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Ahimè povero Yorick o E se Shakespeare cadesse in disgrazia?

Si sa che ci siano diverse teorie sull’inesistenza di Shakespeare come unico individuo, che fosse un
impostore drammaturgo che in realtà metteva in scena opere in un segreto scrittore. Un po' l’origine di
questa idea deriva dal nome Shakespeare → 1) in una lingua del sud della Russia “Shake” significa “sceicco”
e “pir” “uomo saggio”; 2) uno studioso ha scoperto che una famiglia scappò dal Palermo in Inghilterra a
causa dell’Inquisizione, il loro nome era Crollalancia, e “crollo” si può tradurre con “Shake” e lancia con
“Pear”. B. afferma in ogni caso che Shakespeare era ed è unico. Torreggia su tutti gli altri drammaturghi.
Shakespeare tocca ogni aspetto dell’esistenza umana. In ognuna delle sue opere, il tanfo, il lordume, la
miseria dell’esistenza ordinaria si mescola con il nobile, il puro e il sublime. Questo si manifesta tanto nei
personaggi che ha creato, quanto nelle parole che ha scritto. Ma come ha potuto un solo cervello
espandersi su una gamma così vasta? Per molto tempo, la domanda è bastata di per sé a eliminare l’idea di
un uomo del popolo. Poteva essere solo una persona di nobili natali e di educazione superiore. Un
comune studente di campagna, per quanto talento avesse, non avrebbe mai potuto abbracciare tanti livelli
di esperienze. Questo non è detto, ma sicuramente egli doveva avere una straordinaria capacità di ricevere
e ricordare ogni sorta di impressioni. Un poeta assorbe tutto ciò che prova ma un poeta di genio va oltre:
filtra e ha la capacità unica di collegare fra loro impressioni apparentemente del tutto separate o
contraddittorie. Siccome con Shakespeare parliamo di genio, va detto che il genio può nascere negli
ambienti più umili. Il livello di istruzione all’epoca elisabettiana era notevolmente elevato. C’era una norma
secondo la quale nessun uomo di campagna doveva essere meno istruito, in fatto di conoscenze classiche,
dei figli dell’aristocrazia. Va poi detto che da direttore di teatro scaltro in affari qual era, Shakespeare
spesso si rendeva conto che la sua compagnia poteva fallire e i salari non essere pagati, a meno che egli non
se ne uscisse, e assai in fretta, con un nuovo successo. Non c’è documento che attesti un processo di
riscrittura. Non c’erano opere chiuse in un cassetto, incomplete, nessun blocco dello scrittore, nessun
perfezionismo alla Beckett, con continue riscritture, bozza dopo bozza. Il suo cervello non si fermava mai,
era sempre lì a cercare e a sperimentare. In teatro, oggi, ieri, ovunque nel mondo, l’autore è presente
come essere umano vivo. Shakespeare non poteva arrivare il giorno dello spettacolo e, una volta distribuite
le parti agli attori, aspettarsi che, poche ore dopo, questi recitassero “Amleto” o “Re Lear” senza prove o
preparazione, senza ripetere le entrate e le uscite, gli attacchi musicali e gli spostamenti da un livello
all’altro del palcoscenico. Ci voleva quindi il giusto tempo, e non potevano non sorgere domande, anche
disaccordi con l’autore, specialmente poi se questi era un membro della compagnia, ben cosciente dei
problemi da risolvere in fretta e tutti insieme. Oltre agli attori inoltre al Globe c’erano, allora come oggi,
suggeritori e assistenti di palcoscenico professionisti che svolgevano le dovute funzioni sotto nomi diversi
come “stage keepers” (“custodi di scena”), onnipresenti alle prove e durante lo spettacolo per aprire e
chiudere sipari trasversali, raccogliere e tirar fuori l’attrezzatura, assicurarsi che gli attori rispettassero i
tempi di entrata e soprattutto mantenere ordine in palcoscenico, tra la folla e in tutte le scene di battaglia,
dove c’era un numero sempre variabile di figuranti da tenere sotto controllo. Questi custodi di scena
talvolta erano noti perché dicevano ad alta voce i loro giudizi sull’opera. E’ strano, persino surreale,
immaginare Shakespeare che lavora, anno dopo anno, con questi impiegati stanchi e scontenti, senza che
nessuno metta mai in dubbio la sua qualifica. Immaginiamo questo falso Shakespeare messo alle strette.
Deve riscrivere e aggiungere una scena. Ci riflette un po', calcola quanto tempo impiegherebbe un uomo a
cavallo per arrivare magari a Oxford o a York, aspettare che lo scrittore segreto gli dia i propri testi e poi
fare ritorno. Shakespeare ogni volta si troverebbe a farfugliare qualcosa, per poi ribattere: “Mi ci vorranno
cinque giorni”. E nessuno mai che notasse niente di strano, anche se la cosa doveva essere andata avanti
per anni? Va detto poi che l’epoca di Shakespeare ribolliva di drammaturghi buoni e cattivi, generosi e
spietati. La maggior parte di loro è morta povera, Shakespeare fu uno dei pochissimi a ritirarsi con soldi a
sufficienza per comprarsi della terra. C’erano tutte le ragioni per invidiarlo. La Londra elisabettiana non
faceva eccezione: come dappertutto, gli scrittori cercavano di sbarcare il lunario, pronti a lanciar libelli in cui
denunciavano i colleghi. Shakespeare era un bersaglio perfetto. Non è strano quindi che non esistano
documenti che smascherino questo falso attore-direttore che finge di scrivere e pubblica con il suo nome
lavori di enorme successo? La gente di teatro parla spesso di sé come di una famiglia. E in una famiglia i
segreti e le bugie sono cosa nota a tutti. Pare che esistano circa settanta pretendenti al trono di
Shakespeare. C’è anche una donna, una signora spagnola/ebrea che veniva definita la “dark lady” dei
sonetti. E c’è una voce secondo la quale la regina Elisabetta avrebbe scritto le opere in collaborazione con
un figlio illegittimo avuto da una relazione incestuosa. Inoltre una signora di Boston che si chiamava Delia
Bacon si svegliò e decise che Shakespeare doveva essere stato il suo pro-pro-pro-pro-prozio ad aver scritto
le opere. Certamente ogni aspetto della vicenda di Shakespeare è colmo di contraddizioni inspiegate. Non
conosceremo mai le risposte. Tutto quello che sappiamo suggerisce che Shakespeare sia stato un uomo
assai modesto. Non ha usato i personaggi per esprimere i suoi pensieri, le sue idee. Non ha mai imposto il
suo mondo nel mondo che fa trasparire. Ibsen non ha esitato a mostrare i suoi sentimenti riguardo alla
società in cui viveva. Brecht ha scritto per dimostrare ciò che era sbagliato nel mondo e in che modo
andasse cambiato. Invece, anche sotto tale aspetto, Shakespeare è stato unico. Non giudicava mai, ha
offerto un’infinità di punti di vista con la loro pienezza di vita, lasciando aperto ogni interrogativo sia
all’umanità che all’intelligenza di ciascuno spettatore.

