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Morire al femminile

Introduzione → Ad Atene gli epitafi erano diversi se si trattava di uomini o donne.


Mentre nei primi si affidava alla memoria della città il ricordo eterno delle qualità del
defunto, nelle seconde è affidato al marito, al massimo alla famiglia, il compito di
conservarne il ricordo. La città infatti non ha nulla da dire sulla morte di una donna dal
momento che quest’ultima non ha altra possibilità di realizzarsi se non quella di condurre
un’esistenza esemplare di sposa e di madre a fianco dell’uomo che vive la sua vita di
cittadino. E’ come se la gloria delle donne fosse non avere gloria, nella vita, così come
nella morte. Per la donna le virtù consistono nel benessere dello sposo, e quindi non esiste
trapasso eroico (la “bella morte” è solo virile), ma la morte per lei chiude semplicemente
una vita di abnegazione e di affetto, di bonomia e riserbo. Tuttavia il genere del dramma
tragico è l’unico che ristabilisce una sorta di equilibrio tra i sessi, in quanto gli uomini,
come la donna, subiscono la morte e sempre sotto il segno della violenza. Anzi è come se
è nella violenza che una donna conquista la sua morte, una morte che non è solo la fine di
una sposa esemplare. L’unica differenza in questo genere tra morti di uomini e di donne è
che mentre per gli uomini la maggior parte delle morti avviene per omicidio, per le donne
sono più numerosi i suicidi come unica via per uscire da una calamità estrema oppure i
sacrifici.
La corda e la spada

Un suicidio di donna per una morte d’uomo → nella tragedia la morte di un uomo
sollecita o comunque dovrebbe sollecitare irresistibilmente il suicidio di una donna, la sua
sposa. In virtù dell’onore eroico, la morte di un uomo non può che essere quella di un
guerriero sul campo di battaglia e, al semplice annuncio di questo decesso la sposa, nella
sua dimora ben chiusa, muore passandosi al collo la corda. Per quanto riguarda l’uomo
basti pensare alle Coefore in cui i figli di Agamennone sognano una morte gloriosa per il
loro padre sotto le mura di Troia. Per quanta riguarda la donna invece, nelle Troiane,
Ecuba rimprovera severamente Elena perché mai nessuno l’ha sorpresa sul punto di
appendere una corda o di affilare il pugnale, come avrebbe fatto una donna nobile che
rimpiange il suo primo marito. Altro esempio è Clitemnestra in Agamennone, che,
mentendo, racconta ad Agamennone, suo sposo appena tornato, che tante volte stava per
impiccarsi per il dolore. Tuttavia né Clitemnestra, né sua sorella Elena si sono uccise.
Soprattutto Clitemnestra, con il suo comportamento si configura come una non comune
sposa tragica, in quanto, non avendo nessuna intenzione di uccidersi trasferisce la morte
dalla sua persona a quella del re (troviamo una circostanza simile in Medea , che invece di
uccidersi, uccide indirettamente il marito Giasone attraverso i suoi figli e la novella sposa).
Si può quindi dire che in Clitemnestra, la madre di Ifigenia e l’amante di Egisto hanno
trionfato sulla sposa e soprattutto la regina omicida ha smentito la legge della femminilità
che vuol trovare nel nodo del laccio un’uscita dall’aporia della sciagura.
Una morte priva d’ andreìa → Va detto che in generale, nell’immaginario comune dei
Greci, il suicidio viene moralmente condannato, in quanto la bella morte deve essere
accettata ma non cercata. Per punirsi è più nobile sopportare la vita invece che suicidarsi,
atto che risulta vergognoso e disprezzato anche da Platone nelle Leggi, il quale infligge al
suicida, per mancanza assoluta di virilità, la sanzione istituzionale di una sepoltura solitaria
e dimenticata. Nella tragedia il suicidio è soprattutto morte di donna, in particolare
l’impiccagione, morte ripugnante, basti guardare Giocasta, Fedra, Leda, Antigone. Ma
quella più interessante, ma poi rifiutata, è sicuramente quella delle Supplici . Il laccio di
morte, ultima risorsa nella fuga disperata davanti ai figli di Egitto, proteggerà le Danaidi
contro il desiderio violento del maschio, proprio come il precipitare dall’alto di una roccia a
strapiombo (cosa che esse sognano per un istante) potrebbe premunirle contro il
matrimonio. Al loro sposo, esse attribuiscono il nome di daiktor, cioè “colui che lacera”,
sinonimo dello stupro o della deflorazione. Per evitare questa lacerazione le Danaidi
minacciano di impiccarsi, ma poi non lo fanno, e per causa loro, una guerra verserà
sangue tra gli uomini.
L’incisione nel corpo virile → Secondo Euripide, una spada arma la mano di Thanatos
(la Morte) e un uomo degno di questo nome non può morire che sotto i colpi della spada o
della lancia di un altro uomo, sul campo di battaglia. Inoltre perfino in un sacrificio umano
occorre che il sacrificatore sia un uomo, soprattutto quando la vittima è maschile. Nella
tragedia, neppure il suicidio sfugge a questa regola imperativa, che esige che l’uomo
muoia per mano d’uomo, mediante la spada e con versamento di sangue. Basta pensare
all’ Aiace , nel quale il guerriero si suicida conficcandosi nel fianco la propria spada per
riscattare il suo onore e la sua reputazione. Anche nell’ Antigone Emone, il promesso
sposo di Antigone, si uccide con la spada dopo aver visto il cadavere della moglie ed
essersi scagliato contro il padre Creonte. Inoltre il nome di Emone ( Haimon) assomiglia
molto a quello del sangue ( haima).
