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Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 357

Eleonora Zeper
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio

Se non compissi la mia opera, i mondi


sprofonderebbero. Sarei io la causa della
confusione universale e annienterei que-
ste creature.
(Bhagavad-Gītā iii, 24)

Dedicandomi ogni tua azione, con spiri-


to perfettamente interiorizzato, libero da
ogni desiderio come da ogni spirito di
possesso, calmata la tua febbre, combatti.
(Bhagavad-Gītā iii, 30)

In questo mio breve lavoro intendo esaminare il tema del sacrificio


nel pensiero di Porfirio nei due testi ove questo viene preso in esame nel
dettaglio da parte del filosofo1: il secondo libro del trattato De abstinentia
animalium e il Πρὸς Μαρκέλλαν (Lettera a Marcella)2. In entrambe le
opere alla critica razionalistica della religione positiva si unisce una pro-
fonda quanto problematica necessità di omaggio alla tradizione religiosa
ellenica. La scelta di limitarmi a questi due testi è stata dettata soprattutto
dalla volontà di trattare nel dettaglio le opere nelle quali Porfirio parla del
sacrificio rivolgendosi in maniera esplicita a chi si occupa di filosofia: è
una questione di destinatario e di genere letterario – e dunque di scopo che
l’opera si propone. Questa scelta implicherà una presa di posizione sulle
reali o apparenti divergenze che emergono fra le varie opere porfiriane.
Se nel De abstinentia il vero sacrificio del filosofo è quello spirituale
(νοερὰ θυσία)3, rimane però una sostanziale ambiguità nei confronti del-
le pratiche tradizionali: continuano, infatti, ad essere sempre prescritte ad
un altro genere d’uomo, mentre il filosofo può, ma non deve, aggiungerle

1
Di sacrificio il filosofo parla anche in due passi della frammentaria Philosophia ex
oraculis haurienda (frr. 314-315 Smith), tramandataci soprattutto da Eusebio. Di quest’opera
non ci occuperemo qui non solo per motivi di spazio, ma soprattutto per il differente scopo che
questa si propone rispetto ai testi che si vuole qui prendere in esame. Vedi infra. L’edizione dei
frammenti è Porphyrii Philosophi Fragmenta, ed. A. Smith, Teubner, Stuttgart - Leipzig 1993.
2
Le edizioni di riferimento sono Πρὸς Μαρκέλλαν, ed. W. Pötscher, Brill, Leiden 1969;
De l’abstinence, ed. J. Bouffartigue - M. Patillon - A.P. Segonds, 3 voll., Les Belles Lettres,
Paris 1979-1995.
3
Abst. ii 45, 4. Per le abbreviazioni di autori e opere greche seguo, salvo rare eccezioni, i
criteri presenti in H.G. Liddell - R. Scott, A Greek English Lexicon, Clarendon Press, Oxford
1940; in caso di autori e opere di lingua latina seguo i criteri del Thesaurus Linguae Latinae.
Vedi infra la legenda esplicativa.

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alla propria interna disposizione al sacrificio. Tale ambiguità – sempre al
limite fra il nostalgico omaggio e l’affermazione di un valore intrinseco al
rito – sarà ancora più marcata nell’epistola alla moglie Marcella, testo nel
quale, però, verrà proposta una nuova corrispondenza fra la sfera interiore
(l’ἦθος, la “disposizione” del filosofo che si accinge al sacrificio) e quella
esteriore (l’ἔργον, l’“atto”). In questo caso, però, con il termine ἔργον
non s’intenderà nello specifico l’atto sacrificale, ma l’operato umano in
genere, quell’agire mediante il quale il filosofo può inserirsi nella propria
realtà politico-sociale.
Questo lavoro prende le mosse da un articolo del 2002 di Marco Zam-
bon4, testo con il quale vuole porsi in continuità e del quale accetta, ri-
prende e approfondisce tre punti principali:
1) l’idea porfiriana del νοερὰ θυσία come forma di culto individuale
propria al filosofo in un’epoca di profondo cambiamento religioso;
2) l’ambiguità di Porfirio nei confronti della realtà corporea «sia im-
magine sia schermo della realtà intelligibile»5, ambiguità che si riflette
nei confronti della pratica cultuale;
3) l’«accettazione del filosofo delle forme popolari del culto, accom-
pagnata da un’idea della loro superfluità rispetto alla propria scelta di
vita»6 e il fatto che tale atteggiamento sia motivato in particolar modo da
ragioni politico-religiose.
Rispetto all’articolo di Zambon il presente testo si propone tre obiettivi:
1) riflettere – in termini filosofici, letterari e storico-religiosi – sulla
ragione delle contraddizioni che emergono nelle opere di Porfirio in ma-
teria di sacrificio;
2) prendere in esame il concetto di ἔργον come possibilità di coniu-
gare la pratica individuale dell’ὁμοίωσις θεῷ7 con l’inserimento attivo
del filosofo nel mondo;
3) dimostrare, proponendo alcuni paralleli con le Enneadi di Plotino,
quanto nella concezione porfiriana la pratica filosofica, coincidente con
la vita stessa del filosofo-asceta al quale l’autore si rivolge, si configuri
come principale via dell’uomo al divino e quanto, sia l’atto sacrificale sia
la tradizione religiosa nel suo complesso, siano considerate come forme
in “enigma” (αἴνιγμα) del percorso del filosofo al divino. L’uso di un

4
A. Camplani - M. Zambon, Il sacrificio come problema in alcune correnti filosofiche di
età imperiale, in «Annali di storia dell’esegesi» 19, 1 (2002), pp. 59-99. L’articolo è scritto a
quattro mani, ma la parte dedicata a Porfirio è del solo Marco Zambon.
5
Ibi, p. 63.
6
Ibi, p. 68. La tesi si basa in particolar modo sulla discussione di alcuni passi della Vita
Plotini (2, 37-43; 10, 1-13; 10, 15-25; 10, 33-36).
7
“Assimilazione a Dio” da Theaet. 176 b, cfr. anche Tim. 90 d. L’ὁμοίωσις θεῷ è il fine
tradizionale della filosofia platonica, ripreso tanto dal platonismo della prima età imperiale
quanto da Plotino. Cfr. ad es. Plu. De Iside i 351; Alc. Didask. 2, p. 153, 8-9 Whittaker; Apul.
De Plat. ii 23; Plot. Enn. i 2, 3, 19-22.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 359
linguaggio sacrale per trattare temi filosofici dovrà indurre a riflettere
ancora una volta sulla natura degli intimi legami fra filosofia e religione
in un’epoca cruciale e complessa come la tarda antichità.

1. Qualche considerazione preliminare

1.1. La «tragicommedia della vita»

«E così anch’io, per placare i demoni che soprintendono alla tragicommedia del-
la vita non esitai a recitare con vivo piacere la mia parte nell’inno delle nozze [...]
con questa differenza, tuttavia, che non per noi, ma per gli altri, abbiamo recitato
la nostra parte in quest’opera teatrale al servizio dei demoni»8.

Così un anziano Porfirio si rivolge alla moglie Marcella, vedova spo-


sata in tarda età. La vita non è δρᾶμα né ποίημα, come per Plotino9, ma
κωμῳδοτραγῳδία. Dal vocabolo neutro del maestro a quello ossimorico
dell’allievo: già in questa definizione dell’esistenza umana come tragi-
commedia sta tutta la personalità composita e contraddittoria di Porfirio.
Il sofista Eunapio10, suo biografo, scrive che, Porfirio, dopo sei anni
passati alla scuola neoplatonica di Roma, «vinto dall’elevatezza dei di-
scorsi, odiò sia il corpo sia essere un uomo»11. Una tensione intellettua-
le insopportabile e l’incapacità di tener testa a quello «spirito insonne e
puro, sempre teso al divino»12 che era il suo maestro lo avrebbero gettato
nella più cupa delle crisi.
La sua relazione problematica con la realtà coinvolgerebbe dunque
tanto il rapporto con il proprio corpo quanto quello con il mondo in gene-
re e con il proprio operare in esso e, dunque, anche con il rito sacrificale,
ossia con quello che era stato nella tradizione l’atto per eccellenza (nei
poemi omerici e in Esiodo, infatti, ἔρδω, “faccio”, corradicale di ἔργον,
veniva impiegato con il significato di “sacrifico”, mentre poi si userà di
preferenza θύω13). Le intime esigenze religiose del filosofo si scontrano
dunque inevitabil­mente, e con una forza maggiore rispetto ad altri pe-
riodi storici, con la stringente necessità di mantenere in vita le tradizioni
del proprio mondo culturale, minacciato da quella dilagante superstitio
nova14 che di lì a poco sarebbe divenuta religio licita. Nelle sue opere
si mescola tutto questo; il difensore della religiosità tradizionale della

8
Marc. 2.
9
Entrambi le definizioni ricorrono più volte in Plot. Enn. iii 2, 17.
10
Storico e sofista di Sardi vissuto fra la metà del iv secolo d.C. e l’inizio del v d.C.
11
Eun. VS iv 1, 7.
12
Porph. V. Plot. 23.
13
Hom. Il. ii 306; Hdt. I 131, 2; Hes. Theog. 417; Op. 136.
14
Così Svetonio sul Cristianesimo in Nero 16: «superstitio nova ac malefica». Come tutti
sanno il Cristianesimo divenne religio licita nel 313 d.C., con l’Editto di Milano.
360 Eleonora Zeper
Philosophia ex oraculis haurienda, il sostenitore degli idoli del Περὶ
ἀγαλμάτων (Sui simulacri), l’esegeta omerico del De antro nympharum
sembrerebbero, ad una prima e superficiale occhiata, aver poco a che fare
con l’asceta del De abstinentia, con l’erudito dei commentari, con lo sto-
rico e il polemista del Contra Christianos o con il filosofo puro delle Sen-
tentiae. Secondo una testimonianza tarda, la Pizia lo definì πολυμαθής,
“erudito”15, Socrate Scolastico lo chiama φιλοσκώπτης, “amante dei giri
di parole”16, Girolamo, invece, blasphemans17: insomma un gran cavilla-
tore agli occhi di molti, uno che parlava e scriveva molto e di argomenti
sempre diversi.
Le discrepanze esistenti fra i suoi testi, tanto di singole idee, quanto
d’impostazione d’insieme, portano lecitamente Eunapio a supporre che
«andando avanti con l’età concepì opinioni diverse»18. Si deve dunque
postulare, come sostiene Bidez19, un’evoluzione del pensiero porfiriano?
Forse si può pensare che alcuni autori abbiano già in sé tutto ciò che
diranno e semplicemente arrivino a dirlo in momenti diversi, in modi
diversi, con generi letterari diversi. Il desiderio che scorgiamo alla base
tanto del suo pensiero che della sua stessa esistenza è quello della con-
ciliazione: come fra Platone e Aristotele20 così fra tradizione cultuale e
religiosità filosofica.
Un filosofo che dunque vorrebbe porre tale ricomposizione a difesa
di un mondo culturale in declino, e che, proprio in virtù del risultato pro-
fondamente ambiguo che ne uscì, finirà per essere uno degli autori più
rappresentativi, della tarda antichità.

