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Si sa che ci siano diverse teorie sull’inesistenza di Shakespeare come unico individuo, che fosse un
impostore drammaturgo che in realtà metteva in scena opere in un segreto scrittore. Un po' l’origine di
questa idea deriva dal nome Shakespeare → 1) in una lingua del sud della Russia “Shake” significa “sceicco”
e “pir” “uomo saggio”; 2) uno studioso ha scoperto che una famiglia scappò dal Palermo in Inghilterra a
causa dell’Inquisizione, il loro nome era Crollalancia, e “crollo” si può tradurre con “Shake” e lancia con
“Pear”. B. afferma in ogni caso che Shakespeare era ed è unico. Torreggia su tutti gli altri drammaturghi.
Shakespeare tocca ogni aspetto dell’esistenza umana. In ognuna delle sue opere, il tanfo, il lordume, la
miseria dell’esistenza ordinaria si mescola con il nobile, il puro e il sublime. Questo si manifesta tanto nei
personaggi che ha creato, quanto nelle parole che ha scritto. Ma come ha potuto un solo cervello
espandersi su una gamma così vasta? Per molto tempo, la domanda è bastata di per sé a eliminare l’idea di
un uomo del popolo. Poteva essere solo una persona di nobili natali e di educazione superiore. Un
comune studente di campagna, per quanto talento avesse, non avrebbe mai potuto abbracciare tanti livelli
di esperienze. Questo non è detto, ma sicuramente egli doveva avere una straordinaria capacità di ricevere
e ricordare ogni sorta di impressioni. Un poeta assorbe tutto ciò che prova ma un poeta di genio va oltre:
filtra e ha la capacità unica di collegare fra loro impressioni apparentemente del tutto separate o
contraddittorie. Siccome con Shakespeare parliamo di genio, va detto che il genio può nascere negli
ambienti più umili. Il livello di istruzione all’epoca elisabettiana era notevolmente elevato. C’era una norma
secondo la quale nessun uomo di campagna doveva essere meno istruito, in fatto di conoscenze classiche,
dei figli dell’aristocrazia. Va poi detto che da direttore di teatro scaltro in affari qual era, Shakespeare
spesso si rendeva conto che la sua compagnia poteva fallire e i salari non essere pagati, a meno che egli non
se ne uscisse, e assai in fretta, con un nuovo successo. Non c’è documento che attesti un processo di
riscrittura. Non c’erano opere chiuse in un cassetto, incomplete, nessun blocco dello scrittore, nessun
perfezionismo alla Beckett, con continue riscritture, bozza dopo bozza. Il suo cervello non si fermava mai,
era sempre lì a cercare e a sperimentare. In teatro, oggi, ieri, ovunque nel mondo, l’autore è presente
come essere umano vivo. Shakespeare non poteva arrivare il giorno dello spettacolo e, una volta distribuite
le parti agli attori, aspettarsi che, poche ore dopo, questi recitassero “Amleto” o “Re Lear” senza prove o
preparazione, senza ripetere le entrate e le uscite, gli attacchi musicali e gli spostamenti da un livello
all’altro del palcoscenico. Ci voleva quindi il giusto tempo, e non potevano non sorgere domande, anche
disaccordi con l’autore, specialmente poi se questi era un membro della compagnia, ben cosciente dei
problemi da risolvere in fretta e tutti insieme. Oltre agli attori inoltre al Globe c’erano, allora come oggi,
suggeritori e assistenti di palcoscenico professionisti che svolgevano le dovute funzioni sotto nomi diversi
come “stage keepers” (“custodi di scena”), onnipresenti alle prove e durante lo spettacolo per aprire e
chiudere sipari trasversali, raccogliere e tirar fuori l’attrezzatura, assicurarsi che gli attori rispettassero i
tempi di entrata e soprattutto mantenere ordine in palcoscenico, tra la folla e in tutte le scene di battaglia,
dove c’era un numero sempre variabile di figuranti da tenere sotto controllo. Questi custodi di scena
talvolta erano noti perché dicevano ad alta voce i loro giudizi sull’opera. E’ strano, persino surreale,
immaginare Shakespeare che lavora, anno dopo anno, con questi impiegati stanchi e scontenti, senza che
nessuno metta mai in dubbio la sua qualifica. Immaginiamo questo falso Shakespeare messo alle strette.
