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sivo sulla produzione seria del drammaturgo ferrarese cfr. LUCAS 1984. Lo
Speroni lesse pubblicamente la Canace presso l’Accademia degli Infiammati:
l’opera circolò subito manoscritta e senza la revisione definitiva dell’autore
(per questo le mancano i cori). Avrebbe visto la luce solo nel 1546, a Venezia,
rispettivamente edita da Curzio Troiano Navò e da Vincenzo Valgrisi. Sulla
tragedia speroniana cfr. ARIANI 1977, ROAF 1989, CANOVA 2002: 53-98.
3 DOLCE 1543a e 2010. Sul Thyestes senecano cfr. MANTOVANELLI 1984 e 2014,
PICONE 1984, ROSSI 1989, MONTELEONE 1991. Sul Tieste del Dolce cfr. anche
GIAZZON 2008.
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STEFANO GIAZZON
4 DOLCE 1543b e 1560a. Cfr. poi ERASMO DA ROTTERDAM 2000: il grande uma-
nista olandese pubblicò le sue versioni latine di Hecuba e Iphigenia in Aulide nel
1506 a Parigi. L’anno seguente, le ristampò presso Aldo Manuzio. Per una a-
nalisi stilistica della Hecuba dolciana, rinvio a GIAZZON 2011b.
5 DOLCE 1547 e 1996.
6 DOLCE 1549. Per alcuni aspetti di questa tragedia cfr. MONTORFANI 2006 e
GIAZZON 2011c.
7 Al di là delle concrete difficoltà di rappresentazione, qui avvertiamo
Antigone
Un ardente desio m’infiamma ogn’hora
Di veder Polinice: ond’io ti prego,
Che in una de le Torri mi conduchi
Donde si veggon le nimiche squadre:
Che pur, ch’io pasca alquanto gli occhi miei
De la vista del caro mio fratello;
S’io ne morrò dapoi, morrò contenta.
Bailo
Real figliuola la pietà, che serbi
Verso il fratello, è d’ogni lode degna.
Ma brami quel che non si può ottenere,
Per la distanza ch’è dalla cittade
Al piano, ove l’esercito è accampato. [vv. 267-278]
1793: 67).
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STEFANO GIAZZON
esempio, riprenderà, nel Pastor Fido, alcuni spunti della patetica mono-
dia lirica in settenari, recitata dalla protagonista della tragedia del Dol-
ce:
Ifigenia
Padre, mio caro padre,
(Benché dovrei tacere
Questo nome di padre,
Poiché sotto tal nome
Si comprende pietade,
E voi verso la figlia
Siete solo ripieno
D’odio e di crudeltade)
Pur, dirò caro padre:
Come trovar poss’io
Principio a mie parole?
Come potrò dolermi
De le miserie mie?
Ditelo voi per me; voi che non solo,
Padre mio, le sapete,
Ma ne siete cagione.
Io poi ch’altr’arme, altro saper non trovo
Che solo il lagrimar, piangerò tanto,
Quanto dar mi potranno umor quest’occhi. [vv. 1774-1792]
Amarilli
Mi verrà forse alcun soccorso intanto.
Padre mio, caro padre,
e tu ancor m’abbandoni?
Padre d’unica figlia,
così morir mi lasci, e non m’aiti?
Almen non mi negar gli ultimi baci.
Ferirà pur duo petti un ferro solo;
verserà pur la piaga
di tua figlia il tuo sangue.
Padre, un tempo sì dolce e caro nome
ch’invocar non soleva indarno mai,
così le nozze fai
de la tua cara figlia?
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STEFANO GIAZZON
Sposa il mattino e vittima la sera? [Il Pastor Fido, IV, 5, vv. 732-745]12
Servo
È ver ch’alcuni affermano che invece
D’Ifigenia, Diana a quello altare
Fé apparir una cerva e la fanciulla
Trasse a sé viva entro una nube oscura;
Ma creder non voglio io quel che non vidi.
Or tale è di colei che vi fu figlia
Il fine acerbo, misero e crudele. [vv. 2793-2799]
creder lento / ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, / ché io che ’l vidi, a pena il
mi consento». Sulla questione dell’autopsia in ambito storiografico cfr. MI-
GLIETTI 2010.
