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Canto XXIX (M.

Palumbo)

Il canto XXIX non gode di una buona considerazione. Sono soprattutto i commentatori
moderni (da N. Saperno alla Chiavacci Leonardi) a esprimere un giudizio assai netto sulla sua
debolezza, valutando l’intero svolgimento unicamente come una tappa di avvicinamento verso il
gran finale degli ultimi avvenimenti.

Eppure il racconto che Dante fa sembra pretendere uno sguardo non meno attento e vigile
di quello che si riserva ad altri canti. Più il viaggio si prolunga dentro le Malebolge, più l’impatto
con il male è doloroso e lo sforzo di indicare l’orrore che cresce diventa arduo. Questo spettacolo
feroce, che circonda Dante e la sua guida, esige due imperativi. Dal punto di vista estetico,
l’autore dovrà trovare i mezzi figurali, stilistici, retorici, fonetici che possano restituire nel modo
più adeguato l’enormità degli strazi che assediano i sensi. Dal punto di vista morale, dovrà
denunciare in modi ancora più efficaci l’abiezione cui conduce la colpa, trascinando sempre di
più coloro che si allontanano dalle leggi del bene e del giusto dentro le zone sconvolgenti del
bestiale e del disumano. Quest’ultima parola andrà assunta con la forza letterale che l’etimologia
impone: “umanità traviata, degenerata, che corrompe e perverte l’equilibrio della sua stessa
natura”. E certo di tale pervertimento fisico e morale proprio l’alchimia, il peccato che appare in
questo canto, diventa la causa e il contrassegno esemplare.

L’Ottimo Commento, riprendendo le indicazioni di Iacomo della Lana e richiamando


l’autorità di Aristotele, avverte che “il piombo è oro lebroso” e che l’abilità dell’alchimista prova
a riportare il metallo dalla sua forma “accidentale” a quella “sustanziale e perfetta”. Tuttavia
questo processo può fallire. Questo fallimento ha anche, nella costruzione della Commedia, un
valore simbolico più generale. L’alchimia diventa espressione di un processo irrealizzato.
Illustra, nei modi di uno scacco drammatico e spettacolare, la rovina dell’anima individuale, lo
sfigurarsi delle potenzialità che pure sono nel suo destino.

Nella prima parte che va dal v. 1 al v. 39, Dante tratta ancora della materia precedente. Il
passaggio da una bolgia all’altra e da una specie di colpa a un’altra, dai seminatori di discordie,
che avevano occupato il canto XXVIII, ai falsari, che saranno i nuovi protagonisti, avviene per
gradi. Esiste infatti, visibilmente, un’immediata connessione tra questo canto e il precedente. Il
collegamento, che è nello stesso tempo di natura lessicale, semantica e tematica, è reso in modo
esplicito attraverso la ripresa della parola piaghe. Se allora anticipavano le difficoltà di
rappresentare il supplizio, ora, all’inizio del nuovo canto, le “piaghe” identificano l’elemento che
la pena lascia più impresso nella memoria del viaggiatore. I seminatori di discordie hanno
impresso sulle proprie membra l’effetto delle loro opere nefaste. Esibiscono l’immagine di un
corpo frammentato, spezzato nelle parti, disarticolato nella sua unità. Lo sgomento che le piaghe
hanno provocato si prolunga come un’onda irresistibile, vv. 1-3:

La molta gente e le diverse piaghe


avean le luci mie si inebriate,

che de lo stare a piangere eran vaghe.

(Mnogo sveta i razne rane / oči su moje tako opile, / da su žudele za plačem).

L’occhio inebriato non vede la verità ed è spinto dalla passione che qui provoca il pianto. La
“vaghezza” di cui Dante parla è una voluttà malsana, che ostacola e respinge la ragione: tanto più
indispensabile quanto più grandi sono i rischi che incombono sul viaggio. L’indugio del
personaggio Dante, la cui mente è prigioniera e insieme vittima della macabra potenza delle
immagini inquietanti, si presenta, perciò, come una minaccia e questa insidia è così vistosa che
Virgilio non può che richiamare immediatamente all’ordine, vv. 4-6:

Ma Virgilio mi disse: “Che pur guate?

perché la vista tua pur si soffolge

la giù tra l’ombre triste smozzicate?”.

