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DOMANDA SU LIBRO A SCELTA(FEDRO) RIGUARDO IL TEMA DELL'AMORE E L'AMICIZIA

Il fedro fu scritto da Platone intorno al 370 a.c. Nel Fedro, Platone affronta il tema dell'amore, per lui
intrecciato con l'amicizia, attraverso un dialogo tra due personaggi che sono rispettivamente Fedro e
Socrate. Il giovane Fedro, reduce dall'aver ascoltato un discorso di Lisia sull'amore, incontra Socrate e gli
riassume, ancora eccitato dall'emozione, gli argomenti dell'orazione, che a lui è parsa insuperabile. Socrate
finge di condividere l'entusiasmo del giovane compagno di passeggiata, pur rilevando che , quando parlano
i sofisti, è alla forma che bisogna badare, più che alla sostanza delle argomentazioni. Secondo Lisia, gli
innamorati, non appena è venuto meno il desiderio, si pentono dei benefici che hanno arrecato agli amanti,
invece, per coloro che non sono innamorati non viene mai il momento di pentirsene. Essi infatti arrecano
benefici non perché spinti dalla necessità, ma spontaneamente. Con Lisia l'amore assume un connotato
negativo ed è visto come una malattia o disgrazia, dal tronde gli stessi innamorati si definiscono come
malati piuttosto che sani di mente, di conseguenza una volta rinsaviti come possono giudicare favorevoli le
decisioni prese in quei momenti du euforia? Inoltre se tu dovessi scegliere il migliore tra gli innamorati, la
scelta ricadrebbe fra pochi, e molti degli innamorati desiderano il corpo dell'amato invece di apprezzarne
l'indole.Perciò è ragionevole cedere alle lusinghe di colui che non ami in quanto equilibrato, sereno e
prudente piuttosto che finire tra le braccia di un innamorato che è sempre pericolosamente instabile ed
egoista. In poche parole Lisia sostiene sia meglio concedersi ad un rapporto di amicizia piuttosto che di
amore. A questo punto parla Socrate che inizialmente sostiene la tesi di Lisia e fornisce una definizione di
cosa sia l'amore e su quale sia la sua potenza, l'amore è un desiderio, sentimento irrazionale e una forma
di dismisura (eros:desiderio eccessivo che ha per oggetto i corpi belli) prosegue socrate esaminando gli
effetti negativi dell'amore e sostenendo che l'amante è dannosoe sgradevole per l'amato sotto tutti gli
aspetti concludendo dunque che è meglio compiacere chi non ama piuttosto che chi ama , dunque in
questo primo discorso si trova d'accordo con Lisia. Socrate afferma che dall'amore ne derivano danni che
ostacolano la crescita intellettuale: chi ama non tollera che l'amato gli sia superiore o pari e farà in modo
che da lui dipenda; Gli impedisce la frequentazione di compagnie , per gelosia, che potrebbero aiuarlo a
diventare un vero saggio, i danni causati dall'amore inoltre riguardano anche i beni e gli affetti in quanto
ostacolerebbero la frequentazione del ragazzo: Socrate dopo aver detto che non bisogna concedersi a chi
ama spiega la natura di quella follia che è l'amore: la follia non è univoca, c'è la follia divina che è positiva e
la follia umana che è negativa. Finisce cosi il primo discorso di socrate. Successivamente Socrate poi
protesta il suo timore nell’aver offeso Eros, filgio di Afrodite e quindi un Dio recita uno splendido eligio
dell'amore come follia o mania divina, esso è la forma superiore di follia ed appartiene ad afrodite . Dunque
nel secondo discorso socrate concorda sul fatto che Eros è follia ma nega che la follia sia necesssariamente
negativa, esiste la follia divina oltre a quella umana. Socrate inizia il discorso vero e proprio su Eros che può
toccando argomenti riguardanti: -L'anima nel suo contesto cosmico e quindi la dimostrazione
dell'immortalità dell'anima in quanto ciò che muove se stesso è principio del movimento e quindi
immortale, l'anima muove se stessa. -metafora della biga alata e dell'auriga Il mito della biga alata è quello
che rappresenta la concezione dell'amore, l'auriga è la guida dell'anima ossia l'intelletto, tiene le redini dei
due cavalli, uno è bianco e buono e tende verso l'alto verso l'iperuranio, l'altro è nero e disubbidente e tira
verso il mondo sensibile, la terra. I due cavalli sono tenuti dall'auriga che è l'intelletto e ha il compito di
guidarli, la biga deve essere diretta verso l'iperuranio dove risiedono le idee. Lo scopo dell'anima è infatti
contemplare il più possibile l'iperuranio e assorbirne la sapienza delle idee, l'auriga deve quindi riuscire a
guidare i cavalli nella stessa direzione verso l'alto cercando di ritardare il più possibile il “precipitare” nella
reincarnazione. Chi è precipitato subito rinasce come una persona ignorante e lontana dalla saggezza
mentre coloro che sono riusciti a contemplare il mondo delle idee per un periodo più lungo rinasceranno
come saggi o come filosofi. Questo spiega la reminescenza ed è riconducibile all'immortalità dell'anima.
L'anima quando è perfetta ha le ali e ascende al cielo, quando perde le ali cade e si aggrappa ad un corpo
solido, questo corpo grazie all'anima sembra muoversi da sé. Socrate a questo punto parla della follia
amorosa o di Eros, follia per la quale quando si vede la bellezza terrena ci si ricorda di quella divina e si
viene ritenuti folli, quando l'amante vede delle immagini somiglianti a quelle divine viene viene sconvolto e
non è più padrone di sé. L'essere invasi dalla bellezza provoca la rinascita delle ali dell'anima , è la vicinanza
all'amato a far crescere le ali dell'anima, la lontananza dell'amato provoca dolore perché impedisce la
crescita delle ali dell'anima. L'amore alato per Platone è qualcosa di positivo che serve per salire verso il
divino.

LA GRECIA DEGLI INIZI: CONTESTO CULTURALE La filosofia è sempre stata vista come una creazione dei
Greci, mettendo da parte l'Oriente, anche se l'Oriente si stava sviluppando parallelamente. La filosofia non
è di derivazione orientale, tuttavia ci sono stati comunque tentativi volti a sostenere il contrario.
Possedevano miti e credenze religiose ma non è corretto parlare di filosofia. Dagli orientali i greci ricavano
alcune conoscenze scientifiche, dagli egizi alcune conoscenze matematiche, dai babilonesi alcune cognizioni
astronomiche anche se i greci le adoperarono a scopi conoscitivi e non pratici. E' anche all' arte, la religione,
e le condizioni socio economiche che dobbiamo la nascita della filosofia. Riguardo all' arte, i greci cercarono
alimento spirituale soprattutto da Omero e dai suoi testi(Iliade e Odissea) e fu molto importante inoltre
anche Esiodo con la sua Teogonia. La giustizia viene esaltata come valore supremo e diventerà concetto
ontologico. Riguardo la religione i greci fanno distinzione tra religione pubblica e religione dei mestieri.
Omero e Esiodo sono i punti di riferimento della religione pubblica, per loro tutto è divino, tutto ciò che
accade è per intervento degli dei. La religione pubblica non fu sentita da tutti i greci perciò si svilupparono i
misteri(i più importanti sono quelli orfici). La tradizionale concezione greca riteneva l'uomo mortale,
l'orfismo invece crede nell'immortalità dell'anima.L'anima è imprigionata nel corpo, l'anima si reincarna. La
vita orfica con i suoi riti è la sola in grado di porre fine al ciclo delle reincarnazioni e liberare l'anima dal
corpo. Per chi si è purificato avrà un premio nell'aldilà. I greci non ebbero libri sacri, i poeti furono il veicolo
di diffusione delle loro credenze religiose. Questa mancanza di dogmi lascia ampia libertà al pensiero
filosofico. Riguardo alla condizione socio politica i greci disponevano di libertà politica(a differenza degli
orientali). Anche questo favori la nascita della filosofia. Furono le colonie a favorire la nascita della filosofia.
Con il consolidarsi della polis l'uomo venne a coincidere con il cittadino medesimo. Vedevano il bene dello
stato come il proprio bene.

Nella tradizione storiografica le origini della filosofia greca coincidono con l’inizio del pensiero occidentale.
Lo stesso dato pone questioni di rilevanza non soltanto storiografica mettendo in gioco il tema delle radici
della stessa cultura occidentale che proprio nella Grecia del VII a.C. sembra delineare il proprio destino.
Tale inizio è precisamente nella costa dell’Asia Minore, in una regione particolarmente ricca per scambi
economici e commerciali, nella quale il mondo greco esercitava il proprio dominio sul Mediterraneo. Si
tratta certamente di un luogo di incontri tra culture particolarmente significativo e altrettanto certamente
la filosofia nasce come espressione di tale spazio relazionale.

RIFLESSIONE SUL SENSO DELLE ORIGINI

La filosofia nasce dalla meraviglia (thauma). Come dice Aristotele tutti gli uomini per natura desiderano
conoscere e tale ricerca ha origine dalla meraviglia. In ciascuna delle realtà naturali, anche nel più piccolo
verme c'è qualcosa di meraviglioso. Aristotele afferma che la filosofia e il mito nascono dalla meraviglia,
perché chi prova meraviglia, “si rende conto di non sapere”, e questa consapevolezza è la scintilla che dà
origine alla ricerca della conoscenza. La filosofia è ricerca delle cause e dei principi primi. Lo scopo e il fine
della filosofia sta nel puro desiderio di conoscere e di contemplare la verità, la filosofia greca è infine,
disinteressato amore di verità. Gli uomini, scrive Aristotele, nel filosofare “ricercano il conoscere al fine di
sapere e non per conseguire qualche utilità pratica”. Il nuovo approccio al reale che si impone dal VII
secolo dalla penisola ellenica è pertanto un fatto destinato a segnare in maniera determinate la cultura
europea e più in generale quella occidentale che da un certo punto di vista proprio da quel momento inizia
a distinguersi dal pensiero orientale. La filosofia è sempre stata vista come una creazione dei Greci,
mettendo da parte l'Oriente, anche se l'Oriente si stava sviluppando parallelamente. La filosofia non è di
derivazione orientale, tuttavia ci sono stati comunque tentativi volti a sostenere il contrario. Possedevano
miti e credenze religiose ma non è corretto parlare di filosofia. Dagli orientali i greci ricavano alcune
conoscenze scientifiche, dagli egizi alcune conoscenze matematiche, dai babilonesi alcune cognizioni
astronomiche anche se i greci le adoperarono a scopi conoscitivi e non pratici. Le conoscenze tecniche e
scientifiche dell'egitto e dell'oriente erano pari se non superiori a quelle greche, però la filosofia è tipica del
genio ellenico perchè per la prima volta i greci cercano risposta alle grandi domande cercando di
dimostrare razionalmente le loro teorie, non come credenze. E' anche all' arte, la religione, e le condizioni
socio economiche che dobbiamo la nascita della filosofia. I greci non ebbero libri sacri, i poeti furono il
veicolo di diffusione delle loro credenze religiose. Questa mancanza di dogmi lascia ampia libertà al
pensiero filosofico. Riguardo alla condizione socio politica i greci disponevano di libertà politica(a differenza
degli orientali). Anche questo favori la nascita della filosofia. Furono le colonie a favorire la nascita della
filosofia. Con il consolidarsi della polis l'uomo venne a coincidere con il cittadino medesimo. Vedevano il
bene dello stato come il proprio bene.

RAPPORTO INIZIO-INIZI Con inizio si intende in che momento del pensiero di inizia a fare filosofia(inizio
teorico) La filosofia si imbatte, già all'inizio, in specifiche difficoltà riguardo ad un cominciamento. Queste
difficoltà di individuare un inizio della filosofia è data anche dalla mancanza di testi integri dei filosofi. la
Storia della filosofia viene descritta la storia di un pensiero che è capace di attuare costantemente un
cominciamento, è la storia di ogni inizio possibile. Secondo Hegel il puro essere pensare (identificazione fra
essere e pensiero) è il momento iniziale. Le testimonianze per risalire ad un inizio ci giungono
principalmente da: Platone, Aristotele e Teofrasto . a)Platone: passi fondamentali come quelli tratti dal
Fedone ci forniscono importanti indicazioni sulle preoccupazioni fisiche del V secolo. b) Aristotele: ha
prestato maggiore attenzione, come già rilevato e come vedremo in Metafisica I, ma soprattutto ha
presentato formali rassegne delle opinioni dei predecessori. Anche se, come è evidente, i suoi giudizi, le sue
considerazioni sui greci sono orientate a partire dal punto di vista della sua stessa filosofia. È in questa
prospettiva che alcuni studiosi considerano l’inizio della filosofia stabilito da Aristotele nella sua
ricostruzione storica, ovvero come una scelta dello stesso autore che, così, anticiperebbe di almeno due
secoli l’inizio della Filosofia, la cui definizione chiara è altrimenti individuabile solo nel suo stesso secolo: il
IV. Una grande fonte di informazioni riguardo i presocratici inoltre ci viene fornita dalla tradizione
dossografica di Teofrasto. Inoltre è fondamentale attribuire importana al lavoro di Herman Diels e Walther
Kranz. Non è possibile perciò stabilire una vera e propria data di inizio della filosofia. Aristotele afferma che
la filosofia e il mito nascono dalla meraviglia, perché chi prova meraviglia, “si rende conto di non sapere”, e
questa consapevolezza è la scintilla che dà origine alla ricerca della conoscenza.

Con inizi invece si intende in che periodo storico si è iniziato a far filosofia(inizi storici). Riguardo ciò c'è un
punto di rottura tra Platone e Aristotele che ci presentano due excursus differenti. Aristotele parte dal
particolare per arrivare all'universale mentre platone parte dall'universale per arrivare al particolare.
Aristotele qualificando la ricerca filosofica come ricerca delle cause, stabilisce l'inizio dell'exursus nella
causa materiale (Talete, Anassimandro, Anassimene, Empedocle). Aristotele propone un suo excursus
storico-filosofico, che inizia proprio con Talete, precisamente nel tentativo di dare fondamento alla dottrina
delle ‘cause’ che egli espone nella sua Fisica Riguardo a Platone tra i suoi scritti non troviamo un vero e
proprio exursus.Partendo dalla Filosofia come desiderio di sapere, l'inizio di essa è identificabile con
Parmenide ed Eraclito e non con Talete e naturalisti.

COSA SI INTENDE PER ARCHE'? LA QUESTIONE FILOSOFICA DEGLI INIZI DELLA FILOSOFIA E IL PROBLEMA
DELL'INIZIO Arché: traducibile con “principio” che può essere come ciò da cui le cose hanno origine, ciò
verso cui le cose tendono e il loro ‘sostegno’, la sostanza. Nei primi filosofi la realtà è soltanto sensibile e
pertanto si idenfica con un principio naturale e materiale (con delle differenze). Tra i filosofi antichi che
hanno cercato di stabilire quale sia l'arché del mondo, i più noti sono i pensatori della scuola di Mileto
ovvero Talete, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito. Aristotele indica Talete come “il primo” che ha
avviato questo tipo di filosofia che, nel I libro della Metafisica, definisce come “scienza delle cause e dei
principi primi”. Aristotele propone un suo excursus storico-filosofico, che inizia proprio con Talete,
precisamente nel tentativo di dare fondamento alla dottrina delle ‘cause’ che egli espone nella sua Fisica.
Introducendo la dottrina delle cause e distinguendo le cause materiale, formale, efficiente e finale,
Aristotele parla dei suoi predecessori e delle loro teorie, individuandone i limiti. “non tutti sono d’accordo
circa il numero e la specie di un tale principio” perciò ci sono quattro modelli di spiegazione causale a) i
filosofi che ritennero l’esistenza di un solo principio, b) quelli che rilevarono la presenza di più principi, c)
quanti individuarono un principio, intelligenza, superiore, d) quanti apriranno la strada a principi formali, a
forme, per spiegare la totalità del reale Talete individua nell’acqua o meglio un elemento fluido il principio
primo: un principio materiale all’origine di tutte le cose. Anassimandro, per primo individua l'arché in un
principio astratto, l'ápeiron (ovvero l'"indefinito, illimitato"), Anassimene, che riconosce l'archè nell'aria, ed
Eraclito, che nel fuoco e nel movimento per il quale nulla è permanente (panta rei, ovvero "tutto scorre")
vede l'origine di tutto. Talete e i primi presocratici sono anche considerati: fisici, filosofi della phisis. In
realtà la parola principio non è di Talete ma del suo discepolo Anassimandro. Del secondo modello fa parte
Empedocle che considera insieme i quattro elementi come altrettanti principi opposti dai quali hanno
origine tutte le cose: caldo e freddo, secco e umido, in modo più concreto, fuoco, terra, aria e acqua. Per gli
atomisti come Democrito e Leucippo gli elementi base di tutte le cose sono gli atomi ovvero elementi
indivisibili e non soggetti a generazione, alterazione o distruzione. Nel terzo modello troviamo Anassagora
che ci parla del nous che piuttosto che principio effettivamente fondato, appare una sorta di deus ex
machina. Nel quarto modello infine troviamo i pitagorici che credettero che i principi di tutte le cose
fossero i numeri. Aristotele e Platone forniscono due excursus differenti, Platone infatti diversamente da
Aristotele identifica come primo filosofo Parmenide ed Eraclito e non Talete e naturalisti.

