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Adelchi

Tragedia che prende il nome dal protagonista stesso, appare come il capolavoro poetico del Romanticismo
italiano nonostante Manzoni lo definì, in una lettera al Fauriel del 1822, “il mio mostriciattolo romantico”.
L’Adelchi fu scritto tra il 1820 e il 1822 e rappresenta quella fase più patetica del cristianesimo manzoniano,
non più di tono catechistico e dottrinario come negli Inni Sacri e non il cristianesimo riposato e sereno dei
Promessi Sposi. Nell’opera, vige un grande pessimismo cristiano che sfocia nel rifiuto etico della logica del
potere e la denuncia delle lacrime e del sangue che lo temprano. La tragedia, concepita storicamente con tutta
l’arazzeria medioevale, evolve in chiave negativa, di radicale denuncia dei limiti dell’agire politico in una
realtà impermeabile ai valori etici. Essa offre un altro punto di vista dal quale affrontare la figura del
Manzoni in tutta la sua complessità e dovrà essere colta come un momento di svolta, uno spartiacque
decisivo.
La figura di Adelchi costituisce l’essenziale punto di riferimento e il perno della tragedia; in essa vi è una
viva presenza di relazioni fortemente scandite per contrasto e altre per affinità.
Alcuni personaggi e le loro relazioni con Adelchi:
· Desiderio: prototipo della forza bruta, dell’elementare e fisica ferocia barbarica destinata però ad un atroce
risveglio e un’amara resipiscenza finale che varrà come espiazione; a questa elementare ferocia si
contrappone la sfumata e complessa personalità di Adelchi, tanto psicologicamente -e poeticamente-
autonomo dalla figura del padre, quanto ad essa legato da una piena e totale interiorizzazione del dovere
filiale.
· Carlo Magno: esso incarna, in contrapposizione all’etica della rinuncia di Adelchi, la ragion di Stato, il
gusto del potere a cui arride il successo; in lui s’intravedono i lineamenti dell’eroe positivo, troppo
determinato nel suo ruolo giudicante e cosciente di esso. Carlo Magno è l’anti-Adelchi, sia ideologicamente
che poeticamente.
· Svarto: il gregario che tende con tutte le sue forze all’affermazione della propria individualità e che nella
scelta sceglie la via del tradimento; tra lui e Adelchi non esistono punti di contatto, sono due mondi in totale
antitesi.
· Guntigi e Giselberto: duca traditore il primo e duca pavido consigliere di resa il secondo, attraverso la quale
si delinea il contrasto fra la dimensione eroica e la dimensione pratica, fra anima bella e il filisteo.
· Ermengarda: traduce in dimensione privata ed affettiva una frustrazione e una sconfitta analoghe a quelle di
Adelchi, suo fratello. Ansberga: un’altra sorella di Adelchi ed Ermengarda, figlia di Desiderio.
· Anfrido: scudiero e amico di Adelchi, con cui la sintonia psicologica e ideale del protagonista è perfetta;
Anfrido rappresenta la tipica figura di complemento, l’espediente strutturale che permette al protagonista
pause meditative e confidenti. È proprio lui ad anticipare, al momento della sua morte, il grande tema di
fondo di Adelchi percepito come figura Christi (Atto III, scena VI, vv. 286-88).
ATTO PRIMO

Si apre col ritorno di Ermengarda, figlia del re Desiderio e sorella di Adelchi, presso la reggia di
Pavia dopo esser stata ripudiata dallo sposo Carlo Magno. La reazione del padre Desiderio è
duplice: il personaggio appare diviso tra il risentimento politico di un re offeso e il dolore e l’affetto
paterno nei confronti di Ermengarda. È la reazione di un padre e di un re; Desiderio pensa a
un’azione di vendetta a cui si oppone Adelchi. Quest’ultimo vorrebbe in realtà preparare la sorella
al dolore che l’aspetta non solo causato da Carlo Magno, bensì anche dalla scomparsa della madre
Ansa «Dolore sopra dolor!» vv. 39-40. Il contrasto di prospettive tra Desiderio e il figlio Adelchi
traspare fin dal primo atto. Nella scena V i duchi longobardi iniziano a tramare il tradimento
annunciando così una guerra tra Franchi e Longobardi; Svarto si propone come intermediario fra i
Duchi e Carlo.