Io c’ero. Come Mercuzio ha fatto ridere


B. per mettere in scena “Romeo e Giulietta” a Stratford fece prima due viaggi: uno a Tangeri e uno a
Verona, dove assistette anche ad una rappresentazione del “Romeo”. Alla prima lo spettacolo di B. fu un
insuccesso. In seguito capì quello che mancava. C’era una gran quantità di fuoco, di colore (una calda
scena arancione) e di energia, il che ci assicurò una piccola minoranza di entusiasti. Ma quel che faceva
difetto era un ritmo generale, una pulsione irresistibile a passare da una scena all’altra. Non aveva ancora
imparato che questa era la base di tutto il teatro elisabettiano, e quindi iniziò un lungo periodo di scoperte.
Il teatro del momento, basato sulle “pièce ben fatte” del West End, con i loro due intervalli, aveva da tempo
perso ogni contatto con l’implacabile ritmo elisabettiano. Ogni scena doveva portare all’altra, senza
mollare mai lo spettatore. Ogni scena doveva essere un ponte per la successiva; senza sipari abbassati né
pause; senza nuove scene a cui abituarsi. E questo non solo richiedeva un costante avanzamento ma in più
creava contrasti, cambiamenti inattesi di ritmo, tono, livello di intensità. In quel “Romeo” aveva invece
lavorato scena per scena, ognuna con la sua parte iniziale, centrale e finale. La grande rivelazione per B.
arrivò più tardi lavorando per la lirica. Nella musica, osservò, una serie di note è un mondo di dettagli
infinitamente piccoli che esistono soltanto in quanto parte di una frase. Una frase, a sua volta, non può
prescindere da una spinta in avanti. Proprio come avviene nel parlato, una frase è un pensiero che
prepara e conduce al successivo. Ripetere una frase dopo che ne abbiamo già capito il significato è solo
fonte di insopportabile noia. Un lavoro di Shakespeare deve essere rappresentato come un’unica frase
sinuosa, che non finisce mai finchè non si arriva alla fine vera e propria. Quando dopo due anni di lirica
tornò a Stratford per dirigere “Misura per misura”, B. scoprì che l’immersione nella musica gli aveva
trasmesso una nuova consapevolezza del ritmo e del fraseggio.

Cotti in quella torta. Sfornando il “Tito Andronico”


La prima regia di B., “Pene d’amor perdute”, era ancora influenzata dalla reazione post-bellica contro anni
di cupezza e austerità. Avevano un gran bisogno di fascino ed eleganza. Queste cose non poteva ritrovarle
negli insostituibili costumi elisabettiani che per lui erano cupi e convenzionali. Scoprì dunque ciò che T.S.
Eliot chiamava “correlativo oggettivo” nel suo amore appena sorto per il pittore settecentesco francese
Watteau. Lo impose a uno scenografo recalcitrante e fatto è che l’immagine della scena offrì una freschezza
e un incanto che in nessun modo violava ciò che il pubblico si aspettava da una commedia piena di grazia e
di leggerezza. Ma quel che incuriosiva B. in Watteau era che, oltre agli eleganti signori, i suonatori di flauto
e gli arlecchini un po' malinconici, ci fosse sempre una misteriosa figura su un lato, che osservava
silenziosamente i festini. Ciò è simile al finale di “Pene d’amor perdute”, in cui la festa gioiosa è
improvvisamente interrotta da un messaggero che reca alla principessa la notizia della morte del padre. In
“Misura per misura”, Isabella ha tutte le ragioni per volersi vendicare del presunto assassino del fratello. La
sordida città dove l’azione ha luogo non sembra suggerire alcuna pietà. La ragazza cerca a fondo
nell’oscurità del suo cuore. In un modo che sembra presagire Dostoevskij, si mette in ginocchio per
implorare perdono. E di colpo la commedia si inonda di luce. “Racconto d’inverno” è una commedia divisa
in tre parti. La prima, uno scuro melodramma che è quasi tragedia. Poi, di colpo arriva un cambiamento
verso la radiosa innocenza di una pastorale. Infine, ancora inaspettatamente, una terza parte, la
desolazione e la livida penitenza di Leonte, condannato a vivere con la statua della moglie morta, come
costante richiamo alla sua follia. Leonte poi vede la figlia perduta da tempo entrare nel suo palazzo fianco a
fianco con il figlio del nemico. Stranamente, essi assomigliano alla moglie morte e al suo presunto amante.
Per un momento, il tempo si ferma. A Leonte viene data un’altra occasione. Lui la coglie, e la statua
riprende vita e il finale irradia amore e perdono. B. inoltre per inaugurare il Theatre des Bouffes du Nord
appena aperto a Parigi scelse un testo poco rappresentato, “Timone di Atene”: con l’attore Francois
Marthouret la commedia assicurò al pubblico parigino una freschezza e un impatto che nessuno dei testi
già noti avrebbe mai apportato. B. parla poi del “Tito Andronico” → B. afferma che nell’Inghilterra
normanna, le radici sassoni non erano mai state del tutto dimenticate. Il gusto romano per gli sport di
sangue, per i gladiatori e i combattimenti con i leoni non poteva distruggere il retaggio ricevuto dalla
tragedia greca: Elettra, Medea e i terribili atti di catarsi che sublimavano l’orrore. B. sentì che “Tito”
avrebbe potuto acquistare nuova forza se avesse messo in luce una ritualità legata alla ferocia presente
nella mitologia sassone e islandese. E anzi, si possono vedere elementi quasi identici nelle culture azteche.
Glen Bryan Shaw, direttore della RSC (Royal Shakespeare Company), stava allestendo una stagione con
protagonisti Laurence Olivier e Vivien Leigh. Non ebbe quindi alcuna difficoltà ad assemblare una
compagnia con i migliori attori inglesi del momento e chiese a B. di dirigere il “Tito”. Laurence Olivier era
bravo a apportare sfumature dettagliatissime a personaggi che potevano assai facilmente cadere nello
stereotipo o nell’astrazione: s’immerse nel ruolo apparentemente convenzionale di Tito il vendicatore e di
colpo rivelò un vero uomo. Ma sopra ogni cosa, Vivien Leigh apportò qualità che nessuno aveva mai
associato a Lavinia, svelando bellezza e poesia nella sua disgrazia. Lavinia, violentata e con le mani mozzate
(che B. suggerì con un nastro rosso che pendeva dalle dita fino al suolo) trasformò una disgustosa scena
grandguignolesca in un momento di inquietante bellezza. Era come se la grazia e il talento di Vivien Leigh
potessero trasformare il dramma nello stesso modo in cui il teatro giapponese trasforma imponenti atti di
crudeltà in leggende Kabuki. Per gli altri ruoli, c’erano gli straordinari attori selezionati da Glen Byam Shaw.
Aronne non era più solo un nero cattivo, una figura convenzionale già molto utilizzata nelle opere
elisabettiane. Naturalmente, a quei tempi la possibilità di avere un attore di colore per recitare il
personaggio di un nero non era cosa di tutti i giorni. Un solo afroamericano, Paul Robeson, aveva
interpretato Otello e non c’era praticamente stato altro. Africani e americani neri erano considerati buoni
solo per il jazz, il canto e il ballo. Anthony Quayle si avvicinò alla parte con rispetto e umanità. La tenerezza
del rapporto con il suo bambino nero fu indimenticabile. Allo stesso modo Maxine Audley trovò
insospettate profondità nella feroce regina dei goti. Per quanto riguarda la scenografia furono costruite
grandi colonne nere e dorate, con congegni semplici ma sorprendenti che il macchinista fu felicissimo di
inventare. Le colonne si aprivano su diversi livelli per far apparire camere rosso sangue oppure una foresta
frondosa. Grazia all’abilità della carpenteria, la scanalatura delle colonne classiche poteva oscillare,
suggerendo la presenza di alberi scuri. Il suono doveva essere parte inseparabile di ciò che l’immagine
evocava. Tutto questo avveniva mentre la musica tonale e atonale stava cedendo il passo a quel che
precedeva l’elettronica; si chiamava “musica concreta” e B. andò a trovare il suo pioniere, Pierre Henry,
nel suo studio parigino. Le tecniche erano molto accessibili. Richiedevano la registrazione di una lastra
sonora da cui ritagliare ciò che si voleva, cambiando tono e velocità, miscelando e combinando sempre più
tracce e infine cucinando il resto a piacimento. B. fece degli esperimenti, ponendo un microfono
semplicissimo dentro il piano, battendo sulle corde e sul rapporto di ferro e usando il pedale come uno
strumento a percussione, così che tutti i sovratoni del piano fossero risvegliati. Aggiungendo un semplice
ritmo, si otteneva una marcia dei tempi antichi che offriva a Olivier un’entrata di enorme impatto. Nessuno
notò che le tre note estratte per i sovratoni erano di fatto l’inizio della filastrocca “I tre topolini ciechi”. La
tournèe fu un successo nonostante i problemi arrecati da Vivien Leigh, che soffriva di disturbo bipolare. B.
poi afferma che dato che non siamo più dei composti vittoriani, “Tito” oggi ha trovato una normale
collocazione nel canone shakespeariano. E’ come tanti drammi e film contemporanei. Ma con una
differenza: il giovane autore che utilizzava anche temi popolari e violenti del suo tempo era già
Shakespeare, un poeta e non poteva fare a meno di andare oltre, di andare dietro la facciata, fino a un
tale sentimento di orrore da lasciarci stupefatti.

