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Nascere

Il corpo→ già alla nascita, quando il nostro corpo è perimetrato dalle carezze materne, prende
forma come corpo dell’appartenenza: il neonato quindi riconosce il corpo materno come altro da
sé. Nell’esteriorità dello sguardo materno impara a conoscersi e riconoscersi, come primo esercizio
del suo essere persona in relazione. La coscienza del sé, il sentimento di identità si costruisce a
partire dal riconoscimento dell’altro e si rafforza nell’incessante e logorante processo di
separazione e individuazione che lo de-porta dalla gestazione uterina a una nascita sociale
amputata delle sue basi biologiche. Essere in relazione anzitutto con il corpo materno consente
così a un soggetto umano di esistere, di esserci e di guadagnare progressivamente l’acquisizione di
un tempo della vita, quindi di una coscienza temporale, intesa prima come spazio intermittente di
una presenza e di un’assenza, poi come contenitore di memoria. Si può quindi dire che solo se è
riconoscibile una madre si può ambire ad avere una madre-patria culturale, sociale, affettiva,
emotiva. La pelle è poi fondamentale, in quanto non è solo il luogo del tatto, ma allude a un
preciso confine corporeo che perimetra ed estende la percezione dell’io. Il corpo immaginale
infatti si apre alla relazione con il mondo, rendendo decodificabili i movimenti dell’anima anzitutto
attraverso la pelle (si arrossisce per vergogna o rabbia, si sbianca per paura o angoscia). La pelle al
mondo del nuovo nato è anzitutto il segno tangibile di una lacerazione, della perdita di un
contenimento, del vuoto di una distanza: infatti la pelle che si distanzia inesorabilmente da
un’altra pelle, pone l’emozione della differenza e nel contempo anticipa il bisogno di ritorno a
un’omogeneità perduta. In questo caso nel tempo del mito lo spazio narrabile della nascita si fa
memoria comune e condivisa. Infatti i miti della nascita sono racconti esemplari che danno ragione
dell’ordine naturale del cosmo, del mondo divino e di quello umano: 1) i miti teogonici, rendendo
esplicito il pantheon degli dèi e le genealogie divine, diventano pretesto per consentire a una
comunità di consegnare all’ordine religioso il fondamento civico del vivere umano; 2) i miti
antropogonici iscrivono in uno scenario di senso culturale la nascita dei primi uomini (gli eroi), che
rappresentano per la comunità modelli esemplari di sapere o che con le loro azioni offrono modelli
esemplari di comportamento. In principio quindi è la terra, Gea o Gaia, la Grande Madre degli dèi,
potenza materica assoluta, che per partenogenesi dà alla luce Urano “cielo stellato”. Senza unirsi
in amore con alcuno Gaia partorisce poi le grandi montagne e dà alla luce Ponto, il mare deserto e
spumeggiante. Dopo un incipit cosmogonico nel quale è la Madre-terra, da sola, a dar ordine al
Kaos e a garantire quell’ordine cosmico che fa da preludio a qualsiasi forma di vita, la parola mitica
ci orienta eloquentemente sulla nascita sessuata in una prospettiva teogonica. Urano infatti si
unisce in amore con la madre Gaia per dar vita a Titani e Titanesse, a Ciclopi e Centimani nonché
ad altre divinità di segno ctonio, fra le quali Crono, il dio nel cui nome si annida l’immagine
eloquente della temporalità. Ben presto Urano comincia a prendere in odio i figli che Gaia genera
e decide di nasconderli, appena nati, nella cavità interna della Terra. Gaia a questo punto, con
l’aiuto di suo figlio Crono, attua contro Urano un agguato esemplare: dotato di un falcetto Crono
sorprenderà Urano durante il coito e gli reciderà il pene. Crono così ri-nasce arricchito da un nuovo
sapere: un sapere che farà del proprio corpo l’elemento di transito di un destino rinnovato, in
tema di natalità. L’ambizione di Crono alla paternità sarà segnata dalla memoria indelebile di un
utero materno convertito con in una cavità segreta e oscura, che cela artifici ingannevoli a tutto
danno di un padre. Privato del potere di generare in assoluta autonomia, piegato alla violenza di
un solco paterno che ne riduce la potenza generativa, il corpo di Gaia si sostituisce agli occhi del
figlio divino in abisso divorante, in luogo immaginario di un atemporalità inaccettabile, di un
tempo immobile che non consente alcun incominciamento. Un corpo che spetterà a Crono
convertire in “minaccia fallica”, facendosi complice dell’evirazione del padre e recidendo per
sempre il legame con la dimora calda e accogliente di una madre-terra. Infatti Crono, memore per
il futuro dell’inganno che cela il ventre materno, darà vita come padre ad una infruttuosa
tecnofagia: i figli che Rea gli genererà verranno questa volta divorati e trattenuti nel suo stesso
ventre, fino a quando Zeus, sottratto dalla madre (ancora una volta con l’inganno) alla voracità di
Crono, non consentirà loro di ri-nascere, svuotando con la forza il corpo deviante del padre ed
evirandolo a sua volta. Il gesto dell’evirazione infatti non esalta la potenza della Grande-Dea, ma
anzi cerca di neutralizzare questo potere. Evirazione come usurpazione, come gesto sacrificale
volto a prosciugare simbolicamente la potenza materna del suo corpo partenogenico nel segno di
una doppia nascita, come corrispettivo mitico di una mutilazione iniziatica. Esiodo nella Teogonia
utilizza infatti il termine lochos , che etimologicamente richiama sia il parto sia l’agguato. Zeus
invece, figlio e successore di dèi esposti allo stigmate dell’evirazione, egli dovrà riformulare un
modello paterno che renda attuabile l’avvio di una nuova mitopoiesi: consegna il proprio destino
coniugale ad una promiscuità incestuosa, congiungendosi con due delle tre sorelle generate da sua
madre Rea ( con Demetra genera Persefone e con Hera dà vita ad una ben più vasta genealogia
divina). Ma Zeus, dopo aver sottomesso al giogo di una coniugalità tormentate le figlie di Rea
( eredi virtuali del potere della Grande Madre), dovrà ridurne la potenza generativa con un altro
stratagemma consacrato alla “doppia nascita”: per padroneggiare la procreazione Zeus partorirà
due volte, aprendo il proprio corpo alla ferita della femminilizzazione: dal suo cranio inciso
nascerà Atena, mentre attraverso uno speciale “utero paterno”, inciso nella coscia, nutrirà il feto
di Dioniso ospitandolo nel proprio corpo fino all’avvenuta maturazione. L’autarchia paterna è resa
possibile da un matricidio esemplare: sia Atena che Dioniso vengono infatti espiantati “vaso”
generatore delle madri, Metis e Semele, che Zeus ha inghiottito e fulminato per poter reinfetare i
loro frutti. Quindi la figura partoriente di Zeus non coincide tanto con l’annullamento, ma con
l’occultamento del potere generativo della madre.
La madre → come i progenitori di Zeus e come lo stesso padre olimpico, anche i primi uomini, gli
antenati mitici che nella tradizione esiodea danno vita alle prime quattro razze umane (d’oro,
d’argento, di bronzo e degli eroi) “nascono dalla terra”; una terra che si configura in primis come
potenza autonoma, nutrice feconda, zolla civica che i suoi figli autoctoni difendono come madre e
padre al tempo stesso; ma non di meno una terra già plasmata e informata del sapere di un padre
divino, che sa accogliere tra le proprie zolle la potenza fecondante del seme del dio. Così vengono
denominati Spartòi, “seminati”, quei primi uomini nati dal seme di un dio che feconda la madre-
terra, la quale in seguito genererà la “razza degli eroi”, cioè gli epichtonioi, i nati dalla terra,
antenati mitici confinati in una sorta di interregno metastorico. Ci sarà poi la quinta razza umana,
quel del ferro, che porterà alla luce i brotoi, uomini mortali per sempre separati dagli dèi, razza
che segna l’esclusione dell’elemento femminile come materia propulsiva della vita: la terra infatti
si fa materia docile sottomessa alle arti del dio-artigiano Efesto, che, ispirato da Zeus, mescolando
l’argilla con l’acqua, dà vita a Pandora, la prima donna mortale. La creazione della donna va
accolta quindi come caduta irreparabile dell’umanità nella condizione di “genere mortale”, la cui
umanità è per definizione ambigua visto che gli uomini esistevano già da prima: basti pensare al
termine anthropoi (uomini, che sta per “genere umano”) e a come la lingua greca lo distingua dagli
andres, uomini in opposizione alle donne, gunai, e si pensi a come la pratica sociale e politica dei
Greci conceda la parola ai soli andres, relegando la donna, per costituzione, nel regno dell’alterità
e dell’esclusione. Pandora infatti, non sarebbe la madre del genere umano, ma solo del genos
femminile, la razza delle donne. Ma mentre Pandora introduce nel genere umano la differenza tra
i sessi, il matrimonio e la nascita sessuata, le madri divine di un pantheon su cui ormai Zeus regna
incontrastato concorrono a loro volta a evidenziare le distanze propedeutiche necessarie a
emanciparsi dal corpo materno, per convertire l’intensa morfologia del desiderio in una capillare
strategia dell’assenza. Questa sorta di sbiadimento metaforico della dea-madre è spiegato da tre
racconti mitici: 1) Efesto, scagliato dalla madre Era nelle profondità marina a causa della sua
deformità, è il simbolo della ratifica di una madre nei confronti della propria indipendenza al giogo
coniugale o della propria ambizione a un piacere indifferente all’afflato coniugale; 2) Pan, figlio
della ninfa Penelope, che lo rifiuta con tenacia a causa del suo aspetto ( capra dal busto umano,
zampe irsute, corna e folta barba), sarà portato dal padre Ermes sull’Olimpo e per sempre
considerato straniero a sé stesso e tra gli dèi; 3) Adone nasce come frutto umano dalla madre
incestuosa trasformata in albero, Mirra, e sarà allevato dalla Naiadi presso le acque dolci dei
boschi. Dunque Efesto, Pan e Adone sono tre figli divini che sperimentano nel segno della nascita
un processo di doppia separazione: la solitudine in un oltre e la incorporazione di un elemento
straniante che ne altera l’essenza identitaria. Anche se sono contrassegnati da un corpo apolide, la
loro radicale alterità li porta ad essere accolti da comunità che si nutrano del prestigio dell’altro:
Pan viene accolto nello spazio più sacro dell’Acropoli di Atene; Efesto transita sia negli spazi inferi
di un vulcano che in quelli celesti dell’Olimpo; Adone, diviso tra due amanti divine (Afrodite e
Persefone) che lo risarciscono di un corpo materno negato, passa stagionalmente dalle acque di
un fiume ad una terra calda e accogliente. Nello stesso tempo secondo la tradizione mitopoietica
di ogni città greca il “primo uomo” (Erittonio), prende forma direttamente dalla terra natale:
l’assoggettamento del corpo femminile alla metafora della terra realizza così il processo di
domesticazione del corpo femminile, confinandolo nel giogo di una procreazione sottomessa e
ispirata al principio della moderazione imitativa, cioè la donna che imita la terra.
