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CANTO XXVIII (P.

Stoppelli)

Nel proseguire il loro viaggio, Dante e Virgilio si trovano davanti a uno spettacolo
raccapricciante, forse il più sconcertante di tutto l’attraversamento infernale. Siamo nella nona
bolgia e i dannati, una folla sterminata, si muovo portando in giro i corpi squartati, fatti a pezzi
da un diavolo che, tutte le volte che passano davanti a lui, con un’enorme spada così li “accisma”
(v. 37), cioè li acconcia per le feste. I dannati riprendono il cammino e le ferite via via si
rimarginano, le membra amputate si risaldano. Saranno nuovamente straziate quando, conluso il
giro, ritorneranno dinanzi al diavolo punitore.

La colpa di questi peccatori è di aver seminato odio sulla terra, di aver operato per
dividere, mettendo gli uni contro gli altri. Il primo dei dannati che parla a Dante, dirà (vv. 34-
36):

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuori vivi, e però son fessi così.

(I sve druge što ovde vidiš, / sejali su razdor i raskol / za života, i stoga su ovako razderani).

Guido da Pisa spiega con precisione cosa vuol dire „scandalo“ e cosa, invece, „scisma“:
„... est scisma peccatum quo quis aliquem vel aliquos ab unitate Ecclesie separat, vel seiungit.
Scandalum vero est offensio qua quis vervo vel facto societatis vel amicitie dividit unitatem“.
Nell’uso medievale, „scisma“ è il peccato commesso da chi separa i credenti dall’unità della
Chiesa, “scandalo” è la colpa di chi con le parole o con i fatti semina discordia e odio nella
società civile, determinando la frantumazione dei vincoli sociali o dell’amicizia o addirittura
della parentela. Le colpe sono individuali, ma gli effetti prodotti, essendo scisma e scandali
tradimenti contro la collettività, hanno una ricaduta sociale devastante. La punizione, dunque, è
pertinente alla natura della colpa e non è un caso che la parola “contrapasso”, la regola penale, si
incontri l’unica volta nella Commedia proprio in relazione a questo canto.

Quello che Dante sta per raccontare è incredibile e la strategia retorica è funzionale a
questa eccezionalità. Il poeta comincia dichiarando l’impossibilità di descrivere ciò che vede.
Non solo in poesia, ma neppure in prosa, anche ritornandovi più volte, sarebbe impossibile
rendere la scena, perché le parole non sono sufficienti a rappresentarla, né la mente umana è in
grado di concepirla (vv. 1-6)

Chi poria mai pur con parole sciolte


dicer del sangue e de le piaghe appieno

ch’i’ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verria meno

per lo nostro sermone e per la mente

c’hanno a tanto comprender poco seno.

(Ko bi ikada i nevezanim rečima mogao / izreći sve o krvi i ranama / što ih sada videh, sve i da
više puta pripoveda? / Niti jedan jezik izvesno ne bi bio dostatan / zbog našeg govora i zbog uma
/ koji da toliko pojme nisu kadri).

Questi versi in retorica si definirebbero come una figura di preterizione. E’ tipica dello
stile epico: il poeta dichiara la sua inadeguatezza a rendere la straordinarietà di ciò che sta per
raccontare. In Dante la figura di preterizione ha per lo più il senso dell’indicibilità (e sarà usata
spesso nel Paradiso, ed è comprensibile trattandosi delle cose di Dio). Anche qui, gioca il
modello virgiliano (del famoso VI libro dell’Eneide), ripreso da Ovidio, ma già presente in
Omero. Comunque, come sempre, Dante non si ferma al livello dell’imitatio, ma va oltre: sarà
lui a introdurre distinzione inedita tra narrare in versi e narrare in prosa, più facile; e non solo,
nei poeti antichi e negli epigoni medievali la formula si riferiva all’impossibilità di enumerare
una quantità sterminata, mentre Dante sposta l’impossibilità del narrare alla qualità
(dicer...appieno).

