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SAVINIO LIBRETTISTA.

ORFEO VEDOVO
Paola Italia

Savinio nasce in scena e muore in scena, a teatro. Aveva iniziato


nel 1914, alle Soirées de Paris, con un’opera musicale e musicata (il
libretto era scritto in collaborazione con Calvocoressi), Les chants de
la mi mort, e viene colto da infarto nel 1952, a Firenze, mentre con de
Chirico stava allestendo le scenograie dell’Armida di Rossini per il
Maggio Musicale. Sulla scena era nata quella passione per l’arte che
gli poteva far dichiarare, deliziosamente disarmante: «io sono una
centrale creativa» e dopo essere stato musicista e scrittore, pittore e
scenografo, drammaturgo e sceneggiatore, torna sulla scena nell’ul-
timo triennio creativo, dal 1950 al 1952, con tre opere per il teatro
molto diverse tra loro: nel 1950 l’atto unico Orfeo vedovo, e nel 1951
i radiodrammi Agenzia Fix e Cristoforo Colombo, di cui scrive, come
sempre, musica e testi.
Ho scelto di parlare di Orfeo vedovo, perché dei tre è il testo inora
meno studiato, dopo gli studi di Mila de Santis sui radiodrammi,
presentati al convegno iorentino del 1996. Concepito all’interno
degli Spettacoli dell’Aniparnaso, associazione culturale istituita
subito dopo la guerra, Orfeo vedovo è un’opera scritta, musicata, sce-
neggiata interamente dall’autore. Ultimata il 28 luglio 1950, viene
presentata da Savinio sul «Corriere d’Informazione» il 14-15 otto-
bre 1950, in un articolo in cui dichiara di avere composto parole e
musica in meno di due mesi, ma di ritenerla anche l’opera in cui più
che altrove si era manifestata la sua anima. Poco inclini a vederne il
lato tragico, i primi recensori si soffermano invece tutti sullo spirito
burlesque, come Maria Bonisconti, responsabile del programma di
sala e individuata da Savinio per stendere una recensione allo spet-
tacolo da pubblicare su «Sipario», recensione in cui, suo malgrado,
inisce per stroncare il testo e tacciare l’autore di «astuzia levantina»
e «derivazione da Cocteau»: «Nell’Orfeo vedovo, opera in un atto,
Savinio ha fatto tutto da sé […] mettendo tutti quei mezzi artistici
che egli ha a disposizione a servizio d’uno spettacolo ‘completo’ del
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nostro tempo. Ma senza pretese, anzi con aria distratta e scanzona-