IMMAGINI E DEFINIZIONI DELLA FILOSOFIA (CON RIFERIMENTO A PLATONE E ARISTOTELE): DUE MODELLI
ALTERNATIVI? Il termine stesso Filosofia che indica “amore per il sapere”, è stato originariamente
attribuito a Pitagora (cf. la biografia di Diogene Laerzio, Vite, 1.12; 8.8). Tale espressione suggerisce da
subito una apertura di carattere propriamente religioso e precisamente indica che se la Saggezza (Sophia) è
propria soltanto di Dio, l’uomo può soltanto desiderare (amare) di avvicinarsi ad essa, ma senza mai
possederla pienamente. nei greci, come vedremo, non c’è mai un divorzio tra la filosofia come attività
intellettuale e la sua incidenza sulla vita pratica e morale. Anzi, proprio in quanto qualifica una tendenza
(l’amore per Sophia), potremmo dire che la filosofia è per sua essenza e originariamente pratica e riguarda
la morale, in quanto si interessa della massima aspirazione dell’uomo. Nel suo uso antico comprendeva
anche la storia naturale. Al tempo di Socrate potrebbe significare la competenza data dalla retorica e per
Aristotele abbraccia anche la matematica e la teoria della letteratura. Secondo Aristotele «Tutti gli uomini
per natura desiderano conoscere» . Dal suo punto di vista il carattere fondamentale di questa nuova
scienza è di essere un’indagine razionale sulla totalità del reale mossa dalla meraviglia.. In Metafisica 1
afferma che «La filosofia è ricerca delle cause e dei principi primi». Per Aristotele Talete [è l’] iniziatore di
questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua. Aristotele distingue un atteggiamento filosofico
dalla Filosofia come scienza. L’atteggiamento filosofico è tipico di ogni uomo che in ogni caso-pensa dunque
filosofa L'uomo non può non filosofare. La filosofia ama la luce; ama portare alla vista il nascosto. Platone e
Aristotele considerano la vista come la più alta delle sensazioni e in questo senso la filosofia è qualificata
come quel percorso di allontanamento dal pensiero mitico, laddove per mitosi intende un racconto
leggendario, che non ha a che fare con una argomentazione solida e capace da sé soltanto di autofondarsi —
-Centrale risulta dunque l’attività del pensiero: il pensare. Platone afferma il primato della filosofia come
aspirazione a una verità certa raggiungibile dall’uomo: la filosofia è un parlare, un dialogare, domandare e
rispondere (dialettica) per raggiungere la verità -Diverse le definizioni rintracciabili in Platone, ma una
chiave che ritroveremo è la seguente: filosofia come sumphilosophein (filosofare insieme)

Platone ha sempre considerato la dialettica come la tecnica propria della filosofi. Con Platone la dialettica
diventa una scienza e una qualificazione della filosofia. La filosofia è dialettica. In Platone (a differenza di
Arisotele che è il suo allievo) non c'è una definizione precisa di filosofia, ed anzi sembra, in contesti diversi
attribuire alla filosofia significati diversi a) Philosophia è ricerca di intermediari (Simposio) b) La filosofia
insegna a ragionare (Gorgia) c) La filosofia come ricerca sull’Essere (Teeteto) d) La filosofia come Dialettica
(Lettera VII)

• Filosofare per entrambi significa ricerca dell’Universale, ovvero indagine sull’Essere delle cose • Per
Platone, in continuità con Socrate, la Filosofia è invito a non considerare il dato immediato e contingente
ma ciò che è stabile e universale • Per Aristotelela Filosofia è scienza prima, poiché rivolta all’essere, ai
principi primi e alle cause b) Il punto di rottura:L’inizio dell’indagine filosofica Tra Aristotele e Platone c'è
un punto di rottura, infatti per Patone l'indagine filosofica parte

dall'universale per arrivare al particolare mentre Aristotele parte dal particolare per arrivare all'universale
ci sono distanze tra i due filosofi ma entrambi appartengono alla scuola di Atene(come abbiamo visto
nell'opera di Raffaello)

L'EXURSUS FILOSOFICO DEL PRIMO LIBRO DELLA METAFISICA E IL SIGNIFICATO E VALORE PER LA STORIA
DELLA FILOSOFIA la base solida attraverso la quale conosciamo i Presocratici è rappresentata dagli scritti di
Platone e Aristotele che oltre a indicare importanti informazioni sui primi filosofi, ne ricostruiscono il
pensiero argomentando ancora filosoficamente e considerandolo da una prospettiva propriamente
filosofica. Già questo dice quanto il nesso filosofiastoria della filosofia sia particolarmente forte Aristotele
non è soltanto una delle fonti, delle testimonianze più prossime ai pensatori che comunemente indichiamo
Presocratici, ma nel I libro della Metafisica, Aristotele propone un primo excursus filosofico, in qualche
modo una prima storia della filosofia. Possiamo ricostruire percorsi storico-filosofici, elenchi di filosofi che si
sono occupati di specifici temi, anche dagli scritti di Platone. Tuttavia soprattutto l’excursus Aristotelico
resta in qualche modo riferimento fondamentale per la Storia della filosofia. In esso si mostra chiaramente,
sebbene non consapevolmente posto da Aristotele stesso, il problema del nesso filosofia-storia che troverà
adeguata trattazione soltanto nella filosofia moderna. Ma l’excursus aristotelico e la dossografia filosofica
post-aristotelica, è soprattutto importante per l’influenza che ha esercitato sul nostro modo di conoscere i
Presocratici. Ad esempio è certo che Talete non ha usato ancora la parola ἀρχή2, che indica il principio, ma
la tradizione non ha ormai dubbi a considerare Talete come il primo che ha tentato di trovare un principio
unitario per spiegare e ricondurre a unità la pluralità dei fenomeni quali ci appaiono. È Aristotele che
attribuisce a Talete questo merito, indicandolo come “il primo” che ha avviato questo tipo di filosofia che,
nel I libro della Metafisica, definisce come “scienza delle cause e dei principi primi”. Aristotele propone un
suo excursus storico-filosofico, che inizia proprio con Talete, precisamente nel tentativo di dare
fondamento alla dottrina delle ‘cause’ che egli espone nella sua Fisica. Introducendo la dottrina delle cause
e distinguendo le cause materiale, formale, efficiente e finale, Aristotele parla dei suoi predecessori e delle
loro teorie, individuandone i limiti.

RAPPORTO FILOSOFIA-STORIA DELLA FILOSOFIA Talete è dunque particolarmente importante non soltanto
perché egli è iniziatore di una nuova forma di sapere ma anche perché, proprio in riferimento alla
definizione di tale inizio, e quindi precisamente con riferimento alla sua figura già si pone in essere il
problematico rapporto tra la filosofia e la sua storia. Parlare degli inizi della storia della filosofia, significa già
presupporre l’idea di un percorso storico che si presenta quanto mai difficile perché quelli che indichiamo
come primi filosofi non si qualificarono mai da soli come tali e come iniziatori di un nuovo genere di sapere,
bensì altri, dopo di loro, attribuirono questo merito. D’altra parte, come rileva opportunamente Gadamer,
proprio la frammentarietà dei riferimenti ai primi filosofi e infine la mancanza di testi, esige il riferimento a
una base solida, certamente prospettica ma altrettanto certamente indispensabile perché ricca di fonti e
testimonianze di cui non disponiamo diversamente. Precisamente la base solida attraverso la quale
conosciamo i Presocratici è rappresentata dagli scritti di Platone e Aristotele che oltre a indicare importanti
informazioni sui primi filosofi, ne ricostruiscono il pensiero argomentando ancora filosoficamente e
considerandolo da una prospettiva propriamente filosofica. Già questo dice quanto il nesso filosofiastoria
della filosofia sia particolarmente forte: è definendo la filosofia che ne posso fare la storia ma è anche nella
storia della filosofia che un pensiero trova un fondamento. È particolarmente significativo il riferimento ad
Aristotele. Egli non è soltanto una delle fonti, delle testimonianze più prossime ai pensatori che
comunemente indichiamo Presocratici, ma nel I libro della Metafisica, Aristotele propone un primo
excursus filosofico, in qualche modo una prima storia della filosofia. Possiamo ricostruire percorsi storico-
filosofici, elenchi di filosofi che si sono occupati di specifici temi, anche dagli scritti di Platone. Tuttavia
soprattutto l’excursus Aristotelico resta in qualche modo riferimento fondamentale per la Storia della
filosofia. In esso si mostra chiaramente, sebbene non consapevolmente posto da Aristotele stesso, il
problema del nesso filosofia-storia che troverà adeguata trattazione soltanto nella filosofia moderna.

RAPPORTO MITO E LOGOS, SIGNIFICATO E SENSO DEI DUE TERMINI MITO(dal greco mithèo= parlo,
converso, narro, racconto) Il termine in greco significa "racconto", ma non si tratta di un racconto
qualunque: è la narrazione di avvenimenti del mondo divino e umano e costituisce la più antica forma di
interpretazione della realtà, dell'esistenza e delle istituzioni sociali fondamentali I miti sono riconducibili a
luoghi di una relazionalità 1) orizzontale : i miti emergono quali indicatori del carattere sociale del
linguaggio, sono considerati come gli intermediari tra l’uomo di oggi (e quello di ogni epoca) e il suo passato
2) verticale: i miti sarebbero gli intermediari tra l’uomo e la sua origine trascendente Il mito sviluppa eterni
problemi, eterne speranze, eterni terrori, eterne disperazioni, proposti con figure perfette. Il poeta, come il
veggente e gli oracolisti, attinge a un sapere superiore, apollineo; -si tratta di interpretare dei segni,
attraverso il possesso di tecniche e cognizioni; -al sapere divinatorio si collega il sapere del legislatore e
quello del politico - la divinazione e la politica dipendono dall'intervento divino: la giustizia e la politica
dipendono da forma di attività divinatoria. i saperi artigianali sono doni divini; Un dio è in genere un
prototipo del sapere tecnico e da lui si origina, non per vie didattiche; la divinità è in genere garante dei
segreti che il gruppo di specialisti conserva; divinità principali sono Efesto (fuoco tecnico) e Atena (abilità
manuale e intelligenza pratica); oltre agli dei ci sono anche tanti primi inventori (Palamede, Dedalo). Max
Muller distingue tre fasi: una tematica, una dialettale, una mitopoietica. Il discorso mitico è un prodotto
inconscio del linguaggio di cui l’uomo è vittima e non creatore. Finché l’umanità percepisce il significato
primario delle parole , termini come “notte", “giorno”, “sera” sono concepiti come esseri dotati di potere e
volontà, senza che per questo si perda il carattere fisico dei fenomeni naturali. Successivamente fanno la
loro comparsa i personaggi del mito e i nomi della natura si trasformano in nomi propri. -Anche il termine
LOGOS significa parola, discorso, racconto. Un significato molto vicino a quello della parola mito -
Successivamente verrà a significare propriamente il discorso argomentato e capace di fornire
dimostrazioni:«dareragionedisé» (laddove al mito sarà riservato il territorio del racconto
leggendario,favoloso,immaginario) -La filosofia ama la luce; ama portare alla vista il nascosto. Platone e
Aristotele considerano la vista come la più alta delle sensazioni e in questo senso la filosofia è qualificata
come quel percorso di allontanamento dal pensiero mitico, laddove per mitosi intende un racconto
leggendario, che non ha a che fare con una argomentazione solida e capace da sé soltanto di autofondarsi —
-Centrale risulta dunque l’attività del pensiero: il pensare.

TEMI DEL PRIMO LIBRO DELLA METAFISICA: SCIENZA E TECNICA, LA SCIENZA PRIMA Aristotele distingue le
scienze in 3 branche: teoretiche, pratiche e produttive. Le più alte per dignita e valore sono le rpime:
metafisica, fisica e matematica e la più alta di queste è la metafisica(non è un termine di Aristotele, egli
usava “filosofia o scienza prima”) ed è appunto la scienza che si occupa delle realtà che stanno al di sopra di
quelle fisiche. La “metafisica” è l'opera in cui si trova esposta quella che aristotele chiamava la filosofia
prima, cioè la scienza che ricerca i principi primi e le cause prime dell'essere in quanto essere. E' costituita
da 14 libri. Il primo libro è diviso in due parti: la prima è una discussione sulla natura della sapienza, la
seconda è una verifica storica della validità della dottrina dei 4 generi di cause La scienza prima,
successivamente indicata come Metafisica, è la scienza che si occupa degli enti in quanto enti, ovvero dei
meccanismi inerenti alle cause e le necessità dell'ente, preso e analizzato per la sua caratteristica di essere
"qualcosa che esiste". Quindi per Aristotele: •ogni conoscenza è di tipo causale (cioè per causa) •possiamo
conoscere ogni cosa, ovvero ogni "ente", termine che si riferisce a ciò che tutte le cose hanno in comune,
cioè il loro "essere qualcosa“ Se di ogni ente dobbiamo occuparci e conoscerlo causalmente, niente risulta
essere frutto del caso e da ciò deriva che «chi comprende le cause non può provare alcun disgusto infantile
per gli aspetti più umili delle realtà naturali». Poiché in ogni ente (essere), quindi in ciascuna delle realtà
naturali, anche nel più piccolo verme (Aristotele era un grande “collezionista”) c’è «qualcosa di
meraviglioso […] non infatti il caso, ma la finalità presente nelle opere della natura, e massimamente; e il
fine, in vista del quale esse sono state costituite o si sono formate, occupa la regione del bello» (Le parti
degli animali, I, 5, 645a) •la ricerca del principio è svolta a partire dal particolare:ogni ambito, soprattutto
quello fisicosensibile, è meritevole di indagine ed è propriamente salvaguardando i fenomeni, che
Aristotele ritiene si possa pervenire ai Principi primi (o ultimi) di tutte le cose. «Tutti gli uomini per natura
desiderano conoscere» (Met. 980 a21) Tutti gli uomini aspirano al conseguimento del loro sapere per una
naturale inclinazione: l'amore fine a se stesso che essi hanno per le sensazioni, alle quali non
rinuncerebbero per nulla al mondo. La sensazione più cara agli uomini è la vista poiché è quello che più di
ogni altra cosa ci permette di conoscere. Avere sensazioni ci distingue dal mondo vegetale(anche esso
vivente). L'uomo sta un gradino sopra rispetto agli animali poiché non vive di immagini sensibili ma di
tecnica e ragionamento. •Tale ricerca ha origine dalla Meraviglia, che non è contemplazione estasiata bensì
ricerca razionale: si cerca il perché,il motivo: «ne è prova…» (Met. 980 a22-24) • Quale scienza cerchiamo?
(Met. 982, A 4-6): La Sapienza, scienza delle cause prime (Met. 982 b9) •Riferimento alla Fisica e alla teoria
delle cause Aristotele, in Metafisica I, parte da una definizione di Filosofia: «La filosofia è ricerca delle cause
e dei principi primi», e dopo tale definizione afferma: • «Queste cause sono state da noi studiate
adeguatamente nella fisica, tuttavia dobbiamo prendere in esame […] coloro che prima di noi hanno
affrontato lo studio degli esseri ed hanno filosofato intorno alla realtà. È chiaro, infatti, che anch’essi
parlano di certi principi e di certe cause. Ora il riferirsi ad essi sarà certo di vantaggio alla presente
trattazione: infatti, o troveremo qualche altro genere di causa,oppure acquisteremo più salda credenza
nelle cause di cui ora si è detto» (Met. 983 b6; p. 15). Perciò uno dei temi principali di cui parla Aristotele in
metafisica 1 è l'exursus filosofico che identifica Talete come iniziatore della filosofia come ricerca delle
cause e dei principi primi. Le cause prime sono fondamentalmente 4: causa formale, causa materiale, causa
efficiente, causa finale. Le prime due sono la forma e la materia che costituiscono tutte le cose, le ultime
due lo scopo cui tende il divenire dell'uomo. La metafisica è la più alta scienza perchè risponde non a
bisogni materiali ma spirituali.

ETICA ED ECONOMIA NEL PENSIERO ANTICO Per i greci quasi tutte le discipline erano connesse tra loro
quindi l'economia e la politica si interpretavano alla luce dell'etica che a sua volta si interpreta alla luce
della filosofia. Quasi tutte le filosofie antiche(greche) concordano sul fatto che l'uomo sia un animale
socievole per natura e quindi il comportamento etico consiste nell'aggregarsi politicamente e socialmente.
Per economico invece si intende ciò che è conveniente e appropriato, e quindi di nuovo il comportamento
sociale e politico e anche l'aggregazione in amicizia poiché fa parte dell'essenza umana. Stando alla
definizione dello storico ed economista Karl Polanyi per “economia” si intende l'insieme dei rapporti che
l'essere umano tesse con l'ambiente che lo circonda al fine di assicurare la sua sussistenza e quella della
famiglia. Secondo questa definizione possiamo quindi affermare che è possibile parlare di economia
nell'antica grecia . Per Aristotele l'economia è l'arte di amministrare la casa, si può parlare infatti di
economia domestica. Se l'economia è l'arte di ordinare la casa in vista del bene comune e crematistica è
l'arte di produrre ricchezza , beni. Nel mondo antico tuttavia la ricerca del profitto non aveva conquistato
(come accade oggi) la maggior parte delle sfere legate alla vita sociale, anche se come ricorda Aristotele
nella politica nessuno può negare l'esistenza di un tipo di uomo animato dalla crematistica, il cui scopo era
quello di massimizzare profitto e beni.La richezza serviva la causa del bene comune , la produzione dei beni
era sottomessa alla logica del bene della comunità. Il modello mirato degli antichi era quello dell'economia
domestica, la gestione materiale della casa. Il concetto di economia entra in relazione con il concetto di
“etica” . Aristotele definisce l'etica come quella branca della filosofia che studia la condotta degli esseri
umani in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte d'etica, infatti intende indicare quale sia il
vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo , quali siano i valori morali verso se stessi e verso gli altri.Ogni
azione è fatta in vista di un fine, tuttavia, i fini delle attività umane sono desiderati in vista di fini superiori.
Ma ci deve essere un fine che è voluto indipendentemente dagli effetti : il sommo bene. L'unico bene
sommo è la felicità , l'uomo è felice solo se vive secondo ragione.

COSA E' L'UOMO IN SOCRATE Socrate concentrò il suo interesse sulla problematica dell'uomo. L'uomo è la
sua anima e per anima Socrate intende la ragione e la sede dell'attività pensante, definisce l'uomo
“molecola pensante”, L'anima è l'io consapevole (la coscienza). A seguito di questa sua scoperta ha dato il
via alla tradizione morale e intellettuale sulla quale l'Europa si è spiritualmente costruita. Per Socrate curare
se stessi perciò significa curare la propria anima e insegnare agli uomini la cura della propria anima è il
compito supremo dell'educatore, appunto il compito che Socrate ritenne di aver avuto dal Dio, come si
legge nell'apologia.. La psychè è ciò che si serve del corpo . Attraverso l’ironia, Socrate mette in crisi le
verità soltanto apparenti, le opinioni comuni, per far “nascere” la verità che egli ritiene risieda soltanto
nell'interiorità dell'uomo, in ogni uomo. Socrate non insegna dunque una verità, ma aiuta a trovarla dentro
di sé. Questo procedimento attraverso il quale il filosofo lascia che la verità si manifesti, è noto come
maieutica, termine con cui i greci indicavano l’arte della levatrice, che Socrate fa sua ponendosi come
ostetrico delle anime. La vitù dell'uomo è la scienza e la conoscenza mentre il vizio è l'ignoranza . I valori
veri non sono legati alle cose esteriori ma solamente i valori dell'anima che si assommano tutti quanti nella
conoscenza. Nessuno pecca volontariamente e chi fa il male lo fa per ignoranzadel bene(intellettualismo
socratico). L'uomo per sua natura cerca il proprio bene e quando fa del male è perchè si aspetta di
ricavarne un bene, il male percò è involontario. La più significativa manifestaziobe della psychè è l'enkrateia
ossia i dominio di sé negli stati di piacere, dolore e fatica, il dominio della razionalità sull'animalità. L'uomo
veramente liero è colui che sa dominare i suoi istinti, il nuovo eroe è colui che sa vincere i nemici interiori.
Secondo Socrate la felicità non può venire dalle cose esteriori né dal corpo, ma solo dall'anima, l'anima è
felice quando è ordinata ossia virtuosa L'uomo è il vero artefice della propria felicità o infelicità. Le vere
armi di cui dispone l'uomo sono la ragione e la persuasione, se facendo uso della ragione non riesce a
persuadere deve rassegnarsi, far uso di violenza è cosa empia.

COSA E' L'UOMO IN PLATONE La concezione dell'uomo in Platone è dualistica, o per meglio dire la
concezione dei rapporti tra anima e corpo. Il corpo è inteso come gabbia dell'anima. Il nostro morire è
vivere perchè morendo l'anima viene liberata. Il corpo è radice di ogni male e tutto questo mortifica
l'anima(si differenzia dall'orfismo). Platone ci parla di fuga dal corpo e fuga dal mondo: fuggire dal corpo
significa fuggire dal male del corpo mediante virtù e conoscenza, fuggire dal mondo significa fuggire dal
male del mondo sempre mediante virtù e conoscenza. Platone precisa rispetto a Socrate che “cura
dell'anima” significa “purificazione dell'anima” e si realizza quando l'anima si impossessa del mondo
dell'intellegibile. Conoscendo, l'anima si cura, si purifica, si converte e si eleva, la dialettica è liberazione dai
ceppi e dalle catene del sensibile. L'anima deve essere immutabile ed eterna, sono generate dal demiurgo,
perciò hanno una nascita ma non sono soggette a morte. La trasmigrazione dell'anima da un corpo ad un
altro viene chiamata metempsicosi. Nel Fedone dice che le anime con la morte del corpo vagano per paura
dell Ade finchè non si legano di nuovo a un corpo, che può essere di un uomo o animale a seconda del
tenore di vita morale precedente. Nella Repubblica parla di anime in numero limitato. Platone
richiamandosi alla Sua dottrina delle idee: -vi sono due specie di cose: quelle visibili cioè sensibili, quelle
invisibili cioè intelligibili. A quale delle due l’Anima si riferisce? -l’anima è simile o congenere alle Idee,
all’invisibile «l'anima è simile in tutto e per tutto a ciò che sempre è invariabile piuttosto che a ciò che non
lo è» E il corpo? Chiaramente è dell’altra specie, della specie opposta. • al divino, all'immortale,
all'intelligibile, all'uniforme, all'indissolubile (a ciò che rimane sempre con se medesimo, invariabilmente
costante) è prossima l'anima • all'umano, al mortale al multiforme, al sensibile, all'indissolubile (a tutto ciò
che non è mai con se medesimo costante) è somigliantissimo il corpo. La vita ultraterrena deve avere una
durata di 1000 anni e trascorso questo ciclo devono tornare a reincarnarsi(mito di Er). Nel Fedro invece ci
viene spiegata la caduta dell'anima nel corpo attraverso il mito del carro alato. L'uomo è sulla terra come di
passaggio e la vita terrena è come una prova, la vera vita è nell'aldilà, dove verrà giudicata.