(Ali mi Vergilije reče: „Zašto još gledaš? / zašto tvoj pogled i dalje zaostaje / tamo dole među
zlosrećnim senima osakaćenim?“)

Si offre così un nuovo esempio del ruolo che la ragione assume. L’avversativa che apre il verso
indica la nettezza della opposizione alle esitazioni di Dante personaggio. Questo rallentamento
non necessario nuoce al viaggio intero. Lunga è ancora la strada e il tempo precipita. Il percorso
di formazione e di conoscenza non è ancora concluso.

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge:

pensa, se tu annoverar le credi,

che miglia ventidue la valle volge.

E già la luna è sotto i nostri piedi:

lo tempo è poco omai che n’è concesso,

e altro è da veder che tu non vedi”.

(Nisi tako činio u drugim jarugama: / pomisli, ako želiš da izbrojiš, / da je dolina široka dvadeset
i dve milje. / A mesec je već pod našim nogama: / vreme je već malo koje nam je dato, / ima da
se vidi još što ti ne vidiš“).

Proprio l’energico invito espresso da Virgilio determina la replica e la giustificazione che Dante
offre. L’indugio dello sguardo trova la sua genesi in una causa molto precisa. Uno spirito che
Dante ha intravisto non gli è ignoto. Anzi, intrattiene con lui vincoli familiari, che legittimano
una attenzione più viva. La curiosità che ha rallentato la marcia trova una giustificazione parziale
nel punto di vista che il personaggio può addurre. Tra le anime dannate c’è infatti „un spirito del
mio sangue“ e l’evento forse avrebbe potuto pretendere una parziale eccezione al „fatale andare“
del cammino:

„Se tu avessi“, rispuos’io appresso,

„atteso a la cagion perch’io guardava,

forse m’avresti ancor lo star dimesso“.

Parte sen giva, e io retro li andava,

lo duca, già faccendo la risposta,

soggiugnendo: „Dentro a quella cava

dov’io tenea or li occhi sì a posta,

credo ch’un spirito del mio sangue pianga

la colpa che là giù cotanto costa“.

(„Da si“, odgovorih ja potom, / „čuo razlog zbog kojeg sam gledao, / možda bi mi zastajkivanje
dopustio“. / U tom je već hodio, a ja za njim, /vođa, dok sam odgovarao, / dodajući: „U onoj rupi
/ gde sam pogled tako upravio, / verujem da duh od moje krvi ispašta / za greh koji tamo dole
toliko košta“).

La replica di Virgilio non giustifica alcuna tregua né autorizza alcuna tolleranza (vv. 22-31):

Allor disse ‘l maestro: “Non si franga

lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.

Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

ch’io vidi lui a piè del ponticello

mostrarti e minacciar forte col dito,

e udì ‘l nominar Geri del Bello.

Tu eri allor sì del tutto impedito

sovra colui che già tenne Altaforte,

che non guardasti in là, si fu partito”.


(Tada reče učitelj: „Neka se muče / tvoje misli od sada njime. / Bavi se drugim, a onaj nek ostane
tamo; / jer ja sam ga video u podnožju mostića / kako na te prstom ukazuje i oštro preti, / i čuh
da pominju Đeri del Bela. / Ti si bio toliko obuzet / onim što je nekada vladao Altaforteom, / da
nisi gledao dalje, i on je otišao“).

Al contrario, la forza normativa che governa le sue parole, come spesso accade nei momenti di
particolare tensione, assume autorità adottando quegli „imperativi etici“ (Sanguineti) che
sanciscono quello che è bene fare („Non si franga...“, „Attendi...“). Questi imperativi sono gli
indici della legge, fissano i commandamenti cui è necessario attenersi per seguire, senza
deviazioni, l’itinerario giusto. Anche quando incontra persone a lui prossime, deve lasciarle alle
proprie spalle. Ne sfiora l’esistenza, rievoca la memoria condivisa, ma poi le abbandona al loro
destino che è ormai realizzato e compiuto. Al contrario del privilegio che è riservato a lui, il
familiare intravisto per un attimo tra le ombre della bolgia è imprigionato in quella porzione
d’inferno da cui non ha scampo. Tocca a Virgilio, d’altra parte, offrire le notizie che chiariscono
l’identità dell’anima. Egli, tuttavia, non cita solo il nome che le appartiene e che basta a
richiamare immeditamente la parentela con Dante. Descrive un gesto, isola un segno, che blocca
per sempre il ricordo del peccatore in un rabbioso e torvo stato d’ira impotente (vv. 25-26). I due
infiniti „minacciar“ e „nominar“ si corrispondono in rima interna e sono collocati nella
medesima sede nei due versi consecutivi.