Il racconto però prosegue con una comparatio ipotetica. Come già noto, Dante ogni
nuovo paesaggio che raggiunge cerca di rendere al lettore con una similitudine ciò che di
inusuale si presenta ai suoi occhi e fa ricorso all’esperienza terrena o alle Scritture o al racconto
dei poeti, ecc. Nel canto precedente, Dante aveva introdotto prima la similitudine del vilanello,
poi quella del carro di Elia. Ma, adesso, non c’è nulla nella realtà o negli auctores che poteva
essere utile a descrivere ciò che ora appare a lui. Ed ecco che la fantasia del poeta rende
compresenti fatti storici appartenenti a epoche fra loro lontanissime: se immaginassimo – dice –
di vedere riuniti in un solo luogo tutti i feriti di tutte le guerre combatutte nel disgraziato
meridione d’Italia, da quella dei Troiani per la conquista del Lazio alla strage di Canne, che vide
i romani soccombere nella seconda guerra punica all’esercito di Annibale (e dove l’esercito di
Annibale tolse gli anelli dalle dita dei romani caduti e, come narra Livio, ne fecero un enorme
mucchio), e poi le sanguinose guerre di conquista di Roberto il Guiscardo e le più recenti
battaglie tra Svevi e Angioini, da Ceprano a Tagliacozzo (dove Carlo d’Angiò vinse Corradino
grazie al consiglio del consigliere Alardo di Valery, come scrive Villani), e la vista tutt’insieme
di tutti i feriti e tutti i morti di tutte queste guerre (in realtà un’unica guerra con strascichi ancora
nel presente) non pareggerebbe in alcun modo lo spettacolo ripugnante della nona bolgia.
Dunque, una “dissimilitudine” più che una similitudine, per giunta ipotetica:
S’el s’aunasse ancor tutta la gente

che già in su la fortunata terra

di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra

che de l’anella fé sì alte spoglie,

come Livio scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie

per contrastare a Ruberto Guiscardo;

e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo

ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,

dove senz’arme vinse vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo

mostrasse, d’aequar sarebbe nulla

il mondo de la nona bolgia sozzo.

(Sve i da se sakupe svi / koji su na srećnom tlu / Apulije lili bolno vlastitu krv / zbog Trojanaca
ili dugog rata / čiji veliki plen beše prstenje / kako Livije piše, a ne greši / s onima što su osetili
bolne udarce / da bi se isprečili Robertu Gviskardu; / i oni čije kosti i dalje leže / u Čepranu, gde
prevaran beše svaki Apulejac, i kod Taljakoca, / gde bez oružja pobedi stari Alardo; / i s
probodenim i odsečenim udovima / ne bi mogli da se uporede nikako / sa svetom devete jaruge
gnusnim).

Con il “sozzo” finale, in rima con “Tagliacozzo” e “mozzo” si abbassa vertiginosamente il


livello dei versi precedenti e Dante riesce a comunicare al lettore la sensazione di uno spazio
sterminato pieno di corpi disfatti. Osservando da vicino la similitudine, vediamo che si tratta di
un periodo ipotetico della impossibilità con una protasi bimembre assimetrica. La prima
proposizione della protasi si distente su 4 terzine: stile alto, proprio della poesia delle armi e
Dante in questo genere, nel De vulgari eloquentia, aveva dato la palma al miglior poeta in lingua
provenzale, Bertran de Born. Solo che qui Dante non celebra l’erroismo, anzi: la vittoria di
Annibale a Canne viene ricordata attraverso il bottino vile delle tre moggia di anelli d’oro
strappati dalle dita dei cavalieri e senatori romani uccisi, come racconta Tito Livio; la vittoria
decisiva degli Angioini sugli Svevi a Ceprano (ma in realtà a Benevento) è descritta come
conseguenza del tradimento dei baroni meridionali. La figura prevalente è l’enjambement e la
sua frequenza dà al lungo periodo un’andatura ansante. Ma, la rima aspra in –ozzo è il segnale di
un repentino cambio di registro, dall’orrore tragico al grottesco ripugnante. Lo schema a cui
Dante si ispira è l’avvio di un planh proprio di Bertran de Born (“Se tutti i dispiaceri e i pianti e i
tormenti, i dolori, le perdite e le miserie mai patite in questo mondo di sofferenza fossero
cumulati insieme, sarebbe poco rispetto alla morte del Re giovane inglese”). Il re pianto da
Bertran è Enrico III, figlio di Enrico II Plantageneto d’Inghilterra, morto nel 1183. Proprio per
aver messo il figlio contro il padre Bertran è punito in questa bolgia, come sapremo più avanti. Il
canto si apre implicitamente nel nome di Betran de Born, Betran sarà il personaggio con cui il
canto si chiuderà. La sua figura è dominante.

