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STEFANO GIAZZON

NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

Nel perimetro della scrittura tragica medio-cinquecentesca, il rilievo


detenuto dalla produzione di Lodovico Dolce è stato ormai acquisito,
dalla critica degli ultimi decenni, come un dato non più revocabile in
dubbio. 1
Nel presente contributo, mi limiterò a fare una riflessione comples-
siva, focalizzando la mia attenzione su alcune costanti tematiche e su
alcune strategie adottate dal Dolce nel corso della sua pluriennale car-
riera di autore tragico.
Lodovico Dolce esordisce nell’ambito del teatro serio nel 1543, a
ridosso dell’esplosione dei ‘casi’ rappresentati dall’Orbecche di Giraldi
Cinzio e dalla Canace di Speroni 2 e, con notevole capacità emulativa e
intuito, ne ripropone prontamente alcune strutture e dinamiche
drammatiche, rispettivamente nel Tieste, riscrittura della più cupa e
macabra fra le tragedie di Seneca, 3 e nella Hecuba, tratta invece da Eu-

1 A partire almeno da CREMANTE 1998. Si veda poi, oltre alla monografia di


TERPENING 1997, il ponderoso lavoro di NEUSCHÄFER 2004 e, per un quadro
d’assieme sulla prima produzione del Dolce, escludendo la traduzione di Se-
neca e le due ultime sue prove tragiche (Marianna e Troiane), GIAZZON 2011a.
Sul teatro del tempo la bibliografia è infinita: cfr. almeno PIERI 1989. Rinvio
poi, per ulteriori approfondimenti, alle recenti edizioni di tragedie dolciane:
cfr. DOLCE 1996, 2005, 2010, 2011.
2 Sulla capitale tragedia del Giraldi cfr. ARIANI 1978. Per un quadro comples-

sivo sulla produzione seria del drammaturgo ferrarese cfr. LUCAS 1984. Lo
Speroni lesse pubblicamente la Canace presso l’Accademia degli Infiammati:
l’opera circolò subito manoscritta e senza la revisione definitiva dell’autore
(per questo le mancano i cori). Avrebbe visto la luce solo nel 1546, a Venezia,
rispettivamente edita da Curzio Troiano Navò e da Vincenzo Valgrisi. Sulla
tragedia speroniana cfr. ARIANI 1977, ROAF 1989, CANOVA 2002: 53-98.
3 DOLCE 1543a e 2010. Sul Thyestes senecano cfr. MANTOVANELLI 1984 e 2014,

PICONE 1984, ROSSI 1989, MONTELEONE 1991. Sul Tieste del Dolce cfr. anche
GIAZZON 2008.
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ripide (e già rilanciata in traduzione latina da Erasmo da Rotterdam). 4


Dolce decide, con pragmatismo, di fare una proposta eclettica, gio-
cata tanto sulla partitura euripideo-senecana, quanto sulle forme della
nuova tragedia di Giraldi e Speroni: con il Tieste si inserisce nel fortu-
nato filone della tragedia della crudeltà e dell’orrore (à la Orbecche,
appunto), mentre con l’Hecuba scrive una tragedia patetica, dominata
da una protagonista femminile «meschina», dolente e misera, sopraf-
fatta da una «Fortuna» avversa e implacabile (secondo una grammati-
ca scenica che, dalla Sofonisba di Trissino e dalla Rosmunda di Rucellai
in poi, si era consolidata).
Dopo questo dittico d’esordio, Dolce scrive la Didone (1547), 5 di
soggetto patetico-sentimentale già affrontato da Pazzi de’ Medici e da
Giraldi (poi ripreso nella Dido, Queen of Carthage di Christopher Mar-
lowe) e, nel 1549, la Giocasta, 6 rifacimento di materia tebana delle
Phoinissai euripidee, che mette in scena la dolorosa vicenda dello scon-
tro fratricida tra Eteocle e Polinice ed è, soprattutto, un vibrante mani-
festo pacifista.
Certamente degna di nota nella Giocasta è, a mio parere, la presa di
posizione pragmatico-realistica rappresentata dalla liquidazione della
celebre teichoskopia che precede, in Euripide (cfr. Phoinissai, 117-181), il
topico catalogo delle armi mobilitate contro Tebe: Dolce, deludendo
l’orizzonte d’attesa del pubblico colto, che certamente conosceva la
celebre scena euripidea, ricorre a un dato razionalistico che ha consi-
stenza scenica, ma soprattutto epistemologica: 7

4 DOLCE 1543b e 1560a. Cfr. poi ERASMO DA ROTTERDAM 2000: il grande uma-

nista olandese pubblicò le sue versioni latine di Hecuba e Iphigenia in Aulide nel
1506 a Parigi. L’anno seguente, le ristampò presso Aldo Manuzio. Per una a-
nalisi stilistica della Hecuba dolciana, rinvio a GIAZZON 2011b.
5 DOLCE 1547 e 1996.

6 DOLCE 1549. Per alcuni aspetti di questa tragedia cfr. MONTORFANI 2006 e

GIAZZON 2011c.
7 Al di là delle concrete difficoltà di rappresentazione, qui avvertiamo

l’avversione del Dolce per le sequenze inverosimili.