La nascita → Il corpo femminile, e in particolare la sua regione riproduttiva e nutritiva, per essere
dominato va svuotato, e per fare questo è necessaria la vigilanza paterna o coniugale. Preposte
alla preparazione rituale di cibi come l’orzo e il grano, estromesse dal consumo collettivo di carni,
di pasti o di bevande fermentate, le donne greche, per contrasto con la mollezza e l’abbandono
degli uomini, compaiono nei vasi e nelle coppe in una compostezza serena e controllata,
dispensatrici di cibo e di bevande del tutto estranee all’atmosfera della convivialità. E intanto,
sottratte agli scenari tragici e alle maternità eccentriche e fuorvianti del tempo mitico, le giovani
si spose si preparano a diventare madri tanto più virtuoso quanto più consapevoli della loro
marginalità sociale. Senofonte, nel suo Economico, farà dire a Iscomaco quali sono le prescrizioni
per istruire la sua sposa-modello a una funzione riproduttiva simile a quella di “un’ape regina”: il
suo unico scopo sarà quello di generare figli, quindi avrà la funzione di “cella nutritiva” espropriata
di ogni soggettività. Nelle Leggi, Platone propone di istruire le madri future a una disciplina
corporale che fin dai primi mesi di gravidanza avii il nascituro a un uso corretto del corpo materno:
le donne incinte non dovranno godere di piaceri sregolati, né soffrire dolori smisurati, ma vivano il
tempo dell’attesa con grande serenità, benevolenza e mitezza, piegando il loro corpo alla misura.
Plutarco invece nel De liberis educandis, percepisce l’allattamento come un atto di sacrificio e
donazione e il parto come elemento contaminante e causa di liquidi impuri. Infatti nella Grecia
classica era necessaria una purificazione rituale per la donna nel corso dell’ Amphidròmia, una
festa che si celebrava il quinto dalla nascita del bambino. “Ti cedo mia figlia per un raccolto di figli
legittimi”, recita la formula che sancisce l’unione coniugale ad Atene e che spetta al padre
pronunciare, rivolto al futuro genero, frase che rammenta che è il principio dell’agricoltura a
regolare l’unione dei sessi nella polis greca: Plutarco declina tale metafora all’idea secondo cui il
principio stesso dell’amore si trova nella ferita, infatti il carro ferisce la terra, come l’aratro
dell’uomo ferisce il ventre materno della donna).
Nutrire

Il cibo → si organizza nel pantheon greco come elemento e strumento rappresentativo di una
polarità di segno maschile e femminile. Nella complessa genealogia divina infatti da una parte c’è
l’avventura cannibalica e tecnofagica di un dio (Crono) che si nutre dei suoi figli costipandoli in un
ventre gonfio e per ciò stesso occulta e vanifica le potenzialità procreative della dea-madre, per
poi convertire, attraverso Zeus, il gesto cannibalico in gesto partenogenico. Solo così gli dèi
olimpici potranno esorcizzare l’ansia cannibalica e ripristinare un equilibrio alimentare esemplare,
nutrendosi di cibi preclusi alla sfera umana (nettare e ambrosia) e imponendo agli uomini il
sacrificio carneo. Dall’altra parte c’è la potenza materna (incarnata dal modello di Demetra) che si
sottomette al principio nutritivo come surrogato di quello procreativo e si vota a un digiuno
esemplare, mentre la figlia Persefone si emancipa a questo digiuno attraverso l’assunzione del
cibo offerto dallo sposo. Ci sono poi esseri sovraumani o antenati mitici dei quali il mito ci offre
modelli esemplari di una condotta bulimica di segno maschile (Eracle o Erisittone), cui fa da
contrappunto una propensione anoressica di segno femminile (Medea o Fedra): l’eccesso
alimentare dell’eroe ammette il rovesciamento di un ordine simbolico che contempla la sua
identificazione col modello del trickster, mentre il digiuno protratto dell’eroina enfatizza le
potenzialità inquietanti di un corpo femminile esposto alla ipertrofia del parto. Nel modello eroico
del ciclo troiano invece il motivo sacrale del cibo viene rifunzionalizzato nel modello prescrittivo
dell’ideologia del banchetto e delle sue giuste leggi. Tuttavia si ritroverà un equilibrio nella
dicotomia maschile-femminile, dove da una parte l’uomo presiede alla corretta spartizione delle
carni, dall’altra la donna è la depositaria della sfera nutritiva della prole.
Demetra e Persefone → figlia di Rea e quindi sposa-sorella di Zeus, al quale genererà Persefone,
Demetra è per estensione la madre dei raccolti di grano, signora della vis vegetativa, incarnazione
di una madre-terra già solcata e lavorata dall’uomo, ispiratrice di una metafora fondante, quella
della donna come campo arabile, e di un nuovo modello femminile alimentare, nel quale la
potenza materica della madre si sposta dal piano generativo a quello nutritivo. Nell’ Inno a
Demetra affiora un rapporto simbiotico tra madre e figlia destinato a risolversi nel segno del
cibo. Demetra quindi genera con Zeus Persefone ( detta anche Kore, l’eterna fanciulla), così madre
e figlia si nutrono a vicenda di un amore intenso ed esclusivo, destinando ai mortali l’eterna
primavera, il rigoglio senza fine di un terra finalmente sazia, generosa e inesauribile dispensatrice
di beni alimentari. Proprio per questo conserva nell’indole l’idea totalizzante di una Madre Terra
che nutre, che elargisce agli uomini cibo e sapere, insegnando loro i principi dell’agricoltura, ma
che soprattutto abbandona gli spazi inabitati, i luoghi aspri e inaccessibili cari a sua madre (Rea, la
meter oreia, la madre montana). L’inno omerico si apre con un canto dedicato alla dea venerabile
“dalle belle chiome” e a sua figlia “dalle caviglie sottili”: l’esilità di queste caviglie non presuppone
tuttavia un corpo logoro, dal momento che Kore gioca con le figlie di Oceano dal florido seno, e
con loro coglie fiori, lasciandosi sedurre dallo spettacolo prodigioso di un narciso, alla cui radice
sbocciano “cento fiori”, insidia autorizzata da Zeus, che una volta nelle mani della fanciulla aprirà
la voragine che la inghiottirà nel regno di Ade. Da quando Ade, dio degli Inferi, rapirà sua figlia, è
noto che il dolore per la perdita di Kore indurrà Demetra a un digiuno mortifero. Un digiuno che gli
uomini pagheranno con una carestia senza fine e che priverà gli stessi dèi dei sacrifici alimentari
offerti loro dai mortali. Durante l’assenza della figlia, la Demetra omerica interromperà il digiuno
due sole volte: 1) quando la regina Metanira, accogliendola a Eleusi le consentirà di farsi nutrice
del figlio Demofonte; 2) quando l’accorta serva Iambe, con scherzi e motteggi, indurrà la dea a
sorridere, rasserenando il suo animo e distraendola dalla sofferenza. Quanto a Persefone, il suo
rifiuto del cibo sarà speculare al digiuno materno e alla sua devozione alimentare di figlia che
continua ad essere tale anche dopo aver acquisito coattivamente il ruolo di sposa. Per
interrompere lo stato critico in cui si trova il mondo a causa dell’assenza di Persefone, Zeus
convince Ade a restituire Kore alla madre, e il ritorno sarebbe definitivo se non fosse che prima di
abbandonare lo sposo negli inferi, Kore non resiste alla tentazione di cibarsi e accetta un chicco di
un melograno offertole da Ade al momento del commiato: ciò assicura a Kore lo statuto di sposa e
la obbliga a un ritorno ciclico nella dimora di Ade e nello stesso tempo riscatta la dea da un amore
filiale esclusivo, in nome del quale una madre troppo madre le aveva proibito di assumere del cibo
che non fosse dispensato da lei. Lo scambio di cibo con Ade dà vita quindi all’eterno ritorno di
Persefone negli Inferi, per assolvere ai doveri di sposa ed emanciparsi dal vincolo anoressico, per
nutrire la conquista di una vita adulta, reiterabile nel tempo perimetrato dal vuoto vegetale.