Subito dopo Dante comincia il suo racconto, richiamando l’attenzione su un primo


dannato:

Già veggia, per mezzul pendere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

(Ni bačva, kada izgubi središnu ili bočnu dasku, / kako videh jednog, ne zjapi toliko / isečenog
od brade sve do mesta za prdež. / Međ nogama su mu visila creva / iznutrice se vide i gadni trbuh
/ što u govna pretvara ono što se poždere).

Lo stile eloquente nel giro di poche terzine scende a livelli più bassi che la lingua poetica possa
concepire. Cambiamenti rapidi di tonalità che nessun altro poeta è in grado di realizzare in
maniera così rapida e naturale insieme. L’uso di questo lessico trasforma i dannati in animali
macellati, e non solo i due emistichi, del secondo verso della terzina iniziale del brano, sono
invertiti rispetto al loro ordine logico, una sintassi sconvolta sottolinea l’innaturalezza del corpo
squartato. Malgrado la precisione tecnica del lessico, in questa descrizione non c’è tuttavia nulla
di oggettivo, di realistico, essendo ben oltre la realtà. Il segno linguistico viene forzato oltre i
suoi limiti semantici, caricandosi di una forza rappresentativa e comunicativa straordinaria.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi, e con le man s’aperse il petto,

dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!


vedi come storpiato è Maometto!

Dinanzi a me sen va piangengo Ali,

fesso nel volto dal mento al ciuffetto.

(Dok ga tako netremice gledah, / pogleda me, i rukama otvori grudi, / rekavši: “Sad gledaj kako
sam se rasčerečio! /gledaj kako je grdan Muhamed! / Ispred mene plače Ali, / rascepljenog lica
od brade do čuperka).

La rima in – acco richiama, dopo “m’attacco”, il “dilacco” che è conio dantesco, col significato
“mi squarcio, mi divido in due”, ma con la precisazione che deriva dal romagnolo “lacca”, ossia
“chiappa”. E il personaggio è dunque Maometto e nella tradizione medievale si credeva che
Maometto fosse stato originariamente un prelato o addirittura un cardinale che, abbandonata la
fede cristiana, aveva dato inizio a una nuova religione. Credesse o meno Dante a questa
leggenda, qui si considera il fondatore dell’Islam uno scismatico; con lui si accompagna Alì, suo
genero e primo discepolo, che avrebbe dato origine a sua volta alla sett degli sciiti all’interno
dello scisma islamico.

Prosegue Maometto:

E tutti li altri che tu vedi qui,

seminator di scandalo e di scisma

fuor vivi, e però son fessi così.

Un diavolo è qua dietro che n’accisma

sì crudelmente, al taglio de la spada

rimettendo ciascun di questa risma

quand’avem volta la dolente strada;

però che le ferite son richiuse

prima ch’altri dinanzi li rivada.

(I svi drugi što ovde vidiš / sejali su razdor i raskol / za života, i tako su rascepljeni. / Ovde je
đavo koji nas tako unakažava / grdno, pod sečivo njegovog mača / dopada svako iz ove gomile /
kada obiđemo bolni put; / jer rane zaceljuju / pre no što iko ponovo pred njega dođe).

E chiede dopo a Dante chi sia:

Ma tu chi sè che ‘n su lo scoglio muse,


forse per indugiar d’ire a la pena

ch’è giudicata in su le tue accuse?

(Ko si ti što sa stene protežeš njušku, / da bi možda odložio da dopadneš kazne / koja ti je
dodeljena shodno tvojim krivicama?)