15
David Philosophus In Porph. p. 92, 3 = T. 28 von Harnack. Cfr. l’edizione italiana che
riproduce quella di von Harnack del Contra Christianos: Porfirio, Contro i Cristiani, ed. G.
Muscolino, Bompiani, Milano 2009.
16
Socr. H.e. iii, 23 = T. 20 von Harnack.
17
Hier. Epistola cxii 6, 11 = Porph. Chr. fr. 21A von Harnack.
18
Eun. VS iv 2, 6.
19
J. Bidez, Vie de Porphyre, le philosophe néo-platonicien. Avec les fragments des traités
Περὶ Ἀγαλμάτων et De regressu animae, Van Goethem, Gand 1913. Contro l’idea di Bidez è
anche Zambon (Il sacrificio come problema, cit., p. 64) il quale parla di «programma sostan-
zialmente coerente» nel quale trovano posto tutte le opere porfiriane. Cfr. anche M. Zambon,
Porphyre et le moyen-platonisme, Vrin, Paris 2002; la conclusione alla quale lo studioso arriva
è la medesima (cfr. soprattutto pp. 339-342): in Porfirio vi è una sostanziale unità di program-
ma, il suo progetto consta in una sintesi sistematica di filosofia greca e saggezza mitica e la sua
prima preoccupazione è quella di evitare la confusione. Le stesse parole di Plotino, che Porfirio
riporta e che il maestro gli avrebbe rivolto (V. Plot. 15, 4-6: «Ti sei dimostrato al tempo stesso
poeta, filosofo e ierofante»), sarebbero espressione del programma di una vita.
20
L’Isagoge (un’introduzione alle Categorie aristoteliche) del neoplatonico Porfirio, è
stato uno dei principali veicoli della logica aristotelica nell’alto medioevo.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 361
1.2. Destinatario e genere letterario

«Ora si deve innanzitutto sapere che la mia parola non darà consiglio ad ogni vita
umana: né a quelli che si occupano di mestieri artigianali né a quelli che eser-
citano il corpo, non ai soldati, non ai marinai, non agli oratori, non a quelli che
hanno intrapreso una vita d’azione (τὸν πραγματικὸν βίον), ma all’uomo che
ha riflettuto chi egli sia e donde sia venuto, dove debba affrettarsi [...]. Noi non
alzeremo la voce contro chi è diverso da un uomo di questo genere»21.

Questa l’avvertenza che Porfirio pone all’inizio del De abstinentia.


Ci troviamo davanti a una concezione fortemente elitaria nella quale il
πραγματικὸς βίος si oppone al θεωρητικὸς βίος22: non sarebbe possi-
bile parlare allo stesso tempo a entrambi i generi di uomo. Se supponia-
mo – sulla scorta della selezione di pubblico che egli stesso propone, ma
senza adottarla in maniera rigida di testo in testo – che egli si rivolga a
diversi tipi umani nelle diverse opere, diverrà lecito accantonare la tesi
di un’evoluzione del pensiero porfiriano. Limitan­doci al tema religioso,
è probabile che alcuni suoi lavori fossero destinati ad un pubblico un po’
più ampio: così certamente la Philosophia ex oraculis haurienda. Altri,
invece, come il De abstinentia, erano rivolti di certo ad un uditorio più
selezionato23.
Gli autori cristiani successivi, tuttavia, a causa non solo dell’univer-
salità insita nel messaggio evangelico, ma anche, e forse soprattutto del
ruolo che ebbe Porfirio nella polemica anti-cristiana, tendono a non rico-
noscere l’intenzionalità del diverso registro che Porfirio di volta in volta
assume, e finiscono con l’accusarlo di incoerenza o codardia. Eusebio24,
ad esempio, sostiene che sarebbe facile confutare Porfirio non solo per
l’assurdità delle pratiche teurgiche da lui proposte, ma anche per il suo
stesso comportamento contradditorio. Agostino, poi, ci offre una consi-
derazione significativa. In un passo del De civitate dei, infatti, si rivolge
direttamente a Porfirio in riferimento ai riti teurgici prescritti dal filosofo

21
Abst. i 27, 1-2. Le traduzioni del De abstinentia e del Πρὸς Μαρκέλλαν sono di A.R.
Sodano, salvo dove diversamente indicato. Rispetto alle traduzioni di Sodano inserisco, quando
si parla del primo Dio, l’articolo determinativo, in genere presente nell’originale greco.
22
Per il θεωρητικὸς βίος vedi Abst. I 29.
23
Della stessa idea è Giuseppe Muscolino in Magia, stregoneria, teosofia e teurgia. La
trasformazione del Neoplatonismo, in Porfirio, Filosofia rivelata dagli oracoli. Con tutti i
frammenti di magia, stregoneria, teosofia e teurgia, eds. G. Girgenti - G. Muscolino, Bompiani,
Milano 2011, pp. cxii-ccxviii: p. clxxxviii. Accolgo l’idea di Muscolino, sebbene con le
dovute modifiche di cui infra. Un’ovvia avvertenza: non solo la circolazione libraria nel mondo
antico era del tutto diversa da quella attuale, ma anche quando si parla di pubblico più ampio
non si vuole mai intendere che Porfirio parli al popolo, per il quale la religiosità tradizionale
non è mai messa in discussione. Vedi infra il confronto con Teofrasto.
24
Eus. PE iv 8, 4-5. Cfr. D.J. O’Meara, Porphyry’s Philosophy from Oracles in Eusebius’
Praeparatio Evangelica and Augustine’s Dialogues of Cassiciacum (“Études augustiniennes”,
39), Brepols, Paris 1969.
362 Eleonora Zeper
in un’opera frammentaria intitolata De regressu animae, testo accostabile
come impostazione alla Philosophia ex oraculis haurienda. Il passo ago-
stiniano risulta illuminante:
«Tuttavia per la tua vita intellettuale ti consideri superiore a queste leggi divine,
ed è evidente che non ti sembrano in alcun modo indispensabili, come filosofo,
le purificazioni dell’arte teurgica, ma, alla fine, come se pagassi questo prezzo ai
tuoi maestri, le prescrivi, a quelli che, non potendo dedicarsi alla filosofia, sono
corrotti da queste che tu invece consideri inutili per te che sei capace di cose
superiori»25.

Agostino – al quale Porfirio doveva essere ben noto se accettiamo


l’identificazione26 dei libri platonicorum27 che questi lesse in gioventù
con la traduzione latina di alcune opere porfiriane – riconosce sì tale dif-
ferenza di registro, ma la imputa non ad una volontaria categorizzazione
gerarchica dei tipi umani quanto piuttosto ad un forzoso attaccamento alla
tradizione. Questo è quanto emerge dalle parole di Agostino: Porfirio di-
viderebbe gli uomini in due gruppi e prescriverebbe i riti teurgici a coloro
che non sono compiutamente filosofi mantenendo solo in apparenza una
posizione neutrale nel giudizio delle due vie. Ma la situazione è molto più
ambigua e complessa così come ambiguo e complesso è il rapporto fra il
filosofo Porfirio e la realtà manifesta, sia essa intesa come corpo umano,
come società e come tradizione religiosa, o come mondo della manifesta-
zione nel suo complesso28.

25
Aug. Civ. Dei x 27, 8-25. La traduzione di questo passo è di G. Muscolino. Per Porfirio
in Agostino cfr. D.J. O’Meara, Porphyry’s Philosophy from Oracles in Augustine (“Études
augustiniennes”, 9), Brepols, Paris 1959 e G. Clarke, Augustine’s Porphyry and the universal
way of salvation, in G. Karamanoulis - A. Sheppard (eds.), Studies on Porphyry, Institute of
Classical Studies, London 2007, pp. 127-140. Sulla filosofia neoplatonica nel De civitate dei
cfr. G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino d’Ippona. Il saeculum e la gloria nel De civitate
dei, pp. 148, 287 ss. Per Agostino i platonici, non ammettendo l’incarnazione del Figlio,
conoscerebbero sì la Verità nella sua gloria divina ed eterna, ma non nel suo nascondimento:
la conoscerebbero, ma non la ri-conoscerebbero nella creatura (pp. 288-289). Di Lettieri si
veda anche L’altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi
del De doctrina christiana, Morcelliana, Brescia 2002: il fatto che nel De doctrina christiana
Agostino riesca in una sintesi perfetta fra ordo metafisico e «assoluta anarchia della grazia» (p.
621) lo allontanerebbe del tutto dal platonismo. Tutta la critica ai platonici in Civ. Dei x 27-32
si basa dunque su due punti chiave: la critica all’intellettualismo e quella all’elitarismo ai quali
Agostino oppone il potere della grazia di Dio e la via universalis offerta da Cristo.
26
Ad es. P.F. Beatrice, Le traité de Porphyre contre les Chrétiens. L’état de la question,
in «Kernos» 4 (1991), pp. 119-138. Cfr. anche P. Hadot, Porfirio e Vittorino, Vita e Pensiero,
Milano 1993, p. 69: Hadot preferisce identificare i famosi libri platonicorum con una selezione
di testi porfiriani e plotiniani.
27
Aug. Conf. vii 9, 13.
28
Il complesso rapporto fra il sacrificio del filosofo e le pratiche teurgiche nel pensiero
di Porfirio non potrà venire preso qui in considerazione nel dettaglio per motivi di spazio, dal
momento che presupporrebbe un’attenta analisi del cosiddetto De mysteriis giamblicheo (il
titolo attestato dalla tradizione manoscritta è Ἀβάμωνος διδασκάλου πρὸς τὴν Πορφιρίου
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 363
Sorgerebbe infatti una contraddizione fra questa rigida divisione del
genere umano29 e la volontà porfiriana di conciliazione fra filosofia pla-
tonica e tradizione religiosa di cui al paragrafo precedente. A quest’o-
biezione è possibile ribattere in due modi. Il primo, più semplice: Por-
firio stesso è contradditorio, di continuo, come scrittore e come uomo,
non dobbiamo aspettarci coerenza e sistematicità. Il secondo, forse più
raffinato: la filosofia è un percorso, molti lo intraprendono, alcuni pro-
πρὸς Ἀνεβὼ ἐπιστολὴν ἀπόκρισις καὶ τῶν ἐν αὐτῇ ἀπορημάτων λύσεις, Risposta del
maestro Abamone alla Lettera di Porfirio ad Anebo e soluzioni della difficoltà presenti in essa.
Vedi la recente edizione di H.D. Saffrey - P. Segonds, Jamblique, Réponse à Porphyre (De
mysteriis), Les Belles Lettres, Paris 2013, nonché una presa di posizione sul carattere di tale
testo e dunque sui rapporti che intercorrono fra il pensiero di Porfirio e quello di Giamblico
per quanto concerne il rito. Mi limiterò ad una breve accenno. Molti studiosi (a partire da C.
Steel in Changing Self. A Study on the Soul in Later Neoplatonism: Iamblichus, Damascius
and Priscianus, Paleis der Academiën, Brussels 1978, p. 178; e poi Gregory Shaw, per il quale
si veda soprattutto Theurgy and the Soul, Penn State Press, University Park 1995, pp. 10-14,
64-117. Cfr. anche J. Finamore, Plotinus and Iamblichus on magic and theurgy, in «Dionysius»
17 [1999], pp. 83-94; E. Depalma Digeser, The power of religious rituals: a philosophical
quarrel on the eve of the Great Persecution, in A. Cain - N. Lensky [eds.], The Power of
Religion in Late Antiquity, Ashgate, Fordham 2009, pp. 82-92; E. Gritti, Orientamenti e scuole
nel Neoplatonismo, in R. Chiaradonna [ed.], Filosofia tardoantica, Carocci, Roma 2012, pp.
67-79: p. 73) hanno visto nella preminenza conferita alla filosofia rispetto alla teurgia da parte
di Porfirio una conseguenza della teoria plotiniana dell’anima non discesa; poiché una parte
di noi rimane sempre lassù la teurgia non sarebbe strettamente necessaria al filosofo puro: con
il solo pensiero e tramite l’esercizio della filosofia ai suoi massimi livelli questi può arrivare
all’Uno. Giamblico, invece, crederebbe nella necessità del rito proprio a causa della negazione
della teoria plotiniana dell’anima non discesa: c’è bisogno di un aiuto esterno perché l’anima,
caduta del tutto quaggiù, possa riavvicinarsi al Dio. Tale tesi, però, è stata ampiamente criticata
da più parti (per un pieno riconoscimento di Giamblico come filosofo vedi soprattutto H.J.
Blumenthal - E.G. Clark [eds.], The Divine Iamblichus: Philosopher and Man of Gods, Bristol
Classical Press, Bristol 1993; D.P Taormina, Jamblique, critique de Plotin et de Porphyre.
Quatre études, Vrin, Paris 1999; E. Afonasin - J.M. Dillon - J. Finamore [eds.], Iamblichus
and the Foundations of Late Neoplatonism, Brill, Leiden - Boston 2012). Inoltre la posizione
di Porfirio nei confronti della teurgia non è affatto chiara, come non è chiaro se lo scontro
fra Porfirio e Giamblico sia più o meno genuino o perfino del tutto artificioso e funzionale al
genere letterario come propone Crystal Addey in Divination and Theurgy in Neoplatonism.
Oracles of Gods, Ashgate, Farnham 2014, pp. 128 ss. La tesi della Addey viene già suggerita da
A. Smith in Porphyry and pagan religious practice, in J.J. Cleary (ed.), The Perennial Tradition
of Neoplatonism, Leuven University Press, Leuven 1997, pp. 29-31 e poi in Porphyry. Scope
for a reassessment, in G. Karamanolis - A. Sheppard (eds.), Studies on Porphyry, Institute
of Classical Studies, London 2007, pp. 7-16. Per la teurgia in Porfirio vedi soprattutto C.
van Liefferinge, La théurgie des Oracles Chaldaiques à Proclus (Supplément a «Kernos»
9), Presses universitaires de Liège, Liège 1999, pp. 127-211: la studiosa nega che sia stato
Porfirio a introdurre gli Oracoli Caldaici fra i neoplatonici e attribuisce tale ruolo a Giamblico.
Cfr. anche P. Ashwin-Siejkowski, Porphyry and theurgy. Neoplatonic background to religious
practice, in «Journal of Neoplatonic Studies» 9 (2004), pp. 219-242 e A. Smith, Religion,
magic and theurgy in Porphyry, in Id., Plotinus, Porphyry and Iamblichus. Philosophy and
Religion in Neoplatonism, Ashgate, Farnham - Burlington 2011, xix, pp. 1-10. Cfr. anche G.
Muscolino, Magia, stregoneria, teosofia e teurgia, cit.
29
Tale rigida divisione trova riscontro anche in altri passi nei quali Porfirio oppone i πολλοί
o i φαυλότεροι, coloro che ritengono le cose esteriori soli beni o soli mali, ai φιλόσοφοι o agli
ἀγαθοί: Antr. 31; Abst. I 28, 4; ii 61, 8.
364 Eleonora Zeper
seguono, pochissimi arrivano alla meta. Opere quali la Philosophia ex
oraculis, il Περὶ ἀγαλμάτων, la perduta opera sul significato dei nomi
sacri testimoniata dalla Suda30, il De antro nympharum sono destinate ad
un pubblico più ampio rispetto a quello del De Abstinentia o della Lettera
a Marcella, un pubblico per il quale è prescritta ancora la necessità di
rito e mito e che quindi si trova ad una fase precedente del percorso. Nel
momento stesso in cui, però, tali opere propongono l’esegesi di rito e mito
κατὰ φιλοσοφίαν, aprono le porte al loro superamento. Sono temi pro-
pedeutici, passi che bisogna compiere per arrivare ai vertici della filoso-
fia: si passa dalla necessità alla possibilità della tradizione religiosa. Così
nell’introduzione della Philosophia porfiriana, tramandataci da Eusebio:
«La presente raccolta conterrà la registrazione di molti dogmi secondo filosofia
(κατὰ φιλοσοφίαν), poiché gli dèi hanno vaticinato che si tratta di verità, e
parleremo in breve anche del loro uso pratico, vantaggioso per la contemplazione
(θεωρίαν) e per un’altra vita purificata (τὴν ἄλλην κάθαρσιν τοῦ βίου)»31.