Erisittone e Pelope→ figlio del re Triopa, la sua leggenda prende forma nella Tessaglia orientale,
dove sorge un bosco sacro alla dea Demetra, ricco di acque e di pioppi, che l’eroe profana
abbattendo un giorno un pioppo nero particolarmente caro alle ninfe. Al tentativo di dissuasione
della dea, che sotto le sembianze di una sacerdotessa preannuncia al giovane i rischi cui lo espone
l’attuazione del gesto sacrilego, Erisittone replica con arroganza, minacciandola con l’ascia e
dichiarando che si servirà della legna di quel pioppo per meglio rivestire la sua casa, per renderla
dimora accogliente e adeguata agli splendidi banchetti che intende condividere con i compagni. La
punizione divina arriva prontamente, come contrappasso della motivazione addotta per
giustificare l’offesa: preda di una violenta fame e insaziabile, Erisittone sarà condannato a
consumare nei recessi della sua casa cibo senza fine, esponendo alla vergogna, alla solitudine e
alla miseria la sua famiglia reale. Tale punizione va letta come deflagrazione radicale sia
dell’ordine domestico che di quel regale e quindi va ricondotta al valore normativo del culto
demetriaco, che nel sistema religioso greco annoverava la dea come garante della forma
corretta, sana ed equilibrata di approvvigionamento e uso del cibo. Tuttavia quel cibo, che in
contesto umano va sottomesso alla misura e alla disciplina della commensalità, del dono,
dell’obbligo rituale, può contemplare alla tavola degli dèi le forme più inverosimili di eccesso.
Basta pensare alla cena del ricchissimo re della Lidia, Tantalo, che invitò al suo palazzo tutti gli dèi
Olimpi e fede cucinare in una grossa pentola di bronzo suo figlio Pelope ancora bambino. Tutti gli
dèi non toccarono cibo, tranne Demetra, che prese un pezzo della carne e lo mangiò. Il digiuno di
Demetra quindi si interrompe quindi inaspettatamente di fronte alla tentazione di un fanciullo
smembrato, le cui carni accendono nella dea, pur stordita e distratta dalla perdita della figlia, la
memoria rimossa del corpo di una Grande Madre e forse anche il legame fusionale con le carni
innocenti dei suoi “figli minori”, quei figli paredri con cui si vuole che la dea si accompagnasse e si
unisse in amore. Quindi censurata nella procreazione (Zeus le impone di non avere più figli oltre
Persefone, perché un maschio lo avrebbe potuto spodestare), privata dell’unica figlia, pericolosa
come ogni madre in lutto, Demetra impone che il suo corpo divino, le cui potenzialità
riproduttive non sono disgiunte da quelle nutritive (il termine gaster in sede omerica allude al
tempo stesso allo stomaco e all’utero), per essere dominato deve essere svuotato. Quanto a
Tantalo, la punizione inflittagli dagli dèi lo condanna a scontare nell’Ade la sua colpa con un
destino infelicissimo: legato a un albero, benchè circondato di cibi e acqua in abbondanza, non
potrà né mangiare né bere. L’astinenza forzata dal cibo sarà del resto a riscatto delle innumerevoli
offese perpetrate ai danni degli dèi, non ultimo il furto di nettare e ambrosia.
Eracle → Con lui il termine bulimia è investito di uno sfondo semantico più ampio. Il termine greco
è composto da bous (bue) e limos (fame) e letteralmente significa “fame di bue”. In sede mitica c’è
la variante boùbrostis, ovvero mangiatore di bue. Tuttavia il consumo di carne bovina era tutt’altro
che usuale in una Grecia agro-pastorale, nella quale il cibo per eccellenza era il frutto dell’attività
cerealicola (orzo, grano e altri cereali) e nella quale gli uomini venivano designati con l’appellativo
di “mangiatori di pane” e nei banchetti raccontati da omero le carni che venivano consumate
erano prevalentemente ovine e suine. La fama di Eracle bouphàgos (mangiatore di bue e per
estensione “grande mangiatore”) è speculare a quella di eroi meno memorabili ma altrettanto
dotati di un appetito alimentare (e sessuale) fuori dal comune come Lepreo, Sileo, Ida, Ateneo o
Camble. Nella mitologia greca quindi c’è una netta contrapposizione tra mondo maschile e
“razza delle donne”: da una parte c’è lo scenario “famelico” di segno maschile, nel quale la
“fame di bue” si converte in “fame da bue”, dall’altra c’è al propensione anoressica di un mondo
femminile che replica allo strazio di una privazione con un digiuno ostinato (ad esempio nel caso
di Demetra il digiuno conosce la sospensione di un regime luttuoso con la spalla di Pelope, mentre
nel caso di Persefone l’interruzione coincide con la garanzia di continuità di uno scambio erotico
con lo sposo, che la riscatta dal giogo materno). Vediamo altri due casi nel mondo delle eroine
tragiche: 1) Fedra: il suo digiuno coincide con lo stato di consunzione cui la induce l’amore insano
per il figliastro Ippolito, che la corrode come “vento nel ventre”; 2) Medea: smette di cibarsi da
quando ha appreso che lo sposo Giasone la tradisce, e nell’afasia del dolore medita una vendetta
in cui il suo sapere del mondo vegetale si converte in potere mortifero, attraverso la preparazione
di veleni letali (non va dimenticata la stretta parentela che lega Medea a Circe, la mitica maga che
del cibo fa strumento di potere e di controllo della sfera maschile). Va poi detto che la condotta
alimentare viene messa in sede mitica in relazione alla metafora sessuale. Sul versante maschile
alla fame smodata di Eracle fa puntualmente da contrappunto la sua eccitazione sessuale, dove
l’appetito erotico non meno robusto dell’eroe lo porta a fecondare in una sola notte le cinquanta
figlie di Tespio. Forse l’eccitazione erotica e quella bulimica prendono le mosse in Eracle a partire
dalla perdita irreparabile di un seno materno: si narra infatti che all’indomani della sua nascita,
dopo l’allontanamento forzato dalla madre Alcmena, Era, persuasa da Atena, abbia offerto il suo
seno a Eracle e il neonato succhio con tale forza da ingenerare nella dea un dolore insopportabile
tanto da indurla ad allontanare con violenza da sé il corpo del neonato. In seguito questa fame
malvagia e smodata diventa, nella letteratura più tarda, contrassegno identitario della figura del
parassita, soggetto liminare per antonomasia, non tanto per l’eccessiva golosità o voracità, quanto
per la postura anticonvenzionale e antieroica che lo sottrae alle regole della comunità e lo porta ad
una sanzione derisoria della collettività, propria del superamento rituale di una tensione critica.
Il banchetto di Itaca → nell’Odissea nei capitolo del banchetto, c’è tutto il valore di un convivio
alimentare nel quale il rovesciamento simbolico posto in essere dai Proci rammenta in sede epica
le prescrizioni divine e le giuste leggi previste per il giusto consumo di un cibo sacrale. Vediamo i
diversi indizi omerici: 1) la sala del banchetto si farà teatro di sangue e di morte, quindi sarà cura di
Ulisse, al compimento della vendetta, far purificare con fuoco e zolfo per non incorrere nella
punizione degli dèi e ripristinare un nuovo equilibrio alimentare; 2) la metamorfosi di Ulisse, che
viene accolto dai commensali come un cane, come un pazzo, un parassita, ma che verrà
progressivamente riconosciuto come un ospite inviato dalla volontà divina e che Telemaco farà
sedere dentro la sala, apparecchiandogli una mensa, offrendogli la sua parte di viscere,
versandogli vino in un calice d’oro; 3) l’uso improprio del cibo come arma da parte dei Proci
usurpatori, che scatena la vendetta di Atena, la quale instilla loro “un ridere inestinguibile” che ne
stravolge la mente: infatti Ctesippo, uno dei pretendenti, consuma il gesto sacrilego scagliando
contro Ulisse una zampa di bue. A questo punto i Proci cadranno sotto i colpi di Ulisse, del figlio e
dei loro compagni fedeli. Il banchetto omerico quindi sintetizza per noi una tassonomia del
linguaggio simbolico del banchetto ospitale, e in particolare di quello regale.
Sangue e latte → Il corpo della donna, costitutivamente umido, sottomesso a un’incessante
ciclicità sanguigna che lo libera solo temporaneamente dagli eccessi umorali, trova il suo momento
di pieno benessere nella breve stagione che va dalla gravidanza all’allattamento, quindi nel
processo di lenta trasformazione del sangue mestruale in latte. Tra sangue e latte si muove il
travaglio simbolico di un lento processo di assimilazione civica e storica di una madre, sarà
infatti il suo latte a fare di una puerpera un’oplita a servizio dell’officina nutritiva di una città. Da
kourotos, procreatrice di figli, a kourotrophos, nutrice di un feto prima, di un neonato poi, in
attesa che sia la patria ad assumersi il compito della vera crescita di un cittadino nel cuore
storico della città. La credenza che il latte fosse sangue purificato, materia nutritiva prima del feto
e poi del neonato, risale già al pensiero presocratico, ma è Aristotele a ratificarne l’efficacia,
insistendo sul concorso dell’elemento generativo maschile, definendolo un sangue trasformato
“per cottura” grazie al contatto vivificante dello sperma. Ma una volta emancipato dal ricordo
primordiale di un seno materno, che ruolo riveste il latte nella condotta alimentare quotidiana?
Se torniamo all’epos omerico, nel canto XIII dell’Illiade Zeus, distrattosi dalle battaglie di Troia
sembra volgere il suo sguardo benevolo sui nobili Ippemolghi che fanno largo uso di latte, oppure
Erodoto sottolinea la vita nomadica dei Libici e il loro grande consumo di carni e latte, o ancora
Strabone nella sua Geografia dice degli Ippemolghi che sono nomadi e hanno una predilezione per
latte di cavalla e latticini. Nell’Odissea c’è poi Polifemo, più simile ad una bestia che a un uomo,
che pone nella sua dimora abbondanza di caci e boccali traboccanti di siero. Curioso quindi come
nei due poemi omerici il latte precipita nella sfera del dis-umano e il suo prestigio nutritivo
sembrerebbe decadere, a tutto vantaggio di quello sacrificale: ad esempio Circe dice a Ulisse che
per entrare in contatto con le ombre dei defunti deve offrire per prima cosa abbondanti libagioni
di miele e latte, di vino soave e di acqua, con la promessa di un sacrificio animale appena giunto in
patria. Del resto è impossibile trovare nell’arte figurativa greca una donna che allatta, mentre è più
facile trovare una balia che lo fa. Pensiamo alla Clitemnestra di Eschilo, che tenterà di dissuadere il
figlio Oreste dal progetto matricida, denudando i suoi seni e ricordando con enfasi “il dolce latte”
che lo nutriva e ne assecondava il sonno nella prima infanzia. Tuttavia prima di incontrare il figlio,
Clitemnestra sogna di partorire un serpente, di avvolgerlo in fasce come un figlio e di offrirgli il
seno, per poi scoprire che con il latte il neonato succhia anche un grumo di sangue. Quel dolce
latte mescolato con un grumo di sangue è un segno ineludibile del pericolo di un legame nutritivo
che prolunga il vincolo uterino tra un figlio e una madre: Oreste lo teme e lo rinnega, questo
legame, nel suo percorso di purificazione dal matricidio. Nutrire un figlio con il proprio latte
significa in altri termini incorporarlo, significa irretirlo nel tempo sospeso di un parto senza fine.
