fin nel fondo del
suo essere, povero come il mio Socrate". Io chiamo estranei
all'uomo quei privilegi che sono procurati dai genitori o
elargiti dalla fortuna; nessuno di questi io confondo con i
meriti del mio Socrate: né nobile nascita, né lignaggio, né
antica origine, né ricchezze invidiabili. Tutte queste cose,
come ho detto, non sono proprie dell'uomo. Abbastanza
gloria possiede il figlio di Portaone": egli fu tale che il nipote
non dovette arrossire di lui. Allo stesso modo potrai conside
rare elementi estranei all'uomo tutti questi privilegi: «è nobi
le)>, tu fai l'elogio dei suoi genitori, «è riccm), non mi fido
della fortuna. Né tengo più conto di questi che seguono: «è
robustm), una malattia può indebolirlo; «è veloce)>, in vec
chiaia non si muoverà; «è bellm>, aspetta un po' e non lo sarà
più. «Ma è erudito alle buone arti e educato alla virtù, è
saggio ed esperto del bene per quanto ad un uomo è possibile
esser tale)>, finalmente lodi l'uomo in se stesso. Questi meriti
infatti non sono ereditati dal padre, né dipendono dal caso,
né si guadagnano per un anno in seguito ad un voto, non
sono deperibili insieme al corpo, né mutevoli con l'età.
Questi meriti il mio Socrate li possedeva tutti, per questo
disprezzò il possesso di quegli altri".
67
Il padre è nominato solo alla fine. Hai sentito tutte le lodi
rivolte a quell'eroe: niente di queste può rivendicare a sé o
Laerte, o Antichia, o Arcisio": tutto in questo elogio, come
vedi, appartiene solo ad Ulisse". E niente altro ti insegna
Omero, sempre a proposito di Ulisse, dandogli come compa
gna inseparabile la prudenza, che, secondo l'usanza dei poe
ti, ha chiamato Minerva. Sempre con questa per compagna
Ulisse ha affrontato le cose più spaventose ed ha superato
tutte le avversità. Infatti con il suo aiuto entrò nella caverna
del Ciclope, ma anche ne uscì, vide i buoi del Sole, ma non li
toccò, scese agli Inferi e ne risalì; sempre con la saggezza per
compagna passò davanti a Scilla con la sua nave senza essere
da lei rapito, si trovò in mezzo al vortice di Cariddi, ma non
ne rimase prigionero, bevve la coppa di Circe, ma non fu da
questa trasformato, approdò alla terra dei Lotofagi, ma non
vi rimase, udì le Sirene, ma non si avvicinò.
69
NOTE AL TESTO
71
abbelliscono la volta del cielo nelle notti serene. Troviamo una ricchezza di
citazioni poetiche, da Virgilio, Georgiche, l, 5; Eneide, III, 516; Lucrezio, La
natura, v, 575. Gli dei invisibili «che tuttavia possiamo contemplare con la
nostra mente» sono gli dei della mitologia. Apuleio elenca i dodici dei
canonici della tradizione, e a questi genericamente aggiunge <<tutti gli altri
dei della stessa categoria», la cui conoscenza da pane nostra è basata
essenzialmente sulla costatazione dei loro effetti, cioè <<gli svariati vantaggi
che essi ci procurano». Ma allora sono piuttosto demoni che dei, perché gli
dei «che hanno la loro dimora nelle sublimi altezze dell'etere (sono) separati
e lontani da ogni contatto umano» (III, 123) ed è invece competenza dei
demoni provvedere agli uomini, proteggerli, far conoscere loro il futuro con
prodigi di vario genere. D'altra parte se confrontiamo III, 123 e III, 124,
notiamo una cena confusione anche fra gli dei invisibili e il dio supremo e
trascendente. I confini che dovrebbero definire nettamente le differenze
interne alla gerarchia degli dei, fra dio supremo, dei subalterni e demoni
sono dunque abbastanza vaghi ed imprecisi.
La contraddizione di fondo fra il concetto di un dio trascendente, inattin·
gibile, inconoscibile, ineffabile e la presenza degli dei del politeismo tradi·
zionale definiti anch'essi come <<separati e lontani da ogni contatto umano»
e relegati nelle sublimi altezze del cielo, è risolta da Apuleio attraverso la
dottrina del Timeo 41 a ss., per cui il dio trascendente, unico, è definito
parens di tutti gli altri dei.