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STEFANO GIAZZON
verso; dall’altro, ritenere la vista l’organo di senso cui spetta, par excel-
lence, la funzione di verificare la fondatezza di un evento o di un fatto
storico, rilancia gli occhi al centro del sistema culturale, anticipando
alcune direttrici della ricerca scientifica e storiografica seicentesca. 17
Questa notazione, che è uno degli apici razionalistici della tragedia
del Dolce, è anche uno dei punti di massima tensione con i modelli: il
meraviglioso, che produceva un consolatorio lieto fine nella fabula al-
lestita da Euripide ed Erasmo, non ha alcuno spazio in questa Ifigenia,
in cui, anzi, il prodigio della sostituzione della figlia di Agamennone
con una cerva viene polemicamente interpretato come mera invenzio-
ne favolosa, senza alcun fondamento effettuale.
Dopo un silenzio di qualche anno, vede la luce nel 1557 la Medea, 18
che nasce ancora programmaticamente da una contaminatio di Euripi-
de e Seneca.
La tragedia si colloca in un momento storicamente delicato per
Venezia, funestata dal 1555 da una terribile epidemia di peste: in que-
sta prospettiva, il personaggio di Medea può essere concepito come
un duplicato di Edipo, pharmakos che va eliminato per ripristinare una
temporanea e, giocoforza, illusoria harmonia mundi.
E come la peste, a un certo punto, Medea sparisce. La stessa lunga
descrizione della morte di Creusa e del padre Creonte sembra potersi
ricondurre più alla sintomatologia medica della peste, che a ragioni
artistiche o drammatiche.
E quale che sia il valore della Medea, importa il fatto che, in essa, la
scelta di fare spettacolo delle scelleratezze della maga colchica, recu-
perando anche alcune coordinate espressive estreme del teatro sene-
cano, si spieghi come riuso del mito in funzione delle pressioni di un
17 Nel Dialogo della Pittura, intitolato l’Aretino (1557), una delle sue opere più
notevoli, Lodovico Dolce scriveva, con una sensibilità empiristica molto spic-
cata, che mentre l’intelletto può sbagliare, l’occhio difficilmente si inganna: da
ciò deriva il fatto che tutti possono stabilire se un quadro è bello o brutto. Per-
tanto nessuno è autorizzato a revocare in dubbio che Ifigenia sia realmente
morta, dal momento che a garanzia del fatto ci sono gli occhi del Servo che ha
sì distolto lo sguardo nel momento della decapitazione, ma che ha anche visto
poi il capo insanguinato della fanciulla spiccato dal busto.
18 DOLCE 1557.
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE
Balio
Grande è l’amor de’ figli, ma l’avanza
Di gran lunga il desio caldo et ardente
Di vederci in istato alteri et grandi;
E molti son ch’hanno i figliuoli uccisi
Per cagion di regnar senza sospetto.
Che se bene i Signor le leggi fanno,
Non vogliono però lor sottoporsi
Tanto, che quando l’utile gl’invita,
Non possano dispor come lor piace.
Né m’affaticherò d’addurti esempi,
Che ve ne son fra quanto vede il sole. [vv. 208-218]
Parole che paiono rinviare alla questione, molto rilevante nella rifles-
sione giuridica del Cinquecento, delle prerogative giurisdizionali del
princeps e del rapporto fra il potere e la legge, 19 con cui Dolce, forzan-
do il testo euripideo, immette nel tessuto della tragedia alcune rifles-
sioni e allusioni politiche riferibili ai tempi suoi.
Poco dopo, inoltre, lo stesso Balio ribadisce la legge generale di e-
goismo utilitaristico – peraltro da lui eticamente respinto, quantunque
politicamente accolto – che ha condizionato le scelte politiche di Gia-
sone, facendo prevalere sull’amore per i figli quello per il potere, nuo-
Balio
È cosa naturale amar se stesso
Più che null’altro; e la corrotta usanza
Fa che comunemente è posto inanzi
Fra la più parte l’utile a l’onesto.