Il rito, se disvelato mediante gli stessi strumenti della filosofia, pare


essere un passaggio utile alla catarsi del filosofo, processo del quale si
occupano più nello specifico le opere che qui prenderemo in esame. Per
Porfirio, quindi, la tradizione religiosa è preliminare alla filosofia la qua-
le, poi, tramite il meccanismo dell’esegesi, la annette in sé.
Non solo un diverso destinatario dunque, ma anche un diverso genere
letterario e un diverso fine per un diverso destinatario. Le opere esegeti-
che spiegano, e perciò salvano tramite l’esegesi, una tradizione religiosa
in declino; testi come il De abstinentia e la Lettera a Marcella, invece,
non solo sono destinati ad un pubblico più ristretto, ma hanno anche un
diverso scopo: sono soprattutto opere a tema etico, hanno come fine la
catarsi di chi legge.
È dunque necessario tenere presente, nella critica che Porfirio rivolge
al sacrificio tradizionale e nell’affermazione di quale sia il vero culto del
filosofo, tanto della personalità di Porfirio quanto delle sue precise inten-
zioni di pubblico e di genere.

2. Il secondo libro del De abstinentia

Il De abstinentia animalium è un trattato in quattro libri in favore del


vegeta­rianismo32, per la composizione del quale si adotta il termine post
quem del 270 d.C. È dedicato a Castricio Firmo, un discepolo di Plotino

30
Περὶ θείων ὀνομάτων in Suda iv 178, 18.
31
Phil. orac. fr. 303 Smith.
32
Il testo di riferimento per il vegetarianismo nel mondo antico è R. Sorabji, Animal Minds
and Human Morals. The Origins of the Western Debate, Cornell University Press, Ithaca 1993.
Per il rapporto fra sacrificio cruento e alimentazione carnea vedi pp. 170-195.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 365
che, dopo aver intrapreso la via dell’astinenza, aveva scelto di ritornare
sui propri passi e di adottare nuovamente una dieta a base di carne. Si
è supposto, dunque, che tale ritorno alla carne potesse essere avvenuto
con più plausibilità dopo la morte del maestro (270 d.C.) e che dunque il
trattato porfiriano non potesse essere stato scritto troppo tempo dopo33.
Nel primo libro Porfirio si occupa di temi prettamente filosofico-re-
ligiosi: il vegetarianismo viene presentato come funzionale all’ascesi e,
quindi, consigliato a pochi. Nel secondo libro, desumendo lunghi brani
dal Περὶ εὐσεβείας (Sulla pietà) di Teofrasto34, l’autore affronta le con-
seguenze del rifiuto di mangiar carne all’interno del consorzio civile e
spiega che comportamento debba tenere il filosofo in rapporto ai sacrifici
animali35. Il terzo libro, invece, sembra precorrere temi propri dell’anima-
lismo moderno: Porfirio, infatti, seguendo anche in questo caso le orme di
Teofrasto, si affanna a dimostrare, demolendo così la tesi stoica e peripa-
tetica in proposito, che la facoltà della ragione appartiene a tutto il mondo
animale e non è esclusiva dell’essere umano. Il quarto libro, infine, è
un’indagine sulle abitudini alimentari di alcuni gruppi ascetici del bacino
mediterraneo e non solo; ha, quindi, un taglio di carattere nettamente an-
tropologico e storico-religioso.
Da principio, dunque, il vegetarianismo viene raccomandato all’a-
mante del sapere come funzionale all’ascesi36; nel secondo libro, poi, si
passa alle ripercus­sioni che tale scelta implica nei rapporti sociali. Nel
terzo libro vengono esaminati i motivi etici a favore dell’astinenza dalla
carne e nell’ultimo si parla della concreta attuazione di tale stile di vita. Il
passaggio, perciò, è sempre quello dalla teoria alla prassi: dalle osserva-
zioni teoriche del primo libro alle possibili conseguenze sociali di queste
nel secondo, dalla giustificazione etica del vegetarianismo del terzo libro
ai suoi risvolti pratici nell’ultimo. Già nella struttura del testo, pertanto, è
evidente non solo l’urgenza pratica tipica dell’autore, «perché la salvezza

33
Cfr. A.R. Sodano in Porfirio, Astinenza dagli animali, eds. A.R. Sodano - G. Girgenti,
Bompiani, Milano 2005, pp. 19-20.
34
Per Teofrasto l’edizione di riferimento è quella di W. Pötscher, Brill, Leiden 1964.
Per l’argomento cfr. soprattutto D. Obbink, The origin of Greek sacrifice. Theophrastus on
religion and cultural history, in W. Fortenbaugh - R. Sharples (eds.), Theophrastean Studies,
Transaction, New Brunswick (NJ) 1988, pp. 272-96. Per l’autonomia del pensiero di Teofrasto
rispetto ad Aristotele vedi A.M. Battegazzore, L’originalità della posizione teofrastea nel
contesto del pensiero animalistico aristotelico e della fisiognomica zoo-etica tra Peripato, Stoà
e loro critici, in J.M. van Ophuijsen - M. van Raalte (eds.), Theophrastus: Reappraising the
Sources, Transaction, New Brunswick (NJ) 1998, pp. 223-266.
35
Nel mondo antico il vegetarianismo rimane sempre legato al rifiuto del sacrificio cruento,
poiché, come osserva Sorabji (Animal Minds, cit., p. 171), la carne che veniva consumata era
sempre carne sacrificale.
36
Per il legame fra vegetarianismo e pratiche ascetiche di origine orfica vedi M. Detienne,
Dionysos mis à mort, Gallimard, Paris 1977, pp. 161-217.
366 Eleonora Zeper
ci viene dai fatti (δι’ἔργων), non dal semplice ascolto di discorsi»37, ma
anche il forte desiderio di riuscire a conciliare la personale propensione
per una vita di contemplazione con la propria realtà sociale e con la pro-
pria tradizione culturale.
All’inizio del secondo libro38 l’autore ribadisce la ristrettezza del suo
pub­blico, già programmaticamente indicata nel primo libro dell’opera39.
Il suo appello, infatti, non vuole, né potrebbe se lo volesse, essere rivolto
a tutti gli uomini; il pubblico dev’essere composto da soli filosofi e, fra
questi, soprattutto da coloro che fanno dipendere la propria felicità dall’i-
mitazione del Dio. I saggi legislatori del passato «non definirono gli stessi
doveri per i semplici cittadini e per i sacerdoti (τοῖς τε ἰδιώταις καὶ
τοῖς ἱερεῦσιν)»40: al loro modello gerarchico Porfirio si conforma dun-
que pienamente, qualificando già in quest’opera i filosofi come sacerdoti,
uomini santi, in contatto con il divino e distinti da tutti gli altri.
Dopo aver esposto l’argomento e lo scopo del libro – tracciare la sto-
ria dell’atto sacrificale, spiegare quali siano i veri destinatari dei sacrifici
animali e chiarire «se tutto debba sacrificare il filosofo»41 – Porfirio inizia
a citare lunghi brani del Περὶ εὐσεβείας, intervallati da notizie desunte
da altri autori e da osservazioni personali. Teofrasto è il principale degli
antichi filosofi dai quali egli afferma di voler attingere, ne fa largo uso sia
per definire le origini e le modifiche intercorse nella pratica sacrificale,
sia per definire una personale teoria del sacrificio42. Porfirio fa propria
quasi in toto la visione teofrastea: il sacrificio cruento è successivo a quel-
lo incruento ed è conseguente ad un’indefinita necessità, parallela ad una
perdita del senso del sacro, sorta nell’uomo in un certo momento della
storia43. Il sacrificio è rinuncia a ciò che è nostro44. La pietà dev’essere
37
Abst. i 57, 1.
38
Ibi, ii 3, 1-2. Cfr. anche iv 18, 7: «Molte ed altre cose in verità la legge permise all’uomo
comune che tuttavia non permise ad un filosofo e a chi vive da buon cittadino».
39
Vedi supra nota 21.
40
Abst. ii 3, 2.
41
Ibi, ii 4, 4.
42
Per quanto, sulla scorta di Zambon (Il sacrificio come problema, cit., p. 62), ammettiamo
che non si possa parlare di una teoria organica e coerente, cosa che, invece, forse è possibile
affermare nel caso di Giamblico, il quale dedica al tema un’intera sezione della sua Risposta a
Porfirio (pp. 149-179 Saffrey - Segonds).
43
Fr. 14 Pötscher = Porph. Abst. ii 27, 1: «E avendo perso con lo scorrere del tempo il
senso del sacro (τῆς ὁσιότητος), poiché sia gli uomini scarseggiarono di frutti sia mancava
del cibo normale, iniziarono a divorare la carne l’uno dell’altro». L’idea dell’inevitabile
perdita di un immediato rapporto con il divino dovuto allo scorrere del tempo è alla base della
concezione dello storico e fenomenologo delle religioni Mircea Eliade. Riporto un passo de Il
mito dell’eterno ritorno, Borla, Torino 1968 (ed. or. francese 1949), p. 169: «Una certa quantità
di sofferenza è riservata all’umanità [...] per il semplice fatto che essa si trova in un determinato
momento storico, cioè in un ciclo cosmico discendente o prossimo alla sua conclusione.
Individualmente ognuno è libero di sottrarsi a questo momento storico e di consolarsi delle sue
nefaste conseguenze sia per mezzo della filosofia, sia per mezzo della mistica».
44
Abst. ii 13, 3; ii 23, 1. L’idea sottesa a questo modo di procedere è che ogni limitazione,
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 367
un sentimento costante45 e la disposizione d’animo ha sempre preminen-
za sull’atto46. Tutti gli esseri viventi sono legati da φιλία e da un forte
sentimento di parentela, l’οἰκειότης47. A commento di un passo in cui
Teofrasto racconta di un famoso altare dell’isola di Delo destinato ai soli
sacrifici incruenti Porfirio aggiunge che
«[...] i Pitagorici, accogliendo questa tradizione, si astenevano per tutta la vita
dal mangiare animali e, quando distribuivano agli dèi come primizia qualche
animale invece di se stessi (ἀνθ’ἑαυτῶν), dopo averlo gustato, vivevano senza
toccare in realtà gli altri animali»48.