Meglio allora una nutrice, figura discreta che affianca una madre con l’affetto devoto di un’intimità
nutritiva riscattata da ogni legame parentale. Basti pensare a La Repubblica di Platone, nel quale si
auspicava l’espropriazione delle madri dell’abbraccio simbiotico delle loro creature, incoraggiando
un allattamento accuratamente “casuale”, rigidamente vigilato nei nidi d’infanzia, ispirato al
principio del disconoscimento politico di ogni legame tra la madre e il lattante.
Il corpo

Il seno → Nel Mediterraneo antico il seno è associato all’archetipo dello sguardo e degli occhi,
come ci confermano alcune figure mitiche: Hator, la vacca sacra egizia, madre di Horus che crea il
cosmo e i cui occhi diventano simbolo ancestrale del potere femminile, mentre le sue mammelle,
datrici di abbondanza, giustificano nell’iconografia più arcaica la falce lunare e le corna che
adornano il suo capo ed enfatizzano in quella tolemaica la funzione nutritiva del figlio divino.
Analogamente, la Potnia Cretese, signora dei serpenti con occhi e capezzoli in perfetta simmetria,
si fa controfigura arcaica di Era, la sposa di Zeus dai “grandi occhi bovini”, che nell’iconografia
corrente, fino al tardo ellenismo, esibisce occhi grandi e seni nudi, per meglio trasmettere e
accentuare la sacralità dell’immagine di una dea il cui seno garantisce l’immortalità a chi lo
succhia. Nella versione più arcaica, in veste di Signora delle fiere, con un abito istoriato di animali,
anche l’Artemide di Efeso esibisce grandi occhi, in simmetria piena con un busto tempestato di
presunte mammelle, simbolo ipertrofico di della vis generativa di una dea che, pur vergine,
presiede al parto delle donne. Un potere quello di Artemide che Freud ebbe modo di connettere
con l’immagine di una madre fallica e che esige estrema cautela di chi lo fronteggia o solo lo
incrocia. Nel mito greco troviamo Tiresia, accecato dalla potenza dello sguardo ( e del seno) di
Atena sorpresa al bagno. Oppure Atteone, che mutato in cervo muore sbranato dai suoi cani, per
aver posato incautamente lo sguardo proprio su Artemide nuda. O infine Edipo, che per aver
riposato come amante sui seni di sua madre consegnerà il destino alla cecità. Sono tutti eroi mitici
che non riescono a distogliere lo sguardo dal corpo assoluto di una dea, di una madre o di
un’amante divina, il cui seno si offre come pars pro toto, che giustifica anche la persistenza nei
secoli dell’autarchia tirannica di una Gaia dal seno ampio che generava da sola. Tuttavia mentre è
ampio il seno di Gaia, sterile per il dolore generato per Kore è quello di Demetra, che tuttavia verrà
mossa al sorriso dalla vecchia Baubo, che dopo aver mimato un rapporto sessuale, agitando seni e
fianchi possenti, al rifiuto della dea di nutrirsi, simula il sorriso di un giovane che parla facendo con
i capezzoli gli occhi e con la vagina la bocca. Tale complicità sessuale esclusiva al femminile nello
scherzare sulle oscenità del corpo è completamente ribaltato nel significato di un seno nudo
esibito a un figlio. Pensiamo alla Ecuba omerica, che per distogliere il figlio Ettore dalla battaglia,
quando si rese conto che le sue parole restavano inascoltate si denudò le mammelle, un gesto che
non solo evoca il richiamo al suo latte materno. Oppure Clitemnestra, che tenta di fermare la
mano matricida del figlio Oreste opponendogli la potenza del proprio seno nudo, gesto che funge
da strumento di intimidazione che infatti paralizza per un momento il ragazzo. A partire dal
modello eschileo, il gesto intimidatorio di una madre che scopre il seno transiterà dal mondo
antico ai repertori folklorici contemporanei, a indicare un potenziale di altissimo rischio, che può
formalizzarsi nella maledizione più terribile. Cosicchè se la gola femminile diventa lo spazio
sacrificale prediletto dagli officianti epici e tragici (colpite alla gola muoiono Ifigenia, Clitemnestra,
Polissena) o quello su cui si pianta l’arma del suicidio (il cappio di Giocasta o di Fedra o di Erigone),
il seno rappresenta spesso, nell’inventario simbolico femminile, l’invito eccentrico di una donna a
lasciarsi colpire in una zona interdetta alla lama. Nell’ Ecuba di Euripide, ad esempio, anche la
vergine Polissena, prossima al sacrificio, denuda le mammelle e ostentando un seno mirabile e
statuario invita Neottolemo a colpirla lì, se lo preferisce, gesto che il figlio di Achille si guarderà
bene dal compiere. Inoltre Euripide utilizza due termini per la parola seno: prima lo chiama
mastous , che rinvia al seno materno, poi sternon, è il petto come fonte di affetto, estetico o
sentimentale. Dal mondo romano invece Virgilio nell’Eneide ci descrive di Pentesilea alla guida
delle Amazzoni bellicose, la quale risalta per la cintura d’oro annodata sotto il seno nudo e che
lotta con uomini armati con la potenza devastante di una vergine guerriera. Chiamata a Troia da
Priamo dopo la morte di Ettore, Pentesilea viene affrontata da Achille, che dopo averla uccisa se
ne scopre innamorato e viola il suo corpo esanime ma ancora caldo. La versione tardo-antica del
mito ci narra che quando il guerriero acheo Tersite, irridendo Achille per l’amplesso post-mortem
strappa gli occhi al cadavere della regina amazzone (la mitografia più tarda vuole invece che si
mutili il seno), Achille non esita a ucciderlo. In questa prospettiva è significativo che spetti a Eracle
porre fine al regno delle Amazzoni, dopo aver privato Ippolita della sua cintura regale; lo stesso
Eracle che in sede omerica può consentirsi di ferire Era alla mammella destra con una freccia a tre
punte (dalla leggenda della conquista di Pilo); lo stesso Eracle che abbiamo visto neonato
succhiare a Era il latte che rende immortali e morderne il capezzolo con tale forza che la dea,
trafitta dal dolore, lo allontana violentemente. Dal latte che sgorga dal seno violato si narra che si
sia formata la via lattea, mentre Eracle, privato del liquore divino, cresce insaziabile, sempre
affamato ed eroticamente incontinente. Oltre il mito anche la storia ci mette in guardia dai rischi
che corrono per un seno oltraggiato o negato. Erodoto ci narra in proposito a quale destino tragico
si espose una donna che osò amputare il seno delle sue nemiche. Si tratta di Feretima, madre di
Arcesilao di Cirene, che dopo aver appreso della morte del figlio ad opera dei cittadini di Barce,
approdò in Egitto e chiese al governatore Ariande di aiutarla a vendicarne l’eccidio. Ariande inviò
un araldo perché intercettasse l’autore del delitto ma i Barcei si assunsero tutti insieme la
responsabilità. A quel punto offrì a Feretima un esercito armato che consegnò alla regina i “più
responsabili” tra i colpevoli. Feretima li fece impalare attorno alle mura della città e fatte amputare
le mammelle delle loro donne, costellò anche di queste le mura. Tuttavia la donna quando fece
ritorno in Egitto morì di mala morte. Sul versante cristiano interessanti sono gli esempi di
Sant’Agata e San Mamante (entrambi del terzo secolo). Agata è una delle figure più venerate dalla
santità femminile in Sicilia e il suo culto è stato a più riprese interpretato come una
risemantizzazione cristiana di culti isiaci (della dea Iside) e afrodisiaci. Diaconessa del culto
cristiano, Agata era impegnata nella evangelizzazione di giovani prostitute presso il tempio di
Afrodite a Catania. Il martirio della santa fu l’esito della sfida lanciata dalla vergine, quando
all’intimidazione del governatore Quinzano affinchè offrisse sacrifici a Venere, Agata replicò
definendo impudica la dea. Il martirio contemplava l’ablazione del seno e l’iconografia ce lo
attesta, insistendo sull’esposizione diretta da parte della santa delle mammelle già asportate. C’è
poi San Mamante presente nel folklore europeo e il cui culto è ancora oggi attestato nel nord
d’Italia da due piccoli santuari in provincia di Belluno e Treviso, mentre al sud confluisce in
analoghi personaggi come la Santa Mennaia venerata dalle donne lucane o il Santo Munnanu in
Sicilia. Controfigura del San Mama di Cesarea martire in Cappadocia, il san mamante bellunese
attira l’attenzione dei folkloristi per il latte copioso che sgorga dai suoi seni il giorno in cui,
governando il suo gregge, rinviene in un cespuglio un neonato abbandonato.