4 A proposito del riassunto astronomico che occupa i paragrafi da 116 a
121, Rathke (p. 23 ss.) e Beaujeu (p. 206) osservano che è strutturato nello
stesso modo di un celebre passo del De natura deorum (La natura degli dez)
di Cicerone (n, 19, p. 49 ss.); penanto si suppone o che i due testi derivino
da una fonte comune, forse stoica, o che Apuleio si sia rifatto a Cicerone
stesso direttamente, come avviene per il passo relativo alle fasi della luna che
si ispira a Lucrezio (v, 705 ss.) e a cui segue la citazione testuale dal De rerum
natura (v, 575).
' L'interesse conoscitivo di Apuleio è chiaramente tutto rivolto verso
questo dio parens, «omnium rerum dominator atque aucton> (signore e
autore di tutte le cose), che per l'ineffabile ed incredibile grandezza della sua
maestà, non può essere definito, neppure imperfettamente, con nessun
genere di discorso. Ma come può essere conoscibile un dio che trascende il
mondo sensibile, che è «sciolto da ogni vincolo del patire e dell'agire, mai
costretto da alcuna legge all'esercizio di qualche funzione...»? Cenamente
non mediante i sensi, ma neppure con l'intelletto: la possibilità di conoscere
Dio è un privilegio di pochi ed è affidata a mezzi del tutto irrazionali.
L'elemento indispensabile è costituito da un'elevazione dello spirito umano
al di sopra del sensibile, una momentanea liberazione dai legami corporei,
che si può realizzare solo per il filosofo, il saggio, il quale, vivendo una vita
casta e vinuosa, è in un certo senso simile a Dio e può quindi conoscerlo: <<a
mala pena i saggi ... arrivano a comprendere questo dio, e quasi a tratti,
come si vede una luce abbagliante...»; questo passo mette in luce il carattere
mistico della conoscenza del divino. La fonte di tale concezione è in alcuni
passi del Fedone 64 e 66 d.
-
72
6 In questo passo domina il concetto d'ineffabilità del dio supremo, che è
strettamente connesso con il concetto dell'inconoscibilità. Tale motivo,
ripreso da Platone, Parmemde 142 a e Timeo 28 c, è centrale nel medioplato
nismo e nel neoplatonismo: è comune ad Apuleio, Albino, Massimo di Tiro,
Numenio, Filone, Plotino e all'ermetismo (Festugière, p. 61 ss., esamina tale
concezione nelle diverse interpretazioni di questi �utori). Di conseguenza si
cerca in qual modo si possa conoscere la divinità. E classica del medioplato
nismo la teoria delle tre vie: via negationis, via analogiae, via eminentiae,
delle quali la prima è strettamente legata con la concezione negativa di Dio,
per cui Dio non si può definire. In Apuleio non troviamo alcun accenno alla
dottrina delle tre vie, prevale invece il concetto che conoscere Dio è un
privilegio di pochi, affidato a mezzi del tutto irrazionali.
7 La definizione dell'uomo è contraddittoria: in un primo momento viene
definito l'essere superiore sulla terra, in un secondo momento si insiste sulla
sua negatività in modo assai marcato con una terminologia che non lascia
dubbi: nefandezze, delitti («è divenuto così mostruosamente feroce che
nessun animale può sembrare in terra più in basso dell'uomo>> , m, 125).
Beaujeu (p. 212) sottolinea che il primo motivo (l'uomo come il migliore di
tutti gli esseri animati) è ripreso da Platone, Leggi VI, 765 e e x, 902 b, mentre
il secondo, l'enumerazione di tutti i suoi difetti risale ad Aristotele (Politica 1,
2, 1253 a). Come sempre Apuleio attinge a fonti diverse e· mescola concetti
altrettanto diversi con grande disinvoltura.