Su chi sia Geri del Bello e sul tipo di colpa di cui sarebbe responsabile i commentatori
antichi hanno fornito diffuse informazioni, che sono tuttavia discordanti. Si può ricordare, per
esempio, la testimonianza di Iacomo della Lana, che ricostruisce la sua biografia di assassino a
tradimento, giustiziato a sua volta, con lo stesso metodo, dai nemici. Più cauto è il racconto di
Benvenuto da Imola, che non fa riferimento a nessun omicidio commesso da Geri. Sulla storia
del personaggio e sulla funzione ideologica che la necessità della vendetta implica, è intervenuto
di recente Marco Santagata: da un punto di vista narrativo, il silenzio di Geri, espressione
plateale del risentimento nei confronti di chi non ha fatto vendetta della sua morte, collega il
personaggio ad altri che mantengono un atteggiamento simile di sfida e di isolamento rispetto a
quello che accade intorno a loro. Si può stabilire un legame con la condotta di Farinata e la
natura del rapporto è soprattutto lessicale. Se l’eretico poteva rivolgersi al suo interlocutore
„quasi sdegnoso“ (X 41), in quest’altra circostanza „O duca mio, la violenta morte / che non li è
vendicata ancor“ diss’io / per alcun che de l’onta sia consorte, / fece lui disdegnoso...“ (O vođo
moj, nasilna smrt / njegova koju još nije osvetio“ rekoh ja / iko ko je u rodu s ljagom, / pretvori
ga u prezrivog...“). Entrambi i personaggi riportano a un mondo comunale governato da fazioni
perenemente ostili ed esasperato da lotte imposte dalle leggi del sangue e della famiglia. Il
risentimo di Geri riconduce Dante a questo teatro politico e umano di cui è stato prima attore e
poi spettatore. L’eco di una dimensione cittadina mai dissolta ritorna a galla e restituisce la
violenza dei suoi delitti. Questi elementi di faida e di lorre intestine feroci, anche se creano
l’alone tragico che sta intorno al silenzio di Geri, marcano la distanza che ancora una volta
separa i due percorsi.
Il passaggio al nuovo ambiente coincide con la fine del dialogo intorno a Geri e alle
implicazioni che il suo atteggiamento mette in moto. Dal v. 40 al v. 69 si svolge la seconda parte
in cui l’episodio si articola:

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra

di Malebolge, sì che i suoi conversi

potean parere a la veduta nostra,

lamenti saettaron me diversi,

che di pietà ferrati avean li strali;

ond’io li orecchi con le man copersi.

(Kada stigosmo iznad poslednjeg klaustera / Zlih jaruga, tako da su njegovi fratri / bili pred
našim očima, / jauci me probodoše čudni, / čije su strele bile okovane samilošću; / zbog čega ja
rukama prekrih uši).

Prima che nuovi personaggi si distinguano innanzi a Dante, la scena è interamente occupata
dall’effetto generale che l’ambiente trasmette al viaggiatore e alla sua guida. I due segmenti,
quello precedente e quello che sta per iniziare, sono collegati, quasi fosse una cobla capfinida
interna, dalla parola „pietà“ del verso 44. Nell’ultima chiostra („chiostro“, nel senso „luogo
chiuso“, ma anche il chiostro di un monastero, sottolineato dai „conversi“, i frati) di Malebolge,
in maniera simile, ma amplificata rispetto a precedenti esperienze, i sensi sono messi a dura
prova.

Nella genesi della pietà che stimola Dante personaggio, l’udito è solo il primo senso a
essere aggredito. Subito dopo, infatti, è l’olfatto a patire una violenza maggiore:

Qual dolor fora, se de li spedali

di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre

e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre,

tal era quivi, e tal puzzo n’usciva

qual suol venir de le marcite membre.

(Kao što bi bol bio da se iz bolnica / Valdikjane između jula i septembra / i Mareme i Sardinije
bolesti / sakupe u jami sve zajedno, / tako je bilo ovde, i takav je smrad dopirao / kakav odaju
istruleli udovi).
La similitudine che Dante sceglie evoca l’odore di una carne fetida, marcia, che la
concentrazione degli ammalati raccolti da tutti gli ospedali riproduce imperbolicamente (un’altra
similitudine ipotetica).

