La lingua che Dante utilizza all’interno della Commedia è estremamente varia, oltre al dialetto
fiorentino, si possono trovare termini dialettali provenienti da altre regioni, latinismi e francesismi.
E quando le parole e le espressioni esistenti non bastano, Dante ne crea delle nuove, questo accadrà
soprattutto nel Paradiso, dove Dante si troverà a parlare di cose ineffabili, cioè difficilissime da
spiegare ed esprimere.
Dante, nella Commedia, usa anche tutti gli stili a sua disposizione passando dal tono comico a quello
grottesco, a quello lirico e a quello drammatico.
Attraverso una selezione di versi presi dai canti che vanno dal 28 al 32, approfondiremo lo stile delle
rime aspre e l’attuazione di quello comico.
I canti 28-29-30 sono, infatti, ricchi di personaggi e quindi risultano molto vari sia per toni che per
linguaggio. Nel canto 28, si narra l’incontro tra Dante e i seminatori di discordie. Questi sono puniti
con orribili mutilazioni ed è come se il poeta volesse creare un corrispettivo stilistico tra ciò che
vede, quindi le mutilazioni descritte, e il linguaggio utilizzato. Alla violenza delle mutilazioni
corrisponde, quindi, la violenza del linguaggio, e in particolare abbondano i seguenti suoni: -ozzo,
- ulla, -acco, -erse, -ozza, -osca, -atta, -oggia, -erna, -esta, -orti, asso. All’interno di questo canto
possiamo trovare anche l’utilizzo di perifrasi, non per attenuare il troppo concreto, ma per
accentualo, per metterlo in evidenza. Gli esempi più famosi si trovano al v. 24: ANO = “dove si trulla”;
vv. 26-27 INTERIORA = “I tristo sacco/che merda fa di quel che si trangugia”.
D’altronde Dante stesso all’inizio del canto aveva proprio detto: vv. 1-2 “Chi porta mai… dicer del
sangue e de le piaghe a pieno…?” per sottolineare la difficoltà delle ferite che si trovava di fronte
agli occhi.
La lingua di Dante, dunque, in questo canto è servita per manifestare il dolore; nulla nasconde e
nulla omette, anzi ha maggior resa stilistica, accentua i particolari disgustosi e macabri.
Non tutto il canto però, utilizza questo linguaggio. Da notare, per esempio, il tono quasi elegiaco
usato da Pier da Medicina. Nelle parole di questo dannato, come ricorda Anna Maria Chiabacci
Leonardi, prende voce quella superiore pietà che tutto avvolge e commisera, insieme alle ultime,
anche gli sciagurati colpevoli. Anche in questo canto abbiamo, quindi, il plurilinguismo.
Passiamo ora al canto XXIX, dove viene descritta la punizione dei falsari. Dante scorge due dannati
che sono poggiati dorso a dorso e si grattano furiosamente le creste della scabbia. Uno dei due,
Griffolino d’Arezzo, racconta di essere stato arso vivo da Alberto di Siena, non perché fosse
un’alchimista, colpa per la quale si trova in questa bolgia, ma perché non era riuscito a farlo volare
come gli aveva promesso. Dante commenta con Virgilio ironicamente la vanità dei senesi. Alle sue
parole fa eco, immensamente, l’altro dannato che, in tono ironico, accenna ad alcuni esempi di
talebana fatuità, infine si rivela per Capocchio, alchimista che in vita aveva conosciuto il poeta.
Lasciamo ora la parola a Dante e ascoltiamo come descrive i due dannati dai versi 73 a 84.
Io vidi due sedere a sé poggiati