Impiccamento o “sphage”→ Nel genere tragico importante è la parola sphage, nome
dello sgozzamento sacrificale ma anche della ferita e del sangue che ne sgorga. Con
questo verbo e i suoi derivati, il termine serve in modo evidente a designare i sacrifici,
come ad esempio quello di Ifigenia in Eschilo o quello di Macaria o Polissena per Euripide.
Tuttavia sia in Eschilo, in Sofocle e in Euripide, tale parola serve a designare il crimine in
seno alla famiglia degli Atridi ( Atreo, Menelao, Agamennone). Dalle stesse parole si
prende a prestito la designazione del suicidio quando è cruento, suicidio di Aiace, Deianira
ed Euridice. Sphazo, sphage e sphagion dunque non designano nella tragedia qualunque
micidiale sgozzamento o un suicidio qualunque, ma il lungo seguito di assassini risultanti
dall’applicazione della legge del sangue nella famiglia degli Atridi, oppure ad esempio
appunto la morte volontaria di Euridice ai piedi dell’altare di Giove Ercheio. In modo
generale, sphage serve a caratterizzare la morte mediante il ferro come morte “pura”, in
opposizione all’impiccamento. Tuttavia si perde il fatto che l’impiccagione è soltanto
femminile e la lacerazione maschile, proprio perché ad esempio Deianira o Euridice
affondano una spada nel proprio corpo oppure Ippolito viene avviluppato dalle redini dei
suoi cavalli. In generale comunque quand’anche l’avesse pensato, un uomo non si impicca
mai, ma un uomo che si uccide lo fa sempre da uomo, mentre per una donna l’alternativa
è aperta, o cercare nel nodo di una corda una fine molto femminile, oppure impadronirsi
della spada rubando agli uomini la loro morte.
La sposa involata → la parola metis , astuzia, è legata sempre a qualunque azione
violenta compiuta da una donna, sia essa armata di spada per uccidere o per uccidersi. Ad
esempio nell’ Orestea Cassandra utilizza la metafora della rete per profetizzare la fine di
Agamennone, oppure nelle Trachinie Deianira prende Eracle nella trappola avvelenata
della tunica di Nesso; entrambe sono materializzazioni della metafora della metis. Oltre
quindi alla parola metis che viene associato all’intrappolamento per un laccio, importante è
anche la parola aiora ( o eora) che si lega alla duplice immagine di un corpo sospeso e del
leggero movimento oscillatorio che gli è impresso. Per Giocasta, nella descrizione della
donna che “dondola stretta nel nodo” , viene usato il termine eora, mentre per Elena, che
alla fine non si impiccherà, l’impiccamento si riassume nel termine aiorema. Tale termine
viene usato anche nelle Supplici di Euripide, quando Evadne si accinge a lanciarsi nel fuoco
dall’alto della roccia aerea. Nel linguaggio tragico dunque esiste un’evidente parentela
tematica tra l’impiccamento e la precipitazione. Lo stesso verbo aeiro dunque, che esprime
elevazione e sospensione, si applica a questi due voli orientati in senso inverso, verso l’alto
e verso il basso, come se l’alto avesse una sua profondità, come se non si guadagnasse il
basso, cioè il suolo, senza sollevarsi. Ciò consente di gettare luce sull’associazione
ricorrente di queste due maniere di elevarsi all’interno delle “odi d’evasione”, questi brani
lirici in cui, il coro spesso e l’eroina tragica talvolta, cantano la loro aspirazione alla morte
come via di salvezza. La stessa immagine ritorna in quella del volo alato o dell’uccello, ad
esempio Evadne e Fedra che “hanno spiccato il volo” , o Ermione che nel suo desiderio di
morte si vorrebbe uccello. Nell loro propensione al volo, queste spose, hanno una
connaturata tendenza all’altrove, si lanciano infatti nel vuoto e si sospendono tra cielo e
terra; sfuggono quindi all’uomo uscendo dalla scena bruscamente. L’uomo invece,
identificato col modello oplitico, è obbligato a restare al suo posto, ad affrontare la morte
a viso aperto (basti pensare ad Aiace). Per le donne dunque la morte è una partenza.
Bebeke , “se ne è andata”, si dice di una donna che muore o che si è uccisa ( lo si dice di
Alcesti, di Evadne e di Fedra ad esempio). Tuttavia se per una donna la morte è
movimento, solo le eroine troppo femminili prendono il volo, infatti per Deianira, che alla
corda ha preferito la spada, si dice che “se ne è andata per l’ultima via di un piede
immobile ( akinetou podòs). In opposizione al volo nell’ aiora, tale espressione viene usata
per suggerire che la moglie di Eracle non ha cercato la fuga nell’impiccagione ma è morta
come un soldato. Sofocle inoltre per ricordare che per un uomo il suicidio è una morte
deviante, utilizza il termine pedema per esprimere il balzo che Aiace fa verso la sua spada
per trafiggersi.
Il silenzio e il segreto → le eroine sofoclee riguadagnano silenziosamente la casa che
avevano abbandonato, per morirvi. Silenzio di Deianira sotto le accuse di Illo, pesante
silenzio di Euridice dove il coro a ragione intuisce una minaccia nascosta, mezzo silenzio di
Giocasta, parola a doppio senso in cui la voce, per finire si soffoca. Questi silenzi
precedono l’azione che la donna ha inteso nascondere alla vista: Giocasta e Deianira si
nascondono dietro porte ben chiuse prima di impiccarsi, mentre Deianira si è nascosta
nella reggia per trafiggersi con la spada. Gli spettatori non vedranno il corpo di Giocasta,
ma quello di Fedra, in quanto non si può vedere la morte di una donna, ma si può vedere
una donna morta nella sua silenziosa presenza.