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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

Antigone
Un ardente desio m’infiamma ogn’hora
Di veder Polinice: ond’io ti prego,
Che in una de le Torri mi conduchi
Donde si veggon le nimiche squadre:
Che pur, ch’io pasca alquanto gli occhi miei
De la vista del caro mio fratello;
S’io ne morrò dapoi, morrò contenta.

Bailo
Real figliuola la pietà, che serbi
Verso il fratello, è d’ogni lode degna.
Ma brami quel che non si può ottenere,
Per la distanza ch’è dalla cittade
Al piano, ove l’esercito è accampato. [vv. 267-278]

La sequenza lumeggia efficacemente, pur nei suoi sintomatici limiti di


poesie, la fisionomia intellettuale del Dolce, indisponibile a cedimenti
inerenti alla verosimiglianza, sia sul piano della fictio (spaziale e pros-
semica), sia su quello della realtà rappresentata.
E mi pare notevole il fatto che, qualche decennio dopo, Galileo Ga-
lilei muova, nelle sue Considerazioni al Tasso, analoghe e puntigliose
obiezioni razionalistiche alla teichoskopia di Aladino ed Erminia nel III
della Gerusalemme liberata: 8

Se si va ben calculando, questo Re e Erminia in cima di una torre non


potevano esser lontani dal luogo, dove si facevano questi fatti d’arme,
manco d’un grosso miglio, considerata la ritirata, che fanno i pagani st.
XXXI, e considerato quel che si dice nella st. XXXVII, e nulladimeno
erano di così perfetta vista, che riconoscevano distintamente i Cavalier
Cristiani anche in mezzo alla polvere della scaramuccia; che son cose,
che a’ nostri tempi non si potrian fare né anche nella distanza di un ot-
tavo di miglio. 9

8 Debbo l’invito ad approfondire questa interessante traiettoria a Matteo Re-


sidori, che ringrazio.
9 Considerazioni al Tasso, III, 17 (si cita dall’edizione settecentesca: GALILEI

1793: 67).
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Due anni dopo, Dolce – ancora rifacendosi ad Euripide ed Erasmo –


pubblica l’Ifigenia, 10 uno dei suoi testi più notevoli, dominato dalla ri-
petuta esibizione del divorzio fra res e verba e da uno sviluppo dram-
matico governato dalla strategia del rovesciamento e del gioco di
specchi.
Ciò che distingue la tragedia del Dolce dagli autorevoli modelli è il
fatto che, mentre in Euripide ed Erasmo il nucleo concettuale della pa-
tologica bipolarità delle maschere in scena era funzionale alla compli-
cata giustificazione del mostruoso sacrificio di Ifigenia, qui esso è in-
vece dotato di precisa consistenza tematica e strutturale, secondo le
coordinate di una nuova antropologia che anticipa l’affermazione di
una scettica (e anche cartesiana) epistemologia del dubbio universale,
per cui non vi sono più criteri sicuri per stabilire cosa sia vero e cosa
sia falso e, soprattutto, non è più possibile far coincidere azioni e paro-
le. 11
Inoltre, nell’Ifigenia vi sono già spazi di infrazione molto esplicita al
codice linguistico tragico, con anticipazione significativa di una dizio-
ne pastorale, madrigalistica, melodrammatica: Battista Guarini, per

10 DOLCE 1551. Su questa tragedia cfr. GIAZZON 2012a e 2014.


11 Del resto, mi ripeto, quello della mutevolezza è uno dei fondamenti an-
tropologici e psicologici della cultura europea fra medio Cinquecento e Seicen-
to: si veda, per esempio, quanto dice Montaigne in Essais, II, 1. Dell’incostanza
delle nostre azioni: «Coloro che si dedicano a considerare le azioni umane non si
trovano in alcuna parte così impacciati, come a metterle insieme e dare ad esse
lo stesso rilievo, poiché esse si contrastano in genere in così strano modo da
sembrare impossibile che siano parti della stessa bottega. […]. Ondeggiamo
tra diversi pensieri: niente noi vogliamo liberamente, niente assolutamente,
niente costantemente. […]. Non soltanto io sono agitato dal vento dei casi se-
condo la sua direzione, ma per di più io ho agito e mi travaglio per l’instabilità
della mia situazione; e chi guarda attentamente non mi trova mai due volte
nella stessa condizione». Le parole usate dal Dolce nella sua riscrittura acqui-
stano, per il solo fatto di essere ricontestualizzate in un campo culturale diver-
so da quello di accoglimento originario e per essere convocate in un altro
tempo, una traiettoria semantica e concettuale rinnovata. Nel caso specifico, il
livello di innovazione ipertestuale è direttamente funzionale al discorso cultu-
rale e antropologico che il tragediografo, volente o nolente, realizza sul pre-
sente.
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

esempio, riprenderà, nel Pastor Fido, alcuni spunti della patetica mono-
dia lirica in settenari, recitata dalla protagonista della tragedia del Dol-
ce:

Ifigenia
Padre, mio caro padre,
(Benché dovrei tacere
Questo nome di padre,
Poiché sotto tal nome
Si comprende pietade,
E voi verso la figlia
Siete solo ripieno
D’odio e di crudeltade)
Pur, dirò caro padre:
Come trovar poss’io
Principio a mie parole?
Come potrò dolermi
De le miserie mie?
Ditelo voi per me; voi che non solo,
Padre mio, le sapete,
Ma ne siete cagione.
Io poi ch’altr’arme, altro saper non trovo
Che solo il lagrimar, piangerò tanto,
Quanto dar mi potranno umor quest’occhi. [vv. 1774-1792]

Amarilli
Mi verrà forse alcun soccorso intanto.
Padre mio, caro padre,
e tu ancor m’abbandoni?
Padre d’unica figlia,
così morir mi lasci, e non m’aiti?
Almen non mi negar gli ultimi baci.
Ferirà pur duo petti un ferro solo;
verserà pur la piaga
di tua figlia il tuo sangue.
Padre, un tempo sì dolce e caro nome
ch’invocar non soleva indarno mai,
così le nozze fai
de la tua cara figlia?