Dopo essersi rifatto alla teoria del sacrificio così come veniva esposta
nel Περὶ εὐσεβείας, l’autore esplicita qui, in poche parole, quello che ai
suoi occhi costituisce il significato primo di tale pratica cultuale. Il fon-
damento del rito sta nell’offerta di sé. Poco dopo, però, ritiene necessario
prendere le distanze dall’utopico progetto delineato dal celebre allievo di
Aristotele; non è sua intenzione porsi in contrasto con la tradizione e con
le pratiche dei molti, la sua non è in alcun modo una proposta politica,
così come lo è, invece, quella della sua fonte:
«Per parte mia, io non vengo ad abolire le leggi che si sono affermate presso
ciascun popolo: perché ora non si tratta per me di parlare della vita politica;
avendo tuttavia le leggi da cui siamo governati concesso di venerare la divinità
con vittime semplicissime e prive d’anima, noi, scegliendo l’offerta più sempli-
ce, sacrificheremo secondo le leggi della città e nello stesso tempo noi stessi ci
sforzeremo di fare il sacrificio dovuto, avvicinandoci agli dèi puri in ogni senso
(καθαροὶ πανταχόθεν τοῖς θεοῖς προσιόντες)»49.

ogni privazione che l’uomo da sé si impone ha come diretta conseguenza un accrescimento,


lo sprigionamento di una forza. Ernst Cassirer (Filosofia delle forme simboliche, ii, La Nuova
Italia, Firenze 1964 [ed. or. 1923-1929], p. 311) esprime lo stesso concetto in relazione, però,
alle primitive forme d’ascesi che «hanno le loro radici nella concezione secondo cui ogni
accrescimento delle potenze dell’Io è legato a una corrispondente limitazione». Un’idea simile,
espressa in ottica prettamente sociologica, la ritroviamo in H. Hubert - M. Mauss, Saggio sul
sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002 (ed. or. 1899), p. 90: «l’atto di abnegazione implicito
in ogni sacrificio, richiamando frequentemente alle coscienze singole la presenza delle forze
collettive, alimenta precisamente la loro esistenza ideale». Cfr. W. Burkert (La religione greca,
Jaca Book, Milano 2010 [ed. or. 1977], p. 249) per l’idea del rito sacrificale come modello
di dominio dell’angoscia. Per il concetto di sacrificio come “compensazione” di un debito
misterioso contratto con la divinità che si sconta tramite una rinuncia vedi H.S. Versnel,
Self-Sacrifice, compensation and the anonymous gods, in J. Rudhart - O. Reverdin (eds.), Le
sacrifice dans l’Antiquité, Fondation Hardt, Vandoeuvres - Genève 1981, pp. 135-194.
45
Abst. ii 13, 4.
46
Ibi, ii 15 ss.
47
Ibi, ii 22, 1.
48
Ibi, ii 28, 2.
49
Ibi, ii 33, 1.
368 Eleonora Zeper
È l’autore stesso a dirci che in questa opera è diverso tanto lo scopo
quanto il destinatario50. L’ultima frase del brano, alla luce di ciò che Por-
firio dirà poco dopo, potrebbe essere intesa anche diversamente e essere
così tradotta: «noi stessi ci sforzeremo di fare il sacrificio dovuto, cioè di
avvicinarci agli dèi puri in ogni senso». Forse già in questo passo il sacri-
ficio è forma di avvicinamento al divino: nella prima traduzione, infatti,
il «sacrificio dovuto» sembra essere solo conseguente all’avvicinamento
agli dèi, mentre in questo secondo caso l’avvicinamento stesso costitui-
rebbe il «sacrificio dovuto».
Porfirio vuole presentare la propria concezione dei sacrifici incruenti
come allineata alla tradizione; gli preme sottolineare la possibilità di co-
niugare la pratica del vegetarianismo con il rispetto delle sacre leggi: le
offerte vegetali costituiscono il solo compromesso che la legge offre fra
l’astinenza dell’asceta e il rispetto della tradizione dell’uomo conserva-
tore. I brani teofrastei sull’origine del sacrificio, dunque, sono riportati al
fine di giustificare tale compromesso. Se il sacrificio incruento è davvero
la più antica forma di offerta, solo in esso la rinuncia compiuta è allo stes-
so tempo adatta all’asceta e non disgiunta dalle norme avite.
Nel paragrafo successivo il valore di tale rinuncia viene esplicita-
to come fondamento della pratica sacrificale51; Porfirio nega, infatti, la
possibilità di offrire agli dèi carne animale. Non sarebbe ὅσιον, “santo”,
consacrare loro primizie di un cibo da cui ci si astiene. Ritorna qui il
tema teofrasteo della rinuncia a ciò che è nostro: se il filosofo che non
si nutre di essere animati offre al dio carne animale, compie non solo un
atto non pio, ma anche privo di significato poiché tale atto non implica
per lui alcuna forma di rinuncia volontaria. L’uomo che sacrifica sottrae
all’uso ordinario, e cioè profano, esseri o oggetti per farne un defini-
tivo omaggio alla divinità52 e, in questo modo, tramite gesti e parole,
l’azione rituale si configura come mezzo per entrare in relazione con la
realtà superiore. Si tratta di un manifestazione di abnegazione, talvolta
minima, talvolta totale, dell’uomo in quanto essere limitato dai bisogni
suoi propri e dagli angusti confini dettati dalla corporeità, dall’essere
individuo. Se il vegetariano sacrifica un animale non compie alcun atto
di abnegazione, non rinuncia a nulla: la logica del sacrificio ne risul-
terebbe scardinata, le legge divina violata. Come già aveva osservato
Garth Fowden nel caso dei testi ermetici, sacrificio materiale e sacrificio
mentale condividono un proposito fondamentale; già lo stesso Fowden

50
Già così Sorabji, Animal Minds, cit., p. 182: «Porphyry is addressing not the ordinary
man, but the philosopher».
51
Abst. ii 33, 2.
52
J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Jaca Book, Milano 2007, p. 493.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 369
inoltre aveva indicato nella gerarchia sacrificale un tratto saliente della
riflessione porfiriana sul rito53.
Anche il filosofo, però, è chiamato al sacrificio, a un sacrificio di
diversa natura che varia, però, a seconda del destinatario:
«Sacrificheremo dunque anche noi: ma sacrificheremo come conviene sacrifici
differenti in quanto li offriremo a potenze differenti. Al Dio che è sopra tutti –
come ha detto un uomo sapiente – non sacrificheremo niente di ciò che è sensibile
né bruciando offerte né nominandolo (μήτε θυμιῶντες, μήτε ἐπονομάζοντες).
Perché niente vi è di materiale che per l’essere immateriale non sia immediata-
mente impuro. Perciò a lui non è appropriata né la parola emessa con la voce né
la parola interiore (οὐδὲ λόγος τούτῳ ὁ κατὰ φωνὴν οἰκεῖος, οὐδ’ὁ ἔνδον)
quando è insudiciata dalla passione dell’anima: con un silenzio puro e con pen-
sieri puri rivolti a lui lo veneriamo»54.

Il tema è già medioplatonico: è necessario rapportarsi diversamente


con il primo Dio rispetto alle altre potenze, la capacità di adattamento e la
comprensione di quanto conviene nella sfera del culto devono essere doti
proprie al filosofo. E ancora:
«Unitici e resi simili a lui (συναφθέντας καὶ ὁμοιωθέντας αὐτῷ), dobbiamo
offrire al Dio la nostra elevazione come un sacrificio sacro (ἀναγωγὴν θυσίαν
ἱεράν), poiché essa è al tempo stesso inno e salvezza nostra. Ora, questo stesso
sacrificio si compie nell’impassibilità dell’anima e nella contemplazione del Dio
(ἐν ἀπαθείᾳ ἄρα τῆς ψυχῆς, τοῦ δὲ θεοῦ θεωρίᾳ)»55.

In vista della ὁμοίωσις θεῷ i filosofi hanno il dovere di offrire come


sacrificio la propria elevazione. Questo innalzarsi è al contempo inno ri-
volto al Dio e conseguimento della salvezza, il cammino e la meta stessa
coesistono in questa forma di sacrificio indicata all’asceta. L’uomo trova
il proprio fine nell’impassibilità e nella contemplazione nelle quali que-
sto si compie. Notiamo, inoltre, come nel primo libro del De abstinentia,
subito dopo aver affermato che la contemplazione non è in alcun modo
legata alla πολυμάθεια, Porfirio scrive che «l’ottenimento di essa procu-
ra l’unione, per quanto è possibile, tra il contemplante e il contemplato»56
e che tale ascesa «non è verso altro se non verso il Sé realmente esistente.
E il proprio Sé realmente esistente è l’intelletto (νοῦς)»57.
Dagli immateriali onori offerti al primo Dio Porfirio passa, poi, in una
scala discendente, a quelli che lui chiama dèi intelligibili:

53
G. Fowden, The Egyptian Hermes. A Historical Approach to the Late Pagan Mind,
Princeton University Press, Princeton 1993, pp. 147-148.
54
Abst. ii 34, 1-2.
55
Ibi, ii 34, 3.
56
Ibi, i 29, 3.
57
Ibi, i 29, 4. Tr. Sodano modificata.
370 Eleonora Zeper
«Per i suoi figli, gli dèi intelligibili (νοητοῖς δὲ θεοῖς), bisogna aggiungere poi
l’inno del logos (τοῦ λόγου ὑμνῳδίαν). Il sacrificio è infatti la primizia a cia-
scun dio di ciò che egli ha dato e di ciò con cui nutre la nostra essenza e la
conserva nell’essere. Come dunque un contadino offre le primizie del grano e
dei frutti, così noi offriremo ad essi le primizie dei bei pensieri che abbiamo di
esse (ἐννοιῶν τῶν περὶ αὐτῶν καλῶν), ringraziandoli per la contemplazione di
ciò che ci hanno dato e perché ci nutrono effettivamente con la loro vista stando
insieme con noi, apparendo e splendendo per la nostra salvezza»58.