ta. [...] Così la tradizione non può che essere capovolta al grottesco.
E la musica, o il parlato in musica, può sottolinearla col sapore di
vecchia canzonetta o d’apparato di cartone, per eludere saggiamen-
te, e modernamente, il pericolo d’esser presa sul serio» (immediata
e insolitamente piccata la reazione di Savinio, che commenta: «Vuol
dire che se avrò ancora da suggerire una resocontista degli spet-
tacoli dell’Aniparnaso, baderò che non sia né una sciocca, né una
pettegola, né una screanzata», Tinterri 1993, p. 190).
La scelta di Orfeo sembra obbligata per chi, come Savinio, met-
te al centro della propria arte la reinterpretazione del mito, nella
convinzione che quella consegnata alle forme isse della storia sia
l’unica forma d’arte possibile. Una scelta che marca l’esordio mu-
sicale di Savinio a Parigi (dove nel 1913 scrive le musiche per un
“ballet en 3 actes et 5 tableaux” di un Perseo con soggetto di M. Fo-
kine) e passa attraverso una molteplicità di riletture, dall’Orfeo di
Poliziano a quello di Monteverdi, dall’Orfeo ed Euridice di Calzabigi-
Gluck a quello di Bertoni, dall’Orpheus di Stravinskij a L’Orfeide di
Malipiero, da Orphée aux enfers di Offenbach alla Nascita di Orfeo di
Lorenzo Ferrero all’Orphée di Jean Cocteau, che chiude la serie degli
allestimenti più signiicativi di questo mitologema poetico.
Ma l’Orfeo di Savinio è «colui che porta agli uomini luce e veri-
tà» e infatti non è morto, ma continuamente si rinnova: «Gli Orfei
sono tanti» ed è anche «l’uomo superiore. L’uomo completo: il po-
eta. […] Orphée c’est moi. E Orfeo non può ingere, non può velar-
si. La sua parola, formulata come parola, ma ampliata e prolungata
nel canto, è direttamente collegata alla radice che in profondo l’ha
generata. Troppo “pesante di profondità” dunque da tollerare veli»
(Nuova Enciclopedia, Adelphi, Milano 1977, p. 284).
L’originalità di Savinio nel trattamento della materia mitologica
è garantita da due percorsi simmetrici: l’antifrasi, ottenuta mediante
l’abbassamento del mito alla quotidianità, e lo straniamento, dato
dall’epicizzazione del reale, che non perde tuttavia la sua dimensio-
ne reale e domestica. Procedimenti presenti in tutta la sua produ-
zione narrativa, ma particolarmente evidenti in quella teatrale, sin
dalla prima prova per il Teatro dell’Arte di Pirandello, Capitan Ulisse,
eroe detronizzato e demistiicato.
A questi elementi tematici si deve aggiungere il rapporto di Savi-
nio con la musica. Con i libretti di Orfeo vedovo, Cristoforo Colombo e
Agenzia Fix, Savinio torna a un’arte abbandonata perché considerata
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pericolosa e può farlo solo neutralizzandone le armi, spuntandole con