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Sposa il mattino e vittima la sera? [Il Pastor Fido, IV, 5, vv. 732-745]12

Inoltre, Dolce dedica molta attenzione alla dialettica conflittuale fra


dimensione privata e doveri pubblici, con accenti che possono far
pensare alle riflessioni di Machiavelli. Esemplare, in questo senso, e
certo da riscontrare con notissimi passi del Principe, l’evoluzione di
Agamennone, lacerato fra l’essere, da un lato, rex politicamente e mili-
tarmente responsabile, e, dall’altro, affettuoso padre di Ifigenia:

A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte


qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire que-
sto, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di
averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligio-
so, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando
non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere
questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può os-
servare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo
spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede,
contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bi-
sogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e
le variazioni della fortuna li comandano, e, come di sopra dissi, non
partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. De-
ve adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca
una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a
vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione.
E non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità.
[…]. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’. 13

In questa prospettiva, l’Ifigenia si configura come una tragedia sulla


rilevanza della categoria politica della «doppia morale» e come sin-
tomatico esemplare, data la patologica irresolutezza dei vari agoni-
stai coinvolti (maschere che si agitano sul palcoscenico, lacerate dal
dissidio fra volontà di potenza politica e malcelate ambizioni di glo-
ria, da un lato, passioni e affetti, dall’altro, fino a desideri di soprav-
vivenza nel mito e a impronosticabili accessi di cupio dissolvi),

12 Cfr. GUARINI 1999.


13 Il Principe, XVIII (cfr. MACHIAVELLI 1989).
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

dell’aggiornamento dell’uso della parola tragica classico-moderna,


secondo mutate coordinate antropologiche, nell’ottica di quella «in-
venzione del rifacimento» 14 che caratterizza così peculiarmente il
classicismo medio e tardo-cinquecentesco.
E, ancora, procedendo per campionature significative, noto come
Dolce collochi un coup-de-théâtre nella sezione conclusiva del discorso
del Servo, aggiungendo una breve, ma estremamente significativa,
chiosa di sapore realistico e razionalistico:

Servo
È ver ch’alcuni affermano che invece
D’Ifigenia, Diana a quello altare
Fé apparir una cerva e la fanciulla
Trasse a sé viva entro una nube oscura;
Ma creder non voglio io quel che non vidi.
Or tale è di colei che vi fu figlia
Il fine acerbo, misero e crudele. [vv. 2793-2799]

Secondo la logica di un’aemulatio che ripensa le fonti antiche prenden-


do manieristicamente le distanze da esse, Dolce liquida la ricostruzio-
ne miracolistica ed edulcorata dei modelli, 15 affermando le ragioni
dell’esperienza diretta e ribadendo – la cosa non sembra di poco mo-
mento – la rilevanza del paradigma autoptico: 16 da un lato, reagire
contro le auctoritates antiche e umanistiche significa congedarsi defini-
tivamente dalla cultura rinascimentale e aprire la via a qualcosa di di-

14 Prelevo la formula da PROCACCIOLI 1999: 23.


15 Secondo i quali al posto di Ifigenia sarebbe stata magicamente sacrificata
una cerva e la fanciulla avrebbe, così, goduto di una sorta di assunzione in cie-
lo, divenendo mito. Come è noto, su tutta la parte conclusiva della tragedia
euripidea grava il sospetto non lieve di manipolazione e interpolazione mas-
sicce: ma questa è un’altra storia. Naturalmente è opportuno ricordare che an-
che i mitografi Apollodoro e Igino avevano legittimato il lieto fine nella vicen-
da di Ifigenia.
16 Rinviando, semmai, al Dante di Inferno, XXV, 47-49: «Se tu se’ or, lettore, a