Chi regge la bilancia? O Misura ancora per misura


In “Misura per misura”, Shakespeare propone come sempre un legame fra il cielo in alto e il fango in
basso. Egli rifiuta la consueta contrapposizione. Gli escrementi hanno una loro ragion d’essere: fertilizzano
il suolo, consentendo così a piante inaspettate di crescere. E anche la pioggia scende dal cielo. Nella
commedia, ci sono due mondi: il mondo raffinato del palazzo e lo squallore dei bordelli, le prigioni e le
strade. L’innesco di tutta l’azione è l’intuizione del duca di non avere una reale conoscenza della vita,
nessuna autentica comprensione, e per questo motivo è incapace di assolvere le proprie funzioni. Ma esiste
un ordine, esiste autorità senza ingiustizia? La commedia dà vita istantanea a queste eterne domande.
Per mettere in scena l’opera B. trovò la chiave in Bosch e Bruegel. In Bosch trovò il sommo piacere della
rozzezza, dello sporco, della volgarità; in Bruegel, la tensione e il dolore del Medioevo sono temperati da
occhi in cerca di senso e di speranza. Senza essere didascalico, B. scoprì semplici forme architettoniche in
grado di collocare il duca e i prigionieri nello stesso mondo. Lo scopo era mantenere un’azione fluida, senza
stacchi fra le scene, solo immagini che potessero dissolversi passando da un luogo all’altro senza mai
spezzarne la continuità. B. lavorò per la prima volta con John Gielgud, che coraggiosamente affrontò il suo
primo ruolo di uomo maturo senza parrucchino, con la testa calva (Angelo). E un bravo attore , Harry
Andrews, interpretò il duca mascherato da frate, una figura in bianco che attraversava l’oscurità. La chiave
della storia è Isabella. La prima scena, quando la vediamo in convento come giovane novizia, non può
passare inosservata. Ha preso i voti, voti rivolti al Cielo, con tutta la sua fede e integrità. Ciò rende
impensabile rinunciare alla castità. B. poi racconta di un’esperienza avuta attraverso un seminario
sull’opera svolto nelle periferie più difficili di Parigi, tutti musulmani. Raccontò loro la vicenda e questi la
improvvisarono così come veniva, scena dopo scena. Quando si arrivò a quella fra Isabella e suo fratello
Claudio, condannato a morte per adulterio, ognuno poteva condividere entrambi gli aspetti dell’amaro
scontro tra amore familiare e leggi religiose. Isabella avrebbe dato tutto per il suo adorato Claudio, tranne
la castità, richiesta invece da Angelo in cambio della liberazione del fratello. Per molte attrici inglesi, ci
vogliono molte tortuosità e complicazioni psicologiche per rendere la cosa plausibile. Per un pubblico
islamico ciò era ovvio. La storia di “Misura per misura” fa continui riferimenti al suo titolo: la ricca varietà di
elementi ha una necessità costante di essere mantenuta in equilibrio. Ogni personaggio, ogni evento ha un
suo posto, così come la nostra simpatia e la nostra comprensione oscillano dall’uno all’altro. Rispettare e
rinnovare questo equilibrio è compito di ogni nuova regia. Dobbiamo essere condotti passo dopo passo a
un’impasse, da cui non sembra esistere una possibile via d’uscita. Poi la sorprendente richiesta di grazia di
Isabella, che si armonizza con il processo di autorivelazione del duca, raddrizza nuovamente la bilancia e
per un attimo i pesi si pareggiano. Va poi detto che se è un grande errore voler spiegare psicologicamente
il voto di castità di Isabella, allo stesso modo è un rozzo modernismo fare del duca un manipolatore senza
scrupoli. Fa poi un paragone con la rabbia omicida di Otello. Per lui, una donna è simbolo di purezza, una
vergine. La purezza appartiene a Dio e un tradimento della purezza è molto più del tradimento di una
donna. E’ macchiare il sacramento; la pura natura di una donna casta si esprime in una forma esteriore.
Così come “Antonio e Cleopatra”, “Otello” è uno scontro fra gli ideali orientali e occidentali. In una delle
prime scene, Desdemona è circondata da amici che chiacchierano e ridono con un piacere e un gusto
sociale tipicamente occidentali. Per noi, ciò è naturale e affascinante. Ma agli occhi di un moro la scena
rivela una donna contaminata da valori degradati. Il terreno per Iago è già predisposto. Se questo tema
affascinò Shakespeare, non sorprende che egli vi faccia ritorno in “Antonio e Cleopatra”. Mentre Otello è un
uomo all’apice della carriera militare, con la forza per uccidere ed essere ucciso, Antonio è sul viale del
tramonto, la sua stella è in declino, e nella splendida egiziana ritrova tempra e gioventù.