l’ironia, ma evitando accuratamente la strada della dissacrazione, del
facile umorismo, perché, come vedremo, il procedimento antifrastico
segue una precisa linea stilistica e non esclude la climax inale.
La sostanza dell’opera è spiegata direttamente nell’autocommen-
to pubblicato da Savinio sul «Corriere d’Informazione» nell’otto-
bre 1950, poco prima della trasmissione radiofonica: «Orfeo, uomo
completo, “tutto poeta”, viene a trovarsi implicato suo malgrado nel
vario sciocchismo degli uomini, della vita». La sua condizione di
vedovo, però, non è riferita a Euridice: «Vedovo Orfeo non è di mo-
glie [...] Vedovo è Orfeo, vedovo momentaneo, della Poesia. Ed è in
quanto momentaneo vedovo della Poesia, e dunque momentanea-
mente minorato, che Orfeo cade momentaneamente nello sciocchi-
smo degli uomini e della vita» (SD 1442).
Come altre prose di Savinio, anche la scrittura di Orfeo vedovo
passa attraverso molteplici stadi. Alla semplicità Savinio giunge
attraverso l’arte del levare, dello scomporre e ricomporre elementi
complessi. Dopo avere costruito la scena con situazione e personag-
gi – Orfeo, aflitto dal dolore della perdita di Euridice, accetta la sua
ricostituzione ad opera di una fantomatica Agenzia: IRD (Istituto Ri-
costituzione Defunti), per riavere la donna amata –, Savinio la ribalta
con un abile colpo di teatro – Euridice ritorna in vita ma non rico-
nosce Orfeo, non lo vede –, e introduce un terzo personaggio a cui
afida la risoluzione dell’impasse: Maurizio il dattilografo, che Orfeo
scopre avere avuto una relazione con la moglie. Ne consegue il mi-
gliore allestimento saviniano del triangolo borghese, giocato con i
toni grotteschi del teatrino di pupi: Euridice si muove e atteggia come
una bambola di pezza, agita meccanicamente: «La noia mi si mangia
pezzo a pezzo […] tocca giocar come una bambola». Finché, come
rispondendo a un richiamo esterno (è agita, e non agisce), assiste alla
materializzazione di Maurizio. Il ritorno di Euridice, quindi, viene
vissuto con il ribaltamento dei rapporti tra i personaggi, e ridotto alla
sua demistiicazione borghese. I miti scendono dal piedistallo, gli dèi
camminano fra noi (nel Signor Dido si trova persino un Orfeo denti-
sta...), ma per mostrare il loro volto umano, la loro veste in pantofole,
è necessario saperli ascoltare.
Nella prima redazione Orfeo, di fronte al disvelamento del trian-
golo amoroso, prendeva la rivoltella e sparava ai due amanti, ma
visto che non otteneva alcun risultato («Il tempo della sua rivoltella
non coincide col tempo nel quale è stata ricostituita la Signora», gli
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spiega l’Agente [AS Lib 22, c. 5]) la puntava contro se stesso uc-
cidendosi. Preso a pietà, l’Agente lo rianimava, riportandolo nella
stessa posizione di attesa e lutto in cui lo avevamo trovato, in me-
lanconica contemplazione del vuoto intorno a sé: «Le stelle là, nel
cielo; la gente qui sotto, in istrada; questa casa al suo posto; questo
tavolino; lo stesso cestino della carta straccia... e tu... tu...» E dopo
aver veduto l’Agente gli si rivolgeva mestamente: «Che vuole lei? Io
non le devo più niente. Ho pagato tutto. Fino all’ultimo centesimo.
| Ho sbagliato. Scusi tanto». Tanto da muoverlo a pietà e lasciarlo in
lacrime, disperatamente solo. Così era anche la chiusa della seconda
redazione, mentre un appunto volante (steso su una lettera di Ei-
naudi del 19 luglio 1950) introduceva il tema dell’amore di Euridice,
amore che non divide e che può darsi indifferentemente all’uno o
all’altro oggetto («Che vuole che sia? Vede lui: bacia lui. Se vedesse
lei, bacerebbe lei»).
È solo con la terza redazione integrale (un dattiloscritto molto
elaborato con numerosi cartigli incollati su redazioni precedenti e
puntuali indicazioni dell’alternanza recitato/cantato e parlato in
musica) che il testo sviluppa il tema del completamento amoroso e
scioglie la rappresentazione borghese (ferma alla dinamica di de-
mistiicazione, ribaltamento dei luoghi comuni, straniamento delle
forme, una tematica non molto diversa da quelle rappresentate nei
racconti borghesi: Giulietta o delle cattive letture, Poltromamma, Pol-
trondamore, ecc.) in una altissima celebrazione della Poesia.
Con Orfeo infatti, Savinio non può comportarsi come con gli altri
dèi. Orfeo è diverso, non è un semplice mito rappresentato in pan-
tofole, ma quel mito, quell’idea di poesia che, per Savinio, è la forma
spettrale in cui la Natura vela all’uomo le sue verità terribili, inguar-
dabili (alla ine, l’agente, chiuso il sipario su Orfeo in atto di uccidersi
per la seconda volta, ne ritrae lo sguardo “spaventato → sconvolto”).
In uno scritto del 1948 Savinio aveva già teorizzato la sovrap-
posizione tra Orfeo e l’artista e la traslazione amorosa dal genere
femminile tout court al proprio ego, condizione necessaria perché
l’artista esistesse nella sua necessaria solitudine («Orfeo non di-
sprezzava le donne: le amava. Le amava in Euridice. Che è la forma
mistica dell’amore. Ma in fondo, in fondo in fondo, anche Euridice
Orfeo l’amava “trasversalmente”, e attraverso Euridice egli amava
se stesso; per meglio dire amava Euridice in se stesso. Perché Orfeo
era artista. Era l’artista. E l’artista è l’uomo solo per eccellenza. Come
dice anche il suo nome che deriva dal greco orfanòs e dal latino or-
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bus: Solitario»), ma è nel Discorso introduttivo alla trasmissione ra-


diofonica di Orfeo vedovo del 9 novembre 1950 (pubblicato in CdI il
14-15 ottobre 1950) che questa identiicazione è individuata come la
chiave di lettura di tutta l’opera:

La parola del poeta, è propriamente la voce della sua anima. Poche


volte questa voce grezza, questa voce-madre parla direttamente.
Quasi sempre essa parla attraverso un iltro […] La mia voce, i-
nora, ha quasi sempre parlato attraverso il iltro del pudore, la voce
dell’anima si vela d’ironia. Chi l’ascolta e vuol capirla, deve guar-
dare dietro il velo. Pochi sanno guardare dietro il velo. Pochi sanno
che, in certi casi, bisogna guardare dietro il velo. E stanno, davanti
alle cose mie, sordi, ciechi. Mai la voce della mia anima aveva par-
lato così direttamente come in Orfeo vedovo. Preciso: non in tutto
il corso di questa operina: nel solo monologo di Orfeo: soltanto lì.

Seguiamo questo percorso dalla demistiicazione alla ricreazione


del mito, attraverso il libretto, stilisticamente. La dissacrazione dei
personaggi viene realizzata attraverso un calco parodistico del lin-
guaggio operistico, con abbassamenti lessicali incastonati in distici
regolari: «Se non la smette subito, | a pedate fuor la butterò!», op-
pure, all’ingresso della macchina di rigenerazione, «Piano ragazzi!
| Oggetto fragilissimo. | Se vi casca è un guaio serio, non ci sono
pezzi di ricambio», che ricalca smaccatamente i superlativi canonici
di un Don Giovanni «o statua nobilissima» o le locuzioni proverbiali
delle Nozze «il fatto è serio», oppure ancora parodiando le consuete
uscite tronche, come già nella inarrivabile parodia gaddiana («Rac-
contò del suo crin e ci fornì elementi circostanziati sulle principali
peripezie del suo sen; non trascurò l’alma; illustrò le forme più ti-
piche del verbo gire, coniugandolo al participio, all’imperfetto, al
passato remoto e al trapassato imperfetto; propose alcuni esempi
di quella parte del discorso detta dai grammatici interiezione, sce-
gliendoli con gusto e opportunità fra i più rari della nostra lettera-
tura, quali “orsù” e “ahi! Lassa”», Teatro, La Madonna dei Filosoi, in
Romanzi e Racconti, Garzanti, Milano 1988, p. 12), ma qui risolte con
genuini e originali versi tronchi tratti dal più collaudato repertorio
dello stile borghese: «Sei già pronto per uscire?», chiede Euridice a
Maurizio, ma Orfeo, che non lo vede, pensa che si riferisca a lui... e
controbatte: «Pronto per uscir?... | In completo gabardin... | Comple-
to gabardin? | E senza golf | Senza golf?...»; oppure nuovamente con
calchi di repertorio: «Però non ti idar», consiglia sollecita Euridice,
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«Aprile è traditor», dove si sente l’eco dell’Aida: «È traditor! Morrà!»,


ino a esiti di fusione di grottesco e patetico, come quando Euridice
sollecita a Maurizio di prendere «l’ombrel», lo porge all’incredulo
Orfeo, e l’ombrello – come da note di scena – “rimane sospeso in
aria: diritto […] traversa da solo l’uscio e se ne va”. E, con effetto
contrastivo, a un massimo di abbassamento «Ciao! Ciao! Saluta Eu-
ridice – Ciao?... Ciao?...», corrisponde un massimo di innalzamento
del dettato. Orfeo infatti, trasecolato, “si butta in ginocchio ai piedi
di lei in Atteggiamento da melodramma” accennando a un curioso
innesto delle parole di Zerlina sulla celebre aria di Gluck: «Euridice
perduta, | ritrovata e ancor perduta!».
È signiicativo che a questa doppia aria si contrapponga l’ecolalia
bamboccesca di Euridice che “Ignara della presenza di Orfeo [...],
girella per la stanza canticchiando”: la la la la la la.... in un curioso
balletto dove Orfeo “si butta in ginocchio”, si rialza, “non appena
Euridice si ferma le si butta in ginocchio davanti” e mentre ricomin-
cia a girellare “la segue ginocchioni”...
Solo quando ha le prove del fatto che la relazione tra i due non si
è ancora consumata, Orfeo risolleva lo stile:
Ma allora... se è così... Ah, Euridice!
Torna a me, Euridice,
Dissipiamo questa nube,
ritroviam la nostra luce.