IN PLATONE POSSIAMO PARLARE DI UNA BIPARTIZIONE O TRIPARTIZIONE DELL'ANIMA? ARGOMENTARE


L'anima ha sicuramente in sé: A. un aspetto razionale=il desiderio di apprendere B. un aspetto
animoso=l'impulso a compiere azioni coraggiose C. un aspetto concupiscente che è il desiderio di piacere,
di denaro • Si tratta di una novità nella Repubblica , rispetto al Fedone ,dove si presentava un’unica anima
Razionale, o intelligenza, come in Socrate • Più difficile stabilire se si tratti di Tre principi o soltanto tre
aspetti della stessa anima Si tratta di tre principi diversi dato che: «l'identico soggetto nell'identico rapporto
e rispetto all'identico oggetto non potrà contemporaneamente fare o patire cose opposte» L'uomo dunque
non solo è fondamentalmente anima ma addirittura tre anime o tre distinte parti di una stessa anima: -
anima razionale (Logos) -anima irascibile o impetuosa (Thumos) -anima concupiscente o appetitiva
(Epithumetikon) Con questa dottrinaPlatone trasferisce all'interno dell'anima i conflitti che nel Fedone
avevano luogo tra anima e corpo Si può dire pertanto che egli è lo scopritore dei conflitti psichici. Quindi,
come anticipato, non solo Platone anticipa l’idea di un’anima come sostanza spirituale (cristianesimo e
modernità), ma il suo è contributo importante per la psicologia: quello che siamo dipende dai conflitti che
viviamo interiormente L’anima dunque non è qualcosa di unitario: • in essa entrano in conflitto tendenze
contrastanti per cui una parte di noi desidera qualcosa e un’altra ci distoglie dal farlo • in essa si
distinguono una parte irrazionale e una parte razionale chiamata logismos o logistikon, che calcola,
stabilisce le conseguenze di un dato comportamento La parte irrazionale si distingue in epithymetikon , che
è la parte legata agli istinti del corpo (cibo, sesso…) e thymos o thymoides (legata ai desideri di
affermazione e riconoscimento sociale). Tre sono, dunque, i centri motivazionali dell’anima: logismos,
thymosed epithymetikon. • Tra l'anima razionale e l’anima concupiscente c'è perenne contrasto e la
giustizia, la virtù dell'anima, si produce quando la ragione, aiutata dalla parte impetuosa, riesce ad imporsi
sull'animo concupiscente • Il dualismo anima-corpo del Fedone è sostituito nella Repubblica da una teoria
più complessa dell'anima: non più in conflitto con ilcorpo, ma con se stessa (le passioni diventano il corpo, il
corporeo) • Il vizio non consiste più (come per Socrate)semplicementenell'ignoranza, ma nel cedere alle
passioni(qui apre un altro tema centrale nella storia del pensiero, quello del rapporto tra Ragione e
Passioni, il loro dominio e controllo… cf. Tema dominante nella modernità) Nel fedro troviamo il mito della
biga alata: - Anima razionale-Anima irascibile-Anima concupiscente - Auriga e due cavalli: un cavallo bianco
e un cavallo nero(l'auriga simboleggia la ragione, i due cavalli le parti alogiche dell'anima, ossia quella
irascibile e quella concupiscibile). L’uomo è un'unione provvisoria di anima e corpo, dovuta a una caduta
dell’anima dal cielo. La nascita è una caduta come effetto di una colpa commessa per aver seguito le
passioni.

COSA E' L'UOMO IN ARISTOTELE? • Per Aristotele la domanda che “cos'è l'uomo” equivale alla richiesta di
una definizione strutturalmente non diversa dalla domanda “che cos'è un corpo celeste” o “che cos'è un
tavolo” • Alla domanda“checos'èun certo ente” sicercadidefinirei trattiessenziali invariantidiunaspecie,
classegeneraledienti • Ogni specie appartiene a un genere della classe più ampia di enti che possiedono
alcune caratteristiche comuni • Da un lato bisogna indicare il genere a cui una specie appartiene, ossia ciò
che essa ha in comune con altre specie, dall'altro occorre evidenziare la sua differenza specifica, ovvero ciò
che la distingue dalle altre specie dello stesso genere • In riferimentoall’uomo: Il genere uomo è Animale
(come più volte ha detto Aristotele): oda Animal, che deriva dal latino Animus oin greco da Zao cioè vivere
• Quindi letteralmente vivente Quindi per Aristotele: • anche le piante sono viventi, ma non sono
“animali”, cioè dotati di anima • Il vivere come inteso nel significato latino equivale, per Aristotele,
all’essenza degli animali che non sono più tali se morti • Ciò vale anche per l’Uomo: l’uomo è tale finché
vive: “Per i viventi l’essere è il vivere” • Quanto alla differenza specifica dell'uomo rispetto gli altri
animali,Aristotele,ne indica più di una (ad esempio bipede implume… cioè differenze di tipo biologico ) •
Ma l'essenza dell'uomo è il fatto di possedere il logos ovvero la parola, il discorso, il pensiero e la ragione •
Lo stesso termine "politica" è la traslitterazione dell`aggettivo politikè. Techne politikè è la teoria della
polis, spazio della vita comunitaria dei Greci. In questo contesto vanno collocate le definizioni aristoteliche
dell’uomo come zoonpolitikon, uomo politico, e zoon logon echon , uomo dotato di parola: essa è, infatti,
elemento essenziale alla creazione di uno spazio d`intelligenza collettivo, senza il quale la comunità
vivrebbe in modo gregario e non egualitario o gerarchico. • Certamente anche gli animali hanno un istinto
all’aggregazione…ma questo istinto in loro non giunge all’esigenza di creare una comunità nella quale
condividere, vivere insieme, condividere pensieri e cercare di realizzare la propria felicità (vedremo il valore
dell’amicizia). Aristotele definisce l'uomo come animale politico, un animale che vive in una società
politicamente organizzata, Aristotele non considera cittadini tutti gli abitanti di una città, per essere
cittadino occorrere prendere parte all'amministrazione della cosa pubblica, perciò non tutti potevano
esserlo in quanto non avevano a disposizione il gtempo(es:operai) finendo per essere in qualche modo
mezzi che servono a soddisfare i bisogni dei primi.

COSA E' L'ANIMA IN ARISTOTELE? Aristotele scrisse un trattato sull'anima. Gli esseri inanimati si
distinguono da quelli animati per l'anima. I corpi viventi hanno vita ma non sono vita, sono il sostrato
materiale e potenziale di cui l'anima è forma e atto, l'anima è entelechia di un corpo. Aristotele distingue :
anima vegetativa, anima sensitiva, anima intellettiva o razionale. Le piante posseggono solo quella
vegetativa, gli animali quella vegetativa e sensitiva, mentre l'uomo possiede l'anima intellettiva che svolge
anche le funzioni di quella sensitiva e vegetativa. • Per Aristotelel’anima è qualcosa di più delle tradizioni
orfico-pitagorica, e diversa da come la intende Platone: - è il principio della vita o, il che è lo stesso, ciò che
distingue un vivente da un non vivente - l'anima è forma del corpo naturale che ha la vita in potenza -
l'animaè l’atto primo di un corpo che ha la vita in potenza - l'anima e l'atto primo di un corpo naturale
munito di organi • Per capire queste definizioni bisogna anzitutto tenere presente che Aristotele non sta
parlando soltanto dell'anima umana, ma dell'anima in generale (compresa quella di animali e piante. • Tutti
hanno la vita in potenza -Potenza = capacità disvolgere da sé le funzioniin cui consiste il vivere per ciascuno
di essi, che è ciò in cui consiste la loro formae atto primo) -Forma(atto) di un corpo=modo in cui esso è
strutturato e funziona, ciò che fa sì che il corpo sia un tutto vivente unitario. • L’anima è un principio che è
in tutti gli animali; • Allora che cosa distingue l'anima in generale dall'anima dell'uomo? Aristotele ritiene
che la differenza specifica dell'uomo rispetto agli altri animali consiste nel fatto che l'anima umana possiede
la capacità di pensare , ragionare e parlare, quindi tutte le funzioni precluse agli altri due tipi di anima: -
Anima nutritiva - Anima sensitiva(svolge anche le funzioni di quella nutritiva) - Anima intellettiva(svolge
anche le funzioni di quella nutritiva e sensitiva). E' importante precisare che non è corretto parlare di 3 parti
dell'anima in quanto non ha tre parti(come diceva Platone) ma piuttosto 3 funzioni pur restando sempre la
stessa. L'uomo dunque non ha tre anime (e non vi sono tre principi)ma una sola Anima, quella intellettiva,
la quale è capace di svolgere tutte le funzioni (dell'anima nutritiva, sensitiva e le proprie). L'anima
vegetativa è il principio più elementare della vita, ovvero quella che governa e regola le attività
biologiche(la posseggono le piante).

IN ARISTOTELE E' CORRETTO PARLARE DI 3 PARTI DELL'ANIMA? Non è corretto in quanto l'anima non ha
tre parti(come sosteneva Platone) ma piuttosto 3 funzioni pur restando sempre la stessa. • L'uomo dunque
non ha tre anime (e non vi sono tre principi)ma una sola Anima, quella intellettiva, la quale è capace di
svolgere tutte le funzioni (dell'anima nutritiva, sensitiva e le proprie). L'anima vegetativa è il principio più
elementare della vita, ovvero quella che governa e regola le attività biologiche(la posseggono le piante).
L'anima sensitiva riguarda le sensazioni, gli appetiti e movimento; La prima funzione dell'anima sensitiva è
la sensazione. Il fenomeno della sensazione viene spiegato da Aristotele con i concetti di potenza e atto: il
nostro organo di senso ha la capacità (potenza) di sentire, e questa capacità diventa un sentire in atto
quando giunge a contatto con l'oggetto sensibile che ha la capacità di essere sentito, in questo contatto
avviene che il senso assimila il sensibile, e precisamente la forma di esso. Dalla sensazione deriva la
fantasia, che è produzione di immagini, e la memoria, che è conservazione delle medesime, e infine,
l'esperienza, che nasce dall'accumularsi di fatti mnemonici. Il movimento degli esseri viventi, infine deriva
dal desiderio che è una “specie di appetito”. Riguardo l'anima intellettiva invece si parla di un genere di
conoscenza che consiste nell'assimilazione di una forma, ma in questo caso non si parla della forma
sensibile, ma di quella intellegibile. Anche in questo caso Aristotele per spiegare questo tipo di conoscenza
si avvale dei concetti di potenza e atto. Da un lato distingue una potenzialità dell'intelletto (intelletto
passivo) a conoscere le forme intellegibili e dall'altro una potenzialità delle forme intellegibili che sono nelle
cose a essere conosciute. Il tradursi in atto di questa duplice potenzialità presuppone un intelletto agente
che attualizza la potenzialità dell'intelletto di cogliere la forma e fa passare la forma contenuta
nell'immagine della cosa in concetto attualmente colto e posseduto(questo intelletto Aristotele lo paragona
alla luce.

L'ANIMA IN UN AUTORE ANTICO E UNO MEDIEVALE(SCEGLIERE I DUE AUTORI E ARGOMENTARE SUL


TEMA) Aristotele scrisse un trattato sull'anima. Per Aristotelel’anima è qualcosa di più delle tradizioni
orfico-pitagorica, e diversa da come la intende Platone: Gli esseri inanimati si distinguono da quelli animati
per l'anima. I corpi viventi hanno vita ma non sono vita, sono come il sostrato materiale e potenziale di cui
l'anima è forma e atto, l'anima è entelechia di un corpo. Aristotele distingue : anima vegetativa, anima
sensitiva, anima intellettiva o razionale. Le piante posseggono solo quella vegetativa, gli animali quella
vegetativa e sensitiva, mentre l'uomo possiede l'anima intellettiva che svolge anche le funzioni di quella
sensitiva e vegetativa e le proprie. L’anima è un principio che è in tutti gli animali;Allora che cosa distingue
l'anima in generale dall'anima dell'uomo? Aristotele ritiene che la differenza specifica dell'uomo rispetto
agli altri animali consiste nel fatto che l'anima umana possiede la capacità di pensare , ragionare e parlare,
quindi tutte le funzioni precluse agli altri due tipi di anima.E' importante precisare che non è corretto
parlare di 3 parti dell'anima in quanto non ha tre parti(come diceva Platone) ma piuttosto 3 funzioni pur
restando sempre la stessa. L'uomo dunque non ha tre anime (e non vi sono tre principi)ma una sola Anima,
quella intellettiva. Gregorio di Nissa invece ci fornisce differenti definizioni di anima: « L'anima è un'essenza
generata, vivente, intelligente, che trasmette agli organi sensoriali del corpo l'energia vitale, capace di
partecipare agli oggetti sensibili finché la natura che riceve le percezioni continua ad esistere. » (De an., 1) •
« L'anima è un'essenza intelligente che trasmette al corpo, suo strumento, la forza vitale in modo che possa
far funzionare le sensazioni. » (ibid., 2) • « L'anima è immateriale ed incorporea, agisce e si muove in modo
conforme alla propria natura e rivela i propri movimenti sugli organi corporei. » (ibid., 1) •Poiché la natura
avanza per gradi verso la perfezione, l’uomo è una « miscela » (κατακιρνᾶται) di tutte le forme di anima
(ibid, 8). •Solo quella razionale è veramente anima ; •La concupiscibile e la irascibile si chiamano tali per
similitudine (ibid., 15) ma non appartengono alla natura primigenia dell'anima: « sono delle escrescenze
che si attaccano alla sua parte pensante ». • Dopo la risurrezione, l’uomo avrà solo l'anima razionale.

EROS PHILIA E AGAPE NELLA FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE, CON RIFERIMENTO AD ALMENO DUE
AUTORI I greci distinguevano tre volti o aspetti dell’amore: Eros, Agape e Philia.

-Eros , secondo la concezione platonica, è l’amore carnale in cui esso occultamente manifesta il desiderio
egotico del mutuo scambio, di un dare ed avere. Nasce dalla fame e diventa potere di acquisto di qualcosa
che ne plachi la bramosia dei sensi. -Philia è l’amore sentimentale, quello che si stabilisce in un rapporto di
complice amicizia, di affiatamento e di comunità di intenti. -Agape è l’Amore spirituale o universale che
eleva l’uomo e gli fa comprendere che non è lui a possedere Dio ma Dio che lo possiede.

Agape(in latino caritas) come abbiamo detto significa amore disinteressato, fraterno, smisurato. Viene
utilizzato nella teologia cristiana per indicare l'amore di Dio nei confronti dell'umanità. S Agostino diceva
che quando l'amore dell'uomo è diretto verso Dio(e ama gli uomini e le cose in funzione di Dio) è charitas;
quando invece è diretto verso sé e verso il mondo e le cose del mondo, è cupiditas. Amare sé e gli uomini
non secondo il giudizio degli uomini ma secondo il giudizio di Dio significa amare nel modo giusto. Sul
piano filosofico passò per cui a indicare l'amore spirituale, come superamento dell'eros che è l'amore di
attrazione tra uomo e donna.[15] Mentre in Platone l'eros è un amore di tipo ascensivo, animato dalla
bramosia di possedere l'oggetto amato, l’agape è la risposta di Dio a un tale desiderio, e consiste nella
scoperta apparentemente paradossale che solo nel dono di sé l’eros può approdare alla meta tanto
anelata, giungendo a infinita e totale soddisfazione. La philia come abbiamo detto prima è l'amore
sentimentale ovvero l'amicizia che ha legame con l'amore distanziandone nella misura in cui che l'amore
può anche essere impersonale e può restare segreto e unilaterale, l'amicizia sembra invece implicare la
reciprocità ed è fondamento della vita comunitaria. L'amicizia diventerà sempre di più un legame
necessario assumendo dal quinto al sesto secolo un valore politico e diventando, grazie anche alla figura di
socrate, ancora più centrale nella riflessione filosofica. L'amicizia viene intesa da quest'ultimo come
qualcosa che riguarda l'uomo, o meglio, la psyche, un principio vitale che regola il rapporto con gli altri e la
propria realizzazione personale. Per Socrate l'amicizia è fondata sulla virtù, si realizza solo tra uomini
virtuosi che rispettano la ragione.
A lezione abbiamo incontrato varie distinzioni tra eros e agape: la prima parla di eros come un amore
purificando, mentre agape un amore purificato

la seconda distinzione parla di eros come un amore egoista, mentre agape come un amore aperto all'altro
la terza dipinge eros come un amore discendente, montado, mentre l'agape come un amore ascendente,
divino la quarta eros come amore ricevuto, agape amore dato la quinta eros come amore che desidera la
comunione, agape amore asimetrico

L’amicizia(philia) si distribuiscetra erôs, in quanto è desiderioda purificare, e agapè, in quanto si


compienellacomunione con Dio e con l’altro. L’amicizia che si identifica con l’agapè in quanto quest’ultimà
si compie nella comunione con Dio e con il prossimo, giunge la nozione di amicizia spirituale

L'ANIMA IN ECKHART Per Eckhart l'anima è il luogo in cui noi ”afferriamo” Dio, è nell'anima che avviene
l'unione con la divinità. Per far in modo che ciò avvenga, l'uomo deve ritornare a Dio poiché solo tornando
a Dio ritroverà se stesso. Le cose e l'uomo non sono nulla senza Dio. Per poter tornare a Dio l'anima deve
essere “libera e spoglia di ogni cosa”, per diventare dimora della divinità deve svuotarsi di tutti i contenuti
che derivano dall'io. L'unione con Dio avviene quando l'uomo si fa vuoto. Quando l'anima è in Dio però è
“pronta ad accogliere ogni attacco, ogni contrarietà, ogni dolore e a sopportarli volenterosamente con gioia
e serenità”. Infatti se l'uomo soffre per se stesso , il dolore è insopportabile, se soffre per Dio allora la
sofferenza non duole poiché Dio porta il peso. Quando l'uomo si allontana da tutto ciò che è finito,
materiale e terreno l'anima scopre di essere essa stessa Dio.

L'ANIMA IN ECKHART: QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PROSPETTIVA MISTICA Per Eckhart l'anima è il


luogo in cui noi ”afferriamo” Dio, è nell'anima che avviene l'unione con la divinità. Eckhart è infatti il
principale esponente del pensiero mistico speculativo. Il problema di questa corrente era quello di
ristabilire il contatto tra Dio e l'uomo. Misticismo perchè insiste sul fatto che Dio è al di là di ogni nostra
possibilità concettuale e perchè sostiene che l'uomo , staccato da Dio è niente. Speculativo per la ragione
che esso è intriso di filosofia. L'unione con la divinità è possibile solo attraverso il distacco dell'uomo dalla
finitezza, dal suo legame con le cose, dai suoi desideri e passioni. Per poter tornare a Dio l'anima deve
essere libera e spoglia di ogni cosa, per diventare dimora della divinità deve svuotarsi da tutti i contenuti
che derivano dall'io, l'unione con Dio avviene quando l'uomo si abbandona a Dio niente e nessuno può
turbarlo “come niente può turbare Dio, cosi nulla può turbare l'uomo che porta Dio in tutte le sue opere e
in ogni luogo poiché ogni sua opera è piuttosto opera di Dio”. L'uomo si deve lasciar guidare da Dio ad
accettare con piacere e riconoscenza il suo volere, qualsiasi esso sia. L'uomo deve diventare uno spirito
libero, libero anche per la morte. Quando l'anima è in Dio è pronta ad accogliere ogni attacco, ogni prova e
contrarietà, ogni dolore e a sopportarli volenterosamente con gioia e serenità, infatti se l'uomo soffre per
se stesso il dolore è insopportabile, se soffre per Dio allora la sofferenza non duole poiché Dio porta il peso.
Quando l'uomo si allontana da tutto ciò che è finito, materiale e terreno l'anima scopre di essere essa
stessa Dio.