Né vivremo così a lungo su “Re Lear”


“King” (“re”) significa “colui che ha l’ultima parola”, “despota assoluto”. E’ inebriante avere un simile
potere, anche se può creare problemi profondi e sconosciuti. Nei tempi antichi, così narra una storia, c’era
un anziano re che sedeva ogni notte nel suo giardino, sapendo che presto o tardi un giovane avrebbe
penetrato tutte le difese e valicato il muro. Il re si preparava costantemente al combattimento finale. Se
fosse stato ucciso, lo straniero sarebbe diventato il nuovo sovrano. Nel nostro tempo, si è visto quanto sia
duro per un dittatore accettare la fine. Una lunga serie di leader ha avuto malattie terminali causate da
stress, sia per le fatiche quotidiane della carica, sia per il fatto di guardare il muro in attesa dell’arrivo dello
straniero. Quando apprendono di avere un male incurabile, iniziano a cercare primi nei libri e poi nella
vasta cerchia di consiglieri presidenziali, per scoprire il senso di questo fenomeno inaccettabile che non
riescono a dominare: la morte. Come dice un vecchio proverbio, l’orgoglio viene prima del crollo. Lear
all’inizio ha tutte le ragioni per essere orgoglioso: è in cima alla vetta, al massimo della forma. E’ un
deplorevole errore per attori e registi mostrare il re, nella prima scena, come un vecchio già in declino. Di
fatto ci basta ascoltare le prime battute di Lear per capire che lui è totalmente padrone di sé. La sua
decisione di dividere il regno è la riflessione pratica di uno scaltro conoscitore del mondo. Ammette che per
lui è arrivato il tempo e annuncia che il motivo principale è che i conflitti futuri devono essere evitati ora.
Questo è il testamento di un astuto monarca. Egli conosce fin troppo bene le ambizioni e le fazioni celate
sotto la superficie all’interno della corte, la quale attende solo la sua morte. Inoltre, con uguale scaltrezza,
egli si rende conto che una divisione in due è sempre ragione di conflitto. Una divisione in tre invece
presuppone un naturale equilibrio di forze. Il primo colpo per Lear è quando gli è negato ciò che crede gli
sia dovuto: la gratitudine totale di tutti i suoi sudditi e soprattutto delle figlie. Fino a che non esce nella
tempesta, le sue difese sono intatte. Mostrano l’assoluto bisogno di riaffermare la sua autoritaria presenza.
Lear è un uomo di potere, e questo potere il re può, attraverso sotterfugi o inganni, usarlo a suo
piacimento. Ma qui è colto di sorpresa, e il vulcano che cova sotto la superficie è di colpo fuori controllo.
Come può la sua figlia preferita rovinare in modo così assurdo una grande occasione pubblica? In seguito la
sorpresa e la rabbia di Lear assumono la forma di una tremenda ineluttabilità. Per la stessa ragione,
Shakespeare evita di semplificare il personaggio di Cordelia, in quanto le sue reazioni sono ugualmente
ineluttabili. Nel sangue, lei ha la stessa forza intransigente del padre. La seconda apparizione di Lear ci
mostra l’altra faccia della medaglia, e cioè come il calore della sua energia faccia di lui uno splendido
compagno d’armi per i suoi cavalieri: egli possiede i tratti che ritroviamo in tanti dittatori. In generale
comunque affinchè il dramma abbia senso e per sostenere l’impietoso passaggio dal tutto al niente, il Lear
della scena iniziale dev’essere un re senza crepe visibili, però, le crepe ci sono. La progressiva
autoscoperta della sua vasta ignoranza è il motore dell’azione. E’ la ricchezza di questa scoperta che filtra,
poco a poco, nelle fessure fino a tracimare. Shakespeare ci mostra come in ogni personaggio potente ci
siano sempre stati di insospettate debolezze. Questo elemento, che è stato definito “difetto nascosto”, ci
conduce alla tragedia. Ma quel che fornisce l’essenza stessa della tragedia, distinguendola dal
melodramma, è che un eroe tragico, da Edipo in poi, è sempre un essere umano di valore. B. parla poi di
“Coriolano”, troviamo una sensibilità profondamente nascosta che diventa fonte di tragedia allorchè gli
eventi la costringono a manifestarsi. Coriolano, il guerriero, è presentato dapprima con potenti immagini
ispirate al ferro, la materia della corazza con la quale vince ogni battaglia. Forse quando era un bambino fu
sua madre a spingerlo a credere che la vita esigeva che diventasse un eroe della patria. Qualcosa di simile al
condizionamento dei “costruttori di impero” nelle scuole pubbliche britanniche dell’era vittoriana.
Volumnia aveva costruito il figlio secondo valori romani. Ahimè, in profondità viveva una natura che
racchiudeva non solo orgoglio, rabbia e violenza; Coriolano era qualcosa di diverso. Per emergere, la sua
sensibilità innata aveva bisogno di una lunga serie di errori e di sconfitte. Egli passa al nemico. Il suo
desiderio di vendetta e distruzione, anche del suo popolo, è un tema che ci è oggi dolorosamente familiare.
Ma Coriolano ha una madre che sa quanto questo sia lontano dalla vera natura del figlio e, in una delle
situazioni umane più stupendamente concepite, la donna è obbligata a far uscire tutte le qualità del figlio
verso un’ultima, definitiva realizzazione. Come romana salva Roma e segna il destino di Coriolano. La
tragedia ineluttabile è la distruzione del figlio attraverso l’intuizione di colei che aveva costruito la sua
personalità. In “Misura per misura”, Shakespeare rivela le due nature creando due individui separati. Il
duca deve discendere dalla torre d’avorio per scoprire la vera vita della gente. Angelo è un ministro che
diviene un sostituto despota e cerca di imitare quel che pensa sia il ruolo dell’autocrate, negando ai sudditi
e a se stesso la possibilità di calore, risate e peccati veniali. Il momento centrale è quando Isabella,
improvvisamente e inaspettatamente, si accorge quanto il perdono sia più grande della vendetta. Se “Re
Lear” è l’apice di tutta la scrittura europea, pari solo a “I fratelli Karamazov”, ciò è dovuto alla integrazione
totale di ognuna delle parti in un complesso che abbraccia praticamente ogni aspetto della vita sociale,
familiare, politica, personale e interiore. E’ una cecità per gli attori avvicinarsi a uno qualunque dei
personaggi di Lear con in testa degli stereotipi. Che si tratti delle figlie o dei loro mariti (uno che sembra
debole, l’altro spietato), nessun semplice aggettivo può descrivere i personaggi. Portati in vita dall’interno
Kent, Gloucester, Edmondo, Edgardo, Cornovaglia, Albany sono ricchi e densi. Va poi detto che ci sono due
antitesi fondamentali in “Lear” che riflettono l’universale condizione umana. Sono la cecità opposta alla
luce e il contrasto fra il dentro e il fuori. Sono la cecità opposta alla luce e il contrasto fra il dentro e il
fuori. Entrambe sono mostrate come realtà concrete e metafore illimitate. Dentro al castello, protetta da
spesse, impenetrabili mura, la vita è calda e al sicuro. Nella psiche dei personaggi avviene lo stesso. Le mura
devono essere abbattute, la protezione e la sicurezza rimosse, perché si arrivi a provare i tormenti interiori.
La cittadella costruita in circa ottant’anni di vita di Lear dovrà prendere i suoi bastioni di difesa, uno dopo
l’altro. La stessa cosa succede a Gloucester fino al momento in cui lui e Lear dovrà perdere i suoi bastioni di
difesa, uno dopo l’altro. La stessa cosa succede a Gloucester fino al momento in cui lui e Lear saranno pari,
fiano a fianco. Quando è sul punto di morire, Gloucester trova un momento di pace. Scopre che la maturità
è tutto, ma Lear deve andare ben oltre. Al principio, nella tempesta, Lear è ancora abbastanza forte da
sfidare gli elementi. Ma per lui presto inizia una nuova fase. Come il duca in “Misura”, Lear lascia il
palazzo, ed è la prima volta, per constatare direttamente come vivono i suoi sudditi e poi gli esseri umani
in generale; un viaggio di rivelazione. Ma è ancora protetto dai suoi ricordi e dalla sua personalità. Con
incredibile precisione, Shakespeare procede da psicologo, neurologo e sociologo. La mente di Lear è
totalmente incapace di affrontare questo flusso di nuove impressioni. Ma lo tsunami travolge tutto.
L’ultima linea di difesa deve cedere. Il solo rifugio è quello che egli teme di più: la pazzia. I due vecchi,
Gloucester e Lear, l’uno fisicamente e l’altro mentalmente cieco, s’incontrano per scambiare una nuova
visione e comprensione degli esseri che, intorno a loro, hanno dovuto mentire e adulare per raggiungere i
propri scopi. Soltanto ora Lear è pronto, con un infinito dolore eppure con una nuova opportunità di quiete,
a riconoscere Cordelia, le qualità di lei e la propria cecità. Il seguito potrebbe facilmente essere un lieto
fine. Lear può accettare tutto quello che gli capita finchè ha un legame d’amore con la figlia. Ma il
racconto è spietato: occorre abbattere un’ultima barriera affinchè appaia la sua verità essenziale.
Cordelia deve pagare per il suo atto di ribellione. Cordelia deve morire, deve giacere là fra le braccia del
padre; e gli ultimi sforzi di lui per trovare un senso e una rotta falliscono.