In questo caso l’offerta sta nella preghiera59, se così possiamo inten-


dere τοῦ λόγου ὑμνῳδίαν, e nel bel pensiero, non più nel silenzio puro
e nella contemplazione. In entrambi i casi si parla di un inno rivolto al
divino, prima di puro silenzio, qui di λόγος60. Supponiamo che con que-
sto termine Porfirio desideri indicare sia la preghiera verbale sia quella
puramente intellettuale poiché egli stesso, infatti, lo adopera poche ri-
ghe prima per riferirsi ad entrambi i modi di rivolgersi al divino. A ogni
dio, commenta poi Porfirio, è necessario offrire ciò che questi garantisce
all’uomo: il λόγος e i bei pensieri sarebbero, dunque, dono degli dèi in-
telligibili. Il λόγος si configura, pertanto, allo stesso tempo come modo
e come sostanza dell’offerta. Tale culto intellettuale, nel quale l’uomo
pare rendere agli dèi ciò che questi gli concedettero, affermerebbe perciò,
contrariamente a quello cruento, istituito dalla spartizione di Prometeo a
Mecone61, una certa continuità fra l’uomo e il Dio62.

58
Ibi, ii 34, 4. Tr. Sodano modificata.
59
Per quanto riguarda la sostituzione del sacrificio con la preghiera e le sue conseguenze
nei primi secoli dell’era cristiana è fondamentale il lavoro di G.G. Stroumsa, La fine del
sacrificio. Le mutazioni religiose della tarda antichità, Einaudi, Torino 2006: la tesi principale
sostenuta dall’autore è che la sostituzione del sacrificio con la preghiera sarebbe stata inaugurata
dal popolo ebraico nel 70 d.C, in seguito alla caduta del Secondo Tempio. Sarebbe dunque
conseguente ad un’impossibilità materiale di compiere l’olocausto giornaliero.
60
Ci sono delle somiglianze con quei testi ermetici che parlano di λογικὴ θυσία: C.H. I 31
e xiii 18, 19, 21; Ascl. 41 e N.H.C. vi 6 57. 18-25. Cfr. G. Fowden, The Egyptian Hermes, cit.,
p. 147 e A. Camplani in A. Camplani - M. Zambon, Il sacrificio come problema, cit., pp. 74-77.
61
Hes. Theog vv. 535-557: a Mecone Prometeo istituisce il sacrificio cruento e stabilisce
così una netta distinzione fra il piano divino e quello umano. Si badi bene, però, che la
spartizione che Prometeo fa del bue sacrificale, la spartizione che sancisce tale distinzione di
piani, è essa stessa frutto di un inganno.
62
Per J. Bouffartigue e M. Patillon (Introduction in De l’abstinence, vol. i, p. lxii) è
lo stesso vegetarianismo ad essere legato ad una negazione totale o parziale della differenza
fra uomini e dèi. Su tale differenza, però, si fonda l’ordine sociale: il rifiuto del sacrificio
cruento e dell’alimentazione carnea va dunque di pari passo tanto con una critica di tale
ordine, quanto con un rapporto problematico con la realtà manifesta (cfr. M. Detienne,
Dionysos mis à mort, cit., pp. 161-217, soprattutto p. 197). Convinto sostenitore del sacrificio
cruento sarà non solo Giamblico, ma anche Saturnino Secondo Salustio, stretto collaboratore
dell’imperatore Giuliano e autore di un trattatello di argomento filosofico-religioso intitolato
Sugli dèi e il mondo, opera di una certa importanza nel programma giulianeo di restaurazione
religiosa (soprattutto in xvi 1-2). Per l’argomento cfr. A. Saggioro, Il sacrificio pagano nella
reazione al Cristianesimo, in «Annali di storia dell’esegesi» 19, 1 (2002), pp. 237-254. Se
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 371
Poco più avanti, Porfirio, però, ribadisce ancora una volta la necessità
del sacrificio incruento come omaggio alla tradizione da parte del filoso-
fo, infatti «agli altri dèi, cioè il cosmo e gli dèi fissi ed erranti, [...] si deve
riconoscenza mediante sacrifici di esseri inanimati»63.
Il movimento che notiamo nell’organizzazione della materia sembra
ripro­durre qui su scala ridotta quello della macro-struttura del trattato: alle
indicazioni specificamente ascetiche seguono quelle relative alla quoti-
dianità. Dopo aver toccato il cuore del problema, riemerge in Porfirio la
necessità di un adeguamento alla società e alla tradizione. L’autore, infatti,
parla prima del sacrificio del filosofo al primo Dio, poi di quello destinato
agli dèi intelligibili e, poi ancora, di quello compiuto in onore degli dèi
visibili. Infine accenna brevemente ai demoni che costituirebbero a suo
avviso gli unici veri destinatari dei sacrifici animali. Nella sua costante
attenzione alla tradizione l’autore non giunge mai a contestare la neces-
sità del sacrificio cruento per l’uomo comune; non nega, infatti, che «le
città»64, per le quali i vantaggi esteriori sono i soli beni, debbano placare
tali demoni, ma ciò non riguarda in alcun modo il filosofo, il tipo d’uomo a
cui ci si rivolge. La materia del sacrificio dev’essere adeguata al destinata­
rio, quello animale è evidentemente appropriato a quanti vivono a un livel-
lo spirituale inferiore: la gerarchia divina, già di origine medioplatonica,
trova così perfetta corrispondenza in quella umana. Così Porfirio alimenta
l’elitario senso di distinzione del proprio ristretto uditorio:
«Noi, invece, non avremo nessun bisogno, per quanto è possibile, di ciò che co-
storo procurano, ma con la nostra anima e con le nostre capacità esteriori faccia-
mo ogni sforzo per essere simili al Dio (ὁμοιοῦσθαι) e a coloro che sono intorno
a lui, il che avviene mediante l’impassibilità e la comprensione articolata di ciò
che realmente è [...]»65.

Di nuovo la ὁμοίωσις θεῷ come fine del saggio. In questo caso tale
assimilazione viene posta in netta opposizione rispetto ai sacrifici cruenti
che legittimamente si praticano nelle città degli uomini. L’ἁγνεία, una
“purezza” che riguarda il corpo quanto l’anima, è propria di quest’uomo
«che si nutre della conoscenza delle cose divine, si rende simile al divino
per i giusti pensieri su di esso, di un uomo consacrato dal sacrificio in-
tellettuale (ἱερωμένου τῇ νοερᾷ θυσίᾳ)»66. Il pensiero retto promuove,
dunque, l’assimilazione al divino, il sacrificio intellettuale santifica l’uo-

seguiamo le indicazioni di Bouffartigue e Patillon ne possiamo dedurre che sia Giamblico sia
Salustio mirerebbero ad un inserimento armonico del filosofo nella sua realtà politico-sociale,
accettando dunque pienamente l’ordine sulla quale questa si basa.
63
Abst. ii 37, 3.
64
Ibi, ii 43, 2.
65
Ibi, ii 43, 3.
66
Ibi, ii 45, 4.
372 Eleonora Zeper
mo, lo consacra. Il filosofo si presenta così come ἱερεύς (“sacerdote”) del
primo Dio, il suo culto è forma di assimilazione al divino:
«E come il sacerdote di uno degli dèi particolari è esperto nell’innalzargli statue
nella celebrazione dei suoi misteri, nelle iniziazioni, nelle purificazioni e in altri
riti simili, così il sacerdote del Dio che presiede al tutto è esperto nel fare di se
stesso una statua (τῆς αὐτοῦ ἀγαλματοποιίας), nelle purificazioni e negli altri
i riti mediante i quali si unisce al Dio (συνάπτεται τῷ θεῷ)»67.

Porfirio, poi, dopo aver citato vari esempi atti a dimostrare che il sa-
crificio animale non comporta necessariamente che ci si debba nutrire
della carne delle vittime, torna a citare l’opera di Teofrasto: per gli dèi
il più grande sacrificio (μεγίστην θυσίαν) è la giusta opinione nei loro
confronti (ὀρθὴν διάληψιν)68, la miglior primizia (ἀρίστη ἀπαρχή) un
intelletto puro e un’anima libera da passioni (νοῦς καθαρὸς καὶ ψυχὴ
ἀπαθής)69. Il sacrificio, che è ἀναγωγή, viene a coinci­dere così con
la retta conoscenza, con la purezza dell’intelletto e con l’impassibilità
dell’anima.
L’ideale che viene proposto al filosofo è, dunque, quello di un culto
continuo, di una vita intera che si fa sforzo di elevazione, vita che è sacri-
ficio, preghiera, contemplazione, conoscenza, impassibilità dell’anima e
purezza dell’intelletto. Il fine ultimo è l’ὁμοίωσις θεῷ. Così Porfirio in
un passo della Philosophia ex oraculis haurienda riportato da Agostino:
«Dio, certo, essendo il padre di tutti, non ha bisogno di nessuno; ma per noi è
bene quando l’adoriamo nella giustizia, la castità e le altre virtù, facendo così
della nostra stessa vita una preghiera verso di lui, imitandolo e cercando di co-
noscerlo (ipsam vitam precem ad ipsum facientes per imitationem et inquisitio-
nem). Perché – egli [Porfirio] dice – la ricerca purifica; e producendo un’inclina-
zione verso di lui, l’imitazione deifica (imitatio deificat)»70.

L’intera esistenza umana rivolta al divino si fa pre­ghiera, tramite l’i-


mitazione e la ricerca che costituiscono questo tipo di esistenza l’uomo
diventa Dio.
Il secondo libro del De abstinentia termina con un appello ai filosofi
a non aver timore delle opinioni degli uomini comuni (φαύλων δόξας):
adoperando quella prima persona plurale a lui tanto cara, Porfirio assi-
cura che tale paura non è altro che un’assurdità per «noi che ogni giorno
ci esercitiamo in vita a morire a ciò che è altro (τὸ ἀποθνῄσκειν τοῖς
ἄλλοις)»71. Il tema è quello socratico della filosofia come esercizio di

67
Ibi, i 49, 3. Tr. Sodano modificata.
68
Ibi, ii 60, 4.
69
Ibi, ii 61, 1.
70
Porph. Phil. orac. fr. 346 Smith = Aug. Civ. Dei xix 23, 107-133. La traduzione è mia.
71
Abst. ii 61, 8.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 373
morte: la vita del filosofo, θυσία ἱερά in quanto ἀναγωγή, viene a coin-
cidere così con la socratica μελέτη θανάτου72, intesa come un “esercizio
di morte” nei confronti dell’alterità e, dunque, come la fine dell’individuo
contrapposto a tutto il resto, cioè dell’“essere qualcuno” che nella morte
ritorna all’Uno.
L’atto sacrificale, però, non viene certo abolito né sconsigliato al
destinata­rio del De abstinentia. Nella propria visione gerarchica della
realtà ontologica e sociale Porfirio propone sempre due distinte vie. Il
sacrificio cruento rimane utile alla comunità, quello incruento, invece,
è il modo con il quale il filosofo si accorda alla tradizione. Il significato
profondo dell’atto cultuale, però – che Porfirio chiaramente indica nella
rinuncia a ciò che è nostro e, in ultima istanza, nell’offerta di se stessi –
trova una nuova piena e vera espressione non più nell’offerta, di qualsiasi
genere essa sia, ma nella via ascetica che Porfirio propone. La corrispon-
denza, la vera continuità fra atto sacrificale e modo d’essere, non viene
più sentita come proponibile.
Nella secolare storia della perdita di valore del “significante” del rito,
sentita da più di un autore come una difficoltà, come un inganno, perfino
come un vero pericolo, Porfirio non si accontenterà di prescrivere un’a-
scesi che esalti il solo “significato”, un sacrificio tutto spirituale che rischi,
in un mancato riscontro con il manifesto, di far precipitare chi lo pratichi
in un inganno e in un pericolo di ugual portata, seppur di segno opposto.
La propria urgenza pratica e il proprio rapporto problematico con il
reale lo spingeranno a porsi delle insistenti domande sul rapporto fra pen-
siero e atto sacro anche in seguito, domande alle quali in quel caso, forse,
saprà dar risposta.