La vulva → riprendiamo la scena di Demetra e Baubo. La fonte principale e più arcaica della
narrazione mitica è l’ Inno Omerico a Demetra che offre una versione meno esplicita di questo
gesto e attribuisce a Iambe (e non a Baubo), serva di corte di Celeo e Metanira regnanti di Eleusi,
scherzi e motteggi che generano nella dea un sorriso inatteso, senza contenuti osceni. Bisognerà
attendere la lettura più tarda di Apollodoro o quella di Diodoro siculo perché la serva diligente dell’
Inno Omerico si trasformi in una vecchia avvezza a quei discorsi osceni prescritti nelle celebrazioni
eleusine o nelle Tesmoforie attiche. Infatti tale discorso mitico presenti nei versi rappresenta il
modello di momenti rituali del culto eleusino, nonché dei gephyrismi, gli insulti osceni lanciati dal
ponte costruito sul fiume Cefisso, lungo la strada che congiunge Atene a Eleusi. Numerosi erano
inoltre i motivi simbolici del digiuno e importante il seggio ricoperto di una pelle d’ariete che è
appunto il manto lanoso che riveste la dea velata nell’ inno omerico. Allo stesso modo il riso
rituale e corale, ritornerà nelle invettive oscene previste il terzo giorno delle Tesmoforie,
festività connesse con il culto di Demetra, all’interno di un movimento processionale che
contemplava la presenza di un nume tutelare, Iacchos, e di una porne, una meretrice cui
spettava replicare nel rito la parte di Iambe. Inoltre le donne accompagnavano le oscenità
verbali con il sollevamento rituale delle vesti. Questa vulva “in maschera” ricorda le statuette
gastrocefale del IV secolo a.C. che rappresentano la parte inferiore del corpo femminile dove
bacino, ventre e vulva prendono forma di una testa-ventre sormontata da una folta chioma. Tali
metamorfosi caricaturali per le quali i seni rappresentano gli occhi, l’ombelico il naso e la vagina la
bocca trovano un contrappunto iconografico nelle molteplici immagini di Medusa, la cui bocca si
allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo denti come zanne e lingua che
fuoriesce, il mento peloso e la pelle solcata da rughe. Se Baubo esibisce un viso sul ventre, Medusa
porta scolpito un ventre sul viso: il suo volto infatti coincide con la rappresentazione cruda e
brutale del sesso femminile, una sorta di ripugnante vagina dentata. Si può dire che Medusa sia
l’alter-ego di Baubo, anche se mentre la prima atterrisce gli umani, la seconda irretisce e forse
irride una dea. George Devereux dice inoltre che Medusa sia uno “specchio invertito” perché si
crede di guardare il suo volto, ma il realtà è quel volto che guarda e pietrifica, si attende un viso e
si presenta un organo sessuale, si è convinti di contemplare la parte alta del corpo e si rivela in
tutta la sua ambiguità una basso-ventre ghignante. Inoltre il nome Baubo ricorda il termine
baubon, che nella sua terminazione maschile indica il godemichè, il penis coriaceus, cioè lo
strumento di forma fallica adoperato nell’onanismo femminile. C’è inoltre chi dice che Iacchos, la
cui immagine affiora tra le pieghe del corpo di Baubo, fosse denominato il “demone di Demetra”,
neonato che svetta da un solco mentre un contadino sta arando il campo, frutto commestibile che
viene portato in processione ad Eleusi con una culla. La sua rappresentazione orfica lo vuole
allevato da Persefone nel mondo sotterraneo, dove resta per tre anni ostaggio di un sonno
letargico nella sua culla. Il suo legame con il mondo infero e con il motivo del solco e dell’aratro ci
richiama con forza la predisposizione di Demetra per figli-amanti come Iasìone, nonché l’inattesa
voracità che la indusse ad addentare la scapola del giovane Pelope. Iacchos, genio tutelare del rito
processionale eleusino, evoca il puer aeternus dai tratti androgini che manipola “sotto il seno” il
corpo di Baubo. Potrebbe rappresentare l’alter-ego di Dioniso, oppure incarnare il fanciullo di cui
nei misteri eleusini lo ierofante con grida e urla annunciava la nascita, dopo l’unione sacra tra Zeus
e Demetra.
La voce

Eco → era la ninfa loquace del racconto di Ovidio, le Metamorfosi, la quale parlava, parlava senza
tregua per ore intere al cospetto di Era, la sposa di Zeus, e i suoi lunghi sermones avevano lo scopo
di distrarre la dea dalle fughe amorose del Signore dell’Olimpo, attratto e sedotto dalle sue
compagne, le ninfe oreadi, abitatrici dei monti. Abile e dotata di eccellenti qualità retoriche, Eco
aveva appreso probabilmente da Pan, suo amante e compagno montano, la potenza incantatoria
del suono. Con il dio si narra che avesse generato due figlie: Iynx, che insinuò in Zeus l’amore per
la vergine Io e che viene punita da Era trasformandola in un uccellino, e Iambe, personificazione
mitica della poesia giambica e colei che ridiede il sorriso e l’appetito a Demetra. Secondo la
narrazione ovidiana, quando la dea scopre l’inganno di Eco, medita per lei la più efficace delle
punizioni: potrà dire soltanto la parte finale di un discorso che sente. La sua voce quindi coinciderà
per sempre con la mortificazione di un corpo condannato a una funzione responsiva, deprivato di
ogni potenzialità comunicativa. A questo punto della favola ovidiana fa la sua comparsa Narciso.
Eco nel vederlo in quella solitudine montana si accende di desiderio ma non poteva prendere
iniziativa data la sua condizione, quindi è costretta ad attendere che lui parli e poi ripetere le sue
ultime parole, cercando di conferire senso a un dialogo impossibile. Ad un certo punto però
Narciso urla “Qui uniamoci”, dunque Eco può rispondere con grande gioia “Uniamoci!” e così Eco
esce dalle fronde per abbracciarlo ma Narciso la respinge. Narciso pagherà la colpa del rifiuto e del
disprezzo per l’amore di Eco rimanendo imprigionato nell’autocontemplazione della sua immagine
fino alla morte quanto a Eco, consunta dalla delusione, muore attraverso la dispersione nell’aria
del suo corpo (la sua voce comunque rimane) mentre le sue ossa diventano rocce. In generale
comunque il linguaggio, irriducibile al silenzio, diventa regressione vocalica, ripetizione
automatica di un parlare senza senso e perde il lessico di un godimento adulto. Nel corpo di Eco
che si estingue, si smaterializza anzitutto la potenza simbolica del corpo di una donna-madre. Nella
sua voce che sopravvive all’assenza, rimane solo il richiamo vocalico di quel corpo materno, la
relazione simbolica con una dea-madre. Sia sulla voce dell’una e sull’ imago dell’altro è presente
l’impossibilità di attingere all’oggetto del proprio desiderio, così mentre il “narcisismo” di
Narciso è primario in quanto ama se stesso, quello di Eco è secondario perché la donna adotta
un balbettio che riproduce la scena dell’ infanzia, una fusione originaria della relazione madre-
figlio. Torniamo però al rapporto tra Eco e Pan. La versione più radicale del mito ci dice che Eco,
allevata da ninfe canore, aveva appreso a cantare con tale abilità da non temere rivali. Dalle Muse
aveva anche imparato a suonare su flauto e zampogne musiche concepite per la lira e per la cetra.
Paga del suo talento, orgogliosa della sua verginità, Eco rifuggiva gli amori di uomini e dèi. Fino a
quando, respinto nel suo desiderio e invidioso delle doti musicali di Eco, punisce la ninfa
infondendo nei pastori un tale furore che questi si avventano su di lei come cani e la fanno a
brandelli, spargendo per tutta la terra le membra che continuano a cantare. La terra poi per
compiacere le ninfe ricopre le membra ma ne conserva il suono, cosicchè Eco non smette di
emettere la voce e di imitare tutto. Nelle Dionisiache di Nonno di Panopoli, Eco mette la propria
voce a servizio di Dioniso nascituro. Alla ninfa vengono infatti attribuiti i sussulti e le danze ispirate
della madre mortale del dio, la fanciulla tebana Semele ingravidata da Zeus e destinata a morire
fulminata dal suo amante divino. Inseguendo appunto il suono di una zampogna o di un aulos che
Eco rimanda dai campi, Semele introduce all’estasi della danza il figlio divino che porta in grembo
e che non vedrà mai nato. Nel passo di Nonno, Semele ed Eco sono una cosa sola, forse anche in
virtù delle analogie del loro destino: la folgore di Zeus, nel caso di Semele, dissolverà il suo corpo
in cenere, precludendone il parto, quindi saranno le Baccanti a far rivivere il suo corpo e la sua
voce per volere di Dioniso, nel segno di una danza rituale sfrenata e orgiastica; analogamente la
voce di Eco, in assenza di un corpo, sopravvivrà, terribile a udirsi, negli antri montani. Metafora di
un’alterità irriducibile, tornerà puntuale al suo emittente, a ricordare la coscienza di un oltre e di
un confine. Inoltre Eco in un epigramma viene definita una “terribile dea dalla voce umana”,
proprio come erano state definite nell’Odissea, Circe e Calipso. La grecista Nicole Loraux lo ha
definito un “superbo ossimoro” che giustappone l’inconciliabilità del femminile, dell’essere dio e
della voce umana. A giudicare dalle sorti di Eco e delle sue figlie appare evidente che una voce
femminile può divenire specchio acustico di altre voci di soglia tra il divino e l’umano, tra il doppio
e l’assente. Tant’è che alcune fonti attribuiscono a Elena l’identità di Eco, che nell’Odissea, con
grande abilità mimetica, imitò le voci di tutte le spose argive dei guerrieri nascosti nel cavallo di
Troia nel tentativo di farli uscire allo scoperto.