creder lento / ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, / ché io che ’l vidi, a pena il
mi consento». Sulla questione dell’autopsia in ambito storiografico cfr. MI-
GLIETTI 2010.
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verso; dall’altro, ritenere la vista l’organo di senso cui spetta, par excel-
lence, la funzione di verificare la fondatezza di un evento o di un fatto
storico, rilancia gli occhi al centro del sistema culturale, anticipando
alcune direttrici della ricerca scientifica e storiografica seicentesca. 17
Questa notazione, che è uno degli apici razionalistici della tragedia
del Dolce, è anche uno dei punti di massima tensione con i modelli: il
meraviglioso, che produceva un consolatorio lieto fine nella fabula al-
lestita da Euripide ed Erasmo, non ha alcuno spazio in questa Ifigenia,
in cui, anzi, il prodigio della sostituzione della figlia di Agamennone
con una cerva viene polemicamente interpretato come mera invenzio-
ne favolosa, senza alcun fondamento effettuale.
Dopo un silenzio di qualche anno, vede la luce nel 1557 la Medea, 18
che nasce ancora programmaticamente da una contaminatio di Euripi-
de e Seneca.
La tragedia si colloca in un momento storicamente delicato per
Venezia, funestata dal 1555 da una terribile epidemia di peste: in que-
sta prospettiva, il personaggio di Medea può essere concepito come
un duplicato di Edipo, pharmakos che va eliminato per ripristinare una
temporanea e, giocoforza, illusoria harmonia mundi.
E come la peste, a un certo punto, Medea sparisce. La stessa lunga
descrizione della morte di Creusa e del padre Creonte sembra potersi
ricondurre più alla sintomatologia medica della peste, che a ragioni
artistiche o drammatiche.
E quale che sia il valore della Medea, importa il fatto che, in essa, la
scelta di fare spettacolo delle scelleratezze della maga colchica, recu-
perando anche alcune coordinate espressive estreme del teatro sene-
cano, si spieghi come riuso del mito in funzione delle pressioni di un

17 Nel Dialogo della Pittura, intitolato l’Aretino (1557), una delle sue opere più

notevoli, Lodovico Dolce scriveva, con una sensibilità empiristica molto spic-
cata, che mentre l’intelletto può sbagliare, l’occhio difficilmente si inganna: da
ciò deriva il fatto che tutti possono stabilire se un quadro è bello o brutto. Per-
tanto nessuno è autorizzato a revocare in dubbio che Ifigenia sia realmente
morta, dal momento che a garanzia del fatto ci sono gli occhi del Servo che ha
sì distolto lo sguardo nel momento della decapitazione, ma che ha anche visto
poi il capo insanguinato della fanciulla spiccato dal busto.
18 DOLCE 1557.

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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

orizzonte storico contemporaneo delle cui ‘tragedie’ reali, l’opera par-


rebbe, in controluce, testimonianza.
Di sicuro interesse è, per esempio, la caratura politica e filosofica
assolutamente rinascimentale di alcuni interventi del Balio dei figli di
Medea, vero e proprio consigliere di corte, più che istitutore:

Balio
Grande è l’amor de’ figli, ma l’avanza
Di gran lunga il desio caldo et ardente
Di vederci in istato alteri et grandi;
E molti son ch’hanno i figliuoli uccisi
Per cagion di regnar senza sospetto.
Che se bene i Signor le leggi fanno,
Non vogliono però lor sottoporsi
Tanto, che quando l’utile gl’invita,
Non possano dispor come lor piace.
Né m’affaticherò d’addurti esempi,
Che ve ne son fra quanto vede il sole. [vv. 208-218]

Parole che paiono rinviare alla questione, molto rilevante nella rifles-
sione giuridica del Cinquecento, delle prerogative giurisdizionali del
princeps e del rapporto fra il potere e la legge, 19 con cui Dolce, forzan-
do il testo euripideo, immette nel tessuto della tragedia alcune rifles-
sioni e allusioni politiche riferibili ai tempi suoi.
Poco dopo, inoltre, lo stesso Balio ribadisce la legge generale di e-
goismo utilitaristico – peraltro da lui eticamente respinto, quantunque
politicamente accolto – che ha condizionato le scelte politiche di Gia-
sone, facendo prevalere sull’amore per i figli quello per il potere, nuo-

19 Già la giurisprudenza medievale aveva elaborato svariate teorie sul con-

cetto di sovranità e si era arrovellata attorno all’alternativa fra diverse architet-


ture istituzionali e fra diverse configurazioni dei rapporti fra potere e leggi
(rex supra legem, rex sub lege, princeps legibus solutus, princeps legibus alligatus).
Chi aveva egregiamente recuperato le fonti medievali della questione, dando
loro una moderna declinazione politica era stato Erasmo, specialmente
nell’adagio Aut regem aut fatuum nasci oportere, per il quale si rinvia a ERASMO
DA ROTTERDAM 1980. Inoltre, ineludibile è la funzione di Machiavelli, sul cui
rilievo non è necessario qui insistere.
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STEFANO GIAZZON

va risillabazione del motivo della divaricazione fra doveri pubblici e


sentimenti privati:

Balio
È cosa naturale amar se stesso
Più che null’altro; e la corrotta usanza
Fa che comunemente è posto inanzi
Fra la più parte l’utile a l’onesto.
Non credo ch’abbia in odio i suoi figliuoli
Giason, ma cred’io ben che di Corinto
Ami più la corona che i figliuoli. [vv. 254-260]