8 L'assoluta separazione fra uomini e dei è un punto fermo nel mediopla
tonismo in generale e nel pensiero di Apuleio in particolare: è essenziale
infatti porre e sottolineare questo concetto per introdurre la dottrina demo
nologica, affermare quindi l'esistenza dei demoni e il loro ruolo di interme
diari. Il passo di IV, 127 descrive a forti tinte e con angosciosa partecipazione
da parte dell'autore la dolorosa condizione dell'uomo, abitante della terra,
sprofondato nella più bassa miseria, in contrasto con la beata condizione
degli dei, eterni, perfetti, sollevati fino alla più sublime beatitudine, per
giungere alla conclusione che non esiste alcun contatto fra gli uni e gli altri;
perché, come dice Platone (Simposio 203 a 2), «nessun dio si mescola agli
uomini». Apuleio impiega tutta la sua abilità oratoria per rendere partecipe
emotivamente il pubblico che l'ascolta alla sua sconsolata e drammatica
visione, sapendo di colpire un punto debole, proprio della sensibilità del suo
tempo: l'ansia diffusa di una religiosità più profonda, il bisogno impellente
di sentire la divinità vicina all'uomo, presente nella sua vita quotidiana,
partecipe delle sue vicende. Beaujeu ha dimostrato (La politique religieuse
des Antonins, Paris 1955, p. 408 ss.) fino a qual punto il problema della
Provvidenza preoccupava gli animi di quei tempi: «Tacito, Marco Aurelio,
Epitteto espongono ognuno le teorie che si disputano su questo punto i
suffragi del pubblico; il mondo è retto dal caso, da un destino inesorabile ...
dagli dei attenti solo al cammino dell'universo o all'umanità in generale, o a
ciascun individuo?>> (p. 214).
' Se gli dei sono del tutto separati dagli uomini, come potranno pronun
ciarsi i giuramenti, chi sarà garante dellafides che è la base del giuramento
stesso? Apuleio riporta, come esempi di giuramento, i versi di Virgilio,
73
Eneide IX, 300 e x, 773, e li contesta affermando che <<tale onore spetta solo
al dio supremo>> e, riferendosi ad un verso di Ennio citato da Cicerone (De
o/ficiis III, 29, l 04), afferma che l'etimologia della parola iusiurandum
(giuramento) è lavis iurandum = promessa di Giove; ma non c'è alcun
rapporto etimologico fra ius e lavis. Infine troviamo il giuramento per
Giove-Pietra; si tratta di un antico rito romano; a Giove-Pietra (jupiter
Lapis) era dedicato un tempio in Roma sotto il nome di ]upiter Feretrius (cfr.
SeiVio a Virgilio, Eneide VIII, 641; Pesto alla voce Feretrius, p. 68; Aulo
Gellio, Le notti attiche I, 21; Cicerone, Epistole ai familiari 12, 7, Polibio
Storie III, 25).
10 Platone nel famoso brano del Simposio 202 d 203 a, getta le basi della
-
74
essere priva dei suoi abitanti? E chiaro che anche qui vivranno degli esseri,
aerei, che non sono gli uccelli- Apuleio dimostra che gli uccelli sono esseri
terrestri (VIII, 138 e 140) -, bensì i demoni. Nel cap. XI di Platone e la sua
filosofia questo concetto è già presente: «l generi degli esseri animati, per
pane loro, sono divisi in quattro specie, di cui l'una ha la natura del fuoco,
tale quale noi vediamo nel sole, la luna e gli altri astri, la seconda è la natura
aerea - questa egli (Platone) la chiama anche "la specie dei demoni" - la ,
75
politeismo tradizionale, ma il loro comportamento è tipico dei demoni, in
quanto si manifestano ad esseri umani, anche se eccezionali come Achille ed
Enea. Appare quindi nuovamente evidente la contraddizione che caratteriz
za la distinzione fra dei subalterni e demoni. Il terzo verso citato è Plauto,
Miles gloriosus 4: questo si riferisce al fatto che la trama dei corpi dei demoni
riflette con la sua lucentezza i raggi della nostra vista. Il Beaujeu osserva (p.
225) che in questo capitolo Apuleio sviluppa una teoria dei demoni vicina
alle credenze popolari: i demoni sono esseri indipendenti, dotati di un corpo
translucido e invisibile, ma materiale e brillante, intervengono in persona
nella vita degli uomini, possono rendersi visibili a chi vogliono. Ritroviamo
lo stesso concetto a proposito del demone di Socrate (XVI, 156 e xx,
166-167).
17 Per Apuleio ci sono alcuni caratteri fondamentali che distinguono i
demoni dagli dei; il primo di questi è costituito dal fatto che, mentre i
demoni provano sentimenti come quelli umani e sono soggetti ad emozioni,
turbamenti, passioni, gli dei sono assolutamente imperturbabili, hanno una
condizione spirituale sempre uguale e una serenità eterna. Apuleio rappre
senta quindi gli dei in modo simile alla dottrina epicurea; il Barra (p. 111) ha
ritrovato molte somiglianze a questo proposito fra il testo di Apuleio e il
poema di Lucrezio. E però scontato che l'attribuzione agli dei della aequabi
litas e dell'àn:a-fre�a è comune a tutti i sistemi filosofici, dallo stoicismo
all'epicureismo. La soggezione alle passioni è invece un carattere che acco
muna i demoni agli uomini e si spiega con la loro condizione intermedia.