Nel “thàlamos”: morte e matrimonio → Sempre abbastanza libere di uccidersi, non
sono invece libere di sottrarsi alle loro radici spaziali, e il profondo rifugio dove si danno
alla morte è anche il simbolo della loro vita: una vita che acquista senso fuori di esse, una
vita che si realizza solo nelle istituzioni, matrimonio, maternità, che legano le donne al
mondo e alla vita dell’uomo. E’ a causa degli uomini che le donne muoiono e per loro
molto spesso si uccidono, a causa di un uomo, per un uomo. Nell’ Antigone Euridice muore
per i suoi figli ma per colpa di Creonte; nelle Trachinie Deianira muore a causa di Illo, ma
per amore di Eracle. Il luogo in cui esse si danno la morte molto spesso è la camera
nuziale, il thàlamos. Deianira muore in quel letto che aveva associato troppo ai piaceri
della nymphe. Alcesti vi ha versato le sue ultime lacrime prima di affrontare Thanatos e,
uscita dalla reggia per morire, sarà ancora verso questo luogo che volgerà i suoi pensieri e
i suoi rimpianti. Evadne si getta nel rogo funebre di Capaneo per ritrovare l’unione carnale
con lo sposo, ma questo luogo è designato come thalamai (camera funebre), termine che
associa la sua morte con le nozze. Infine Giocasta e Fedra, Attaccando la corda al soffitto
della camera matrimoniale, richiamano l’attenzione sull’ossatura simbolica della casa, cioè
l’architrave, che simboleggia lo sposo.
Morire insieme → va poi detto che molte di queste morti solitarie sono concepite come
altrettante maniere di morire con l’uomo, infatti morire insieme sarebbe la forma mortale
del synoikein cioè dell’ “abitare con qualcuno”. Non è certo ciò che cercava Clitemnestra la
quale, alla morte, preferiva la vita con Egisto, ma è la sorte che Oreste le riserva quando,
prima di colpirla, l’invita ad andare a dormire nella morte con colui che essa amava ed
aveva preferito allo sposo. Deianira invece quando ancora non ha sospettato la catastrofe
ormai incombente, annuncia alle sue confidenti l’intenzione di accompagnare Eracle nella
morte, anche se poi moriranno in modi e luoghi differenti. C’è poi l’Elena di Euripide, la
quale non muore ma parla molto di morire e giura di uccidersi se Menelao muore, con la
stessa spada, per poter riposare accanto allo sposo. Oppure Evadne, la quale folle di
matrimonio, trasforma il rogo di Capaneo in una tomba comune e sogna l’annientamento
sotto la forma erotizzata dell’unione dei corpi. Il morire insieme è quindi una maniera
tragica per la donna di portare alle estreme conseguenze il matrimonio ed è proprio nella
morte che si compirà la coabitazione con lo sposo. Tuttavia una donna, una madre
all’eccesso, sposterà il morire insieme sul versante della maternità. La Giocasta di Euripide
nelle Fenicie , coerente con il suo destino di madre incestuosa, muore per la morte dei figli
e, morta, giace sui suoi cari circondandoli entrambi con le sue braccia. Infatti colei che,
sposando il figlio, aveva mescolato le nozze alla maternità, non sarebbe stata capace di
morire se non da madre.
La gloria delle donne → In generale nell’Atena classica la gloria è sempre subordinata
alla realizzazione di una carriera di buona sposa, quindi il valore delle donne non si
confonde con il valore in generale, cioè l’ arete in sé, che è solo maschile. Le donne
tragiche invece assolvono la loro funzione di spose, è quindi il loro valore, solo nella
morte, perché soltanto la morte appartiene loro e in esse realizzano il matrimonio. Da una
parte quindi le eroine della tragedia, realizzandosi come spose nella morte, rafforzano la
tradizione nello stesso momento in cui l’innovano, dall’altra le spose, nella morte
guadagnano una gloria la cui estensione supera largamente quella dell’elogio concesso al
loro sesso dalla tradizione. Si tratta quindi di una gloria ambigua quella delle donne.
Prendiamo Alcesti. Di lei il coro dice che di tutte le donne fu la migliore nei confronti dello
sposo, ma alla fine le giovane solo qualità maschili per morire in gloria, come l’audacia e la
resistenza. Ora poiché la bella morte è essenzialmente virile e la sposa fedele ha preso il
posto dell’uomo, questa tolma (ardimento) per reazione rende effeminato lo sposo amato.
C’è poi Evadne la quale vuole morire da sposa e nello stesso tempo da guerriero, infatti
per onorare il matrimonio cerca la morte come un oplita ambiguo, smarritosi lontano dal
campo di battaglia. Vi è poi la gloria tardiva di Deianira che attende di aver commesso
l’atto irreparabile per proclamare il suo desiderio di buona fama, e soprattutto quella di
Fedra che, infatuato di bella gloria così come era infatuata di Ippolito, muore per aver
perduto la reputazione di sposa di Teseo, ma questa morte che lei vuole nobile, la colloca
sotto il segno della metis, passandosi un nodo attorno al collo, rendendo questo nodo una
trappola per Ippolito e affidando a dei segni scritti il compito di proclamare una falsa
verità: il suo nome sarà celebre a causa di questo amore, nel quale essa pensava di
perdere la sua gloria, a causa di questa morte funesta.
