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Francesco Mele

CARNEVALI E ROVESCIAMENTI:
un’analisi del Canto XX dell’Orlando Furioso

I. Tra lodi e condanne mancate

Nel Canto XX dell’Orlando Furioso, il lettore assiste al rovesciamento di tutti i valori cavallereschi
tramandati da Turpino e dalla Tradizione: cavalieri dimezzati, (s)fortune intrecciate, eroi irresoluti.
Già dall’inizio appare evidente la sistematica smentita di quanto affermato in precedenza.
Ariosto prende parte, come più volte accade in realtà all’interno del poema, alla «Querelle des
femmes», tessendo le lodi delle donne valorose e meritevoli ma trascurate dalla storia a causa dei
poeti invidiosi del loro talento. Anche nel lodare le donne Ariosto segue il doppio filone de’ «le arme,
gli amori, le cortesie, l’audaci imprese»1, tant’è che l’elogio si rivolge prima ad Arpalice, l’eroina
Tracia che vive di caccia e rapine, e a Camilla, guerriera e regina dei Volsci, a cui già Dante, nel
Canto I dell’Inferno, vv. 106-7, aveva reso omaggio: «di quella umile Italia fia salute / per cui morì
la Vergine Cammilla» 2 . Subito dopo Ariosto loda invece Saffo e Corinna, entrambe vanto della
poesia lirica greca. L’encomio delle donne si articola per altre due ottave in cui, con delicatezza, si
difendono le donne dalle gelosie degli uomini e le si innalzano agli onori delle humanae litterae.
Tuttavia, subito dopo si articola il lungo episodio delle «femine omicide», che, a differenza di quanto
detto nelle ottave subito precedenti, non pone le donne in una luce chissà quanto positiva. Basti
riflettere sull’opposizione terminologica che vede scontrarsi «donna» con «femmina»: ancora Dante,
infatti, affermava che (parafrasando) tutte sono femmine, poche sono donne. Una battuta senza
dubbio antipatica dal punto di vista delle dinamiche di genere ma culturalmente significativa.
Interviene così nel poema, per la prima volta nel canto, l’infallibile ironia dell’autore che accompagna
tutto lo svolgersi dell’azione drammatica. Qui, dunque, il primo ribaltamento del canto.
Prima di procedere con l’analisi di questo canto è utile ricordare che i capovolgimenti iniziano dal
canto precedente, quando Marfisa sceglie di offrirsi volontaria per affrontare in duello i dieci uomini
posti a guardia di Alessandretta dalle «femine omicide»: una donna-soldato (già questo elemento
appare bizzarro) che si scontra con dieci uomini muove inevitabilmente al riso il lettore
cinquecentesco, soprattutto se si pensa che la spada di Marfisa si dimostra inefficiente e le sorti del
combattimento vengono ribaltate solo dal corno magico di Astolfo. Stefano Jossa, infatti, nella sua
«Lettura del Canto XX» afferma che «l’opposizione tra la «spada» della donna e il «corno» dell’uomo
non potrebbe essere più radicale, e più allusiva»3.
Tornando, però, al racconto di Guidon Selvaggio, il lettore si trova faccia a faccia con l’ennesimo
ossimoro concettuale: donne al potere al posto di uomini che le rifiutano. Le donne cretesi si
innamorano dei figli illegittimi delle donne greche che, guidati da Falanto, vengono assunti a guardia
di Dictea. Gli uomini greci riescono a conquistare le donne cretesi, infatti Ariosto scrive che:

Poi che non men che belli, ancora in fatto


si dimostrar buoni e gagliardi a letto,
si fero ad esse in pochi dì sì grati,
che sopra ogn’altro ben n’erano amati. [XX 16, 5-8]

Amati al punto che le donne decidono di depredare le case dei famigliari per fuggire via coi greci.
Questo però non crea certamente novità nel lettore: fin dall’VIII Secolo a. C. le trame letterarie si

1 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, ottava I vv. 1-2, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2022
2 Dante Alighieri, La Commedia, Inferno, canto I vv.106-7, a cura di Roberto Mercuri, Torino, Einaudi, 2021
3 Stefano Jossa, Canto XX da Lettura dell’Orlando Furioso I, pag. 487, diretta da Guido Baldassarri e Marco Praloran,

a cura di Gabriele Bucchi e Franco Tomasi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2016

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intrecciano tra tradimenti e fughe d’amore. Basti pensare alla fuga di Elena che scatena una guerra
decennale, a Medea che lascia la casa del padre fino a Didone che «s’ancise amorosa, / e ruppe fede
al cener di Sicheo»4. Il sovvertimento comico, però, entra in scena quando i greci, stanchi a causa
del “lavoro fisico” a cui sottoposti dalle donne, decidono di abbandonarle sull’isola di Alessandretta
per vivere da soli e senza più scocciature:

Questa lor fu per dieci giorni stanza


Di piaceri amorosi tutta piena.
Ma come spesso avvien che l’abbondanza
seco in cor giovenil fastidio mena,
tutti d’accordo fur di restar sanza
femine, e liberarsi di tal pena;
che non è soma da portar sì grace,
come aver donna, quando a noia s’have. [XX, 20]

Le «femine omicide», a questo punto, stabiliscono una legge ingiusta che impone l’uccisione di tutti
gli uomini che, costretti dalle intemperie, si fermano ad Alessandretta. L’unico modo per evitare
l’uccisione è sconfiggere dieci cavalieri in battaglia e soddisfare altrettante donne. Guidon Selvaggio,
che supera la prova, pure si lamenta del “pegno”, dal momento che l’unione carnale è frutto di
costrizione e non di desiderio: «che piaceri amorosi e riso e gioco, che suole amar ciascun de la mia
etade, / […] potuto hanno, per Dio, mai giovar / all’uom che privo sia di libertade: / e ‘l non poter
mai di qui levarmi, / servitù grave e intolerabil parmi»5. In questo passo il rapporto sessuale, che in
più episodi è l’oggetto del desiderio di parecchi paladini, viene sentito come vera e propria
coercizione. Ancora Jossa, a questo proposito, scrive che «quello che può sembrare un piacere – stare
con dieci donne – in realtà non lo è, perché si tratta di un obbligo»6.
Ma il fatto che ad Alessandretta viga una «legge iniqua» collega la mente del lettore ad un’altra
«legge iniqua»: nel Canto XXXVII, il Re Marganorre, spinto da una profonda misoginia, esilia tutte
le donne (a eccezione della più bella) dalla Rocca di Tristano. Marfisa, dopo aver abbattuto il tiranno,
impone una nuova legge che vede le donne al comando e gli uomini esiliati:

Prima ch’indi si partan le guerriere,


fan venir gli abitanti a giuramento,
che daranno i mariti alle mogliere
de la terra e del tutto il reggimento:
e castigato con pene severe
sarà chi contrastare abbia ardimento.
In somma quel ch’altrove è del marito,
che sia qui de la moglie è statuito. [XXXVII, 115]

Nuovamente, quindi, Marfisa viene ritratta come «cavaliere dimezzato»: se prima non riesce a vincere
in battaglia, ora, pur avendone potenzialmente i mezzi, non mette fine all’ingiustizia. Il cavaliere non
risolutivo non interrompe l’iniquità, ma si limita a “metterla in pausa”. Altro elemento comicamente
bizzarro risulta essere il fatto che un cavaliere (donna) armato di tutto punto batte Marganorre non
con le armi ma con le parole, mettendolo alla gogna. Marfisa si fa garante della sua legge minacciando
uno sterminio (atteggiamento che fa venire alla mente le tante pax promulgate dai vari Augusto e
Carlo V). Tutto questo genera un sovvertimento-senza-sovvertimento dal momento che la legge resta
ingiusta e la distruzione del patriarcato genera l’istituzione di un matriarcato altrettanto feroce
sostituendo, di conseguenza, un abuso ad un altro abuso.

4 Dante Alighieri, La Commedia, Inferno, op. cit., Canto V, vv. 61-2


5 Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, op. cit. Canto XX, ottava 62 vv. 1, 2-5, 8
6 Stefano Jossa, Canto XX da Lettura dell’Orlando Furioso I, op. cit. pag. 482

2
II. Carnevale, parodia e perdita di valori

Tuttavia dalla seconda metà del canto si registra un’ancor più sorprendente virata in direzione del
sovvertimento comico. È proprio in questa parte del racconto che appare chiaro tanto al lettore quanto
ai critici la volontà dell’autore di «scrivere l’ultimo e uccidere il genere»: il totale sovvertimento
mostra, perciò, l’inadeguatezza dei valori cavallereschi per uomini che, secondo Italo Calvino,
sentono «il terreno scricchiolare sotto ai piedi». Il mondo dei primi anni del cinquecento è
profondamente sconvolto dalle guerre d’Italia e dalle barbarie che le accompagnano. Ed è per questa
ragione che alla fine del cinquecento, col Sacco di Roma, la riforma Protestante, la battaglia di
Lepanto e la minaccia Turca, non deve stupire la scrittura di pseudo-romanzi cavallereschi dal
chiarissimo intento parodico come il Don Chisciotte o La Secchia Rapita. È necessario, inoltre, per
meglio comprendere la seconda parte del canto riprendere gli assunti postulati dal critico letterario e
filosofo russo Michail Bachtin sul carnevale e sulla parodia: la festa del carnevale diviene archetipo
del capovolgimento valoriale che vede sospesi tutti i rapporti di forze e tutte le norme di
comportamento vigenti. Tutto ciò inserito nel contesto parodico in cui un registro linguistico o una
rosa di situazioni si adattano ad un contesto diverso da quello per il quale erano stati pensati (un
esempio esplicativo è «L’Inferno di Topolino»7, versione fumettistica della prima cantica Dantesca).
Tornando al canto alla luce di quanto affermato in precedenza, Ariosto ritorna a Marfisa che, dopo
l’episodio delle «femine omicide», incontra Gabrina, la donna a cui era stata affidata Isabella, che
viene subito definita «femina antica» e anche in questo caso Stefano Jossa non manca di cogliere il
doppio contrasto non solo tra «femina-donna» ma anche tra «femina antica» e le «donne antique»
della prima ottava. E il carnevale non si limita ad essere lessicale ma soprattutto concettuale: Mentre
è compito del cavaliere scortare e proteggere la dama, a Marfisa spetta il compito di prendere con sé
Gabrina, andando a costituire una coppia al rovescio. Inoltre Gabrina è obbligata ad indossare i vestiti
di una bella donzella. In questo punto della narrazione è curioso notare come l’ironia ceda il passo ad
un senso del comico “pungente e cattivello”:

Avea la donna (se la crespa buccia


Può darne indicio) più de la Sibilla,
e parea, così ornata, una bertuccia,
quando per muover riso alcun vestilla;
et or più brutta par, che si coruccia,
e che dagli occhi l’ira le sfavilla:
Ch’a donna non si fa maggior dispetto,
Che quando o vecchia o brutta le vien detto. [XX, 20]

Nel frattempo, Zerbino incontra Marfisa e la deride a causa del “carico” da proteggere. Marfisa,
quindi, sfida a duello Zerbino: il perdente prenderà con sé la vecchia. Due paladini combattono non
per conquistare la fanciulla, ma per cederla, liberandosene. Un duello alla rovescia che quindi
interpreta a pieno il paradigma parodico teorizzato da Bachtin che «Serve a mettere in dubbio e
correggere l’eccesso di unilateralità, ai limiti del totalitarismo, della parola autoritaria e assoluta.»8

III. Conclusioni

Avviando la discussione alla conclusione, nel XX canto dell’Orlando Furioso Ariosto rovescia tutti i
paradigmi del codice comportamentale cavalleresco, dal paradigma dell’eroe guerriero posto in crisi

7 Guido Martina, L’Inferno di Topolino, Milano, Mondadori, 1949


8 Stefano Jossa, Canto XX da Lettura dell’Orlando Furioso I, op. cit. pag. 489

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da donne guerriere (che si mostrano inefficienti) a quello del duello che diventa duello di perdita.
Marfisa viene ad essere, perciò, il personaggio “problematico” del canto, nel senso che - nonostante
non ci sia un’evidente degradazione dell’eroina - pone ugualmente in crisi il sistema valoriale: a
questo proposito è sempre Jossa ad affermare che «Marfisa produce un rovesciamento multiplo, che
non si conclude col mettere a posto le cose così come erano all’inizio, secondo il modello del
rovesciamento del rovesciamento, ma produce il nuovo disordine, in una catena di dispersioni non
dissimile da quella che regola il meccanismo narrativo del poema». In ultimo è bene notare come
tutto il canto costituisca un ultimo macro-rovesciamento che, a differenza dei precedenti, investe la
totalità dell’episodio narrativo: il Canto, che all’inizio si propone come «canto in lode delle donne»,
nel suo sviluppo viene a costituirsi in completa opposizione con quanto in principio affermato.
Concludendo, anche lo scrittore e drammaturgo italiano Luigi Pirandello prende parte alla
discussione circa il senso del divertimento e del rovesciamento carnevalesco all’interno dell’Orlando
Furioso. Pirandello, a dispetto di quanto affermato in questo scritto, nega ad Ariosto la qualifica di
«umorista» dal momento che il sovvertimento non raggiunge mai uno statuto contraddittorio. Tuttavia
Jossa conclude il suo scritto facendo notare al lettore che il gioco dei continui capovolgimenti prodotti
da Ariosto nel poema si specchia nell’attività estetica pirandelliana:

Le immagini […], anziché associate per simulazione o per contiguità, si presentano in contrasto: ogni
immagine, ogni gruppo di immagini desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale,
irrequieto, si ostina a trovare o a stabilire tra loro le relazioni più impensate.9

Per quanto detto, si può affermare che in tutto il Canto XX si configura come sovvertimento parodico
che nasconde, in sé, tutto il dramma di una società disorientata che vede irrimediabilmente inadeguati
i valori su cui si era secoli prima costituita e per secoli mantenuta.

Francesco Mele,
Matricola N° N6001028

9 Luigi Pirandello, L’umorismo, p. 141, a cura di S. Guglielmino, Milano 1986

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APPARATO BIBLIOGRAFICO

Alighieri Dante, La Commedia, Inferno, a cura di Roberto Mercuri, Torino, Einaudi, 2021;
Ariosto Ludovico, Orlando Furioso, a cura di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2022;
Jossa Stefano, Canto XX da Lettura dell’Orlando Furioso I, diretta da Guido Baldassarri e Marco
Praloran, a cura di Gabriele Bucchi e Franco Tomasi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2016;
Pirandello Luigi, L’umorismo, a cura di S. Guglielmino, Milano 1986.

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