Maometto crede che Dante sia un dannato destinato a una delle zone più basse dell’inferno e si
riferisce al suo guardare col verbo „musare“, che sembra essere più pertinente a un animale che
fissa il muso su qualcosa. Ma Virgilio è pronto a ristabilire la verità:

„Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena“,

Rispuose ’l mio maestro, „a tormentarlo;

ma per dar lui esperienza piena,

a me, che morto son, convien menarlo

per lo ’nferno qua giù di giro in giro;

e quest’è ver così com’io ti parlo“.

(„Niti ga je smrt još sustigla, niti ga greh dovodi“, / odgovori moj učitelj, „na muke; / već da bi
potpuno spoznao, / meni, što sam mrtav, valja ga voditi / po paklu dole od kruga do kruga; / i to
je istina kao što sam i ja što pričam tebi“).

Tutti i dannati che passano sono sbalorditi:

Più fuor di cento che, quando l’udiro,

s’arrestaron nel fosso a riguardarmi

per maraviglia, obliando il martiro.

(Više od stotinu, kada to čuše, / zastadoše u jaruzi da me osmotre / od čuda, zaboravljajući na


kaznu).

E’ il primo fermo immagine in movimento, la prima di una serie di questo tipo che caratterizza
l’intera bolgia. A questo punto Maometto manda a dire a fra Dolcino, capo della setta eterodossa
degli Apostolici, dunque uno scismatico ed eretico per così dire in attività di servizio, di
premunirsi di scorte di cibo se vorrà resistere alla prossima neve invernale e all’assedio che i
crociati di Novara e di Vercelli avrebbero portato contro di lui e i suoi adepti rifugiatisi sui monti
fra le due città. Si tratta ovviamente di una profezia post eventum, ma è interessante notare come
nella prospettiva dell’aldilà dantesco tutto sia destoricizzato e degerarchizzato: il fondatore
nientemeno che dell’islam mostra attenzione a una figura di ribelle di provincia, per quanto con
una certa notorietà in quegli anni nell’Italia centro-settentrionale. Dolcino morirà sul rogo nel
1307, e non è difficile prevedere che si apparecchiava anche per lui un posto nella bolgia.
Maometto invia il suo messaggio profetico a fra Dolcino restando sospeso su un solo piede:

Poi che l’un piè per girsene sospese,

Maometto mi disse esta parola;

indi a partirsi in terra lo distese.

(Kada je jednu nogu da bi zakoračio podigao, / Muhamed mi izreče ove reči; / a onda da bi
krenuo na tlo je spusti).

La posizione strana, il gesto burattinesco di Maometto che parla restando sospeso su un piede,
come al rallentatore, mette in evidenza un altro aspetto della visionarietà di questo canto, che
riguarda anche gli altri dannati: sono tutti fissati, come vedremo, in un gesto innaturale,
paradossale, grottesco.

Dopo Maometto si fa avanti Pier da Medicina. Non si sa bene chi sia storicamente questo
personaggio, che dice di aver conosciuto Dante. Qua è presentato come un istigatore di discordie
tra i signori della Romagna. Questa la sua condizione:

Un altro, che forata avea la gola

e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,

e non avea mai ch’una orecchia sola,

ristato a riguardar per maraviglia

con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,

ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,

e disse:.....

(Drugi, kojemu je grkljan bio šupalj / i odsečen nos sve do obrva, / i uvek samo s jednim uvetom,
/ zastao je da osmotri u čudu / s ostalima, pre ostalih otvori ždrelo, / što je spolja posvuda crveno
bilo, / i reče:...).