18
Il cap. Xlii ci offre una deftnizione completa dei caratteri propri dei
demoni; il tema dominante è tuttavia quello della medietas fra dei e uomini:
delle cinque qualità che i demoni possiedono, le prime tre sono in comune
con gli uomini, una è loro propria, mentre la quinta, cioè l'immortalità è
comune con gli dei. Il testo base di riferimento è sempre quello del Simposio
(202 e) che sottolinea appunto la medietas dei demoni. Per quanto riguarda
l'immortalità che Apuleio afferma decisamente, sappiamo che non tutti
l'attribuivano ai demoni, sembra che Socrate la negasse e Plutarco non è
preciso su questo punto (cfr. Beaujeu, p. 228).
19 Secondo Apuleio l'esistenza dei demoni, il loro ruolo e la loro natura di
intermediari fra dei e uomini conferiscono validità e legittimano tutti i tipi di
culti, cerimonie, sacrifici, pratiche religiose private e pubbliche, la cui
varietà è giustiftcata appunto dalla molteplicità di gusti, se così si può dire, di
questi esseri divini: «c'è chi si rallegra di essere onorato di notte e chi di
giorno, chi in pubblico e chi in segreto.. ». Osserva giustamente il Beaujeu
.
(p. 128) che in questo modo tutto l'edificio del politeismo minato dalla
critica filosofica è consolidato e rinvigorito dalla demonologia.
20 l demoni sono distinti in tre categorie: le anime umane che si trovano in
un corpo, le anime che hanno abbandonato il corpo in cui dimoravano, i
demoni che non hanno mai avuto contatti materiali; questi ultimi costitui
scono un augustius genus, al quale appartengono: il Sonno, l'Amore, e tutti i
demoni che proteggono ogni singolo individuo, come il demone socratico.
Fra le prime due categorie non c'è un'effettiva differenza, si tratta infatti
comunque di anime, anche se con una diversa condizione momentanea. In
76
Platone le tre categorie di demoni sono: i demoni-anima, il demone di
Socrate e il demone semidio, intermediario fra il divino e il mortale. La
classificazione di Apuleio è quindi leggermente diversa.
11
Risale a Platone (Timeo 90 d) il concetto che l'anima umana, che ancora
dimora nel corpo, è un demone. L'idea, osserva il Beaujeu (p. 231), è passata
in Senocrate e negli Stoici, cosl pure il termine EÙOa(fJ.OJV che indica chi
possiede un buon demone, «cioè un'anima perfettamente virtuosa>> , deriva
da Senocrate ed è fatto proprio dagli Stoici. Apuleio traduce questo termine
greco con la propria latina Genius e ne dà la sua interpretazione: «questo dio
che per ciascun uomo è la propria anima, sebbene immortale, è in qualche
modo generato insieme all'uomo». La concezione romana del Genio indivi
duale è molto vicina a quella greca del demone individuale. L'usanza di
abbracciare o toccare le ginocchia è determinata dalla posizione di chi prega
cercando di destare sentimenti di pietà e di misericordia (cfr. Servio a
Virgilio, Eneide 3, 607, Plauto, Miles glon'osus 239, Orazio, Epistole I, 7,
94-95 e Plinio, Storia naturale XI, 103, che cerca di spiegarne la ragione nel
fatto che pregando si toccano le ginocchia e si arriva ad adorarle, forse
perché in esse è la vitalità). Il collegamento fra i due termini genua e Genius
dal punto di vista etimologico è arbitrario.
22
Il verso è di Virgilio, Eneide IX, 184-185.