Deve riscrivere e aggiungere una scena. Ci riflette un po', calcola quanto tempo impiegherebbe un uomo a
cavallo per arrivare magari a Oxford o a York, aspettare che lo scrittore segreto gli dia i propri testi e poi
fare ritorno. Shakespeare ogni volta si troverebbe a farfugliare qualcosa, per poi ribattere: “Mi ci vorranno
cinque giorni”. E nessuno mai che notasse niente di strano, anche se la cosa doveva essere andata avanti
per anni? Va detto poi che l’epoca di Shakespeare ribolliva di drammaturghi buoni e cattivi, generosi e
spietati. La maggior parte di loro è morta povera, Shakespeare fu uno dei pochissimi a ritirarsi con soldi a
sufficienza per comprarsi della terra. C’erano tutte le ragioni per invidiarlo. La Londra elisabettiana non
faceva eccezione: come dappertutto, gli scrittori cercavano di sbarcare il lunario, pronti a lanciar libelli in cui
denunciavano i colleghi. Shakespeare era un bersaglio perfetto. Non è strano quindi che non esistano
documenti che smascherino questo falso attore-direttore che finge di scrivere e pubblica con il suo nome
lavori di enorme successo? La gente di teatro parla spesso di sé come di una famiglia. E in una famiglia i
segreti e le bugie sono cosa nota a tutti. Pare che esistano circa settanta pretendenti al trono di
Shakespeare. C’è anche una donna, una signora spagnola/ebrea che veniva definita la “dark lady” dei
sonetti. E c’è una voce secondo la quale la regina Elisabetta avrebbe scritto le opere in collaborazione con
un figlio illegittimo avuto da una relazione incestuosa. Inoltre una signora di Boston che si chiamava Delia
Bacon si svegliò e decise che Shakespeare doveva essere stato il suo pro-pro-pro-pro-prozio ad aver scritto
le opere. Certamente ogni aspetto della vicenda di Shakespeare è colmo di contraddizioni inspiegate. Non
conosceremo mai le risposte. Tutto quello che sappiamo suggerisce che Shakespeare sia stato un uomo
assai modesto. Non ha usato i personaggi per esprimere i suoi pensieri, le sue idee. Non ha mai imposto il
suo mondo nel mondo che fa trasparire. Ibsen non ha esitato a mostrare i suoi sentimenti riguardo alla
società in cui viveva. Brecht ha scritto per dimostrare ciò che era sbagliato nel mondo e in che modo
andasse cambiato. Invece, anche sotto tale aspetto, Shakespeare è stato unico. Non giudicava mai, ha
offerto un’infinità di punti di vista con la loro pienezza di vita, lasciando aperto ogni interrogativo sia
all’umanità che all’intelligenza di ciascuno spettatore.
B. afferma che non gli era mai passato per la testa di dirigere “Sogno di una notte di mezza estate”. Eppure
quando gli proposero di mettere in scena l’opera a Stratford, si ritrovò, con grande sorpresa, a rispondere di
sì. Da qualche parte, dentro di lui, ci doveva essere un’intuizione che fino allora aveva ignorato. Poco dopo,
la prima tournèe in Europa del circo di Pechino dimostrò come, nella leggerezza e nella rapidità di corpi
anonimi lanciati in straordinarie acrobazie prive di esibizionismo, si potesse manifestare il puro spirito. Era
un invito ad andare oltre l’illustrazione, in favore dell’evocazione, e per questo iniziai a pensare a una co-
produzione con i cinesi. L’anno successivo, a New York, fu un balletto di Jerome Robbins a schiudere
un’altra porta. Un piccolo gruppo di ballerini attorno a un pianoforte dava nuova e magica vita a quei
notturni di Chopin che erano sempre stati inseparabili da un corredo di tutù, alberi colorati e chiaro di luna.