Anche qui un’istantanea e anche Pier da Medicina, come Maometto, invia ai viventi tramite
Dante un messaggio. Dice: „fai sapere ai due esponenti delle più nobili famiglie di Fano, Guido
(Guido del Cassero) e Angiolello (da Carignano) che saranno gettati in mare a tradimento
nell’Adriatico, nel mare di Cattolica, in un sacco legato a una grossa mazzera, di ritorno da un
colloquio con Malatestino da Rimini (“quel traditor che vede pur con l’uno”, che vede con un
solo occhio) proprio per ordine di costui. L’intero Mediterraneo, da Cipro a Maiorca, non ha mai
conosciuto un delitto così atroce, non hanno mai commesso un gesto di tale efferatezza neanche i
pirati o i greci che andarono all’assedio di Troia. E questo veniva da gente cristiana: i tiranni di
Romagna con la loro ferocia bestiale, già stigmatizzati nel canto precedente. Quel traditore, cioè
Malatestino, aggiunge Pier da Medicina, è signore di una città (Rimini) che un dannato qui
vicino a me si pente amaramente di aver visto. Queste ultime parole incuriosiscono Dante.
Chiede il poeta chi sia il suo vicino: se dirà il suo nome, Dante si impegna a portare notizia di lui
nel mondo. Ed ecco un’altra istantanea. Piero da Medicina tira giù con un gesto violento la
mascella del dannato che gli sta accanto mostrando “... la lingua tagliata ne la strozza”:

Allor puose la mano a la mascella

d’un suo compagno e la bocca li aperse,

gridando: “Questi è desso, e non favella.

Questi, scacciato, il dubitar sommerse

in Cesare, affermando che ‘l fornito

sempre con danno l’attender sofferse”.

Oh quanto mi pareva sbigottito

con la lingua tagliata ne la strozza

Curio, ch’a dir fu così tradito!

(Tada spusti ruku na čeljusti / svoga sadruga i usta mu otvori, / vičući: „Ovo je on, i ne zbori. /
On je, proteran, sumnju odagnao / Cezara, tvrdeći da onaj što je gotov / uvek na svoju štetu
okleva“. / O, kako mi izgledaše zastrašen / odsečenog jezika u guši / Kurion, koji je na rečima
tako bio smeo!).

E’ Curione, il tribuno della plebe di cui racconta Lucano nella Farsalia: cacciato da Roma nel
corso della guerra civile che oppose Cesare a Pompeo, si rifugiò presso Cesare, allora nella città
di Rimini, esortandolo a rompere gli indugi e a marciare col suo esercito a Roma, “affermando
che ‘l fornito / sempre con danno l’attender sofferse”, cioè, quando si è pronti ad agire è dannoso
restare in una posizione attendista. Questi versi riformulano un verso di Lucano riferito allo
stesso episodio, divenuto poi proverbiale: “tolle moras: semper nocuit differre paratis” (I 281).
Ma la fantasia dantesca brucia nel fuoco di un’immaginazione potentissima tutti i precedenti, né
ha molto interesse interrogarsi sul perché l’invito ad agire dato da Curione a Cesare sia stato da
Dante giudicato negativamente, dato che va nella direzione del disegno provvidenziale di Dio,
che attribuisce proprio a Cesare il compito di fondare l’impero. Ma nella sequenza veloce degli
accadimenti, ecco farsi avanti un altro dannato:

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,


levando i moncherin per l’aura fosca,

sì che ‘l sangue facea la faccia sozza

gridò: “Ricordera’ti anche del Mosca,

che disse, lasso!, “Capo ha cosa fatta”,

che fu mal seme per la gente tosca”.

E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;

per ch’elli, accumulando duol con duolo,

sen gio come persona trista e matta.

(A jedan čije su obe ruke bile odsečene, / podižući patrljke u mrki vazduh, / tako da mu je krv
lice oblivala / povika: „Valja ti se setiti i Moske, / što reče, kukavan, „šta bi, bi“ / i što bi kukolj
seme za Toskance“. / A ja dodah: „I kraja tvoje loze“; / zbog čega on, dodajući bol na bol, / otide
kao nesrećnik van sebe).