" Segue una classificazione molto precisa e particolareggiata- evidente
mente legata alla tradizione religiosa romana dell'oltretomba - di quei
demoni-anime che si sono liberati dal corpo: Lemuri, Lari familiari, Larve,
Mani. Anche in un passo dell'Apologta (54) sono citati questi stessi nomi, ma
in quel testo servono solo ad indicare le ombre dei morti in generale nel loro
aspetto terrificante, al di là di ogni intento di classificazione. Nella tradizio
ne romana, i Lemuri sono essenzialmente malvagi. Apuleio invece li distin
gue in buoni, cattivi e incerti: Lari, Larve, Mani. Il discorso sui demoni-ani
me si conclude con l'accenno ad alcuni uomini eccellenti, la cui anima, dopo
la morte, è stata dagli uomini considerata una divinità: sono demoni come
tutti i demoni-anima, in un certo senso demoni superiori, però sempre
demoni in quanto la loro divinizzazione è opera degli uomini: «sono stati
considerati dagli uomini come esseri divini e in seguito onorati di templi e di
riti ... Anfiarao ... Mopso ... Osiride ... Esculapio ... >> (xv, 154).
24 Esaurita la classificazione relativa ai demoni che hanno avuto un tempo
dimora in un corpo umano, Apuleio passa ad illustrare i caratteri di quei
demoni «di una specie più elevata e più nobile>> , che non hanno mai avuto
legami corporei, in ordine il Sonno, l'Amore (cfr. anche Florida 10), i
demoni custodi (a questi ultimi appartiene il demone di Socrate). Il riferi
mento a Platone riguarda il celebre passo del Simposio (202 d - 203 a) per la
definizione dell'Amore, dove troviamo anche un accenno alle due diverse e
concomitanti funzioni sia dell'Amore, sia del Sonno («durante la veglia
come durante il sonno>> si può avere la comunicazione fra gli dei e gli uomini
per opera della funzione mediatrice del demone); l'Amore possiede la vis
vigilandi, il sonno la vis soporandi. Per i demoni-custodi sono vari i passi
platonici a cui si attinge: Fedone 107 d, Repubblica x, 617 e e 620 d-e, Timeo
90 a. Nel testo di Apuleio comunque il tema viene trattato con notevole
77
ampiezza e gran rilievo, vi si trovano anche alcuni elementi in più, come ad
esempio quello della funzione di testimone che il demone si assume dopo la
mone di fronte al tribunale dell'aldilà. L'intero capitolo XVI è dedicato
all'analisi dettagliata di tutte le funzioni che svolge il demone custode nei
confronti del singolo uomo a cui è stato assegnato: <<questo guardiano
personale ... sotveglia ogni singolo uomo, lo assiste ... lo protegge ... lo
conosce ... lo ossetva ... biasima il male e approva il bene ... », e più avanti
troviamo una serie di epiteti che setvono anch:essi a definirne le funzioni:
consigliere, guida profetica, protettore, aiuto. E chiaro l'intento introdutti
vo e preparativo di Apuleio che si appresta a inserire nel suo discorso di
carattere generale l'argomento panicolare e centrale del De dea Socratis, il
demone di Socrate, di cui si parlerà subito dopo.
" Il demone di Socrate (XVII, 157-158; xvm, 159-162). Il rappono e la
differenza fra saggezza e divinazione sono al centro del discorso sul demone
socratico: laddove la saggezza, facoltà razionale dell'uomo, non è sufficien
te, il filosofo ricorre all'appoggio della divinazione, intetvento soprannatu
rale degli dei. Questo per Socrate. Apuleio cita Omero per trame esempi a
sostegno della sua tesi: Nestore di Pilo è il simbolo della saggezza, dopo di
lui Ulisse ( il pensiero, la mente); Calcante per i Greci, Eleno o Cassandra
=
abbonda di elementi stoici, come è logico, dal momento che l'ideale umano
tipico della filosofia stoica influenzò sicuramente il medioplatonismo nel
l'ambito dell'etica. Nel Demone di Socrate non troviamo una descrizione
generale del saggio, inteso come ideale di vita morale, bensì l'identificazione
dell'ideale stesso con la figura di Socrate. Apuleio si rivela molto fedele a
Platone, allorché analizza i rapponi di Socrate con il suo demone: nel passo
31 d dell'Apologia, Socrate racconta che fin dall'infanzia gli capitava di
percepire «una specie di voce>> che lo distoglieva da ciò che stava per fare e
mai lo incitava ad agire. Se analizziamo il testo di Apuleio ritroviamo lo
stesso concetto: il demone si rivelava come una specie di voce e mai spingeva
Socrate all'azione, ma sempre lo frenava. Cosl anche il racconto di Apuleio
del celebre episodio del Fedro è molto fedele al testo platonico (Fedro xx,
242 b 249 b).