ATTO SECONDO

Si svolge in Val di Susa (unico accesso dalla Francia all’Italia), nel campo dei Franchi, che tentano
di superare le impenetrabili chiuse che bloccano il passaggio delle Alpi; Pietro, il legato del Papa,
sollecita Carlo Magno alla guerra contro i Longobardi. Viene annunciato l’arrivo di un latino, il
diacono ravennate Martino che, ispirato da Dio, ha trovato la via alpina per aggirare le chiuse e si
offre per guidare l’esercito franco in Italia in un primo scenario di carattere idillico-pastorale dovuto
dall’incontro con un buon pastore. Segue il monologo di Carlo nella scena IV e l’annuncio della
partenza dell’esercito in quella successiva. È l’episodio di grande rilievo storico: nulla dipende dalla
determinazione o dalla ferocia di un uomo di potere, ma il destino è interamente affidato alla fede di
un uomo umile e appartenente al basso clero. Il diacono Martino non esita a presentarsi come mero
strumento della provvidenza divina, di un Dio che gli è stato costantemente accanto affinché Carlo
potesse prevalere sui nemici del Papa.

ATTO TERZO
Si apre con la confidenza che Adelchi fa ad Anfrido in relazione alla sua ansia e insoddisfazione «Il
mio cor m’ange, Anfrido: ei mi comanda alte e nobili cose; e la fortuna mi condanna ad inique» e
vv. 98-102.
Desiderio ordina al figlio Adelchi di partire per la conquista di Roma.
D: Ubbidiresti biasimando?
A: Ubbidirei
Assume importanza la contraddizione che interiorizza il contrasto tra ideale e reale del protagonista;
Adelchi, infatti, vive questo contrasto come vittima tanto da essere appellato «Alto infelice» dal suo
amico Anfrido. Ma ciò che distingue Adelchi da tanti altri eroi romantici che subiscono la
medesima contraddizione è la speranza in una giustizia divina, oltre la vita e oltre la storia «Soffri e
sii grande. Soffri ma spera».
Segue l’assalto improvviso dei Franchi, favoriti dai traditori, alle spalle dell’esercito longobardo e
Carlo Magno prende possesso dell’Italia; Rutlando esprime a Carlo la sua insoddisfazione per una
vittoria ottenuta senza resistenza ma i duchi longobardi omaggiano il re Carlo.
vv. 276-281 Anfrido parla di Adelchi a Carlo prima di morire e, per la sua morte, Adelchi soffrirà
tantissimo. Amarezza di Desiderio in fuga verso Pavia e Adelchi si ritira a Verona.
In conclusione dell’atto, il CORO Dagli altrii muscosi, dai fòri cadenti: undici sestine di
dodecasillabi con schema AABCCB (A e C sono piani e B sempre tronco) mostrano come, nel
passaggio dai dominatori longobardi a quelli franchi, resti immutata l’oppressione delle genti latine
«un volgo disperso che nome non ha».

ATTO QUARTO
Inizia con il delirio e l’avvicinarsi alla morte di Ermengarda nel monastero di San Salvatore in
Brescia assistita dalla sorella Ansberga e due donzelle «O Carlo. Farmi morir di dolor, tu il puoi.
Amor tremendo è il mio» vv.139-161 conflitto psicologico di Ermengarda e delirio fino vv.193 che
si conclude nei vv. 200-210 verso la consolazione e la pace della morte cristiana.
Segue il CORO Sparsa le trecce morbide: venti strofe di sei settenari con schema ABCBDE (A, C,
D sdruccioli e senza relazione di rima, B piano, E tronco) che, con un ampio respiro sinfonico,
invita la donna ad abbandonare per sempre i “terrestri ardori” offrendosi alla sola pace e
consolazione nell’accettazione della volontà divina. Esso evoca con intensa partecipazione, il
ritorno delle immagini più splendide, preziose e cariche di sensualità della sua vita di sposa e
sovrana. L’atto cambia ambientazione e si sposta a Pavia con il tradimento del duca Guinigi che
apre ai Franchi le porte della città; la scena III vede il monologo di Guntigi sulla fedeltà mentre la
brevissima scena IV l’arrivo di Svarto che sfocerà in un dialogo toccante tra i due a conclusione
dell’atto.