Teano → è una delle più celebri figure femminile dell’antichità, una filosofa che dalle coste di
Crotone seppe accogliere e intuire la grandezza di Pitagora, ne custodì l’eredità sapienziale e si
affidò alla disciplina del silenzio per deportarne la sua fama nella storia. Famose è una lettera
inviata ad una sua amica che viene tradita dal marito con una cortigiana, nella quale Teano
contrappone la scompostezza di un rapporto segnato dalla violenza dell’eros che si organizza nel
corrispettivo simbolico del flauto, alla misura e l’affidabilità di una moglie che si riverbera nelle
corde sensibili di uno strumento come la lira. Ma vediamo la nascita mitica di questi due
strumenti, la lira e il flauto. La creazione della lira viene attribuita ad Hermes che nell’ Inno
Omerico , il quale appena uscito dal corpo di Maia, varcò la soglia della grotta che custodiva il
segreto della sua nascita clandestina e andò alla ricerca dei buoi sacri di Apollo. Ma trovò per
prima una tartaruga, nel cui guscio intuì le potenzialità sonore. Con gesto rapido la portò nella
grotta, la aprì, fissò nel guscio due canne, pose un attacco e vi tese sette corde di budello di
pecora. Quando ruberà 50 mucche ad Apollo, Hermes gli fa udire il suono meraviglioso dello
strumento, inondandolo di un emozione calda e serena. Hermes donerà la lira ad Apollo il quale in
cambiò gli darà due verghe magiche, che faranno del dio il pastore per antonomasia, ma anche il
mediatore tra mondo animale e mondo umano, tra uomini e dèi, in qualità di messaggero. La lira
consentirà ad Hermes di tessere le lodi degli dèi ed Apollo se ne servirà per accompagnare il canto
delle Muse. Circa invece la nascita del flauto, strumento associato al furore bacchico, all’estasi
dionisiaca, ma anche alla potenza della Grande Madre degli dèi, il mito connette la nascita di
questo strumento ad Atena, che creò appunto il flauto per imitare il suono stridulo delle Gorgoni.
La dea quindi prese a suonare lo strumento con grande impeto, ma quando scorse casualmente il
suo viso fra le acque di un ruscello restò sconvolta dall’effetto che produceva lo sforzo
dell’insufflazione: infatti il viso della dea emergeva trasfigurato, deturpato, simile, nel ghigno
raccapricciante, al volto di Medusa. Atena allora scagliò lo strumento più lontano possibile,
lasciando che un simile prodotto dell’intelligenza divina si facesse strumento per eccellenza del
furore orgiastico, del delirio delle donne invasate, delle danze bacchiche. L’allontanamento del
flauto non può che coincidere con l’intrinseca adesione verso il suono dolce e rassicurante della
lira. Sarà appunto al suono della lira che Atena si mostrerà a Telemaco nel canto I dell’Odissea, per
esortarlo al viaggio e rassicurarlo sul ritorno del padre. E anche Penelope, sollecitata dal suono
della lira e dal canto dell’aedo Femio, interrompendo la fatica del telaio, chiede all’aedo di
interrompere una narrazione che le spezza il cuore, finchè non tornerà nelle sue stanze nel silenzio
e nell’attesa e visitata nel sonno da Atene. C’è quindi questa propensione da parte di Atena e
Penelope nei confronti della lira, strumento che appunto Teano aveva associato all’immagine della
sposa fedele. Per tornare appunto a Teano e alla dottrina pitagorica, i principi generali erano
l’enfasi attribuita al destino riproduttivo della donna, l’auspicata autodisciplina nella cura di sé e
dei propri familiari e l’accentuazione dello spazio domestico come luogo deputato ad
armonizzare la saggezza femminile in un universo “chiuso”, definito dai legami di parentela e
dalle relazioni domestiche. Così non stupirà che, relegate nello spazio domestico ed escluse dalla
sfera pubblica (tranne il recarsi al tempio di Apollo, protettore della città di Crotone), le donne,
dopo essere state iniziate alla disciplina del silenzio, appaiono come i contenitori più sicuri del
“verbo pitagorico”. Prolifica scrittrice, della quale tuttavia ci rimangono pochissimi titoli, Teano
sembra esercitare la sua attenzione sul tema del silenzio nei confronti della natura femminile.
Infatti oltre che una pratica esoterica volta a difendere alcune verità della scuola, oltre che una
prova iniziatica (pare che Pitagora imponesse agli aspiranti discepoli cinque anni di silenzio), l’arte
del tacere rappresentava la virtù più apprezzata dell’animo femminile e infatti pare che
l’impegno divulgativo di Teano si realizzi anzitutto in una accurata pedagogia del silenzio: un
silenzio inteso come regola di vita volta a riplasmare entro un regime di saggezza e di virtù una
natura femminile costitutivamente inadatta alla vita pubblica, ma saggia padrona dello spazio
domestico (anticipando di più di un secolo lo statuto etico prescritto da Platone). Così attraverso
un’instancabile opera di domesticazione, la donna su cui Teano esercita la sua paideia piegherà la
sua natura indomita, rendendo eloquentemente muto un corpo che viene avvertito e temuto
come luogo virtuale dell’alterità, della destabilizzazione di ogni principio razionale, di costante
attentato al sublime destino dell’anima. Nei suoi scritti Teano utilizza il modello mitico per istruire
le sue discepole e le ammonisca a far proprio il modello di Penelope, maestra di silenzio, per non
incorrere nel rischio di somigliare a Medea, sposa ribelle e madre assassina. Entrambe comunque
sono dedite al silenzio, ma con obbiettivi di diversa natura: il silenzio di Penelope accompagna la
sua sofferenza mentre tesse in attesa dello sposo, quello di Medea prelude alla collera omicida,
preannunciando un’ira funesta che farà vittime i suoi figli. La donna auspicata da Teano dovrà
pertanto rigenerarsi come “contenitore” muto ed abile, come sapiente ministra di un sapere
precluso a ogni spazio pubblico. Eloquente a questo proposito appare l’episodio della pitagorica
Timica (altrove attribuito alla stessa Teano) la quale, prigioniera del tiranno Dionisio di Siracusa,
che tentava di conoscere gli elementi misterici della scuola pitagorica, pur di non parlare si staccò
la lingua e la sputò sul volto del tiranno, temendo che la sua debole natura di donna,
soccombendo sotto i tormenti, fosse costretta a rivelare alcunchè dei segreti della setta. In questa
prospettiva il silenzio femminile viene posto in stretta connessione con il pudore, ovvero con la
vocazione a proteggere e a celare di fronte agli estranei la propria identità, nonché la propria
fragilità emotiva e psichica. Il silenzio come habitus, che riveste la donna, ne delinea l’ ethos e ne
occulta il pathos. Non a caso nel discorso di Pitagora alle donne riportato da Giamblico, il filosofo
invita le adepte a pronunciare poche e caste parole per tutto il tempo della loro vita. La donna,
dice Pitagora, deve dominare la lingua soprattutto di fronte agli estranei in quanto per le donne
“parlare equivale a spogliarsi”: quindi la presenza della voce rischia di tradire il frastuono di un
corpo che oltrepassa gli argini di un destino riproduttivo, unica ragione della sua visibilità sociale.
Nel mondo greco del resto, come nelle sue colonie, il riconoscimento sociale di una voce
femminile si attua solo in assenza di un corpo visibile: si pensi, per tutte, alla voce mantica della
Pizia (o, in area magno-greco, della Sibilla), che solo annullando il proprio corpo, rendendolo
impenetrabile alla vista dei fedeli può farne strumento di passaggio della parola divina. La
coesistenza di un corpo e voce in un soggetto femminile viene di contro percepita come segnale
inconfutabile di una condizione anomala: si pensi alle inquietanti voci gutturali delle Danaidi,
vergini ribelli rispetto a uno statuto etico-politico che le consacrate alla coniugalità, o ai latrati
delle Baccanti o ancora ai canti bellissimi ma fatali delle sirene. Per tornare ai due strumenti citati
all’inizio, il flauto e la lira, va detto che numerose rappresentazioni iconografiche mostrano le
Sirene “musicanti” che armonizzano la seduttività della voce e del canto con l’accompagnamento
proprio dell’ aulos o della lyra. Mentre il flauto è lo strumento dell’inganno per antonomasia, la
lira, così virtuosa e normativa, sembra contrastare con la natura delle Sirene. Tuttavia troviamo la
lira principalmente nell’iconografia tardo ellenistica e romana, nella quale lo schema è sempre lo
stesso: tre sirene attorno alla nave di Odissea, delle quali una canta e le altre due suonano, una la
lira e l’altra il flauto. La presenza della lira può essere spiegata dal fatto che l’elemento più
pericoloso è comunque la voce, qualsiasi sia lo strumento preposto a modularne le tonalità. Per
quanto riguarda Platone egli afferma nella Repubblica che il silenzio della puerpera garantirà
l’equilibrio del nascituro e nella sua visione delle sfere celesti ci sono otto Sirene che sostengono i
movimenti rotatori del fuso che si svolge sulle ginocchia della dea Ananke, e trascinate dal
movimento circolare emettono un’unica nota su un unico tono generando armonia. Quindi la voce
delle sirene (e quindi della donna) se sottomessa alla monotonia corale, genera armonia.