A differenza del corpo storpiato dei seminatori di discordie, il corpo dei falsari è intatto
nella sua morfologia, ma, come accadrà nel caso esemplare di maestro Adamo, è fradicio,
putrido. E la parola „puzzo“, con la potenza del suo espressionismo, rappresenta il miasma
micidiale che invade ogni frammento dello spazio. La pena dei peccatori precedenti, da
Maometto a Bertran de Born, poteva sucitare orrore, perfino meraviglia, per la stranezza delle
fisionomie stravolte, violentate fino all’inverosimile. I falsari, al contrario, mantengono l’identità
naturale della loro persona, ma questa identità si è degradata. Si è corrotta e appare ormai
soltanto nella sua qualità di materia nauseante: decomposta e reprellente fino all’estremo.
Diventano, inoltre, una variante di quella cateogira che noi chiameremmo „grottesco“.

Per rendere più evidente il grado di sofferenza che egli ritrova, Dante ricorre a una
similitudine già utilizzata in precedenza nel Convivio e delegata ora, nel contesto narrativo a cui
si adatta, a riassumere, con la ricchezza dei suoi elementi, il fosco dolore dei peccatori:

Non credo ch’a vedere maggior tristizia

fosse in Egina il popol tutto infermo,

quando fu l’aere sì pien di malizia,

che li animali, infino al picciol vermo,

cascaron tutti, e poi le genti antiche,

secondo che i poeti hanno per fermo,

si ristorar di seme di formiche;

ch’era a veder per quella oscura valle

languir li spirti per diverse biche.

(Ne verujem da je žalosnije bilo / videti na Egini ceo svet bolestan / kada je vazduh bio toliko
kužan, / da su životinje, sve do majušnog crva, / pale, a potom se drevni ljudi, / kako pesnici
izvesno kažu, / okrepiše semenom mrava; / nego što je bilo videti u mračnom klancu / iznemogle
duše u brojnim gomilama).

L’isola di Egina, in seguito all’ira di Giunone per un tradimento di Giove, era stata colpita da una
violenta pestilenza. Il contagio era così esteso che tutti gli animali, fino al più piccolo della
specie, il verme, morivano. Gli antichi abitanti in seguito si ristorarono di semi di formica e in tal
modo rigenerarono la loro specie. Il numero dei malati appestati di Egina e la loro sofferenza
sono simili all’immagine degli spiriti. La fonte classica da cui il paragone deriva sono le
Metamorfosi di Ovidio. Nel Convivio Dante aveva già alluso all’avvenimento, selezionando gli
elementi che rendono la storia memorabile e utile e in primo piano, in questa precedente
rievocazione, ci sono i meriti di Eaco, il re di Egina. In questa evocazione l’interesse maggiore si
appunta non sulla morte o sulla malattia, ma piuttosto sul rinnovamento del popolo. Di una tale
rigenerazione nei versi del canto c’è traccia solo nell’annuncio di una rinascita e che nel racconto
della peste ci sia un senso allegorico di particolare rilievo è affermato in modo esplicito dagli
antichi commenti, da Iacomo della Lana, a Guido da Pisa che esplicitamente indica la presenza
di una verità nascosta sotto la “fabula” (che nota inoltre che Dante modifica la versione ovidiana
dove la gente si trasforma nelle formiche, mentre Dante fa nutrire la gente di formiche). Mentre
Benvenuto da Imola interpreta la morte degli animali della storia come la morte dell’anima e la
peste di Egina diventa immagine fisica e letterale della malizia, che s’impossessa dell’anima. E il
corpo guastato dei falsari riflette la peste dell’anima.