ATTO QUINTO
L’ultimo atto si apre nel palazzo reale di Verona quando Giselberto annuncia la volontà di resa dei
soldati longobardi «A nunziarti il voler: duchi e soldati chiedon la resa» ad Adelchi che si prende
tutta la scena II con il suo monologo. In questo quinto atto, scena II, la fisionomia morale del
personaggio si conclude. Adelchi s’indigna dinanzi a così tanta viltà, ma poi abbraccerà il suo
destino. Inizialmente il protagonista proverà a ragionare come l’eroe omerico, Achille dell’Odissea,
schierandosi nell’avere una vita breve ma gloriosa incarnando la morale dell’eroe antico;
successivamente questa morale verrà respinta ed è proprio qui che nasce il nuovo eroe manzoniano.
Adelchi non è né Achille, né Bruto; si afferma una nuova morale eroica.
Nel campo franco di fronte alla città Carlo Magno e Desiderio hanno un duro colloquio nel quale
Desiderio chiede a Carlo la libertà per Adelchi ma Arvino annuncia la caduta di Verona e la grave
ferita di Adelchi. Dopo aver atteso, quest’ultimo, ferito a morte «Questo è un uom che morrà»
v.364, consola il padre Desiderio prigioniero «Orrendo m’è il vederti così» e chiede a Carlo Magno,
rivolgendosi a lui «E tu, superbo nemico mio», che la sua prigionia non sia penosa. Nei versi 340-
364 della scena VIII che vertono verso la conclusione della tragedia, traspare un pessimismo che si
rivela un pessimismo dell’epoca, similare a quello foscoliano dello Jacopo Ortis. Nucleo centrale di
questo pessimismo è la divorazione reciproca nel potere, fondato sulla forza e sulla sopraffazione
che sfociano nella violenza. In Manzoni, il pessimismo è dovuto dalla delusione personale che
l’autore risente nei confronti di un’epoca.
Concludendo l’ultimo atto della tragedia, Carlo Magno esce dalla tenda nella penultima scena (IX)
lasciando soli padre e figlio preparando la scena finale che conclude la tragedia con cinque battute
nella morte di Adelchi, anima stanca e disgustata.

FINE DELLA TRAGEDIA

→ Approfondimenti vari:
(fonti: lezioni del professore, manuale “Ferroni”, Adelchi edizione 1998)