La clessidra. Ogni granello serve


B. afferma che due ore di rappresentazione teatrale possono essere niente più di un modo per ammazzare
il tempo oppure una concentrazione di esperienze, come in “Re Lear”, che altrimenti richiederebbero una
vita intera. Tutto lascia pensare che Shakespeare scrivesse a gran velocità. Sembrerebbe che la sua
tranquilla, gentile facciata coprisse una pentola a pressione di vorticosi, persino esplosivi atomi di pensiero,
sensazioni, ricordi ed esperienze. Per questa ragione, il nostro punto di partenza, avvicinandoci ai suoi
versi, è riconoscere la concentrazione e la densità di ciascuna frase, spesso ingannevolmente semplice. E
all’interno della frase, ciascuna parola, ciascuna forma, durata e suono non possono prescindere dal
proprio significato. In generale va detto che nel teatro ottocentesco, i monologhi erano considerati una
cassa di risonanza, e solo gli attori di enorme talento, attraverso la pura intuizione, riuscivano a concentrarsi
sui dettagli della vita delle parole, lì dove si univano pensiero e sentimento. Nel ‘900, come reazione alla
magniloquenza, subentrò un freddo approccio accademico. Esso insegnò a una nuova generazione di attori
a studiare la struttura del verso come entità separabile dal suo significato. Ciò portò molti attori alla stessa
impasse a cui sono portati i cantanti lirici dai loro insegnanti. Shakespeare è stato spesso descritto come un
autore di testi a metà strada tra il dramma e l’opera, ed è inutile vedere quanto questa prospettiva può
essere pericolosa. Chiaramente in entrambi i casi l’unico punto d’inizio è cogliere cosa ha ispirato le prime
parole dello scrittore o le prime note del compositore: quasi sempre ci sono personaggi umani immersi in
una particolare situazione umana. Se l’autore o il compositore ne è stimolato, allora il resto viene da sé. Ma
nella lirica, le cose iniziano diversamente. Qui un artista affronta un nuovo ruolo con un insegnante
preciso ed esigente al piano → l’insegnante corregge l’artista nei dettagli del ritmo e dell’intonazione ben
prima che il contesto, la situazione in sé, sia minimamente preso in considerazione. Naturalmente, essi
conoscono la storia in modo sommario. A guidarli è il piccolo dettaglio di ogni situazione. Le parole
appaiono e sono queste parole ad aver ispirato al compositore la melodia. Può succedere facilmente lo
stesso con la recitazione in versi. Fino a tempi recenti, l’attore shakespeariano doveva apprendere le
regole del verso (le dieci battute, la possibile divisione in cinque più cinque, le pause alla fine di ogni rigo
e così via) prima di essere messo a contatto con la fonte dell’ispirazione dello scrittore e ancor più con la
forma, il modello e il ritmo del pensiero stesso. Un pensiero vero è accompagnato da un sentimento ed è
dal sentimento che nasce il flusso della musica. Shakespeare, nella velocità appassionata con cui ricercava
le parole per l’informe tumulto al suo interno, non ha mai contato da uno a dieci. Ciò costituiva una parte
profonda della sua coscienza, e dunque negli scritti della maturità, quando la pressione del sentimento
era più forte dell’accuratezza, egli violava le sue stesse regole. Quando scrisse per “Lear” “never…never…
never…never…never” formò un pentametro perfetto, ma se l’attore osservasse la cadenza il risultato
sarebbe rigido e senza vita. Invece l’attore deve fare in modo che la musica risulti diversa ad ogni singola
rappresentazione. Se prendiamo l’ “Amleto”, il giovane e brillante principe non solo esamina tutto ciò che,
fino a quel momento, ha accettato della vita di corte, bensì mette in dubbio la propria istruzione e la
propria naturale eloquenza. “Words, words, words” è un interrogativo profondo: qual è l’autentico valore
delle parole? I pensieri che sembravano così essenziali per la ricerca della verità sono improvvisamente visti
come nient’altro che pallidi segni. Naturalmente, l’intero monologo con i suoi interrogativi serve a
illuminare questo momento, ma è sufficiente prendere il verso “thus conscience does make cowards of us
all” (“così la coscienza ci fa tutti vigliacchi”). Introspezione, consapevolezza sono contenuti in “coscience”,
che intuitivamente consente a Shakespeare di dare forza viva all’autoanalisi utilizzando il suono più forte di
“cowards” e poi, con la presenza senza dubbio immediata e intuitiva del suono percussivo, usando la
cacofonia di una “c” ripetuta. Può essere d’aiuto per gli attori sapere questo, anche se hanno preso una
laurea? O non è piuttosto una spiccata sensibilità verso ogni aspetto del verso, la sua forma, il suo suono e il
suo significato, a poter garantire la preparazione necessaria? Se pensiamo al verso “And enterprises of
great pith and moment” (ci sono molti modi per avvicinarsi ad esso. Qualcuno, seguendo le regole
teoretiche, potrebbe essere indotto a mettere tre accenti: “enterprises of great pith and moment”. Qualcun
altro, cercando di rendere il tutto naturale e moderno, potrebbe aggiungere un quarto accento: enterprises
of great pith and moment o persino un quinto: enterprises of great pith and moment. In modo diverso, ogni
variante smarrisce la forza di un verso che, preso nel suo insieme, esprime vividamente un unico pensiero.
Non occorre sottolineare una parola attraverso un accento. La parola può essere riempita di uno speciale
significato senza interrompere il flusso dei versi: enterprisesofgreatpithandmoment. Ciò non ha bisogno di
essere farfugliato o spezzato. La vita emerge cambiando colore alle vocali. Queste non sono accentate, i
colori sorgono in maniera naturale dal pensiero e dal sentimento senza che si perda la forma della frase. Il
movimento continua, “with this regard their currents turn awry”, per giungere a una conclusione di
estrema chiarezza con sei piccole parole quotidiane, “and lose the name of action”. Quindi anche la più
semplice parola, “action”, reca il peso di tutto quanto ci ha preparato alla sua apparizione e al posto che
occupa nella vita di Amleto in quel momento. L’equivalente musicale è ritrovare la libertà del metronomo:
Peter Hall l’ha chiamato “free jazz”. Il free jazz non è mai disordinato. L’accento c’è, senza essere tiranno.
La frase prende forma, cavalcando le onde. I declamatori di versi e i cantanti lirici potrebbero imparare
moltissimo ascoltando ogni forma di musica popolare da Billie Holiday a Edith Piaf, lì dove la passione, il
sentimento, l’intonazione, il ritmo, ogni cosa nasce dalla parola. B. poi afferma che in Shakespeare le
parole sono piccoli spermatozoi, ciascuno di essi con la sua direzione, il suo scopo. Noi cerchiamo di
metterci a sua disposizione, e questo ci richiede molte cose: pazienza, impazienza, fretta, calma. In termini
di stile e di struttura, il verso è al polo opposto del discorso quotidiano. In una relazione normale, non
parliamo fra noi in versi o canzoni. Questa dicotomia può portare verso direzioni totalmente opposte. Può
produrre una lingua scenica che lo spettatore istruito riconosce come artificiale. Le battute e i personaggi
sono uccisi all’istante, se cerchiamo di ricostruire il periodo nel quale furono scritti, come se Shakespeare
fosse soltanto un prodotto dei suoi tempi. Di fatto, le regie di tutto il mondo ci danno costantemente
nuove visioni dei drammi. Infine B. dice che quando il pensiero e il sentimento sono perfettamente
amalgamati, la frase, il suono, il gesto più insolito divengono perfettamente naturali. E’ in questo la
verifica, sempre. Quando al momento dell’esperienza tutto sembra naturale, la questione non si pone
nemmeno. Siamo toccati in una maniera nuova: non c’è tempo per nient’altro. Solo significato. Questo è
tutto quel che riguarda il verso.