La parola rima strozza, riferita alla gola di Curione, avvia una terzina di rime di sonorità aspra
(strozza: mozza: sozza) che ferma l’immagine sul gesto ripugnante del dannato a cui sono
amputate le mani e i cui mocherini sollevati in aria buttano sangue lordandogli la faccia. E’
Mosca de’ Lamberti. Colui che con la frase “Cosa fatta capo ha” avrebbe dato origine alle lotte
tra le famiglie Buondelmonti e Amidei, causa prima del costituirsi in Firenze delle fazioni guelfa
e ghibellina. Dante, che pagherà di persona le conseguenze di quelle lotte civili, non può
trattenersi dal rinfacciare a lui che quelle sue parole furono all’origine dell’estinzione di tutta la
sua discendenza.

Prima di affrontare l’ultima scena, occorre fare alcune considerazioni: qui i dannati
sembrano non avere nessuna vergogna della loro condizione, non si nascondono, non tengono
celati i loro nomi, come altri fanno quando scontano la pena di colpe infamanti; anzi li
esibiscono, mettono in evidenza i corpi mutilati, vogliono che quel vivo si ricordi di loro. Non
sembrano avere consapevolezza delle conseguenze nefaste del loro agire terreno: in questo sono
veramente “tristi e matti”. Anzi si rivolgono a Dante con il verbo all’imperativo e con una
loquacità insistente, quasi a obbligarlo a conservar memoria di loro. Un’altra considerazione
riguarda il modo in cui Dante conduce la narrazione. Dopo le similitudini iniziali, la prima
ispirata dal compiando Bertran de Born per la morte del Re giovane e poi quella della botte
sfondata, Dante non ne intriduce altre, eppure ciò che vede è davvero inusuale. La realtà è
talmente insolita che può soltanto parlare da sé. Cosa comporta questo nella strategia retorica del
racconto? Che Dante ricorra a una modalità di narrazione che mette il lettore direttamente
dinanzi alle scene e ai personaggi narrati, facendo ricorso continuamente a verba videndi. Non è
l’unica volta nella Commedia, ma in questo canto il numero dei verbi è impressionante. Dietro
questa modalità di racconto c’è l’Apocalisse e un modello retorico funzionale a una narrazione di
fatti eccezionali che mira al massimo dell’oggettività.

Si approssima l’ultima scena, la più incredibile, che riguarda appunto Bertran de Born.
L’eccellenza nella poesia che Dante riconosce al trovatore nel De vulgari eloquentia e la virtù
della liberalità attestatagli dal Convivio (IV II 14) non gli sono giovate ai fini di salvezza. La
scala dei valori umani non corrisponde a quella dei valori divini, come per Farinata, Brunetto, il
Mosca e gli altri “ch’a ben far puoser li ‘ngegni” (Inf., VI 81) e che ora popolano l’inferno. Nei
canzonieri provenzali che trasmettevano le poesie di Bertran, Dante poteva leggere una vida del
poeta dove era scritto che Bertran aveva messo discordia fra padre e figlio, aveva osato
infrangere il vincolo più stretto fra gli uomini: la pena non può essere che adeguata all’enormità
dell’azione, e infatti ora si aggira per la bolgia portando la testa in mano, sospesa come una
lanterna. La cosa è talmente incredibile che Dante è costretto ancora a richiamare il lettore sulla
straordinarietà della visione:

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,

e vidi cosa ch’io avrei paura,

sanza più prova, di contarla solo;

se non che coscienza m’assicura,

la buona compagnia che l’uom francheggia

sotto l’asbergo del sentirsi pura.

(Ali ostadoh da motrim četu, / i videh nešto što bi mi ulilo strah, / i bez potvrde, samom pričom; /
ali me savest ohrabruje, / dobra druga što čoveku uliva smelost / pod štitom njene čistote).

Richiamare precedentemente Livio era bastato a conferire la certezza alle cose dette. Adesso
mancano le autorità, non si trova nessun esempio e non resta che fare appello alla purezza della
propria coscienza e alla verità che sempre accompagna l’uomo giusto. Già nei canti XVI 124
sgg. e XXV 46 sgg. il poeta aveva fatto ricorso a dichiarazioni simili. Ma ecco la scena:

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,

un busto sanza capo andar sì come

andavan li altri de la trista greggia;

e ’l capo tronco tenea per le chiome,

pesol con mano a guisa di lanterna:

e quel mirava noi e dicea: „Oh me!“.