Il sangue puro delle vergini

Sacrifici <<bons à penser >> → Nell’universo tragico la norma è un sacrificio,


generalmente cruento, la cui vittima è una fanciulla. Sacrificare una vergine significava
usare il gioco teatrale per pensare l’impensabile. Mentre infatti la pratica religiosa della
città si preoccupava che lo sgozzamento dell’animale fosse sottoposto ad una rigorosa
messa in scena, il genere tragico consegna le fanciulle al coltello dello sgozzatore e
l’impensabile diviene racconto fatto per essere ascoltato (di queste morti virginali infatti
nulla sarà offerto allo sguardo, al contrario appunto dei sacrifici pubblici). Dunque nella
realtà la città non sacrifica le sue giovani donne, ma per la durata di una rappresentazione
essa offre ai cittadini il duplice piacere di trasgredire con l’immaginazione il divieto del
phonos e di sognare sul sangue delle vergini. Va detto che le vergini sono dotate
dall’immaginario sociale di legami con il mondo della guerra e quindi ad Atena, vergine
guerriera. Tuttavia le vergini non sarebbero in grado di combattere a fianco dei maschi
ma, quando il pericolo è estremo, il loro sangue scorre perché possa vivere la comunità
degli àndres.
La giovenca e la puledra domate → Nell’ Agamennone di Eschilo Ifigenia si dibatteva
come una capra e suo padre la destinava a morte come una bestia prelevata in un branco
di pecore. E’ ad una giovenca che Euripide la paragona ad una giovenca di montagna. La
capra non è una vittima abituale, mentre lo sarebbe la giovenca se non fosse
caratterizzata come montana, in quanto non è possibile immolare secondo le regole altro
che un animale domestico. In questo paragone tra Ifigenia e un’ oreia mòskhos (giovenca
di montagna) si vedrà una maniera di sottolineare la devianza che caratterizza qualunque
sacrificio umano e lo scioglimento della tragedia porta una conferma a quest’analisi,
quando alla fine Artemide sostituisce la fanciulla con una vittima animale. Si tratta di una
cerbiatta che corre sulle montagne, segno che il mondo selvaggio si è irreversibilmente
insinuato nel cuore del sacrificio. Proprio come Ifigenia, anche Polissena, che gli Achei
sacrificheranno, è assimilata ad una giovenca di montagna, ma lei è più spesso pensata
sotto forma di metafora: essa è la giovenca di Ecuba, ma anche la sua vitellina o puledra (
polos ). Allo stesso modo era identificato il figlio di Creonte, Meneceo, votato anche lui al
sacrificio nelle Fenicie. Puledra indomita è Polissena, puledrino non ancora domato è
Meneceo: queste metafore non indicano solo che essi sono vittime designate per un
sacrificio anomalo (il cavallo non è una vittima sacrificale comune, ma ha un suo posto nei
sacrifici di carattere militare), ma suggeriscono anche che essi sono come in atttesa del
matrimonio. Tuttavia se il tema sacrificale si ordina intorno ad una metafora di natura
animale, è perché la fanciulla, come la vittima, è sottomessa, passiva, sacrificata. I sacrifici
tragici chiariscono il rito molto quotidiano del matrimonio, attraverso il quale la vergine
passa da un kyrios (tutore) all’altro, dal padre che la concede allo sposo che la conduce.
Quindi quando la vittima è una vergine, il sacrificio diventa tragicamente ironico in quanto
assomiglia troppo al matrimonio.
L’uccisione come matrimonio → Le vergini condotte a morte sono spose nell’ Ade o
con Ade? Il destino tragico delle parthenoi s’iscrive nel profondo di questa tensione tra nel
e con. Prendiamo Antigone, che aveva conferito allo sposo infernale il nome di Acheronte,
ma, nel discorso del messaggero, è Ade stesso che la giovane donna ha trovato nella
camera nuziale scavata nella roccia, sottraendosi al fidanzato Emone che si era ucciso per
raggiungerla, spinto dal desiderio disperato di sposarla nella dimora di Ade. C’è poi Ifigenia
che, nell’ Ifigenia in Aulide, giunge in Aulide per unirsi in matrimonio con il migliore degli
Achei, il cui sposo si rivelerà essere Ade e non Achille. Tuttavia c’è anche una vergine,
Polissena che nell’ Ecuba che anche se è una vergine sacrificata, non viene definita sposa
di Ade, ma è pensata come una donna che perde la sua verginità ( nymphe anymphos,
parthenòs apàrthenos). Complesso il discorso si fa per Macaria, negli Eraclidi, vergine non
offerta a nessun eroe e che non intende unirsi ad Ade nella morte, che rinuncia alle nozze
per salvare la sua famiglia e la vita dei fratelli. Addirittura proclamerà che questo tesoro di
sacrificarsi sostituirà i figli e la verginità. Si deve giungere alla bizzarra constatazione che
una vergine sacrificata perde la sua partheneia (verginità) senza per questo ottenere uno
sposo: quindi né donna, né vergine. E’ come quindi se lo sgozzamento potesse
corrispondere ad una deflorazione: con la gola tagliata Ifigenia, Polissena e Macaria sono
delle parthenoi aparthenoi, delle vergini non vergini. C’è anche una vittima sacrificale di
sesso maschile in Euripide. Ricordiamo infatti nelle Fenicie, il fratello di Emone, Meneceo,
la cui immolazione per la terra di Tebe esige la collera di Ares. La morte di Meneceo è la
versione virile del sacrificio virginale, perché tebana, la terra degli Sparti, terra di maschi.
Essendo maschio però non c’è nessuno sgozzatore come per le vergini ma lui è
l’immolatore di se stesso, quindi più di un sacrificio o di un suicidio possiamo parlare di
una bella morte guerriera.
