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Un suicidio di donna per una morte d’uomo → nella tragedia la morte di un uomo
sollecita o comunque dovrebbe sollecitare irresistibilmente il suicidio di una donna, la sua
sposa. In virtù dell’onore eroico, la morte di un uomo non può che essere quella di un
guerriero sul campo di battaglia e, al semplice annuncio di questo decesso la sposa, nella
sua dimora ben chiusa, muore passandosi al collo la corda. Per quanto riguarda l’uomo
basti pensare alle Coefore in cui i figli di Agamennone sognano una morte gloriosa per il
loro padre sotto le mura di Troia. Per quanta riguarda la donna invece, nelle Troiane,
Ecuba rimprovera severamente Elena perché mai nessuno l’ha sorpresa sul punto di
appendere una corda o di affilare il pugnale, come avrebbe fatto una donna nobile che
rimpiange il suo primo marito. Altro esempio è Clitemnestra in Agamennone, che,
mentendo, racconta ad Agamennone, suo sposo appena tornato, che tante volte stava per
impiccarsi per il dolore. Tuttavia né Clitemnestra, né sua sorella Elena si sono uccise.
Soprattutto Clitemnestra, con il suo comportamento si configura come una non comune
sposa tragica, in quanto, non avendo nessuna intenzione di uccidersi trasferisce la morte
dalla sua persona a quella del re (troviamo una circostanza simile in Medea , che invece di
uccidersi, uccide indirettamente il marito Giasone attraverso i suoi figli e la novella sposa).
Si può quindi dire che in Clitemnestra, la madre di Ifigenia e l’amante di Egisto hanno
trionfato sulla sposa e soprattutto la regina omicida ha smentito la legge della femminilità
che vuol trovare nel nodo del laccio un’uscita dall’aporia della sciagura.
Una morte priva d’ andreìa → Va detto che in generale, nell’immaginario comune dei
Greci, il suicidio viene moralmente condannato, in quanto la bella morte deve essere
accettata ma non cercata. Per punirsi è più nobile sopportare la vita invece che suicidarsi,
atto che risulta vergognoso e disprezzato anche da Platone nelle Leggi, il quale infligge al
suicida, per mancanza assoluta di virilità, la sanzione istituzionale di una sepoltura solitaria
e dimenticata. Nella tragedia il suicidio è soprattutto morte di donna, in particolare
l’impiccagione, morte ripugnante, basti guardare Giocasta, Fedra, Leda, Antigone. Ma
quella più interessante, ma poi rifiutata, è sicuramente quella delle Supplici . Il laccio di
morte, ultima risorsa nella fuga disperata davanti ai figli di Egitto, proteggerà le Danaidi
contro il desiderio violento del maschio, proprio come il precipitare dall’alto di una roccia a
strapiombo (cosa che esse sognano per un istante) potrebbe premunirle contro il
matrimonio. Al loro sposo, esse attribuiscono il nome di daiktor, cioè “colui che lacera”,
sinonimo dello stupro o della deflorazione. Per evitare questa lacerazione le Danaidi
minacciano di impiccarsi, ma poi non lo fanno, e per causa loro, una guerra verserà
sangue tra gli uomini.
L’incisione nel corpo virile → Secondo Euripide, una spada arma la mano di Thanatos
(la Morte) e un uomo degno di questo nome non può morire che sotto i colpi della spada o
della lancia di un altro uomo, sul campo di battaglia. Inoltre perfino in un sacrificio umano
occorre che il sacrificatore sia un uomo, soprattutto quando la vittima è maschile. Nella
tragedia, neppure il suicidio sfugge a questa regola imperativa, che esige che l’uomo
muoia per mano d’uomo, mediante la spada e con versamento di sangue. Basta pensare
all’ Aiace , nel quale il guerriero si suicida conficcandosi nel fianco la propria spada per
riscattare il suo onore e la sua reputazione. Anche nell’ Antigone Emone, il promesso
sposo di Antigone, si uccide con la spada dopo aver visto il cadavere della moglie ed
essersi scagliato contro il padre Creonte. Inoltre il nome di Emone ( Haimon) assomiglia
molto a quello del sangue ( haima).