IL NOUS IN MASSIMO IL CONFESSORE E GREGORIO DI NISSA Nel pensiero di Massimo il confessore il nous
è la presenza divina o la possibilità di essa nell'uomo. Egli afferma infatti che l'uomo è immagine del logos
ed è per questo che contiene lo stesso nous(o essenza) del logos. Da ciò deriva la sua somiglianza con Dio.
Rientrare in questa somiglianza è l'obiettuvo della vita umana. Confuta dunque la forma di cripto-
monofisismo e dimostra con grande tenacia ed effcacia che in cristo non esiste una sola
energia(monoergismo) e una sola volontà (monotelismo) di natura divina ma due attività e due volontà:
quella divina e quella umana portando alla vittoria la tesi di cristo vero Dio e vero uomo. Nel pensiero di
Gregorio di Nissa il nous è invece quella forza che sta alla base di ogni attività vegetativa sensitiva e
razionale ed essendo infuso da Dio possiede quelle che sono le qualità divine: è inconoscibile, intelletuale,
incorporeo, molteplice, multiforme, semplice e non composto. L'incorporeità del nous esclude ogni sua
circoscrivibilità e localizzazione in un organo del corpo(cervello, cuore, fegato) piuttosto, si unisce
equamente a ciascuna delle parti del corpo secondo un modo indicibile di mescolanza ed esercita le proprie
potenze in ogni porta del parte del composto umano. Nel dividersi e spartirsi, pur non essendo divisibile e
spartibile nelle varie attività sensibili, la natura del nous si mescola nel composto umano attraverso queste
e ne trae la conoscenza degli enti. Nel composto umano il nous è governato da Dio e il nous governa la vita
affinchè questa si conservi ell'ordine naturale, se se ne allontana diventa estranea anche all'attività del
nous. Occorre dunque che il corpo abbia una natura adatta per congiungersi con esso. La natura greforiana
sul corpo prevede che gli organi da cui è costituito si dividono in 3 categorie: quelli che garantiscono il
vivere(cuore cervello fegato), quelli che offrono il vivere bene (organi delle sensazioni), quelli che
garantiscono la continuità e la successione della vita(organi sessuali)

LA PERSONA: LA RIVOLUZIONE OPERATA DAL CRISTIANESIMO E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA Con


l'avvento del cristianesimo e con la diffusione del messaggio biblico si verificò una radicale ricoluzione del
pensiero occidentale. Alla concezione politeista dei greci che non aveva mai sentito come dilemma la
questione se Dio fosse uno o molti, si oppose il monoteismo cristiano che vede Dio come uno e unico.Con
questa concezione di Dio unico nasce una nuova visione della trascendenza e crolla qualunque possibilità di
considerare come divina qualunque altra cosa. La bibba recide in tronco ogni forma di politeismo, Dio è
totalmente altro da tutte le cose. Inoltre, mentre i greci avevano proposto diverse soluzioni per quanto
riguarda l'origine degli esseri umani(Parmenide risolveva il problema con la negazione di ogni forma di
divenir, i pluralisti parlavano di riunione o combinazione di elementi eterni, Platone parlava di un demiurgo
e di un'attività demiurgica, Aristotele dell'attrazione di un motore immobile, gli stoici proponevano una
forma di monismo panteista, Plotino invece una processione metafisica), il messaggio biblico parla di
creazione. “il principio Dio creò il cielo e la terra” e lo creò mediante la sua parola . Come tutte le cose del
mondo dio creò direttamente anche l'uomo senza usare nulla di preesistente e senza avvalersi di intermedi;
Egli produsse tutto dal nulla. Dal nulla hanno origine tutte le cose, senza distinzione. Dio crea liberamente,
con un atto di volontà a motivo del bene. Dunque se per i greci uomo e cosmo sono strettamente
congiunti, nella bibbia l'uomo è visto come creatura privilegiata di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza,
dominatore e signore di tutte le altre cose che per lui sono state create. L'uomo, essendo fatto ad
immagine e somiglianza di Dio, deve sforzarsi di “assimilare a lui”, deve ciè fare la volontà di Dio , la volontà
è infatti lo strumento dell'assimilazione. E' proprio questa capacità di fare liberamente la volontà di Dio che
pone l'uomo al di sopra di tutte le cose. L'ubbidienza ai comandamenti di Dio diventa quindi la virtù, e la
disubbedienza il peccato. Lo scopo supremo della vita viene fatto coincidere con il fare la volontà di Dio .La
buona volontà diventa la cifra dell'uomo morale. Il nuovo messaggio cristiano sconvolge dunque i quadri
del pensiero greco. I filofosi greci avevano collegato il male che l'uomo soffre in se ad una colpa originaria,
desumento il concetto dai misteri orfici, ma erano ben lontani dallo spiegare la natura di questa colpa:
erano infatti convinti che la metempsicosi (il ciclo della nascita) avrebbe cancellato la colpa negli uomini e
che i filosofi avrebbero potuto liberarsi di quella colpa per virtgù di conoscenza. Il nuovo messaggio rivela
invece che nessuna forza avrebbe potuto riscattare l'uomo. Occorreva l'opera di Dio fattasi uomo e la
partecipazione dell'uomo alla passione di cristo nella dimensione della fede. Nasce quindi una nuova
antropologia: l'uomo non risulta più corpo e anima ma corpo anima e spirito dove lo spirito è la
partecipazione al divino tramite la fede, l'apertura dell'uomo alla divina parola e alla divina sapienza.

IN CHE COSA CONSISTE LA FELICITA' DELL'UOMO? CONSIDERARE DUE AUTORI, UNO ANTICO E UNO
TARDO-ANTICO O MEDIEVALE La felicità è una condizione di soddisfazione, gioia che può variare in base ai
desideri e al pensiero dell'individuo in questione. Aristotele si inserisce tra gli autori che come Platone
identificano la felicità con la virtù.Tutte le azioni umane tendono a fini che sono beni; il complesso delle
azioni umane e il complesso dei fini particolari cui queste tendono sono subordinati ad un fine ultimo: la
felicità, il bene supremo. Ma che cosa è la felicità? Per la moltitudine è il piacere e il godimento, ma una
vita spesa per il piacere, dice Aristotele, è una vita che rende simili agli schiavi . Per altri la felicità è l'amore
(che per l'uomo antico corrispondeva a quello che per l'uomo oggi è il successo) ma l'amore, dice Aristotele
è qualcosa di estrinseco che in gran parte dipende da chi lo conferisce. Vale di più ciò per cui si merita
amore, che non l'amore che è risultato e conseguenza. Per altri ancora la felicità sta nell'ammassare
ricchezze, tra questa per Aristotele, è la più assurda delle vite , la ricchezza è solo un mezzo per
qualcos'altro e non può quindi valere come fine. Il bene supremo realizzabile dal'uomo e quindi la felicità,
consiste nel perfezionarsi in quanto uomo, ossia in quell'attività che differenzia l'uomo da tutte le altre
cose. Non può quindi consistere nel semplice vivere come tale, percè vivono persino gli esseri vegetativi, e
nemmeno nella vita sensitiva, che è comune anche agli animali. Non resta dunque se non l'attività della
ragione: l'uomo che vuole vivere bene deve vivere secondo ragione, sempre. Aristotele proclama quindi
come valori supremi quelli dell'anima anche se riconosce dell'utilità anche nei beni materiali in quantità
neccessaria, in quanto essi, se non sono in grado di dare felicità con la loro presenza, possono in parte
comprometterla con la loro essenza. Nella filosofia medievale con l'avvento del cristianesimo, la felicità
assume invece caratteristiche della beatitutide. Sant'Agostino collega infatti il raggiungimento di questa al
placamento di quell'inquietudine che a suo parere alberga nel cuore dell'uomo. Egli era convinto che l'ansia
presente nell'animo umano era stata posta da dio stesso dunque, in perfetta coerenza con la fede cristiana,
non esitò ad idetificare la felicità con il ricongiungimento con Dio. Nel percorrere questa strada l'ostacolo
più difficile da superare è costituito dall'egoesmo che ci fa autoporre i nostri piaceri all'obbedienza alla
volontà divina. Tale egoismo procura una felicità illusoria, mentre la pienezza nella nostra realizzazione è
subordinata all'adesione amorosa al progetto che il creatore ha in ogni creatura : questa adesione reca con
sé gioia e armonia, ovvero la pienezza della felicità L'uomo per essere felice ha bisogno di Dio , di
conoscerlo, di amarlo;la separazione da lui è il vero motivo dell'umana infelicità. Sant'agostino meditò a
lungo la verità rivelata secondo cui l'uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dilo e sostenne con
vigore la convinzione che il male che l'uomo compie distrugge questa somiglianza, mentre il bene e l'amore
la reintegrano, garantendo il raggiungimento della felicità. Tuttavia, sostiene Sant'agostino, solamente in
paradiso la felicità sarà completa e la speranza umana pienamente soddisfatta.

L'ETICA: CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AD ARISTOTELE ED ABELARDO. L'etica, dal greco


“comportaento”, definita da Aristotele come lo studio della condotta o del fine dell'uomo come singolo, è
colocata insieme alla politica tra le scienze pratiche, ovvero quelle scienze che riguardano la condotta degli
uomini e il fine che essi vogliono raggiungere. Tutte le azioni umane tendono ai fini che sono bene , il
complesso delle azioni umane e il complesso dei fini particolari cui queste tendono sono subordinate ad un
fine ultimo: la felicità, il bene supremo. La felicità realizzabile dall'uomo comsiste nel perfezionarsi in
quanto uomo, ossia in quella attività che lo differenzia da tutte le altre cose. Non può quindi consisstere nel
semplice vivere come tale, poiché vivono anche gli esseri vegetativi , e nemmeno nella vita sensitiva che è
comune anche agli animali. Non resta dunque se non l'attività della ragione: l'uomo che vuole vivere bene
deve vivere secondo ragione, sempre. Nell'uomo però oltre la ragione, hanno una notevole importanza gli
appetiti e gli istinti connessi all'anima sensitiva . Tali appetiti si oppongono di per sé alla ragione , ma
possono essere dominati e regolati dalla ragione stessa.La sottomissione dell'anima sensitiva alla ragione
avviene mediante le virtù etiche, i modi in cui la ragione instaura la sua sovranità sugli istinti . Questo tipo
di virttù si acquisisce con la ripetizione di una serie di successivi atti, ossia con l'abitudine. Le virtù
diventano così come dei modi di essere che noi stessi ci siamo costruiti. Siccome sono molti gli impulsi e le
tendenza che la ragione deve moderare, così sono molte le virtù etiche. Poichè gli impulsi, le passioni, i
sentimenti tendono all'eccesso o al difetto, la ragione deve intervenire in modo da porre la giusta misura, la
via di mezzo tra i due eccessi. Il coraggio per esempio è una via di mezzo fra la temerarietà e la viltà. Fra
tutte le virtù etiche fa spicco la giustizia che è la giusta misura secondo cui si distribuiscomo i beni, i
vantaggi, i guadagni e i loro contrari. “Nella giustizia è compresa ogni virtù, ci sono altre virtù, quelle della
parte più elevata dell'anima, cioè dell'anima razionale dette virtù dianoetiche o virtù della ragione. Poichè
l'anima razionale ha due aspetti, a seconda che si rivolga alle cose mutevoli della vita dell'uomo oppure alle
realtà necessarie ed immutabili, ossia ai principi e alle verità supreme, allora due saranno le virtù
dianoetiche. La saggezza e la sapienza: Lasaggezza consiste nel distinguere bene la vita dell'uomo, ossia nel
deliberare ciò ciò che è bene o male per l'uomo; la saienza è invece la conoscenza di quelle realtà che sono
al di sopra dell'uomo, ossia la scienza teoretica, in particolar modo la metafisica. Proprio nell'esercizio di
quest'ultima l'uomo raggiunge la massima felicità , l'uomo virtuoso è il solo a saper riconoscere il vero
bene. L'etica di Abelardo pone invece l'accento sull'interiorità come unico criterio di valutazione morale. La
coscienza intesa come intenzione o consenso dell'animo è ciò che qualifica come buone o cattive le azioni:
il peccato diventa dunque consenso al desiderio di fare ciò che non è lecito. Abelardo distingue quindi il
piano dell'stintività da quello coscienziale e razionale, IL primo , costituito dalle inclinazioni, dagli impulsi,
dai desideri naturali, è premorale, il secondo, costituito dall'iniziativa del soggetto e quindi dalle sue
intenzioni, è propriamente morale.L'accentuazione dell'elemento intenzionale come fattore determinante
della vita morale ha in Abelardo un triplice obiettivo: il primo è rappresentato dal bisogno di interiorizzare
la vita morale che a suo parere risiede nell'anima, a cui interno si compie il bene e il male, il secondo
obiettivo è costituito dalla persuasione che il nostro corpo non è inquinato strutturalmente dalla
concupiscenza ma investito della presenza inevitabile del male, da cui liberarsi attraverso il disprezzo della
vita terrestre. La struttura corporea, le inclinazioni e le passioni umane non sono di per sé peccaminose, se
non in conseguenza dell'adesione volontaria alla loro sollecitazione. Abelardo vuole recuperrare
quell'iniziativa del soggetto che ridà all'uomo la responsabilità delle sue azioni. Il terzo obiettivo è di
contrastare lo stile diffuso del giudizio facile e perentorio nei riguardi della vita del prossimo di cui non si
cercano di conoscere i fini e gli obiettivi, gli uomini giudicano quello che appare, no quello che è loro
nascosto e non tengono conto della colpa, ma dell'effetto dell'azione.Solamente Dio, che guarda non alle
azioni che si fanno, ma alllo spirito con cui si fanno, valuta secondo verità le ragioni della nostra intenzione
ed esamina la colpa con giudizio perfetto. Se la moralità di un atto è essenzialmente interiore, la regola e la
misura della moralità stessa sono date dall'adeguazione della nostra vita alle prscrizioni divine.

QUANDO NASCE LA METAFISICA? ARGOMENTA RIFERENDOTI AD ALMENO DUE PENSATORI GRECI Risalire
a quabdo sia nata la metafisicaè complicato, in quanto significherebbe porre la questione degli inizi. Ogni
pensatore ha un proprio punto di vista su quando sia nata tale scienza: per Hegel è parmenide il primo dei
metafisici perchè pe primo pone la qurstione dell'essere anche se in esso l'universo e l'essere sono ancora
considerati nella prospettiva dei filosofi della physis, quindi in una prospettiva naturalistica; per Nietzsche è
invece anassimandro in quanto è il primo filosofo secondo cui gli elementi fisici derivano da un principio
metafisico che è l'infinito ed indefinito, ossia l'apeiron. Per gli interpreti del pensiero Platonico sarebbe
invece Platone il primo dei metafisici, in quanto fu il primo a dimostrare che la realtà è intellegibile,
soprasensibile e trascendete, il primo a parlare di qualcosa che vada oltre il mondo reale, il primo a parlare
delle idee da cui provengono tutte le cose del mondo, qualcosa che vada oltre la physisi, la natura, il
mondo reale.

DIONIGI L'AEREOPAGITA E LE DUE VIE Dionigi lareopagita è un filosofo convertitosi al cristianesimo. Egli
delineò due vie per avvicinarsi a Dio, una via positiva e una negativa. In realtà la distinzione delle due vie
appartiene a Proclo ma è entrata nella filosofia e nella teologia cristiana in quanto sviluppata dallo pseudo
dionigi e poi accettata da San Tommaso. Nella via positiva la mente parte dalle determinazioni più
universali e attraverso termini intermedi procede fino ai titoli particolari a partire dalla categoria più alta.
Nel seguire questo metodo affermativo, Dionigi mostra che i nomi Bene, Vita, Sapienza,Potenza sono
applicabili a Dio in modo trascendente e che si applicano alle creature soltanto in quanto sono derivate da
Dio e partecipano a quelle qualità che si trovano in Dio, in unità sostanziale. Parte pertanto dall'idea di bene
che è il nome più universale in quanto tutte le cose esistenze o possibili partecipano in qualche misura al
bene e che al tempo stesso esprime la natura di Dio”nessuna cosa è bene tranne l'uno cioè Dio”. Qui è
evidente la dipendenza dello pseudo dionigi dal neoplatonismo e la ripresa di alcuni suoi tomi come il tema
della luce, del bene, del bello come “bello sopraessenziale” e dell'uomo come titolo più importante. Il
punto di partenza sono dunque le categorie più alte perchè è necessario partire da ciò che è più affine a
Dio, è più vero dire che egli è vita e bene piuttosto che pietra e aria in quanto vita e bene si riferiscono a
qualcosa che è realmente in Dio mentre arie e pietra o qualcosa di cui egli è causa. Tuttavia anche se alcuni
nomi esprimono Dio meglio di altri, sono bellungi dal rappresentare una conoscenza e una nozione
adeguata di Dio. Per lo Pseudo Dionigi però la via da preferirsi è quella negativa perchè qui la mente inizia
col negare di Dio le cose che gli sono più remote(esempio la collera) e procede negando progressivamente
le qualità fino a giungere all'oscurità superessenziale. Per il filosofo dunque è molto meglio dire ciò che Dio
non è piuttosto quello che è u, in quanto qualsiasi nome si possa riferire Dio è fondametalmente
inadeguato

CHE COSA SI INTENDE PER DIALETTICA? SIGNIFICATO DEL TERMINE IN ALMENO DUE AUTORI SPIEGATI A
LEZIONE Il termine dialettica è di origine greca e significa sia “raccolgo”, “unifico”, sia “distinguo”, “divido”.
Indica generalmente una discussione di tesi contrapposte. Per Socrate la dialettica tende in maniera
perfettamente consapevole a spogliare l'anima dall'illusione del sapere e in questo modo a curarla, al fine
di renderla idonea ad accogliere la verità. Con Socrate il dialogare portava ad un esame dell'anima e
duanque a rendere conto della propria vita. E' in questo dover rendere conto della propria vita che si trova
il fine specifico del metodo dialettico. La dialettica coincide quindi con lo stesso dialogare di Socrate che
consta di due momenti essenziali : la confutazione e la maieutica. Inoltre tale metodo si basava sulla
consapevolezza del del parlante di non sapere. Infatti egli non ricorreva a discorsi di parata o a lunghi
monologhi, ma seguiva con i suoi interlocutori un percorso fatto di domande e risposte, presentandosi
come il non sapiente che chiede di essere istruito e, per quanto egli ritenesse che ogni uomo, rispetto a Dio,
è non sapiente, questo suo atteggiamento non costruiva che una simulazione ironica per costringere
l'avversario a esporre compiutamente le sue idee. L' ironia è la caratteristica peculiare della dialettica
socratica. Socrate, nella parte dell'allievo avviava il dialogo con l'interlocutore, presentato nella falsa parte
del maestro e costringeva quest'ultimo a definire in modo preciso i temi del suo discorso e a scandirne
logicamente i passaggi. Il più delle volte il risultato era che l'interlocutore si confondeva e cadeva in
insanabili contraddizioni. In tal modo veniva attivato il meccanismo della confutazione, tale per cui
l'interlocutore era costretto a riconoscere i propri errori. A questo punto Socrate metteva in atto la pars
costruens del suo insegnamento, e sempre mediante domande e risposte, riusciva a far nascere la verità
nell'anima del dialogante quando questa risultava esserne gravida. Si noti l'espressione “far nascere” :
poiché in greco l'arte del far nascere propria della levatrice si dica “maieutica”. Socrate ha caratterizzato
con tale nome il momento conclusivo del suo metodo. Per platone la dialettica coincide invece con la
filosofia stessa. Di norma gli uomini comuni si fermano ai primi due gradi della prima forma del conoscere,
cioè all'opinionare; i matematici salgono alla dianoia ma solo il filosofo accede alla noesis e alla scienza
suprema. L'intelletto abbandonate le sensazioni e ogni elemento legato al sensibile, coglie con un
procedimento discorsivo e intuitivo le pure idee e risale da idea a idea fino al coglimento dell'idea suprema.
Questo procedimento per cui l'intelletto passa da ida a idea è la dialettica, cosichè il filosofo è il dialettico
per eccellenza. La dialettica o processo della conoscenza può essere esclusiva, che risale dal mondo
sensibile all'idea(dal basso verso l'alto) e discensiva, parte cioè dalle idee generali per discendere a quelle
particolari(dall'alto verso il basso) e' in questo modo che si giunge a stabilire il posto che una data idea
occupa nella struttura gerarchica del mondo ideale. Possiamo quindi affermare che la dialettica è per
Platone il coglimento, fondato sull'intuizione itellettuale del mondo ideale, della sua struttura, del posto
che ciascuna idea occupa, in rapporto alle altre, in questa struttura.