Libertà virginali → qualsiasi sacrificio animale per essere fausto deve mettere in scena
l’acquiescenza della vittima e nell’immaginario tragico il sacrificio umano non può mancare
di conformarsi a questa regola. Così non è nell’ Agamennone di Eschilo dove la fanciulla
viene sollevata, catturata, imbavagliata perché non si sentano le sue grida, rifiuta
disperatamente il suo consenso a quest’immolazione, di cui Eschilo si compiace di
sottolineare lo scandalo. Nell’ Ifigenia in Aulide invece la figlia di Agamennone muore
volontariamente. Allo stesso modo Polissena rifiuta di essere afferrata e sollevata dagli
Achei, dichiarando che offrirà la gola coraggiosamente flettendo un ginocchio a terra, non
in gesto di prosternazione, ma rivendicando la sua libertà e la sua dignità di essere greca.:
è quindi un gesto di accettazione della morte e un rifiuto di essere trattata come corpo
passivo. In questo modo la vittima sacrificale acquista il controllo della propria morte, una
“bella morte” si potrebbe dire che si accetta per la patria e/o per la gloria. Perché la bella
morte non è ricercata, ma accettata: proprio come i cittadini d’Atene o di Sparta si piegano
davanti all’imperativo che loro detta la città, così le vergini accettano un destino di cui si
appropriano. Alcune volte pero il suicidio viene ricercato per congiungere la bella morte al
sacrificio, basti guardare l’ Eretteo di Euripide nel quale le figlie del re Eretteo si uccidono
sul corpo della vergine sacrificata, per essere seppellite nella medesima tomba: si crea così
una tomba collettiva, un onore riservato ai guerrieri con la gloria eguale per tutti. Si può
quindi dire che la celebrità delle vergini assomiglia all’ eukleia (la bella morte) guerriera.

Luoghi del corpo

Il punto debole delle donne → Davanti agli occhi inorriditi di Creonte e della sua gente
appare all’improvviso il corpo morto di Antigone <<appeso per il collo >>, kremasten
aukhènos . Tuttavia, al contrario di Sofocle, per menzionare le infelici impiccate con il collo
nella corda, Euripide fa più spesso ricorso alla parola dère, parola certamente più ricca
poiché dotata di una carica affettiva più forte in quanto con questo termine si indica il
davanti del collo, la gola, punto forte della bellezza femminile. Dere è per una donna il suo
punto di maggior fragilità, la parte del corpo su cui gli officianti, nel momento di dare la
morte, dirigono il coltello. Prendiamo ad esempio Ifigenia in Tauride, quando racconta del
momento in cui il padre accosta la spada alla sua gola, oppure a Polissena, che viene
avvertita da Achille con le parole, “quando vedrai la lama vicino alla tua gola…”. Tuttavia
in dere c’è ancora il soffio e la vita, ma quando si tratta di una gola recisa o nella quale
affonda la lama, il dere cede il posto a laimos, nome della parte inferiore della gola,
perché una volta scalfita la bella superficie del collo, è all’interno del corpo che la morte
scivola. Quindi mentre le donne sembrano dover morire per la gola e solo per mezzo di
essa, gli uomini muoiono raramente colpiti alla gola, siano essi vittime di un omicidio
oppure siano caduti in battaglia. Mentre infatti in Omero il collo è uno dei punti più
vulnerabili per un guerriero, basti pensare ad Achille che colpisce con il giavellotto Ettore
alla gola o i diversi combattimenti dell’ Iliade nel quale i combattenti spirano con le gole
recise, tutto il contrario è nell’universo tragico. L’unico caso è il duello dei figli di Edipo
nelle Fenicie , che farà versare il sangue della gola fraterna: tuttavia questo duello tra
Eteocle e Polinice appartiene più alla sphage , cioè allo sgozzamento sacrificale, che alla
guerra. Nella gola delle donne dunque la morte è come occultata, celata nella bellezza
stessa.
Inventario del corpo virile → la tragedia dota l’uomo di un corpo incomparabilmente
più diversificato di quello delle donne, almeno per quanto concerne le vie d’accesso alla
morte. C’è il fianco, che il guerriero protegge proprio perché muore se esso viene
raggiunto e che è anche punto di tradimento (basti pensare a Neottolemo assassinato per
tradimento a Delfi con una lamata al fianco). C’è il ventre, dove Polinice, nelle Fenicie,
viene mortalmente raggiunto da un colpo inflittogli all’ombelico. C’è poi il colpo al fegato,
quello che cagiona la morte di Eumolpo nell’ Eretteo, quello che Polinice morente riesce a
dare a Eteocle. Il fianco e il fegato dunque sono luoghi mortali del corpo guerriero ed è lì
che per suicidarsi quando si è uomini, si affonda la spada. Nel fianco, come Emone, o
come Aiace, questo paradigma del suicidio virile. Nel fegato, come pensano Eracle, Oreste
o Menelao, quando sognano di uccidersi. Ma ovviamente nella tragedia ci sono anche
donne che spalancano nel corpo le vie della morte attraverso colpi virili: stiamo parlando
di Euridice che si uccide trafiggendosi il fegato, o di Deianira che si conficca una pugnale
nel fianco (al fianco sinistro tuttavia e non al destro come era solito fare, così da mettere a
nudo tutto il lato del femminile).