In abiti senza tempo, essi ballavano e basta. Questi stimoli alimentarono l’ardente sensazione che, da
qualche parte, forme inaspettate fossero in attesa di essere scoperte. Ne parlò con Trevor Nunn, direttore
del Royal Shakespeare Theatre, il quale disse di aver messo su per quella stagione una compagnia giovane,
in grado di apprendere tutto in pochissimo tempo. Cominciarono con la sola convinzione che, se avessero
lavorato duro, a lungo e con entusiasmo su tutti gli aspetti della commedia, una forma sarebbe
gradualmente emersa. Iniziarono a preparare il terreno per dare a questa forma una possibilità. Ogni
giorno improvvisavano i personaggi e la storia, si esercitavano sulle acrobazie e sul passaggio dal corpo
alla mente, discutevano e analizzavano il testo rigo per rigo, senza la minima idea di dove questo li
avrebbe condotti. Non c’era disordine, c’era anzi una guida sicura, la sensazione che una forma
sconosciuta li invitasse a proseguire. Con libertà e gioia, Alan Howard, nei panni di Oberon, comprese
rapidamente non solo di poter dominare l’arte di far ruotare un piatto su un bastone appuntito, ma di
essere in grado di farlo anche su un trapezio, senza perdere alcuna sfumatura nel suo modo
eccezionalmente delicato di recitare i versi. Il suo Puck, John Kane, fece lo stesso, apprendendo con
maestria a camminare sui trampoli. Su un altro piano, un attore di gran talento, tragicamente scomparso in
giovane età, Glynne Lewis, scoprì che l’idea da sempre accettata secondo cui il pianto di Tisbe per la morte
di Piramo fosse solo una farsa racchiudeva in realtà emozioni profonde. Questo trasformò di colpo i
tentativi di recitazione, solitamente assurdi, dei mechanicals (gli artigiani della commedia) all’interno del
palazzo in qualcosa di autentico e persino commovente. La scena veniva capovolta e le risatine brillanti e
altezzose del pubblico colto ben meritavano il rimprovero del duca: “Non c’è mai nulla di sbagliato in ciò
che ci offrono innocenza e zelo”. Poi per la prima volta, adottarono un procedimento di cui non avrebbero
più potuto fare a meno. Nel bel mezzo delle prove invitarono un gruppo di bambini; in seguito coinvolsero
un gruppo di persone scelte ad hoc in un circolo di Birmingham per testare quanto stavano facendo. In un
attimo, forze e deplorevoli debolezze vennero spietatamente alla luce. Si accorsero che gli scherzi che si
fanno in sala prove li avevano ingannati e che tutto quello che faceva scoppiare a ridere la compagnia
risultò un fiasco. Fu evidente che alcune forme embrionali dovevano essere sviluppate e altre scartate,
sebbene nulla nel processo andasse perduto. Tuttavia il mosaico iniziava lentamente a prendere forma,
anche se l’anteprima era stata un disastro. Il problema era l’inizio: si pensò allora, grazie a John Barton,
collaboratore di Peter Hall (fondatore della RSC), di aprire l’opera con un’esplosione di percussioni ideata
dal compositore Richard Peaslee, sul cui suono l’intera compagnia irrompeva sulla scena, saliva le scale e si
disperdeva come uno sciame sul livello più alto con un’euforia e un’energia tali da trascinare anche il
pubblico. La presenza del pubblico durante una settimana di anteprime e un’estenuante verifica di ogni
singolo dettaglio permisero finalmente alla struttura latente di emergere. Dopo aver rifiutato di fare dello
spettacolo un film, B. ricevette dal Giappone la proposta di far riprendere lo spettacolo per la televisione,
in modo che fosse visto in tutto il Giappone, contribuendo così alle spese. Gli garantivano che, se tutti
fossero stati d’accordo, la registrazione sarebbe poi stata distrutta alla presenza del console inglese. La
compagnia accettò. Tuttavia in seguito, una volta vista la registrazione, B. cambiò idea chiedendo che la
registrazione non fosse più bruciata, ma ormai era troppo tardi. Lì B. capì che l’esperienza gli servì a
ricordargli di rimanere fedele alle sue convinzioni. La vita di un’opera teatrale inizia e finisce nel momento
dello spettacolo. E’ qui che autore, attori e registi esprimono ciò che hanno da dire. Se lo spettacolo ha un
futuro, non potrà che risiedere nel ricordo di coloro che erano presenti e che ne hanno conservato una
traccia nel cuore. Infine B. parlando di “concetto” dice che è il risultato e viene alla fine. Ogni forma è
possibile se viene scoperta sondando sempre più in profondità la storia, le parole e gli esseri umani che
chiamiamo personaggi. Se il concetto viene imposto in partenza da una mente prevaricatrice, allora si
chiude ogni porta. Il concetto quindi avviene attraverso il processo e non prima.