Non credo ch’abbia in odio i suoi figliuoli
Giason, ma cred’io ben che di Corinto
Ami più la corona che i figliuoli. [vv. 254-260]
20 Cfr. DOLCE 1560b. Sul ruolo e la funzione del teatro senecano nel Cinque-
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STEFANO GIAZZON
Intermedio I
24 Gli intermedii, che erano abitualmente collocati fra un atto e l’altro della
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE
della pittura (1557), uno dei più solerti e significativi critici della categoria di
maniera e un accanito difensore delle ragioni del classicismo figurativo, con
Raffaello e Tiziano come artisti di riferimento, di contro a Michelangelo, deci-
samente e polemicamente ridimensionato rispetto all’imprescindibilità a lui
riconosciuta nel recente canone allestito da Giorgio Vasari nelle Vite. Con ciò
intendo non già revocare in dubbio l’autenticità del processo di aggiornamen-
to delle coordinate teoriche del Dolce, che sarebbe manierista (quantunque,
forse, malgré lui), per esempio, nel poema Sacripante, e acerrimo antimanierista
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STEFANO GIAZZON
nel più tardo Dialogo della pittura del 1557, quanto rimarcare un dato piuttosto
sintomatico della cultura cinquecentesca: negli anni Trenta, le riflessioni poeti-
che ed estetiche reperite nei testi delle auctoritates classiche (Orazio e Aristotele
su tutti, ma anche Cicerone e Quintiliano), contro le quali nessuno (o pochi)
ebbero la forza di reagire criticamente in sede teorica, non si erano ancora or-
ganicamente strutturate in paradigma normativo e cogente e lasciavano, per-
tanto, un ampio margine di libertà operativa agli artisti e ai letterati. E, d’altra
parte, quanto è stato autorevolmente detto a proposito di un testo esemplare
della pittura del primo Manierismo, quale il celebre Giuseppe in Egitto (1517
ca.) del Pontormo, uno dei più originali esponenti di questa fase di transizione
della ricerca figurativa italiana, si può comodamente applicare al modus ope-
randi esibito dal Dolce nel suo Sacripante: cfr. PINELLI 1981. Sul Manierismo (fi-
gurativo e letterario) la bibliografia è immensa. Si vedano, almeno: PANOFSKY
2006: 43-61, SCRIVANO 1959; BATTISTI 1962, HAUSER 1965, BRIGANTI 1965, HOCKE
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334, RAIMONDI 1994: 219-251, PINELLI 2003, BARILLI 2004, BALDINOTTI 2012. Non
mi sembrano aggiungere molto MINISSI 2003 (del quale andrà senz’altro riget-
tata l’identificazione, francamente eccessiva, fra concettismo e Manierismo
tout-court e la denominazione di «Barocco triviale» con cui questo viene, in
sostanza, liquidato) e GUARDIANI 2004.
29 Per la perspicuitas cfr. LAUSBERG 1969 Elementi di retorica, Bologna, Il Muli-
che non possiede testi veramente forti e di una pluralità di pratiche che non
riesce a costituirsi come grammatica. Per la questione cfr. JAVITCH 1998. Sulla
gravitas nella poesia rinascimentale cfr. AFRIBO 2001.
31 Sul ruolo di Petrarca e Dante cfr. GIAZZON 2014b e 2011e.
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NOTE SUL TEATRO TRAGICO DI LODOVICO DOLCE
Nunzio
Misere, e che ci resta
Altro, che veder la città smarrita
Prender, e sacheggiar dal fero Iarba?
E quella crudeltà nel sangue nostro
Usar, ch’a raccontar non fia creduta?
Bizia
Indovino ben sei di queste pene:
Perché pur hora uno de’ nostri è giunto,
Spettacol brutto, e a rimirar pietoso:
Tronche le mani avea, le orecchie, e ’l naso,
E tutto rosso del suo stesso sangue,
N’avisò che i Getuli ardon per tutto
I nostri campi, e occidono qualunque
Huomo, donna, fanciullo, o vecchio infermo
Trovan per le campagne, o ne le case.
E questo detto, dal dolor trafitto,
Cadde morto dinanzi a’ nostri piedi.
Onde già la roina di Cartago,
E ’l flagello di noi troppo è vicino [Didone, vv. 2160-2177];
35 Cfr. Giocasta, prologo, vv. 35-40; Ifigenia, prologo, vv. 1-5; Medea, prologo,
vv. 58-75; Marianna, prologo I, vv. 76-93.
36 Cfr. DIONISOTTI 1963: 201-226. Inoltre, per il motivo della guerra nella tra-
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Senecae Tragoediae, Firenze, Filippo Giunta, 1506 [a cura di Benedetto Ric-
cardini; con ristampa 1513]
SENECA 1514
L. Annei Senece Tragoediae pristinae integritati restitutae: per exactissimi iudicii
viros post Avantium et Philologum. D. Erasmum Roterodamum, Gerardum Ver-
cellanum, Aegidium Maserium, cum metrorum presertim tragicorum ratione ad
calcem operis posita. Explanate diligentissime tribus commentariis. G. Bernardino
Marmita Parmensi, Daniele Gaietano Cremonensi, Iodoco Badio Ascensio, Parigi,
Josse Bade Ascensius, 1514
SENECA 1517
S(c)enecae Tragoediae, Venezia, Aldo Manuzio, 1517 [a cura di Girolamo
Avanzi]
SENECA 1547
L. Annei Senecae Cordubensis Tragoediae, Lione, Sebastien Gryphius, 1547
SHEARMAN 1983
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