E mentre il Dio continua nel registro alto e lirico, gli altri due per-
sonaggi sviluppano il registro basso, da opera buffa, ma condito
dell’inconfondibile nonsense saviniano: «ami me o ami lui?». «Non
lo so | Amo te, amo, lui? | Separar non vi so. | Amore unisce non se-
para». L’apodittica affermazione viene inizialmente recepita nel suo
effetto straniante e dirompente: «Concetti strani! | Suggeriti chi li
avrà?» chiede Orfeo, e Maurizio: «Parole di poeti ! Parole di Orfeo».
Poco vale la demistiicazione opposta da Orfeo: «Mie?... Ne ho dette
tante!», nel rapido giro di due battute si consuma la tragedia.
L’amore unisce solo nella inzione scenica. L’aria di Euridice:
«Amor non fraziona amore. | Bene non frammenta bene.| Questo è
vero amor, | che incontra sol se stesso» è subito smentita dai fatti. Al
bacio tra lei e Maurizio parte il colpo di pistola di Orfeo. Ma, come
in un gioco di scatole cinesi, realtà e inzione si scambiano le par-
ti: Euridice e Maurizio sono pure ombre, e pur colpiti “continuano,
abbracciati, a cantare”, Orfeo ha combinato un bel guaio, come gli
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rimprovera l’Agente, anche perché le pallottole non avrebbero po-


tuto colpire gli amanti “ricostituiti”, perché inoffensive nel «diverso
presente nel quale la Signora, e questo giovane Maurizio, suo datti-
lografo, sono stati ricostituiti». Ma Orfeo, poco convinto, crede che
l’armaiuolo gli abbia venduto una pistola scarica e, provandola su se
stesso, si uccide davvero. Pronta, la macchina lo ricostituisce nella
postura di partenza: vedovo, stanco, annichilito dalla malinconia:

Se la vita eri tu,


solo tu, come può esser viva ancora la vita?

Non è che un’anticipazione di quanto sta per accadere, e che ribalte-


rà tutte le prospettive iniziali. L’Agente chiude infatti l’apparecchio
insoddisfatto. Orfeo così ricostituito non gli piace: «troppo depres-
so». Decide di aggiustare la macchina per ricostituirlo in una di-
mensione eroica, cioè «quando si determina a raggiungere Euridice
di là della vita e si fa un animo da soldato». E qui Savinio alza il tiro
per il colpo di coda. Orfeo si rimette in azione, ma questa volta in
modalità eroica. Noi spettatori non gli crediamo, immaginiamo sia
un pupazzo a servizio del meccanicismo teatrale, pensiamo all’en-
nesima demistiicazione saviniana, all’antifrasi stilistica, alla con-
troepica. Ascoltiamo l’aria, l’ultima, come se contenesse la summa
di un teatro che non può più darsi nelle forme dell’opera ottocen-
tesca, dove la librettistica è la lingua della inzione, della parodia.
Riascoltiamola, quest’ultima aria:

Non mollare!
Guai!
Per venir ino a te,
mi cingo d’amore.
Vesto l’arme che sola
vincer può morte.
O mio cor, non parlar!
Duro il passo avrò.
E marcerò l’oscura via.
Aprirò le porte
della morte,
cuor d’acciaio.
Euridice, io parto.
Il mio viaggio inizio.
Orfeo viene a te.
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L’agente si ferma, lo guarda “con simpatia, con commozione, con