Infine, propongo una curiosità microtestuale: il v. 510 «I tori soggio-


gar, vincer gli armenti», collocato all’interno di una sequenza in cui
Medea si lamenta per lo scellerato comportamento di Giasone fedifra-
go, mi pare costituire – per le analogie ritmiche, fonetiche, lessicali –
ben più delle fonti abitualmente proposte come modelli (Poliziano,
Stanze, I, 18, 7: «veder cozzar monton’, vacche mughiare» e Ariosto,
Orlando furioso, 23, 115, 7: «sente cani abbaiar, muggiare armento»), il
precedente più notevole di un’illustre tradizione letteraria in cui la
tessera, attraverso Annibal Caro («Udian greggi belar, mugghiare ar-
menti», Eneide, VIII, 553), giunge fino a Leopardi («Odi greggi belar,
muggire armenti», Il passero solitario, 8).
Esaurita questa prima fase del suo percorso di poeta tragico, Lo-
dovico Dolce si dedica all’impresa di fornire una traduzione integrale
(la prima integralmente realizzata in una lingua europea moderna)
del corpus tragico di Seneca. 20
È inevitabile, in questo lavoro, l’aggiornamento di alcuni tratti
dell’originale latino: se nel Rinascimento l’imitatio del modello classi-
co, giudicato ottimo, aveva come obiettivo l’adesione incondizionata
ad esso, nell’estetica manierista, scontata l’impraticabilità del recupero
integrale dei modelli antichi, li si emula per distinguersene, valoriz-

20 Cfr. DOLCE 1560b. Sul ruolo e la funzione del teatro senecano nel Cinque-

cento europeo, la bibliografia è molto fitta: si tengano presente almeno JAC-


QUOT 1964, PAGNINI 1981, BRADEN 1985. Seneca tragico è nel primo Cinquecen-
to oggetto di molte edizioni (con commento e senza): cfr. SENECA 1506 e 1513,
1514, 1517, 1547. Sul Dolce traduttore cfr. ZARRA 2014.
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

zandone strategicamente alcuni elementi. Dolce non sfugge a questa


seconda opzione: ammorbidisce l’orrore e il macabro delle tragedie di
Seneca, secondo i dettami dell’estetica del decorum; ridimensiona o li-
quida l’erudizione mitologica, geografica, metaforica; alleggerisce la
gravitas degli originali, facendo un cospicuo uso del settenario; adotta
strategie retoriche per valorizzare i significanti. Il risultato finale è
comunque di tutto rispetto, sebbene la cupa, espressivistica gravitas
delle tragedie senecane sia fatalmente edulcorata e molte sequenze
preludano apertamente all’evoluzione melica della dictio drammatica
del tardo Cinquecento.
Al teatro tragico originale, Dolce torna con la Marianna, 21 una delle
sue prove più alte, la cui materia è prelevata dalle Antiquitates Iudaicae
di Giuseppe Flavio. 22 Rappresentata una prima volta nel 1565, nel pa-
lazzo privato di Sebastiano Erizzo, ubicato nella parrocchia di San
Martino, davanti a trecento gentiluomini, con le musiche predisposte
da Claudio Merulo, la Marianna fu messa in scena una seconda volta,
con sfarzo ancor maggiore, presso la casa privata sul Canal Grande di
Alfonso II d’Este, duca di Ferrara: in entrambi i casi fu un successo
memorabile.
L’ultima prova del Dolce, ancora nel segno dell’aemulatio
dell’antico, è Le Troiane, 23 derivate dalle Troades di Seneca, rappresen-
tata nel Carnevale del 1566 e stampata l’anno successivo. Di sicuro in-
teresse è l’inserzione di quattro intermedii mitologici musicati da
Claudio Merulo, organista di San Marco dal 1557, fra i cinque atti del-

21 DOLCE 1565, 1988, 2011. Nell’ultima edizione, la curatrice, Susanna Villari,

insiste (opportunamente e persuasivamente, a mio parere), sull’origine sene-


cana (specialmente di quello del De ira e del De clementia) di molti dei motivi
presenti nella tragedia del Dolce, che è certamente opera centrata sul nucleo
concettuale della potenza delle passioni (gelosia e ira soprattutto). Su questi
argomenti cfr. GIAZZON 2012b: 75-92.
22 Opera forse letta nel volgarizzamento di Pietro Lauro: cfr. GIOSEFFO (= GIU-

SEPPE FLAVIO) 1544.


23 DOLCE 1567.

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STEFANO GIAZZON

la fabula, assai singolare anticipazione di alcune forme e strutture del


dramma musicale secentesco. 24
L’avvertenza che Dolce premette agli intermedii, stampati in coda
alla tragedia, esibisce una piuttosto notevole dichiarazione di esclusi-
va funzionalità musicale dei versi ideati:

Quantunque gli antichi non facessero intermedij alle Tragedie, serven-


do in vece di ciò i Cori; nondimeno essendo a que’ bellissimi intelletti,
che n’hebbero il carico, piaciuto che l’autore facesse per questo ufficio
alcuni versi; et essendo essi intermedi, sì per la perfettion della Musica,
come per l’arte di appresentarli commodamente, e con dignità, otti-
mamente piaciuti: ci è paruto di darvi a leggere anco gl’istessi versi,
come che essi fosser fatti solamente per servire alla Musica, e non per-
ché legger si dovessero. 25

E se andiamo a leggere questi intermedii, composti di strofe di settenari


(molti) ed endecasillabi, talvolta legati da schemi metrici, talaltra no,
vi troviamo un preciso sintomo della trasformazione musicale della
scrittura tragica cinquecentesca che, a questa altezza cronologica, si
stava ormai sempre più orientando nella direzione della ricerca melica
e madrigalistica, preludio all’affermazione della pastorale e del
dramma musicale:

Intermedio I

Alcuni Troiani favellano col Coro


Donne afflitte e dolenti,
Ecco, che noi piangiamo
I vostri e i nostri insieme aspri tormenti.
Ma non giovan lamenti,

24 Gli intermedii, che erano abitualmente collocati fra un atto e l’altro della

commedia, furono i più significativi precedenti del melodramma: ruolo arche-


tipico ebbero quelli presentati nel 1589 a Firenze in occasione delle nozze di
Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena, che videro la collaborazione di
una eminentissima équipe teatrale-musicale composta da Giovanni Bardi, Emi-
lio de’ Cavalieri, Luca Marenzio, Iacopo Peri, Giulio Caccini, Cristofano Mal-
vezzi.
25 DOLCE 1567: 132.