3. La Lettera a Marcella

3.1. L’ἔργον del filosofo

Si tratta di una lettera che un Porfirio ormai anziano invia alla mo-
glie lontana – vedova di un amico, sposata dal filosofo in tarda età – il
matrimonio con la quale il filosofo considerava più «dono di Ermes»73
che di Afrodite. Dunque un marito che per Marcella è soprattutto guida
spirituale74. In molti hanno supposto75 che quella sorta di divina pressio-

72
Per la filosofia come cammino iniziatico e per Socrate come archetipo dell’iniziato cfr.
S. Lavecchia, Una via che conduce al divino. La «homoiosis theo» nella filosofia di Platone,
Vita e Pensiero, Milano 2006, pp. 47, 287 ss.
73
Marc. 3.
74
Una figura tipica della tarda antichità nell’opinione di Stroumsa (La fine del sacrificio,
cit., pp. 119-137).
75
Il primo a proporre tale idea è stato H. Chadwick in The Sentences of Sextus. A contribu-
374 Eleonora Zeper
ne e quell’«interesse dei Greci» ai quali l’autore accenna all’inizio della
lettera, e per il quale Porfirio è costretto ad allontanarsi dalla moglie poco
dopo le nozze, costituirebbero un preciso riferimento alla partecipazione al
consilium principis anti-cristiano indetto da Diocleziano nel 302-303 d.C.
a Nicomedia76. Con ogni probabilità il testo è dunque successivo al De
abstinentia, per quanto, fatta eccezione per il termine post quem del 270
d.C., non vi siano altri elementi utili per la datazione del trattato. Più che
parlare di un’evoluzione del pensiero di Porfirio in tema di sacrificio, però,
possiamo supporre anche in questo caso che le differenze fra i due testi
siano dovute al genere letterario e al tipo di destinatario: un vero e proprio
trattato destinato ad un élite di filosofi nel primo caso, un’epistola filoso-
fica alla moglie lontana che assume i toni della consolatio nel secondo.
La differenza principale fra la Lettera a Marcella e il secondo libro
del De abstinentia consiste nel fatto che nel testo preso ora in esame l’atto
sacrificale non viene mai consigliato espressamente come davvero utile
per il filosofo. Si fa, ad esempio, più volte riferimento ad esso nel ripetere
la consueta condanna al vuoto ritualismo:
«È impossibile amare nello stesso tempo Dio, da una parte, il piacere e il corpo
dall’altra (φιλήδονον καὶ φιλοσώματον), perché chi ama il piacere ama anche
il corpo, chi ama il corpo, ama comunque anche la ricchezza (φιλοχρήματος),
chi ama la ricchezza è necessariamente ingiusto (ἄδικος) e chi è ingiusto è em-
pio (ἀσεβής) verso il Dio e i suoi padri, e nei confronti degli altri è pronto ad
offendere la legge. Sicché egli, anche se sacrifica ecatombi e riveste i templi
splendida­mente di migliaia di offerte votive, è un empio e un ateo e intenzional-
mente profana il tempio. Perciò bisogna tenere lontano chiunque ami il corpo
come un ateo e un impuro (φιλοσώματον ὡϛ ἄθεον καὶ μιαρόν)»77.

tion to the History of Early Christian Ethics, Cambridge University Press, Cambridge 1959, p.
142. Per il dibattito in proposito vedi A.R. Sodano in Porfirio, Vangelo di un pagano, Bompiani,
Milano 2006, pp. 104-116.
76
In questa città della Bitinia, infatti, per fronteggiare il problema del cristianesimo dila-
gante, i maggiori uomini di cultura pagani si riunirono in un’assemblea che fece da preludio
alla grande persecuzione dioclezianea della quale alcuni studiosi considerano Porfirio il pro-
feta, accettandone l’identificazione con il filosofo di cui parla Lattanzio in Div. inst. v 2, 1-17.
Cfr. W.H.C. Frend, Martyrdom and Persecution in the Early Church. A Study of Conflict from
the Maccabees to Donatus, Blackwell, Oxford 1965, p. 485; R.L. Wilken, Christians as Roman
saw them, Yale University Press, New Haven - London 1984, pp. 134-137; P.F. Beatrice, Quos-
dam platonicorum libros? The platonic readings of Augustine in Milan in 385, in «Vigiliae
Christianae» 43 (1989), pp. 248-281: pp. 258-261; M. Simmons, Arnobius of Sicca. Conflict
and Competition in the Age of Diocletian, Oxford University Press, Oxford - New York 1995,
pp. 22-25, 77-78; E. DePalma Digeser, Lactantius, Porphyry, and the debate over religious
toleration, in «Journal of Roman Studies» 88 (1998), pp. 129-146; Ead., The Making of a
Christian Empire: Lactantius and Rome, Cornell University Press, Ithaca 2000, pp. 91-107,
161-163 e soprattutto Ead., A Threat to Public Piety, Cornell University Press, Ithaca 2012.
77
Marc. 14.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 375
Da una parte il piacere, il corpo, la ricchezza, dall’altra il Dio, i pa-
dri, gli altri uomini, la legge. La φιλοσωματία assume il ruolo di forza
contraria rispetto alla φιλία nei confronti del Dio, il φιλοσώματος non
può essere che un senza Dio, un ἄδικος, un ἀσεβής. Il termine è tipico
del linguaggio porfiriano: nel De antro nympharum78, infatti, la qualifica
di φιλοσώματος, caratteristica delle anime che desiderano scendere nei
corpi, si contrappone a quella di φιλόστροφος, propria di quelle che de-
siderano, invece, ritornare al luogo d’origine. La filosofia stessa in Porfi-
rio, in quanto μελέτη θανάτου, si configura come aspirazione a questo
ritorno e sforzo di risalita all’Uno.
Essere φιλοσώματος, φιλήδονος e φιλοχρήματος significa ragiona-
re secondo la logica atomistica propria dell’individuo. Il suo desiderio di
affermarsi come esistente di per sé si rivela in tali deviate passioni: in ciò
consiste la sua ingiustizia e la sua empietà. In questo gioco di opposizioni
i sacrifici e le offerte votive stanno dalla parte del corpo, dalla parte di ciò
che si oppone al Dio, visibili prove della propensione del φιλοσώματοϛ
verso manifestazioni esteriori prive ormai di ogni “significato”. In nessun
punto della lettera tali pratiche vengono del tutto riabilitate dall’autore,
non viene mai riproposta con convinzione una piena armonia fra atto sa-
crificale e disposizione interiore.
Nei capitoli successivi, però, assistiamo a una svolta. Il rischio di ca-
dere, come accade al φιλοσώματος, in un atto privo di valore non deve
far sì che, per troppo zelo, il φιλόσοφος che voglia contrapporsi a questo
tipo corrotto di uomo, finisca col precipitare nell’eccesso opposto, rifu-
giandosi in un’interiorità disgiunta dal mondo esterno:
«“Precedano dunque la parola sul Dio le azione care al Dio (τὰ θεοφιλῆ
ἔργα)”»79.
«“Non la lingua del saggio è in onore presso il Dio, ma le sue opere”. Infatti “un
uomo saggio onora il Dio anche se tace”. “Un uomo stolto invece, profana la di-
vinità, anche se prega e offre sacrifici. Perciò soltanto il saggio è sacerdote, solo
lui è caro al Dio, solo lui sa pregare (εὔξασθαι)”»80.

Il vero onore che il saggio è chiamato a tributare al Dio sta in una nuo-
va forma dell’operare che non si identifica più con il rito, con quello che
un tempo fu l’atto per eccellenza. Solo il saggio, dunque, ἱερεύς e amato
dal Dio, è capace davvero di εὔξασθαι, di “rivolgersi” compiutamente a
Lui. Così continua Porfirio:

78
Antr. 11; 19. L’edizione di riferimento è De antro nympharum, ed. L.G. Westrink, New
York 1969.
79
Marc. 15. Le virgolette doppie presenti in alcune citazioni della lettera stanno a indicare
che Porfirio riporta o parafrasa delle sentenze note anche grazie a degli gnomologi pitagorici.
80
Ibi, 16.
376 Eleonora Zeper
«E “chi pratica la saggezza pratica la scienza del Dio”, non ripetendo continue
invocazioni e offrendo sacrifici, ma praticando con le opere (διὰ δὲ τῶν ἔργων)
la pietà verso il Dio. Graditi al Dio non si diventa infatti né con le lodi degli uo-
mini né con le voci vane dei sofisti, ma l’uomo stesso si rende gradito al Dio e al
tempo stesso si divinizza (ἐκθεοῖ) con l’assimilazione della sua propria maniera
di essere a colui che è eternamente beato»81.

Al posto delle continue litanie e dei sacrifici il saggio pratica la pie-


tà attraverso le opere (διὰ τῶν ἔργων): tramite quest’operare – che è
dunque quanto di più lontano ci possa essere da un’idea di via spirituale
come rifiuto d’inserirsi attivamente nel mondo – il saggio diventa Dio.
Omologando a Lui la propria maniera d’essere, a Lui ritorna. Il nucleo
del discorso è tutto qui: ci troviamo, infatti, se accettiamo l’ipotesi di
Pötscher secondo la quale la lettera ci è stata tramandata nella presso-
ché totale interezza82, nella sua parte centrale. Se accettiamo l’ipotesi se-
condo la quale Porfirio partecipò al consilium principis di Nicomedia, e
che dunque fu uno dei teorici della persecuzione dioclezianea, il valore
conferito all’ἔργον nella Lettera a Marcella assumerebbe una sfumatura
politica e ricorderebbe l’importanza dell’intervento attivo del filosofo nel
mondo esterno.
La teoria non deve rimanere priva del proprio pendant pratico: pio è
il saggio che dimostra con le opere la propria disposizione d’animo, colui
che stabilisce una nuova e prolifica continuità fra l’esterno e l’interno,
fra il fare e il pensare. La sua stessa opera diventa strumento d’ascesi83.
Porfirio segue qui, pertanto, il proprio maestro nelle critiche che questi
rivolge agli gnostici nel nono trattato della seconda enneade per non aver
formulato una teoria delle virtù atta ad orientare l’agire umano: «Non
basta dire “guarda al Dio” se poi non s’insegna come si debba guardare a
lui»84. Non basta il “cosa”, è necessario il “come”, poiché, senza la «virtù
che progredisce verso il fine»85, «Dio non è che vuoto nome»86.

3.2. Un rapporto problematico con la tradizione

Sebbene, dunque, la ri-significazione dell’atto sacrificale non sia più


intimamente sentita come possibile, Porfirio non può esimersi dall’omag-
giare la tradizione:

Ibi, 17.
81

W. Pötscher in Porphyrios, Πρὸς Μαρκέλλαν, Brill, Leiden 1969, pp. 101-102. Cfr.
82

anche Sodano in Porfirio, Vangelo di un pagano, p. 102.