L’alternativa di Polissena → Polissena invece nell’ Ecuba propone a Neottolemo la
scelta fra due modi di morire: mettendo un ginocchio a terra, gli espone il petto e il colpo,
facendo decidere a lui dove colpire. Neottolemo dopo un primo momento di pietà per la
fanciulla, sceglie il collo in quanto non esistono sacrificatori che colpiscono al petto. Ma
perché Polissena dà questa possibilità? Innanzitutto è strano che Euripide abbia specificato
che Polissena abbia scoperto i seni ( mastous) e il mirabile petto ( sterna) in quanto hanno
significati completamente diversi. Mastous è infatti sia il seno materno gonfio di latte, sia il
seno erotizzato, mentre i valori di sternon sono molto diversificati in quanto nell’uomo è il
punto nel quale si consiglia di affondare il ferro in battaglia, mentre per la donna è
evocato principalmente come fonte d’affetto, estetico e sentimentale. Tuttavia con il suo
gesto Polissena non vuole erotizzare la sua morte, visto che lei non parla dei suoi seni
desiderabili da far guardare all’esercito greco, ma solo di stèrnon , cioè del petto (“se
preferisci colpire al petto colpisci”). Se guardiamo infatti anche alla Polissena di Seneca, la
quale si comporta da combattente affrontando di faccia il colpo fatale, e a quella di Ovidio
nelle Metamorfosi , che dice all’officiante “affonda l’arma nella mia gola o nel mio petto”,
apparirà chiaro che la fine della giovane è collocata sotto il segno del coraggio guerriero.
Tuttavia dal momento che non si può varcare fino in fondo la frontiera che divide e
oppone i sessi, in Euripide Neottolemo non può scegliere il petto perché avrebbe reso
omaggio alla sua andreia , ma l’ andreia è virtù maschile, oltre al fatto che se Polissena
avesse scoperto il petto l’esercito dei Greci non vi avrebbe visto un gesto guerriero ma
semplicemente lo scoprirsi di un seno femminile.
Il corpo strangolato

Strangolare, impiccare, soffocare → Ad Atene le pene tipiche erano la precipitazione


nel Baratro, l’avvelenamento da cicuta e il supplizio dell’ apotympanismòs che aveva
qualcosa di simile all’impiccagione in quanto consisteva nel legare strettamente un
condannato ad un palo ed abbandonarlo alla sua sorte. Difficilmente in Grecia troviamo
esempi di esecuzione tramite impiccamento o strangolamento. Un ricorso all’impiccagione
come forma di esecuzione lo troviamo prima di tutto in Macedonia, dove Alessandro si
sbarazzava così di “filosofi” ingombranti. Dobbiamo poi recarci a Locri i cui abitanti
strangolarono per rappresaglia le figlie del tiranno Dionigi. Tuttavia la pratica dell’
impiccagione o dello strangolamento è presente anche nel mondo greco, anche se in una
città arcaicizzante e anomala come Sparta. Qui la storia ha conservato il nome di un solo
condannato, il re Agide IV, giustiziato dagli efori suoi nemici, dopo una parodia di
processo. Plutarco parla in questo caso di soffocamento e strangolamento (senza utilizzare
“o”) quindi più precisamente di strangolamento per impiccagione, stessa sorte che
subirono la madre e la nonna di Agide. Non molto diversamente stanno le cose nel caso
del suicidio. Se il verbo apànko serve nei testi per indicare che c’è stato un impiccamento,
nessuna precisione mai viene offerta sulle modalità dell’atto (tranne nel caso di Aristofane
nelle Rane nel quale si parla di uno sgabello) e la descrizione si arresta sempre sulla
visione della corda al collo del disperato/a. Ad esempio il coro premonitore dell’ Ippolito di
Euripide, quando le donne di Trezene evocano l’impiccagione di Fedra, si parla di un laccio
appeso al tetto nuziale e aggiustato attorno al collo, oppure Plutarco nelle Mulierum
virtutes racconta la storia delle figlie di un tiranno abbattuto che si impiccano con le
cinture, o ancora Pausania che racconta dell’ aition dell’Artemide Apankhomène che
consiste in alcuni fanciulli che giocano intorno al santuario, trovano una corda e legandola
al collo della statua dicono che Artemide si è impiccata. Si può quindi dire che trattandosi
del suicidio come dell’uccisione, l’impiccamento non è che una varietà dello
strangolamento. Il termine ankhone derivata dal verbo ankho (<<serrare, stringere>>) si
riferisce sia allo strangolamento che all’impiccagione, anche se le due cose non sono
sempre così distinte, tanto da ritrovare ankho sia ad esempio in Eracle che stringe tra le
braccia il leone di Nemea, che nei bambini terribili di Aristofane pronti a strangolare il
proprio padre, tanto da designare più un soffocamento. Ecco che quindi è possibile vedere
nell’impiccagione come nello strangolamento una “forma d’asfissia”. Tuttavia c’è una
differenza non da poco tra l’impiccamento e lo strangolamento e cioè la dimensione aerea
dell’impiccamento. A Roma gli impiccati, a differenza degli strangolati, venivano privati di
sepoltura, in quanto il sacrilegio è proprio nell’assenza di ogni contatto con il suolo. Per
stabilire un’equivalenza tra strangolamento e impiccagione dobbiamo chiederci se i Greci
attribuissero qualche importanza al fatto che i piedi dell’impiccato non toccassero terra.