Di sé facea a sé stesso lucerna,

ed eran due in uno e uno in due;

com’esser può, quei sa che sì governa.

(Ja izvesno videh, a i sada kao da gledam, / trup bez glave kako ide kao što / idu svi iz zlosrećne
gomile; i odsečenu glavu držao je za prami, / rukom držeći je da visi poput fenjera; / i taj ugleda
nas i reče: „Avaj meni!. / Samome sebi od sebe je načinio fenjer, / i dva u jednom behu i jedno u
dvama; / kako to može biti, zna onaj koji tako vlada).

Segue un gesto che fissa anche per questo dannato un fermoimmagine: quando Bertran arriva ai
piedi del ponte leva in alto il braccio con tutta la testa per permettere a Dante di ascoltare più da
vicino le sue parole:

Quando diritto al piè del ponte fue,

levò ’l braccio alto con tutta la testa

per appressarne le parole sue...

(Kada stiže u podnožje mosta, / podiže ruku s glavom / da bi približio reči njene...)

Il tono della descrizione è ancora pianamente narrativo, riconducibile a una normalità e a una
naturalezza che rendono ancora più grottesco il gesto del dannato che solleva la testa per
avvicinare a Dantea e a Virgilio le sue parole. Ci si chiede come sia possibile raccontare con tale
naturalezza un gesto originato da una immaginazione così potente; non suoni aspri, né rime rare,
endecasillabi tronchi e sdruccioli o altri espedienti tecnici: soltanto una rima franta (“Oh me!”,
sul modello guittoniano) a sottolineare anche sul piano formale la separazione del capo dal
tronco. Per descrivere un assurdo così assurdo la scelta retoricamente più efficace è
l’approssimazione a una sorta di grado zero del raccontare.

Ma la scena del decollato che cammina reggendo la testa mozzata non è invenzione
dantesca. Nella tradizione agiografica medievale si raccontava di martiri cristiani decapitati che
avrebbero raccolto da terra la testa dopo il supplizio. Sono i cosiddetti santi cefalofori. San
Miniato, primo martire nella città di Firenze, apparteneva a questa schiera. Ma nel racconto di
Dante la testa non è solo un pezzo perduto che si raccatta; quella di Bertran de Born conserva per
intero le facoltà di raziocinio e di parola. Il tronco senza testa e la testa senza tronco mantengono
le loro funzioni. Come può essere, lo sa solo Dio. Dante trasforma in pena infernale un evento
miracoloso, rovesciandone il segno. La santità guadagnata col martirio, e rivelata tangibilmente
dal corpo privo di testa che si avvia dipo averla raccattata, diventa la pena suprema del dannato
fomentatore di odi.

Betran comunqe non è loquace come i dannati precedenti. Lui è un intellettuale che ha
fatto delle guerre e degli odi che le alimentano l’interesse della sua vita, e siccome è stato anche
un poeta, anzi un poeta tra i più grandi, le guerre avevano assunto in lui una dimensione estetica.
E da intellettuale qual è, Bertran non esita a parafrasare Geremia per sollecitare Dante ad avere
pietà della sua condizione:

Or vedi la pena molesta,

tu che, spirando, vai veggendo i morti:

vedi s’alcuna è grande come questa.

(pogledaj mučnu kaznu, / ti što, s dahom u telu, gledaš mrtve: / sam vidi da li ima veće od ove).

Il grido del profeta, già riformilato da Dante nella Vita nuova: O voi che per la via d’Amor
passate, Deh peregrini che pensosi andate, è utile ancora qui nel contesto infernale a conferire
un’altra drammaticità alla scena per lo stridore del registro alto di quelle parole con la condizione
degradata del dannato.

E perché tu di me novella porti,

sappi ch’i’ son Bertran dal Bornio, quelli

che diedi al re giovane i ma’ conforti.

Io feci il padre e ‘l figlio in sé ribelli;

Achitofel non fé più d’Absalone

e di David coi malvagi punzelli.

Perch’io parti’ così giunte persone,

partito porto il mio cerebro, lasso!,

dal suo principio ch’è in questo troncone.