Nelle tragedie manzoniane, il CORO rappresentava uno spazio riservato dall’autore a un proprio
commento lirico sulle vicende rappresentate; aveva la funzione di un momento riflessivo.
Nell’Adelchi compaiono due cori molto diversi fra loro:
1. Dagli altrii muscosi, dai fòri cadenti (fine 3°atto)
2. Sparsa le trecce morbide (inizio 4°atto)
1. Alla fine del terzo atto, nel momento in cui viene portata la notizia della morte di Anfrido
(scudiero fraterno di Adelchi) viene introdotto il coro che ha molte somiglianze con quello del
Carmagnola per i temi trattati. Manzoni, pur non potendo dire in maniera esplicita il suo pensiero,
per la censura dominante, deve amaramente prospettare la visione desolante di un “volgo che nome
non ha”; si tratta del popolo latino, erede di un passato glorioso che ora è coperto di muschio e fatto
di sole rovine. In esso il poeta riconosce il popolo del suo tempo che ormai non ha futuro. Non resta
che sperare attendendo tempi propizi ma, perché ci siano, occorre risvegliare la coscienza, ridestare
gli animi, risollevare gli spiriti. È quanto si avverte nel coro che si effonde proprio nel momento in
cui Adelchi, avuta la notizia della morte dell’amico, prosegue il suo cammino di lotta, solo perché
questo è il suo dovere, anche ad essere consapevole della inanità del compito.
2. All’inizio del quarto atto, invece, il coro appare più lirico, in un contesto altamente drammatico,
dove si ha l’abbandono alla morte di Ermengarda, rifugiata nel monastero di Brescia, dopo il
ripudio di Carlo. È una sorta di mesto accompagnamento dell’anima che sta lasciando il corpo, con
quella pietà che diventa preghiera. Quando ormai lei, adagiata all’ombra di un tiglio nel convento,
sente avvicinarsi la morte e chiede alle sorelle che le si parli di Dio, perché già ne avverte la
presenza, si avvia il coro, che sembra proprio l’estremo saluto delle vergini a lei vicine; prevale una
sorta di discorso diretto, come se l’autore si rivolgesse proprio alla donna per calmarla, per
distenderla e portarla così ad addormentarsi nella morte. Con Ermengarda, moriva il personaggio
manzoniano che più di ogni altro avrebbe incarnato i sentimenti dell’autore sulla fragilità della
natura umana, protesa verso un sogno ben lecito di felicità terrena, ma incapace, se mite, di
sostenere la violenza che domina le relazioni tra gli uomini. Di fronte a temi così suggestivi, è
possibile capire perché Manzoni abbia voluto inserire il suo secondo intervento lirico, anche a costo
di interrompere il quarto atto appena dopo la prima scena.

Il dramma di Ermengarda e di Adelchi sta tutto nel loro rifiuto dei rapporti di potere e dello stesso
divenire storico e ciò genera una sostanziale immobilità dal punto di vista teatrale.
Ermengarda è fissata nella condizione di vittima remissiva e di sposa ripudiata ferma nei ricordi del
passato; consumata dalla sua infelicità, muore d’amore. Appare come un personaggio interiormente
diviso e di straordinaria modernità in cui si contrappongono insanabilmente coscienza religiosa e
pulsioni amorose. E se la prima riesce almeno a contenere nei momenti di lucidità in una mite
rassegnazione le proprie lacerazioni, quando subentra il delirio, regno dell’inconscio, si libera tutta
la forza inconfessata e repressa di quella passione. Nella sensibilità di Ermengarda, il richiamo ai
più alti valori dello spirito non può comunque dar luogo a un appagamento e una quiete della
psiche; ella ha bisogno di credere a un’estrema illusione «Se fosse un sogno!» verso 189. L’essere
teatrale di Ermengarda è tutto in una ricerca di non essere, di oblio e di annullamento di sé. Anche
Adelchi tende a proiettarsi al di fuori dello spazio teatrale: egli appare un eroe tragico più
tradizionale la cui virtù si esalta in imprese limpide e pure, ma nei rapporti di forza che sono in
gioco nella tragedia, le sue vere aspirazioni non hanno alcuna possibilità di dar prova di sé. Si
troverà sempre costretto ad adattarsi alle decisioni del padre Desiderio che contrastano col suo
bisogno di giustizia; egli è vittima di una contraddizione tra il suo cuore e la fortuna di cui è
succube. Nel discorso finale, fa sua una vera e propria “morale dell’astensione”. Per Adelchi la
morte non è l’ultima esplosione della violenza tragica, ma il solo spazio possibile di universalità
umana, il ritrovamento dell’essenza più profonda dell’uomo, posto sotto il segno della giustizia
divina.

Alla fine del processo creativo di “Adelchi”, Manzoni dichiara la sua insoddisfazione definendo
l’opera dal “colore eccessivamente romanzesco”. Come già sopra citato, nella lettera al Fauriel non
solo ribadì il suo scontento riguardante l’esito della tragedia, ma l’autore abbandona l’idea di una
tragedia su un tale Adolfo. A lungo si è cercato d’individuare chi fosse e ad oggi, si è concordi
sull’idea che Adolfo sia il nome francese del re dei Visigoti Ataulfo, soggetto interessante proposto
al Manzoni da Fauriel ma accantonato in favore di Adelchi.