Nel canto XXII dell’ Odissea le ancelle infedeli subiscono il supplizio dell’impiccagione e
Telemaco sorveglia attentamente che il cavo sia teso abbastanza in alto perché i piedi non
possano toccare terra, mentre nel testo di Plutarco su Algide lo scrittore suggerisce
inversamente che non è mai troppo tardi per stendere a terra un corpo, anche quello che
era stato appeso, così come nell’ Ippolito di Euripide nel quale le donne di Trezene una
volta che Fedra si è impiccata, si preoccupano di raddrizzare l’infelice cadavere e di
stenderlo a terra. Questi esempi ci danno l’impressione che il gesto di stendere a terra il
cadavere dell’impiccato significa rimpatriarlo nel seno della vasta confraternita dei morti
che hanno diritto ai riti funebri. Tuttavia nel XXII libro dell’ Odissea Telemaco per uccidere
le ancelle non sceglie la spada, in quanto non meritano una morte pura, ma una
miserabile attraverso il cappio, e inoltre per quanto riguarda Agide, il suo corpo non
poteva essere toccato perché empio. Sicuramente il suicidio mediante impiccamento è
considerato infamante a Roma come in Grecia. Basti pensare al disonore di Giocasta nella
morte ripugnante del suo impiccamento o Erodoto che racconta di come Pantite, uni dei
due sopravvissuti alle Termopili, ricorse all’impiccamento per fuggire l’onta. Impiccarsi è
quindi il destino dei disperati che hanno perduto ogni time (onore).
La donna al laccio → bisogna aggiungere allo studio del campo semantico del
soffocamento quello della parola bròkhos , che è la corda già annodata, la maglia pronta a
chiudersi, in una parola lo strumento per strangolare. Bròkhos è comunque il simbolo per
eccellenza di ankhone. Nel libro XXII dell’ Odissea , le ancelle impiccate da Telemaco teste
in fila e il laccio passato ad ogni collo, diventano o tordi o colombe catturate con la rete
tesa nella macchina, come nell’ Ippolito di Euripide, per due volte Fedra, appesa alla
corda, viene paragonata ad un uccello. Dunque come un uccello è la donna impiccata, e
l’ankhone è in primo luogo una morte femminile (basti evocare le eroine impiccante dalla
mitologia e dal culto, Fedra, Arianna, Erigone, Carila). Dal momento che bròkhos è il
simbolo per eccellenza dell’ ankhone , ci si accorge che nella sua qualità di trappola
intrecciata, il brokhos è il luogo di un’interferenza costante fra i valori della caccia e quelli
della tessitura. Nell’universo tragico infatti l’abito femminile è sempre suscettibile di
trasformarsi in un nodo di morte: Antigone si impicca con il suo velo divenuto brokhos
oppure le supplici di Eschilo si impiccano con le cinture virginali. La corda quindi nel
suicidio è una morte femminile e nel pensiero del suicidio la divisione si attua tra la corda
e la spada che concerne l’opposizione femminile/maschile. La differenza sostanziale sta nel
fatto che morire con il collo in un laccio significa non versare sangue. L’uomo greco è
infatti virile in proporzione al sangue che versa e cola dalle ferite aperte nella carne calda,
quella del nemico o la propria, mentre invece per la donna il sangue è pensato, tranne che
nei periodi in cui defluisce, come imprigionato nel loro corpo. Dunque il flusso naturale che
garantisce al corpo delle donne il suo buon funzionamento è posto sullo stesso piano della
ferita spalancata nel corpo virile. Ed ecco che allora torna la tematica dello strangolamento
per caratterizzare gli stati temibili in cui il sangue si soffoca nel corpo femminile. Nel
trattato di Ippocrate De eis quae ad virgines spectant viene spiegato come nel momento
in cui il sangue si dirige verso l’utero come per defluire all’esterno e l’orifizio di uscita non
è aperto allora il sangue che non ha via d’uscita si precipita sul cuore e il diaframma;
segue la follia, l’infiammazione acuta e il desiderio dell’ ankhone a causa della pressione
intorno al cuore, difatti manca poco che la paziente non si strangoli e allora occorre farla
sposare subito per far defluire di nuovo il sangue. Le vergini quindi sono portate in modo
particolare all’impiccagione perché in esse il sangue è in tumulto e si comprime, ma, in
senso più lato, il desiderio dell’ ankhone nel discorso medico è femminile perché la natura
delle donne fa si che il sangue sia più di una volta soffocato nell’utero: oppressa dal basso
la donna cerca una via d’uscita verso l’alto, impiccandosi. Succede così che, annodando
una corda intorno al collo, la donna si accontenti di obbedire alle sollecitazioni del suo
utero errante, che risale verso l’alto del corpo come in cerca del soffocamento finale.
Nell’immaginario greco dunque il corpo delle donne è conduttura, canale, via di passaggio,
dal basso verso l’alto, dalla bocca (stoma) dell’utero alla bocca che parla o tace, dal collo
(trakhelos) soffocante dell’utero al collo chiuso nel laccio.
Ferite di virilità

Su un silenzio greco → Nella Repubblica romana le ferite del guerriero garantivano il


valore del cittadino, tanto che venivano utilizzate anche a vantaggio dei politici nelle loro
candidature. Quando infatti Plutarco narra della vita di Coriolano dice che le cicatrici del
candidato al consolato sono symbola tes andreias, dove symbolon è il nome del segno di
riconoscimento e andreia è sinonimo di coraggio nel momento in cui si identifica con la
virilità prettamente maschile. Quindi l’incisione della ferita fa parlare il corpo. Per questo
motivo nella Grecia classica, dove si diffida tanto del corpo, si parla poco dei feriti. Ad
Atene infatti dal momento che l’ andreia è assimilata alla morte in guerra, l’eloquenza
ufficiale si ritiene in dovere d’ignorare i sopravvissuti anziché concedere i loro corpi e la
loro vita alla maggior gloria della città, così come in generale le altre città greche di epoca
classica non hanno lasciato un maggior numero di informazioni sulla considerazione
accordata ai feriti. Erodoto dà alla definizione ateniese di andreia quella di “bella morte” e
parla pochissimo di feriti tranne che per rilevare che essi hanno saputo essere più forti
delle loro ferite. Questo perché per un uomo della Grecia classica il valore non ha alcun
bisogno di essere inciso nel corpo.