83
Marc. 10: «praticando con le opere ciò che hai appreso (τὰ γνωσθέντα διὰ τῶν ἔργων
ἀσκοῦσα)».
84
Plot. Enn. ii 9, 15, 33-34.
85
Ibidem ii 9, 15, 38.
86
Ibidem ii 9, 15, 40.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 377
«Questo è, infatti, il frutto più grande della pietà: onorare la divinità secondo le
consuetudini dei padri (κατὰ τὰ πάτρια), non come se essa ne abbia bisogno,
ma chiamati alla sua venerazione dalla sua maestà che impone rispetto religio-
sissimo ed è beata. Gli altari del Dio, se sono onorati con sacrifici, non recano
nessun danno, nessuno è il vantaggio se sono trascurati»87.

Il filosofo ha la possibilità di praticare il culto tradizionale: può, ma


non deve. C’è chi ha rilevato in questo passo una contraddizione rispetto
a quanto sostenuto nel resto dell’epistola e ha avanzato, perciò, una pro-
posta di emendamento88. Nel caso di un personaggio come Porfirio, tut-
tavia, un’incongruenza di questo genere potrebbe piuttosto essere presa
come prova dell’autenticità del brano che come stimolo a una congettura.
Sembra, qui più che in altri punti, che non abbia poi tutti i torti Agostino
quando parla di un prezzo che Porfirio paga ai propri maestri89. Il nostro
autore rimane sempre in bilico fra una netta critica del culto e un autenti-
co e profondo rispetto nei confronti delle antiche usanze.
Poco dopo Porfirio ritorna sul tema e in questo caso l’ambiguità è an-
cora più marcata. Dopo aver sostenuto che una fede irrazionale disgiunta
da una vita retta non può arrivare al Dio e che una giusta venerazione è
necessariamente successiva alla comprensione del modo tramite il quale
la divinità gioisca di venir onorata, pone tre possibilità:
«Se si crede che questa [la divinità] trovi piacere in libagioni od offerte sacrificali
e si lasci persuadere, non sarebbe certamente giusta per il fatto che esige da tutti
la stessa ricompensa, quando essi non hanno ricevuto in sorte la stessa fortuna.
Ma se niente è meno vero di questo, se gioisce soltanto dell’essere puri di mente
(τῷ καθαρεύειν τὴν διάνοιαν), cosa che certo a chiunque è possibile ottenere
per sua scelta, come non potrebbe essere giusta? Se infine la divinità si compiace
di essere venerata in ambedue i modi, si deve onorarla secondo le proprie possi-
bilità con vittime (ἱερείοις μὲν κατὰ δύναμιν), al di là delle proprie possibilità
(διανοίᾳ δὲ ὑπὲρ δύναμιν) con la mente. Rivolgersi (εὔχεσθαι) al Dio non è un
male, ma dimostrare ingratitudine (τὸ ἀχαριστεῖν) è la cosa peggiore. [...] La
preghiera accompagnata da azioni cattive è impura e perciò non accetta dal Dio,
ma quella accompagnata da buone azioni è pura e al tempo stesso ben accolta»90.

Per quanto, dunque, il Dio non possa essere piegato dalle richieste dei
mortali né abbia bisogno nel modo più assoluto delle loro offerte o dei
loro sacrifici, viene qui preso in considerazione il caso che provi una certa
gratuita gioia nel riceverli. Con la terza ipotesi (ll. 4-6), infine, Porfirio
salva la tradizione. A quanti cre­dono, infatti, che la divinità possa gioi-

87
Marc. 18.
88
Cfr. Sodano in Porfirio, Vangelo di un pagano, p. 95. Lo studioso considera questo passo
come inconciliabile con la critica al culto tradizionale.
89
Aug. Civ. Dei x 27, 8-25.
90
Marc. 23-24. Tr. Sodano modificata.
378 Eleonora Zeper
re tanto dei riti della religione positiva quanto di un culto tutto spirituale
viene offerta una soluzione intermedia: onorarla con vittime sacrificali nei
limiti delle proprie possibilità, con il pensiero, invece, oltre le proprie pos-
sibilità. Si passa dalla sfera del culto stricto sensu, a quella del pensiero
filosofico, da una gerarchia sociale con le proprie regole prestabilite, dove
ognuno ha un ruolo e secondo tale ruolo può sacrificare agli dèi, alla filo-
sofia ai massimi vertici, cioè all’evasione dal sistema che essa stessa pone.
Nella chiusa del discorso Porfirio torna a conferire valore ad un gene-
re di ἔργον differente rispetto a quello rituale. Rivolgersi al Dio – poiché
il termine εὔχεσθαι non indica qui la sola preghiera, ma bensì un più ge-
nerico rivolgersi dell’uomo alla divinità – non è di per sé un male. Ma se
questo rivolgersi è privo di χάρις, se manca dunque in esso quel senso di
gioiosa gratuità che lo rende ben accetto agli occhi del Dio91, l’atto è em-
pio. Non deve trattarsi in alcuno modo di un desiderio di ottenere evidenti
vantaggi da parte degli dèi o, tramite lo sfoggio dei propri mezzi, da parte
degli uomini, la questione deve riguardare solo l’intimo rapporto dell’uo-
mo con la divinità92. Sono le azioni a determinare il grado di purezza di
chi, nella propria εὐχή, si fa notare dal Dio93: sono le ἔργα a essere messe
in primo piano e non più solo l’ἦθος, queste lo rendono compiutamente
pio. Il rito, non è più, pertanto, recuperato come il corrispondente di tale
ἦθος nella sfera dell’apparire. La vera nuova corrispondenza, che giunge
a giustificare in un secondo momento anche la possibilità di tale omaggio,
è quella fra ἦθος e ἔργον: questa è la nuova forma di ricomposizione di
essere e apparire che Porfirio propone a Marcella. Il rito sacrificale sem-
bra poter essere a questa tanto giustapposto, quanto evitato.

3.3. Il tempio del Dio

Una certa ambiguità nei confronti della tradizione rimane, dunque,


come cifra caratteristica dell’epistola. Il concetto che gli dèi non abbiano
alcun bisogno delle offerte degli uomini, ad esempio, continua a riaffio-
rare nel corso del testo:
«Né lacrime e suppliche piegano il Dio “né offerte di sacrifici onorano il Dio né
abbondanza di doni votivi, adornano il Dio, ma un pensiero pieno di Dio (ἔνθεον
φρόνημα), ben radicato, è unito al Dio, poiché necessariamente il simile va ver-
so il simile” [...] “Il tempio (νεώς) del Dio sia l’intelletto (νοῦς) che è in te: esso
bisogna preparare ed ornare per una accoglienza adatta al Dio”»94.

91
Per il concetto di χάρις cfr. W. Burkert, La religione greca, cit., p. 249.
92
Così ibi, p. 581 in riferimento a Pl. Lg. iv 716 d.
93
Ibi, p. 176: εὔχεσθαι è indicata come l’azione dell’uomo che si fa notare dagli dèi.
94
Marc. 19.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 379
Di nuovo la ὁμοίωσις θεῷ. Non sacrifici né doni, l’offerta del saggio
è il proprio φρόνημα, il proprio νοῦς è tempio.
In un altro passo, invece, è la διάνοια ad essere definita tempio del
Dio poiché
«[...] la tradizione filosofica dice che dovunque e interamente la divinità è pre-
sente, ma che “un tempio (νεών) le è stato consacrato presso gli uomini, il pen-
siero, soprattutto quello del saggio, ed esso solo (τὴν διάνοιαν μάλιστα τοῦ
σοφοῦ μόνην)” e che l’onore (τιμήν) conveniente al Dio gli è reso da colui che
più di tutti ha conosciuto il Dio: e questi è naturalmente soltanto il saggio, il
quale deve onorare la divinità con la saggezza e con la saggezza prepararle nel
proprio conoscere (ἐν τῇ γνώμῃ) il santuario (τὸ ἱερόν), adornandolo con l’in-
telletto (τῷ νῷ), statua vivente (ἐμψύχῳ ἀγάλματι) del Dio che vi ha riflesso la
sua immagine»95.

Confrontiamo i due brani. Nel primo passo preso in esame il νεώς, il


“tempio”, è identificato con il νοῦς, “l’intelletto”: si tratta della seconda
ipostasi plotiniana, identità di essere e pensiero e sede delle idee. L’ἔνθεον
φρόνημα del filosofo – un pensiero pieno di Dio, un pensiero che è “india-
to”– è l’offerta sacrificale che questi reca all’interno di tale tempio.
Nel secondo passo citato è la διάνοια, invece, a venir designata come
luogo del sacro, come νεώς e come ἱερόν. In un passo della Repubblica
la διάνοια è definita come «dialogo interiore dell’anima con se stessa
senza intervento della voce»96. La definizione platonica ci rimanda a un
brano del De abstinentia97 considerato in precedenza: se al primo Dio non
si confà né l’offerta della parola sensibile né di quella interiore – ossia
dunque la διάνοια – la situazione è diffe­rente per gli dèi intelligibili, i
quali possono ben essere onorati con le primizie dei bei pensieri su di
essi (ἐννοιῶν τῶν περὶ αὐτῶν καλῶν). L’uomo li onora con ciò che da
questi ha ricevuto, cioè con il pensiero.
In questo secondo brano della lettera l’onore che solo un certo tipo
d’uomo è capace di rendere alla divinità sta nella conoscenza che di que-
sta egli ha, nella completa σοφία alla quale, in quanto φιλό-σοφος, aspi-
ra. Il νοῦς qui non è più tempio, ma ἄγαλμα, “offerta” o “statua” vivente
del Dio, e ha quindi il medesimo ruolo di dono votivo che hanno i bei
pensieri (ἔννοιαι) – con i quali, come ovvio, condivide la radice lingui-
stica – intorno alla divinità nel brano del De abstinentia.
La διάνοια, “dialogo interiore” concepito come centro sacro stretta-
mente legato alla facoltà del conoscere (ἐν τῇ γνώμῃ), verrebbe indica-
to, dunque, come sede del νοῦς-ἄγαλμα, in quanto ἱερόν, luogo delle
offerte. Ricordiamo che la διάνοια è, in un passo della lettera preso in

95
Ibi, 11.
96
Pl. R. iii 395 b.
97
Abst. ii 34, 4.
380 Eleonora Zeper
considerazione nel precedente paragrafo, forma del culto spirituale del
filosofo che onora la divinità con il pensiero al di là delle proprie possibi-
lità (διανοίᾳ δὲ ὑπὲρ δύναμιν)98. Le corrispondenze terminologiche non
sono sempre chiarissime, ma il senso generale che ne emerge è quello di
un culto tutto interiore. Sia la διάνοια sia il νοῦς, perciò, vengono va-
riamente indicati come luogo dell’offerta e come offerta stessa, finendo,
dunque, infine, per identificarsi nella speculazione porfiriana.
Ricordiamo, inoltre, che già nel secondo libro del De abstinentia Por-
firio, citando Teofrasto, definisce l’intelletto puro (νοῦς καθαρός) mi-
gliore primizia (ἀρίστη ἀπαρχή)99. In un altro passo del trattato, poi, il
saggio, è colui che nel rito è capace di fare di se stesso una statua del Dio
(τῆς αὐτοῦ ἀγαλματοποιίας)100; in un altro ancora Porfirio scrive che
per questo tipo d’uomo «il proprio Sé realmente esistente è l’intelletto
(νοῦς)»101. L’identità che ne risulta è dunque non solo quella fra διάνοια
e νοῦς, ma quella fra il σοφός, il νοῦς che costituisce il suo vero essere,
l’ἀρίστη ἀπαρχή e l’ἄγαλμα.
Il νοῦς di un certo tipo d’uomo è, pertanto, la vera casa della divinità.
Luogo sacro è la διάνοια del saggio, e di questo solo, come si affanna
a sottolineare Porfirio con il proprio consueto contegno aristocratico102.
«Gli dèi devono venire da me, non sono io a dover andare da loro» rispon-
de fieramente Plotino ad Amelio, quel suo discepolo «amante dei sacrifi-
ci», che un giorno voleva condurlo con sé alla celebrazione di un rito103.
Il saggio, dunque, o meglio il suo intelletto, ossia ciò che davvero egli
è, come unico vero tempio. E non a caso proprio in quelle celebri righe
ritroviamo la corrispondenza νοῦς-νεώς della lettera. Scrive Plotino che
nella contemplazione colui che vede diventa un’unica cosa con l’oggetto
visto, il saggio
«In quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna differenza
(διαφοράν) né rispetto a se stesso, né rispetto alle altre cose; non c’era in lui
alcun movimento, né brama né desiderio erano in lui, una volta salito a quell’al-
tezza, e nemmeno c’era ragione o pensiero (οὐδὲ λόγος οὐδέ τις νόησις); non
c’era nemmeno lui stesso, insomma, se proprio dobbiamo dir così»104.