Tutti i commentatori inoltre hanno dato un notevole rilievo a un animale che è assunto
come immagine positiva del bene: la formica. Ma, il bestiario di questo canto prevede un’altra
presenza: si tratta del “picciol vermo” che muore anch’esso e che sottolinea, di nuovo, il distacco
dalla versione di Ovidio dove per un certo periodo alcuni animali si salvano. Dante non fa
l’elenco degli animali come Ovidio e il “picciol vermo” ottiene la sua legittimità in ragione della
sua piccolezza: la peste distrugge tutto e nessuna cosa, nemmeno la più piccola, si salva. Questa
motivazione, tuttavia, può essere parziale, e perfino riduttiva rispetto all’intero campo, fisico e
morale, di cui la peste di Egina è segno allegorico. Il riferimento a questo animale è un indizio,
un dettaglio che ha la funzione illuminatrice. D’altra parte, il riferimento al verme ha un valore
connotativo rilevante che discende dall’autorità dei testi sacri. Gli animali sono dodati nei testi
sacri di una doppia polarità e anche il verme, come dichiarava Giovanni Scotto, può essre un
segno di Cristo. Unisce in sé i caratteri più opachi della terra e del cielo, dell’umano e del divino,
allude contemporaneamente alla morte e alla resurrezione. In senso opposto, il verme può essere
allegoria della fisionomia terrena dell’uomo, imprigionato negli “abissi della materia” e
incapace di volare “fino alle altezze divine”. Allude, perciò, in questo diverso caso, alla parte
disgustosa, imperfetta e impura della natura umana. Per queste ragioni, nel canto dei falsari e
degli alchimisti, il richiama del verme, secondario nella logica del racconto, acquista una
connotazione poetica che può essere non marginale. Riassume la postura fisica dei peccatori, che
sono immobilizzati a terra o che si trascinano caproni nello spazio in cui sono rinchiusi, ricorda
la materia corrotta in cui si sono degradati i loro destini; rinvia alla dannazione e alla morte
dell’anima, incapace di levarsi in volo. Riguadagnando una sua funzione allegorica, il
riferimento all’animale diventa coerente con la bolgia e con il carattere della pena.

D’altra parte, un minimo riscontro nel vocabolario di Dante contribuisce a ridare


all’immagine la forza semantica che essa possiede. Tranne l’occorrenza del III canto, in cui gli
animali sono richiamati in senso proprio, la parola “vermo” ha sempre valore metaforico di
segno negativo, fino all’ultimo canto e a Lucifero “il vermo reo che il mondo fora” (XXXIV
108). Un ulteriore indizio della formidabile struttura su cui il poema si fonda e si sviluppa.

La terza parte del canto va dal v. 70 al v. 120, e la quarta dal v. 121 alla fine. In qualche
modo le due sezioni costituiscono una ripresa analitica e uno sviluppo dei due nuclei narrativi
della prima parte del canto: gli odi municipali e l’abiezione fisica della pena dei falsari, ma con
ordine inverso rispetto a quello prima seguito. La terza parte, infatti, focalizza l’attenzione del
lettore su due dannati, mostrando nei particolari i loro comportamenti:

Io vidi due sedere a sé poggiati,

com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

da capo a piè di schianze macolati;

(Videh dvojicu kako sede jedan uz drugog prljubljeni / kao što se da bi se ugrejale tava na tavu
priljubi / od glave do pete krastama išarani).

I due peccatori, presentati uno a fianco dell’altro, sono impegnati ad alleviare il dolore concreto
che li squassa. L’evidenza corporale della pena passa attraverso similitudini e rime che si
accordano alla materia svilita e le danno forma poetica. Proprio in questa parte del canto il
ricorso alle rime aspre e chiocce è così esteso da occupare quasi ogni verso. La tessitura fonica
dominante dei rimanti (-egghia, -orso, -abbia, -aglie, -alzo) riporta alle soluzioni più
audacemente espressive della cantica, rinnovando quello che Sanguineti ha definito “il piacere
acre della descrizione crudele”. Né è da meno la presentazione dei due dannati. Essi sono
assimilati ai più modesti oggetti di casa. I loro atti richiamano un mondo ugualmente plebeo. In
sintonia con la bassezza degli utensili mobilitati per descrivere la loro postura, trovano, infatti,
l’equivalenza dei loro comportamenti nei lavori più dimessi della sfera sociale:

e non vidi già mai menare stregghia

a ragazzo aspettato dal segnorso,

né a colui che mal volentier vegghia,

come ciascun menava spesso il morso

de l’unghie sopra sé per la gran rabbia

del pizzicor, che non ha più soccorso,

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,

come coltel di scardova le scaglie

o d’altro pesce che più larghe l’abbia.


“O tu che con le dita ti dismaglie”,

cominciò ‘l duca mio a l’un di loro,

“e che fai d’esse tal volta tanaglie,

dinne s’alcun latino è tra costoro

che son quinc’entro, se l’unghia ti basti

etternalmente a cotesto lavoro”.