Impiccamento o “sphage”→ Nel genere tragico importante è la parola sphage, nome
dello sgozzamento sacrificale ma anche della ferita e del sangue che ne sgorga. Con
questo verbo e i suoi derivati, il termine serve in modo evidente a designare i sacrifici,
come ad esempio quello di Ifigenia in Eschilo o quello di Macaria o Polissena per Euripide.
Tuttavia sia in Eschilo, in Sofocle e in Euripide, tale parola serve a designare il crimine in
seno alla famiglia degli Atridi ( Atreo, Menelao, Agamennone). Dalle stesse parole si
prende a prestito la designazione del suicidio quando è cruento, suicidio di Aiace, Deianira
ed Euridice. Sphazo, sphage e sphagion dunque non designano nella tragedia qualunque
micidiale sgozzamento o un suicidio qualunque, ma il lungo seguito di assassini risultanti
dall’applicazione della legge del sangue nella famiglia degli Atridi, oppure ad esempio
appunto la morte volontaria di Euridice ai piedi dell’altare di Giove Ercheio. In modo
generale, sphage serve a caratterizzare la morte mediante il ferro come morte “pura”, in
opposizione all’impiccamento. Tuttavia si perde il fatto che l’impiccagione è soltanto
femminile e la lacerazione maschile, proprio perché ad esempio Deianira o Euridice
affondano una spada nel proprio corpo oppure Ippolito viene avviluppato dalle redini dei
suoi cavalli. In generale comunque quand’anche l’avesse pensato, un uomo non si impicca
mai, ma un uomo che si uccide lo fa sempre da uomo, mentre per una donna l’alternativa
è aperta, o cercare nel nodo di una corda una fine molto femminile, oppure impadronirsi
della spada rubando agli uomini la loro morte.
La sposa involata → la parola metis , astuzia, è legata sempre a qualunque azione
violenta compiuta da una donna, sia essa armata di spada per uccidere o per uccidersi. Ad
esempio nell’ Orestea Cassandra utilizza la metafora della rete per profetizzare la fine di
Agamennone, oppure nelle Trachinie Deianira prende Eracle nella trappola avvelenata
della tunica di Nesso; entrambe sono materializzazioni della metafora della metis. Oltre
quindi alla parola metis che viene associato all’intrappolamento per un laccio, importante è
anche la parola aiora ( o eora) che si lega alla duplice immagine di un corpo sospeso e del
leggero movimento oscillatorio che gli è impresso. Per Giocasta, nella descrizione della
donna che “dondola stretta nel nodo” , viene usato il termine eora, mentre per Elena, che
alla fine non si impiccherà, l’impiccamento si riassume nel termine aiorema. Tale termine
viene usato anche nelle Supplici di Euripide, quando Evadne si accinge a lanciarsi nel fuoco
dall’alto della roccia aerea. Nel linguaggio tragico dunque esiste un’evidente parentela
tematica tra l’impiccamento e la precipitazione. Lo stesso verbo aeiro dunque, che esprime
elevazione e sospensione, si applica a questi due voli orientati in senso inverso, verso l’alto
e verso il basso, come se l’alto avesse una sua profondità, come se non si guadagnasse il
basso, cioè il suolo, senza sollevarsi. Ciò consente di gettare luce sull’associazione
ricorrente di queste due maniere di elevarsi all’interno delle “odi d’evasione”, questi brani
lirici in cui, il coro spesso e l’eroina tragica talvolta, cantano la loro aspirazione alla morte
come via di salvezza. La stessa immagine ritorna in quella del volo alato o dell’uccello, ad
esempio Evadne e Fedra che “hanno spiccato il volo” , o Ermione che nel suo desiderio di
morte si vorrebbe uccello. Nell loro propensione al volo, queste spose, hanno una
connaturata tendenza all’altrove, si lanciano infatti nel vuoto e si sospendono tra cielo e
terra; sfuggono quindi all’uomo uscendo dalla scena bruscamente. L’uomo invece,
identificato col modello oplitico, è obbligato a restare al suo posto, ad affrontare la morte
a viso aperto (basti pensare ad Aiace). Per le donne dunque la morte è una partenza.