-
27 Apuleio afferma prima che l'intetvento del demone nella vita di Socrate
si manifestava attraverso un segno percepibile con le orecchie: «una specie
di voce>> (e qui discute a lungo e sottilmente sul valore dell'espressione
citando anche a sostegno della sua tesi un verso di Terenzio, Eunuco 454 in
cui si tratta di una ben diversa voce); poi asserisce che Socrate percepiva <<i
segni del suo demone non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi,
perché assai spes.so gli si manifestava ... un segno divino>>, ribadendo
nuovamente il concetto già espresso nel cap. Xl dell'invisibilità dei demoni,
<<a meno che non vi sia un motivo impanante o che la volontà divina non li
78
spinga a mostrarsi spontaneamente». Anche qui si ripropone il paragone
con Minerva-Atena: il demone sarebbe stato visibile solo a Socrate (con
traddicendo alle regole generali) come Atena lo era solamente per Achille. Si
tratta quindi di casi eccezionali. Apuleio, temendo di non essere creduto dai
suoi ascoltatori, produce un altro argomento a favore della sua tesi, l'autori
tà dei Pitagorici, convalidata dalla testimonianza di Aristotele (cfr. V. Rose,
Aristotelis .. ./ragmenta, Lipsia 1886, fr. 193, p. 1571) e da qui conclude che
se chiunque può contemplare una figura divina, <<perché un tale privilegio
non poteva capitare a Socrate>>, data la sua sublime saggezza?
28
Il saggio è assimill!_to alla divinità: questo è un tema caro sia agli Stoici
che ai medioplatonici. E il concetto della ÒI!OLWOLç "t<jl �E<jl, che deriva dal
Teelelo 176b, fine ultimo della vita morale che solo il saggio è capace di
realizzare pienamente (cfr. anche Platone e la sua filosofia XXIII, 127: «il
saggio segue e imita Dio», questo è il senso dell'espressione che ricorre
costantemente: rnou �E<jl =segui Dio). La teologia e l'etica a questo punto
si confondono, come in ogni speculazione di tipo pratico-religioso: la vita
morale è l'unico mezzo per raggiungere Dio. L'uomo vinuoso si eguaglia a
Dio e in tale condizione può conoscerlo. Lo stesso concetto è presente in
Plutarco (lside e Osiride 382 f): lo spirito umano immerso nel corpo non può
conoscere Dio, mentre è possibile al fùosofo una sorta di conoscenza mistica
che permette la partecipazione al divino. In un altro passo (351 f) Plutarco
pone l'accento sull'atteggiamento ascetico del credente ed anche su una
certa benevolenza del dio per il fedele che conduce una vita di austerità e di
astinenza.
" I n questo capitolo, che si apre con una esortazione agli uomini a seguire
l'esempio di Socrate dedicandosi al benefico studio della filosofia, con il fine
ultimo di somigliare come lui alla divinità, ha inizio la parte conclusiva del
Demone di Socrate, diversa, per il tono didascalico e per il prevalente
carattere moralistico e predicatorio, dalle parti precedenti del trattato.
Questa diversità è stata sottolineata da molti studiosi, fra i quali Vallette (p.
249), Rathke (p. 10) ecc. Si tratta della parte meno originale e meno
personale del trattato, «un mosaico di luoghi comuni, presi in prestito alla
predicazione stoico-cinica e presentata nella forma propria del genere
parenetico>> come giustamente la definisce Beaujeu (p. 244) e ricca, per
ragioni oratorie, di richiami letterari. L'aspetto più tipico consiste nell'iden·
tificazione tra filosofia e vita morale (vedi nota 28) e nella prevalenza del
carattere pratico attribuito alla speculazione filosofica.
10
«Socrate, Platone, Pitagora>>: è diffusa nel platonismo la tendenza ad
unire in una comune, devota, ammirazione, le tre figure di Socrate, Platone,
Pitagora, considerati molto simili alla divinità, perché capaci di conoscere
Dio con la loro filosofia.
11
«I l culto del proprio demone>> significa in pratica «il culto della propria
anima», che si realizza con «l'iniziazione alla filosofia>> - più teosofia che
filosofia in questo caso - e la pratica di una vita pura e virtuosa, guidata dai
più elevati valori morali. All'ammirazione per questo modello ideale di vita
si contrappone il disprezzo per tutti i beni materiali, lusso, sfarzo, ricchezze
ecc. Tale disprezzo raggiunge la sua punta massima nel paragone fra i ricchi
79
e i cavalli, che chiude il cap. XXII. La descrizione della sfarzosa e futile vita
dei ricchi è comune alla letteratura stoica, basta pensare a Seneca (ad
esempio Le lettere 84, 11 ss., La tranquillità dell'anima l, 5 ss.).