Un cuoco e un concetto. Sognando il “Sogno”

B. afferma che non gli era mai passato per la testa di dirigere “Sogno di una notte di mezza estate”. Eppure
quando gli proposero di mettere in scena l’opera a Stratford, si ritrovò, con grande sorpresa, a rispondere di
sì. Da qualche parte, dentro di lui, ci doveva essere un’intuizione che fino allora aveva ignorato. Poco dopo,
la prima tournèe in Europa del circo di Pechino dimostrò come, nella leggerezza e nella rapidità di corpi
anonimi lanciati in straordinarie acrobazie prive di esibizionismo, si potesse manifestare il puro spirito. Era
un invito ad andare oltre l’illustrazione, in favore dell’evocazione, e per questo iniziai a pensare a una co-
produzione con i cinesi. L’anno successivo, a New York, fu un balletto di Jerome Robbins a schiudere
un’altra porta. Un piccolo gruppo di ballerini attorno a un pianoforte dava nuova e magica vita a quei
notturni di Chopin che erano sempre stati inseparabili da un corredo di tutù, alberi colorati e chiaro di luna.
In abiti senza tempo, essi ballavano e basta. Questi stimoli alimentarono l’ardente sensazione che, da
qualche parte, forme inaspettate fossero in attesa di essere scoperte. Ne parlò con Trevor Nunn, direttore
del Royal Shakespeare Theatre, il quale disse di aver messo su per quella stagione una compagnia giovane,
in grado di apprendere tutto in pochissimo tempo. Cominciarono con la sola convinzione che, se avessero
lavorato duro, a lungo e con entusiasmo su tutti gli aspetti della commedia, una forma sarebbe
gradualmente emersa. Iniziarono a preparare il terreno per dare a questa forma una possibilità. Ogni
giorno improvvisavano i personaggi e la storia, si esercitavano sulle acrobazie e sul passaggio dal corpo
alla mente, discutevano e analizzavano il testo rigo per rigo, senza la minima idea di dove questo li
avrebbe condotti. Non c’era disordine, c’era anzi una guida sicura, la sensazione che una forma
sconosciuta li invitasse a proseguire. Con libertà e gioia, Alan Howard, nei panni di Oberon, comprese
rapidamente non solo di poter dominare l’arte di far ruotare un piatto su un bastone appuntito, ma di
essere in grado di farlo anche su un trapezio, senza perdere alcuna sfumatura nel suo modo
eccezionalmente delicato di recitare i versi. Il suo Puck, John Kane, fece lo stesso, apprendendo con
maestria a camminare sui trampoli. Su un altro piano, un attore di gran talento, tragicamente scomparso in
giovane età, Glynne Lewis, scoprì che l’idea da sempre accettata secondo cui il pianto di Tisbe per la morte
di Piramo fosse solo una farsa racchiudeva in realtà emozioni profonde. Questo trasformò di colpo i
tentativi di recitazione, solitamente assurdi, dei mechanicals (gli artigiani della commedia) all’interno del
palazzo in qualcosa di autentico e persino commovente. La scena veniva capovolta e le risatine brillanti e
altezzose del pubblico colto ben meritavano il rimprovero del duca: “Non c’è mai nulla di sbagliato in ciò
che ci offrono innocenza e zelo”. Poi per la prima volta, adottarono un procedimento di cui non avrebbero
più potuto fare a meno. Nel bel mezzo delle prove invitarono un gruppo di bambini; in seguito coinvolsero
un gruppo di persone scelte ad hoc in un circolo di Birmingham per testare quanto stavano facendo. In un
attimo, forze e deplorevoli debolezze vennero spietatamente alla luce. Si accorsero che gli scherzi che si
fanno in sala prove li avevano ingannati e che tutto quello che faceva scoppiare a ridere la compagnia
risultò un fiasco. Fu evidente che alcune forme embrionali dovevano essere sviluppate e altre scartate,
sebbene nulla nel processo andasse perduto. Tuttavia il mosaico iniziava lentamente a prendere forma,
anche se l’anteprima era stata un disastro. Il problema era l’inizio: si pensò allora, grazie a John Barton,
collaboratore di Peter Hall (fondatore della RSC), di aprire l’opera con un’esplosione di percussioni ideata
dal compositore Richard Peaslee, sul cui suono l’intera compagnia irrompeva sulla scena, saliva le scale e si
disperdeva come uno sciame sul livello più alto con un’euforia e un’energia tali da trascinare anche il
pubblico. La presenza del pubblico durante una settimana di anteprime e un’estenuante verifica di ogni
singolo dettaglio permisero finalmente alla struttura latente di emergere. Dopo aver rifiutato di fare dello
spettacolo un film, B. ricevette dal Giappone la proposta di far riprendere lo spettacolo per la televisione,
in modo che fosse visto in tutto il Giappone, contribuendo così alle spese. Gli garantivano che, se tutti
fossero stati d’accordo, la registrazione sarebbe poi stata distrutta alla presenza del console inglese. La
compagnia accettò. Tuttavia in seguito, una volta vista la registrazione, B. cambiò idea chiedendo che la
registrazione non fosse più bruciata, ma ormai era troppo tardi. Lì B. capì che l’esperienza gli servì a
ricordargli di rimanere fedele alle sue convinzioni. La vita di un’opera teatrale inizia e finisce nel momento
dello spettacolo. E’ qui che autore, attori e registi esprimono ciò che hanno da dire. Se lo spettacolo ha un
futuro, non potrà che risiedere nel ricordo di coloro che erano presenti e che ne hanno conservato una
traccia nel cuore. Infine B. parlando di “concetto” dice che è il risultato e viene alla fine. Ogni forma è
possibile se viene scoperta sondando sempre più in profondità la storia, le parole e gli esseri umani che
chiamiamo personaggi. Se il concetto viene imposto in partenza da una mente prevaricatrice, allora si
chiude ogni porta. Il concetto quindi avviene attraverso il processo e non prima.