Bebeke , “se ne è andata”, si dice di una donna che muore o che si è uccisa ( lo si dice di
Alcesti, di Evadne e di Fedra ad esempio). Tuttavia se per una donna la morte è
movimento, solo le eroine troppo femminili prendono il volo, infatti per Deianira, che alla
corda ha preferito la spada, si dice che “se ne è andata per l’ultima via di un piede
immobile ( akinetou podòs). In opposizione al volo nell’ aiora, tale espressione viene usata
per suggerire che la moglie di Eracle non ha cercato la fuga nell’impiccagione ma è morta
come un soldato. Sofocle inoltre per ricordare che per un uomo il suicidio è una morte
deviante, utilizza il termine pedema per esprimere il balzo che Aiace fa verso la sua spada
per trafiggersi.
Il silenzio e il segreto → le eroine sofoclee riguadagnano silenziosamente la casa che
avevano abbandonato, per morirvi. Silenzio di Deianira sotto le accuse di Illo, pesante
silenzio di Euridice dove il coro a ragione intuisce una minaccia nascosta, mezzo silenzio di
Giocasta, parola a doppio senso in cui la voce, per finire si soffoca. Questi silenzi
precedono l’azione che la donna ha inteso nascondere alla vista: Giocasta e Deianira si
nascondono dietro porte ben chiuse prima di impiccarsi, mentre Deianira si è nascosta
nella reggia per trafiggersi con la spada. Gli spettatori non vedranno il corpo di Giocasta,
ma quello di Fedra, in quanto non si può vedere la morte di una donna, ma si può vedere
una donna morta nella sua silenziosa presenza.
Nel “thàlamos”: morte e matrimonio → Sempre abbastanza libere di uccidersi, non
sono invece libere di sottrarsi alle loro radici spaziali, e il profondo rifugio dove si danno
alla morte è anche il simbolo della loro vita: una vita che acquista senso fuori di esse, una
vita che si realizza solo nelle istituzioni, matrimonio, maternità, che legano le donne al
mondo e alla vita dell’uomo. E’ a causa degli uomini che le donne muoiono e per loro
molto spesso si uccidono, a causa di un uomo, per un uomo. Nell’ Antigone Euridice muore
per i suoi figli ma per colpa di Creonte; nelle Trachinie Deianira muore a causa di Illo, ma
per amore di Eracle. Il luogo in cui esse si danno la morte molto spesso è la camera
nuziale, il thàlamos. Deianira muore in quel letto che aveva associato troppo ai piaceri
della nymphe. Alcesti vi ha versato le sue ultime lacrime prima di affrontare Thanatos e,
uscita dalla reggia per morire, sarà ancora verso questo luogo che volgerà i suoi pensieri e
i suoi rimpianti. Evadne si getta nel rogo funebre di Capaneo per ritrovare l’unione carnale
con lo sposo, ma questo luogo è designato come thalamai (camera funebre), termine che
associa la sua morte con le nozze. Infine Giocasta e Fedra, Attaccando la corda al soffitto
della camera matrimoniale, richiamano l’attenzione sull’ossatura simbolica della casa, cioè
l’architrave, che simboleggia lo sposo.
Morire insieme → va poi detto che molte di queste morti solitarie sono concepite come
altrettante maniere di morire con l’uomo, infatti morire insieme sarebbe la forma mortale
del synoikein cioè dell’ “abitare con qualcuno”. Non è certo ciò che cercava Clitemnestra la
quale, alla morte, preferiva la vita con Egisto, ma è la sorte che Oreste le riserva quando,
prima di colpirla, l’invita ad andare a dormire nella morte con colui che essa amava ed
aveva preferito allo sposo. Deianira invece quando ancora non ha sospettato la catastrofe
ormai incombente, annuncia alle sue confidenti l’intenzione di accompagnare Eracle nella
morte, anche se poi moriranno in modi e luoghi differenti. C’è poi l’Elena di Euripide, la
quale non muore ma parla molto di morire e giura di uccidersi se Menelao muore, con la
stessa spada, per poter riposare accanto allo sposo. Oppure Evadne, la quale folle di
matrimonio, trasforma il rogo di Capaneo in una tomba comune e sogna l’annientamento
sotto la forma erotizzata dell’unione dei corpi. Il morire insieme è quindi una maniera
tragica per la donna di portare alle estreme conseguenze il matrimonio ed è proprio nella
morte che si compirà la coabitazione con lo sposo. Tuttavia una donna, una madre
all’eccesso, sposterà il morire insieme sul versante della maternità. La Giocasta di Euripide
nelle Fenicie , coerente con il suo destino di madre incestuosa, muore per la morte dei figli
e, morta, giace sui suoi cari circondandoli entrambi con le sue braccia. Infatti colei che,
sposando il figlio, aveva mescolato le nozze alla maternità, non sarebbe stata capace di
morire se non da madre.