Ferite inferte, ferite ricevute → Nel mito e nella tragedia la situazione è un po’ diversa.
Nell’ Iliade, autentico guerriero è il combattente la cui arma sa fendere sempre la corazza
e il petto del nemico, ma nello stesso tempo è anche colui che ha subito una dolorosa
ferita o che il ferro prima o poi inciderà nella carne. Questa regola, riassunta nella frase di
Pindaro <<chi colpisce è colpito>>, nell’epopea l’incarna un dio, Ares il quale sembra
votato ad esperimentare la legge del sangue che egli stesso incarna, infatti accade più di
una volta nell’epopea che il dio della guerra sia ferito da un mortale. E’ vero che si
cimentano con lui solo i protetti di Atena, come Diomede ed Eracle, di modo che l’iniziativa
del colpo decisivo tocchi alla dea, sola a saper ferire Ares. Tuttavia dal momento che qui ci
si occupa di mortali e non di dèi, si parlerà dell’eroe Aiace, potente guerriero il cui forte
scudo ricorda quello del divino Uccisore. Aiace, che Omero considera il migliore dopo
Achille, si suicida squarciando il suo corpo ardente sul ferro, che ha così spesso aperto
ferite nella carne nemica. Durante la battaglia Paride ha ucciso Achille e Aiace, gettandosi
sulla spada che Ettore gli aveva un tempo donato, s’infilza su un’arma nemica. Dal
momento che è come se Aiace morisse da uomo sotto i colpi, sia pur differiti, di un altro
uomo, allora il suo ricorso al suicidio non basta a femminilizzare il guerriero.
Vulnerabile, invulnerabile, virile → Nell’ Iliade vulnerabile è l’uomo e vulnerabile è
l’eroe che solo per qualche tempo la protezione di un dio mette al riparo dai colpi che
incidono la carne, anche se è vero che pure gli stessi dèi non sono del tutto invulnerabili
nella carne. Va comunque detto che nell’epopea tutti i grandi eroi esperimentano almeno
una volta la sofferenza di una ferita, con l’eccezione di Achille e Aiace che tranne nel
momento della loro morte, non venivano mai scalfiti nel corpo o comunque se penetrati
non li abbandona l’ardore combattivo. In generale sembrerebbe quindi che esser
solamente ferito fosse un privilegio riservato in esclusiva agli eroi. Tuttavia non è proprio
così in quanto leggendo alcuni episodi dell’ Iliade sembra che essere feriti fosse la prova di
non aver retto davanti al nemico o di non essere stati abbastanza rapidi a colpire il nemico
per primi. L’eroe ferito arriverà ad abbandonare il posto di combattimento per sottrarsi allo
sguardo nemico, basti pensare a licio Glauco, ferito al braccio da una freccia e nascostosi
(allo stesso modo di Diomede o Ulisse) per non assistere al fragoroso trionfo di un
combattente di secondo piano. Ma è solo forse l’aver offeso il suo onore nell’avversario
che si compiace il motivo del suo dispiacere, in quanto in generale (con Menelao,
Agamennone o Diomede per fare un esempio) la ferita, anche quella da freccia, non ha
altra funzione se non quella di valorizzare clamorosamente la resistenza che distingue il
guerriero autentico. La ferita infatti è un mezzo di verifica della virilità e forse anche un
mezzo per avere riguardo all’avversario un altro se stesso, in quanto dal momento che
conosce la minaccia che incombe sul suo corpo, è su quello del nemico che l’eroe sa
riconoscere i punti giusti dove uccidere sul colpo o solamente ferire.
Il corpo aperto → Epicamente il corpo dell’uomo in battaglia viene penetrato, fatto a
pezzi, lacerato. Nell’ Iliade per lo squarcio vengono designati i verbi deizoo e daizo che
traducono l’essenza del sanguinoso rituale della guerra. Tali verbi hanno infatti si
riferiscono anche al gesto sacrificale: parlando infatti di Achille il medesimo verbo descrive
successivamente lo squarcio sul corpo di Ettore e lo sgozzamento di dodici giovani troiani
sulla pira di Patroclo. Nel libro XVII allo stesso modo Omero paragona esplicitamente la
morte di un guerriero all’abbattimento di un bue sacrificato. Ovviamente ciò vale solo nel
linguaggio dei poeti e della tragedia in quanto gli storici differenziano in maniera
sostanziale le relazioni tra guerra e sacrificio. Va poi detto che quando uno strale si
conficca nel corpo una particolarissima attenzione è dedicata all’istante in cui esso lacera
la pelle e nell’ Illiade è come se menzionando il fragile involucro di pelle si evocasse nello
stesso tempo anche la carne nella sua profondità, basti pensare ad Apollo che per
convincere i Troiani che i Greci non sono invulnerabili grida che “la loro pelle ( khròs ) non
è di ferro capace di resistere al bronzo che incide la carne ( khalkòn tamesi-khroa)”. E’
interessante concentrarsi sugli epiteti che sono attribuiti alla pelle nel momento in cui il
ferro nemico incontra il corpo del guerriero: la pelle è allora chiamata delicata (come ad
esempio quella di Patroclo e Ettore), o bella (come quella di Ares), o bianca (come quella
di Ettore), o desiderabile (come quella di Aiace). Tutti termini che si addicono all’incarnato
delle fanciulle o anche a quello delle donne, in quanto nell’istante in cui incide il corpo del
guerriero, l’arma nemica fa apparire la fragilità, del tutto femminile forse ma anche così
umana, nascosta nel corpo dell’uomo virile.

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