DEFINIZIONE DI METAFISICA IN ARISTOTELE Aristotele definisce la metafisica come la più alta delle scienza
teoretiche. E' da essa e in funzione di essa che tutte le altre scienze acquistano significato. Il termine
metafisica (alla lettera “ciò che è oltre la fisica”) non è un termine aristotelico ma sarebbe nato in occasione
dell'edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico da rodi nel primo secolo a c. Aristotele usava per
lo più il termine “filosofia prima”o “teologia” in opposizione alla filosofia seconda” o “fisica”. La filosofia
prima è la scienza che si occupa delle realtà che stanno al di sopra di quelle fisiche e metafisica fu
denominato ogni tentativo el pensiero di sorpassare il mondo empirico per raggiungere una realtà
metaempirica. Aristotele diede 4 definizioni di metafisica poiché essa indaga : 1) le cause e i principi primi
2) l'essere in quanto essere (ontologia) 3) la sostanza 4)Dio e la sostanza soprasensibile (teologia). Le
quattro definizioni aristoteliche di metafisica sono in armonia fra di loro. L'una porta strutturalmente
all'altra e ciascuna a tutte le altre , in perfetta unità. Aristotele ha utilizzato il termine teologia per indicare
la metafisica poiché tutte le sue definizioni portano alla dimensione teologia. La metafisica è la più alta
delle scienze,m non è legata alle necessità materiali, non è una scienza che sia diretta a scopi pratici o
empirici. La metafisica è scienza che vale in se e per se poiché ha in se medesima il suo scopo, è scienza
libera per eccellenza. Non risponde ai bisogni materiali ma spirituali, ossia quei bisogni che nascono quando
si sono soddisfatti i bisogni fisici: il bisogno di sapere e conoscere il vero, il bisogno di rispondere ai perchè
“tutte le scienze saranno più necessarie agli uomini ma nessuna è superiore a questa”.

IL PROBLEMA DELL'ESSERE NELLA FILOSOFIA GRECA E CRISTIANA L'ontologia è una delle branche
fondamentali della filosofia ed è lo studio dell'essere in quanto tale. Padre dell'ontologia è solitamente
considerato Parmenide in quanto per primo si pose il problema dell'essere nella sua totalità. Per il filosofo
l'essere è e non può non essere, il non essere non è e non può in alcun modo essere. Tutto ciò che uno
pensa e dice è , non si può pensare e quindi dire se non pensando e quindi dicendo ciò che è. Pensare il
nulla significa non pensare affatto e dire il nulla significa non dire nulla, perciò il nulla è impensabile e
indicibile. Essere e pensare coincidono. In tale principio parmenideo è individuabile la prima grandiosa
forma del principio di non contraddizione , ossia quel principio che afferma l'impossibilità che i
contradditori coesistano a un tempo. Dal principio di non contraddizione si comprendono gli attributi
strutturali dell'essere: in primo luogo esso è ingenerato e incorruttibile. E' ingenerato in quanto se fosse
generato dovrebbe derivare da un non essere, che è assurdo dato che il non essere non è; oppure sarebbe
dovuto derivare dall'essere, il che è ugualmente assurdo poiché allora già sarebbe. 1) l'essere non ha un
passato poiché il passato è ciò che non è più, non è neppure futuro poiché ancora non è , esso è presente
eterno senza inizio e fine. 2) L'essere è immutabile e immobile poiché sia la mobilità sia il mutamento
suppongono un non essere verso cui l'essere dovrebbe muoversi o in cui dovrebbe mutarsi. 3) L'essere è
indivisibile in parti differenti e quindi è un continuo tutto uguale in quanto ogni differenza implica il non
essere. 4) L'essere è limitato e finito, ovvero compiuto e perfetto ciò gli suggerisce l'idea di sfera, ossia la
figura che per i pitagorici indicava la perfezione. Con la filosofia medievale però l'ontologia è stata studiata
in relazione alla teologia cristiana scatenando così una rivelazione ontologica. In Dionigi l'Areopagita infatti
Dio viene considerato l'essere stesso. Con la sua ggteologia “apofatica” Dionigi dirà che Dio si può designare
con molti nomi desunti dalle cose sensibili e intesi in un senso traslato in quanto e nella misura in cui egli è
causa di tutto; in modo meno adeguato Dio si può designare con nomi desunti dalla sfera delle realtà
intellegibili, come “bello” e “bellezza”, “amore” e “amato” e così via, ma meglio ancora Dio si può designare
negando di lui ogni attributo egli è superiore a tutti, è il sopraessente e quindi tale realtà sopraessenzialeè
meglio espressa dal silenzio che dalla parola.

CHE COSA SI INTENDE PER SOSTANZA? ARGOMENTARE SPIEGANDO IL VALORE DEL TERMINE IN
ARISTOTELE, PLATONE E PLOTINO Per Aristotele da un punto di vista logico la sostanza è la prima delle
dieci categorie che costituiscono i generi supremi dell'essere. Solo tale categoria ha una sussistenza
autonoma, le altre si fondano sull'essere di questa, dunque la sostanza è il cardine attorno al quale ruotano
tutti i significati dell'essere. I materialisti indicano negli elementi materiali il principio sostanziale, i platonici
lo indicarono nella forma, per gli uomini comuni sarebbe invece sostanza l'individuo e la cosa concreta .
Secondo Aristotele, queste risposte, prese singolarmente, sono parziali, ossia unilaterali, nel loro insieme
presentano invece la verità. La materia è indubbiamente un principio costitutivo della realtà sensibile. Se
eliminassimo la materia elimineremmo tutte le cose sensibili. Ma la materia di per sé è potenzialità
indeterminata e può attuarsi e diventare qualcosa di determinato solo se riceve la determinazione a opera
di una forma. La materia dunque è sostanza solo impropriamente. La forma invece costituisce il ciò che è
ciascuna cosa, la sua essenza e perciò è sostanza a pieno titolo. Ma anche il composto di materia e forma, il
sinolo, è sostanza a pieno titolo, in quanto riunisce la sostanzialità sia del principio materiale sia di quello
formale, da un punto di vista ontologico la sostanza è dunque sinolo di materia e forma. Tuttavia se da un
punto di vista empirico il sinolo è sostanza per eccellenza, non lo è da un punto di vista teoretico: la forma è
principio, fondamento, e rispetto ad essa il sinolo è causato, principiato, fondato. In questo senso la forma
è sostanza per eccellenza. L'essere nel suo significato più forte è la sostanza e la sostanza in un senso è
materia, in un secondo senso è sinolo e in un terzo è forma(per eccellenza). La materia è potenza, nel senso
che è capacità di assumere o ricevere forma; la forma è invece atto di quelle capacità. Il sinolo, se lo si
considera come tale è atto; se lo si considera nella sua forma è ancora atto; se lo si considera nella sua
materialità è invece un misto di atto e potenza. Le sostanze sono dunque le realtà prime, tutti gli altri modi
di essere, dipendono dalla sostanza. Aristotele cerca poi di dimostrare l'esistenza della sostanza
soprasensibile: egli afferma che tali sostanze soprasensibili eterne esistono in quanto senza l'eterno non
potrebbe sussistere il divenire. Nella dimostrazione egli parte dall'analisi del tempo e del movimento. Il
tempo, e quindi anche il movimento di cui è la misura, è eterno. Non può infatti esistere un movimento di
origine del tempo né può esistere una fine del tempo. Ma a quale condizione può sussistere un
movimento(e un tempo) eterno? Solo se sussiste un principio primo che sia causa di esso. Tale principio
deve però essere immobile poiché solo l'immobile è causa assoluta del mobile, deve essere eterno e privo
di potenzialità, deve essere cioè puro atto. Tale sostanza soprasensibile è il motore immobile che muove
pur restando immobile come l'oggetto di amore attira l'amante. Il motore immobile è colui che è pura
forma e puro atto, altro rispetto agli enti sensibili. Per Platone la sostanza è da ricercare invece in un ente
che sia assoluto, necessario e universale identificandosi così nell'idea. Le idee di cui parla Platone non sono
quindi dei semplici concetti, delle rappresentazioni puramente mentali, ma sono “entità”, “sostanza”. Non
sono dei semplici pensieri ma ciò che il pensiero pensa, sono il vero essere, l'essere per eccellenza, in breve,
sono l'essenza delle cose, ciò che fa sì che ciascuna cosa sia ciò che è. I caratteri basilari delle idee sono:
l'intellegibilità, l'incorporeità, l'essere in senso pieno, l'immutabilità, l'unità e la perseità(le idee sono in se e
per se). Affermare ciò significa dire che si impongono al soggetto in modo assoluto. Le idee sono inoltre
senza figura, prive di colore, invisibili, coglibili solo attraverso l'intelligenza. L'idea massima è l'idea del
bene. Plotino identifica invece la sostanza nelle tre ipostasi: l'uno, l'intelletto e l'anima. L'ipostasi è ciò che
sussiste di per se , è un particolare modo di essere della sostanza e precisamente la sostanza nel momento
in cui dà vita al processo produttivo e dunque diviene altro rispetto al principio da cui deriva. Questo altro è
l'ipostasi, qualcosa di inevitabilmente inferiore nei confronti della sostanza originaria ma pur sempre
sostanza capace di generare ulteriori ipostasi. Intelletto e anima sono emanati dall'uno, non
cronologicamente ma logicamente nel senso che dipendono dall'uno. Sono tutti eterni ma se non ci fosse
l'uno non ci sarebbero. L'uno invece non è stato emanato, esiste di per sé. Tutto ciò che non appartiene
all'uno, all'intelletto e all'anima, per Plotino appartiene al non essere.

1. Il mito della Caverna in Platone e il Problema della Conoscenza: MITO DELLA CAVERNA Il mito della
caverna è una delle allegorie più note e potenti della filosofia di Platone, contenuto all'interno del libro
settimo de "La Repubblica", l'opera maggiore del filosofo greco. Secondo questo celebre mito platonico, gli
uomini sono come prigionieri incatenati fin dalla nascita in una caverna e costretti a guardare verso la
parete di fondo, con dietro di loro, il fuoco. Membra, testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei
malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro. Alle spalle dei prigionieri arde un enorme fuoco e,
tra il fuoco e i prigionieri, c'è un muricciolo, e dietro di esso passano delle persone che portano statue,
figure di animali, vasi e altri oggetti fabbricati in legno o pietra, facendoli sporgere al di sopra del muretto. I
prigionieri vedono solo le ombre di tali oggetti proiettate sul fondo della caverna. Per gli sfortunati uomini
della caverna questa è la verità. La suggestione sta proprio in questo: se gli uomini che trasportano queste
forme parlassero, si formerebbe nella caverna un'eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa
voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro, attribuendogli vita propria. Ma se i prigionieri
potessero uscire finalmente dalla caverna rimarrebbero spiazzati da una realtà così diversa, e potrebbero
decidere di restare prigionieri nella caverna, così buia ma rassicurante al tempo stesso. Ma qual è il
significato celato dietro questo racconto? In questo caso Platone si riferisce alla scoperta della realtà delle
cose che ci circondano, discute sulla natura stessa della realtà: spesso gli uomini preferiscono rimanere
avvolti dalle tenebre dell'ignoranza e dell'abitudine, piuttosto che affrontare la verità apertamente, e
intraprendere il ripido cammino della conoscenza. In realtà, il riferimento al processo di Socrate è evidente:
tutto il mito, infatti, diventa metafora della vita del filosofo ateniese, che riuscì a risalire la strada verso la
verità, ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, incatenati al mondo dell'opinione. Poniamo
però il caso che uno di essi, liberato dalle catene, fosse costretto ad alzarsi. In un primo momento sarebbe
ancora portato a ritenere che la vera realtà siano le ombre, e non gli oggetti che ora vede confusamente a
causa dell'eccessivo chiarore della luce. Se poi fosse spinto all'uscita della caverna, nel mondo reale
certamente soffrirebbe per la luce abbagliante del sole e proverebbe dolore forte agli occhi. Dopo le ombre
egli avrebbero guardato le immagini delle cose riflesse nell'acqua e poi le cose stesse. Quando gli occhi si
fossero abituati meglio alla luce, potrebbero guardare la luce degli astri, la luna e il cielo di notte. Soltanto
alla fine potrebbe guardare il sole. Il lungo percorso compiuto verso la luce gli farebbe riconoscere il sole
come signore del mondo visibile. Una volta che si fosse adattato a sostenere la luce del sole, avrebbe
difficoltà a tornare nell'oscurità, presso gli uomini incatenati, e preferirebbero patire qualsiasi sofferenza
anzichè vivere quella miserabile vita. C'è anche da aggiungere che, tornato nella caverna, i suoi occhi si
troverebbero ad essere come ciechi, tanto da non riuscire più a scorgere neppure le ombre di un tempo.
Ma, il prigioniero liberato dalle catene non può sottrarsi dal dovere morale: la sua coscienza lo spinge a
ridiscendere alla caverna per salvare i suoi compagni dall'ignoranza e farli partecipi della verità che ha
potuto contemplare. Quando egli dirà loro che si sbagliano nel giudicare le ombre come realtà, subirà lo
scherno e l'incomprensione di tutti i prigionieri. Il significato del mito Il mito è un allegoria della formazione
del filosofo e del destino a lui riservato. La caverna rappresenta il nostro mondo sensibile, in cui gli uomini
sono come prigionieri e schiavi dell'ignoranza. Nel prigioniero che si libera dalle catene non è difficile
scorgere l'inizio del difficile itinerario educativo del filosofo che gradualmente raggiunge la conoscenza
vera, prima passando attraverso le sensazioni e le apparenze, poi attraverso lo studio della matematica e
della proporzione e arrivando infine, alla conoscenza delle idee stesse, come il Bello, il Giusto, il Bene (il
sole). I filosofo fa ritorno tra gli uomini (i compagni di prigionia) per annunciare la verità e dunque,
assumersi il diritto-dovere di governare la città, prendendosi cura del bene comune. Tra i tanti
insegnamenti che ci vengono dal mito, c'è senza dubbio anche il seguente: la filosofia pur essendo spesso in
dissonanza con l'opinione comune, non deve estraniarsi dalla vita civile e politica; essa ha il dovere di
prendersi cura dell'uomo e di lottare per il trionfo della giustizia nella società, anche a costo di essere
fraintesa e derisa.

Platone - Teoria delle Idee e della conoscenza La ricerca platonica può essere concepita come
l'interpretazione della personalità filosofica di Socrate. Il dialogo per Platone rappresenta il solo mezzo per
esprimere e comunicare agli altri la vita della ricerca filosofica. Esso, infatti, riproduce l'andamento stesso
della ricerca, il suo procedere lentamente e faticosamente di tappa in tappa. L'orfismo, filtrato mediante
l'esperienza pitagorica che Platone fece durante i suoi soggiorni in Italia, offre - con la teoria delle
metempsicosi -, l'aiuto indispensabile per dar conto della tesi socratica che la virtù è scienza e come tale è
insegnabile. Proprio intorno a queste due istanze, Platone fa ruotare tutte le altre posizioni del Maestro
Ateniese (Socrate). Sicché la concezione orfico-pitagorica dell'immortalità dell'anima rappresenta la base
teorica sulla quale ricostruire sistematicamente il pensiero di Socrate. Se la virtù è sapere si può chiedere
come si raggiunge la relativa conoscenza, tenuto conto che per acquisirla occorrerebbe possederla già e già
sapere che cos'è il bene per pervenire alla conoscenza del bene. se non si conosce la virtù, quand'anche la
si incontrasse non la si riconoscerebbe e dunque non la si potrebbe apprendere; se, invece, già la si
conoscesse, anche in questo caso ne sarebbe interdetto l'apprendimento. Platone risolve questa difficoltà
con la tesi che conoscere è ricordare, ossia è reminiscenza di quanto si è già appreso, ma poi dimenticato.
Virtù=Bene -> consiste nel prendere consapevolezza di certi contenuti che sono già nell'anima, ma come in
uno stato di latenza. La maieutica allora è il condurre a ricordare ciò che già si sa, perché si trova nell'anima,
dato che questa sopravvive al corpo e si reincarna. Ecco perché l'anima ha acquistato conoscenze nelle
precedenti vite corporee e le ha mantenute, anche se in una condizione di torpore oblioso. La coincidenza
delle virtù con la scienza diventa la condizione per affermare l'unità e l'unicità della stessa virtù, nel senso
che il possederne una, se essa è conoscenza della regola dell'agire, comporta che le si possiedano tutte,
ossia che si possegga la medesima regola che dà luogo alle altre. La loro unità e unicità risiede nell'essere
conoscenza della regola ed è questa la condizione (interiore) che qualifica i relativi comportamenti come
virtuosi. Teoria della conoscenza anamnesi -> è il fondamento della conoscenza per Platone. L’anima
immortale esiste ed è portatrice di conoscenza. La conoscenza che possiamo acquisire attraverso
l’anamnesi, implica che noi abbiamo da sempre a modalità d’accesso alla conoscenza vera. Tutti gli oggetti
ricevono dal bene (idea suprema) l’essenza, il conosciamo il riferimento ad essa. Richiamare alla memoria
delle conoscenze già conseguite. Le Idee per un verso garantiscono la persistenze dell'anima la quale,
essendo capace di contemplarle, dev'essere di natura loro affine, dunque immortale; per altro verso si
offrono all'anima stesse come contenuti eterni di conoscenza che essa, nella sua preesistenza al corpo, ha
contemplato e poi ricorda. La struttura del conoscere si determina per gradi; i contenuti conoscitivi si
definiscono a partire della realtà, tanto che a differenti livelli di essere corrispondono diversi gradi di
conoscenza. Le molteplici cose sensibili si possono spiegare solo riportandole alla unità di un'Idea
corrispondente, che per partecipazione le fa essere appunto ciò che sono. Ma le Idee stesse sono
molteplici, sia pure a un livello del tutto differente dalle cose sensibili; per Platone il molteplice, non
spiegando mai se stesso, ha bisogno di essere riportato all'unità. Di conseguenze diventa necessaria quella
teoria dei principi primi e supremi dell'Uno e della Diade indefinita di grande e piccolo: Uno -> principio di
ordine e di misura, che determina in senso formale un elemento illimitato espresso dalla Diade -> la quale
funge, sul piano delle Idee, da principio materiale. Diade -> informata dall'Uno costituirebbe la materia
delle Idee; informata dalle Idee costituirebbe la materia degli enti empirici.

2. Che valore ha la doxa in Platone? E in Agostino?


3. Cosa si intende per Anipotetico in Platone e in Aristotele? Un principio anipotetico è un principio che ha
carattere assolutamente vero, assoluto e completo. L’ipotesi capace di resistere a tutte le confutazioni.

La dialettica è la capacità di discutere e di mostrare l’insostenibilità della tesi avversaria. Poi Platone la usa
per mostrare la necessità delle idee e quindi per passare da idea a idea fino a giungere all’idea del bene. Per
Platone al principio anipotetico si giunge attraverso il metodo dialettico, che va utilizzato in funzione della
ricerca filosofica. Il metodo dialettico si basa sulla confutazione di tutte le ipotesi: unica strada per arrivare,
attraverso una catena di confutazione, al principio anipotetico. Aristotele, invece, distingue il metodo
dialettico dalla filosofia vera e propria e da quelle discipline scientifiche che non si basano in alcun modo
sulla dialettica, come la matematica. La dialettica, allora, può essere utilizzata da Aristotele in funzione
filosofica o assebleale. Per Aristotele anipotetico è il principio di non contraddizione.