La gloria delle donne → In generale nell’Atena classica la gloria è sempre subordinata
alla realizzazione di una carriera di buona sposa, quindi il valore delle donne non si
confonde con il valore in generale, cioè l’ arete in sé, che è solo maschile. Le donne
tragiche invece assolvono la loro funzione di spose, è quindi il loro valore, solo nella
morte, perché soltanto la morte appartiene loro e in esse realizzano il matrimonio. Da una
parte quindi le eroine della tragedia, realizzandosi come spose nella morte, rafforzano la
tradizione nello stesso momento in cui l’innovano, dall’altra le spose, nella morte
guadagnano una gloria la cui estensione supera largamente quella dell’elogio concesso al
loro sesso dalla tradizione. Si tratta quindi di una gloria ambigua quella delle donne.
Prendiamo Alcesti. Di lei il coro dice che di tutte le donne fu la migliore nei confronti dello
sposo, ma alla fine le giovane solo qualità maschili per morire in gloria, come l’audacia e la
resistenza. Ora poiché la bella morte è essenzialmente virile e la sposa fedele ha preso il
posto dell’uomo, questa tolma (ardimento) per reazione rende effeminato lo sposo amato.
C’è poi Evadne la quale vuole morire da sposa e nello stesso tempo da guerriero, infatti
per onorare il matrimonio cerca la morte come un oplita ambiguo, smarritosi lontano dal
campo di battaglia. Vi è poi la gloria tardiva di Deianira che attende di aver commesso
l’atto irreparabile per proclamare il suo desiderio di buona fama, e soprattutto quella di
Fedra che, infatuato di bella gloria così come era infatuata di Ippolito, muore per aver
perduto la reputazione di sposa di Teseo, ma questa morte che lei vuole nobile, la colloca
sotto il segno della metis, passandosi un nodo attorno al collo, rendendo questo nodo una
trappola per Ippolito e affidando a dei segni scritti il compito di proclamare una falsa
verità: il suo nome sarà celebre a causa di questo amore, nel quale essa pensava di
perdere la sua gloria, a causa di questa morte funesta.
Il sangue puro delle vergini
Il punto debole delle donne → Davanti agli occhi inorriditi di Creonte e della sua gente
appare all’improvviso il corpo morto di Antigone <<appeso per il collo >>, kremasten
aukhènos . Tuttavia, al contrario di Sofocle, per menzionare le infelici impiccate con il collo
nella corda, Euripide fa più spesso ricorso alla parola dère, parola certamente più ricca
poiché dotata di una carica affettiva più forte in quanto con questo termine si indica il
davanti del collo, la gola, punto forte della bellezza femminile. Dere è per una donna il suo
punto di maggior fragilità, la parte del corpo su cui gli officianti, nel momento di dare la
morte, dirigono il coltello. Prendiamo ad esempio Ifigenia in Tauride, quando racconta del
momento in cui il padre accosta la spada alla sua gola, oppure a Polissena, che viene
avvertita da Achille con le parole, “quando vedrai la lama vicino alla tua gola…”. Tuttavia
in dere c’è ancora il soffio e la vita, ma quando si tratta di una gola recisa o nella quale
affonda la lama, il dere cede il posto a laimos, nome della parte inferiore della gola,
perché una volta scalfita la bella superficie del collo, è all’interno del corpo che la morte
scivola. Quindi mentre le donne sembrano dover morire per la gola e solo per mezzo di
essa, gli uomini muoiono raramente colpiti alla gola, siano essi vittime di un omicidio
oppure siano caduti in battaglia. Mentre infatti in Omero il collo è uno dei punti più
vulnerabili per un guerriero, basti pensare ad Achille che colpisce con il giavellotto Ettore
alla gola o i diversi combattimenti dell’ Iliade nel quale i combattenti spirano con le gole
recise, tutto il contrario è nell’universo tragico. L’unico caso è il duello dei figli di Edipo
nelle Fenicie , che farà versare il sangue della gola fraterna: tuttavia questo duello tra
Eteocle e Polinice appartiene più alla sphage , cioè allo sgozzamento sacrificale, che alla
guerra. Nella gola delle donne dunque la morte è come occultata, celata nella bellezza
stessa.