‘partecipazione’”. È a lui che tocca il gran inale. Orfeo è fermo, con
la pistola immobile puntata alla tempia. L’unico gesto possibile sarà
un secondo suicidio, per raggiungere inalmente Euridice da eroe.
L’Agente si rivolge al pubblico, gli chiude il sipario (il teatro grande
non permette di morire in scena), vela lo sguardo come di fronte a
una sacra rappresentazione. Improvvisamente lo spettatore capisce
che quell’aria non era una parodia, che Orfeo non recitava la parti-
cina della vedova inconsolabile, ma era una marcia militare, recitata
solennemente, con “animo di soldato”. Manca solo un tassello al
disvelamento inale. Ci pensa l’Agente, vero deus ex machina sulla
scena:

Signori, prego scusare. Mi tocca chiudere il sipario. Discrezione ci


vuole. Costui è più che un marito che sta per raggiungere la moglie:
è il poeta che sta per raggiungere la poesia.

La chiave è svelata. Bisognerebbe rileggere tutto daccapo. Con Sa-


vinio è sempre così, una lettura non basta. Non ora, non ne avrem-
mo il tempo. Ora ci basta ascoltare la chiusa dell’Agente, che, rotta
la quarta parete, quella tra il pubblico e la scena, memore di Pi-
randello e del Teatro dell’arte, si rivolge direttamente al Direttore
d’orchestra:

Maestro, solennità.

Seguiamolo ora nell’uscita di scena, nel gran doppio inale di una


scena nella scena:

L’Agente chiude il sipario e rimane quanto a sé ritto alla ribalta


sull’attenti. L’Orchestra attacca il inale. L’Agente caccia la testa tra
il sipario: la ritrae sconvolto. Ma si ricompone, e, a passo lento, so-
lenne, traversa la scena, scompare dietro l’arco scenico.

Nota bibliograica
Mila De Santis ha studiato Cristoforo Colombo e Agenzia Fix in Le Muse di Alberto
Savinio, «Antologia Vieusseux», VI (2000), n. 16-17, pp. 135-152, mentre per un
quadro generale su Savinio librettista, cfr. A. Tinterri, Savinio e lo spettacolo, il Mu-
lino, Bologna 1993, pp. 181-190 (qui abbreviato in Tinterri 1993).
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Orfeo vedovo viene pubblicato nel 1950 insieme a Morte dell’aria di Toti Scialoja e
Il tenore sconitto, farsa musicale di Vitaliano Brancati, nell’edizione “Gli spettacoli
dell’Aniparnaso”, 1950. Nel 1995 al Festival dell’Opera de Butxaca di Barcellona
viene allestito con la regia di Claudio Cinelli (programma di sala di Luca Valenti-
no). Nel novembre 1999 viene rappresentato all’interno dello spettacolo Orfeo, il
mito, la musica, a cura di S. Leoni, presso il Conservatorio Vivaldi di Alessandria.
Alcuni materiali relativi a Orfeo si trovano nel Fondo Savinio dell’Archivio Con-
temporaneo A. Bonsanti del Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze nelle scatole 26
(Scatola sonora, Parlo di Orfeo vedovo) e 39 (l’articolo del «Corriere d’Informazio-
ne», poi in Scritti dispersi, a cura di Paola Italia, Adelphi, Milano 2006, pp. 1442-43,
qui SD). Nella sezione musicale (AS Lib 21, 22, 23, 24, 25, 26) sono conservati in-
vece gli abbozzi e quattro stesure del libretto. Sempre nel Fondo Savinio si trova la
registrazione radio dell’allestimento del 22 luglio 1985, diretta da Pietro Argento,
con l’Orchestra Sinfonica della RAI di Milano.

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