32 I versi citati sono di Virgilio, Georgiche lll, 80 ss.
" A lungo e con passione Apuleio si sofferma ad illustrare la differenza
fra i veri beni, che danno la misura del valore dell'uomo in se stesso e i beni
esteriori, estranei all'uomo (aliena, come li definisce con un termine partico
larmente espressivo: non propri della natura dell'uomo). Socrate è l'esem
pio dell'uomo che ha disprezzato il possesso di questi falsi beni e si è
dedicato invece a coltivare la virtù e il bene, valori essenziali e immutabili ai
fini della vita morale dell'uomo e della più alta espressione della sua
interiore spiritualità: i veri beni (xxm, 174-175). Questa distinzione risale
ad un passç di Platone (Leggi 11, 661 a, ss.) ed è particolarmente cara a tutti
gli Stoici. E evidente la presenza di numerosi luoghi comuni tipici della
tradizione diatribica; però, come giustamente osserva il Barra (p. 89), la
partecipazione appassionata dello scrittore «svela il carattere intimo e l'in
tento vero del De deo Socratis. Mentre prima era stata illustrata la distanza
infmita che separa Iddio dall'uomo, adesso si intravede e si auspica la
possibilità - tramite la sapientia di riscattarsi dalle miserie della terra e
-
muovere a mete più grandi. L'aspirazione a muovere in alto, che sta alla
base, qui diventa programma di vita che implica più che una speranza, una
fede».
" Sal Porthaonio ... : è la lezione proposta da Beaujeu; il passo è molto
difettoso e le correzioni sono incerte. La parola Porthaonio sembra possa
indicare uno dei figli di Portaone; di questi il più celebre era Oineo, re
dell'Etolia che cacciato in vecchiaia dai figli di suo fratello Agrio, sopportò
coraggiosamente la sua sventura e infme fu ristabilito sul trono dal nipote
Diomede (dr. Beaujeu p. 246, nota 4).
" In queste parole si raccoglie il senso dell'intero elogio di Socrate,
finalizzato a fornire un sicuro insegnamento di vita all'uomo in generale:
infatti l'esempio del filosofo, che dedicò la sua esistenza alla ricerca della
verità e del bene, costituisce in un certo senso un pretesto per un più
generale elogio della fùosofia, intesa come magistra vitae e guida sicura al
bene vivere. Il discorso che si era aperto nel cap. XXI con l'esortazione
«perché piuttosto, sull'esempio e nel ricordo di Socrate, non proviamo
anche noi ad elevarci dedicandoci al benefico studio della filosofia ... » si
chiude nel cap. XXIV con parole pressoché uguali: «perché dunque non ti
dedichi anche tu, e in fretta, allo studio della filosofia?»
" Cfr. Accio, fragm. 520 Ribbeck.
" Arcisius o Arcesius, figlio di Giove e padre di Laerte, il quale, come è
noto, da Anticlea generò Ulisse.
" L'esempio di Ulisse, con cui si chiude il Demone di Socrate, è parallelo a
quello di Socrate; ambedue mostrano chiaramente la loro funzione didasca
lica e un certo valore simbolico: sia Socrate che Ulisse sono stati considerati
come il modello dell'uomo saggio, sia Socrate che Ulisse hanno avuto al loro
fianco una guida sicura che li ha aiutati a superare le difficoltà della vita;
Socrate il suo demone, Ulisse la saggezza, allegoricamente rappresentata da
80
Atena. La conclusione del trattato è dunque quella cui Apuleio si era
proposto di pervenire: dimostrare che l'uomo, pur relegato in questo
inferno terreno, non è solo e abbandonato a se stesso, inesorabilmente
lontano e separato dal divino, perché interviene la funzione del demone che
lo protegge e lo guida durante la sua vita terrena. La pratica di una vita pura
e virtuosa, il perseguimento dei più alti valori morali costituiscono una
condizione di questo possibile awicinamento dell'uomo alla divinità: «nien
te c'è infatti di più simile e di più caro ad un dio di un uomo dall'animo
perfetto ...» (xx, 167).
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