C’è un mondo altrove. La prontezza è tutto.


Parlando sempre di Shakespeare, B. afferma che in una singola parola, persino nella parola “parola”, ci
sono tutti quei livelli che l’edificio del teatro elisabettiano assorbe e riflette: dalla piazza del mercato fino
al trascendente. B. poi afferma che John Gielgud era il più raffinato declamatore di versi della sua
generazione. Non teorizzava mai. La profonda intuizione del significato era immediata. L’atto fisico del
parlare dava vita istantanea a tutto quello che pensieri ed emozioni erano in grado di offrire. Fino al
punto di renderlo un fenomeno neurologico unico. Il movimento della lingua era inseparabile dal
movimento del pensiero. Questo lo rese autore delle ben noto e tanto amate gaffe: nella sua mente
spuntava un giudizio terribile sul lavoro di un attore e di colpo quel pensiero veniva pronunciato ad alta
voce. Stesso cosa capitò all’ “Amleto” di B., infatti anche se lo spettacolo fu un fiasco, l’attore che
interpretava il protagonista, Paul Scofied, rifiutò ogni genere di analisi e discussioni, seguendo la propria
strada. Ad esempio a Mosca, il pubblico, così abituato a una interpretazione di Amleto antiquata e
artificiosa in spettacoli faticosamente lunghi, rimase completamente sbalordito di fronte a tanta chiarezza e
rapidità. B. fa poi riferimento ad una frase di Amleto, “The readiness is all”, infatti all’interno della
prontezza vi è il prezioso deposito dell’esperienza. Coscientemente custodito, o inconsciamente sepolto,
esso è un legame con l’inconscio collettivo. Quando gli attori sono in grado di richiamare il mondo affinchè
risuoni in loro, questo deposito dell’esperienza può elevarsi fino alla coscienza del mondo stesso. In
generale la parola è come un guanto: un oggetto inanimato da ammirare in una vetrina o in un museo.
Ma la vita è data dalla mano che lo riempie, con ogni forma, da quella banale a quella espressiva. Ma poi
B. afferma che una parola può essere più di un guanto. E’ un magnete. Quando si adagia su uno spazio
interiore ancora vuoto, nel momento in cui viene pronunciata, può riportare in superficie materiale
sepolto nell’inconscio. E in momenti davvero speciali, può attrarre il materiale condiviso dall’umanità. B.
poi dice che quando guardiamo la pagina stampata di un’opera di Beckett, troviamo quasi sempre una
battuta breve seguita da “pausa”. Questo era il consiglio di Beckett agli Attori. Cechov faceva lo stesso, ma
come “pausa” usava “…”. Affinchè una semplice serie di parole acquisisca la più ampia dimensione
umana, colui che parla deve fidarsi delle risonanze che sorgono in questi piccoli spazi. Tali momenti di
silenzio esistono anche nei film, nei romanzi. Ma in teatro, nell’atto di ricreare assieme al pubblico una
frase ad ogni replica, la pausa, i tre punti non possono mai essere gli stessi. Sono la traccia stessa della
presenza di vita.