“Larin siam noi, che tu vedi sì guasti

qui ambedue” rispuose l’un piangendo;

“ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”

(i ne videh nikad da češagijom tako mlati / konjušar kojega njegov gospodar, / niti onog koji
nevoljko bdi, / koliko je svaki tako često zabadao / nokte u sebe zbog žestine / svraba, kojem
pomoći nema, / i tako su nokti skidali šugu / poput noža krljušt belice / ili duge ribe s onim
najvećim. / „O ti, što rukama dereš sebe“, / reče moj vođ jednom od njih, / „i što ih katkad
pretvaraš u klešta, / kaži nam da li ima latina među ovima / što su ovde, pa neka ti nokat /
zanavek bude dostatan poslu“. / „Latini smo mi, što nas vidiš u takvim ranama / obojica ovde“,
odgovori jedan plačući; / „ali ti ko si što za nas pitaš?“).

I dettagli non fanno che riprodurre la pena „sconcia e fastidiosa“ che Dante ha anticipato nella
parte precedente. Le similitudini sono utilizzate per descrivere l’impotenza a combattere “la gran
rabbia del pizzicor che non ha più soccorso”; e le unghie, simili a inutili “tenaglie”, fungono da
mezzo che sterilmente prova ad alleviare gli stimoli furiosi del corpo. La richiesta di Virgilio di
conoscere chi siano i “latini”, analoga alla domanda formulata altre volte (XXII 64-66), trova
risposta in un dannato, che, denunciando la sua appartenenza, sacisce, quasi come in un
definitivo promemoria, l’effetto deformante della pena: “Latin siam noi, che tu vedi sì guasti”.

L’indicazione estrema della decomposizione del corpo, che attraversa, come un tema
ricorrente e diffuso, l’intero svolgimento del canto, agisce come un motivo drammatico, che
segna la separazione dei diversi destini. Dante personaggio, qualche verso dopo, quasi come a
restituire l’eco dell’esperienza attraversata, parlerà di “sconcia e fastidiosa pena” (v. 107).
L’identificazione del peccatore, che passa attraverso l’inseparabile condizione di deformità,
attribuito e contrassegno dell’anima dannata, spinge Virgilio a ribadire il significato alternativo
del viaggio che sta compiendo. La discesa all’inferno è, nei fatti, l’esperienza necessaria del
male, che possa preservare dal suo contagio. Sia pure enunciata nei modi di una informazione
neutra, la risposta di Virgilio sacisce la differenza che distingue la stasi dei dannati dal cammino
eletto dell’anima:
E ‘l duca disse: “I’ son un che discendo

con questo vivo giù di balzo in balzo,

e di mostrar lo ‘nferno a lui intendo”.

(A vođa reče: „Ja sam onaj što silazi / s ovim živim dole od klanca do klanca, / i imam da mu
pokažem pakao“).

Come in altri luoghi del poema, la garanzia di ritornare sulla terra, tra i vivi, concede al
personaggio viandante un credito grande. L’augurio di una memoria preservata “nel primo
mondo da l’umane genti” (v. 104) autorizza il viandante a chiedere quale sia l’identità biografica
dell’anima a cui si rivolge e quale la sua famiglia. Rispettando una collaudata scansione
narrativa, Dante autore lascia a questo punto che il racconto si trasformi nel monologo
drammatico di un singolo attore. Un personaggio occupa da solo la scena del poema,
distinguendo i fatti della propria vida dalla condizione comune.

Il dannato che parla è Griffolino d’Arezzo. L’inganno che lo portò alla morte non
coincide con la causa della sua condanna. L’alchimia è la ragione della sua pena, ma il motivo
che segnò la fine dei suoi giorni è di altra specie. Infatti, egli pretese di beffare Albero da Siena,
promettendogli di insegnargli a volare. Questo secondo personaggio “ch’avea vaghezza e senno
poco” (koji je imao želje a malo uma) volle vendicarsi dell’offesa e fece ardere sul fuoco il suo
beffatore: micidiale rivincita per la propria credulità ingannata. Proprio Albero da Siena, definito
da P. Camporesi “sanguinario Calandrino”, permette il passaggio alla parte finale del canto.
L’esempio di una stupidaggine tanto vacua e astiosa, della cui manifestazione il caso raccontato
è prova, spinge Dante a riflettere sulla vanità paradigmatica di una città, Siena, che su questo
piano non ha confronti con nessun altro luogo:

E io dissi al poeta: “Or fu già mai

gente sì vana come la sanese?

Certo non la francesca sì d’assai!”.

(A ja rekoh pesniku: „Da li je ikada bilo / sveta tako ispraznog poput onog iz Sijene? / Ni
Francuzi, koji takvi jesu, ne toliko!“).