4. Il problema della conoscenza in due autori (uno antico, uno medievale) - Per il primo autore vedi
problema conoscenza in Platone (prima domanda) - Per Tommaso la conoscenza umana comincia sempre
con l’esperienza sensibile. Ma l’esperienza non è frutto dell’anima sola, ma anche del corpo: quindi il
sentire non è senza il corpo. C’è un’unione sostanziale dell’anima con il corpo (l’uomo è una sostanza di
corpo e di anima). Ma se la conoscenza sensibile è di un soggetto corporeo essa non è tuttavia un processo
puramente fisico. Infatti, quando il corpo animato è modificato da uno stimolo, si produce una
modificazione materiale – ad es. a contatto di un corpo più caldo il corpo si scalda – ma, in quanto animato
il corpo sente calore, e questo sentire non si riduce all’essere scaldato, altrimenti tutti i corpi riscaldati,
anche un pezzo di ferro, sentirebbero caldo. Il sentire dell’uomo esige una mutazione non soltanto
materiale, ma anche spirituale. Ora, però, non si sentono delle qualità puntuali ed isolate. 24 ore su 24
ciascuno di noi – attraverso i propri 5 sensi – invia una molteplicità di dati ai propri sensi interni fino a dar
luogo al fantasma che è l’ultimo prodotto della sensibilità. Potremmo dire che il phantasma (da phainomai
= apparire; phantasma = fenomeno, apparenza) è l’immagine sensibile dell’oggetto esterno, frutto
dell’attività organizzatrice dei miei sensi interni (il 6° senso). Il fantasma è tuttavia sempre l’immagine
sensibile – costruita nel mio sesto senso – di un oggetto particolare: di questo tavolo, di questo uomo, etc.,
ma io non potrei chiamare questo tavolo qui tavolo e questo uomo qui uomo se non avessi il concetto
universale di tavolo e di uomo. Uomo e tavolo, infatti, hanno un significato applicabile a più individui e
sono, in questo senso, concetti universali. Formarsi un concetto universale vuol dire appunto leggere in un
fantasma un significato universale; saper dire anche grossolanamente che cos’è quello che abbiamo
percepito (grossolanamente perché noi non conosciamo certo le essenze specifiche delle cose. Ma tra il
fantasma e il concetto universale c’è un salto qualitativo importante: infatti, mentre il fantasma è ancora
individuale e materiale, e può essere pensato come il prodotto di un soggetto conoscitivo corporeo; il
concetto, invece, che esprime non questo o quell’oggetto particolare, ma in generale che cosa è un
oggetto, non può essere espresso da un soggetto corporeo. E’ evidente l’esigenza di una facoltà conoscitiva
spirituale: l’intelletto. Nel nostro intelletto si distinguono – potremmo dire – due livelli: quello potenziale e
quello agente. Infatti, il nostro intelletto acquista la conoscenza delle cose passando dalla potenza all’atto.
C’è in noi una certa capacità di conoscenza che chiamiamo intelletto possibile. Ma perché questa
conoscenza possibile si attui, occorre che l’intelletto sia determinato a conoscere questo o quello, ne sia
modificato. E poiché l’intelletto conosce l’universale e non esistono universali in natura bisogna che vi sia
un’attività intellettiva che metta in luce (astragga) nel fantasma quel significato intelligibile che l’intelletto
possibile possa leggere. E questa attività intellettiva si chiama appunto intelletto agente. Intelletto agente e
possibile sono dunque, per Tommaso, facoltà dell’anima individuale: chi conosce, infatti, è sempre
quest’uomo qui, questo che vive, mangia, veste, etc. L’attività dell’intelletto agente, non è il conoscere, ma
un’attività previa al conoscere: è l’elaborazione mediante l’astrazione di un quid nel fantasma capace di
determinare l’intelletto possibile.: in virtù di questo l’uomo propriamente conosce. E conosce nel modo
seguente: l’intelletto possibile – che in quanto conoscente, è pura potenza, pura apertura all’oggetto –
quando sia attuato dal prodotto dell’astrazione (dal fantasma) ad opera dell’intelletto agente, passa
all’atto, ossia conosce. Siccome però, l’oggetto conosciuto dall’intelletto non è la realtà così com’è in se
stessa, nel suo modo d’essere individuo, ma è la realtà in un suo significato universale, l’intelletto possibile
deve esprimere questo significato che è ciò che noi chiamiamo concetto. L’intelligente nel conoscere
suppone questi quattro momenti: a) la cosa che è conosciuta; b) il quid (o specie) intelligibile – frutto
dell’astrazione dell’intelletto agente – dal quale l’intelletto possibile è determinato a conoscere; c) il suo
atto di conoscere; d) il suo concetto. Il concetto differisce dalle tre cose che lo precedono. 1) Dalla cosa
conosciuta poiché questa può essere anche fuori dell’intelletto, mentre il concetto è solo nell’intelletto 2)
Dalla specie intelligibile dalla quale l’intelletto possibile è determinato a passare dalla potenza all’atto e
quindi è detta “principio” dell’atto della conoscenza, mentre il concetto è “termine” dell’atto conoscitivo;
3) Il concetto è termine della conoscenza intellettiva e non l’atto medesimo di tale conoscenza. Secondo
Tommaso, quindi, non c’è intuizione intelligibile, ma solo intuizione dell’intelligibilità del mondo sensibile, e
tale intuizione è resa possibile dall’astrazione dell’intelletto agente sul prodotto (fantasma) della nostra
sensibilità. L’intelletto umano è facoltà di un’anima spirituale che tuttavia è forma di un corpo (l’uomo è
una sostanza che vede uniti anima e corpo), è nato quindi per cogliere l’intelligibilità del corporeo, non per
intuire l’intelligibile sussistente. Ma attraverso la natura delle cose visibili, l’uomo riesce a raggiungere una
certa conoscenza di quelle invisibili (ciò in cui troviamo per la prima volta l’essere, è il mondo corporeo).
Dalla tesi che l’intelletto umano trova il suo oggetto astraendo dal sensibile, seguono altri sviluppi: a)
l’intelletto umano non può attualmente pensare senza riferirsi ad un’immagine sensibile; b) l’intelletto
umano non conosce direttamente il singolare corporeo, ma indirettamente articolando i suoi concetti ad
un’immagine sensibile; c) l’intelletto umano non intuisce se stesso nella sua essenza, ma si conosce per
riflessione come principio dei suoi atti, e siccome il primo atto dell’intelletto è la conoscenza del mondo
corporeo, questa è condizione anche dell’autocoscienza. La natura del conoscere consiste in un identificarsi
con il conosciuto, in un avere in sé la forma del conosciuto. Ora, un intelletto finito, come il nostro, non può
contenere originariamente in sé le perfezioni, le forme di tutte le cose, ma può solo assimilarsi ad esse,
averne in sé una similitudine. La verità è dunque una conformità dell’intelletto e della cosa conosciuta. Ma
quando l’intelletto apprende semplicemente qualcosa, sia sensibilmente, sia formandosene un concetto, è
conforme alla cosa conosciuta, ma non sa ancora di esserlo; è nella verità, ma non conosce ancora la verità.
Per conoscere la verità, deve ritornare sul conosciuto, riflettere sul conosciuto, e dire: la cosa sta così. Ora
questo ritorno, questa riflessione, ha luogo nel giudizio: solo nel giudizio avviene propriamente la
conoscenza della verità. Nella conoscenza umana, il senso è quello che mette a contatto con le cose, ma è
solo un gradino ad una conoscenza ulteriore che è quella intellettiva, ed è in certo modo medio fra
l’intelletto e la cosa esteriore conosciuta. (rispetto alla cosa esteriore il senso è quasi una certa conoscenza
intellettiva e rispetto all’intelletto è quasi la cosa stessa).

5. Cos’è l’idea in Platone e Agostino Definizione di idea in Platone Platone esclude che le entità del mondo
sensibile possano costituire la vera scienza a causa della loro instabilità e modificabilità: una scienza per
essere tale deve essere sempre vera. Con i sensi sostiene Platone nel Fedone è possibile per esempio
percepire oggetti che vengono detti uguali, ma di fatti questi non sono mai perfettamente uguali. Da questa
intuizione Platone arriva ad affermare che deve esistere l’uguale ciò che egli definisce con il termine idea
che significa propriamente “aspetto” o “forma visibile”: la differenza è che essa non può essere viste con gli
occhi, bensì con l’intelletto. Ciò comporta che nel mondo sensibile non si trovano idee, ma soltanto
immagini delle idee le quali sono prive della consistenza che appartiene agli oggetti reali di cui sono
immagini. In questo senso si può dire che solo le idee sono dotate propriamente di essere e quindi sono
stabili e immutabili, mentre le cose sensibili sono succubi del divenire. Per stabilire il rapporto che
intercorre tra idee e forme sensibili, Platone afferma che l’idea è la forma unica di un molteplice. E’ in virtù
dell’unica idea di bellezza che le cose sono e sono dette belle. L’idea possiede allora caratteri di
universalità. In quanto universali esse si collocano allora in un grado più alto di perfezione rispetto ai molti
oggetti sensibili, ed in questo senso rappresentano i modelli di cui le cose sensibili sono copie (T 20). L’idea
allora non è una semplice rappresentazione o concetto che ci formiamo nella nostra mente: esso è un vero
e proprio criterio in base al quale noi giudichiamo tutta la realtà. L’idea possiede un’esistenza autonoma, né
dipende dal fatto che essa venga pensata o meno. Nel Fedro attraverso un mito Platone colloca l’idea al di
là del cielo, in un mondo che chiama iperuranio (scoperta di una realtà soprannaturale nella seconda
navigazione). Nella Repubblica al vertice è posta l’idea del bene, che paragonata alla funzione che possiede
il sole, è causa della conoscibilità delle altre idee. Platone dice che l’idea è la realtà autentica delle cose, è
l’essenza in sé. Sarebbe più opportuno tradurre il termine idea con “forma”. Per i moderni è un concetto,
per Platone è ciò a cui il pensiero si rivolge in maniera pura e che fa si che lo stesso pensiero ci sia. Caratteri
delle Idee: -intelligibilità -incorporeità -essere in senso pieno -immutabilità -perseità -unità Le idee formano
la cosiddetta ousia, sostantivo astratto traducibile come essenza, sostanza, realtà. Esse sono quanto è più
possibile ciò che sono, possiedono la caratteristica di cui sono espressione al grado più alto, ovvero
perfetto. Per questo possiamo conoscere propriamente solo le idee: perché le cose cambiano, e invece la
realtà delle idee è sempre stabile e immutabile.

Definizione di Idea in Agostino Le idee hanno un ruolo essenziale nella reazione, ma esse da paragoni
assoluti al di fuori e al di sopra dl Demiurgo, quali erano in Platone, diventano i pensieri di Dio o anche il
Verbo di Dio. Agostino dichiara la teoria delle Idee un caposaldo fondamentale perché intrinsecamente
connessa alla dottrina della creazione. Infatti Dio ha creato il mondo secondo ragione e quindi ha creato
ciascuna cosa secondo un modello che egli stesso ha prodotto come suo pensiero e le Idee sono pensieri-
modello di Dio, e come tali sono la vera realtà, ossia eterne e immutabili e per partecipazione di esse
esistono tutte le cose. Ma Agostino utilizza, per spiegare la creazione, oltre alla teoria delle Idee, anche la
teoria delle ragioni seminali creata dagli stoici e ripresa n chiave metafisica da Plotino. La creazione del
mondo avviene in maniera simultanea, ma Dio non crea la totalità delle cose possibili come già attuate, ma
immette nel creato i semi o germi di tutte le cose, che poi, nel corso del tempo, si sviluppano via via, e si
perfezionano in vario modo. Insomma Dio ha creato, insieme alla materia, virtualmente tutte le possibilità
di attuazione della medesima, infondendo in essa le ragioni seminali di ogni cosa. L’evoluzione del mondo
non è altro che l’attuarsi di tali ragioni seminali e, dunque, il prolungamento dell’azione creatrice di Dio.

6. Il problema della conoscenza in Aristotele e Tommaso d’Aquino Problema conoscenza in Aristotele


Nella “Metafisica” Aristotele argomenta che l’uomo per sua inclinazione naturale aspira alla conoscenza e
traccia dunque una scala gerarchica della conoscenza (un po’come aveva fatto Platone): man mano che si
sale ogni gradino è caratterizzato da un approfondimento rispetto al precedente. Al gradino più basso
troviamo 1) la SENSAZIONE: ricordiamoci che Aristotele ha della conoscenza una concezione empiristica : la
mente umana prima delle sensazioni è una “tabula rasa” (una tavola incerata schiacciata e rinnovata) :
prima dell’esperienza sensuale non c’è nulla (a differenza di quanto diceva Platone , che era un innatista) ;
in Aristotele c’è un rifiuto radicale della concezione innatistica : la conoscenza ci deriva interamente
dall’esperienza sensuale. Per Platone l’esperienza sensuale c’era , ma era una concausa : era infatti
semplicemente un modo per realizzare la reminescenza . L’opposizione Platone – Aristotele è davvero forte
: ancora oggi c’è chi è innatista (e sostiene che nasciamo già con alcune cose nella testa) e chi è empirista
(ed è del parere che la nostra mente è una tabula rasa).In realtà la filosofia successiva non sarà nient’altro
che una variante di posizioni aristoteliche o platoniche . E’ come se questi due grandi filosofi avessero
tracciato i due modelli per filosofare .Le sensazioni sono quelle che l’uomo ha in comune con gli animali :
per Aristotele ci sono due tipi diversi di anime : un tipo , più complesso , ed un altro , più semplice. L’anima
dei vegetali , per esempio , non prova sensazioni , mentre quella dell’uomo e dell’animale prova sensazioni
: è proprio il poter provare sensazioni che funge da punto di partenza per la conoscenza. Aristotele
attribuisce grande importanza all’udito (organo con cui si possono ascoltare i discorsi : malgrado Aristotele
sia più “libresco” di Platone , in lui non troveremo mai una polemica contro gli scritti : anzi , l’idea che per
studiare ci si debba servire di libri è tipicamente aristotelica ) e questo significa che ai suoi tempi l’oralità
era ancora importantissima . Però per Aristotele l’organo di gran lunga più importante era la vista perché
più di ogni altro consente di distinguere gli oggetti : non a caso conoscere significa proprio distinguere ,
definire : ad un livello empirico la prima separazione è la distinzione degli oggetti sensibili . Però il grosso
limite della sensazione è che fa cogliere solo il fatto , il che (in greco l'”oti”) e non il perché (il “dioti”) : per
arrivare al perché bisogna seguire un lungo percorso. 2) Al secondo gradino Aristotele mette la MEMORIA :
l’intelligenza si può sviluppare se accanto alla sensazione c’è la memoria : gli animali non riescono a
conservare la singola esperienza e così non hanno intelligenza . La memoria consiste proprio nel conservare
le singole esperienze , nel ricordare le sensazioni. 3) Al terzo gradino Aristotele pone l’ESPERIENZA: essa
non è la singola sensazione , bensì l’accumularsi di sensazioni grazie alla memoria : questa è l’esperienza :
mettendo insieme una serie di casi singoli si riesce ad arrivare ad una prima forma di generalizzazione . Se si
ha avuto a che fare con malattie e cure , si avrà una generalizzazione e si saprà come agire nel caso si
ripresentino : mi sono accorto che una medicina giova ad una determinata persona , poi ad un’altra e poi
ad un’altra ancora tutti accomunati dalla stessa malattia , anche somministrandola ad un’altra persona
otterrò gli stessi risultati . Chi ha esperienza medica e ha visto che certe medicine hanno giovato a più
persone con una stessa malattia è arrivato a dire che a chi ha tale malattia va somministrata tale medicina :
questa però non è ancora la “scienza” vera e propria . Si ha una vera conoscenza quando si può dire che la
determinata malattia va curata con una determinata medicina perché va ad operare su determinate cose ,
organi…Con la scienza si arriva al “dioti” puro; mentre con l’esperienza intuisco che una determinata
medicina giova in certi casi , con la scienza riesco a fornire delle motivazioni : ad esempio , tramite la
scienza so che l’aspirina ha un effetto anticoagulante e che di conseguenza posso prevenire e curare
l’infarto : non dico più che in certi casi ha funzionato e che quindi anche qui deve funzionare , bensì che
avendo un effetto anticoagulante curerà e gioverà a tutti coloro che hanno l’infarto . Si passa così dall’oti al
dioti : quelle persone sono guarite perché hanno quella determinata malattia e questa medicina la cura. Si
passa quindi dal particolare all’universale il vero passaggio è quando da un po’ di casi riesco a cogliere il
significato universale : non parlo più di individui che hanno certi sintomi etc. , ma , per esempio , di
diabetici. Da una collezione di casi particolari raggiungo una concezione universale. La scienza grazie
all’esperienza mi dice che le malattie circolatorie si curano con l’aspirina e di conseguenza quell’individuo
che soffre di cuore deve essere curato con l’aspirina : con una serie di esperienze raggiungiamo la scienza .
Aristotele , poi , afferma che coloro che sono esperti , che hanno acquisito tante esperienze , sono migliori
rispetto a quelli che hanno studiato e sanno solo il dioti : affinché la scienza entri in funzione le esperienze
sono fondamentali : esse ci consentono di riportare i casi singoli a verità universali . L’esperto ha solo la
casistica , lo scienziato solo la scienza , la verità universale : nella pratica l’esperto va meglio fin tanto che lo
scienziato non fa esperienze . Un medico che non abbia mai studiato medicina , ma che sia esperto (avendo
già curato o operato) è di sicuro meglio di un medico che abbia studiato tutto ma che non abbia mai avuto
esperienze di intervento . Il medico con scienza ed esperienza risulta a sua volta essere il migliore di tutti :
l’esperienza è un insieme di casi da cui si possono trarre conclusioni generali operative : il buon medico
deve sapere da casi particolari ricondursi a casi generali e viceversa . La “tekne” sembra essere molto vicina
all’esperienza , ma in realtà comporta un coglimento della realtà universale , l’acquisizione del dioti e
dell’oti . Da questi singoli casi si trae una verità di carattere generale : perché in tutti quei casi va così ? Nel
caso della medicina parliamo di eziologia , perché si usa una determinata cura : se si sa calare l’universale
nel particolare è già una buona cosa : perché se io ho un ‘ottima conoscenza dell’universale (che ho
ottenuto studiando sui libri) , ma poi non so calarla nel particolare , la mia conoscenza è inutile . In realtà si
dovrebbe parlare di scienza applicata , di “tekne”. Aristotele sulle scienze fa una classificazione generale: 1)
le scienze applicabili (quelle che mi consentono di produrre qualcosa) 2) le scienze NON applicabili (quelle
che non mi fanno produrre niente).

A proposito delle “teknai” Aristotele effettua una tripartizione: ci sono le tecniche: a) necessarie b) utili c)
piacevoli Esaminiamo le distinzioni: la tecnica di procacciarsi il cibo è senz’altro necessaria : occorrono
conoscenze applicative per sapersi procacciare il cibo (Ippocrate diceva che occorreva pure la conoscenza di
come cucinarlo , e questa è una scienza utile , non fondamentale) ; come esempio di “tekne” piacevole
possiamo portare l’arte culinaria , che mira solo a soddisfare e a dare piacere al palato . La tekne per
Aristotele non rappresenta comunque il livello più alto del sapere perchè è subordinata in ogni caso a fini
diversi della conoscenza : è dall’esperienza che si genera la tekne , ma l’esperienza non è ancora tekne pura
: la tekne è infatti caratterizzata dall’avere come oggetto della propria conoscenza l’universale : la medicina
raggiunge il livello di tecne (e non più di semplice esperienza) quando è in grado di conoscere che un
determinato rimedio non guarisce solamente Socrate e Platone , bensì ogni persona affetta da una
determinata malattia . Il che significa che quel rimedio è efficace nella totalità o universalità dei casi in cui
c’è quella malattia . Anche chi ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio è stato efficace in una
pluralità di casi , ma non sa perchè (ha l’oti , ma non il dioti) . Secondo Aristotele al di sopra delle tecniche si
colloca una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa : il sapere per il sapere , ossia la
conoscenza disinteressata , libera da vincoli , non subordinata a fini esterni ad essa . Questa è la “sophia” , il
sapere più sublime a cui mira la filosofia . Così Aristotele ha definitivamente staccato l’idea del sapere da
come era in passato , dove il sapere veniva visto come legato e funzionale all’agire e al produrre . Per poter
ricercare questo sapere disinteressato occorre quella che in greco era detta “scholè” , ossia l “otium” latino
, il tempo libero da ogni attività lavorativa o pubblica . Dunque se è vero che tutti gli uomini per inclinazione
naturale aspirano al sapere , è altrettanto vero che solo i filosofi realizzano in senso pieno questo fine
iscritto nella natura dell’uomo . Ma perchè questo sapere che in fondo non serve a nulla è la cosa più
importante ? E’ proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza : una cosa che non serve è più nobile
perchè non è legata al rapporto di servitù . Le sensazioni servono all’uomo e ne prova piacere : se per
esempio avessimo la possibilità di conoscere la realtà senza vederla , non per questo vorremmo essere
ciechi : nella vista consiste un piacere irrinunciabile . Questo “esperimento mentale” conferma le tesi di
Aristotele . Comunque Aristotele crea anche una scala di acquisizione cronologica di queste teknai: le
scienze necessarie sono le prime che l’uomo deve acquisire , in quanto gli consentono la sopravvivenza , poi
deve acquisire quelle utili , che gli offrono comodità non fondamentali , ma importanti , ed infine quelle
piacevoli (ed inutili) : possiamo riassumere così la scala di acquisizione cronologica:”primum vivere , deinde
philosophare”: prima di tutto bisogna pensare alla vita (Aristotele si mostra ancora una volta legato al
mondo terreno) . Il fatto che vengano acquisite per ultime , non significa che le scienze piacevoli valgano
meno , anzi sono le più preziose in assoluto. Le prime scienze che acquisiamo sono le esperienze , ma le più
importanti sono le scienze universali , che consentono una visione di insieme . Come abbiamo detto , le
conoscenze piacevoli si sviluppavano nella “scholè” : per noi il non fare niente è un concetto negativo prima
che sul piano morale-assiologico , su quello ontologico : nel non far niente vi è la mancanza di qualcosa .
Per i Greci e per i Latini era diverso : la “scholè” era quella parte dell’esistenza in cui ci si dedicava
all’attività studiosa.
Problema conoscenza in Tommaso d’Aquino Vedi risposta 4.