98
Marc. 24.
99
Abst. ii 61, 1. Anche per Filone d’Alessandria (Spec. leg. i 201) il νοῦς è «il sacrificio
più santo e il più gradito sotto ogni aspetto a Dio». Per il sacrificio in Filone vedi F. Calabi,
I sacrifici e la loro funzione conoscitiva in Filone di Alessandria, in «Annali di storia
dell’esegesi» 18, 1 (2001), pp. 101-127.
100
Abst. ii 49, 3.
101
Ibi, i 29, 4.
102
Marc. 11.
103
Porph. V. Plot. 10.
104
Plot. Enn. vi 9, 11, 7-13. Le traduzioni dei passi delle Enneadi sono mie. L’edizione
di riferimento è Plotini Opera, 3 voll., ed. P. Henry - H.R. Schwyzer, Clarendon Press, Oxford
1964-1982 (editio minor).
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 381
Non c’è διαφορά, “differenza”, “disaccordo”, per colui che giunge a
questo stadio, né con se stesso né con tutto il resto. Non ci sono desideri
né λόγοϛ né νόησις e nemmeno egli stesso è più: sono caduti i suoi limiti
di individuo, ad essi il saggio ha rinunciato e allora egli
«[...] è simile ad uno che, entrato all’interno del penetrale (εἰς τὸ εἴσω τοῦ
ἀδύτου), abbia lasciato dietro di sé le statue (τὰ ἐν τῷ νεῷ ἀγάλματα) collo-
cate nel tempio, quelle statue che, quando egli uscirà nuovamente dal penetrale,
gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi
unito non con una statua, con un’immagine, ma con il Sé: quelle statue che sono,
dunque, una visione di second’ordine (δεύτερα θεάματα)»105.

Le statue che sono all’interno del tempio (τὰ ἐν τῷ νεῷ ἀγάλματα)


rappresentano qui chiaramente le idee, cha hanno sede nel νοῦς: ecco
il νοῦς-νεώς porfiriano. Le statue plotiniane sarebbero, dunque, quelle
degli dèi intelligibili del De abstinentia106 ai quali ci si deve rivolgere
offrendo un inno di λόγος e i bei pensieri concepiti su di essi. Il νοῦς è la
seconda ipostasi, ecco perché Plotino, quando parla del ritorno dall’esta-
si, definisce le statue, e cioè le idee, «visione di second’ordine». Lo stesso
Porfirio, nel perduto commentario alla Repubblica di Platone, ricostruibi-
le in parte sulla base di Macrobio e Proclo, osserva come «gli antichi non
hanno scolpito alcuna statua del Dio supremo, pur avendone scolpite di
altri dèi» poiché questo si trova «in un dominio in cui è vietato introdurre
alcunché di mitico»107. Riconosciamo facilmente tale dominio nel sancta
sanctorum plotiniano. In entrambi gli autori tutto ciò che concerne il pri-
mo Dio va oltre la sfera del sensibile, non può essere preghiera, né statua,
né culto concreto. La cella che costituisce il tempio, il νεώς, è, per il de-
voto che vi entra, preliminare al penetrale, l’ἄδυτον, così come l’accesso
al νοῦς lo è alla visione dell’Uno, ma questa, infine
«[...] non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un’estasi, una sempli-
ficazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio di adattamento;
solo così si può vedere ciò che v’è nel penetrale; ma se si guarda in altra maniera
tutto scompare. Tutto ciò è soltanto un’immagine: così viene indicato in enigma
dai saggi fra i profeti come quel Dio (θεὸς ἐκεῖνος) va contemplato; ma un sag-
gio sacerdote (σοφὸς δὲ ἱερεύς) che comprenda l’allusione (τὸ αἴνιγμα) può
far visione della verità stando nel penetrale»108.

In queste righe viene esplicitata la chiave neoplatonica per la com-


prensione della tradizione: questa è αἴνιγμα, verità espressa con un lin-
guaggio che non è quello del pensiero logico, ma quello del simbolo. Nel-

105
Plot. Enn. vi 9, 11, 17-22
106
Abst. ii 34, 4, vedi supra.
107
Macr. In somn. Scip. i 3, 2-21.
108
Plot. Enn. vi 9, 11, 23-29.
382 Eleonora Zeper
le Enneadi il termine θεός, più aggettivo che sostantivo, viene applicato
non solo alle due ipostasi inferiori, ma anche, come accade nel passo in
questione, all’Uno. Quando l’estasi è descritta come una visione del Dio,
siamo, in realtà, nel campo dell’analogia, poiché l’Uno trascende l’Es-
sere, identificabile con la seconda ipostasi che può essere propriamente
definita θεός109. L’Uno è più di un dio110. Il saggio – unico vero sacerdote,
come nel De abstinentia e nella Lettera a Marcella111 – è colui che, trami-
te l’intendimento dell’αἴνιγμα, giunge alla visione del vero, ma
«[...] anche se non vi entra [nel penetrale del tempio], poiché pensa che questo
penetrale sia qualcosa di invisibile, la sorgente e il principio, egli sa tuttavia che
solo il principio si unisce al principio e solo il simile si unisce al simile»112.

Anche se il saggio, dunque, non entra concretamente nell’ἄδυτον –


se cioè, nella consapevolezza che il rito è αἴνιγμα, si astiene dal compier-
lo – egli tuttavia rimane conscio che tale ἄδυτον è principio e sorgente
di ciò che è e che, tramite questo culto interiore che è imitazione di tale
principio, a questo si unisce. Si dà dunque sia la possibilità che il rito ven-
ga compiuto come verità in enigma, sia che la conoscenza che il saggio
ha di tale enigma lo dispensi dalla necessità della pratica concreta. Anche
in questo caso il saggio può, ma non deve. Il concetto è lo stesso che tro-
viamo nella Lettera a Marcella: il rito sacrificale sembra poter essere a
questa tanto giustapposto da parte del filosofo, quanto evitato. E quando
l’anima corre verso l’Uno
«[...] giunge non ad altro, ma a se stessa [...] e diventa non essenza, ma è al di
là dell’essenza, poiché si unisce a Lui. [...] Questa è la vita degli dèi e degli uo-
mini divini e beati: separazione dalle restanti cose (ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων) di
quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da solo a solo»113.

In questo affrettarsi all’Uno l’anima compie l’azione opposta rispet-


to alla discesa nella materia (κάτω μὲν βᾶσα εἰς κακόν)114 e ritorna
così finalmente in se stessa. Le parole di Plotino ricordano quelle del
discepolo quando questi invita Marcella a risalire (ἀναβαίνειν) verso se
stessa115. L’ἀπαλλαγὴ τῶν ἄλλων, invece, – e ἀπαλλαγή è sì “sepa-

109
Cfr. A. Magris, Plotino, Mursia, Milano 1986, pp. 181-183. Per l’uso di θεός come
applicato alle tre ipostasi Plot. Enn. v 1, 3; v 1, 5; v 1, 11. Per l’Uno come θεός anche i 8, 2;
v 5, 3; v 5, 11; vi 7, 35.
110
Plot. Enn. vi 9, 6.
111
Abst. ii 3, 1-2; ii 49, 3; Marc. 16.
112
Plot. Enn. vi 9, 11, 30-33.
113
Ibidem vi 9, 11, 42-50.
114
Ibidem vi 9, 11, 37.
115
Marc. 10.
Il sacrificio del filosofo nel pensiero di Porfirio 383
razione”, “distacco”, ma anche “liberazione” e “morte”116 – ricorda da
vicino l’ἀποθνῄσκειν τοῖς ἄλλοις della fine del secondo libro del De
abstinentia.
Il tempio, tanto nella Lettera a Marcella quanto nelle righe conclu-
sive delle Enneadi, è, quindi, il luogo interno all’uomo dove si invera
l’unione con il divino: il vero culto del filosofo è, pertanto, la filosofia
stessa. E questa non è altro che via d’ascesi.

ABSTRACT

This article deals with the theme of sacrifice in two works written
by the neoplatonic philosopher Porphyry of Tyre (233/234-303 AD): the
treatise De Abstinentia and the Letter to His Wife Marcella. In these texts
he links a criticism against the positive religion with a deep necessity to
do a homage to the hellenistic tradition. This paper will discuss three per-
spectives regarding the differences existing in the porphyrian conception
of sacrifice: in terms of philosophical, historical/political and also liter-
ary view. It will analyze the idea of ἔργον (“act”) as a possibility to join
the individual practice of ὁμοίωσις θεῷ (“assimilation to God”) with the
active integration of the philosopher in the outside world, namely with a
possible political activity.
At the end I will propose some parallels with the Enneads by Plotinus
to demonstrate how, in the porphyrian conception, philosophy coincides
with the same life of the philosopher to whom Porphyry addresses his
works. The philosophy is the main way to God and both the sacrificial act
and the religious tradition in general are viewed as enigmatic forms of
the philosophical path to God.

L’articolo prende in esame il tema del sacrifico in due opere del filo-
sofo neoplatonico Porfirio di Tiro (233/234-303 d.C.): il De abstinentia e
la Lettera a Marcella, testi nei quali alla critica della religione positiva si
unisce una profonda quanto problematica necessità di omaggiare la tra-
dizione religiosa ellenica. L’articolo si propone di riflettere – in termini
filosofici, letterari e storico-religiosi – sulla ragione delle contraddizioni
che emergono nelle opere di Porfirio in materia di sacrificio. Viene pre-
so in esame il concetto di ἔργον (“atto”) come possibilità di coniugare
la pratica individuale dell’ὁμοίωσις θεῷ (“assimilazione a Dio”) con
l’inserimento attivo del filosofo nel mondo e dunque anche con un suo
possibile intervento politico.
Vengono infine proposti alcuni paralleli con le Enneadi di Plotino
per dimostrare quanto nella concezione porfiriana la pratica filosofica,
116
Hp. Epid. vii 89; Pl. Phd. 64 c; X. Cyr. v 1, 13; Thphr. HP ix 8, 3.
384 Eleonora Zeper
coincidente con la vita stessa del filosofo-asceta al quale l’autore si ri-
volge nei suoi scritti, si configuri come principale via dell’uomo al divino
e quanto sia l’atto sacrificale sia la tradizione religiosa nel suo com-
plesso siano da considerare come forme in “enigma” del percorso del
filosofo al divino.

KEYWORDS

Porfirio, sacrificio, filosofia, tradizione, tarda antichità


Porphyry, sacrifice, philosophy, tradition, Late Antiquity
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