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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

Che la ruina nostra


Senza fin si dimostra.
Però meglio è tacer, e sofferire
Ogni nostro cordoglio, ogni martire,
Benché, sendo noi privi di speranza,
Lagrimar sol ne avanza.
O misera cittade,
Ch’eri prima ornamento
Di questa nostra lagrimosa etade:
Infelici contrade,
Come ogni cosa involve
Minuta e trita polve:
Né par, ch’altro discerner vi si possa,
Che fresco sangue, e sepolture, et ossa.
Dunque piangendo in ogni parte andremo
Il nostro male estremo.

Provo ora, in conclusione a riepilogare i tratti pertinenti della scrittura


tragica dolciana, alla luce di quanto ho sopra brevissimamente esem-
plificato: 26
1) la natura ipertestuale (nel senso inteso da Genette) del suo lavo-
ro, fa sì che le fabulae siano non tanto traduzioni, quanto riscritture o
rifacimenti, opere al quadrato, 27 puntuali, quantunque non necessa-
riamente sempre consapevoli, sintomi della crisi del classicismo rina-
scimentale e del suo aggiornamento in direzione iperclassicistica o
manieristica; 28

26 Recupero parzialmente e aggiorno alcuni elementi di GIAZZON 2011d.


27 Sul concetto di ipertestualità cfr. GENETTE 1997. Sulla categoria di riscrittu-
ra cfr. MAZZACURATI-PLAISANCE 1987, BORSETTO 1990, LEFEVERE 1998.
28 Aggiungo subito che l’eclettico letterato veneziano fu, con il suo Dialogo

della pittura (1557), uno dei più solerti e significativi critici della categoria di
maniera e un accanito difensore delle ragioni del classicismo figurativo, con
Raffaello e Tiziano come artisti di riferimento, di contro a Michelangelo, deci-
samente e polemicamente ridimensionato rispetto all’imprescindibilità a lui
riconosciuta nel recente canone allestito da Giorgio Vasari nelle Vite. Con ciò
intendo non già revocare in dubbio l’autenticità del processo di aggiornamen-
to delle coordinate teoriche del Dolce, che sarebbe manierista (quantunque,
forse, malgré lui), per esempio, nel poema Sacripante, e acerrimo antimanierista
229
STEFANO GIAZZON

2) la tipica sensibilità per la diffusione in volgare di contenuti colti,


ripensati e declinati per venire incontro alle diverse competenze di un
nuovo ceto di consumatori culturali non sempre umanisticamente
preparati, spiega molte delle scelte strutturali e stilistiche del Dolce,
come la liquidazione di episodi, temi, motivi, riferimenti reputati
troppo culti o peregrini e, perciò, opachi: questa esigenza di perspicui-
tas 29 implica, va da sé, la rimozione – specie nella traduzione delle tra-
gedie di Seneca, ma non solo – di un vasto apparato di dati eruditi
(mitologici, etnografici, geografici, onomastici) e un sostanziale disin-
nesco della carica allusiva e metaforica presente nei modelli tragici an-
tichi. E d’altra parte, l’intera opera del Dolce può essere rubricata sotto
il paradigma della razionalizzazione esplicativa e della chiarificazione
comunicativa, e si caratterizza per l’adozione di strategie retoriche e-
minentemente riconducibili all’amplificatio, all’adiectio, all’expolitio: le
figure di ripetizione egemonizzano la sua dizione, con l’obiettivo della

nel più tardo Dialogo della pittura del 1557, quanto rimarcare un dato piuttosto
sintomatico della cultura cinquecentesca: negli anni Trenta, le riflessioni poeti-
che ed estetiche reperite nei testi delle auctoritates classiche (Orazio e Aristotele
su tutti, ma anche Cicerone e Quintiliano), contro le quali nessuno (o pochi)
ebbero la forza di reagire criticamente in sede teorica, non si erano ancora or-
ganicamente strutturate in paradigma normativo e cogente e lasciavano, per-
tanto, un ampio margine di libertà operativa agli artisti e ai letterati. E, d’altra
parte, quanto è stato autorevolmente detto a proposito di un testo esemplare
della pittura del primo Manierismo, quale il celebre Giuseppe in Egitto (1517
ca.) del Pontormo, uno dei più originali esponenti di questa fase di transizione
della ricerca figurativa italiana, si può comodamente applicare al modus ope-
randi esibito dal Dolce nel suo Sacripante: cfr. PINELLI 1981. Sul Manierismo (fi-
gurativo e letterario) la bibliografia è immensa. Si vedano, almeno: PANOFSKY
2006: 43-61, SCRIVANO 1959; BATTISTI 1962, HAUSER 1965, BRIGANTI 1965, HOCKE
1965, WEISE 1971 e 1976, KLANICZAY 1973, TADDEO 1974, ARIANI 1974, QUON-
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334, RAIMONDI 1994: 219-251, PINELLI 2003, BARILLI 2004, BALDINOTTI 2012. Non
mi sembrano aggiungere molto MINISSI 2003 (del quale andrà senz’altro riget-
tata l’identificazione, francamente eccessiva, fra concettismo e Manierismo
tout-court e la denominazione di «Barocco triviale» con cui questo viene, in
sostanza, liquidato) e GUARDIANI 2004.
29 Per la perspicuitas cfr. LAUSBERG 1969 Elementi di retorica, Bologna, Il Muli-

no, 1969 e MORTARA GARAVELLI 1988: 135-139.