In questa sezione, quasi come in un prolungamento degli odi cittadini trapelati nella vicenda di
Geri, il canto traccia uno spaccato di cronaca locale e di rivalità municipali. Un personaggio, che
si presenterà come Capocchio fiorentino, denuncia i vizi e le miserie dei senesi, stilando un
catalogo derisorio d’individui mediocri e sventati. Ognuno di essi ha al suo attivo un gesto
dissennato, una follia, una scelta irragionevole, che ne fa l’oggetto di un riso acre e beffardo. I
nomi di una tale umanità, infima e ottusa, sono tutt parlanti: o per suono (Stricca, Caccia
d’Ascian) o per senso (l’Abbiagliato). I vizi e le colpe di cui ciascuno di essi è espressione sono
indicati, attraverso un ostentato sberleffo, con i modi del sarcasmo più feroce e canzonatorio.
Stricca “seppe far le temperate spese” (znade da umereno troši); Niccolo’, a sua volta, “... la
costuma ricca / del garofano prima discoverse / ne l’orto dove tal seme s’appicca” (... bogati
običaj / karanfilčića uvede / u vrtu gde se to seme prima; misli u Sijeni, gde se isključivo bave
ispraznim, hranom, odećom, itd.). Caccia d’Ascian sperperò i suoi averi in mezzo a una brigata,
che appare sempre più distante dallo stile cortese e gentile di un mondo tramontato.
L’Abbagliato, infine, nella medesima brigata “suo senno proferse”. I commentatori antichi
ricostruiscono facilmente la verità della cronaca dietro la beffarda ricostruzione offerta.
L’affresco impietoso dei cittadini senesi corrisponde alla condanna di altre città che risuona più
volte negli spazi infernali: Firenze, naturalmente, ma anche Pisa (XXXIII, 79 sgg.) o Pistoia
(XXV, 10-12) e Genova (XXXIII 151-53). E’ l’immagine di un mondo ammalato nella sua
interezza, preda di ambizioni perverse e di valori miserabili.

Ma lo sberleffo che questo dannato fa in fine di canto non è segno di nessuna superiorità
su quel mondo e su quegli uomini di cui è parte egli stesso. Il canto, al contrario, si conclude
riepilogando, come in una sitnesi estrema, alcune costanti interne, che ne hanno orientato il senso
e la forma. Le rime conclusive in –occhio, con le quali l’ombra di Capocchio svela a Dante la sua
identità, rinviano alle rime aspre che ordiscono per gran parte la tessitura fonica del canto. C’è,
oltre a questo, un altro elemento che collega le ultime battute del personaggio all’atmosfera
generale: Capocchio stesso si rappresenta, infatti, con le credenziali di alchimista falsario,
vantando di essere “di nattura buona scimia”:

Ma perché sappi chi sì ti seconda

contra i Sanesi, aguzza ver me l’occhio,

sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,

che falsai li metalli con l’alchimia:

e te dee ricordar, se ben t’adocchio,

com’io fui di natura buona scimia”.

(A da bi znao ko ti pomaže / protiv onih iz Sijene, zagledaj se u mene, / tako da ti moje lice da
odgovor: / videćeš da sam ja sen Kapokja, / da sam krivotvorio metale alhemijom: / i sigurno se
sećaš, ako sam te dobro razaznao, / kako sam po prirodi bio dobar majmun“).

La metafora della scimmia costituisce, come si sa, uno dei capitoli di Letteratura europea e
Medio Evo latino di Curtius. Tra gli esempi allegati nel suo regesto, è presente anche
l’espressione dantesca. La metafora segnala una cattiva imitazione della natura: una natura
perfetta, sfigurata nella sua sostanza e, perciò, travisata, penosamente adulterata e restituita nei
modi di una variante grottesca. La cattiva pratica degli alchimisti, che produce “oro lebroso”, si
compendia in questa immagine nuova, che introduce un altro animale nella costellazione del
canto e ne completa la trama simbolica.

“Verme” e “scimmia”: sono i segni eloquenti di un’umanità restata bestia, dannata per
sempre, chiusa nella prigione del proprio corpo. Non per caso il lungo viaggio tra i corpi sempre
più bestiali e feroci troverà il suo epilogo nell’incontro con il Male assoluto: Lucifero, il “vermo
reo” simbolo massimo dell’anima distante dal cielo ed eternamente perduta.

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