7. Ente ed essenza in Tommaso Ente ed essenza -Nell’opera Ente ed essenza, Tommaso propone le linee
fondamentali della sua metafisica chiarendo il significato dei concetti di ente (a) ed essenza (b) Cfr.
Medioevo arabo: -distinzione essenza/esistenza(Al-Farabi) -distinzione Ente possibile/ente reale (Avicenna)
•L’ente: -indica una qualsiasi cosa che esiste-può essere sia logico o concettuale (a1) che reale o
extramentale (a2) -tale distinzione (ente logico /ente reale) è di somma importanza perché significa che
non tutto ciò che viene pensato esiste realmente, o lo fa nel modo in cui viene pensato •L’Essenza:
«l'essenza indica il "che cos'è" una cosa, ossia l'insieme delle note fondamentali per cui gli enti Dio, l'uomo,
l'animale, la pianta –si distinguono fra di loro» a1) L'ente logico: -è espresso con il verbo copulativo essere,
coniugato in tutte le forme -«La sua funzione è di unire più concetti, senza con ciò pretendere che questi
esistano effettivamente nella realtà almeno nel modo in cui sono concepiti da noi» QUINDI: Non bisogna
ipotizzare i concetti e credere che ognuno di essi abbia un corrispettivo nella realtà. Cf. problema degli
Universali: reale è soltanto l’individuo. a2) L'ente reale -è ciò che esiste nella realtà. Ad es. il mondo (creato)
e Dio (Creatore) -L'ente si predica di tutto, sia del mondo che di Dio ma in maniera analogica, perché: -Dio è
l'essere = in Dio l'essere si identifica con la sua essenza, per cui è detto anche atto puro, essere sussistente -
il mondo ha l'essere = nella creatura l’essere si distingue dall'essenza, nel senso che questa non è l'esistenza
ma ha l'esistenza o meglio l'atto grazie al quale non è più logica ma reale I due concetti ricorrenti di
essenzaed atto di essere (actusessendi), sono i due pilastri dell'ente già da questo possiamo anticipare che
la conoscenza è una relazione a un mondo Vero: non è ‘invenzione’, ma nemmeno soltanto
“riconoscimento”, è piuttosto Partecipazione ad un contesto Ontologico già dato nella Creazione, ma che
presenza tratti di novità per l’azione (conoscitiva...) dell’uomocfr.conoscenza “adequatiorei et intellecto” 3.
La gerarchia degli enti e l'analogia dell'essere - il creato: è una gerarchia di enti, disposti secondo un ordine
di perfezione. Tutti sono enti ed i concetti di potenza e atto, di essenza ed esistenza, di materia e forma, ne
spiegano la struttura. - il concetto di ente è in Tommaso analogico: viene usato pensando a Dio e alle
creature non in maniera equivoca, nel senso che la stessa parola valga per tutti (ente-essere), ma il
significato è del tutto diverso (es. la parola cane è l'animale, ma anche la costellazione). (analogico:
ciò che viene predicato con un significato in parte diverso e in parte identico)

8. Il problema degli Universali

Pietro Abelardo (alta scolastica): -nato a Pallet (Bretagna) nel 1079 ca. -morto a Châlon-sur-Saône nel 1142
ca. -filosofo e teologo francese, fu la figura più prestigiosa del XII secolo -fu discepolo del filosofo
nominalista Roscellino e a Parigi del filosofo realista Guglielmo di Champeaux

6.1 Abelardo: la dialettica e il problema degli universali -Abelardo distingue la dialettica dalla pura arte
discorsiva e dalla sofistica che ne sono la degenerazione: pretendono di spiegare tutto con “miseri
ragionamenti” e con importuna loquacità discutere su tutto. -La dialettica nella sua accezione primaria
viene identificata con la logica classica: strumento per discernere il vero dal falso e disputare (disserendi ac
disputandi). In questa prima e fondamentale accezione la dialettica serve a distinguere e stabilire la verità e
la falsità del discorso scientifico.

Abelardo sottolinea l'importanza della dialettica in Teologia perché aiuta a distinguere, altrimenti “non
saremmo capaci di respingere gli attacchi degli eretici e degli infedeli, se non sapessimo confutare le loro
obiezioni e smascherare i loro sofismi con validi argomenti per fare trionfare la verità sulle false dottrine”.
La dialettica diviene una sorta di "scientia sermocinalis" o una filosofia del linguaggio: -il controllo del nesso
semantico tra termini del discorso e realtà designata è uno dei compiti preminenti della dialettica -da qui si
origina il Problema degli Universali

Il problema degli universali: il rapporto voces-res (linguaggio-pensiero-realtà) Generalizzare il problema


degli universali riguarda l'essere dei concetti generali predicabili degli individui (DIVERSO DA
TRASCENDENTALE) e qualifica il rapporto fra pensierolinguaggio e realtà: -i termini con cui ci esprimiamo
sono in grado di rispecchiare l'essere e la realtà? -esiste l'uomo in generale o esistono soltanto gli individui?
A questo problema diverse soluzioni: a) Realismo b) Realismo o nominalismo moderato: concettualismo c)
Nominalismo

La soluzione di Abelardo: concettualismo L’universale è: -“un concetto o un discorso mentale” -ha origine
da un processo astrattivo dell’intelletto: -genera l’intellectione intellectum -è connesso con la funzione di
significare la stato comune di più soggetti

Ragione e intelletto -La Ratio è indispensabile per l'intelligibilità, non per la comprensione, delle verità
cristiane -L'intelligere è opera congiunta di ratio e fides -Comprendere è dono esclusivo di Dio, che concede
agli uomini, docili alla sua grazia, di entrare nel cuore dei suoi misteri

Gli universali. Il realismo (a) I termini universali sono reso entità metafisiche sussistenti? -Guglielmo di
Champeaux (1070-1121) sostiene una perfetta adeguazione o corrispondenza tra concetti universali e
realtà. Tale linea teorica è di ispirazione platonica e trova una affermazione forte, e radicale, in Scoto
Eriugena. In tale prospettiva, lo studio del linguaggio è lo studio della realtà ed essendo questa una teofania
(già al tempo di Scoto Eriugena) lo studio della realtà (linguaggio) è lo studio della manifestazione di Dio.
Guglielmo di Champeaux, attraverso gli studi di grammatica, critica questa versione realista (che
immediatamente vuol salvaguardare l'universale in re), ma al tempo stesso ritiene che c'è una realtà
sostanziale dell'universale prima e separatamente da ciascun individuo come idea perfetta o modello
eterno nella mente di Dio

Gli universali. Realismo moderato e nominalismo moderato (b): -gli universali esistono negli individui come
forma intrinseca. -Esistono, ma non come sono pensati, ossia come universali: sono incorporei e uniti alle
cose corporee sebbene concepiti separatamente dalle cose sensibili. La soluzione Abelardo,
concettualismo, alcuni lo pongono come nominalismo moderato, altri come realismo moderato.

Gli universali. Nominalismo (c) -maggior esponente: Roscellino di Compiegne (1050-1120) -gli universali
non hanno alcun valore, né semantico, né predicativo, non potendosi riferire ad alcuna res. -l'universale è
flatus vocis: una pura emissione di voce senza alcun riferimento

9. Conoscenza, Etica ed interiorità in Abelardo

Che cos’è il VIZIO? 1) Diciamo costumi [mores] i vizi [uicia] o le virtù [uirtutes] dell’animo che ci rendono
inclini alle cattive o alle buone azioni. Vi sono poi vizi o beni non solo dell’animo ma anche del corpo, come
la debolezza fisica o la robustezza che chiamiamo vigore, la lentezza o la velocità, l’essere zoppi o l’essere
diritti, l’essere ciechi o il vedere. [...] Il vizio così inteso non si identifica affatto col peccato né il peccato si
identifica a sua volta con l’azione cattiva. Per esempio l’essere iracondo, cioè incline o facile a lasciarsi
prendere dall’ira, è vizio e inclina la mente a compiere in modo inconsulto e senza controllo della ragione
qualche cosa che non deve essere fatto. Ora questo vizio ha la sua sede nell’anima in modo che sia facile ad
adirarsi anche quando non viene mossa all’ira; così lo zoppicare, per cui appunto un uomo si dice zoppo, si
trova in lui anche quando non cammina zoppicando, poiché il vizio c’èanche quando l’azione non c’è
ancora. Del pari la stessa natura o complessione fisica rende molti inclini alla lussuria, come all’ira; e
tuttavia costoro non peccano per il fatto stesso che sono così come sono, anzi da ciò possono ricavare
motivo di lotta, per conquistare attraverso la virtù [...] la corona del trionfo su se stessi. (Pietro Abelardo,
Conosci te stesso o Etica, trad. it. di M. Dal Pra, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 3, 5-8) Il consenso I: 2) Il
vizio è pertanto ciò per cui siamo resi inclini a peccare, cioè siamo inclinati ad acconsentire [inclinamurad
consentiendum] a cose illecite, siano azioni oppure omissioni. Ora questo consenso chiamiamo
propriamente peccato [consensumproprie peccatum], cioè la colpa dell’anima per cui essa merita la
dannazione o viene a porsi in condizione di rea presso Dio. Che cos’è infatti questo consenso se non il
disprezzo di Dio [Dei contemptus] e l’offesa a lui recata? [...] Il nostro peccato è pertanto disprezzo del
Creatore, cioè non fare per lui ciò che crediamo che per lui noi dovremmo fare, o non tralasciare per lui
quello che crediamo che si dovrebbe tralasciare. (ivi, pp. 9-10) Il consenso II: 3) Il consenso ad una cosa
illecita si ha poi quando non ci ritraiamo dal compierla, anzi siamo senz’altro pronti a tradurla in atto,
qualora se ne presenti l’occasione [parati penitus, si dare turfacultas, illudperficere]. Chiunque pertanto è
colto in un proposito del genere, incorre in modo completo nella colpa, mentre il sopraggiunto effetto
dell’azione non aggiunge nulla che aumenti il peccato, ma davanti a Dio è già ugualmente reo colui che si
sforza, per quanto può, di agire secondo quel proposito e che, per quanto sta in lui, lo porta a compimento.
[...] Dio tien conto infatti non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e la lode di
colui che agisce non consiste nell’azione, ma nell’intenzione. (ivi, pp. 20, 33) Il piacere: 4) Alcuni [...]
oppongono che nell’azione peccaminosa segue un certo diletto che aumenta il peccato [...]. Questo che essi
dicono non sarebbe assurdo se riuscissero a dimostrarci che quel piacere carnale è peccato, e che perciò
non si può mai commettere qualche cosa di simile senza peccare. Ma se entrano in quest’ordine di idee,
allora è chiaro che a nessuno è lecito godere del piacere carnale; quindi non sarebbero immuni da peccato
nemmeno i coniugi quando si uniscono, concedendosi appunto il diletto carnale; e non è immune da
peccato nemmeno colui che mangia con piacere dei frutti di sua proprietà. E sarebbero rei di peccato anche
gli infermi che per ristabilirsi e entrare in convalescenza solleticano lo stomaco con cibi ricercati di cui non
possono nutrirsi senza un certo diletto [...]. Finalmente Dio stesso, creatore dei cibi e dei corpi, non sarebbe
immune da colpa, se avesse posto in loro quei sapori i quali, per il piacere che danno, costringerebbero di
necessità gli uomini che se ne nutrono a peccare. (ivi, pp. 23-24) Giustizia di Dio: 5) Talvolta si stabilisce per
soddisfazione una grave penitenza, mentre non c’è stata colpa di sorta e [...] dobbiamo talvolta punire
quelli che sappiamo essere innocenti. Ecco un caso: una povera donna ha un bambino lattante e non ha
sufficienza di panni per il bambino che vagisce nella culla e per sé. Mossa allora da compassione per il
bambino, se lo pone accanto per riscaldarlo coi propri panni e finalmente superata nella sua debolezza
dalla forza della natura soffoca senza volerlo il bambino, mentre lo abbraccia [...] quella donna presentatasi
al vescovo per la penitenza è sottoposta ad una grave pena, non per la colpa che avrebbe commesso, ma
perché un’altra volta lei stessa e tutte le donne in simili casi siano più prudenti e provvidenti. [...] Di qui si
vede chiaro che qualche volta si infligge ragionevolmente una pena ad uno nel quale prima non ci fu alcuna
colpa. E perché meravigliarsi allora che quando ci sia la colpa l’atto che ad essa tiendietro accresca la pena
in questa vita nella considerazione degli uomini, sebbene non l’accresca nella vita futura dinanzi a Dio? Gli
uomini infatti giudicano di quello che appare, non tanto di quello che èloro nascosto e non tengono conto
tanto del reato della colpa quanto dell’effetto dell’azione. Solamente Dio, il quale guarda non alle azioni
che si fanno ma all’animo [quo animo] con cui si fanno, valuta secondo verità la colpevolezza della nostra
intenzione [in intentionenostra] ed esamina la colpa con giudizio esatto: per questo si chiama «scrutatore
del cuore e dei reni» [Ger20, 12]. [...]. Infatti vede proprio là dove nessuno riesce a vedere perché nel
punire il peccato non tien conto dell’azione ma dell’animo [non opus ad tenditsedanimum]; mentre noi al
contrario teniamo conto non già dell’animo che non vediamo, ma dell’azione che conosciamo. (ivi, pp. 43-
45) Giustizia umana: 6) Presso gli uomini deve essere castigata l’azione più che la colpa dell’animo, perché
quella poté costituire una sfera più ampia di offesa e divenire, attraverso l’esempio, più pericolosa che la
colpa nascosta dell’animo. Pertanto tutto ciò che può essere di rovina comune, o che può tornare di
pubblico detrimento, dev’essere punito con un castigo più grave [...]. Tutto ciò si fa non tanto secondo
dovere di giustizia quanto seguendo un criterio di opportunità sociale per provvedere, come s’è detto, alla
utilità comune, prevenendo i danni pubblici. [...] Lasciando perciò le colpe dell’animo al giudizio divino,
perseguiamo col nostro i loro effetti, su cui ci èpossibile emettere un giudizio, e seguiamo a tale riguardo il
senso dell’opportunità, cioè ci atteniamo più a un criterio di prudenza, come s’è detto, che alla pura
giustizia. (ivi, pp. 48-49) Significati del termine «peccato»: 7) Bisogna precisare che il termine “peccato” si
può intendere in diversi modi; propriamente tuttavia si dice peccato lo stesso “disprezzo di Dio o il
consenso al male”, come s’è detto sopra. Dal peccato inteso in questo senso sono esenti i fanciulli e coloro
che sono idioti per natura; costoro infatti non possono meritare perché privi di ragione. [...] Se [...]
chiamiamo peccato tutte le nostre azioni difettose e quelle che compiamo contro la nostra salvezza, diremo
peccato anche l’essere infedeli e l’ignoranza di ciò che è necessario credere per salvarsi, sebbene in questi
casi non vi sia alcun disprezzo di Dio. [...] Ecco che cos’è dunque peccare per ignoranza: non avere colpa
alcuna, ma fare ciò che non si addice; o compiere nel pensiero, cioè nella volontà qualche cosa che non è
affatto conveniente che noi vogliamo; o che noi si dica con discorsi o si compia con azioni cose che non è
opportuno dire o fare, sebbene ciò ci accada per ignoranza o nostro malgrado. Così noi diciamo che hanno
peccato in opere coloro che hanno perseguitato il Cristo o i cristiani che essi ritenevano di dover
perseguitare; essi tuttavia avrebbero peccato più gravemente per colpa se li avessero risparmiati contro la
propria coscienza. (ivi, pp. 59-60, 66, 68) Intenzione: 8) Molto avendo nuociuto molto, lo sai, sono
innocente: infatti non l’effetto di un’azione produce la colpa ma la disposizione d’animo di colui che agisce;
e il giudizio equo pesa non ciò che viene fatto, ma con che animo viene fatto [necquaefiuntsedquo animo
fiunt]. Ma quale animo abbia io avuto verso di te, puoi giudicarlo solo tu che ne hai fatto esperienza
(Abelardo ed Eloisa, Epistolario, a cura di I. Pagani, UTET, Torino 2008, Ep. II, 13, pp. 249-251) Assenza di
pentimento: 9) Quelle voluttà d’amanti che provammo insieme mi furono così dolci che non possono né
dispiacermi né quasi cancellarsi dalla mia memoria. Ovunque io mi volgo, sempre mi sono davanti agli occhi
con tutto il desiderio che le accompagna [...]. Perfino nel mezzo della celebrazione della messa, quando più
pura deve essere la preghiera, i fantasmi osceni di quelle voluttà s’impadroniscono così profondamente
della mia anima infelicissima che io mi abbandono più a quelle turpitudini che alla preghiera. E mentre
dovrei piangere su ciò che ho commesso, sospiro piuttosto per ciò che ho perso. [...] La gente mi dice casta,
perché non si accorge che sono ipocrita; attribuisce a virtù la castità della carne, quando invece la virtù non
è del corpo ma dell’animo. E se anche godo di qualche stima tra gli uomini, non ho meriti presso Dio, che
scruta il cuore e le reni, vede in ciò che è nascosto. Sono giudicata religiosa in questo tempo presente [...] in
cui è celebrato con grandissime lodi chi non offende il giudizio degli uomini. Ma forse anche questo è in
qualche modo lodevole, e in certo modo appare accettabile a Dio, se cioè qualcuno non è di scandalo alla
Chiesa con l’esempio dei comportamenti esteriori qualunque sia l’intenzione con cui agisce
[exteriorisoperisexemploquacumqueintentione] (ivi, Ep. IV, 9-11, pp. 283-285) (PER LA CONOSCENZA VEDI
RISPOSTA ALLA DOMANDA 8)

10.Emanazione e creazione: neoplatonismo, cristianesimo e filosofia araba


In Plotino non è corretto parlare di emanazione ma piuttosto di processione. La derivazione delle cose
dall'uno è rappresentata come l'irraggiarsi di una luce da una fonte lyuminosa in forma di cerchi successivi.
L'uno produce tutte le cose restando fermo, e genera senza che il suo generare lo impoverisca: ciò che è
generato è inferiore e non serve al generante. L'uno esiste perchè si è autocreato ed è quello che è ossia
bene assoluto perchè ha voluto essere nel modo migliore possibile. L'uno, come le altre ipostasi è dotato di
due attività: -una detta attività dell'uno che gli permette di sussistere -l'altra, fa si che dall'uno derivino
tutte le cose. La prima è un'attività libera, la seconda è invece una necessità. Dunque dall'uno si generano
tutte le cose che sono non per volontà dell'uno, oerchè un atto di volontà sarebbe un segno di
imperfezione(chi vuole qualcosa significa che ne ha bisogno quindi non è perfetto). Il Dio cristiano invece
produce tutto dal nulla, Dio crea liberamente, ossia con un atto di volontà, a motivo del bene.Il
creazionismo infatti si imporrà come la soluzione per eccellenza del problema antico del come e perchè
dall'uno derivano i molti e dall'infinito il finito. Avicenna invece distingue l'ente dall'essenza, l'uno il
concreto, l'altro l'astratto(l'uomo costituisce l'ente, l'umanita l'essenza). L'ente reale si distingue in
necessario e possibile. Possibile è il mondo, necessario solo Dio. Il mondo deriva da Dio quindi non possiede
in sé l'esistenza. Tuttavia Dio non può fare a meno di creare il mondo quindi in tal senso è anche
necessario. Averroè sostenne invece l'eternità del mondoimmobile in quanto causa finale del mondo
stesso.