230
NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

chiarezza, della trasparenza, della precisione. Figure della ripetizione


(geminationes, redditiones, reduplicationes, polittoti, sinonimi, anafore,
epifore, diafore, isocòli) e dell’amplificazione (commorationes, descrip-
tiones, correctiones, epifrasi, dittologie sinonimiche e no) sono massic-
ciamente presenti sulla sua pagina, proprio per evitare di cadere
nell’abisso dell’obscuritas: ma la ripetizione è, in piccolo, l’elemento
che compendia paradigmaticamente un’intera stagione culturale, ca-
ratterizzata dalla scrittura come rifacimento, ripresa, replica, discorso
di secondo grado e di riuso;
3) in linea con l’aggiornamento che il linguaggio tragico aveva co-
minciato a subire, a partire dall’innovativa e controversa proposta del-
la Canace di Sperone Speroni, e nonostante le sue esplicite prese di po-
sizione antisperoniane, anche Dolce arricchisce la sua pagina tragica
di significative figurae di suono (allitterazioni, omeoteleuti, rime a con-
tatto e a distanza, assonanze e consonanze, paronomasie, anagrammi),
testimoniando così di una transizione della lingua tragica verso spazi
di sperimentazione melica, cui proprio Speroni aveva di fatto dato
piena legalità, e con soluzioni che finiranno per incidere energicamen-
te sui due testi-chiave della successiva stagione culturale, in ambito
drammatico: l’Aminta del Tasso e il Pastor Fido del Guarini. Va inqua-
drata in questa tendenza anche l’adozione, accanto all’ormai classico
(e comunque complessivamente prevalente) endecasillabo sciolto, del-
la misura del settenario, non solo nei cori, ma anche nelle sequenze
patetiche e nei monologhi delle protagoniste femminili, con punte no-
tevoli di frequenza nella versione di Seneca;
4) l’uso delle fonti mobilitate da Dolce per la costruzione della sua
pagina tragica non si discosta troppo, pur con qualche novità, dalle
costanti del codice tragico cinquecentesco: la pluralità del materiale
lessematico impiegato è un’esemplare testimonianza delle difficoltà
implicite nella ricerca di una lingua adeguata alla poesia alto-
mimetica del Cinquecento, in assenza di modelli cogenti, giacché né la
Sofonisba di Trissino, né i due testi-chiave del medio Cinquecento –
l’Orbecche e la Canace – ebbero la forza oggettiva per diventare propo-
ste universalmente valide per la nuova poesia tragica. 30 Fondamentale

30Le stesse contraddizioni inscritte nei percorsi di tutti i tragediografi del


tempo e nelle loro opere vanno spiegate come segni di debolezza di un codice
231
STEFANO GIAZZON

è naturalmente, data la facies metrica del genere tragico, la presenza di


Petrarca; nondimeno mi pare degna di nota in Dolce la consistenza dei
prelievi da Dante e Boccaccio e il rilievo di autori del canone del nuo-
vo classicismo umanistico volgare, come Poliziano, Bembo, Ariosto,
Aretino, Bernardo Tasso. 31 Sul piano delle strutture, Dolce è piuttosto
tradizionalista: tutte le sue tragedie sono divise in cinque atti con cori
conclusivi che hanno schemi metrici consolidati (soprattutto, canzoni,
canzonette, sestine, ma anche madrigali), ma notevole è il fatto che
nella traduzione delle tragedie senecane, non volendo riprodurre in
metrica barbara la complessa struttura dei cori latini dell’originale,
Dolce opti per una sorta di canzone libera, con settenari ed endecasil-
labi senza schema fisso: quanto questo modello abbia condizionato
Alessandro Guidi, e poi Giacomo Leopardi, non mi pare sia stato, fino
ad oggi, debitamente approfondito (e viene qui proposto come puro
dato suggestivo, degno certamente di un supplemento di indagine);
5) importa rilevare la frequenza e la caratura delle osservazioni po-
litiche del Dolce, alla luce delle peculiarità che caratterizzavano la re-
lazione fra autori scenici e committenza a Venezia, ove non esisteva
un principe, bensì un’oligarchia repubblicana, che guardò sempre con
indulgenza alla forma tragica, reputata meno pericolosa della com-
media (più insidiosa e più libera sul piano della critica sociale). 32 Pro-
prio questa sorta di collaborazione fra cultura e potere spiega la fre-
quenza del topos della Laus Venetiae, 33 che come è stato giustamente
osservato, 34 discende direttamente dalla necessità, ideologica e propa-
gandistica, di controbilanciare le frustrazioni provocate dalla perdita

che non possiede testi veramente forti e di una pluralità di pratiche che non
riesce a costituirsi come grammatica. Per la questione cfr. JAVITCH 1998. Sulla
gravitas nella poesia rinascimentale cfr. AFRIBO 2001.
31 Sul ruolo di Petrarca e Dante cfr. GIAZZON 2014b e 2011e.