La seduzione

Amanti divine → con la creazione della prima donna, Pandora, l’eros fa ingresso nel mondo dei
mortali e se è vero che il richiamo sessuale è essenziale per la riproduzione di qualsiasi essere
vivente, non meno vero è che l’eros greco è tiranno, promessa di catastrofe per il sé maschile. Nel
libro XIV dell’Iliade il desiderio erotico è una forza esterna che afferra e mobilita colui che ne viene
assalito. Mentre infatti sul campo di Troia impazza la battaglia, gli dèi si schierano: Zeus dal monte
Ida vigila sul destino dei Troiani, mentre Era si pone dalla parte degli Achei. Quando scorge lo
sposo sulla cima più alta del monte, decide di ordire ai suoi danni un inganno che valga a distrarlo
e che consenta ai Greci una svolta favorevole. Era infatti procede a un accurato lavacro, unge il suo
corpo con ambrosia profumata, intreccia i capelli lucenti e si fa dare da Afrodite una fascia
ricamata che sostiene il proprio seno. Abbandonata la vetta dell’Olimpo, non resta a Era che
convincere Hypnos, il dio del sonno, ad assecondare il suo piano infondendo a Zeus, dopo
l’amplesso, un lungo sonno ristoratore. In cambio avrà in sposa Pasìtea, una delle giovani Grazie di
cui il dio è da sempre innamorato. Ecco che allora Era raggiunge il monte Ida, Zeus la vede e la
desidera come la prima volta, Era finge resistenza per il luogo visibile a tutti, allora Zeus raccoglie
nubi dal cielo e trasforma la montagna pietrosa in un giaciglio profumato. Dopo l’amplesso quindi,
una volta che Zeus viene addormentato da Hypnos, Era corre verso le navi Achee e invita
Poseidone ad aiutare i Greci. Nell’ Inno Omerico ad Afrodite dopo aver elencato le opere di una
dea che infonde “dolce desiderio” tra gli dèi e che nel segno dell’eros domina le stirpi di uomini
mortali e di tutte le creature viventi, dopo aver ricordato che solo le tre dee vergini (Atena,
Artemide, Estia) sono insensibili al suo canto, l’aedo omerico si riconnette al tema della sfida con
Zeus, di cui Afrodite ripetutamente “sconvolse il senno”, inducendolo a unirsi con donne mortali.
Zeus allora ridimensiona il potere di Afrodite, rendendola a sua volta vittima della brama che
instilla agli dèi e ai mortali. Tuttavia va detto che il potere di Afrodite evocato nell’ Inno è
indifferente al tema della fecondità e riguarda il desiderio amoroso fine a se stesso, il gamos
come amplesso e non come unione legittimata dalle nozze. Protegge l’amore reciproco e quello
non corrisposto, tutela le gioie dell’incontro amoroso, incoraggia le unioni illecite e conforta i
tormenti della passione omossessuale. Il culto poliedrico della dea sarà destinato a prolungarsi
nella pratica della prostituzione sacra, mentre per quanto riguarda la sua nascita, nell’ Iliade si
narra che sia il frutto dell’unione tra Zeus e Dione, alter-ego femminile di Zeus e sua paredra a
Dodona, invece nella Teogonia Esiodo ne ascrive la nascita alla spuma marina, originata dal
seme del membro di Urano, evirato dal figlio di Crono. Sulle origini e la diffusione del suo culto le
fonti sono concordi nel riconoscere un influsso fenicio e più in generale semitico mediato dalla
transizione egea della dea a Cipro e a Citera. Stando a Erodoto, dietro Afrodite si palesa la semitica
Istar-Astarte, con cui condivide la bisessualità e la propensione per le armi e dalla quale è mutuato
il costume della prostituzione rituale. Un’Afrodite barbuta e fallica armata di spada era poi oggetto
di culto in Asia Minore, nella regione denominata dai Greci Panfilia (la terra di tutte stirpi) che
fronteggia Cipro. Va poi detto che Afrodite viene anche definita Filommedea da Esiodo con il
significato letterale di “colei che nacque dai genitali”, mentre in Omero con il significato di “amica
del sorriso”, in quanto irride con il desiderio. Nel Simposio platonico invece viene definitivamente
scissa in due elementi: Afrodite Urania, dea tutelare dell’eros “celeste”, superiore e Afrodite
Pandemos (di tutto il popolo), personificazione della bassa vita sessuale e in particolare della
prostituzione. Per tornare alla punizione che Zeus infligge alla dea, egli le infonde un desiderio
irrefrenabile per il giovane Anchise, che cede alla seduzione della dea (dall’unione nascerà Enea) e
per questo viene punito da Zeus colpendolo con un fulmine che lo renderà zoppo. Quando Anchise
si accorge che la donna con cui è stato è in realtà una dea si copre il volto con le mani invocando
Afrodite di risparmiargli la morte o la mutilazione, ma Afrodite gli dice invece di stare tranquillo e
che avrà un figlio che regnerà sui Troiani. L’Inno si chiude con il racconto della dea, che narra al
giovane amante il destino di altri due mortali memorabili, Ganimede e Titone, amanti
rispettivamente di Zeus e di Aurora, ai quali fu concesso un’immortalità asimmetrica carica di
senso: per Ganimede, fanciullo rapito da Zeus, l’ascesa all’Olimpo è presupposto di un’ascensione
divina nel ruolo di coppiere degli dèi; mentre per Titone, la richiesta dell’immortalità fa sì che si
invecchi per sempre. La sessualità libera e irriducibile di Afrodite continuerà a rappresentare nel
mondo divino una minaccia al dominio maschile: ne è prova la sua perseveranza con Ares, il dio
della guerra; un tradimento che Efesto, suo sposo legittimo, nel libro VIII dell’Odissea denuncia agli
dèi esibendo gli amanti incatenati in un abbraccio, grazie alla rete invisibile che ha intessuto per
sorprenderli nel letto nuziale. Il potere seduttivo di una dea andrà riconfigurato come tentativo
di irretire e trattenere presso di sé un eroe ormai consapevole del rischio a cui si espone e che
pertanto resiste e contrasta la potenza della sua fascinazione, basti pensare a Circe, Calipso e le
Sirene con Ulisse.
Regine → In una Grecia non alfabetizzata che accedeva alla materia epica come a
un’ineguagliabile palestra di saperi trasmissibili per via orale, la minaccia erotica di una madre
andava arginata con un primo atto di rifondazione: allontanare la madre “buona da pensare” da
ogni eccesso femminile; prendere le distanze dal corpo-memoria di una madre-materia,
dall’intimità dei sensi che lo saldava all’esperienza infantile e lo deportava nel lessico erotico.
Occorreva, per cominciare, associare la madre alla ieratica maestà di un’anziana regina. L’icona
della madre omerica per eccellenza è appunto Ecuba, la regina troiana che nell’ Iliade inaugura il
paradigma della madre in lutto. Se il suo scopo era quello di mettere al mondo figli legittimi per la
continuazione di una stirpe regale, il suo corpo non poteva che apparire come espressione
allegorica di una mammella prosciugata, antico rifugio che leniva il pianto di Ettore Neonato,
frammento anatomico di una madre sfigurata dal dolore, un corpo quindi totalmente de-
erotizzato. L’icona tragica di Ecuba richiama a sua volta, sia pure per contrasto, lo splendore quasi
divino di Atossa, vedova di Dario e madre di Serse, la regina dei Persiani, l’eroina più antica della
drammaturgia greca. Ha un ruolo centrale nei Persiani di Eschilo, ma non ha un nome proprio e
viene invocata come “regina, madre veneranda di un dio e compagna di un dio”. Nel suo
splendore però non c’è tuttavia nessuna traccia del richiamo erotico che una donna del suo rango
saprebbe esercitare. Dal giorno che il figlio è partito per la guerra, Atossa si nutre di sogni notturni,
che interpreta come presagi funesti e che la inducono a offrire libagioni alla terra e ai cari estinti,
finchè un araldo non le annuncia che Serse è vivo. La sua osservanza religiosa ha il potere di
evocare il fantasma dello sposo, con il quale Atossa intrattiene un dialogo carico di pathos. E
quando la disfatta dell’esercito persiano è ormai certa, mentre l’ombra di Dario individua
nell’ambizione smodata della propria dinastia la causa della sconfitta, l’ultima parola di Atossa è
per il figlio, che andrà ad accogliere e tenterà di confortare. Finchè infatti Serse è vivo, vive la
legittimità dinastica di un regno e la dignità di una regina-madre. Una certezza che Eschilo
raccoglie dalle briciole di Omero, dove il corpo di una madre ha ragione di esistere solo come
materia nutritiva di un destino certo per un figlio. Infatti nell’Odissea il corpo di Anticlea, madre di
Ulisse, e già regina di Itaca, non è che un ombra che affiora tra le ombre dell’Ade, proprio perché si
è dissolto nel dolore della perdita di un figlio che credeva morto. Tuttavia in questo caso
l’immagine incorporea di una madre defunta diventa promessa di futuro: rafforza la sua fiducia nel
ritorno in patria, lo rassicura sulla solidità affettiva di una sposa fedele, alimenta nel figlio la
certezza della legittimità e della continuità dinastica. Quindi pacificato per sempre con il corpo
materno, riscattato dalla nostalgia di un legame inalienabile, Ulisse potrà fronteggiare la seduzione
avviluppante che Calipso porta nel nome, perché ora niente per lui è più dolce della patria e dei
padri. Dopo aver doppiato le rotte, ben più insidiose, dell’amore per una madre perduta e
dell’abbraccio spaesante di un’amante divina come Circe, Ulisse riesce a sopportare la bellezza
di Calipso e a controllarne il richiamo erotico riannodando il desiderio al “nodo benigno” del
letto di una casa e di una sposa da riconquistare. Il corpo della regina Penelope si adatta invece a
un telaio che da quattro anni usa come stratagemma politico per procrastinare la successione di
Ulisse (fino a che non organizza una gara per conquistare la sua mano), ma nello stesso tempo
generando nei Proci un potenziale seduttivo. Ricordiamo che il tremito di un corpo al telaio più il
gioco oscillatorio delle gambe che lo azionano, incoraggiavano indebito tentazioni. Non è
ininfluente che l’intimità tra Ulisse-mendicante e Penelope, nel colloquio che precede il
riconoscimento dello sposo, sia intrisa di una sensualità consegnata alle doti di una tessitrice.