La vicenda della tragedia si svolge tra il 772-774 d. C.


Nell’opera, successivamente alla dedica “Alla diretta e venerata sua moglie Enrichetta Luigia
Blondel”, compare una sezione apposita dedicata alle NOTIZIE STORICHE dei fatti anteriori e
compresi nell’azione della tragedia.
Inoltre, è presente anche una mini-catalogazione degli atti e delle scene contenti usanze
caratteristiche alle quali si allude nella tragedia:
Con l’Adelchi, Manzoni dimostra di aver pienamente accantonato le unità di tempo e di luogo
aristoteliche, giudicate troppo artificiose, ragion per cui la vicenda narrata si svolge in un arco
cronologico esteso e introduce molti scenari e ambientazioni. Lo scopo che si prefigge l'autore è di
coinvolgere lo spettatore non attraverso le passioni dei personaggi, bensì con la riflessione sulle
conseguenze nefaste che possono avere tali sentimenti così estremi. L'opera si delinea
nell'intenzione dell'autore come una requisitoria sul dramma del potere, con le ingiustizie, alla
viltà e ai tradimenti ad esso collegate, che si contrappongono alla figura del protagonista, presentato
come uomo di eccezionale levatura morale. Emergono quindi i temi cari a Manzoni, quali le
contraddizioni insite nella storia umana, la maledizione che grava su chi esercita il potere e la follia
delle lotte fratricide.