La qualità del perdono. Su Prospero


B. parla di “Pene d’amor perdute”, dicendo che quest’opera, scritta da un giovane ricolmo delle immagini
sorte dalla sua capacità di percepire la vita in ogni singola forma, è un’esperienza straordinaria,
sorprendente e inebriante. La prima volta che l’ha vista, dice B., è stato colpito da qualcosa che ai suoi occhi
è apparso evidentissimo. Al termine di questa straordinaria, apparentemente artificiosa commedia
danzante, giusto prima della fine, prima del momento in cui, com’è naturale, ogni cosa torna felicemente al
suo posto, di colpo la morte fa il suo ingresso nella storia. Un gruppo di persone che ha sempre trascorso
una vita gioiosa in un mondo dorato si trova improvvisamente a dover accettare il fatto che quel mondo
dorato è solo una parte, e non l’unica, dell’esistenza. Se prendiamo poi l’ultima opera di Shakespeare, “La
tempesta”, vediamo che l’ultima parola creativa da lui scritta è “free” (“libero”). Prospero infatti dice al
pubblico “Set me free” (“Rendetemi libero”). A queste parole precede la frase “My ending is despair” (“La
mia fine è disperazione”). Poi la frase continua con una condizione: “Unless I be relieved by prayer” (a
meno che io non sia salvato dalla preghiera”). A leggere tali parole in maniera ingenua, un po' da
catechismo, cadremmo in una tremenda banalità, poiché, se Shakespeare avesse scelto questo come finale,
si sarebbe sì sottratto alla trappola del patetismo di un finale in “disperazione”, ma per sostituirlo con una
parola generica, pia e totalmente inflazionata, “preghiera”, sul cui significato non esistono due persone che
siano d’accordo. E invece Shakespeare dice basta, ascoltate: la preghiera deve essere vista per quello che
realmente è. Non solo una preghiera che dice solo “ti prego, dammi questo o quello, ti prego, fallo per me”.
Prospero sta dicendo di aver bisogno di una preghiera che “pierces so that it assaults mercy itself” (“che
penetri al punto da attaccare lo stesso perdono”). L’espressione “una preghiera che penetra” può da sola
indurre una persona a trascorrere anni in monastero nel tentativo di comprenderla. Con questa
espressione Shakespeare attacca il perdono. Infatti lega saldamente le parole “perdono” e “attaccare”, e da
questo chiaro e al contempo oscuro, incomprensibile paradosso che paralizza il pensiero arriva una
soluzione semplicissima, e cioè che i “crimini” saranno perdonati e che dall’indulgenza può nascere la
libertà. B. va quindi contro la credenza che queste ultime battute della “Tempesta” siano come tipico
modello di discorso di commiato, cioè come chiusura dell’attore secondo le convenzioni del teatro comico.
B. poi afferma che ci sono innumerevoli tematiche in Shakespeare, ma i suoi testi sono costantemente
dominati dai concetti di ordine e caos, caos e ordine: cos’è il caos, qual è il luogo del caos, cos’è l’ordine,
cosa intendiamo con ordine, a cosa può condurre l’ordine, che relazione ha con il caos? Sono forse i temi
più vicini alle nostre vite, sia all’esterno che all’interno di noi stessi, in questo momento della storia. Siamo
all’interno del caos e c’è un profondo e disperato bisogno di ordine. E tuttavia siamo in un momento in cui,
forse giustamente, ci accorgiamo di non saper comprendere l’apparente significato di nessuno dei due.
Perché il caos non può essere associato esclusivamente alla rovina assoluta. Il caos è qualcosa di più di una
totale catastrofe: caos e catastrofe non sono esattamente la stessa cosa. E l’ordine viene costantemente
tradito: qualsiasi profeta, qualsiasi leader che si sia alzato tra la folla per cercare di richiamarci all’ordine ha
sempre tradito l’ordine, sostituendolo con un ordine inventato, talvolta splendidamente inventato.
Desideriamo ordine, e tuttavia oggi iniziamo a mostrare più rispetto per il caos. Possiamo avvertire
l’immenso e dinamico potere delle forze quando queste vengono liberate. E possiamo amare e rispettare la
straordinaria qualità dell’immobilismo, che persino una candela può esprimere, e sentire come il caos del
fuoco non sia in contraddizione con la comprensione della fiamma. Questo è il tema che ricorre in tutta
l’opera di Shakespeare. Va detto che in numerosi altri drammi, drammi di guerra, drammi di lotta, drammi
di conflitto, drammi di antagonismo, drammi di odio, di omicidio, di gelosia, si può cogliere come l’idea di
ordine, di struttura sia affrontata e spazzata via da energie straordinarie. Senza voler ridurre Shakespeare a
un unico tema, questo particolare elemento ricorre continuamente nelle sue opere: grandi e opposte fonti
di energia che portano a conflitti dinamici. Quando arriviamo a “La tempesta”, notiamo come questa ben
precisa lotta venga chiaramente drammatizzata da Shakespeare all’interno della sua storia finale. Prima
dell’inizio dell’opera, Prospero era un duca molto raffinato, colto, sensibile e intelligente. Ma questo duca è
stato deposto, rimosso dalle sue mansioni e cacciato via dal suo palazzo, senza pietà. E la cosa interessante
è che se lo meritava perché in qualità di frequentatore di biblioteche, dove studiava l’occulto e leggeva
questioni spirituali, era un individuo ammirevole, romantico, per certi versi un sognatore, ma chiaramente
un duca assai mediocre. Non ha idea di cosa ci si aspetta da una persona nella sua posizione. Il suo
spietato fratello era un uomo che concepiva l’ordine nel modo più crudele, il modo da sempre concepito
dai politici. Non c’è politico, al giorno d’oggi, che prima o poi non tiri fuori dal suo vocabolario il “bisogno
d’ordine”. E’ insito nei meccanismi del partito, insito nell’intera struttura. Egli viene eletto sfruttando una
minima parte dell’ampio concetto di ordine. E naturalmente durante il percorso riduce quest’ampio
concetto non solo a una cosa meschina, ma in ultima analisi a qualcosa di pericoloso e distruttivo. Prospero,
dunque, tradì l’ordine, e il suo ordinato fratello venne e ripristinò la propria idea di ordine, si sbarazzò di
Prospero, che fu gettato su una putrida barca e si ritrovò su un’isola deserta. Prospero viene riscosso dal
confortevole sogno milanese e inizia a guardare la realtà con occhi nuovi. Prospero è catapultato fuori dal
sogno in un contesto durissimo e inospitale, su un’isola apparentemente deserta, ed è costretto a esplorare
un mondo nuovo, costretto a esplorare un mondo spirituale che credeva di poter conoscere unicamente
attraverso i libri. Ora deve scoprirlo in modo faticoso, attraverso la propria esperienza. Si imbatte in
streghe, spiriti e, con Calibano, in forze molto violente. Nel suo monologo in cui parla della magia
apprendiamo che Prospero aveva imparato a essere un mago non solo per fare qualche trucco e far
apparire il cibo affinchè lui e la figlia non morissero di fame; non l’ha fatto solo per essere attorniato da
qualche schiavo elfo o folletto che lo servisse a tavola o pulisse il rifugio; dice molto chiaramente che non si
limitò a giocare piacevolmente con gli spiriti, ma che andò oltre; imparò a porre tuoni e fulmini sotto il suo
controllo. In altre parole, entrò in un gioco di potere molto pericoloso: iniziò ad avere il potere sulle
primordiali forze ed energie della Natura. Aggiunge inoltre che lo faceva per proprio diletto, per apire
tombe e farne emergere corpi. E’ entrato quindi nel caos delle forze naturali, ha visto come l’uomo sia in
grado di dominarle, di esserne padrone e diventare una sorta di superuomo, e come quel superuomo sia
nella posizione di vendicarsi. Ha raggiunto una vetta allarmante dello sviluppo umano; è diventato un
mago. Ha il potere; può vendicarsi del fratello, che ha usurpato il suo ducato. Ora potrà farlo cadere nelle
sue mani. In questo modo Prospero sembra l’emblema dell’uomo libero. Ma certamente Shakespeare, assai
astutamente, ricrea questa trappola per il pubblico, perché invita a nutrire una furtiva ammirazione per
questa super figura che è il mago. Ma in “La tempesta” non è questa la fine dell’opera, e non è di questo
che l’opera tratta. Nella trama secondaria dominano ambizione, rabbia, vendetta. Trinculo, Stefano e
Calibano cospirano per uccidere Prospero. Ma Prospero comprende di dover abbandonare
completamente la magia, gettare a mare i libri e spezzare la bacchetta. Solo dopo aver fatto questo sarà
in grado di compiere davvero un nuovo passo, e questo passo è quello che porta dalla vendetta al
perdono. Ora, per lo meno, è nella posizione di poter essere un uomo uguale a tutti gli altri . E ora
comprende di non poter pretendere di giudicare suo fratello. Tutto ciò che può fare è restituire l’isola a
Calibano e poi tornare alla sua vecchia vita. Sebbene Prospero torni formalmente a essere duca, sa che ciò
di cui ha davvero bisogno è tornare da dove è partito, nella sua Milano, nel luogo d’origine, alla fonte, come
uomo tra gli uomini, come semplice persona. Ma non è ancora qui che termina l’opera. Ora tornerà
indietro, dice, vivrà una vita semplice e un pensiero su tre sarà per la mia tomba (ancora, come in “Pene
d’amore perduto”, il pensiero è quello di morte). Ma se Shakespeare avesse scelto questa come
conclusione senza scrivere l’epilogo, qualcosa mancherebbe, qualcosa rimarrebbe debole, confuso, vago,
incompleto. E’ qui, secondo B., che l’opera si dimostra una grande sfida per la nostra comprensione. C’è
l’ordine e c’è il caos, c’è il potere e c’è l’abbandono del potere, c’è l’orgoglio e c’è l’umiltà, ma in tutte
queste opposizioni qualcosa è inespresso, qualcosa manca profondamente. Forse propria “questa qualità
del perdono”. Qualità e Perdono. Nel momento in cui qualcuno provi a definirle esattamente con la
comprensione ordinaria, si allontana di un passo dalla possibilità di un altro tipo di comprensione. Qualità,
perdono, libero: questa trinità è l’enigma shakespeariano.

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