Regina saggia, madre e sposa fedele, Penelope, che al cospetto di Calipso non “vale niente”, è pur
sempre una donna capace di suscitare desiderio. Ulisse lo ha appurato quando, alla vigilia della
strage, Atena le ha ispirato la decisione di mostrarsi ai Proci e le ha infuso nel sonno una bellezza
degna di una dea. Con Penelope dunque si opacizza per sempre la solennità sacrale e la
riservatezza erotica della regina impegnata a tutelare la legittimità dinastica del proprio sposo e
della sua stirpe. Il suo potenziale erotico riaffiora inquietante, il suo profilo si corrompe e si
deteriora, prolungandosi nelle regine della tragedia tragica. Basti vedere l’ Orestea di Eschilo,
Clitemnestra, regina, madre e sposasi scompone e si decompone nel segno dell’adulterio e della
lascivia, dell’aridità affettiva, della violenza vendicatrice. La potenza erotica di Clitemnestra si
corrompe e prende forma nell’icona drammatica di una femmina efferata e senza freni, di una
Potnìa assetata di sangue, degenerata, trascolorata nelle tinte ctonie e demoniache di un mito
infernale. La stessa narrazione si nutre di un lessico erotico che non sfugge alla platea in ascolto:
l’associazione tra le gocce di sangue e la rugiada che piove “nel seno dei boccoli aperti” non
lascia dubbi sull’associazione con la materia umida di un amplesso; il termine drosos insiste
sull’analogia sangue-seme-vitalità e, per estensione, potenza sessuale. Anche il desiderio di
acqua sorgiva di Fedra, la regina ateniese, sposa di Teseo, tale acqua purissima viene riconosciuta
dall’uditorio come richiamo alla linfa seminale del giovane Ippolito, suo figliastro, come suo
desiderio erotico. Nella seconda versione invece di Euripide, l’ Ippolito incoronato (qui è Afrodite
che decide di punire Ippolito, che si vanta della sua verginità, facendo innamorare di lui Fedra) , la
sua ricerca del refrigerio di acque sorgive diventa metafora di un amplesso impossibile. Deposto il
velo, Fedra quando entra in scena con l’ipertrofia di un corpo costitutivamente colpevole, con i
capelli sciolti sul seno, accasciata su un letto, incorpora un nuovo modello erotico che ferisce come
un morbo, che mina la mente rendendola preda della follia. Ne è consapevole e sa quanto questo
confligga con l’immagine edificante di una regina madre; lo sa al punto da desiderare la morte, per
evitare di disonorare lo sposo e i figli che gli ha generato. E così si fa, si suicida, ma, per salvare il
suo onore, lascia un biglietto nel quale scrive che Ippolito l’ha violentata. Teseo allora per
vendicarsi, prega Poseidone di punire il figlio mettendolo a morte. Ippolito muore dilaniato dai
propri cavalli, imbizzarriti alla vista di un mostro marino. Condotto in scena in punto di morte, con
il corpo virginale straziato, in preda agli spasmi della sofferenza, Ippolito sperimenta nell’agonia la
coscienza di un corpo che aveva smarrito, quando aveva fantasticato la conquista di una identità
virile indifferente ai richiami dell’eros e per rendere intellegibile il proprio dolore utilizza un
linguaggio mutuato dal lessico femminile con termini che evocano i dolori connessi con le doglie
del parto ( odynai, spakèlos). Vittima innocente di un eros che annienta, Ippolito morente ritrova
un corpo, dal momento che all’inizio del dramma soltanto Fedra ne aveva uno, un corpo che
soffriva e che lei ha annullato. Ora se il dolore fisico imita le sofferenze delle donne, nella sua
agonia Ippolito sperimenta fino a morirne le dualità dell’essere umano. Quindi il suicidio di Fedra,
così come quello di Giocasta o di Deianira, sancisce la parentela segreta che connette le regine
tragiche e le condanna a dissolversi nella sofferenza di una passione o di una fascinazione erotica,
figure teatrali di un passato oscuro che l’ordine civico della città-stato ha l’obbligo di superare.
Vergini → Miti e trattati medici, poemi, idilli e precetti filosofici sembrano insistere, nell’ampia
letteratura sul corpo verginale e sul suo statuto, sul nesso inscindibile tra desiderio e
pericolosità sessuale. E se è vero che la sessualità femminile adulta è percepita come smodata e
minacciosa, non meno vero è che il potenziale seduttivo di una vergine, la sua naturale
oscillazione tra desiderio e paura della sessualità, si traduce in sede epica e tragica in un gioco
insistente di inseguimento e fuga, in una immolazione sacrificale che tradisce l’ambiguo piacere
di vittima e carnefice, in uno spargimento di sangue che prefigura un motivo narrativo non
dicibile: l’equivalenza metaforica tra matrimonio e morte. Così è per Ifigenia, la figlia di
Agamennone sacrificata per consentire all’esercito acheo di salpare verso Troia. Così è per
Polissena, la principessa troiana rivendicata nell’ade da Achille e che accetta la morte per mano di
Ulisse. Per entrambe il sacrificio interferisce con un matrimonio annunciato: Agamennone infatti
nell’ Ifigenia in Aulide di Euripide lamenta l’approssimarsi della morte della figlia come farebbe per
la perdita del suo statuto verginale nell’imminenza delle nozze (in questo caso con Ade), mentre
nell’ Ecuba dirige il sacrificio di Polissena, che lo affronta con il coraggio di una sposa prossima alle
nozze. Anche Antigone, la figlia di Edipo che per dare al fratello Polinice una degna sepoltura
affronta con coraggio la prigionia e la morte, programma il suo suicidio come una vergine prossima
alle nozze con Ade (nozze con Ade o nozze nell’Ade, dal momento che Emone, suo promesso
sposo, si uccide a sua volta per raggiungerla e sposarla nella dimora dei defunti). Accanto allo
stuolo di vergini tragiche votate al sacrificio, non meno eloquente è il destino che spetta a chi
rivendica il diritto di appartenenza a uno statuto autonomo che mal si concilia con la
sottomissione a un giogo coniugale attraverso una metamorfosi animale delle fanciulle che
rivendicano la verginità come condizione permanente o che la esibiscono come il “grado zero” di
una femminilità dirompente, incontenibile e selvaggia. Ad esempio Atalanta, la vergine “tutta
corpo” rifiutata alla nascita dal padre Iaso, re dell’Arcadia che desiderava un figlio maschio,
allevata da un’orsa nella solitudine del monte Partenio e cresciuta dai cacciatori del luogo, dai
quali apprende l’arte venatoria e un’insuperabile abilità nella corsa. I centauri Reco e Ileo, che
tentano di violentarla, periscono sotto i colpi delle sue frecce. In virtù delle sue doti viene coinvolta
nella caccia del cinghiale calidonio, lo ferisce per prima e ottiene in dono la pelle. Partecipa ai
giochi funebri in onore di Pelia e vince Peleo nella lotta. L’eco delle sue imprese giunge infine al
padre, al quale la fanciulla si ricongiunge e che tenta ripetutamente di convincerla a prendere uno
sposo. Paga della sua condizione, Atalanta rifugge con fermezza il matrimonio, nonostante i
numerosi pretendenti i quali, attratti dalla sua bellezza, si spingono nei boschi per candidarsi alle
nozze. La vergine impone loro una dura gara di corsa, promettendosi a colui che sfuggirà al suo
inseguimento e rivendicando il diritto di mettere a morte con le sue frecce infallibili chi verrà
raggiunto. Alla fine arriva Ippomene, l’ennesimo spasimante al quale però Afrodite ha donato tre
mele d’oro che emanano un irresistibile richiamo erotico. Così mentre Atalante si ferma a
raccogliere le mele, Ippomene taglia il traguardo e la vergine si innamora di lui. I due consumano il
loro amore con una furia incontenibile e sacrilega, in un recinto sacro agli dèi. I due per punizione
vengono trasformati in leoni. Mortali o divini dunque i corpi delle vergini sono rigorosamente
interdetti agli uomini. Basta pensare appunto a Ippomene nel caso di mortali e a Ulisse nel caso
delle divine, o ancora a Tiresia accecato per aver sorpreso la dea Atena nuda. La stessa Atena, dal
corpo proibito e sfuggente, insegna opere egregie alle vergini ma va contro di loro quando la loro
autonomia contrasta con il suo progetto pedagogico. Così non sfugge alla sua vendetta Aracne, la
fanciulla lidia che osa sfidarla in una gara di tessitura, e che nel corso della competizione decide di
istoriare sulla propria tela le violenze, le violazioni, gli inganni perpetrati dagli dèi ai danni di
vergini innocenti (Europa, Antiope, Teofane…). Alla vista di un simile manufatto, l’ira di Atena nei
confronti di Aracne si fa impietosa: straccia la tela intessuta dalla fanciulla e la colpisce
ripetutamente sulla fronte con una spola di legno. La vergine non sopporta l’umiliazione e corre ad
impiccarsi, ma la dea, mossa da pietà, le risparmia la vita e la trasforma in ragno, condannandola
ad oscillare per sempre. Aracne-ragno consuma il suo destino in un moto perpetuo, così simile
all’oscillazione ritmica e regolare di un’altalena, il dispositivo simbolico rituale delle vergini greche,
la cui valenza catartica trova riscontro nella festa primaverile delle Aiora , celebrata nel terzo
giorno delle Antesterie, il ciclo festivo più arcaico dedicato a Dioniso prima dell’introduzione delle
Grandi Dionisie. Il suo mito di fondazione riguarda un’altra vergine, Erigone, figlia di Icaro, che
dopo aver cercato invano il padre, alla vista del suo cadavere corre ad impiccarsi. Ciò genera
un’epidemia e la mania suicida si infonde tra le vergini attiche senza tregua, finchè l’oracolo di
Apollo non suggerisce l’istituzione di una festa nel quale il gesto perentorio di Erigone non trovi
sbocco nel dondolare delle vergini su delle altalene. Ernesto de Martino associa il dondolio
dell’altalena come espiazione da quello del cullare materno, nella quale l’iniziativa non sia più
quella della madre ma sia propria o di un altro che può essere quella di uno sposo. Al termine del
rito è come se il corpo della fanciulla si consegnasse alla comunità rigenerato come un germoglio
in primavera e la sua oscillazione la connette alla duplice immagine di una fanciulla immolata o di
una sposa involata, come fosse una rinascita in sede civica.

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