1° stesura dell’Adelchi :
Accantonata l’idea dell’Adolfo, Manzoni si orientò verso una tragedia che, pur ambientata nel
medioevo, presentasse temi interpretabili in chiave di attualità politica, sullo sfondo etico della
storia e l’argomento che gli parve più interessante e “popolare” fu la caduta del regno longobardo
ad opera di Carlo Magno. Nella tradizione storica italiana era opinione corrente che il lungo
insediamento longobardo in Italia avesse mitigato la tradizionale crudeltà dei barbari invasori sulle
popolazioni oppresse, determinando una relativa pacificazione e quasi un avvio di fusione tra le
popolazioni italiane sottomesse e i longobardi stessi. Da questa fusione si sarebbe svolto un primo
riconoscimento di unità nazionale italiana che avrebbe minacciato direttamente il potere territoriale
della Chiesa: proprio per sottrarsi a questa espansione del dominio longobardo, il Papato avrebbe
chiamato Carlo Magno a sconfiggere i Longobardi. Manzoni muove contro questa tradizione
storiografica che addita nella Chiesa la principale responsabile della mancata unificazione nazionale
e si avvale degli studi storici del Therry che presupponevano la netta separazione e quindi
l’antagonismo in tutti i regni romano-barbarici fra l’etnia degli oppressori e l’etnia degli indigeni
oppressi. La tesi del Therry, applicata all’Italia medioevale, permette al Manzoni di scagionare il
Papato dalla ricorrente accusa di essere stato il principale ostacolo all’unificazione italiana o alla
presa di coscienza, da parte degli italiani, di un’identità nazionale. Manzoni si sbilancia fino al
punto di vedere nel Papato un ideale punto di riferimento per l’incipiente coscienza nazionale
italiana, antagonistica rispetto all’oppressione longobarda: tutelando il suo diritto di esistere come
potenza politica, il Papato avrebbe tutelato anche i diritti nazionali del popolo italiano. È
fondamentale notare il caratteristico intreccio fra un’intenzione apologetica nei riguardi della
Chiesa e un’autentica sensibilità di tipo etico e civile. Si può inoltre constatare con quale anticipo
sui tempi il Manzoni ha formulato un progetto/atteggiamento intellettuale di tipo neoguelfo:
accordo e intima assonanza fra ruolo storico della Chiesa e coscienza olitica del popolo italiano.
Il presupposto della prima concezione dell’Adelchi è quindi che i Longobardi e Latini
rappresentassero due entità etniche fra loro divise in modo irriducibile: gli uni oppressori, gli altri
oppressi.
Adelchi è latore di un messaggio politico che sfiora l’utopia ovvero l’emancipazione degli schiavi
latini e il loro innalzamento al rango di guerrieri in piena parità di diritti con i Longobardi. La
fisionomia del primo Adelchi sfocia in un personaggio che si sforza, pur destinato a soccombere, di
calare l’ideale etico nella storia, di attuarlo, di superare la divaricazione, intrinseca nell’agire
umano, tra quello che è e quello che dovrebbe essere.
2° stesura dell’Adelchi :
Manzoni continuò ad esplorare documenti e cronache medievali allo scopo di trovare sostegni per la
sua tesi e per la sua convinzione di una embrionale coscienza nazionale italiana che si sarebbe
orientata verso il Papato al fine di poter tentare dunque una fusione etnica tra Longobardi e Latini,
con il duplice scopo di emancipare la nazionalità oppressa e di consolidare la dominazione
longobardica. Da queste ricerche un dato si presenta al Manzoni con estrema evidenza: l’assoluto
silenzio delle cronache e dei documenti sulla condizione del popolo italiano sotto la dominazione
longobarda. Proprio questa drammatica constatazione è all’origine di uno dei più risentiti ed intensi
momenti del Discorso, nel II capitolo «Un'immensa moltitudine d'uomini, una serie di generazioni,
che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarvi traccia, è un tristo ma importante
fenomeno; e le cagioni di un tale silenzio possono riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di
fatto».
Infatti, proprio nella stretta finale della prima concezione conosciuta come “Primo abbozzo
dell’Atto V” iniziato il 2 luglio 1821, l’autore interrompe il lavoro con la nota: “Scartare tutto e
rifare l’atto in modo più conforme alla storia”. La coscienza degli italiani e la loro ostilità ai
longobardi cessano di essere i poli di riferimento storico e ideale, mentre l’asse si sposta sul
tradimento dei Duchi longobardi. Nella lunga lettera al Fauriel, Manzoni sottolinea di aver
immaginato il carattere di Adelchi su dati storici da lui creduti fondati e di essersi accorto, a lavoro
già avanzato, che quei dati erano del tutto ipotetici e immaginari. Dunque, è necessario che Adelchi
abbandoni il suo ruolo da eroico latore di un progetto morale (emancipazione di un popolo) e s
definisca come il personaggio della sconfitta eroica, la vittima innocente stritolata dalle leggi
ineluttabili dell’agire umano. Ecco, dunque, che il nuovo Adelchi diventa il personaggio che si
risolve nel dissidio fra il volere e l’agire vissuto non passivamente nel senso della rinuncia, ma
come energico dramma della coscienza. Di qui il grande pessimismo cristiano di Adelchi: il rifiuto
etico della logica del potere.

La morte di Adelchi:
per dare un termine alla sua tragedia, Manzoni ha dovuto stravolgere la verità storica secondo la
quale Adelchi si rifugiò a Bisanzio e trovò la morte solo qualche anno dopo quando tornò in Italia
per portare guerra ai Franchi con truppe greche. Anche Adelchi, come la sorella, muore nella fede
di Cristo; nel momento della morte del principe, si scatena un crescendo pessimistico di rara
potenza. Nelle ultime parole di Adelchi, vi è una denuncia della violenza umana; sotto accusa sono i
meccanismi di un agire politico che soggiace inevitabilmente all’esercizio della violenza, ai
compromessi con i personaggi più indegni e alle sirene della ragion di stato. Non si deve subire
passivamente, bensì riaffermare con forza e coraggio la legge cristiana dell’amore: un impegno
storicamente negato a Ermengarda e Adelchi.
L’opera approda dunque a una negazione dell’eroismo tragico.
La tragedia si pone come l’espressione più acuta del pessimismo cristiano del Manzoni.

https://www.youtube.com/watch?v=a3Y55g53ntY&feature=emb_title
Carmelo Bene, Adelchi (completo)

https://youtu.be/XiVZYUAIBYw
Carmelo Bene, ultimo monologo di Adelchi

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