32 E ci sarebbe da chiedersi se questa sostanziale disponibilità nei confronti

della tragedia non sia da inquadrarsi ideologicamente in un più vasto e capil-


lare progetto di propaganda contro le signorie italiane. Sulla storia e sulle isti-
tuzioni veneziane cfr. MCNEILL 1979 e LOGAN 1980.
33 Sul mito di Venezia cfr. GAETA 1981, QUELLER 1987, CROUZET-PAVAN 2002.

Inoltre cfr. BENZONI 1978: 7-77.


34 Cfr. COZZI 1987: 9-27.

232
NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

di peso politico effettivo della Serenissima a partire dal 1509, dopo la


sconfitta di Agnadello: Dolce impiega ripetutamente il topos nei pro-
loghi di Giocasta, Ifigenia, Medea e Marianna. 35
E parzialmente sovrapponibile al motivo della Laus Venetiae è quel-
lo, di ascendenza erasmiana, dell’esaltazione della pace e di Astrea
come divinità che, scacciata dalle altre città, abita ancora le piazze ve-
neziane; per contro, impietosa è sempre la rappresentazione della
guerra: 36

Nunzio
Misere, e che ci resta
Altro, che veder la città smarrita
Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?
E quella crudeltà nel sangue nostro
Usar, ch’a raccontar non fia creduta?

Bizia
Indovino ben sei di queste pene:
Perché pur hora uno de’ nostri è giunto,
Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:
Tronche le mani avea, le orecchie, e ’l naso,
E tutto rosso del suo stesso sangue,
N’avisò che i Getuli ardon per tutto
I nostri campi, e occidono qualunque
Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo
Trovan per le campagne, o ne le case.
E questo detto, dal dolor trafitto,
Cadde morto dinanzi a’ nostri piedi.
Onde già la roina di Cartago,
E ’l flagello di noi troppo è vicino [Didone, vv. 2160-2177];

6) per ciò che inerisce alla decisiva questione della rappresentazio-


ne scenica, non ho reperito alcuna documentazione in merito alla
messinscena delle prime due tragedie del Dolce (Tieste ed Hecuba), ma,

35 Cfr. Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifigenia, prologo, vv. 1-5; Medea, prologo,
vv. 58-75; Marianna, prologo I, vv. 76-93.
36 Cfr. DIONISOTTI 1963: 201-226. Inoltre, per il motivo della guerra nella tra-

gedia cinquecentesca cfr. CREMANTE 2006a e 2006b.


233
STEFANO GIAZZON

per le altre opere, disponiamo di dati abbastanza sicuri: la Didone fu


rappresentata a Venezia sotto la guida dell’attore Tiberio d’Armano e
con la collaborazione dell’illustre senatore Stefano Tiepolo nel 1546; la
Giocasta nel 1549 (vi sono testimonianze di una ripresa viterbese nel
1570); sicuramente videro il palcoscenico Ifigenia, Medea, Marianna e
Troiane, queste due ultime (nel 1565 e 1566) con l’attiva partecipazione
del celebre Antonio Molin detto Burchiella, grande comico, riciclatosi
attore tragico per l’occasione. 37 In ogni caso, ciò che risalta nelle trage-
die dolciane, anche in quelle per cui non disponiamo di documenti a
supporto dell’ipotesi della messinscena, è l’alto gradiente di teatralità,
definito da precise strategie di scrittura drammatica. 38 Segnalo il note-
vole coefficiente performativo di alcune sequenze; la significativa arti-
colazione prossemica dello spazio scenico mediante una spesso sofi-
sticata deissi (distale vs prossimale, specie in relazione alle dinamiche
emotive e, lato sensu, psicologiche, sottese); la frequente ostensione
scenica di oggetti-segni sovraesposti tematicamente (il cadavere velato
di Polidoro nella Hecuba; i resti dei cadaveri dei figli nel Tieste; la spa-
da del suicidio in Didone; le lettere di Agamennone a Clitennestra
nell’Ifigenia); la vivacizzazione delle sequenze dialogiche con sticomi-
tie e addirittura con sezioni ad antilabài; il rifiuto di infrangere la vero-
simiglianza scenica che nasce essenzialmente dal puntiglio logico e
razionalistico dell’autore, più che da esigenze rappresentative (la li-
quidazione della scena di teichoskopia nella Giocasta; l’eliminazione del
particolare della metamorfosi finale di Ifigenia, appena decollata, in
una cerva).
Da tutto ciò, e per concludere, emerge la personalità di un dram-
maturgo per nulla impreparato, capace, in qualche caso, di anticipare,
con le sue tragedie, dictio, forme e generi che si sarebbero imposti nel
secolo successivo.

37Cfr. DAMERINI 1965.


38Sulla natura complessa e stratificata del testo teatrale e sulla teatralità co-
me dato naturalmente inscritto nel testo drammatico cfr. i classici RUFFINI
1978, DE MARINIS 1982, SEGRE 1984, ELAM 1988.
234
NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE

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