Così s’osserva in me lo contrapasso”.

(Da bi o meni vesti poneo, / znaj da sam ja Bertran de Born, onaj / što je mladome kralju pružio
loše savete. / Zbog mene otac i sin postaše neprijatelji; / Ahitofel ne učini više s Avesalomom / i
Davidom svojim zlim podstrekivanjem. / I zato što sam razdvojio tako bliske ljude, / razdvojen
nosim svoj mozak, avaj!, / od svog začetka na ovom patrljku. / Tako se na meni primenjuje
odmazda).

Achitofel, negli scrittori cristiani figura di Giuda, conferma la statura eccezionale di Bertran
rispetto agli altri dannati della bolgia.
Scrive Francesco de Sanctis (le lezioni torinesi, 1855): “Questo canto degli scismatici è uno
spettacolo disgustoso, ma di modo che dalle minugua e dalla corata, passando per la figura non
ignobile di Mosca Lamberti, il disgusto si purifica e si idealizza fino al sublime dell’orrore: è una
materia putrida che si organizza a poco a poco, insino a che ne scintilla una sublime creazione”.

Sublime e disgustoso (retoricamente, gli estremi di trgiaco e comico) si genererebbero dunque in


questo canto l’uno dall’altro, intimamente connessi. Ma, dopo il giudizio sprezzante di Benedetto
Croce, occorre aspettare i commenti di Vittorio Rossi e soprattutto la critica di Mario Fubini del
1958 per rivalutare il canto perché secondo il critico proprio qui Dante, e non solo negli altri
canti delle Malebolge, darebbe prova della “sua eccelsa capacità d’artefice”. Anni più tardi,
Ettore Paratore, riprendendo gli spunti da M. Fubini, arriva alla conclusione che è vero che la
guerra, il motivo epico, ripercorre l’intero canto, ma solo perché Dante vuole distanziarsi da essa,
vuole rappresentarla solo ed esclusivamente negli effetti distruttori. Sulla figura di Bertran,
invece, si concentra il saggio di Michelangelo Picone nel quale ci si chiede perché, dopo il
giudizio positivo espresso su di lui da Dante nel De vulgari eloquentia e nel Convivio, il poeta
provenzale sarebbe approdato alla condizione di anima “smozzicata”. Sicuramente ci sarebbe
stata un’evoluzione nel pensiero dantesco nel percorso che dai trattati porta al poema, suggerita
forse anche da quello che Dante poteva aver letto in una delle due vidas del poeta provenzale.
Ma già l’incipit del canto XXII (“Io vidi già cavalier mover campo”, ecc.) introdotto a commento
del gesto scurrile di Malacoda a conclusione del canto precedente, sarebbe stato “una parodia
dissacrante di uno dei sirventesi più puri e idealizzanti di Bertran (Bem plats)”. Bertran, che da
poeta modello della salus diventa, come osserva Picone, utile a commentare un gesto
scatologico, mostra gli effetti degradanti di quella poesia allorché sia disgiunta da finalità
provvidenziali. Dunque, tutt’altro che un tentativo di Dante di provarsi nella poesia delle armi;
anzi, all’opposto, un prenderne le distanze. Tra gli studi rilevanti del secolo scorso è anche da
ricordare un saggio di Anna Maria Chiavacci Leonardi dove si possono leggere interessanti
considerazioni sulla differenza che correrebbe fra epica classica ed epica dantesca: in primo
luogo, nell’aldilà dantesco le differenze di status sono drasticamente pareggiate, e a connotarle,
in secondo, resta il piano dello stile, che il poeta con maestria adegua alla natura e alla statura del
personaggio. Vi sono, dice la studiosa, due livelli, un doppio piano stilistico nel canto: uno
“aspro e petroso”, con le immagini crude delle membra lacerate”; un altro nel quale “prende voce
quella superiore pietà che tutto avvolge, e commisera, insieme alle vittime, anche gli sciagurati
colpevoli”.

https://digitaldante.columbia.edu/dante/divine-comedy/inferno/inferno-28/

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