11.Creazione e tempo in Agostino 1) Fonte= slide professore

Il tempo e la Creazione -Cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra? È questa la domanda che ha
spinto Agostino ad occuparsi del tempo e che lo ha condotto a soluzioni generali, che di fatto restano come
fondamento per la riflessione filosofica anche contemporanea sull'argomento. -Come detto, prima di
creare cielo e terra non esisteva il tempo: non ha senso parlare di un prima avanti che il tempo non fosse
creato. Il tempo è creazione di Dio: la domanda posta in precedenza è pertanto priva di significato perchè
attribuisce, o riferisce, a Dio un problema che vale soltanto per la creatura. - La questione del Tempo rinvia
dunque alla questione della Creazione.

(Creazionismo agostiniano e demiurgo platonico)

Confronto con Platone: Dio e il divino a) distinguere il divino impersonale da Dio e dagli dèi personali:
divino è il mondo ideale; l'Idea di bene (sommamente) ma non è un Dio personale, così come sono Enti
divini (impersonali) e non dèi (personali) le Idee b) caratteri di persona, cioè di Dio, ha il Demiurgo c) il
Demiurgo non crea nemmeno la Chora, o materia di cui è fatto il mondo, che preesiste essa pure d) il
Demiurgo è plasmatore o artefice del mondo, non creatore de mondo (Agostino e la Creazione secondo le
Ragioni seminali - cfr. Semi del Verbo di Giustino e Logoi Spermatikoi degli Stoici) Scrive Trapè: “La filosofia
agostiniana può essere qualificata come filosofia creazionista, non solo perché ha posto al centro del
problema dell'essere la creazione, ma anche e soprattutto perché della creazione ha approfondito gli
aspetti più diversi e più difficili. Questi sono: la creazione dal nulla, la creazione che ha inizio col tempo, la
creazione secondo le ragioni eterne, la creazione come un atto di amore, la creazione libera, la creazione
simultanea.” “Creazione secondo le ragioni seminali. È questa una delle intuizioni geniali del vescovo
d'Ippona [...] Sono inserite nelle cose e presiedono allo sviluppo dell'universo. Si possono utilmente
concepire come semi, nei quali infatti c'è già tutto l'essere quale verrà formandosi col tempo”
APPROFONDIMENTO VEDI RISP. 5 PT.2) Da una prospettiva creaturale, che cosa è il tempo? Nel libro 11
delle Confessioni, le considerazioni sul tempo cominciano con questa domanda e questa risposta: "Che
cos'è il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so" (Confess. 11,
14, 17) Due verità sono certe: 1) non c'è tempo senza mutabilità; 2) non c'è tempo senza l'animo umano
che ricordi, intuisca, attenda. Non c'è tempo senza mutabilità, perché il tempo è proprio delle cose mutabili
come l'eternità delle immutabili. " Una corretta distinzione tra tempo ed eternità è questa: non esiste il
tempo senza una mobile mutabilità; nell'eternità invece non c'è alcun mutamento" (De civ. Dei 11, 6). Il
tempo come realtà soggettiva - Il tempo risiede nella mente umana che attende, considera e ricorda
(Confessioni, Capitolo 30) e non è una cosa. - Non si può parlare di tempo prima della Creazione - Il tempo è
estensione dell'Animo: “Ma in quale modo diminuisce o si consuma il futuro che non è ancora o cresce il
passato che non è più, se non perché nell'anima, che è la causa del fatto, esistono tre stati? E, invero, essa
aspetta, fa attenzione, si ricorda [...] ora nessuno nega che il futuro non è ancora. Ciò non pertanto esiste
nell'anima l'aspettazione del futuro. E nessuno nega che il passato non è più. Ciò non pertanto esiste
tuttora nell'anima il ricordo del passato. E nessuno nega che il presente è privo di estensione, dacché il suo
trascorrere è un punto. Ciò non pertanto dura l'attenzione attraverso la quale ciò che sarà presente si
affretta verso l'essere assente. Non dunque è lungo il tempo futuro che non esiste, ma il futuro lungo è
l'attesa lunga del futuro. Né è luogo il passato che nemmeno esiste, ma il passato lungo è il ricordo lungo
del passato”.

2) Fonte= libro pg.88 Nessuno dei filosofi antichi è giunto al concetto di creazione che è di genesi biblica.
Platone, nel Timeo, aveva introdotto il Demiurgo. Tuttavia l’attività del Demiurgo risulta limitata sia al di
sopra che al di sotto. Al di sopra, infatti, vi è il mondo delle idee a cui egli si ispira come modello
creazionistico. Al di sotto invece sta la Khora, che è eterna come lo stesso Demiurgo e il mondo delle idee.
L’opera del demiurgo è quindi un’opera di fabbricazione (definito dio artigiano), e non di creazione perché
suppone come indipendente e preesistente ciò di cui si avvale per creare il mondo (khora). La soluzione
creazionistica, che per Agostino è verità di fede e di ragione, risulta di una chiarezza esemplare. La
creazione delle cose (da parte del dio cristiano) è dal nulla (ex nihilo), ossia non da una sostanza che
preesisteva prima dell’atto creatorio in sé. Infatti, Agostino spiega che una realtà può derivare da un’altra in
tre modi: 1. Per generazione = e in questo cado deriva dalla sostanza stessa del generante e costituisce
qualcosa di identico al generante. (caso del Dio cristiano per Gesù) 2. Per fabbricazione = la cosa che viene
fabbricata deriva da qualcosa che preesiste al di fuori del fabbricante (caso del demiurgo) 3. Per creazione
dal nulla assoluto = cioè non dalla propria sostanza e non da una sostanza esterna (caso del dio cristiano
per il mondo). L’uomo sa “generare” i figli e sa “produrre”, ma non sa “creare” perché è un essere finito.
Dio “genera” dalla propria sostanza il Figlio che è identico al padre mentre “crea” dal nulla il cosmo, e tale
azione è un gratuito dono divino, dovuto alla libera volontà e alla bontà di Dio, oltre che alla sua infinita
potenza. Dio, quando ha creato il mondo, ha creato anche il tempo. Infatti il tempo è strutturalmente
connesso al movimento, ma non vi è movimento prima del mondo, ma solo con il mondo stesso. Dunque,
prima del mondo, non c’era un “prima temporale”, perché non c’era tempo. C’era, invece, l’eterno, che è
come un infinito presente atemporale.

12.L’idea di creazione in Dionigi Ambiguità della dottrina della Creazione A proposito della relazione del
mondo con Dio, lo Pseudo Dionigi parla di emanazione di Dio nell’Universo delle cose Cerca quindi di
combinare tale teoria neoplatonica della emanazione con la dottrina cristiana della creazione e non si
dimostra affatto panteista: -Dio dà l’esistenza a tutte le cose che sono -traendo fuori da sé le cose esistenti
si fa molteplice ma al tempo stesso rimane Uno anche nell’atto di “automoltiplicazione” e senza
differenziazioni anche nel processo di emanazione -Le difficoltà incontrate da Dionigi le ritroverete in Scoto
Eriugena e nella sua teoria della Creazione. Permanere del Primo principio Proclo aveva insistito nel dire
che il Primo principio non viene meno nel processo di emanazione e lo Pseudo Dionigi ripete il suo
insegnamento Ma il neoplatonismo gli impedisce di concepire rigorosamente il rapporto che lega la
creazione alla liberavolontàdivina, ovvero la libertà dell’atto creativo, così: -la creazione è un’azione
spontanea di Dio e della sua bontà MA come emanazione è un effetto naturale e necessario - anche se Dio
è distinto dal mondo -Dio esiste indivisibilmente e non si moltiplica in tutto ciò che è individuo (distinto e
molteplice) e in ciò che partecipa della bontà scaturita da Dio QUINDI il mondo fluisce daDio, dalla sua
Bontà, ma non è Dio L’idea di Creazione... ma necessaria ? Come abbiamo visto la tensione è nel concepire
la causa della creazione: -nella libera volontà divina (creazionismo cristiano) -nella necessità naturale
(emanazionismo neoplatonico) Più volte lo Pseudo Dionigi afferma che Dio è la causa trascendente di tutte
le cose, chiarendo in aggiunta che Dio ha creato il mondo mediante le “idee esemplari o archetipi” che
esistono in Lui come “preordinazioni” Dio è causa finale poiché in quanto è Bene attrae a sé tutte le cose
Egli è perciò “il principio e la fine di tutte le cose”: -principio in quanto loro causa-fine in quanto loro meta
finale Vi è quindi un uscire da Dio e un tornare a Dio, un processo di moltiplicazione e un processo di
ritorno (circolarità neoplatonica?) Questa diviene l’idea fondamentale di Scoto Eriugena traduttore dello
Pseudo Dionigi.

13.Il problema dell’essere in Parmenide e la Creazione nella filosofia cristiana (Agostino e Dionigi)
Secondo Parmenide lo spazio cosmico esistente non è illimitato, bensì è una enorme sfera. Esso è
interamente riempito dall’ “essere”. L’ “essere” è la sostanza, unica ed omogenea, che, compenetrando
tutte le cose (inclusi noi esseri umani e l’aria) che i nostri sensi percepiscono nel cosmo, costituisce il cosmo
stesso. Infatti nella “visione” del filosofo di Elea il cosmo non è composto dalle numerose entità – pianeti,
stelle, persone, animali, alberi, fiori, case, montagne, nuvole, ecc., di diverso aspetto e colore, suscettibili di
trasformazione, movimento, nascita e morte – che ogni giorno appaiono dinanzi ai nostri occhi, bensì è
costituito dall'essere, che è una sostanza unica, eterna, non generata, enorme, limitata, sferica, immobile,
non diveniente ma sempre uguale a se stessa, omogenea, isodensa, non divisa in molteplici 'cose' bensì
continua. Dunque: Esiste soltanto l'essere. Questo essere, che è unico, viene percepito dagli esseri umani
come "spezzettato" in molteplici cose, da tutte le cose che la nostra vista fallace quotidianamente ci
mostra:

"a questo unico essere saranno attribuiti tanti nomi quante sono le cose che i mortali proposero, credendo
che fossero vere, che nascessero e perissero, che esistessero e non esistessero, che cambiassero luogo e
mutassero luminoso colore" (8, 38-41)

Quindi, all’interno di tutte le apparenti “cose” che a noi appaiono separate tra loro e destinate a nascere,
trasformarsi e perire, c’è un substrato unico ed immutabile, una sostanza indivisibile ed eterna, che è l’
“essere”. Esso è il fondamento delle apparenti “cose”, esso è la sostanza che permea uniformemente tutto
il cosmo. L’universo è costituito da una sostanza continua, è un “continuum” omogeneo, che a noi sembra
spezzettato in molteplici “oggetti” di diverso aspetto e colore, suscettibili di trasformazione, movimento,
nascita e morte. Se non esistesse l'essere, i nostri sensi non potrebbero percepire le "apparenze" e neppure
le apparenze di noi esseri umani e neanche di se stessi, e la nostra mente non potrebbe pensare alcunché,
neanche se stessa, non ci sarebbe nulla. Le cose che noi percepiamo con i sensi ( "ta dokounta" = le
apparenze) esistono, ma non come tali, non come enti singoli, separati tra loro, molteplici e divenienti.
Esiste il loro substrato, la loro sostanza costitutiva, che è l’ “essere”: esse sono fatte della stessa unica
sostanza, eterna, immutabile ed immobile, mentre a noi sembrano nascere e morire, muoversi e
trasformarsi. Tutti questi enti apparenti, inclusa l’aria (infatti l’aria non è il vuoto e pertanto contiene
altrettanto essere di quanto ne contengono i corpi solidi e liquidi) sono contigui e senza contorni che li
delimitano e perciò continui e sono tutti costituiti da una sostanza unica, da un “continuum” omogeneo che
è l’essere.

"L'essere è, il non essere non è" Poiché l'essere riempie tutto lo spazio esistente ("viene a contatto con i
confini": 8, 49) e coincide con esso, al di fuori e al di là di esso non esiste nient'altro. Ipotetici enti esterni
all'essere non possono esistere e non devono neppure essere pensati, perché, trovandosi fisicamente e
concettualmente all'esterno della sfera dell'essere, cioè di ciò che esiste, non possono esistere. Ma non
soltanto il 'non essere' non esiste all'esterno del globo dell'essere; esso non esiste neanche all'interno
dell'essere (sotto l' impensabile aspetto di vuoto, di mutamento di forma, di cambiamento di colore e di
luogo, di nascita e di morte).

"L'essere non si trasforma" Infatti l'essere di Parmenide non si trasforma, non diviene, non cambia mai
luogo, rimane sempre uguale ed è eterno. In verità, dal punto di vista logico, se una cosa è oggi diversa da
come era in passato, essa non è più la stessa cosa. Se una foglia verde è divenuta gialla, essa non è più lo
stesso ente; se un uomo che ha i capelli neri poi li avrà canuti non è più lo stesso uomo; una pianta che
forma nuovi rami e germogli non è più quella di prima ma un'altra; e così via. Parmenide ed i suoi allievi
ritengono che se l’essere fosse soggetto a trasformazione, a cambiamento, esso gradualmente
diventerebbe non essere; infatti le cose, trasformandosi, a) diventano qualcosa d'altro, di diverso da se
stesse, perdendo così la propria identità, la propria essenza: "Se si trasforma, deve perire ciò che prima era
e ciò che non è deve nascere: ecco che l'essere perì e il non essere nacque" (Melisso, allievo ed esegeta di
Parmenide: 7,2; 8,6); b) e gradualmente giungono alla morte: "Se l'essere mutasse anche solo di un capello
in diecimila anni, andrebbe interamente distrutto in tutta la durata dei tempi" (Melisso 7,2). Il
ragionamento logico ci dice che un ente, per rimanere se stesso, non può mutare e, se non muta, potrà
rimanere in eterno.

"La stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata" Poiché l'essere è l'unico ente esistente, esso è l'unico
oggetto del pensiero: "la stessa cosa sono il pensare e la cosa pensata" (8, 34), "è infatti la stessa cosa
pensare ed essere" (frammento 3). Se non esistesse nulla, non ci sarebbe nulla da pensare. Se non esistesse
l'essere, non esisterebbe neanche il pensiero. "Infatti senza l'essere… non troverai il pensare" (8, 35-36). Il
pensiero è pensiero dell'essere. L'essere è al tempo stesso ciò che esiste e l'unico oggetto del pensiero.
L’essere di Parmenide è oggetto o è concetto? Credo che Parmenide sia partito dal ragionamento logico
che ho esposto nel mio libro e nel quale non posso dilungarmi qui per motivi di spazio e poi abbia compiuto
la fusione tra concetto logico e cosmo, tra pensiero ed essere, tra pensare e cosa pensata. Così nel
frammento 8 l’essere – che nei frammenti precedenti rappresentava il concetto logico di esistente, era “ciò
che è” in senso concettuale, contrapposto al non essere, cioè al nulla – assume la configurazione fisica di
“ciò che esiste nel cosmo”, della sostanza unica ed uniforme costituente il cosmo, fino a coincidere con il
cosmo stesso. Infatti vediamo che esso mostra di avere una consistenza fisica: è “continuo” (8,6; 8,25); “Ma
poiché c’è un limite estremo, è limitato” (8,42); “viene a contatto con i confini” (8,49); inoltre l’essere è
grande, contenuto “nei limiti di grandi legami” (8,26). L’essere di Parmenide è quindi la sostanza corporea
unitaria del mondo e contemporaneamente il concetto logico di essere esistente. Nella sua “visione”
assolutamente unitaria Parmenide teorizza dunque un ente che è contemporaneamente: fisico-
cosmologico: esso è tutto ciò che esiste nel cosmo, e quindi il cosmo stesso; metafisico: esso è la sostanza
invisibile che “sta dietro” a tutte le singole apparenti “cose” che quotidianamente percepiamo,
costituendole e permeandole; ontologico: è l’unico essere esistente, è “ciò che è”, “to on”; logico-
concettuale: essendo l’unico ente esistente, è l’unico oggetto del pensiero; la mente riunifica l’essere, che i
sensi avevano erroneamente suddiviso in molteplici cose. CREAZIONE IN AGOSTINO GIA’ RISPOSTA NELLA
DOMANDA 10

14.Il bene in Platone e in Aristotele (riferimento alla critica di Aristotele a Platone presente nell’Etica
Nicomachea) Per Platone tutti gli oggetti ricevono dal bene (l’idea suprema) l’essenza; li conosciamo in
riferimento ad essa ed essa è il supremo valore morale. Il bene è: -causa di conoscibilità (paragone con il
sole) -causa dell’essenza delle cose -valore morale -principio dell’esistenza ed essenza (dell’essere) delle
idee stesse !! su questo punto, si rivolge una delle critiche più forti di Aristotele La presunta
contrapposizione tra Platone e Aristotele va fatta risalire non solo alla critica di Aristotele alla dottrina
delle idee di Platone, ma anche alla diffusione che il pensiero di Aristotele conobbe nei sec. XII e XII ad
opera di molti autori quali Scoto Eriugena, Abelardo, Anselmo e le Scuole di Chartres e San Vittore, che
presentavano la rivelazione cristiana soprattutto alla luce ella logica e del pensiero platonico e
neoplatonico. In realtà, accostandosi alle opere dei due grandi pensatori greci, si percepisce più che una
contrapposizione una complementarietà di prospettive, che deriva dalla differenti posizioni dalle quali
parte la riflessione dei due grandi maestri: il processo della conoscenza umana in Platone, che lo porterà
alla formulazione della sua dottrina delle idee, e l’interesse per il mondo della natura in Aristotele, che lo
porterà a valorizzare il mondo sensibile. La stessa critica che Aristotele muove alle idee di Platone non
deriva da una negazione, da parte di Aristotele, dell’immaterialità del pensiero, ma dal fatto che le idee di
Platone gli paiono sostanzialmente messe accanto al mondo sensibile senza farsi principio interno alle cose
e quindi non reale causalità. Sia per Aristotele che per Platone vige un sostanziale dualismo per il quale vi è
una realtà immateriale, che trascende ciò che è percepibile a livello sensibile. Entrambi ammettono un
principio di bene perfetto e ottimo.

Per Platone si tratta di una realtà che è al di là delle stesse idee, al di là della stessa conoscenza e verità:
l’idea del Bene da cui tutte le altre derivano. Per Aristotele si tratta del “motore immobile”, sottratto al
processo del divenire, atto puro in sé compiuto ”Diciamo che la divinità è essere vivente, eterno e ottimo,
sicché alla divinità appartengono vita e tempo continuo e infinito: questo è la divinità”. Si può quindi
ribadire che mentre Platone tiene l’occhio soprattutto in direzione del soprasensibile, Aristoele è volto a
cercare nel sensibile il segno del soprasensibile. Da qui la vastità degli interessi di Aristotele che vanno dalla
metafisica alla fisica, dalle scienze alla logica, dall’etica alle attività poetiche, quali la retorica e la poesia Per
lui è la “meraviglia” di fronte alla realtà che suscita l’indagine filosofica e spinge alle vette metafisiche. Per
entrambi il bene si irraggia nel mondo. Per Platone, grazie all’opera del demiurgo, nel mondo è impressa
una immagine divina che ha conferito bontà e bellezza all’universo. Per Aristotele l’ordine dell’universo è il
risultato dell’attrazione della natura, concepita come potenza, verso Dio, immanente e trascendente
insieme così come l’ordine nell’esercito, che dipende dal generale. La filosofia di Platone e di Aristotele ci
ha consegnato quindi una visione della realtà improntata al Bene metafisico di cui essa è partecipe anche
nei suoi effetti sensibili. Essi ci insegnano che la ragione, impegnata nella ricerca della verità, può condurre
a conclusioni che corrispondono alla nostra richiesta di bene: “Così, secondo un ragionamento probabile, si
deve dire che questo mondo è un essere vivente, dotato di anima e di intelligenza, generato ad opera della
provvidenza di Dio”. Plat. Tim. 30c Un messaggio, questo degli antichi Greci, di fiducia nel senso ultimo
dell’esistenza.

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