Inventario del corpo virile → la tragedia dota l’uomo di un corpo incomparabilmente
più diversificato di quello delle donne, almeno per quanto concerne le vie d’accesso alla
morte. C’è il fianco, che il guerriero protegge proprio perché muore se esso viene
raggiunto e che è anche punto di tradimento (basti pensare a Neottolemo assassinato per
tradimento a Delfi con una lamata al fianco). C’è il ventre, dove Polinice, nelle Fenicie,
viene mortalmente raggiunto da un colpo inflittogli all’ombelico. C’è poi il colpo al fegato,
quello che cagiona la morte di Eumolpo nell’ Eretteo, quello che Polinice morente riesce a
dare a Eteocle. Il fianco e il fegato dunque sono luoghi mortali del corpo guerriero ed è lì
che per suicidarsi quando si è uomini, si affonda la spada. Nel fianco, come Emone, o
come Aiace, questo paradigma del suicidio virile. Nel fegato, come pensano Eracle, Oreste
o Menelao, quando sognano di uccidersi. Ma ovviamente nella tragedia ci sono anche
donne che spalancano nel corpo le vie della morte attraverso colpi virili: stiamo parlando
di Euridice che si uccide trafiggendosi il fegato, o di Deianira che si conficca una pugnale
nel fianco (al fianco sinistro tuttavia e non al destro come era solito fare, così da mettere a
nudo tutto il lato del femminile).
L’alternativa di Polissena → Polissena invece nell’ Ecuba propone a Neottolemo la
scelta fra due modi di morire: mettendo un ginocchio a terra, gli espone il petto e il colpo,
facendo decidere a lui dove colpire. Neottolemo dopo un primo momento di pietà per la
fanciulla, sceglie il collo in quanto non esistono sacrificatori che colpiscono al petto. Ma
perché Polissena dà questa possibilità? Innanzitutto è strano che Euripide abbia specificato
che Polissena abbia scoperto i seni ( mastous) e il mirabile petto ( sterna) in quanto hanno
significati completamente diversi. Mastous è infatti sia il seno materno gonfio di latte, sia il
seno erotizzato, mentre i valori di sternon sono molto diversificati in quanto nell’uomo è il
punto nel quale si consiglia di affondare il ferro in battaglia, mentre per la donna è
evocato principalmente come fonte d’affetto, estetico e sentimentale. Tuttavia con il suo
gesto Polissena non vuole erotizzare la sua morte, visto che lei non parla dei suoi seni
desiderabili da far guardare all’esercito greco, ma solo di stèrnon , cioè del petto (“se
preferisci colpire al petto colpisci”). Se guardiamo infatti anche alla Polissena di Seneca, la
quale si comporta da combattente affrontando di faccia il colpo fatale, e a quella di Ovidio
nelle Metamorfosi , che dice all’officiante “affonda l’arma nella mia gola o nel mio petto”,
apparirà chiaro che la fine della giovane è collocata sotto il segno del coraggio guerriero.
Tuttavia dal momento che non si può varcare fino in fondo la frontiera che divide e
oppone i sessi, in Euripide Neottolemo non può scegliere il petto perché avrebbe reso
omaggio alla sua andreia , ma l’ andreia è virtù maschile, oltre al fatto che se Polissena
avesse scoperto il petto l’esercito dei Greci non vi avrebbe visto un gesto guerriero ma
semplicemente lo scoprirsi di un seno femminile.
Il corpo strangolato